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DAL MEDITERRANEO AGLI OCEANI, ISSN 2284-1091, febbraio 2016. Numero speciale a cura di Emilia del Giudice e Michele Rabà, "Cibo e cultura, tra Europa e America. Atti del seminario interdisciplinare", Direzione scientifica: Patrizia Spinato

2016, Dal Mediterraneo agli Oceani

Ideato da Giuseppe Bellini –direttore dal 2000 al 2016– insieme a Clara Camplani e a Patrizia Spinato, il Notiziario è concepito come uno strumento agile ed immediato che si prefigge di divulgare le attività della sede CSAE, in seguito ISEM, di Milano, consolidato punto di riferimento per la comunità di ispanisti e di ispanoamericanisti nazionale ed internazionale. Il primo numero esce nel dicembre 2000 ed è rivolto a studiosi, docenti, biblioteche, centri di ricerca italiani e stranieri, per informare sulle iniziative scientifiche del locale gruppo di ricerca e sulle novità editoriali afferenti o direttamente promosse. Con il tempo si affina la veste grafica, grazie alle nuove competenze del personale della sede, e si regolarizza la periodicità, tanto da meritare l’International Standard Serial Number. Il bollettino esce con cadenza bimestrale e la sua distribuzione è elettronica, attraverso un indirizzario di posta dedicato, l’omonimo blog su WordPress, il profilo e le pagine Facebook della sede milanese. Il Notiziario è articolato in diverse sezioni che variano a seconda dei numeri e spaziano dalla presentazione delle attività organizzate dal centro di ricerca alle iniziative in cui è coinvolto, dalle pubblicazioni interne alle segnalazioni bibliografiche che evidenziano gli apporti scientifici italiani e stranieri di particolare interesse per le specifiche aree disciplinari. In chiusura, la rubrica «La Pagina» approfondisce temi di carattere letterario e di attualità, di ambito mediterraneo ed atlantico. Attualmente diretto da Patrizia Spinato, il Notiziario coinvolge nella redazione ricercatori e tecnici della sede di Milano, nonché collaboratori esterni, su invito della Direzione.

! !" # $ % # &&'()*+,* & $ INDICE PATRIZIA SPINATO, Premessa……………………………………………………………………………….. p. 3 GIUSEPPE BELLINI, Fame e abbondanza nella conquista dell’America…………………………… p. 4 ALESSANDRA CIOPPI, Il commercio del grano nel Mediterraneo basso medievale e il caso Sardegna ……………………………..………………………………………………………………………….. p. 10 MICHELE M. RABÀ, Guerra e approvigionamenti nella Lombardia del primo Cinquecento………. p. 17 LUZ ELENA SALAS, Valores de las culturas alimentarias de Mexico……………………………... p. 22 PATRIZIA SPINATO, ROMEO TRAVERSA, Sor Juana de la Cruz: dalle «filosofie da cucina» alle «lettere figurate»…………………………………………………………………………………….. p. 30 CRISTINA FIALLEGA, «Como agua para chocolate», entre esencia y existencia……..…………….. p. 34 EMILIA DEL GIUDICE, La tradizione maya-quiché in Rigoberta Menchú: sacralità della terra….. p. 41 FRANCESCA SPARVOLI, Biodiversità in fagiolo: studi applicativi per il miglioramento della qualità nutrizionale dei semi e per la resistenza a insetti fitofagi. …………………………............. p. 44 - $ PREMESSA L’Esposizione Universale ospitata dalla nostra città dal 1 maggio al 31 ottobre del 2015 ha fornito una felice occasione collettiva per riflettere sul tema: Nutrire il pianeta, energia per la vita. Anche la Sede di Milano dell’ISEM ha voluto apportare un contributo al dibattito sul cibo attraverso la letteratura, la storia, la pedagogia, l’arte, la scienza. Facendo leva sui possibili approcci transdisciplinari, ha chiamato a raccolta colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, di Istituti d’Arte, di Atenei italiani e stranieri affinché unissero le proprie competenze intorno al titolo proposto. Con il patrocinio del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Patrimonio culturale del CNR e sotto la Direzione scientifica di chi scrive e di Alessandra Cioppi, il 21 ottobre la Biblioteca della Sede ISEM di piazza Sant’Alessandro ha ospitato il Seminario internazionale: Cibo e e cultura, tra Europa e America. Giuseppe Bellini, fondatore del nostro Centro di ricerca e degli studi ispanoamericanisti italiani, ed Emilia Perassi, succedutagli nella Cattedra di Letterature Ispanoamericane dell’Università degli Studi di Milano, hanno sostenuto, scientificamente ed organizzativamente, l’iniziativa, che ha riunito ricercatori, docenti e studenti. Ci hanno altresí onorato della loro presenza tra il pubblico: Angelo Viotti, Roberto Bollini, María Cecilia Campos, Antonio Curcetti, Luisa Pomar. Nelle pagine che seguono diamo un saggio degli interventi proposti, che spaziano dal Mediterraneo all’Atlantico –con particolare riferimento all’Italia ed all’area centroamericana–, in una prospettiva temporale e scientifica molto ampia: ciò a dimostrare i sottili confini che dividono le rispettive discipline e, di conseguenza, le enormi possibilità di collaborazione tra ambiti disciplinari apparentemente inaccessibili ai non specialisti. Patrizia Spinato ( $ ITINERARI DELLA FAME NELLA SCOPERTA E CONQUISTA DELL’AMERICA GIUSEPPE BELLINI (Università di Milano) Che la scoperta e la conquista del mondo americano siano state accompagnate da una eccezionale carenza di cibo è cosa affermata e certamente reale se si considera che gli spagnoli dovettero affrontare quasi sempre terre non prima conosciute e inospitali, tra fiumi, monti e selve impenetrabili. Ciò avviene in particolare nel sud del continente americano, dove la scoperta e la conquista furono con frequenza lotta per la sopravvivenza. Francisco de Jerez nella sua Verdadera relación de la conquista del Perú y Provincia del Cuzco llamada la Nueva Castilla, consegna come per Pizarro e la sua gente le prime spedizioni del 1524 e 1526 da Panamá verso l’impero favoloso degli Incas, furono insuccessi, sofferenze e fame, pericolo serio della vita. I tentativi non andarono oltre il río San Juan, nella Colombia attuale, e nella seconda spedizione gli scopritori arrivarono a nutrirsi, oltre che di «un marisco que cogían de la costa de la mar, con gran trabajo» e di «unos palmitos amargos», di «un cuero de vaca curtido que llevaban para zurrones de la bomba, y cocido, lo repartieron» (Francisco de Jerez, Verdadera relación de la conquista del Perú, p. 32). Di fronte alla fame pochi potevano essere gli scrupoli. Lo stesso Cieza de León riferisce particolari impressionanti relativi alla carenza di cibo e narra che un gruppo di soldati al seguito del licenciado Juan de Vadillo, i quali da più di un anno non mangiavano carne, usciti una volta «a robar lo que pudiesen», s’imbatterono presso il río Grande in un gruppo di indigeni con «una grande olla de carne cocida» e non ebbero scrupolo di approfittarne, accorgendosi solo alla fine che si trattanta hambre llevaban, que no miraron en más de comer, creyendo que la carne era de unos que se hallaron, les pesó de haber comido aquella vianda, dándoles grande asco de ver los dedos de muertos de hambre (Pedro Cieza de León, La crónica del Perú, cap. XVI, p. 189). Meglio era andata agli uomini di Diego de Almagro quando fecero precipitosamente ritorno dal Cile, poiché ebbero l’opportunità di sfamarsi con la carne dei cavalli abbandonati durante l’andata, ormai congelati dal freddo insieme ai loro cavalieri: cuando dende a cinco meses don Diego volvió al Cuzco halló en muchas partes algunos de los [hombres] que murieron a la ida en pie arrimados a algunas peñas, helados, con los caballos de fue gran parte de la sustentación de la gente que venía, los caballos que topaban helados en el camino y los comían (Agustín de Zárate, Historia del descubrimiento y conquista de las Provincias del Perú, p. 587) . $ Neppure un entusiasta del Cile come lo sfortunato Valdivia, il quale incitava i connazionali a «vivir y perpetuarse» in una terra che giudicava non esservi migliore al mondo, riesce a nascondere la penuria iniziale in cui i conquistatori si videro. Dirigendosi all’imperatore Carlo V, mentre sottolineava il valore dei soldati in guerra, dichiarava: se al loro sforzo eroico si aggiunge la fame, «más que hombres han de ser», e tali si erano dimostrati, poiché hasta el último año destos tres que nos simentamos muy bien y tovimos harta comida, pasamos cristianos les era forzado ir un día a cabar cebolletas para se sustentar aquél y otros dos, y acabadas aquéllas, tornaba a lo mesmo, y las piezas todas de nuestro servicio y hijos con esto Y desta manera hemos vivido […] (Pedro de Valdivia, “Carta al emperador Carlos V”, pp. 33 e 43). Non diversa fu la situazione in cui venne a trovarsi Alvar Núñez Cabeza de Vaca quando, dopo il naufragio, si andò aggirando per anni tra le terre della Florida e del bacino del Misissipì, fino alla regione dei chihuahua. I Naufragios sono un continuo lamento circa la fame che accompagna il protagonista e i suoi pochi compagni nell’involontaria avventura tra le popolazioni indigene. All’isola del Mal Hado, scrive: Fue tan extremada la hambre que allí se pasó, que muchas veces estuve tres días sin comer ninguna cosa […] y parecíame ser cosa imposible durar la vida, aunque en otras mayores hambres y necesidades me vi despues (Alvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragios, p. 79). Non è che l’inizio di una situazione ricorrente, in cui i naufraghi sono costretti per vincere la fame a nutrirsi di granchi, di erba e, quando va bene, di carne cruda di cane. E tuttavia non passano molti anni dalla conquista che già la situazione sembra cambiare, sia in Messico che in Perù. La straordinarietà della terra è presto esaltata da fra Toribio de Benavente, “Motolinía”, per il mondo messicano: «Es tanta la abundancia y tan grande la riqueza y fertilidad de esta tierra llamada la Nueva España, que no se puede creer» (Fray Toribio de Benavente, “Motolinía”, Historia de los indios de la Nueva España, Tratado III, cap. IX, p. 251). Da parte sua Cieza de León esalta la ricchezza e l’abbondanza del mondo peruviano, dichiara che «es una de las buenas tierras del mundo, pues vemos que en ella no hay hambre ni pestilencia, ni llueve ni caen ! (Pedro Cieza de León, La crónica del Perú, cap. LXXI, pp. 284-"#$% & ' ( ! ) non solo per la fertilità, ma per le ricchezze auree, situazione quest’ultima in realtà assai pericolosa per la salvezza spirituale di chi vi è venuto ad abitare, come il cronista non manca di denunciare, convinto da molti esempi che Dio non mancherà di fare giustizia, in particolare per lo sfruttamento degli indigeni: «No se engañe ninguno en pensar que Dios no ha de castigar a los que fueren crueles para con estos indios, pues ninguno dejó de recibir la pena conforme al delicto» (Ibi, cap. CXIX, p. 400). L’epica americana non abbandonerà il tema della fame. Lo stesso Ercilla nell’Araucana vi allude pesantemente, nel canto XXXV (Alonso de Ercilla, La Araucana, Madrid, Editorial Castalia, 1979, II), allorché racconta della spedizione verso l’estremo sud del Cile da lui guidata, terribile esperienza dominata dalla «aquejadora hambre miserable», che «las cuerdas apretaba del tormento», rendeva tutto improbabile, desmayaba las fuerzas y el aliento, / $ cortando un dejativo sudor frío, de los cansados miembros todo el brío. Non solo la fame, ma il cielo «conjurado», la «escasa y turbia luz», le nuvole «espesas» e «lóbregas», che trasformavano «en tenebrosa noche el día», de «granizo y tempestad cargado» (Ibidem), rendendo inumana la fatica di uomini e animali, immersi in una vera e propria tragedia: Unos presto socorro demandaban otros, “¡ayuda!, ¡ayuda!, voceaban * otros iban trepando, otros rodaban, los pies, manos y rostros desollados, oyendo aquí y allí voces en vano sin poderse ayudar ni dar la mano. Era lástima oír los alaridos, ver los impedimentos y embarazos, los caballos sin ánimo caídos, nuestros sencillos débiles vestidos descalzos y desnudos, sólo armados, en sangre, lodo y en sudor bañados. E su tutto questo la terribile fame: sette giorni sperduti in un ambiente dove la vista era pres+ , & ! a pié del monte, «un estendido lago y gran ribera», ma soprattutto finalmente del cibo. Non si tratta qui di spledide cibarie, ma della «frutilla coronada / que produce la murta virtuosa», su cui tutti si gettano come fosse manna d’Egitto: Cual bandada de langostas enviadas por plaga a veces del linaje humano, que en las espigas fértiles granadas con un sordo rozar no dejan grano, así pues en cuadrillas derramadas, suelta la gente por el ancho llano, dejaba los murtales más copados de fruta, rama, y hojas despojados. La fame fa sì che gli uomini si riducano allo stato bestiale, accentuino il loro egoismo: A puñados la fruta unos comían de la hambre aquejados importuna, otros ramos y hojas engullían no aguardando a cogerla una por una: quien huye al repartir la compañía, buscando en lo escondido parte alguna donde comer la rama desgajada de las rapaces uñas escapada. E come le galline quando, trovato un grano, fuggono per mangiarselo solitarie, 0 $ así aquel que arrebata buena parte, déste y de aquél aquí y allí seguido, huyendo se retira luego en parte ninguno, si algo alcanza, lo reparte, que no era tiempo aquel de ser partido, ni allí la caridad, aunque la había, estenderse a los prójimos podía. Proseguirà la sua esplorazione del sud estremo cileno Ercilla e affermerà con orgoglio il suo protagonismo (Ibi, Canto XXXVI). Ricchi «manjares» ritroverà con i suoi uomini solo al ritorno alla Imperial, «manjares regalados», con i quali soddisfare «los estómagos golosos» (Ibidem). Il tema della fame, tema reale, e per contro di splendidi banchetti, si diffonde nell’epica americana. Basti, saltando da un lato all’altro del continente, accennare al poema di Gaspar de Villagrá, Historia de Nuevo México (ed. de Mercedes Junquera, Madrid, Historia 16, 1989). Il canto XIV presenta una stretta relazione con il canto XXXV de La Araucana, poema, del resto, alla radice di tutta l’epica d’America. Villagrá, agli ordini di Juan de Oñate, si addentra, con vicende alterne, negli inospitali territori dove già Alvar Núñez Cabeza de Vaca aveva fatto, anni prima, le sue dure esperienze, non meno dure quelle dell’avventura guerresca del poeta soldato. Egli descrive con realismo le condizioni generali degli uomini che si lanciano alla scoperta e alla conquista per dare nuovi territori al sovrano, tra pericoli straordinari, costretti a cucirsi alla bell’e meglio i vestiti e le scarpe, a vivere come animali, all’acqua e al sole, alla calura insopportabile, a nutrirsi de raíces incultas desabridas, de hierbas y semillas nunca usadas, caballos, perros y otros animales, inmundos y asquerosos a los hombres. E alla fine, la ricompensa ai loro servigi e ai loro sacrifici, da parte delle autorità che nella Colonia rappresentano il sovrano spagnolo, consiste in lunghe anticamere, dove devono sopportare una eternidad de años arrimados por aquellas paredes de Palacio, muertos de hambre, cansados y afligidos, adorando a los pajes y porteros, senza nulla ottenere. Il che riporta il lettore alle consimili denunce del cancelliere Pero López de Ayala nel Rimado de Palacio. Ma, si sa, impotenti, e, soprattutto i loro rappresentanti, non hanno molta sensibilità verso i sudditi. Uno dei momenti di maggior tensione è proprio la spedizione di Villagrá alla scoperta del río Grande, una lunga e faticosa