Dottrina
Rapporto di lavoro
Requisiti
Il lavoro come fondamento
della Repubblica
democratica italiana
di Carlo Cerutti - Avvocato in Roma
Il presente studio ha per oggetto il lavoro come fondamento della Repubblica democratica italiana - e, in particolare, gli artt. 1, comma 1, e 4 Cost. - ed è suddiviso in due parti, dedicate, rispettivamente, al principio lavoristico e al diritto-dovere di lavorare. La trattazione di tali istituti inizia dalla ricostruzione di una loro definizione legislativa e segue con l’esame delle loro interpretazioni da parte dei Padri Costituenti, della giurisprudenza e della dottrina.
Principio lavoristico (*)
Interpretazione dell’espressione “fondata
sul lavoro” di cui all’art. 1, comma 1, Cost.
Che cos’è il principio lavoristico?
Nelle discussioni in Assemblea Costituente che portarono alla redazione dell’espressione “fondata sul
lavoro” di cui all’art. 1, comma 1, Cost. fu affrontata principalmente la questione se adottare la formula «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori», proposta dall’on. Togliatti, o la formula «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», proposta dall’on. Fanfani (5). In sostanza, la
questione verteva sulla scelta tra le possibili formulazioni di un concetto di lavoro pacificamente considerato in senso amplissimo, per la divergenza di
opinioni tra i Padri Costituenti sul grado di chiarezza e di efficacia delle stesse.
Ma quali sono le motivazioni delle diverse posizioni
assunte da Togliatti e da Fanfani?
Togliatti, nell’illustrare la sua proposta, addusse ragioni di «coerenza con gli articoli approvati in tema
di lavoro» e si rese disponibile ad ampliare la formu-
Il principio lavoristico è il principio secondo il quale
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro» (il valore del lavoro) (art. 1, comma 1, Cost.);
principio, il cui nucleo essenziale presuppone i principi repubblicano e (liberal-)democratico (a cui accenneremo prima) e consiste nell’espressione “fondata sul lavoro” (che tratteremo poi).
Il principio repubblicano - «portato necessario» del referendum del 2 giugno 1946 (1) - è il principio secondo il quale «L’Italia è una Repubblica […]» (art.
1, comma 1, Cost.); dove, la Repubblica è la forma di
governo (l’insieme dei rapporti intercorrenti tra i governanti) caratterizzata dalla rappresentatività (l’elettività e la temporaneità) del Presidente della Repubblica (2).
Il principio (liberal-)democratico - «nucleo immodificabile» della nostra Costituzione (3) (ex artt. 1 e
139 Cost.) - è il principio secondo il quale «L’Italia
è una Repubblica democratica […]» e «La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione» (art. 1 Cost.); dove, la
Repubblica (liberal-)democratica è la forma di Stato
(l’insieme dei rapporti intercorrenti tra governanti e
governati) caratterizzata dal governo dello Stato da
parte del popolo (il principio democratico) e da un’efficiente limitazione dell’autorità governativa per
mezzo di una costituzione scritta e rigida (il principio
liberale) (4).
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
Note:
(*) N.d.R.: Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) Cfr. Paladin L., Diritto costituzionale, Padova, 1998, 260.
(2) Cfr. Modugno F., (a cura di), Lineamenti di diritto pubblico, Torino, 2008, 107.
(3) Cfr. Paladin L., op. cit.
(4) Cfr. Modugno F., (a cura di), op. cit., 107-108.
(5) Cfr. Falzone F., Palermo F., Cosentino F., (a cura di), La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 1991, 25-27.
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Rapporto di lavoro
la da lui proposta in «lavoratori del braccio e della
mente» (6).
Diversamente, Fanfani, nell’illustrare la sua proposta, escluse che il concetto di lavoro potesse limitarsi, non solo alla sfera materiale, ma anche all’idea di fatica, identificandolo - invece - con il diritto-dovere di ogni uomo «di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali», e
«di contribuire al bene della comunità nazionale»,
e affermò che la dizione “di lavoratori” poteva apparire classista.
L’on. Fanfani, infatti, disse: «Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa
fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla
fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul
dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di
essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica
muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del
dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno
può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la
massima espansione di questa comunità popolare
potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà
realizzato, nella pienezza del suo essere il massimo
contributo alla prosperità comune. L’espressione
“fondata sul lavoro” segna quindi l’impegno, il tema
di tutta la nostra Costituzione»; ed aggiunse che la
dizione proposta dall’on. Togliatti, «per precedenti
storici, per formulazioni teoriche», poteva apparire
classista (7).
Secondo la giurisprudenza, il principio lavoristico è
un principio supremo (8); dove i principi supremi sono i principi «che non possono essere sovvertiti o
modificati nel loro contenuto essenziale neppure da
leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali» (9).
Secondo la dottrina, l’espressione “fondata sul lavoro” di cui all’art. 1, comma 1, Cost. significa, letteralmente, «fondata sull’impegno» (Fanfani) (10) e,
sistematicamente (ex artt. 1-4 e 35 ss. Cost.), «fondata, da una parte, sul pieno sviluppo della persona
umana e sull’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, dall’altra, sul progresso materiale o
spirituale della società» (11); sicché, il concetto di
lavoro sintetizza i principi (per la cui definizione si
rinvia infra) personalistico, pluralistico, solidaristico (12), di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale e si incentra sul principio supremo della libertà-dignità («il valore politico fondamentale è
rappresentato dall’eminente dignità di ogni persona
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umana e […], solo per potenziare le molteplici possibilità insite nella medesima e per agevolarne la
fattiva operosità in seno alla società, è stata istituita e potenziata l’organizzazione statale»; «di conseguenza, […] il meccanismo organizzativo statale si
de[ve] basare essenzialmente sulla formula dell’autogoverno: tendendo, quindi, a […] “l’identificazione, più perfetta possibile, fra governanti e governati”») (13) (la portata valoriale del principio lavoristico)
(14) (15).
Peraltro, il termine “lavoratori” di cui al richiamato
art. 3, comma 2, Cost. significa:
Note:
(6) Cfr. Assemblea Costituente. Commissione per la Costituzione. Prima sottocommissione. 42. Resoconto sommario della seduta di giovedì 28 novembre 1946, 427.
(7) Cfr. Assemblea Costituente. LXXII. Seduta pomeridiana di sabato 22 marzo 1947, 2369-2370.
(8) Cfr. Corte cost. 17 aprile 1985, n. 105.
(9) Cfr. Corte cost. 29 dicembre 1988, n. 1146.
(10) Cfr. Assemblea Costituente. LXXII. Seduta pomeridiana di
sabato 22 marzo 1947, 2369.
(11) Cfr. Miscione M., Il diritto del lavoro, un diritto universale
(“… fondata sul lavoro”), in questa Rivista, 1999, 815 e 817, ove
si legge: «[…] il lavoro è a fondamento di tutto, comunque svolto, con qualsiasi tipo, subordinato o autonomo, privato o pubblico, perfino imprenditoriale».
(12) Cfr. Branca G., (a cura di), Principi fondamentali. Art. 1-12,
Bologna-Roma, 1975, 11-12.
(13) V. Biscaretti di Ruffìa P., Introduzione al diritto costituzionale
comparato, Milano, 1988, 64-65.
(14) Cfr. Miscione M., op. cit., 817 e 820, ove si legge: «[…] la
materia [giuslavoristica] è basata su valori, non solo su princìpi.
Questi valori sono sintetizzabili nella parola “sociale”»; e «All’origine il lavoro era relegato alle persone più in basso, agli
schiavi. Lo strumento giuridico utilizzato era la proprietà. Lo
schiavo che lavorava era proprietà del civis romanus, il cittadino
al più alto grado sociale, che si appropriava del lavoro in quanto
proprietario di chi lavorava. […]. Il lavoro svolto prima dallo schiavo, di proprietà altrui, dopo la rivoluzione industriale è svolto dal
“proletariato” mediante il contratto di locazione: la forza lavoro
veniva presa in locazione (“in affitto”, si dice) fra uomini adulti e
più spesso fra donne e bambini. […] In fondo, da un punto di vista morale e anche giuridico, non c’è una gran differenza fra vendere o affittare il proprio corpo, o tanto meno fra affittare il corpo o le «energie lavorative”».