avventura, simile a quella della spedizione di Ercilla al sud cileno, marcia tormentata, qui, dall’ambiente infuocato, dalla sete e dalla fame, oltre che dall’incognita del territorio su cui gli uomini si muovono. Con forza realmente drammatica Villagrá rappresenta la viacrucis sua e della sua gente, ciechi ormai i cavalli, che si muovono in una natura estremamente ostile, sbattendo contro gli alberi, & ! . della vita, «vivo fuego exalando, y escupiendo / saliva más que liga pegajosa». Ma la Provvidenza divina aveva disposto diversamente, e all’improvviso s’imbattono nel grande fiume, dove uomini e cavalli si precipitano per dissetarsi, perendo alcuni affogati o trascinati via dalla corrente. Final- ' $ dimenticate le passate disavventure e il pericolo della vita, si aggirano «por frescas alamedas muy copadas». Di nuovo è il locus amoenus già celebrato nell’Arauco domado da Pedro de Oña, nell’episodio del bagno di Fresia e del suo amante (Madrid, Atlas B.A.E., 1948, II, Canto V). Alle necessità della sussistenza provvedono i soldati con la caccia e la pesca, e infine uno splendido e abbondante banchetto improvvisato: «y en grandes asadores, y en las brasas, / de carne y de pescado buen abasto», onde poter soddisfare «las buenas ganas al manjar sabroso». Una grande festa rustica, che tuttavia richiama gli splendidi banchetti rinascimentali –e un’eco non tanto lontana di Garcilaso e di Boscán– + , ambientati sempre nella suggestiva cornice della lussureggiante natura continentale, ma arricchiti non di rado da altre suggestioni, come fa Juan de Castellanos nel primo canto della quattordicesima delle sue Elegías de Varones Ilustres de Indias (Madrid, Atlas BAE, 1944), dove presenta, nella valle di San Juan, una scena campestre di vita «regalada», immersa nel trionfo cromatico della natura: De naturales y traspuestas flores estaban todos tiempos estampados de pinturas diversas en coloresY a la vista grande copia de ganados que rodeaban rústicos pastores, y debajo de ramas tan amenas asientos puestos y las mesas llenas. Non solo abbondanza di cibo, ma anche di belle serventi, alla cui avvenenza il buon presbitero sembra non indifferente: Sirven mestizas mozas diligentes, instruídas de mano castellana, lascivos ojos, levantadas frentes, de condición benévola y humana. La fame, evidentemente, favorisce le allucinazioni, i sogni d’abbondanza. I poeti sognano anch’essi e prospettano luoghi paradisiaci, dove si consumano colossali banchetti, ricchi di ogni genere di vivande, come fa Juan de Miramontes y Zuázola nelle Armas Antárticas (edición y prólogo de R. Miró, Caracas, Biblioteca Ayacucho, 1978), dove, celebrata, nel Canto V, la bellezza e la fertilità della terra che, «sin cultivalla», dà di «cazas y frutas bastimento», descrive minutamente le cibarie approntate per un banchetto all’aria aperta, «en un ameno valle deleitoso», sotto alberi «frondosos», presso un sonoro ruscello, «por do, risueña, el agua cristalina / entre junquillos, hierba y flor camina», e fiori in abbondanza: rose, gelsomini, garofani selvatici, gigli, a profumare l’ambiente. Lì i cimarrones, ribelli al governo spagnolo, «tienden capaces, mesas, espaciosas» per i nuovi alleati –gli uomini dei pirati inglesi Drake e Oxnan–, dove fanno bella mostra «rústicos manjares»: el colmilludo jabalí, cerdoso anaco, ánade, pato y perdiz parda, fértil conejo, gamo temeroso, verde ycotea y trepadora arda, mico, zaíno, ante poderoso, tórtola, codorniz, pava gallarda , $ y con la hermosa garza quiere que haya pintado papagayo y guacamaya. Despierta y satisface el apetito la piña, el aguacate y el zapote, el plátano, mamey, ovo, caimito, la papaya, la yuca y el camote, el coco, la guayaba y el palmito, la guaba, la ciruela, el ají y mote, frutos de aquesta fértil tierra propia do esparció la abundancia el cornucopia. Miramontes y Zuázola è un perfetto descrittore dell’abbondanza della terra americana, precursore in questo dell’Andrés Bello della Silva a la agricultura en la Zona Tórrida. Ma anche il suo è, in realtà, un sogno, che qui entusiasma gli affamati inglesi. La fame, quindi, è sempre alla radice degli splendidi banchetti presentati dai poeti epici, cui partecipano reduci da itinerari privi di ogni tipo di sussistenza. La cronaca riferisce scene soprattutto drammatiche, una realtà certamente vera, mentre l’epica abbonda in descrizioni meravigliose, dove tutti si satollano con allegria, nel regno di un’abbondanza che la fantasia esalta, memore delle splendide rappresentazioni proprie dell’alta società rinascimentale. BIBLIOGRAFIA BENAVENTE, “MOTOLINÍA”, FRAY TORIBIO DE, Historia de los indios de la Nueva España, Giuseppe Bellini ed., Madrid, Alianza Editorial, 1988. CASTELLANOS, JUAN DE, Elegías de Varones Ilustres de Indias, Madrid, Atlas (BAE), 1944. ERCILLA, ALONSO DE, La Araucana, Marcos Morínigo e Isaías Lerner eds., Madrid, Editorial Castalia, 1979. JEREZ, FRANCISCO DE, Verdadera relación de la conquista del Perú y Provincia del Cuzco llamada la Nueva Castilla, in Crónicas de la conquista del Perú, J. Le Reverend ed., México, Editorial Nueva España, s. a. CIEZA DE LEÓN, PEDRO, La crónica del Perú, in Crónicas de la conquista del Perú, J. Le Reverend ed., México, Editorial Nueva España, s. a. —, La crónica del Perú, Manuel Ballesteros ed., Madrid, Historia 16, 1984. MIRAMONTES Y ZUÁZOLA, JUAN DE, Armas Antárticas, edición y prólogo de R. Miró, Caracas, Biblioteca Ayacucho, 1978. NÚÑEZ CABEZA DE VACA, ALVAR, Naufragios, in Naufragios y Comentarios, Roberto Ferrando ed., Madrid, Historia 16, 1984. OÑA, PEDRO DE, El Arauco domado, in Poemas épicos, Madrid, Atlas (B.A.E.), 1948. VALDIVIA, PEDRO DE, «Carta al emperador Carlos V», in Cartas de relación de la conquista de Chile, M. Ferreccio Podestá ed., Santiago de Chile, Editorial Universitaria, 1978. VILLAGRÁ, GASPAR DE, Historia de la conquista de Nuevo México, ed. de Mercedes Junquera, Madrid, Historia 16, 1989. ZÁRATE, AGUSTÍN DE, Historia del descubrimiento y conquista de las Provincias del Perú, in Cronistas de la conquista del Perú, op. cit., p. 587. *+ $ IL COMMERCIO DEL GRANO NEL MEDITERRANEO BASSO MEDIOEVALE E IL CASO SARDEGNA ALESSANDRA CIOPPI (CNR – ISEM, Cagliari) Parlare del commercio del grano in Sardegna significa parlare del commercio dei cereali nel Mediterraneo e, come ha affermato Fernand Braudel al quale non sfuggì l’importanza del problema, «significa cogliere una delle debolezze permanenti dell’esistenza di questo mare e, contemporaneamente, coglierla nella sua pienezza perché il Mediterraneo non ha mai vissuto sotto il segno dell’abbondanza». A detta dei trattati di storia del commercio della prima metà del secolo scorso, quali ad esempio quelli dell’economista tedesco Werner Sombart e la sua scuola, i traffici nel Medioevo sarebbero stati caratterizzati quasi unicamente dalla compravendita delle merci pregiate e di piccolo volume. In effetti, pepe, cannella, zenzero, noce moscata e chiodi di garofano erano largamente utilizzati in cucina e costituivano l’oggetto di consistenti e proficue contrattazioni. Quando si pensa allo smercio delle spezie e del pepe, quindi, vengono in mente i grandi personaggi della mercatura, i quali hanno animato il traffico di pregio dal XIII fino al XVI secolo, e se ne trova conferma /come riferisce Carlo Cipolla/ nella legge che consentiva di saldare un debito, o parte di esso, con uno di questi prodotti, e più precisamente con il pepe a cui la norma attribuiva il potere liberatorio della moneta. Nei secoli della rinascita commerciale, però, in pieno Medioevo, le cose si modificarono progressivamente e alle “merci ricche” si aggiunsero le “merci povere” /secondo l’intramontabile definizione di Armando Sapori/, le quali acquistarono ben presto un posto di primo piano. La domanda della maggior parte della popolazione, infatti, era costituita principalmente dalla richiesta di derrate alimentari che spesso non poteva essere soddisfatta dal solo territorio circostante, soprattutto nel caso delle popolazioni urbane. Il frumento era una un prodotto ingombrante, una “merce povera” e pesante. Il suo commercio non portava con sé nomi illustri: era un commercio modesto, ma allo stesso tempo smisurato perché costituiva la base dell’alimentazione. L’elemento decisivo, quindi, che inserisce il grano nel commercio internazionale /e non possiamo non concordare in questo con le osservazioni di Cipolla/ non è stata la convenienza economica bensì la necessità, pressoché insostituibile per alcuni paesi, di avere a disposizione questo alimento quando la produzione locale era insufficiente. Fu per affrontare l’avventura del pane quotidiano che nel pieno Medioevo le nuove classi governative, affacciatesi alla direzione della cosa pubblica, potenziarono la coltura cerealicola in funzione di una politica che da un lato portasse all’aumento degli agglomerati urbani e dall’altro presupponesse un’autarchia alimentare quanto più sicura possibile. Nonostante ciò, ragioni geografiche, demografiche e climatiche non consentirono di raggiungere ovunque le finalità che si erano perseguite e in alcune aree del Mediterraneo si determinò una certa specializzazione della produzione, anche se per il Medioevo non si può mai parlare di monocolture /secondo una brillante affermazione di Pirenne/ ma solo di colture preponderanti. $ ** I grandi granai dell’epoca furono, senza dubbio, le regioni della Provenza, alcune zone della Penisola Iberica /soprattutto la Castiglia/, la Tunisia, l’Egitto, l’isola di Creta, le terre della Puglia, la Sicilia e, seppure con un certo distacco, come vedremo più avanti, la Sardegna. La tendenza alla specializzazione produttiva di queste aree mediterranee non diede, comunque, risultati sufficienti per cui, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, si impose la ricerca di nuovi mercati, orientali e nordici. I mercanti genovesi e veneziani, che come sostenne l’Heers avevano organizzato il più vasto traffico di grani del Mediterraneo, cominciarono a frequentare i fondachi delle regioni adiacenti alle bocche del Danubio e della Romania, i territori tra la Bulgaria e Costantinopoli e, attraverso il passaggio nell’Atlantico, gli empori delle Fiandre. A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, in maniera sempre più frequente e insistente, si sono levate voci di autorevoli studiosi, economisti e storici che hanno sottolineato l’importanza della circolazione dei cereali e del grano in Europa e nel Mar Mediterraneo in epoca medioevale, rimarcando la necessità di approfondire l’argomento. Alla base della questione si poneva una domanda fondamentale e cioè se l’oggetto dei traffici internazionali dovessero essere considerate solo le merci di lusso e di piccolo volume oppure se a queste potessero essere aggiunte le merci povere. L’approccio allo studio di queste ultime, nella fattispecie il commercio dei cereali, creava particolari problematiche per diversi ordini di motivi. In primo luogo le merci pregiate avevano la prerogativa di essere poco ingombranti e ciò rap0 punto i cereali, costituivano carichi pesanti e voluminosi e incidevano sul tonnellaggio delle navi utilizzate. In secondo luogo le merci ricche, pur determinando costi di trasporto elevati, assicurava+ 0 stituzione di scorte a causa dell’instabilità dei raccolti e, di conseguenza, subivano forti oscillazioni di prezzo e una regolamentazione del libero acquisto. Le merci di lusso, infine, seguivano sempre stabili correnti di traffico mentre i cereali richiedevano una continua variabilità delle rotte per le esigenze stagionali dei raccolti. Quest’ultimo aspetto non ci deve indurre a negare l’esistenza e la persistenza nel commercio cerealicolo di alcune correnti regolari e di lungo periodo, come quella del grano siciliano nel Cinquecento e nel Seicento /per la quale Braudel ha definito la Sicilia l’isola frumentaria per antonomasia/, ma non può neppure spingerci a sovrastimare il traffico del breve e del brevissimo periodo che spesso sembra invalidare le affermazioni generali. Del Treppo, Boscolo, Tangheroni e Manca, maestri di generazioni di studiosi del commercio nel Mediterraneo medioevale e degli empori mercantili della Corona d’Aragona, hanno indicato nei loro studi molte prove a favore della continua variabilità della circolazione granaria nel Mare Nostrum e della sorprendente mutevolezza delle sue rotte sulla base delle esigenze stagionali dei raccolti. Essi richiamano la nostra attenzione non solo sui mutamenti nella produzione dei cereali, ma anche sulle condizioni dei mercati stessi. Non erano pochi i paesi che operavano nell’importexport del grano e non erano pochi i paesi che di volta in volta si presentavano ora come esportatori ora come importatori, a seconda del variare dei raccolti e della situazione nelle piazze locali. D’altra parte il mercato cerealicolo era molto composito: era un insieme di grandi zone produttive /abbiamo già evidenziato i granai d’Europa/ e di piccole aree di produzione, inserite in un traffico di minore consistenza quantitativa ma di grande rilievo per la comunità mediterranea su scala internazionale. Questa tesi è validata, appunto, dal caso Sardegna. Si è molto discusso sui caratteri, i modi e le finalità dell’espansione catalano-aragonese nel Mediterraneo e, in particolar modo, sul significato che la conquista dell’isola ha avuto nell’ambito $ *& di tale politica espansionistica. In definitiva il tema sardo, inizialmente trascurato, è divenuto il centro d’interesse di molti studiosi e specialisti di area iberica e italiana, i quali hanno realizzato un immane lavoro di scavo documentario presso gli archivi di entrambe le penisole. L’analisi di tale 0 via vi sono alcune questioni strettamente connesse alla nostra tematica che è opportuno tenere presenti se si vuole comprendere il significato attribuito al grano e all’orzo sardo dalla monarchia catalano-aragonese, sia per le ragioni della sua espansione mediterranea, sia per il funzionamento del suo sistema economico e del mantenimento dell’equilibrio sociale. La Sardegna, sin dai primi anni della conquista (1323-1326), ha rappresentato per la Corona d’Aragona un pozzo senza fondo nel quale i sovrani hanno proiettato continuamente risorse umane e finanziarie. Un autentico dramma nella storia della monarchia, ben simboleggiato dalla stessa estinzione nell’isola della dinastia regia in seguito alla morte dell’ultimo e unico erede al trono, Martino il Giovane. È anche ugualmente noto che il mantenimento del Regnum Sardiniae fu, in misura sempre più crescente, un affare della politica monarchica piuttosto che dell’espansione commerciale catalana, dato che a partire dalla seconda metà del Trecento i re d’Aragona incontrarono sempre più forti difficoltà nell’ottenere dalla borghesia e dall’aristocrazia iberica i mezzi per mantenere il possesso dell’isola. È in questo contesto che il re Martino I, per vincere le resistenze dei suoi sudditi, in un discorso tenuto di fronte alle Corts Catalanes, dopo quasi un secolo dall’invasione armata del territorio sardo, fece ricorso proprio alle potenzialità produttive di grano della Sardegna, ricordando che insieme alla Sicilia l’isola era stata definita da Valerio Massimo “il granaio della felicità di Roma”. Il problema dell’approvvigionamento del frumento