(15) Cfr. Modugno F., (a cura di), op. cit., 539, ove si legge: «La
affermata “precedenza sostanziale della persona umana (intesa
nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di
questo al servizio di quella” (Dossetti, Atti dell’Assemblea Costituente, I Sc., 10 settembre 1946, VI, 323 s.), accompagnata dalla proclamazione della “pari dignità sociale” di tutti (art. 3 Cost.),
consente di cogliere il sostrato assiologico dell’attributo della inviolabilità che va riferito “al patrimonio irretrattabile della persona umana intesa come totalità ossia al principio supremo della libertà-dignità”, considerato come principio che pervade la Costituzione repubblicana “in contrapposizione al tradizionale principio individualistico e liberale della libertà-proprietà” tipico dell’ordinamento prerepubblicano (Modugno, 1995, 107, nonché Baldassarre, 1990, 20)».
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1) «lavoratori manuali e lavoratori intellettuali»
(Togliatti) (16);
2) «lavoratori privati e lavoratori pubblici» (17);
3) «prestatori d’opera, lavoratori del capitale e proprietari terrieri» (Lucifero) (18);
4) nonché «lavoratori subordinati, lavoratori parasubordinati, lavoratori autonomi, imprenditori e volontari» (e, dunque, «lavoratori e datori di lavoro») (19).
Come è noto, la nostra Costituzione costituisce «il
frutto di una sorta di compromesso tra le tre componenti essenziali dello schieramento politico italiano»:
quella operaia tradizionale, organizzata nel Partito
Comunista e nella maggior parte di quello socialista;
quella ispirata alla tradizione risorgimentale, impersonata nelle diverse formazioni democratiche e liberali;
e la cattolica, rappresentata dalla Democrazia Cristiana (20). Così, anche il concetto di “lavoro” come
fondamento della nostra Repubblica è animato almeno da tre distinte e concorrenti dottrine, la marxista,
la liberal-democratica e la cattolica. In particolare, la
dottrina marxista, muovendo da un piano prevalentemente economico, concepisce il lavoro essenzialmente come «produzione» (21); la dottrina liberaldemocratica, muovendo da un piano prevalentemente sociale, concepisce il lavoro essenzialmente come
«collaborazione» (22); e la dottrina cattolica, muovendo da un piano prevalentemente personale, concepisce il lavoro essenzialmente come «realizzazione
di se stessi e del proprio prossimo» (23).
Note:
(16) Cfr. Assemblea Costituente. Commissione per la Costituzione. Prima sottocommissione. 42. Resoconto sommario della
seduta di giovedì 28 novembre 1946, 427.
(17) Cfr. Miscione M., op. cit., 815.
(18) Cfr. Assemblea Costituente. Commissione per la Costituzione. Prima sottocommissione. 26. Resoconto sommario della
seduta di venerdì 18 ottobre 1946, 263-265.
(19) Cfr. Amoroso G., Di Cerbo V., Maresca A., Diritto del lavoro,
I, Milano, 2009, 3-4.
(20) Cfr. Ghisalberti C., Storia costituzionale d’Italia 1848/1994,
Roma-Bari, 2007, 414.
(21) Cfr. Marx K., Engels F., Manifesto del partito comunista, Roma, 1954, 53-55, ove si legge: «Abbiamo già visto sopra come il
primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla
borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli
strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del
proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive. Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere,
se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei
rapporti borghesi di produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel
corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di
produzione. […] Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze
di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il
carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce
necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia
società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti».
(22) Cfr. Rousseau, J.-J. Il contratto sociale, Roma-Bari, 2006, 21
e 23, ove si legge: «Suppongo che gli uomini siano arrivati a quel
punto in cui gli ostacoli che si oppongono alla loro conservazione
nello stato di natura prendono con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ogni individuo può impiegare per mantenersi in tale stato. Allora questo stato primitivo non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse il suo modo di essere. Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, non hanno più
altro mezzo per conservarsi se non quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza,
mettendole in moto mediante un solo impulso e accordandole
nell’azione. Questa somma di forze può nascere solo dal concorso di parecchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ciascun
uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà impegnarli senza nuocersi o senza trascurare le cure che deve a se
stesso? Tale difficoltà, riportata al mio argomento, si può enunciare nei seguenti termini: “Trovare una forma di associazione
che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i
beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a
tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come
prima”. Ecco il problema fondamentale di cui il contratto sociale
dà la soluzione. Le clausole di tale contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto che la minima modificazione le
renderebbe vane e senza effetto; dimodoché, quantunque, forse, non siano mai state enunciate formalmente, son dappertutto
uguali, dappertutto tacitamente ammesse e riconosciute; fino a
che, essendo stato violato il patto sociale, ciascuno non rientra
nei suoi primitivi diritti e riprende la sua libertà naturale perdendo
la libertà convenzionale con cui l’aveva barattata. Queste clausole, beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità:
infatti, in primo luogo, dando ognuno tutto se stesso, la condizione è uguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti,
nessuno ha interesse a renderla gravosa per gli altri. Inoltre, la
mancanza di riserve nell’alienazione conferisce all’unione la maggior perfezione possibile e nessun associato ha più nulla da reclamare. Infatti, se i privati conservassero qualche diritto, poiché
non vi sarebbe un superiore comune per far da arbitro nei loro
contrasti con la comunità, ciascuno, essendo su qualche punto il
proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo su tutti, lo
stato di natura continuerebbe a sussistere e l’associazione diventerebbe necessariamente tirannica o vana. Infine, ciascuno
dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato,
nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su
noi stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde e un
aumento di forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si
esclude dal patto sociale ciò che non rientra nella sua essenza,
vedremo che si riduce ai seguenti termini: Ciascuno di noi mette
in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema
direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo
ciascun membro come parte indivisibile del tutto».