costituiva sempre e da sempre aveva costituito un problema esistenziale per la Corona d’Aragona. Il deficit cerealicolo era una costante della sua storia, soprattutto nel basso Medioevo. In realtà alla Catalogna non mancavano regioni produttrici di grano: la pianura di Tarragona, il Panadés, l’Ampurdán e la contea d’Urgell erano discreti fornitori di frumento, ma i suoli catalani si presentavano per lo più poveri e non era possibile, comunque, fare a meno delle importazioni con una stabile frequenza annuale. Le aree fornitrici abituali erano fondamentalmente la Provenza, l’Italia meridionale e la Sicilia. Per dare un’idea dell’importanza di tale commercio si può ricordare una stima di Claude Carrère secondo la quale la sola città di Barcellona spendeva ogni anno dalle 20.000 alle 30.000 lire di alfonsini minuti sui mercati esteri per il proprio fabbisogno di frumento. Numerosissime fonti documentarie attestano che i re catalano-aragonesi guardavano per questo motivo alla Sardegna con grande interesse nella speranza di riuscire a dare una parziale soluzione al problema. Le statistiche ufficiali redatte da Pisa li confortavano al riguardo poiché descrivevano un’isola opulenta sotto il dominio del Comune toscano, tale da poter essere considerata «caput et sustentacio Pisae». Si conoscevano testimonianze e resoconti di mercanti pisani e genovesi, nonché relazioni degli stessi mercanti catalani e maiorchini che frequentavano le piazze sarde, in particolar modo il porto di Cagliari. A più riprese, soprattutto nell’imminenza della conquista, Giacomo II ne aveva sottolineato l’importanza e le potenzialità in materia di victualia e al cospetto delle Corts Catalanes aveva affermato che «si la isla de Cerdeña […] se perdía […], Barcelona se despoblaría y decaería, porque sin la isla, ni la dicha ciudad podría vivir ni sus mercaderes practicar el comercio». Gli stessi modi con cui fu sostenuto l’approvvigionamento di grano, orzo, pan biscotto e gallette per allestire la spedizione armata contro l’isola nel 1323, confermano le grandi difficoltà affrontate dalla monarchia aragonese. I contributi forniti da Barcellona e dai regni della $ *- Confederazione iberica, infatti, erano talmente insufficienti da dover fare affidamento su rifornimenti importati dalla Sicilia. È chiaro, quindi, che le informazioni sulla Sardegna diffuse nel periodo precedente la conquista promettevano alla Corte catalana un’indubbia soluzione all’incertezza cerealicola. Purtroppo, le aspettative si mostrarono sin dai primi tempi di gran lunga inferiori alla realtà e, anche quando fu assicurato il dominio sulla maggior parte del territorio sardo, il problema non fu risolto. Anzi, può sembrare paradossale ma si continuò a guardare alla Sicilia come all’area destinata a rifornire quei cereali /orzo, avena, miglio e soprattutto grano/, che si era sperato di trovare in Sardegna e che servivano per soddisfare i pressanti bisogni delle truppe catalano-aragonesi appena stanziate nell’isola. Sorge allora spontaneo un quesito, e cioè se una tale complessa situazione fosse determinata solo da un’occasionale carenza dovuta all’accresciuta domanda per ragioni militari o se vi fossero altre motivazioni. In realtà, il grave disordine politico e sociale che si era diffuso nell’isola sin dai primi mesi della dominazione iberica ci induce a propendere per la seconda ipotesi e l’altalenarsi del commercio granario sardo ne consacra ulteriormente la conferma. Innanzitutto, nell’immediatezza della conquista /dopo il 1326/ la relativa stabilità del Campidano di Cagliari e delle zone ad alta coltivazione cerealicola dell’hinterland cagliaritano aveva consentito un buon andamento della produzione. Al contrario, le rivolte nella città di Sassari e nella Sardegna settentrionale, affiancate dall’opposizione delle nobili famiglie Doria e Malaspina, erano riuscite a incidere negativamente sulla fornitura di frumento, anche se non in maniera significativa dal momento che si trattava di aree di minore rilevanza. Malgrado ciò, nei documenti delle Sezioni Cancellería e Real Patrimonio dell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona appare evidente che durante i primi anni trenta del XIV secolo, dopo l’impasse determinato dall’occupazione armata, la disponibilità di grano sardo riprese e l’esportazione cominciò a ripercorrere le vecchie correnti di traffico. Si ha notizia, infatti, di carichi inviati verso Genova e soprattutto verso Pisa con le stesse tasse doganali imposte nel passato. Sappiamo anche che Firenze effettuò consistenti acquisti di grano sardo /non si sa se direttamente nell’isola o sulla piazza pisana/ senza riuscire poi a smerciarlo, cosicché dopo svariati mesi gli ufficiali del Biado ne imposero ai compratori l’acquisto obbligatorio insieme al grano delle qualità più richieste. Dal 1330 fino agli anni ’40 ulteriori documenti reperiti nei Llibres del Consell de Cent, presso l’Archivio della Ciutat di Barcellona, mostrano l’intensificarsi delle rotte di esportazione ma allo stesso tempo il loro completo cambiamento. La domanda esterna era aumentata e soprattutto si era “catalanizzata”: grano, orzo, avena, biada e miglio viaggiavano in modo intenso verso la Catalogna e soprattutto verso Barcellona. Effettivamente si conoscono per quel periodo severi provvedimenti di Alfonso IV, rivolti al governatore del Regno di Sardegna, che vietavano le esportazioni dei cereali prodotti nell’isola verso il porto di Genova e in tutte quelle terre che non appartenevano alla Corona d’Aragona. A partire dagli anni ’40 la politica economica mutò ancora una volta e soprattutto si irrigidì rispetto alla varietà ed elasticità dei traffici osservati in precedenza. Dai registri di Cancelleria dell’Archivio barcellonese questo nuovo orientamento appare esplicitamente teorizzato. Il re ordinava al governatore del regno sardo di convogliare a Barcellona, ogni qualvolta la città si fosse trovata a corto di frumento, tutto il grano prodotto nell’isola senza frapporre alcun ostacolo (Archivo Corona de Aragón, Cancellería, reg. 1020). Pare, infatti, che in alcuni casi i funzionari sardi si siano opposti con forza alle esportazioni, mossi dal timore di un eccessivo depauperamento delle ri- $ *( sorse alimentari locali in un momento in cui la situazione militare andava fortemente aggravandosi. Per questo periodo i dati relativi alla treta del forment in Sardegna, recuperabili nei registri delle Aduanas e in particolare della piazza commerciale di Cagliari, ci fanno conoscere un andamento assolutamente oscillante dell’esportazione dei cereali dall’isola che non consente, purtroppo, una chiara quantificazione del commercio granario sardo. Allo scoppio delle ostilità contro il giudicato d’Arborea, iniziate negli anni ’50 e protrattesi per tutta la seconda metà del Trecento, si ha un palese passaggio dell’economia isolana da una situazione di apparente normalità a una evidente economia di guerra. Gli scambi continuarono, ma si trasformarono ancora una volta profondamente. L’accresciuto impegno militare nel territorio sardo comportava, infatti, un aumento della domanda interna e ciò accadeva per il fatto che i catalanoaragonesi avevano perso il controllo di vaste aree di produzione cerealicola, in parte perché cadute in mano al nemico e in parte perché non erano più soggette a una regolare attività agricola a causa degli eventi bellici. Tra l’altro, mentre diminuivano le esportazioni di frumento aumentavano, anche se in misura non corrispondente, quelle di orzo alle quali in tali frangenti si rivolgeva giocoforza /come asserisce John Day/ l’attenzione degli operatori. Negli anni ’90 del XIV secolo, infine, appare evidente un ulteriore cambiamento di status dell’isola nei confronti del commercio dei cereali, ovvero un’inversione totale di ruolo da esportatrice a importatrice. Lo si può affermare con certezza attraverso l’analisi dei registri di Jordi de Planella, batlle general del Regno di Sardegna, oggetto di un recente studio della scrivente sulla difesa dei castelli catalano-aragonesi sopravvissuti alla fine del Trecento nel meridione dell’isola. Dai libri contabili del batlle si evince, con esattezza, che massicce quantità di grano e orzo furono inviate costantemente a Cagliari da Valenza, da Tortosa, dalla Sicilia e perfino da Barcellona, e qui erano smistate per approvvigionare non solo la rocca cagliaritana e i castelli sotto assedio, ma anche per pagare in natura le guarnigioni di fanti e cavalieri ivi insediate (Archivo Corona de Aragón, Real Patrimonio, regg. 784, 2101, 2484, 2485, 2486). Paradossalmente, neppure queste importazioni furono sufficienti a soddisfare la richiesta interna e si dovette ricorrere alla pratica della guerra di corsa e alle requisizioni dei carichi delle galere mercantili che navigavano in prossimità delle coste isolane. Il sequestro delle navi avveniva su varie rotte, anche a notevole distanza dalla capitale regnicola, e interessava imbarcazioni di tutte le bandiere. Attraverso la registrazione del loro fermo è possibile ricostruire la provenienza, il nome degli armatori e dei mercanti (liguri, marsigliesi, maiorchini, valenzani, barcellonesi, siciliani e sardo-catalani) e descrivere la fitta rete di circolazione dei cereali, i quantitativi di merce trasportata e la sua variazione di prezzo. Possiamo ripercorrere, quindi, nella sua interezza quell’affascinante “viaggio del grano” che coinvolgeva, allora come sempre, in ogni stagione di ogni secolo, il Mar Mediterraneo. Pur considerando gli sviluppi e gli ulteriori approfondimenti che questi studi richiedono, si può affermare in conclusione che il ruolo della Sardegna nel basso Medioevo fu commercialmente saltuario e marginale, seppure non fu mai in dubbio la sua veste di scalo intermedio lungo le rotte per la Sicilia e il Nord-Africa. Gli equilibri sociali ed economici che avevano consentito all’isola di alimentare nel periodo pisano e nei primi decenni della dominazione catalano-aragonese discrete correnti di esportazione cerealicola erano stati infranti e neppure il ritorno alla pace e all’unità del regno sotto la Corona d’Aragona, a partire dal XV secolo in poi, fu sufficiente a modificare in maniera significativa questo stato di cose. Non è necessario fornire qui di seguito un approfondito elenco di monografie, saggi e contributi, distinti per regioni europee, nazioni e località, scritti a vario titolo sulla storia del commercio *. $ nel Medio Evo. È più opportuno, invece, suggerire la lettura di alcune opere sostanziali che, sebbene nel loro complesso risultino datate, offrono una chiave interpretativa fondamentale sull’argomento, non solo per l’ampiezza e la problematicità della trattazione ma anche per l’abbondanza di riferimenti bibliografici e suggerimenti utili allo sviluppo e all’analisi delle tematiche trattate. BIBLIOGRAFIA ARRIBAS PALAU, ANTONIO, La conquista de Cerdeña por Jaime II de Aragón, Barcelona, Instituto Español de Estudios Mediterráneos, 1952. BOSCOLO, ALBERTO, «I catalani nel Mediterraneo nel basso Medioevo: aspetti e problemi», in Archivio Storico Sardo, XXXIV, II, 1984, pp. 332-359. BRAUDEL, FERNAND, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, 2a ed., Torino, Einaudi, 1976. CARRÈRE, CLAUDE, Barcelone centre économique à l’époque des difficultes (1380-1462), Paris-La Haye, Mouton et Cie, 1967. CIOPPI, ALESSANDRA, Le strategie dell’invincibilità. 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VOLPE, GIOACCHINO, Il Medio Evo, Sansoni, Firenze 1957. *0 $ GUERRA E APPROVVIGIONAMENTI NELLA LOMBARDIA DEL PRIMO CINQUECENTO MICHELE M. RABÀ (CNR-ISEM, Milano) Nell’Europa Occidentale della Prima età moderna, almeno sino alla Rivoluzione industriale, la terra rimase, oggettivamente e nella percezione dei contemporanei, la principale fonte di produzione della ricchezza, strumentale com’era al soddisfacimento di bisogni primari. Il movimento, costante e socialmente rilevante verso la nobiltà dei ceti dediti alla produzione proto-industriale ed al commercio su brevi e lunghe distanze del denaro e di altri beni si spiega anche alla luce di questo dato prettamente economico. Se è vero, infatti, che i proventi dei commerci e delle operazioni bancarie di alto livello venivano normalmente investiti dai ‘mercanti’ nell’acquisto di terreni, è pure vero che il pieno godimento dei frutti della terra dipendeva dalla possibilità di sgravarla dai numerosi carichi fiscali pendenti su di essa, nonché sulla commercializzazione dei suoi prodotti. Tra questi ultimi, nella Lombardia del tardo XV e, soprattutto, del XVI secolo mi soffermerò sulle ‘tratte’, termine che ritroviamo nella documentazione coeva prodotta dalla burocrazia del Ducato di Milano, per indicare tanto la licenza di compravendita di prodotti agricoli e di materie prime alimentari in generale all’interno dei confini dello Stato, quanto la licenza di esportazione dei medesimi all’estero. Nella ricerca del ‘privilegio’, ossia dell’esenzione fiscale, la nobilitazione dei soggetti economicamente rilevanti rappresentava solo un momento formale. Tali concessioni, così come le donazioni di terre e le infeudazioni elargite dal sovrano, si acquistavano attraverso lo scambio di servizi e grazie. Il sovrano altro non era che il patrono dei suoi fedeli, i quali acquistavano il suo favore –e con esso i sospirati sgravi fiscali– essenzialmente attraverso servizi di natura militare. Si tratta di un tema fondamentale, spesso ignorato dalla storiografia, per misurare appieno l’importanza politica e strategica del Ducato di Milano tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo. Su questo secondo periodo, in particolare, vorrei concentrare il mio intervento, quale contributo a definire la rilevanza politica e, al tempo stesso, militare, dei flussi di materie prime alimentari in Italia Settentrionale nella Prima età moderna. Le fonti coeve sono concordi nel testimoniare l’abbondanza delle risorse agricole del Ducato –una striscia di terra compresa tra i fiumi Sesia e Ticino a ovest, Po a sud e Adda a est– anche dopo che, a partire dagli anni ’20 del Cinquecento, le tormentate vicende della prima fase delle Guerre d’Italia privarono Milano delle due ricche province di Parma e Piacenza, assegnate agli Stati Ecclesiastici: «questo Stato è tanto abbondante delle cose necessarie al vitto che, con tutto ch’egli sia popolatissimo, non solo supplisce al suo bisogno, ma ordinariamente le somministra ai Grisoni, Svizzeri e Genovesi», riferiva l’ambasciatore veneziano Paolo Tiepolo al Senato della Serenissima nel 1563, ossia al termine di oltre sessant’anni di conflitti ininterrotti e di rovinosi passaggi di eserciti amici e nemici attraverso le campagne lombarde. Naturalmente, per la legge della domanda e dell’offerta, le materie prime agricole tendevano a varcare le frontiere del Ducato verso la Liguria e la Confederazione elvetica, ma anche verso territori normalmente floridi e produttivi, quali il Monferrato, l’Emilia e il Marchesato –dal 1530, Du- $ *' cato– di Mantova. I territori conservati dal Duca di Milano tra il 1499 ed il 1559 costituivano infatti i ‘resti’ della prodigiosa espansione dell’influenza viscontea in tutta la Penisola all’inizio del Quattrocento: tanto i Visconti, quanto gli Sforza avevano concesso nei