(23) Cfr. Matteo 23, 34-40, ove si legge: «Allora i farisei, udito
che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e
uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla
prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore,
(segue)
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D’altra parte, proprio l’azione sinergica di queste tre
anime del concetto di “lavoro” come fondamento
della Repubblica democratica italiana rende il diritto del lavoro - su un piano generale - un diritto “unificato”, “di parte ma di tutti” nonché “universale e
attuale” (24). Un diritto “unificato”, perché tendente alla parità di trattamento, non solo tra lavoratori
e tra datori di lavoro, ma anche tra i primi e i secondi (25). Un diritto “di parte ma di tutti”: da un lato
(“di parte”), perché tutela il lavoratore quale parte
debole contro il datore di lavoro quale parte forte
(26); e, dall’altro (“ma di tutti”), perché tutela il lavoratore come “uomo svantaggiato” (la parte debole)
(27), contro il datore di lavoro come “autore di ingiustizia” (la parte forte) (28). E un diritto “universale e attuale”, «perché disciplina e regola qualunque
attività umana, dalla più alta alla più bassa, dalla più
meschina alla più elevata» (29).
Per concludere con una celebre metafora rousseauiana, si può dire che la Carta costituzionale racchiuda in sé la chiave del passaggio dallo stato di natura allo stato civile, che solo consente all’uomo di
raggiungere il pieno sviluppo della sua persona, «sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto»
(30) («e il diritto all’appetito»). L’uomo, infatti, secondo Rousseau (31) - «pur privandosi in questo
nuovo stato di molti vantaggi che la natura gli accorda» - e, nella specie, della possibilità di concentrarsi sulla cura dei propri interessi, nei limiti delle
proprie forze (la libertà naturale) -, «ne ottiene in
compenso di tanto grandi» - e, nella specie, la possibilità di usufruire della forza altrui, nei limiti della
difesa del bene comune (la libertà civile) (32). In efNote:
(continua nota 23)
con tutte la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più
grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”».
(24) V. note nn. 25-29.
(25) Cfr. Miscione M., op. cit., 815, ove si legge: «[…] una volta,
fino a poco tempo fa, veniva trattato soltanto il diritto di chi lavora in forma dipendente, lasciando da parte o proprio disinteressandosi del lavoro autonomo e di quello dell’imprenditore, e disinteressandosi anche del lavoro pubblico. […] Oggi abbiamo una
grande unificazione e si parla non più tanto di “diritto del lavoro”,
ma di diritto “dei lavori” al plurale, comprendendo tutti i tipi e perdendo quell’impronta un po’ classista implicita nella parola “lavoratore”. […]. Col tempo, attenuandosi il carattere contenzioso,
s’è attenuata anche la contrapposizione fra lavoratori e datore di
lavoro, le regole si sono sempre più perfezionate, la contrapposizione di classe ci sarà ancora ma si allontana dalle esasperazioni
delle origini, durate per la verità fino a pochi anni fa».
(26) Cfr. Miscione M., op. cit., 816-817, ove si legge: «Il nucleo
storico e ancora prevalente del diritto del lavoro è “di parte”,
quale tutela del lavoratore come parte debole. Una delle caratteristiche peculiari è di fissare “minimi”: si stabiliscono non le re-
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tribuzioni, i riposi o le ferie fisse, ma solo i minimi di retribuzione, di riposo, di ferie, in modo che chi dà di più rispetta le regole. Non si stabiliscono mai, o almeno è rarissimo, i “massimi”».