territori più vicini alla metropoli proprietà e feudi camerali ai loro più potenti aderenti e fedeli, molti dei quali, con la scomparsa dei due casati ducali, avevano nondimeno conservato le proprie basi territoriali all’esterno dello stato di Milano e le terre loro concesse o infeudate all’interno dei suoi confini. Era quindi abbastanza frequente che –a partire dagli Sforza, passando per l’effimera dominazione francese (1499 -1513 e 1515-1522), sino alla successione di fatto di Carlo V d’Asburgo (1535)– i grandi signori feudali piemontesi, monferrini, emiliani, mantovani e veneti ottenessero di poter esportare «gratis e senza pagamento di tratta» i prodotti agricoli dei propri possedimenti lombardi attraverso i confini del Ducato. Si trattava di un privilegio consolidato e che tuttavia doveva essere continuamente ricontrattato dai proprietari terrieri, il cui pieno godimento delle rispettive proprietà in Lombardia dipendeva dunque in buona sostanza dalla benevolenza della leadership di turno. Con l’intera Europa mobilitata nel conflitto permanente tra gli Asburgo ed i Valois ed il Ducato circondato da potenze formalmente neutrali ma di fatto di orientamento anti asburgico (la Serenissima ed il Papato) o schierate apertamente a favore dei Valois (il Ducato di Parma), la concessione gratuita di licenze di compravendita e di esportazione di materie prime agricole ai grandi signori feudali del Settentrione divenne un potente strumento di persuasione nelle mani di Carlo V e dei suoi governatori a Milano, per ottenere servizi militari della più varia natura da parte della nobiltà padana o comunque di quanti avevano investito denaro nell’acquisto di latifondi. Proprio costoro, infatti, possedendo la terra –ossia la principale fonte di produzione della ricchezza, come si è detto– vantavano anche liquidità e fidate schiere di seguaci –i ‘clienti’ trattenuti come domestici nelle case padronali, i vassalli residenti nelle giurisdizioni feudali, i ‘massari’ che lavoravano i terreni di proprietà–, ossia i mezzi per costituire e mantenere a proprie spese reparti di fanteria e di cavalleria. Unita agli sgravi fiscali sulle proprie terre nel Milanese, la possibilità di esportare da un territorio ricco ingenti quantitativi di granaglie e di altri prodotti –talora ricavati dalle proprie terre, talora semplicemente acquistati da altri produttori– divenne un’esigenza vitale nel momento in cui il protrarsi dello stato di guerra, coi conseguenti passaggi di eserciti dediti al saccheggio ed alla razzia, danneggiava soprattutto i territori confinanti con il Ducato, il pomo della discordia conteso tra gli Asburgo ed il Re di Francia. Tipico il caso delle provincie di Parma e Piacenza, al centro di due degli episodi più drammatici dell’intero conflitto, l’attacco imperiale contro Parma (giugno 1551-maggio 1552) ed il contemporaneo assedio della rocca di Mirandola, principali basi d’attacco dei filo francesi contro i confini meridionali del Ducato. Grandi signori feudali come i Pallavicino da Busseto, i Pallavicino da Scipione, i Sanseverino da Colorno, i conti Landi ed i Rossi di San Secondo ottennero dal governatore di Milano il privilegio di esportare gratuitamente ingenti quantitativi di «grani», «segale», «biade» e riso. Le derrate, sovente esentate anche dal pagamento dei dazi sul trasporto fluviale e sull’attraversamento dei ponti di barche, raggiungevano i borghi fortificati dei signori piacentini e parmensi, che i feudatari presidiavano, muniti di patenti e condotte, nel nome di Carlo V. A quest’ultimo, all’occorrenza, essi fornivano anche, letteralmente, le braccia dei propri vassalli armati, impiegati nella difesa territoriale o reclutati nelle compagnie di fanteria e aggregati all’esercito imperiale. $ *, Trattandosi di feudi di confine, i governatori di Milano erano anche disposti a chiudere un occhio di fronte al fiorente contrabbando di derrate agricole che costituiva una voce di entrata rilevante nelle economie di quelle regioni. Molti dei vassalli dei principali aderenti italiani alla causa asburgica –lombardi, emiliani, monferrini, piemontesi, ma anche liguri– arrestati dai bargelli ducali in flagrante delitto di «sfroso» (contrabbando), vennero graziati o semplicemente liberati, per intercessione dei propri signori. Emblematico il caso di Alessandro Pallavicino, nobile piacentino appartenente alla fazione imperiale e colpevole di avere venduto, con considerevoli guadagni, derrate di contrabbando addirittura ai nemici dell’imperatore assediati in Parma: le conseguenze del suo gesto, un vero e proprio atto di lesa maestà in tempo di guerra, non andarono al di là di una multa. Il primo flusso di derrate, per importanza, era tuttavia quello diretto verso la Confederazione Elvetica e verso le cosiddette Leghe Grigie. Accordi per la libera importazione oltralpe dei grani lombardi esistevano sin dai tempi dei Visconti, ma vennero rinnovati proprio nel corso della seconda fase delle Guerre d’Italia. Carlo V otteneva così la formale neutralità dei Cantoni nella sua lotta contro il re di Francia, che non avrebbe potuto servirsi del territorio elvetico come base d’attacco verso la Lombardia. Più ancora, l’accordo con gli Asburgo stabiliva che i fanti picchieri reclutati nei territori della Confederazione non avrebbero potuto partecipare alle operazioni militari francesi rivolte contro i possedimenti dell’imperatore. Di fatto, nel corso dei ventitré anni di guerra guerreggiata intercorsi tra l’attacco francese in Piemonte (primavera del 1536) e la pace di CateauCambrésis, i reggimenti confederati reclutati dal Cristianissimo vennero impiegati solamente sul fronte emiliano, nel Monferrato e negli Stati del duca di Savoia, ma solo raramente in Lombardia. Il prezzo della neutralità dei Cantoni, nondimeno, fu molto salato: nel solo 1546 vennero concesse agli svizzeri tratte per 16.000 lire imperiali, per 20.000 nel ’47, per 16.000 nel ’48, per 22.000 nel ’49, per 39.000 nel ’50, per 95.000 nel ’51 e per 30.000 nel ’52. Posto che il prezzo di una licenza di compravendita e di esportazione si aggirava intorno ai venti soldi la soma (unità di misura corrispondente a circa 164 kilogrammi) e che una lira imperiale alla metà del Cinquecento era composta di 110 soldi, possiamo farci un’idea della quantità di grani esportati, oltre che delle perdite del fisco milanese. Un ruolo altrettanto fondamentale ebbero gli accordi per la libera importazione dei grani lombardi verso la Repubblica di Genova. A partire dall’alleanza stipulata con l’imperatore nel 1528 e per tutta la durata del confronto armato con i Valois, la Repubblica di San Giorgio fu, assieme a Milano, la colonna portante della causa asburgica non solo in Italia, ma in Europa. Il controllo dell’asse Genova-Milano garantiva infatti i collegamenti fisici e finanziari tra i possedimenti asburgici nelle Fiandre, quelli orientali in Austria ed in Ungheria e quelli mediterranei (i Regni Spagnoli, il Regno di Napoli e quello di Sicilia). Non solo le galere armate di Andrea Doria –di fatto duce della Repubblica– proteggevano le coste spagnole e napoletane dalle incursioni barbaresche e ottomane ed i convogli imperiali in transito attraverso il Mediterraneo Occidentale. Era infatti attraverso le operazioni creditizie dei mercanti del denaro genovesi –gli hombres de negocios dei grandi casati patrizi dei Marino, dei Centurioni, degli Spinola, dei Grimaldi– che le risorse finanziarie drenate dagli Asburgo dai loro possedimenti più ricchi (la Castiglia ed il Ducato di Borgogna) giungevano rapidamente a finanziare lo sforzo bellico laddove serviva, evitando lunghi e complicati trasferimenti di denaro liquido. Tali operazioni si svolgevano prevalentemente nella piazza finanziaria di Genova, dove il consenso delle élite alla leadership del Doria e dei mercanti filoimperiali veniva garantito dalla capacità di que- $ &+ sti di farsi mediatori tra gli interessi della Repubblica ed il Ducato di Milano: a quest’ultimo (ed al florido Regno di Sicilia), Genova e la Liguria chiedevano soprattutto derrate agricole. L’afflusso di queste verso sud contribuiva ad abbassare il prezzo del grano in una regione assai meno produttiva e manteneva le ciurme della flotta del Doria, la più potente del Mediterraneo tra quelle cristiane, dopo quella della Serenissima. Cospicui quantitativi di prodotti agricoli provenienti dalla Lombardia e dall’Emilia venivano inoltre commercializzati dai mercanti genovesi, con notevoli profitti, anche all’estero. Nel gennaio del 1542, Carlo V in persona accordò al genovese Federico Spinola «que pudiesse sacar fuera del territorio del Casal de la Nosetta de Tortona mil somas de trigo cada año», per gli approvvigionamenti della capitale ligure, senza pagamento di tratta. In realtà il privilegio era di carattere generale, per tutti gli importatori di derrate verso la Repubblica di San Giorgio, e continuamente ribadito dai governatori di Milano. I medesimi privilegi vennero concessi, tra il 1536 ed il 1558, anche a tutti gli acquirenti e vettori di rifornimenti per l’esercito imperiale stanziato in Piemonte. Com’è noto, sin dall’occupazione francese di Torino, capitale degli Stati sabaudi, le truppe di Carlo V, alleato del duca di Savoia, e quelle francesi ed italiane al servizio del Cristianissimo si confrontarono in terra piemontese. Nonostante alcuni effimeri riposizionamenti delle truppe in campo, il fronte della contesa mantenne in buona sostanza la fisionomia del primo anno di guerra, coi francesi ed i loro alleati italiani installati in Val di Susa e nelle fortezze di Torino, Pinerolo, Chivasso e Verolengo e le truppe imperiali dislocate in modo da occupare una corona di presidi (Ivrea, Cuneo, Asti, Vercelli, Cherasco) intorno alle piazzeforti nemiche. La guerra si impantanò dunque in uno scontro di logoramento in cui i contendenti puntavano ad indebolire l’avversario predando e razziando i territori sotto il suo controllo. Tale strategia, unita agli effetti devastanti prodotti dal passaggio in lungo e in largo di eserciti spesso malpagati ed affamati, ridusse il Piemonte ed il Monferrato ad una landa desolata, improduttiva e semi spopolata già agli inizi degli anni ’40. Era dunque naturale che i rifornimenti per uomini e quadrupedi distaccati nelle guarnigioni imperiali venissero richiesti ai popoli lombardi. Non disponendo l’esercito asburgico di un apparato autonomo deputato alla logistica, tali rifornimenti venivano appaltati a dei privati. Questi ricevevano, oltre allo status di pubblici ufficiali (munitionieri), licenze di compravendita e di esportazione, nonché l’esenzione dal pagamento dei dazi di passaggio per tutte le materie prime agricole trasferite all’esercito. Inevitabilmente, una parte considerevole delle derrate esportate gratuitamente dalla Lombardia sotto la copertura di tali appalti, non raggiungeva le guarnigioni da rifornire, ma veniva piuttosto rivenduta ai civili con larghi profitti. Intenzionalmente ho evitato di addentrarmi nel complesso pelago dell’esame dei dati quantitativi. Concludo, nondimeno, osservando che la cosiddetta tratta delle biade continuò a costituire, anche nella seconda fase delle Guerre d’Italia, almeno il 12% delle entrate annue del Ducato di Milano, il cui massimale è stato autorevolmente stimato ad oltre 900.000 scudi (ossia quasi 5.000.000 di lire imperiali). La tratta, soprattutto, rappresentava un cespite di entrata regolare: le rendite che ne derivavano alla Camera, non a caso, erano le più ambite dai finanziatori dello sforzo bellico imperiale, quali garanzie di soddisfacimento dei loro crediti attraverso il sistema degli assegni: anche così menomate, esse rappresentavano dunque un investimento relativamente sicuro. Dobbiamo poi considerare che, nonostante l’impressionante emorragia di beni primari verso l’estero, il prezzo dei grani e delle altre derrate all’interno dei confini del Ducato si mantenne comunque abbastanza basso da evitare sollevazioni e rivolte popolari generali in Lombardia. &* $ Anche grazie all’abbondanza di risorse agricole del suo territorio il Ducato di Milano rivestì, dunque, nella fase finale delle Guerre d’Italia, un ruolo chiave nel consolidamento dell’egemonia asburgica e spagnola nella Penisola e nel conseguimento della spettacolare, quantunque effimera, vittoria degli Austrias sul colosso francese, ufficialmente sancita dalla pace di Cateau-Cambrésis. BIBLIOGRAFIA ALFANI GUIDO, RIZZO, MARIO (a cura di), Nella morsa della guerra. Assedi, occupazioni militari e saccheggi in età preindustriale, Milano, Franco Angeli, 2013. BRANDI, KARL, Carlo V, Torino, Einaudi, 2008. BRAUDEL, FERNAND, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 2010. 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La difficile transizione al moderno nella Milano di età spagnola, Milano, Guerini, 1994. && $ VALORES DE LAS CULTURAS ALIMENTARIAS DE MÉXICO LUZ ELENA SALAS (UNAM Città del Messico) En el relato de la evolución de nuestra especie, los alimentos seleccionados en los tiempos y espacios recorridos tienen un papel preponderante: en tanto significan la energía que construye y hace funcionar la compleja maquinaria que nos hace humanos. A partir de la fotosíntesis, distintas formas de energía nos dan vida. El cultivo y consumo de los principales cereales, del arroz, el trigo y el maíz, han contribuido a la gestación de culturas, al diseño y hechura de herramientas, pirámides y dioses, al desarrollo de ciencia, tecnología y arte. Y cada cultura tiene, en el mestizaje de sabores que crea y recrea, un sustento que le da identidad. La cultura del maíz inicia desde el momento en el que Mesoamérica entiende las posibilidades del teocintle, y a través de generaciones diseña granos y mazorcas, en el marco de la milpa, un policultivo que procura la colaboración de múltiples especies, como las del maíz, frijol, calabaza, chiles y quelites. En la tierra, el frijol fija el nitrógeno que el maíz requiere y por el tallo del maíz, el frijol asciende, luego en la mesa se enriquece la calidad nutrimental de un sinfín de alimentos hechos con el binomio: maíz-frijol. La necesidad de alimentarse, primordial para cualquier ser vivo, es clave del desarrollo humano. Maslow advierte cómo, sin la debida atención a las necesidades fisiológicas, no podrán satisfacerse las demás necesidades inscritas en su Pirámide, y aquí cabe afirmar –como se declaró primero en los ODM y luego en la Cumbre de las Naciones Unidas sobre el Desarrollo Sostenible 2015–, si no se eliminan la pobreza y el hambre, que sufren casi 1,000 millones de personas en el planeta, el tránsito de la humanidad por este siglo, será difícil. Entre tanto, la debilidad y la muerte en los países pobres es una constante, no por falta de alimentos en el planeta, sino por la persistente resistencia social y política para distribuir con equidad lo sustantivo para la vida. La seguridad alimentaria de cada país define las oportunidades que tienen los ciudadanos para alcanzar mejores estados de nutrición, salud, educación, productividad y democracia. Las carencias alimentarias constituyen una limitación estratégica en los ambientes de pobreza, pues sin la energía requerida para sobrevivir, difícilmente pueden superarse otras carencias. Distintos estudios muestran cómo la