(27) Cfr. Miscione M., op. cit., 816, ove si legge: «La tutela della
persona inizialmente aveva un “contro” preciso: erano “contro” i
datori di lavoro, che sfruttavano i lavoratori disinteressandosi della loro persona. […] Oggi non c’è più un “contro” specifico, la persona dev’essere rispettata da tutti, non solo dal “padrone” ma
dallo stesso lavoratore. Una tutela nei confronti di sé stessi, si dice, qualunque sia il tipo di lavoro. Sì, perché la tutela dovrebbe valere anche per chi svolge lavoro autonomo, perché è interesse
della collettività che anche chi lavora in proprio non dia l’anima al
diavolo per la bramosia di denaro o di potere. Certo, è difficile impedire a chi lavora in proprio di rovinarsi la salute o comunque la
vita per super - attività, ma storicamente qualcosa è stato fatto e
molto si può fare ancora. […] La nozione di «parte debole» ormai
sta cambiando: prima erano i lavoratori o altri svantaggiati, come
gli invalidi o le persone a rischio, fra cui le donne al momento di
sposarsi o in maternità; oggi invece i veri svantaggiati stanno diventando le persone comuni, le persone sole».
(28) Cfr. Miscione M., op. cit., 816, ove si legge: «È cambiata anche la nozione di “parte forte”: prima era il datore di lavoro o la
grande casa produttrice, la mitizzata multinazionale, oggi è la burocrazia, che avvinghia sempre, anche quando è correttissima,
che toglie la libertà poco o pochissimo per volta, quasi impercettibilmente. Con formula fortunata e un po’ precorritrice è stato detto che la parte debole è il “cittadino”, per indicare chi deve servirsi della burocrazia (che spesso si confonde con lo “Stato”). Ci sono poi entità ancor più indeterminate e quasi inconsistenti, ma forse per questo più pericolose, costituite dai poteri
“forti”, quelli che si avvalgono dei grandi mezzi di convinzione:
ma è difficile difendersi da chi non si vede, e non si sa nemmeno se c’è. La difesa nei confronti di queste nuove «parti forti»
può essere sintetizzata con il “difensore civico”, che dovrebbe
occuparsi proprio della persona sola contro qualunque minaccia,
anche quella ammantata di legittimità».
(29) V. Miscione M., op. cit., 817.
(30) V. Rousseau J.-J., op. cit., 27.
(31) V. Rousseau J.-J., op. cit., 27 e 29.
(32) Peraltro, l’utilità del passaggio dallo stato di natura allo stato civile, se è chiara e netta nella indubitata ipotesi in cui l’io si
consideri diverso dal non-io, diviene tanto più grande ed incalcolabile ove - in accoglimento dell’ipotesi formulata da Kelsen - si
assuma “il tu come identico a sé”. Al riguardo, in Kelsen, H., Il
primato del parlamento, Milano, 1982, 43-45, si legge: «L’essenza della democrazia non può essere tuttavia compresa appieno sulla sola base dell’idea di libertà. Quest’ultima, presa di
per sé, non può certamente fondare un ordinamento sociale, il
cui significato essenziale sta in un vincolo e che solo in quanto
vincolo normativo costituisce il rapporto sociale, la comunità. Il
senso più profondo del principio democratico è che il soggetto
politico vuole la libertà non solo per sé ma anche per gli altri, l’io
la vuole per il tu: e ciò perché l’io percepisce il tu come identico
a sé. Così, affinché si pervenga al concetto di forma sociale democratica, è necessario che all’idea di libertà si aggiunga, limitandola, l’idea di uguaglianza. […]. Se si chiede a quale tipo caratteriologico si attagli una simile veduta politica, nella quale
l’anelito per la libertà viene modificato dal sentimento di uguaglianza, si può rispondere che è chiaramente quello in cui l’esperienza del proprio io non è così elementare, così diversa da tutte
le altre esperienze, dall’esperienza di tutti gli altri, dall’esperienza del non-io, che l’io non possa, immedesimandosi, onorare la
pretesa del tu di essere riconosciuto come un io. È il tipo di personalità la cui esperienza fondamentale è il Tat wam asì, l’uomo
che, vedendosi accanto l’altro uomo, avverte una voce interiore
che gli dice: questo sei tu. Questo tipo di personalità si riconosce nell’altro, sperimenta a priori l’altro non come un essere
estraneo, un nemico, ma come un uguale e quindi un amico,
sperimenta il proprio io non come qualcosa di unico, di assolutamente incompatibile e irripetibile».
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
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Rapporto di lavoro
fetti, solo con tale passaggio - prosegue Rousseau
(33) - le facoltà dell’uomo si esercitano e si sviluppano, «le sue idee si ampliano, i suoi sentimenti si
nobilitano» (34) e «la sua anima intera si eleva a tal
segno, che se il cattivo uso della nuova condizione
spesso non lo degradasse facendolo scendere al disotto di quella da cui proviene, dovrebbe benedire
senza posa l’istante felice che lo strappò per sempre
di là, facendo dell’animale stupido e limitato che era
un essere intelligente e un uomo».
Dunque, il passaggio dallo stato di natura allo stato
civile non avviene una tantum, mediante un atto coraggioso, semplice o isolato, ma quotidianamente, a
mezzo di una scelta ponderata, complessa e continua, la cui forza si riflette, anzitutto, nel grado della
propensione di ciascuno a relazionarsi con il proprio
prossimo. E come la forza dei legami intermolecolari varia in un intervallo abbastanza ampio, nel quale
si collocano - in ordine decrescente - i legami idrogeno, le forze ione-dipolo e le forze di van der Waals,
ed influisce sullo stato della materia; così, la forza
delle relazioni interpersonali varia da caso a caso ed
influisce sulla coesione sociale. Di conseguenza - secondo il modello rousseauiano - si avrà una relazione interpersonale tanto più certa e soddisfacente
quanto più i due soggetti agenti avranno perfezionato detto passaggio; e l’ordine e il benessere di una società saranno tanto maggiori quanto più stretti e numerosi saranno i rapporti tra i suoi membri.
Il diritto-dovere di lavorare
Che cos’è il diritto-dovere di lavorare?
Il diritto-dovere di lavorare è l’istituto secondo il quale, da una parte, «La Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (il diritto al
lavoro) e, dall’altra, «Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta, un’attività o una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della società» (il dovere di lavorare) (art. 4 Cost.).
Interpretazione dell’art. 4, comma 1, Cost.
Nelle discussioni in Assemblea Costituente che portarono alla redazione dell’art. 4, comma 1, Cost. fu
affrontata principalmente la questione se si dovesse
adottare la formula più radicale «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento», proposta
dall’on. Fanfani, la formula compromissoria «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effetti-
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
vo questo diritto», contenuta nel Progetto di Costituzione e poi effettivamente approvata, o la formula
più blanda «La Repubblica promuove le condizioni
per eliminare la disoccupazione», proposta dall’on.
Romano (35). In sostanza, la questione verteva sull’an e sul quantum il diritto al lavoro dovesse avere
un carattere attuale o potenziale (36).
Ma qual era la ratio delle tre formule proposte?
Fanfani, nel sostenere la sua proposta, osservò che
una costituzione, per aderire alla realtà, doveva contenere, non già «principi generici», piuttosto «cose
fattibili» (37).
Quindi, Ruini, nella sua relazione al Progetto di Costituzione, affermò che il diritto al lavoro («ad una
occupazione piena per tutti») non era un diritto attuale («già assicurato e provvisto di azione giudiziaria»), ma un diritto potenziale (che la Costituzione
indicava perché il legislatore ne promuovesse «l’attuazione», secondo «l’impegno» che la Repubblica
nella Costituzione stessa si assumeva) (38).
Infine, Romano, nel sostenere la sua proposta, osservò
che, per avvicinare la lettera allo spirito della disposiNote:
(33) V. Rousseau J.-J., op. cit., 27 e 29.