insatisfacción de la primera necesidad humana, especialmente si ésta ocurre en el período intrauterino, tiene consecuencias físicas, psicológicas y sociales irreversi3 0 * las mismas, lo que disminuye la capacidad de aprender y generar conocimientos, y, de acuerdo con David Barker, la nutrición deficiente de las madres embarazadas se relaciona con un menor peso del producto al nacer, y éste es ya un pronóstico del futuro padecimiento de enfermedades cardiacas, cerebrovasculares, diabetes, obesidad, además de otras de carácter crónico. En tal sentido, el costo que tiene para los sistemas de salud, educación y producción, el no invertir en una solución radical a los problemas de pobreza, hambre y desnutrición infantil, es incalculable, carece de lógica social, económica, política y humana. Y con respecto a los programas aplicados para reducir pobreza, se ha hecho patente a través de distintas evaluaciones, que no es con programas de carácter asistencialista como se superan estos motivos de deterioro social. &- $ En México, la pobreza afecta al 54.4% de la población (Esquivel, 2015) y persiste luego de décadas, por lo que el crecimiento del país no puede seguir un ritmo sostenido. Desigualdad, pobreza y hambre reproducen círculos viciosos que desdibujan una y otra vez los resultados de cualquier programa de desarrollo. Pero, ¿por qué hablar aquí de pobreza y de la trascendencia que tienen las carencias alimentarias, cuando el tema que nos ocupa alude a Valores en las culturas alimentarias de México? Porque se reconoce que la pobreza de mayor impacto individual y social es justamente la pobreza alimentaria, y ésta disminuye las posibilidades de tener dietas completas, variadas, higiénicas, y la oportunidad misma de recrear tradiciones alimentarias, en México como en cualquier otro país donde se padezca. Mas, ¿por qué pobreza alimentaria en países y regiones donde la biodiversidad permite contar con una extensa gama de productos que podrían elevar la calidad de las dietas?, ¿por qué México, cuarto país megabiodiverso del planeta, con una cocina reconocida por la UNESCO, no ha podido erradicar desnutrición, anemia y obesidad? Sin duda, ésta no es una paradoja fácil de explicar. Hay razones políticas, económicas, culturales, educativas y otras relativas al poder de trasnacionales, al impacto de los medios de comunicación que impiden cambiar esta contradicción que afecta en particular a grupos vulnerables, como madres, niños y grupos indígenas. Así, se han opacado valores de las culturas alimentarias regionales de México, culturas que hunden sus raíces en el período prehispánico y en antiguas tradiciones mediterráneas, que hoy constituyen piedras angulares hacia un cambio radical, requerido y viable en materia alimentaria para el presente y futuro del país. Sabemos que Mesoamérica ha sido un importante centro de domesticación y diversificación de un gran número de especies que en la actualidad se consumen en todo el mundo, y son parte ya de diversas culturas alimentarias. Es centro de origen del maíz y del frijol, y su capital natural, cuenta con 15.000 especies de plantas, de las cuales la mitad no se encuentra en otro lugar del planeta. Una extraordinaria muestra de minerales, plantas, animales y del arte culinario de Mesoamérica, entre otras muchas mercancías, se tuvo en el Mercado de Tatelolco. Ahí se intercambiaban productos para la elaboración de alimentos y medicinas, que también los había ya preparados. Bernal Díaz del Castillo describe este gran espacio comercial, y de su Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, se recuperan aquí unas líneas del capítulo XCII: y desde que llegamos a la gran plaza que se dice Tlatelulco, como no habíamos visto tal cosa, quedamos admirados de la multitud de gente y mercaderías que en ella había y del gran concierto y regimiento que en todo tenían. (Díaz del Castillo, 1983: p. 171) Ya quería haber acabado de decir todas las cosas que allí se vendían, porque eran tantas de diversas calidades, que para que lo acabáramos de ver e inquirir, que como la gran plaza estaba llena de tanta gente y toda cercada de portales, en dos días no se viera todo. (Díaz del Castillo: p. 172) En el siglo XVIII, Francisco Javier Clavijero, un jesuita veracruzano exiliado que vivió en Bolonia, afirmó en el libro I de su Historia antigua de México: «Es de admirar que los mexicanos no estuviesen sujetos a muchas enfermedades, considerada la calidad de sus alimentos» (Clavijero, 1982: p. 264). $ &( Sobre la variedad de productos que nutrieron a los antiguos mexicanos, obtenidos de la agricultura, pesca, apicultura, caza y recolección, Fray Bernardino de Sahagún y otros cronistas nos ofrecen una copiosa relación. En la lista de vegetales, están: maíz, frijol, diversas clases de calabaza, jitomate, chiles de diferentes especies, chía, xocoxochitl, quelites, quintoniles, malvas, papaloquelite, epazote, huitlacoche, cacao, amaranto, aguacates, nopales, xoconostles, maguey, chayote, chilacayote, papa, camote, cuajilote, hongos, huanzontle, verdolagas, chipilín, yerba santa, achiote, mezquite, cacahuate, alga espirulina, flores, vainilla, ejote, guamúchil. Entre las frutas se encuentran: tunas, piña, papaya, mamey, pitahayas, guayabas, garambullos, chilacayote, tejocotes, ciruelas, jícama, capulines, piñuelas, chirimoyas, anonas, guanábana, cuajinicuil, rambután, nances, zapotes de distintos colores, cocos, plátanos y nísperos. Además, había una gran variedad de peces, anfibios, serpientes, aves, mamíferos, insectos, gusanos, con los que se preparaban suculentos platillos. Buena parte de estos productos, a los que se suman los de cada región, según la temporada, pueden hoy encontrarse en mercados locales e incluso en supermercados de las áreas urbanas. Aunque, ciertamente, muchos de ellos son etiquetados como “alimentos de gente pobre” y despreciados por ignorar el valor nutrimental que estos contienen y los beneficios que brindan a la salud. Se contrapone a ello el prestigio que imprimen los medios de comunicación a alimentos industrializados, aunque estos sean de menor valor nutrimental y mayor costo que los alimentos autóctonos regionales. Por lo que se hace indispensable una publicidad creativa que prestigie con óptica interdisciplinaria y artística alimentos regionales que hoy ameritan estar en la mesa de las mayorías. Porque, aunque maíz, frijol y chile son la base alimentaria de México, ésta puede enriquecerse con lo que la biodiversidad y la cultura de cada región comprenden como alimentos. Fray Bernardino de Sahagún privilegia, en uno de los huehuetlatolli, la firme convicción de nuestros abuelos en torno a esta necesidad fundamental de los seres humanos: «Los mantenimientos del cuerpo tienen en peso a cuantos viven y dan vida a todo el mundo, y con esto está poblado el mundo todo. Los mantenimientos corporales son la esperanza de todos los que viven para vivir» (Sahagún, 1982, p. 344). Podemos aprender de esta herencia vital y de lo que la ciencia de hoy nos enseña para armo4 las tradiciones alimentarias, con principios axiológicos, lo que contribuiría a la superación de problemas ambientales y de salud que nos apremian. Basta un simple análisis de las principales causas de mortalidad infantil y de los padecimientos que más afectan a la población adulta, para admitir la conveniencia de valorar la filosofía y la experiencia que sustentan a la cocina tradicional mexicana. El proceso de concienciar a cada comunidad y grupo social acerca del valor de lo que mantiene la vida, de cómo podemos imprimir con ello calidad a los años que se vivan, pasa por programas de educación alimentaria, que sin ser la respuesta total a los problemas debidos a carencias o excesos en el consumo, si es una línea sustantiva de la formación humana para la supervivencia, que ha demostrado viabilidad y eficiencia a través de múltiples experiencias, especialmente cuando éstas se aplican de manera continua (Chávez Zúñiga et al., 2003). Cuando la variedad de productos comestibles a los que se tiene acceso en el entorno es más amplia que la de los productos que integran las dietas de una comunidad, la estrategia de tender un puente educativo que enamore a las personas de los productos regionales es una vía que propicia la generación proyectos de vida saludable. A continuación se muestran elementos que ilustran el potencial alimentario por revalorar para promover un consumo saludable en los estados de San Luis Potosí, Morelos y Oaxaca. En cada &. $ uno de estos estados hay una amplia gama de productos que requieren ser mejor conocidos y apreciados por su variedad, aporte nutrimental, posibilidades culinarias y valor cultural. El Estado de San Luis Potosí, con 61,137 Km2 y una población de 2,586 millones de habitantes (2010), ubicado en el centro-norte del país, tiene en su territorio llanuras semidesérticas que contrastan con bosques de niebla y un sinnúmero de cascadas en la región de la Huasteca Potosina. Se enlistan aquí diversos productos vegetales y animales que sirven como alimento y pueden integrar dietas completas y diversas: acelga, aguacate, ardilla, armadillo, garbanzo, berro, biznaga, bolimes, camotes, capulín, caracoles, cebolla, chachalaca, chamal, chapulines, chilacayote, chiles, chinches de mezquite, chirimoyas, chochos de la palma, ciruelas, codorniz, conejo, culebra de agua, faisán, flores de colorín, flores de nopal, flores de palma, frijoles del monte, gallina silvestre, gato montés, granada, guajolote, gusanos de las palmas, gusanos de maguey, gusanos de palma, hongos del bosque, hormigas rojas, huevos de palomas, huitlacoche, iguana, jabalí, jacube, jitomate, larvas de abejas de colmena, larvas de avispas rojas o negras, larvas de la tierra, lechuga, lima, limón, maguey, mapache, mezquites, miel de abeja, miel de maguey, miel de palma, moras, naranjo, nogal, nopal, palmas, palomas, piloncillo, pinole, pitaya, plátano, pulque, quelites, quiotes, rábanos, ranas, rata, ratón de maguey, rejalgares, semillas de patol, talayote, tamales de masa de garbanzo con epazote, tamarindo, tejocote, tejón, tigrillo, tlacuaches, tomates, tórtolas, tunas, uvas, venado, verdolagas, víbora de cascabel, zacahuitl, zapote blanco, zapote negro, zopilote, zorra, zorrillo. Esta relación de plantas y animales comestibles, derivada de la consulta hecha a distintas comunidades potosinas, contrasta con las dietas monótonas, limitadas al consumo de tortilla, frijol y chile que prevalecen entre la población. El Estado de Morelos tiene una superficie de 4,961Km2 y una población de 1,777 millones de habitantes (2010). Se localiza al centro de la República mexicana, está rodeado por sierras, lo surcan ríos y lagunas, comprende distintos climas: frío subhúmedo, semicálido subhúmedo y cálido subhúmedo. En el caso del Estado de Morelos, se obtuvo información particular de la Sierra de Huautla, área natural protegida, donde Angélica Alemán Octaviano, de la Facultad de Ciencias Biológicas de la Universidad Autónoma del Estado de Morelos, preparó su tesis de licenciatura en Biología (2003). En ella, refiere el aporte nutrimental de distintas plantas comestibles que la población tiene a su alcance. A continuación se describe el contenido de cinco de las plantas del Estado de Morelos, estudiadas por Angélica Alemán. CHIPIL Crotalaria pumila Ort. FABACEAE LÍPIDOS MINERALES Grasas totales 0.30gr VITAMINAS Calcio 368mg Retinol 667mcg Fósforo 72mg Ácido ascórbico 50mg Hierro 4.70 mg Tiamina 0.30 mg Riboflavina 0.21mg Niacina 1.10mg La tabla está calculada con base a 100 gr de alimento crudo en peso neto. &/ $ CIRUELA Spondias purperea L. ANACARDIACEAE LÍPIDOS MINERALES Grasas totales 0.40gr VITAMINAS Calcio 15mg Retinol 11mcg Hierro 0.80mg Ácido ascórbico 12mg Magnesio 9mg Tiamina 0.05mg Riboflavina 0.03mg Niacina 0.90mg Piridoxina 0.20mg La tabla está calculada con base a 100 gr de alimento crudo en peso neto. COLORÍN Frythrina americana Mill. FABACEAE LÍPIDOS MINERALES Grasas totales 0.20gr VITAMINAS Calcio 108mg Retinol 13mcg Hierro 2.40mg Ácido ascórbico 37mg Tiamina 0.19mg Riboflavina 0.19mg Niacina 1.20mg La tabla está calculada con base a 100gr de alimento crudo en peso neto. PAPALOQUELITE Porophyllum ruderale var. macrocephalum. Crona (DC.) ASTERACEAE LÍPIDOS MINERALES Grasas totales 0.30gr VITAMINAS Calcio 361. 00mg Retinol 129.00mcg Fósforo 17.00mg Ácido Ascórbico 19.00mg Hierro 2.40mg Tiamina 0.08mg Riboflavina 0.20mg Niacina 0.30mg La tabla está calculada con base a 100gr de alimento crudo en peso neto. VERDOLAGA Portulaca oleracea L. PORTULACACEAE LÍPIDOS MINERALES Grasas totales 0.30gr VITAMINAS Calcio 86.00mg Retinol 279.00mcg Hierro 1.90mg Ácido ascórbico 13.00mg Magnesio 68mg Tiamina 0.02mg Sodio 45mg Riboflavina 0.10mg Potasio 494mg Niacina 0.60mg La tabla está calculada con base a 100gr de alimento crudo en peso neto. &0 $ La tarea de consignar la información nutrimental de éstas y más plantas comestibles de la Sierra de Huautla del Estado de Morelos constituye indudablemente un avance. Mas se requiere ir más allá, e indagar sobre cuál es su significado cultural, qué fórmulas culinarias se han seguido para prepararlas e incluso sobre el uso medicinal que las mismas han tenido, para luego difundir la información obtenida y concienciar a las comunidades del valor nutricio, medicinal y tantas veces simbólico de las plantas autóctonas identificadas. El Estado de Oaxaca, ubicado al suroeste del país, tiene 93,757 Km2 y 3,802 millones de habitantes. A su territorio lo atraviesan la Sierra Madre Oriental, la Sierra Madre del Sur y la Sierra Atravesada, cuenta con áreas naturales protegidas en selvas húmedas y secas, bosques mesófilos y templados. Tiene 600 kilómetros de costa en el Océano Pacífico. En su territorio viven más de 16 grupos étnicos. En este estado, destaca la paradoja que se vive en el cuarto país megabiodiverso del planeta, pues siendo la entidad con la mayor diversidad biótica del territorio nacional y donde se conservan ricas tradiciones alimentarias, padezca graves problemas de desnutrición y avitaminosis. De ahí entonces que se afirme la necesidad de invertir en proyectos educativos que permitan a la población conocer, valorar, recrear y aprovechar mejor los alimentos locales y regionales, a fin de superar estos estados de salud. Al respecto, hay preguntas clave que apoyan el proceso de hacer conciencia acerca del valor de los alimentos. La reflexión relativa al por qué y para qué comer, al qué y cómo comer es in4 0 tiene al procurar dietas completas, variadas e higiénicas, en entornos afectivos, así como la necesidad de aquilatar los alimentos del lugar, en favor de una vida sana. Un estudio realizado entre 1982 y 2007 en siete comunidades zapotecas netzichu, ubicadas al noreste de Oaxaca, confirmó la oportunidad de diseñar una estrategia que permitiese responder al antagonismo que implica tener una gran riqueza biótica e importantes tradiciones culinarias, ahí donde a la vez prevalecen carencias nutricias. Un dato que revela la distancia entre el potencial alimentario y el consumo cotidiano en estas comunidades lo ilustra la lista elaborada con 138 productos a los que se puede acceder, mientras son tres (tortilla, frijol y chile) los que integran la dieta de la población. Los objetivos generales del Programa de Educación Alimentaria, aplicado en las escuelas primarias durante las tres etapas que se siguieron, fueron los siguientes: 1. 