(34) Cfr. Rousseau J.-J., op. cit., 27 e 29, ove si legge: «Tale passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nell’uomo un
mutamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e conferendo alle sue azioni la moralità di cui prima
mancavano. Solo a questo punto, succedendo la voce del dovere
all’impulso fisico e il diritto all’appetito, l’uomo che fin qui aveva
guardato a se stesso e basta, si vede costretto ad agire in base ad
altri princìpi e a consultare la ragione prima di ascoltare le inclinazioni. Ma, pur privandosi in questo nuovo stato di molti vantaggi
che la natura gli accorda, ne ottiene in compenso di tanto grandi,
le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si ampliano, i suoi sentimenti si nobilitano, la sua anima si eleva a tal segno,
che se il cattivo uso della nuova condizione spesso non lo degradasse facendolo scendere al disotto di quella da cui proviene, dovrebbe benedire senza posa l’istante felice che lo strappò per
sempre di là, facendo dell’animale stupido e limitato che era un
essere intelligente e un uomo. Ma riportiamo tutto questo bilancio
a termini facili da paragonarsi. In forza del contratto sociale l’uomo
perde la sua libertà naturale e un diritto senza limiti a tutto ciò che
lo attira e che può raggiungere; guadagna la libertà civile e la proprietà di tutto quanto possiede. Per non ingannarsi a proposito di
queste compensazioni, bisogna distinguere con cura la libertà naturale, che trova un limite solo nelle forze dell’individuo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà generale, e il possesso che
è solo il frutto della forza, o il diritto del primo occupante, dalla proprietà che può solo fondarsi su un titolo positivo».
(35) Cfr. Assemblea Costituente. CXVI. Seduta di giovedì 8 maggio 1947, 3717.
(36) Cfr. Falzone F., Palermo F., Cosentino F., (a cura di), op. cit.,
31-33.
(37) Cfr. Assemblea Costituente. Relazione per la Costituzione.
Terza Sottocommissione. 3. Resoconto sommario della seduta
di martedì 10 settembre 1946, 15.
(38) Cfr. Assemblea Costituente - Relazione del Presidente della
Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini, al Progetto di
Costituzione della Repubblica italiana, 7.
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Dottrina
Rapporto di lavoro
zione, non si doveva parlare di diritto, giacché «un diritto sfornito di azione è vuoto di contenuto» (39).
Secondo la giurisprudenza, il diritto al lavoro non è il
diritto al conseguimento o alla conservazione di
un’occupazione, ma:
1) per quanto riguarda il cittadino, «fondamentale
diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività
lavorativa» (sicché, sotto questo profilo, l’art. 4,
comma 1, Cost. è una disposizione precettiva: direttamente azionabile);
2) mentre, per quanto riguarda lo Stato: da una parte, il divieto «di porre limiti discriminatori a tale libertà [o di rinnegarla]»; e, dall’altra, l’obbligo «di indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri, e dello
stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro» (sicché, sotto
questo profilo, l’art. 4, comma 1, Cost. è una disposizione programmatica: «la cui attuazione spetta innanzitutto al legislatore ordinario») (40) (sent. n.
45/1965) (41).
Secondo la dottrina, il diritto al lavoro è un “diritto
inviolabile” e un “diritto sociale” (42).
Se - per quanto ci interessa - è piana la nozione di
“diritti inviolabili”, definibili de relato come “diritti di
cui all’art. 2 Cost.”, più complessa - come vedremo appare la nozione di “diritti sociali”.
I diritti sociali (o libertà positive) sono «diritti del cittadino a una prestazione positiva da parte dello Stato» (43), che come tali si contrappongono ai diritti di
libertà (o libertà negative), cioè «[le pretese] a che i
pubblici poteri non intervengano nella sfera dell’autonomia privata» (44).
I diritti sociali si distinguono in originari (o incondizionati) e derivati (o condizionati), secondo che siano
direttamente azionabili o la loro attuazione spetti
innanzitutto al legislatore ordinario (45).
I fondamenti normativi generali dei diritti sociali
sono:
1) il principio personalistico, cioè quello secondo il
quale «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo […]» (art. 2
Cost.);
2) il principio pluralistico, cioè quello secondo il quale «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, […] sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità […]» (art. 2 Cost.);
3) il principio solidaristico, cioè quello secondo il quale «La Repubblica […] richiede l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.);
4) il principio di eguaglianza formale, cioè quello se-
1066
condo il quale «Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»
(art. 3, comma 1, Cost.);
5) il principio di eguaglianza sostanziale, cioè quello secondo il quale «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale
del Paese» (art. 3, comma 2, Cost.) (46) (47).
Interpretazione dell’art. 4, comma 2, Cost.
Nelle discussioni in Assemblea Costituente che portarono alla redazione dell’art. 4, comma 2, Cost. fu
affrontata principalmente la questione se si dovesse
o no sopprimere l’art. 31, comma 3, del Progetto di
Costituzione («L’adempimento di questo dovere è
condizione per l’esercizio dei diritti politici»), secondo la proposta dell’on. Cortese (48). In sostanza,
la questione verteva sull’opportunità o meno di condizionare l’esercizio dei diritti politici all’adempimento del dovere di lavorare.