2. 3. Que los docentes consideren la importancia de una alimentación saludable en el desarrollo integral y en la capacidad de aprendizaje de los educandos. Que los escolares adviertan las relaciones entre: alimentación - vida - crecimiento - desarrollo físico, mental y social - capacidad de estudio y trabajo - salud y calidad de vida. Que los escolares conozcan, valoren y aprovechen los alimentos que la biodiversidad y las tradiciones alimentarias regionales les ofrecen, con atención a los principios de una alimentación completa, variada e higiénica, en entornos afectivos. En el ejercicio del programa intervinieron distintos organismos e instituciones, aunque los principales protagonistas fueron los profesores, médicos, enfermeras, padres de familia y alumnos, quienes apreciando el carácter cogestionario del programa, participaron con responsabilidad y entusiasmo en las actividades de investigación, operación y evaluación programadas anualmente. Dos testimonios, refieren actividades del trabajo realizado: &' $ Los alumnos elaboraron sus carteles aclarando las ventajas que tiene el consumir alimentos 5 6 0 dadera cultura alimentaria regional mexicana. Nuestro propósito es que mejoren en su peso y talla para que de esta manera tengan un mejor aprendizaje. (Profesora Ma. Del Carmen Hernandez G. / Escuela “Emilio Carranza”, Tanetze de Zaragoza, Villa Alta, Oax.) Por experiencia personal, puedo citar que los resultados que se logran en la aplicación del Programa son óptimos, pues pueden correlacionarse con los contenidos escolares que impartimos en las distintas asignaturas. A decir bien, la base de un buen aprovechamiento escolar es la alimentación: esto no quiere decir que se tenga que hacer un gasto exagerado para adquirir los productos que se darán a los hijos sino, más bien, consumir todos aquellos que en la comunidad se producen. En las comunidades donde me he desempeñado como profesor de educación primaria – cito: Sta. María Yaviche, San Miguel Yotao y actualmente Talea de Castro – he tenido la oportunidad de realizar actividades acordes con el Programa de Educación Alimentaria. Finalmente deseo que el espíritu de colaboración para comunidades como las nuestras que han tenido la UNAM y FUNSALUD, etcétera, siga siendo en pro de nuestra niñez y juventud indígena para no perder nuestra identidad cultural. (Profesor Zenón Reyes Gómez. / Escuela “Unificación”, Talea de Castro, Villa Alta, Oax.) El Programa de Educación Alimentaria que inició en tres comunidades, se extendió a siete del Rincón Zapoteca, atravesó el ámbito de la Jurisdicción Sanitaria N° 6 de la Secretaría de Salud del Estado de Oaxaca y, gracias a Caritas de México, llegó a 143 comunidades de Chiapas y, con el apoyo de la Coordinación General del Programa IMSS-Solidaridad, a 43 Centros de Recuperación Nutricional en 17 entidades de la República mexicana. El hilo conductor que dio sentido a todas las actividades educativas durante veinticinco años fue el lema que miembros de las comunidades redactaron en el zapoteco de su región como: “Gunruú banns le dé quieru quie sotzcaru chllia”, que significa: “Vamos a aprovechar lo que tenemos para vivir sanos y felices.” A partir de la experiencia obtenida del Programa de Educación Alimentaria y de los programas realizados simultáneamente por distintas instituciones en la misma zona, se tiene la convicción de que la escuela es un lugar estratégico para forjar en las nuevas generaciones la capacidad de valorar la cultura alimentaria local y la conciencia de vincular la calidad de los alimentos que se consumen con la calidad de vida a la que se aspira. Aquí resulta interesante que, luego de nueve años de haber “concluido” el trabajo, cuando no se sabe qué quedará del trabajo realizado, en estas escuelas donde el cambio continuo de docentes es lo normal, recientemente se pudo constatar, gracias a una madre de familia, que en la escuela “Unificación” de Talea de Castro continúa vigente la medida adoptada por los padres de familia, quienes votaron en una asamblea (2006) la supresión del consumo de “alimentos chatarra” en el ámbito escolar, por dos motivos: 1. La atención que les merece la nutrición de sus hijos –quienes a la hora del recreo consumirían alimentos preparados en sus casas: quesadillas, tacos, tamales, atole…, fruta y verdura–, y 2. Para evitar el aumento de basura en la comunidad con envases y envolturas. En México, si bien la pobreza, la ignorancia, el impacto de los medios de comunicación y el tratamiento marginal del tema en los planes de estudio de los diferentes niveles educativos, pueden explicar la limitada recreación de los valores del sistema alimentario y la preferencia de muchos– especialmente de niños y jóvenes– por los “alimentos chatarra”, hay razones que nos comprometen, especialmente a los educadores, a trabajar por valorar el mestizaje alimentario que se cocina con aromas y sabores de Mesoamérica y del Mediterráneo. &, $ El reconocimiento de la UNESCO a La cocina tradicional mexicana, cultura comunitaria, ancestral y viva ( ) ) 7 8 )9:-;29 0 < * cabo entidades públicas y privadas y personas que entienden lo que representa esta herencia cultural que nos da vida e identidad, son una muestra de la responsabilidad social compartida, pero también de las fiestas por celebrar. 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Síntesis: conocimiento actual, evaluación y perspectivas de sustentabilidad, México, Comisión Nacional para el Conocimiento y Uso de la Biodiversidad, 2009. -+ $ SOR JUANA INÉS DE LA CRUZ: DALLE “FILOSOFIE DA CUCINA” ALLE “LETTERE FIGURATE” PATRIZIA SPINATO B., ROMEO TRAVERSA (CNR-ISEM, Milano - IED, Milano) La figura e l’opera di Sor Juana Inés de la Cruz (San Miguel de Nepantla 1651 – Città del Messico 1695) sono un affascinante inno al sapere e non possono mancare nell’excursus interdisciplinare ed intercontinentale offertoci da questo seminario organizzato dal CNR nell’ambito delle iniziative generate dall’Esposizione internazionale milanese. Bella e discreta, Sor Juana incarna gli ideali e le proiezioni degli spiriti eletti che amano la cultura e la perseguono con ogni mezzo. Dotata di qualità umane ed intellettuali eccelse, fin dai primi anni di vita ignora gli ostacoli che per nascita, sesso, età le avrebbero impedito di accostarsi non solo allo studio, ma anche alla piú elementare alfabetizzazione, e trasforma ogni momento della vita quotidiana in occasione per riflettere ed imparare. Segue le lezioni private della sorella maggiore, divora i libri presenti nelle biblioteche dei familiari, progetta di travestirsi da uomo per intro, = privarsi del formaggio, che secondo alcuni impedisce l’apprendimento, o a tagliarsi i capelli quando non raggiunge un prestabilito obiettivo. Se a tre anni sa leggere e scrivere speditamente, ad otto comincia a comporre versi, apprende il latino in venti lezioni e ancora adolescente viene interrogata da una commissione di quaranta accademici ed eruditi e si difende senza alcuna fatica. La sua condizione di illegittimità e l’irrefrenabile sete di sapere la inducono a rinunciare alla vita matrimoniale e a cercare tranquillità e riparo tra le mura di un convento: se la prima clausura tra le carmelitane scalze le appare troppo rigida, la regola di San Gerolamo ben si addice alle sue aspirazioni. Il suo appartamento diviene biblioteca, gabinetto riceve non solo le consorelle ma anche gli intellettuali e la nobiltà messicana. Il suo genio si declina nelle forme letterarie piú disparate e si misura con i dibattiti filosofici e teologici piú raffinati, tanto da destare invidie e rivalità, soprattutto tra il clero. Viene ripetutamente invitata a limitare l’ambito dei suoi interventi, ad attenersi alla scrittura di argomento sacro, a dedicarsi maggiormente alla vita comunitaria. Confessione, timbri neri su fogli assemblati, cm 59 X 350. $ -* Il tentativo di reprimere la sua vocazione e di offuscare le sue doti riesce ad opera dell’ottusità del suo confessore, Antonio Núñez de Miranda, che la convince, poco piú che quarantenne, a confessare pubblicamente i propri peccati, a rinunciare a tutte le attività mondane, a svendere il suo ingente patrimonio librario, musicale e scientifico in favore dei poveri della città. Nei pochi mesi che le restano di vita, prima del contagio della peste Y cuando con más terneza, timbri neri su fogli assemblati, cm 178 x 84. che falcidiava la capitale della Nuova Spagna, si concede la redazione di due componimenti ad uso conventuale, mentre la sua fama, già ben radicata in Europa, vede l’elaborazione del terzo volume dei suoi scritti, che in pochi anni raggiunge nuovamente le cinque edizioni. Sor Juana si cimenta con le forme letterarie piú diverse, a seconda dell’estro e delle occasioni, senza preconcetti tematici, linguistici, formali. Prosa, poesia, teatro riflettono una formazione accurata, che le permette di rendere un ambito sociale variopinto. La monaca passa senza fatica dalle lingue classiche a quelle indigene, dai componimenti aulici a quelli popolari, sempre con felice esito. Di recente attribuzione è un quaderno di ricette –rintracciato nel 1979 e pubblicato in Messico nel 1996– copiato da un Libro de cocina di quel convento di San Gerolamo dove la monaca trascorre ventisette anni di clausura. Le ricette sono precedute da un sonetto ascritto a Sor Juana e da una firma finale, ma neppure la perizia della Procura della Repubblica messicana può dissipare i dubbi intorno all’autenticità del testo. In realtà nulla cambierebbe per la fama della Fenice del Messico, che avrebbe potuto facilmente piegarsi alla modesta richiesta di una consorella, ma è difficile credere che si possa essere applicata ad un’opera cosí limitata, in cui seleziona e ricopia parte del ricettario del convento. Per quanto l’uso americano di poter disporre di personale di servizio, in passato come nel presente, in casa come in convento, abbia sempre sollevato Juana dagli obblighi domestici, sappiamo per certo che non disdegnò del tutto gli impegni culinari. Nelle sue opere non mancano -& $ riferimenti gastronomici, seppur circoscritti e ben delimitati, ma atti a dare dignità ad attività quotidiane femminili spesso disprezzate dalla mentalità corrente maschile. In tal modo, lo spazio della cucina diviene laboratorio di affettuose attenzioni, come si evince dal Romance 23, dal titolo En retorno de una diadema, representa un dulce de nueces que previno a un antojo de la Señora Virreyna, contessa di Paredes. Nella composizione, la suora racconta di un passato desiderio della Marchesa, incinta, che lei decide di anticipare a distanza di un anno su suggerimento di Apollo: «entonces, pues, digo que, / antojo o capricho fuera, / por unas nueces hiciste / más ruido que valen ellas.» Oppure osservatorio scientifico: nella Respuesta a Sor Filotea de la Cruz, racconta come la farina le serva per studiare le geometrie di una trottola lanciata per gioco da alcune fanciulle e sottolinea quanti segreti naturali emergano mentre si cucina: «Veo que un huevo se une y fríe en la manteca o aceite y, por contrario, se azúcar se conserve fluida basta echarle una muy mínima parte de agua en que haya estado Sor Juana Inés de la Cruz (croce), timbri neri su fogli assemblati, cm 72 x 89. clara de un mismo huevo son tan contrarias, que en los unos, que sirven para el azúcar, sirve cada una de por sí y juntos no». E anticipando il dileggio della consorella, che protegge l’anonimato del vescovo di Puebla, si schermisce con una domanda retorica e una chiosa: «¿qué podemos saber las mujeres sino filosofías de cocina? Bien dijo Lupercio Leonardo, que bien se puede filosofar y aderezar la cena. Y yo suelo decir viendo estas cosillas: Si Aristóteles hubiera guisado, mucho más hubiera escrito». L’ansia di sapere tutto utilizza e tutto esalta, superando le mortificazioni ed i limiti imposti dalla grettezza imperante. Sor Juana finisce per piegarsi alla volontà dei superiori ed annullarsi agli occhi del mondo, come testimoniano le commoventi professioni vergate con il proprio sangue e qui suggestivamente reinterpretate dalle lettere figurate di Romeo Traversa. -- $ BIBLIOGRAFIA https://www.behance.net/gallery/25606557/Libro-dartista-Yo-la-peor-del-mundo-(2015) https://www.behance.net/gallery/31935129/SOR-JUANA-INES-DE-LA-CRUZ-(2015) http://www.cervantesvirtual.com/portales/sor_juana_ines_de_la_cruz/ BELLINI, GIUSEPPE, Sor Juana e i suoi misteri. Studio e testi, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1987. —, L’opera letteraria di Sor Juana Inés de la Cruz, Varese, Cisalpino, 1964. CRUZ, SOR JUANA INÉS DE LA , Obras completas, México, Editorial Porrúa, 1992. MORINO, ANGELO, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Palermo, Sellerio editore, 2000. REGAZZONI, SUSANNA (a cura di), «Por amor de las letras». Juana Inés de la Cruz. Le donne e il sacro, Roma, Bulzoni Editore, 1996. SÁINZ DE MEDRANO, LUIS (Edición al cuidado de), Sor Juana Inés de la Cruz, Roma, Bulzoni Editore, 1997. Sor Juana Inés de la Cruz (tondo), timbri neri su fogli assemblati, cm 100 x 100 . -( $ COMO AGUA PARA CHOCOLATE, ENTRE ESENCIA Y EXISTENCIA CRISTINA FIALLEGA (Università di Bologna) En el ámbito de este encuentro centrado sobre la relación entre comida y cultura, que se desarrolla la novela Como agua para chocolate, de 1989, de la escritora mexicana Laura Esquivel. Se trata de la primera novela de Esquivel, que hasta entonces se había dedicado principalmente al teatro y al cine, con la cual, sin embargo, la escritora obtuvo una inmediata acogida internacional mientras el libro se tradujo en 35 idiomas. En 1994, la obra fue declarada por American Bookselleres, «Book of the Year», conferido por primera vez a un escritor extranjero. La novela, en la que se conjugan con originalidad la estructura de un recetario, el tema del amor imposible y el estilo del realismo mágico – por realismo mágico entendemos la retórica inclusiva en la que las diferencias entre lo natural y lo sobrenatural se funden unas en otras y cuyas figuras retóricas más representativas son la hipérbole, la sinécdoque, el oxímoron y la enumeración –, propone la reflexión ontológica sobre una sociedad e inaugura el meta género narrativo que interpreta una realidad social mediante lo que ahí se come. Siguieron, como se sabe, en ámbito hispanoamericano, Afrodita de I. Allende, La Señora de la miel de F. Buitrago e Intimas suculencias de la misma Esquivel y, entre otros, en ámbito anglófono, Fasting, Feasting, de A. Desai y Banana-Flower Dreams, de B. Sharma. El título, que se refiere al grado máximo de calor, hirviente, en que debe estar el agua para preparar el chocolate – aunque en realidad hubo muchos modos de tratar los granos de cacao en el México prehispánico, solo Bernardino di Sahagún recuerda ocho en la población nahua – aquí, por analogía, alude no solamente al dicho popular que atribuye a la expresión un estado de ánimo que quema, un gran enojo o una gran pasión que implica al cuerpo y al alma, sino que metaforiza a una persona, a Tita, la cual, a su vez, representa a un grupo social: la mujer mexicana de la frontera con Estados Unidos en vísperas de la Revolución. Recordamos que la lucha armada que caracterizó la primera etapa de la Revolución mexicana (1910-1917) empezó en la Ciudad de México y se extendió hacia el Norte con Pancho Villa, cuyo principal enemigo eran los hacendados y los ricos rancheros como la familia De la Garza, a la que pertenece la protagonista de la novela. Como agua para chocolate indica, además, al principal personaje de la novela y ésta nos habla de su sangre y sus lágrimas que, mezcladas con los ingredientes de la comida, producen un tipo de manjar ‘divino’, taumatúrgico y capaz de modificar la existencia y el destino de los demás. Tita, como los antiguos mayas y aztecas, usa los alimentos en modo ritual y en el rancho de su madre es la cocinera y, podríamos decir, la sacerdotisa. En la casa De la Garza la consumación de los alimentos se encuentra en relación directa con la ceremonia y la fiesta, pero también con las vicisitudes sociales y económicas que afectan a la familia. El título de la novela refleja también el hibridismo cultural de la sociedad mexicana poscolonial, puesto que son los europeos que, al agregar agua caliente, leche y azúcar, generan la cultura del chocolate. En cambio, el subtítulo del libro, Novela de entregas mensuales, con recetas, amores y remedios caseros nos habla de la estructura, del contenido y del tiempo de la novela que, -. $ en apariencia, es de un año, pero que en realidad abarca la historia de cuatro generaciones de mujeres de la familia De la Garza, mediante el relato de la vida y del único amor de Tita, Josefita De la Garza, la última de las hijas de Doña Elena, la propietaria del rancho. El libro reproduce el formato de los llamados ‘calendarios para señoritas’ que mensualmente, en la segunda mitad del siglo XIX, publicaban consejos, remedios, recetas y cuentos que hacían soñar a jovencitas y solteronas que se disponían a su futuro de esposas, madres y amas de casa. Empieza en enero, con un plato natalicio, y termina en diciembre. A cada mes corresponde una receta y algo de las vicisitudes de la vida de Tita y del rancho. La historia nos la cuenta la hija adolescente de Esperanza, es decir, la sobrina de Tita, que festeja su cumpleaños preparando las tortas de Navidad. El relato es circular pues, mediante una retrospección, nos lleva, durante la preparación de la receta, al día del nacimiento de Tita para concluir con la última receta del libro, la de diciembre de 38 años más tarde, el día del matrimonio de Esperanza, la mamá de la voz narrativa. Al final de la novela la hija de Esperanza nos revela que lo que hemos leído está escrito en el recetario de Tita. Nos adentramos en la lectura siguiendo el recorrido de la autora, es decir, considerando la receta de cada mes y citando los momentos que, para nosotros, reflejan mejor la fusión entre esencia y existencia. Enero Tortas de navidad Nos cuenta del nacimiento de Tita, de su encuentro con Pedro y de la imposibilidad de su amor por la decisión de la madre Elena de casar a Rosaura, la hija mayor, con el amado de Tita. El autoritarismo materno, el modo en que conduce la casa, trata a la servidumbre y a las hijas, refleja claramente una sociedad dictatorial. En el rancho de Elena, la última hija de la familia no se podía casar pues tenía que cuidar a su madre hasta la muerte. El destino trágico de Tita está anunciado desde el momento en que nace en un mar, literalmente, de lágrimas: Dicen que Tita era tan sensible que desde que estaba en el vientre de mi bisabuela lloraba y lloraba cuando ésta picaba cebolla […]. Un día los sollozos fueron tan fuertes que provocaron que el parto se adelantara. […] Tita fue empujada a este mundo por un torrente impresionante de lágrimas que se desbordaron sobre la mesa y el piso de la cocina. En la tarde Nacha [la cocinera del rancho que acompañó y enseñó a Tita sus secretos culinarios hasta el día del matrimonio de Rosaura, en que murió dejando como herencia a Tita toda la tradición culinaria mexicana] barrió el residuo de las lágrimas [y] con esa sal rellenó un costal de cinco kilos que se utilizaron para cocinar por bastante tiempo. (New York, Anchor Books Doubleday, 1994, p. 4. Nuestras citas corresponden a esta edición de la cual, en adelante, citaremos solamente el n. de página.) Esta alegoría hiperbólica, a la manera del realismo mágico, habla ya del elemento príncipe de la novela: las lágrimas. Madre e hija unidas por el llanto, la cocina y la tradición familiar. La > porque ahí nació, sino porque dio sabor con la sal de sus lágrimas a la comida de la familia por mucho tiempo. La cocina es su mundo y su casa, el lugar en donde jugó, durmió, amó y cambió la vida y el destino de sus comensales y huéspedes. > habitación, ni un lugar de recreo, se le encuentra sólo en la cocina y en el comedor: «la casa natale [dice Bachelard en su La poetica dello spazio] è qualcosa più di un insieme di alloggi, è un corpus di sogni». De hecho la visión del mundo de Tita se expresa sólo en términos -/ $ culinarios, por ejemplo, en el momento en que se enamora de Pedro, «comprendió perfectamente lo que debe sentir la masa de un buñuelo al entrar en el aceite hirviendo» (p. 15). Febrero Pastel Chabela, de boda Pedro le explica a Tita que se casará con su hermana Rosaura para vivir junto a ella. No se explicaba [Nacha] de dónde había sacado [Tita] nuevas lágrimas, pero las había sacado y alterado con ellas la textura del turrón […] una inmensa nostalgia se adueñaba de todos los presentes en cuanto le daban el primer bocado al pastel. Inclusive Pedro, siempre tan propio, hacía un esfuerzo tremendo por contener las lágrimas y Mamá Elena que ni cuando su esposo murió había derramado una infeliz lágrima, lloraba silenciosamente (p. 38). A través del pastel preparado por Tita, su dolor embiste a todos los comensales: lágrimas y nostalgia de amores perdidos caracterizan las bodas de Rosaura y Pedro. Marzo Codornices en pétalos de rosas Pedro le regala a Tita un ramo di rosas y mamá Elena le ordena que lo tire. Tita se aferra a las rosas pensando en cómo conservarlas: Tita apretaba las rosas con tal fuerza contra su pecho que, cuando llegó a la cocina, las rosas que en un principio eran de color rosado, ya se habían vuelto rojas por la sangre de las manos y el pecho de Tita […]. De pronto escuchó claramente la voz de Nacha, dictándole al oído una receta prehispánica donde se utilizaban pétalos de rosa (p. 47). Nuevamente la esencia de Tita, su pasión, se trasmite trámite su guisado a los comensales. La pasión y la sensualidad que a través de la sangre condimentan las codornices destruyen los frenos inhibidores de todos los que prueban el exquisito manjar. Nos encontramos ante una doble analogía basada en el sincretismo religioso de la cultura mexicana: la católica de la Ostia, cuerpo y sangre de Jesús, que da a quien la come la esencia del Cristo, y la azteca en la que, al revés, es la sangre del hombre que mantiene en vida a la deidad. La primavera, las rosas, el amor y la sangre son los principales ingredientes de las codornices. En un creciendo, del agua de las lágrimas de febrero se pasa a la sangre y a la sensualidad de marzo. [Gertrudis] empezó a sudar y a imaginar qué se sentiría ir sentada a lomo de un caballo, abrazada por un villista,[…] oliendo a sudor, a tierra, a amaneceres de peligro e incertidumbre, a vida y a muerte (p. 50). La crisis del régimen autoritario –entre los grupos de presión que apoyaban a Don Porfirio estaba precisamente la categoría de los hacendados latifundistas– se evidencia con la actitud de Gertrudis, la segunda hija de Doña Elena, que precisamente durante el banquete de las codornices escapa con los revolucionarios. Abril Mole de guajolote con almendras y ajonjolí El plato de las fiestas que mejor representa México es precisamente el mole, que mezcla lo dulce con lo salado y lo picoso, pues lleva entre sus ingredientes el chocolate mezclado con gran variedad de chiles. En la casa De la Garza se festeja el bautizo de Roberto, y Rosaura no tiene leche para dar de mamar a su hijo. Así Tita, apoyándose en el amor que siente por el pequeño de su amado, logra hacer brotar la leche de su pecho que da al niño a escondidas: -0 $ El niño se pescó del pezón con desesperación […] hasta que sació por completo su hambre y se quedó plácidamente dormido, […]. Tita era en ese momento la misma Ceres personificada, la diosa de la alimentación en pleno (pp. 63, 81). El evento casi milagroso del lactar y la consiguiente euforia de Tita durante la preparación del mole, así como la alegría de los comensales, nos confirman la dimensión metafísica de la relación entre comida/existencia y sentimientos/esencia de esta novela. Laura Esquivel es considerada una defensora de los derechos de la mujer y lo es. Sin embargo, de su novela se desprende claramente que no adhiere a los valores feministas, ni a los que aplanan la diferencia de género. Esquivel defiende y reivindica la valorización de las diferencias entre las cuales se encuentra la maternidad y el lactar a los hijos. En Intimas suculencias, que puede considerarse como un meta texto de Como agua para chocolate, Esquivel dice, refiriéndose a la revolución rusa: «parecía que el verdadero cambio, no solo de la mujer, sino de la sociedad, tuviera que ser generado fuera de los hogares. Parecía que la reproducción, femenina, fuera menos importante que la producción, masculina». De hecho, las mujeres de la familia De la Garza que ejercen un rol masculino lo hacen en modo casi grotesco, como el del dictador con enaguas y sin sentimiento de Mamá Elena y el del comandante macho de la generala Gertrudis, que trata a sus soldados como los machos mexicanos tratan a sus mujeres. Mayo Chorizo norteño Con el pretexto de los riesgos de la revolución, Mamá Elena logra mandar a Texas a Pedro y su familia. Roberto, sin alimentación, muere poco tiempo después. Ambos hechos tiene repercusiones muy graves en la vida de Tita y, por consecuencia, del rancho. Tita tomó todos los chorizos que encontró y los partió en pedazos, gritando enloquecida […]. Mamá Elena se acercó, tomó una cuchara de madera y le cruzó la cara con ella. – ¡Usted es la culpable de la muerte de Roberto! […] una semana después encontraran los chorizos invadidos de gusanos en la bodega donde los habían puesto a secar (p. 100). La preparación de los chorizos, interrumpida por el pleito y la fuga de Tita, obligan a Mamá Elena a que termine la elaboración de los embutidos y llevan a la ineluctable pudrición de los mismos. Puesto que Tita parece enloquecida, su madre manda llamar al médico: «Muy bien, si está como loca va a ir a dar al manicomio. En esta casa no hay lugar para dementes» (p. 101). Llega el doctor Brown, que es un norteamericano de origen kakapu, de los indios de Norteamérica, y que «al atardecer bajó con Tita ya vestida, la subió en su carretela y se la llevó» (p. 101). Junio Masa para hacer fósforos Esta receta es simbólica, pues la prepara el Dr. Brown que está enamorado de Tita y que le ofrece un alimento interior, la luz y el calor humano del que ha carecido siempre. En vez de trasladarla al manicomio, el médico se lleva a Tita a su casa, en donde ella encuentra a Luz del Alba, la abuela difunta del doctor: «Levantó la vista y le sonrió […] le ofreció una taza de ese delicioso té [y] se estableció entre ellas una comunicación que iba más allá de las palabras» (p. 111). Este encuentro, que va más allá de las palabras, nos permite hablar del hibridismo cultural de todas las zonas de frontera que se enriquecen mutuamente con elementos de la cultura vecina. La novela exalta sobre todo el contacto humano, la comunicación que se da más allá de las -' $ palabras, un encuentro en donde no hay diálogos sino acciones. Junio es el mes del calor, de la luz y de la armonía que se desprende del encuentro entre diversos, por sexo, origen, cultura y procedencia. El capítulo privilegia la esencia respecto a la existencia. Julio Caldo de colita de res Chencha va de visita a casa del Dr. Brown con un plato de caldo para Tita, precisamente cuando ella siente nostalgia de su pasado, de sus recetas y de la satisfacción de dar de comer. Tras John entró Chencha bañada en lágrimas. El abrazo que se dieron fue breve, para evitar que el caldo se enfriara. Cuando dio el primer sorbo Nacha [su nutriz] llegó a su lado y le acarició repetidamente la cabeza mientras comía, como lo hacía cuando era niña (p. 124). El breve abrazo de las mujeres no logra representar el cariño que las une como lo hace el caldo caliente. Un té y un caldo caliente preparados por manos maternas, indígenas, difuntas pero siempre vivas. De regreso, Chencha encuentra el rancho invadido por los soldados que la violan y que le rompen con un fusil la espalda a mamá Elena, dejándola parapléjica. Tita regresa a su casa para cuidar a su madre la cual, temiendo que Tita la pueda envenenar con la comida, cada vez que come se toma una buena dosis de antídoto que en poco tiempo la lleva a la tumba. Rosaura y Pedro regresan para el funeral y se quedan en el rancho. Agosto Champandongo Es una especie de albondigón que Tita prepara para anunciar su compromiso con John Brown. La mezcla de ingredientes y de sentimientos es la característica principal de este plato, que refleja el desconcierto en la vida del rancho. Madre Elena muerta, Chencha casada y lejana, Rosaura que decide seguir con Esperanza la tradición de la hija menor y el malhumor generalizado se reflejan en la carne molida del albondigón: «Tita literalmente estaba como agua para chocolate se sentía de lo más irritable. [Todo] la molestaba» (p. 159). Sin embargo, en ese día Pedro y Tita consuman su unión en el cuartito oscuro que había sido el baño de mamá Elena y que el amor llena de luz. Esquivel recurre a la metáfora tradicional del fuego para representar la pasión de amor, pero la vuelve eficaz mediante la hipérbole. La luz que filtra del cuarto hace nacer el miedo del fantasma y permite a Pedro y a Tita que conviertan el lugar de la intimidad de mamá Elena en su nido de amor. Así, la consumación del amor imposible, que rige la fábula de la novela, es la parte más irónica de la misma. Septiembre Chocolate y roscas de Reyes Gertrudis vuelve al rancho casada y al mando de un pelotón por lo que se decide hacer fiesta. Chencha ha vuelto casada también. Rosaura le pide consejo a Tita para recuperar a su marido. Tita rompe su compromiso con el Dr. Brown. Mientras, en la cocina el protagonista de este capítulo es el chocolate del que se encuentra la receta para prepararlo en sus dos formas: la sólida y la liquida. Octubre Torrejas de natas Gertrudis le pide a Tita que le prepare sus galletas preferidas como abastecimiento para el viaje. En la cocina Tita se confía con su hermana, mientras «Chencha estaba terminando de repartir frijoles a correligionarios de la quinta mesa del desayuno» (p. 192). El desayuno presenta a los revolucionarios del norte como a gente que buscaba sólo llenar la panza y las bolsas con los saqueos. -, $ Noviembre Frijoles gordos con chile a la Tezcucana La pobreza interior y exterior ha invadido el rancho. Las codornices con pétalos de rosas han dejado el lugar a los frijoles y Tita y Rosaura han establecido un acuerdo para compartir a 6 4< 3 > pero con