Ma qual era la ratio della soppressione di tale articolo?
Cortese, nel sostenere la sua proposta, osservò che la
sanzione stabilita dall’articolo suddetto feriva alle
radici «il principio della democrazia», perché vi erano «cittadini», che potevano «non essere più titolari dei diritti politici», e perché tali «categorie» (di
cittadini privati dei diritti politici) potevano «restringersi o ampliarsi col mutare delle fortune di
questo o di quel partito» (49).
Note:
(39) Cfr. Assemblea Costituente. CXVI. Seduta di giovedì 8 maggio 1947, 3720-3721.
(40) Cfr. Baldassarre A., Diritti sociali, in Enc. giur., XI, Roma,
1989, 15.
(41) Cfr. Corte cost. 9 giugno 1965, n. 45.
(42) V. nota n. 52.
(43) Cfr. Baldassarre A., op. cit., 29.
(44) Cfr. Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 2005, 576.
(45) Cfr. Modugno F., (a cura di), op. cit., 584.
(46) Cfr. Baldassarre A., op. cit., 10.
(47) Cfr. Pinelli C., Il discorso sui diritti sociali fra Costituzione e
diritto europeo, in Europa e diritto privato, II, Milano, 2011, 407408.
(48) Cfr. Falzone F., Palermo F., Cosentino F., (a cura di), op. cit.,
33-35.
(49) Cfr. Assemblea Costituente. CIX. Seduta pomeridiana di sabato 3 maggio 1947, 3510-3511.
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
Dottrina
Rapporto di lavoro
In contrasto con tale posizione, Ruggiero Carlo affermò che il solo modo per «tradurre in realtà pratica» il principio fondamentale del lavoro fosse quello di dargli una sanzione e propriamente la sanzione
di cui alla disposizione in esame.
Secondo la giurisprudenza, il dovere di lavorare è un
dovere sia morale che giuridico, dal momento che il
relativo precetto, benché sprovvisto di sanzione specifica, non manca di una sanzione genericamente e
variamente individuabile nell’ordinamento giuridico (sent. n. 144/1992) (50).
Secondo la dottrina, il lavoro di cui all’art. 4 Cost. è
lo stesso di cui all’art. 1, comma 1, Cost. (51).
Il dovere di lavorare è un «dovere inderogabile»
(52); dove, i doveri inderogabili - come è noto - sono
«i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» il cui adempimento è richiesto dalla
Repubblica (ex art. 2 Cost.).
Note:
(50) Cfr. Corte cost., 30 marzo 1992, n. 144.
Il lavoro nella giurisprudenza 11/2012
(51) Cfr. Miscione M., op. cit., 817, ove si legge: «[…] qualsiasi attività umana è lavoro, se concorre in qualche modo al “progresso materiale o spirituale della società”, secondo quanto
prevede il secondo comma dell’articolo 4 della Costituzione. Il
riferimento alla spiritualità fa capire che tutto è veramente lavoro, anche se non c’è produzione diretta o indiretta: è lavoro
quello dell’operaio o dell’impiegato o del dirigente, ma è lavoro
anche quello dello scrittore, dell’artista, di chi svolge un’attività puramente contemplativa purché immessa in qualche modo
nella società e non rimanga prigioniera di una ideale isola deserta. È lavoro anche quello dello studente. Secondo questa
concezione tanto ampia è lavoro, se non costituisce reato, anche quello del vagabondo o di chi chiede l’elemosina. […]. L’ordinamento valuta negativamente le attività vietate, ma questo
è ovvio, e valuta negativamente le attività per così dire parassitarie, quelle che non portano alcun contributo al progresso della società. Ma si vede chiaramente che la distinzione, fra attività parassitaria e non, è molto difficile se non quasi impossibile».
(52) Cfr. Miscione M., op. cit., 817, ove si legge: «Il lavoro, oltre
a essere un diritto, è anche un “dovere”, secondo quanto previsto espressamente dall’art. 4 della Costituzione: ma il diritto non
comporta la possibilità di ottenere il lavoro facendo causa allo
Stato, come il dovere non comporta la possibilità di lavoro “forzato”. Si dice che entrambi, il diritto e il dovere, siano indirizzati
allo Stato e non agli individui come singoli e non comporterebbero quindi una possibilità di imporre l’uno o l’altro con un processo».
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