discreción, «porque el día que alguien los vea y me vuelvan a hacer quedar en ridículo, te juro que se van a arrepentir» (p. 215). Mientras hablan, Tita desmenuza las tortillas para dar de comer a las gallinas y su enojo invade a los volátiles que: Brincaban y volaban desordenadamente por todos lados agrediéndose con violencia. Entre todas ellas había una, la más furiosa, que con el pico le sacaba los ojos a cuanta gallina podía, salpicando de sangre los blancos pañales de Esperanza (p. 217). Tras el pleito de las gallinas se lee espontáneamente el de las hermanas que, con su violencia, manchan la infancia de Esperanza. Diciembre Chiles en nogada El relato sigue después de una elipsis que calla la vida de Esperanza, a la cual encontramos vistiéndose de novia. Tita, el Dr. Brown y el mismo Pedro colaboran en la preparación del banquete de bodas de Esperanza con Alex Brown, el hijo del doctor. Como en la boda de Rosaura, muerta un año atrás, también ahora se servirán veinte platos. Tita está orgullosa de Esperanza, segura, inteligente, preparada, capaz pero, sobre todo, «femenina y mujer en el más amplio sentido de la palabra» (p. 240). Al final del banquete todos, afectados por la síndrome de los pétalos de rosa, se alejan del rancho dejando solos, por primera vez, a Tita y a Pedro, que se dirigen a su cuartito que esta vez no está obscuro pues Chencha, además de haber creado un tapete de pétalos de rosa, ha encendido 250 ceras: [Tita] podía sentir el corazón de Pedro chocar sobre la piel de su pecho. De pronto este golpeteo se detuvo abruptamente: Un silencio mortal se difundió por el cuarto […] con Pedro moría la posibilidad de encender nuevamente su fuego interior (p. 246). Cuando Esperanza regresa de su viaje de bodas, encuentra solamente cenizas y el libro de recetas de Tita, que ahora su hija lee, mientras prepara las tortas de Navidad para que Tita siga viviendo mientras haya alguien que cocine sus recetas. Podemos concluir que la novela alcanza su objetivo, pues las recetas son claras y fáciles de realizar. Sin embargo, creemos que sería un desaire limitarnos a confirmar que el libro alcanza su primer objetivo pues, leyendo el recetario de Tita, en cuanto literatura, se puede apreciar la eficacia narrativa del lenguaje hiperbólico, irónico y popular. Se puede constatar la capacidad introspectiva de Esquivel al trazar algunos de sus personajes y se puede apreciar la agilidad de la estructura interna de la novela que, como un ligero trenzado, alterna las recetas a una historia de amor que sin ellas corría el riesgo de la banalidad. No son banales, además, los mensajes implícitos que se desprenden de la novelita. Nos ?@# que anula las diferencias entre hombre y mujer. La denuncia a los revolucionarios del norte, en la revolución mexicana de 1910 y con ella a todas las “revoluciones” que han llevado sólo al empobrecimiento económico, moral e intelectual de la mayoría, para procurar el enriquecimiento material de pocos. (+ $ Pero, sobre todo, el mensaje que se explaya a lo largo de toda la novela es la necesidad metafísica de re-unir los dos componentes de la persona humana: el espíritu y el cuerpo, la esencia y la existencia: el agua y el chocolate. BIBLIOGRAFIA AMADO, JORGE, Cacao, Milano, Mondadori, 1984. BACHELARD, GASTÓN, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1999. COSÍO VILLEGAS, DANIEL, Historia mínima de México, México, El Colegio de México, 1981. ESQUIVEL, LAURA, Como agua para chocolate, New York, Anchor Books Doubleday, 1994. —, Íntimas suculencias. Tratado filosófico de cocina, Madrid, Ollero y Ramos Editores, 1998. GRÜBE, TINA, Gli uomini sono come il cioccolato, Milano, Teadue, 2000. LOY, ROSETTA, Cioccolata da Hanselman, Milano, Rizzoli, 1995. RICHARDSON, PAUL, I piaceri del cioccolato, Milano, Rizzoli, 2004. SAHAGÚN, FRAY BERNARDINO DE, Historia general de las cosas de la Nueva España, México, Conaculta, 2000. (* $ LA TRADIZIONE MAYA-QUICHÉ IN RIGOBERTA MENCHÚ SACRALITÀ DELLA TERRA EMILIA DEL GIUDICE (CNR-ISEM, Milano) Lo spaccato sociale offerto dalla narrativa occidentale contemporanea, che sottolinea il predominio del consumismo, dell’apparenza, della mancanza di valori, mi ha indotto a riflettere su una realtà diametralmente opposta, quella offerta dalla testimonianza di Rigoberta Menchú. Nei primi anni ’80 la sua voce è arrivata al grande pubblico, con il merito di aver fatto conoscere la situazione politica e culturale del Guatemala con i suoi romanzi testimoniali e con le sue produzioni poetiche, dando anche impulso a un movimento di letteratura indigena. Leggere i suoi libri e incontrare le sue parole mi hanno fornito l’occasione di riflettere su quanto, invece, per gli indios mesoamericani certi valori siano forti e radicati e su quanto tutta la comunità sia saldamente legata alle proprie tradizioni di appartenenza, malgrado i continui massacri che hanno tentato di annichilire questo popolo e le sue memorie. Dalla testimonianza di Rigoberta Menchú si evince l’unità totale e incondizionata del gruppo, un legame che non conosce la parola tradimento e che è rimasto integro nel tempo: una donna guatemalteca che non racconta soltanto le proprie vicende personali, ma che ha come obiettivo quello di far conoscere e mantenere viva la memoria dei fatti significativi per l’intera comunità e di farsi portavoce del complesso familiare al quale appartiene. Sebbene tutta la sua produzione letteraria e testimoniale sia alimentata dalle medesime tematiche, offrirò in questa sede alcune spunti tratti dal libro Mi chiamo Rigoberta Menchú, del 1983, particolarmente efficace nel delineare il rispetto e l’attaccamento delle comunità indigene alla terra e alla tradizione. I nostri genitori ci dicono: «Figli, la terra è la madre dell’uomo, perché è lei che dà da mangiare». Ciò vale tanto più per noi indigeni che mangiamo mais, fagioli ed erbe del campo e non sappiamo che cosa sia, per esempio, mangiare prosciutto o formaggio, cose preparate industrialmente, con delle macchine. Per questo motivo consideriamo la terra, madre dell’uomo, e i nostri genitori ci insegnano a rispettarla. Si può ferire la terra solo per necessità. È in base a questa convinzione che prima di seminare la nostra milpa dobbiamo chiedere alla terra il permesso. Il legame con la terra è percepito molto presto anche dai bambini. Fin da piccoli essi vengono coinvolti nella semina, che rappresenta un momento di grande festa, accompagnato da preghiere affinché ci si assicuri il cibo per l’anno successivo. Nella cerimonia in cui si chiede alla terra il permesso di coltivarla vengono usate la candela, l’acqua e il mais, alimento dell’uomo. I nostri antenati ci hanno tramandato l’idea che noi indigeni siamo fatti di mais. Di mais giallo e di mais bianco, dicevano i nostri antenati. E ciò viene ricordato. […] I nonni dicono che bisogna chiedere al sole di splendere su tutti i suoi figli, cioè gli alberi, gli animali, l’acqua e l’uomo. […] È una cerimonia comunitaria, dato che il raccolto è il risultato del lavoro di tutti quanti, a partire dalla semina. (& $ È il concetto di relazione, in senso lato, che emerge dalle pagine dei suoi scritti. Attraverso l’esempio degli adulti e con l’insegnamento dei precetti si educa al bene, al vivere civile e alla moderatezza. Mentre nelle società occidentali le parole ‘legame’ o ‘famiglia’ coincidono con i consanguinei in senso stretto, nella cultura indigena il significato è molto più ampio e abbraccia l’intera comunità. Le memorie di Rigoberta Menchú ci avvicinano non solo a un paese geograficamente lontano, ma ci fanno vivere un’esperienza umana unica, dove la semplicità, la volontà, il coraggio di un popolo insegnano ad essere più forti, più vicini alla natura, più rispettosi e amorevoli verso il mondo. E i bambini indigeni sono l’esempio di esistenze forti e semplici: essi sono allevati, sin dal priA 0 colarmente considerati dalla comunità, donano loro le conoscenze che li accompagneranno per la vita. La cultura indigena è da sempre focalizzata sull’importanza della natura e della terra nel suo insieme, in uno stretto vincolo con l’uomo: la Terra dona i suoi frutti e gli uomini donano a Lei il proprio lavoro, legati entrambi da un forte e diretto scambio di impegno e dedizione. La nostra tradizione insiste soprattutto sul fatto che la semente è qualcosa di puro, qualcosa di sacro. La parola semente significa molto per noi. Si prepara la semente, la si avvolge dentro le foglie e la si lascia tra i rami di un albero, aspettando poi che secchi con la maggiore delicatezza possibile. Si mette tutto su di un albero davanti a casa. […] Poi si sgranano le pannocchie con la massima delicatezza. Si mettono da parte, in un canto, i grani più piccoli e si scelgono i più grandi. Quelli più piccoli vengono messi a cuocere immediatamente, appena sgranati. In tal modo neanche un granello di semente viene sprecato. Prima di metterla sottoterra per coltivarla facciamo una cerimonia in onore della semente. Il mais è sgranato e la terra è ormai pronta. […] Portiamo anche un ayote (zucca), perché dovrà essere seminato assieme alla milpa, e mettiamo anche questo tra le candele. E così pure i fagioli. L’ayote si semina tra solco e solco. Ogni spazio viene utilizzato. Seminiamo anche fagioli e patate. Tutto viene seminato contemporaneamente. Siamo noi donne, è il nostro compito, che dobbiamo portare alla cerimonia i fagioli, le zucche, il chilacayote (sempre della famiglia delle zucche, tipo un melone), le patate, mentre gli uomini portano i semi del mais. Tutte queste cose che portiamo alle candele sono una sorta di offerta al dio unico. Sarà il nostro cibo per l’anno successivo. È questa una festa speciale, in cui vengono evocati anche la terra, la luna, il sole, gli animali che devono contribuire tutti, assieme alla semente, a darci da mangiare. I membri della famiglia recitano delle preghiere e promettono che non sprecheranno questo cibo. Il messaggio di questo brano è esplicito: l’uomo è nel mondo per onorarlo e per vivere in + = ci circonda, ricordando che c’è uno spirito insito in ogni cosa. Per tale motivo, ogni cosa è meritevole di riguardo e di attenzione. Quando poi arriva il momento del raccolto, cominciamo a far festa sin dal primo giorno, quando raccogliamo le pannocchie assieme agli altri frutti che ci danno i nostri campicelli. Si fa il raccolto e una cerimonia, nella quale i membri della comunità consumano un pasto collettivo. Le donne raccolgono i fagioli, gli uomini raccolgono la mazorca (pannocchia) e tutti quanti raccogliamo il frutto della nostra semina. Prima di far questo nella comunità si tiene una cerimonia di ringraziamento alla terra, al dio che ci ha dato da mangiare. E la gente è ben contenta, soprattutto per il fatto che evita di dover scendere alla finca, dato che ha da mangiare. La cerimonia in cui si celebra il raccolto è molto simile a quella che si fa quando si chiede alla terra il permesso di coltivarla. (- $ Ora la ringraziamo per il raccolto che ci ha dato. La gente esprime la sua allegria, la sua speranza per questo nutrimento, per questa milpa che ci ha messo tanto tempo a crescere. Il momento della raccolta è una vittoria per l’intera comunità. Possiamo notare che le caratteristiche del racconto della Menchú seguono i procedimenti retorici tipici dell’oralità: un linguaggio comprensibile, la ripetizione dei concetti, una struttura sintattica semplice che facilita il trasferimento mnemonico di tradizioni millenarie. Questo procedimento è particolarmente adottato dagli anziani quando parlano alla collettività o ai bambini. La tradizione orale risulta più incisiva di quella scritta, coinvolge maggiormente e permette la trasmissione dei fondamenti culturali di generazione in generazione. 8 = 0 samente custoditi e rivelati soltanto quando vi è la certezza che restino all’interno della cultura indigena e nessun altro mai possa appropriarsene per divulgarli a chi non ha la capacità di comprenderli nella loro essenza. Accade infatti che, non di rado, la Menchú spieghi di non poter approfondire taluni argomenti, proprio perché devono rigorosamente rimanere all’interno della comunità. Concluderei attribuendo a Rigoberta Menchú, oltre al coraggio della denuncia, la capacità di suscitare un intenso sentimento di partecipazione nel suo pubblico. Tale entusiasmo le è valso, nel 1992, il conferimento del Premio Nobel per la Pace, «in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene» e in virtú del quale prosegue la propria battaglia a favore delle etnie che rappresenta e delle minoranze etniche di tutto il mondo. BIBLIOGRAFIA BURGOS, ELISABETH, Mi chiamo Rigoberta Menchú, Firenze, Giunti, 1987. MENCHÚ TUM, RIGOBERTA, Rigoberta i maya e il mondo, Firenze, Giunti, 1997. MENCHÚ, RIGOBERTA, con LIANO, DANTE, La bambina di Chimel. Una favola vera nella terra dei maya, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 2000. —, Il vaso di Miele. La storia del mondo in una favola Maya, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 2002. (( $ BIODIVERSITÀ IN FAGIOLO: STUDI APPLICATIVI PER IL MIGLIORAMENTO DELLA QUALITÀ NUTRIZIONALE DEI SEMI E PER LA RESISTENZA A INSETTI FITOFAGI FRANCESCA SPARVOLI (CNR-IBBA) % ! ! ) " ) ": < += ) (& " & 0 " 0 ;! ; ! " 00 + ! " # • • % • & ' " "! 3 * + ,-. / * . *% # 1 .# 2 ! ! " & ""5 9 & & %0 # &! • "" "! ( " ) ! • 0 • " $ • " #4 6! "# & 9 ) "# ! 78 9 " ! " " # !!. ""5 " " & ! 3 " * (. $ & • ! # & 99 ! & " 6 • ! " 7 * . & • • • • • * . ! 3 3 > +, 9 ! & & & ! 3 * & "" " ? !! & & " @ ) " ! 9 ! # & . & # " ! " 0 A (/ $ +> • 9 ! # "" "" ) "" & B! " • , 4 ! 9 "" "" 3 & C & ! • 0 "" !! & ";# 6C ! &) ! & ( 9 " ! ! & ;# * A.# ? (0 $ 0 "" !! ";# 6C ! 9 " ! ! & ;# * A.# > 9 #& ! " , (' $ 0 9 #& ! " D # ! (, $ ! & 3 & * & 3 . ! & & * & 3 E " 3 . .+ $ ! & " (& ! ! * $! # " < ! . @ ! ! " ( * . A .* $ " ! ! & ! • ' • * " ( . 3 3 " " & " & " 9 9 ! Riduce MINERALI la biodisponibilità di (Ferro, Zinco, Calcio,..) Acido Fitico e FOSFORO Raffinosaccaridi Causano flatulenza Antiossidante, possibile ruolo nella prevenzione del tumore del colon Probiotici, stimolano la crescita di bifidobatteri (flora intestinale) Proteine di riserva Danni dell’epitelio intestinale, causa diarrea, vomito e riduzione dell’assorbimento di nutrienti LECTINA A basse dosi stimola le funzioni intestinali, riduce l’obesità e limita la crescita di tumori Inibisce l’ -amilasi e quindi contrasta la digestione dell’amido #$# #%&' ( ) #* "# Riduce l’aumento di glucosio e insulina postprandiale, utile per il controllo di obesità e diabete Resistenti alla (riduzione di nutrienti) proteolisi ARCELINE Protezione dei semi dai tonchi ? .& $ - .. ./ ! & 9 " F G # % 0 5 ) - 8: ) 8: )* - H * 8 8: ) 8: )* 9 # - D + ( 1 % 6 @?#, AA# @A# ># - 67 6 4 F - * @># 102345 ! ++,+++,+ & 9 0 % 9 # ! > '! *#$ G24390 - (ARC2) G12922 - ARC3 G12942 - ARC3 G2711 - ARC5 G12891 - ARC3 G11051 - ARC6 G12949, G12950, G12951, G12952, G12953, G12954, G12955, G12956 – ARC4 QUES – ARC8 G24384 (ARC1) G24368 - ARC4 G12894 (361) G24367 - ARC2 G12866 - ARC2 G24328 - ARC2 G24371 - ARC3* G12882-ARC1 , .- $ # 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 97.4 65.2 42.1 31.0 21.5 14.4 PHA-E * PHA-L LEC WESTERN BLOT '! *#$ SDS-PAGE MW PHA-E * PHA-L AI ARC D ! 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