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Bettino Craxi e il «socialismo liberale»: continuità o discontinuità con la socialdemocrazia europea? di Matteo Luca Andriola L’uscita del film Hammamet, di Gianni Amelio, nei cinema dal 9 gennaio 2020 e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino che recita il ruolo dell’ultimo leader del Partito socialista italiano negli ultimi mesi vissuti nell’omonima città tunisina – in esilio per sostenitori, in latitanza per i detrattori – ha ovviamente diviso l’opinione pubblica, divisa fra il giustizialismo detrattore grillino o de «Il Fatto Quotidiano», che limita le vicende del politico a quelle giudiziarie, alla riscoperta bipartisan: l'ex premier Matteo Renzi ha dichiarato a La7 di aver «scoperto in Craxi un leader che quando ha fatto il presidente del Consiglio ha impostato una stagione di riformismo che comunque rimane. Craxi è stata una colonna di questo Paese», mentre l’ex sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo, deputato di Forza Italia, riporta la «Provincia Pavese» del 21 gennaio 2020, parte della delegazione in Tunisia, ritiene che «nella politica di oggi nessuno [è] di questo li vello». Il senatore del Pd Tommaso Nannicini, su «Il Foglio» del 19 gennaio 2020, avvalora il giudizio di Gerardo D’Ambrosio («su Craxi non esistono prove di arricchimento personale, la sua molla era politica»), elencando i meriti del politico: «riforma istituzionale; strategia euro-atlantica; scala mobile; [...] offensiva culturale in nome di un anticomunismo di sinistra col muro di Berlino ancora in piedi». Non è un giudizio legato al ventennale della morte del politico: Massimo D’Alema nel libro Controcorrente, dirà nel 2013 che «Craxi, aldilà delle sue discutibili scelte e delle responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra»; 1 l’allora segretario dei Ds Piero Fassino, nel 2007, lo inserirà in una immaginario Pantheon della sinistra insieme a socialisti del calibro di Rosselli, Matteotti, Nenni e Pertini, portando nel 2009 Walter Veltroni a dire: «Craxi interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava cambiando» e che la sua politica estera «fu grande: ci fu l’episodio di Sigonella ma anche la scelta di tenere l’Italia nella sfera occi dentale, senza intaccare autonomia e dignità del Paese». È il caso, a vent’anni dalla sua morte e a oltre trentacinque dal suo governo (1983-1987), di fare un’analisi equilibrata, più distaccata di quella del leader del Pci Enrico Berlinguer che dirà: «Craxi è un bandito di alto livello [...], uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno avvelenando la sinistra italiana – l’irrazionalismo e l’opportunismo – che il maggiore partito della sinistra italiana ha il dovere di combattere e debellare».2 Ma la critica, all’epoca, nascerà da un fenomeno che va analizzato, e che stava colpendo anche i comunisti italiani: la mutazione genetica del Psi e della sinistra tout court, che ne favorirà l’allineamento col riformismo liberalsocialista occidentale. La mutazione genetica del socialismo europeo fra gli anni Settanta e Ottanta Per capire la citata mutazione genetica socialista italiana, bisogna prima fare un’analisi accurata sulla situazione della socialdemocrazia nell’Europa anni Settanta-Ottanta, analizzando cioè la situazione non da un punto di vista esclusivamente italiano, ma europeo, perché quello sarà il decennio della grande mutazione genetica della socialdemocrazia, che transiterà verso il liberalismo, prima del New Labour di Tony Blair. All’apice dei trenta gloriosi (1946-1975), periodo che caratterizzerà tutta Europa, specie in quella settentrionale, per le politiche keynesiane e la socialdemocrazia, che appariva il modello vincente, capace di unire welfare state, partecipazione popolare e crescita. Ma proprio in quei primissimi anni Settanta una tenaglia di cause interne ed esterne faranno vacillare l'approccio economico keynesiano, dalla crisi fiscale dello Stato, alla fine del gold standard con Nixon nel 1971 alla quadruplicazione del prezzo del petrolio decisa dai paesi dell'Opec durante la guerra dello Yom Kippur del 1973. Questo cocktail esplosivo partorì la cosiddetta stagflazione (cioè stagnazione+inflazione), crisi che spalancherà le porte ad un nuovo paradigma economico antitetico non solo al marxismo, ma a quello keynesiano dei socialdemocratici, cioè il neoliberismo. Non fu però qualcosa di spontaneo. È senz’altro vero che il neoliberismo fu teorizzato da Friederich von Heyek , Milton Friedman e George Stigler per esempio, i guru ideologici di questa dottrina economica, così com’è vero che fu fatta propria dal generale Augusto Pinochet, il dittatore cileno che l’11 settembre 1973 prese il potere con un golpe sanguinoso e che grazie ai “Chicago Boys”, un gruppo di giovani economisti cileni formatisi presso l'Università di Chicago, seguaci di Friedman, riorganizzò in senza deflazinistico l’economia cilena, e così fe cero pochi anni dopo i generali argentini e i militari in Brasile. La lista può contare anche volti noti per la politica come Boris El’cin, Carlos Menem e Donald Rumsfield, fino ad arrivare a esponenti dei vertici delle 1 M. D’Alema, Controcorrente. Intervista sulla sinistra al tempo dell’antipolitica, Roma-Bari, Laterza, 2013. 2 Cit. in A. Tatò, Caro Berlinguer, Einaudi, Torino 2003. istituzioni finanziarie sovranazionali (World Bank, Fondo Monetario Internazionale, WTO) decisamente sconosciuti per l’opinione pubblica, come Jeffrey Sachs e John Williamson. Questa revanche conservatrice politica – con la vittoria nel 1979 della conservatrice Margaret Thatcher in Inghilterra e, nel 1980, del repubblicano Ronald Reagan –, ma anche economico-culturale, col dominio, an che culturale, del free market come pensiero unico dominante, col mercato che diventa il fine, un valore a sé come denunciò Viviane Forrester nel famoso pamphlet, L'Horreur économique, un “totalitarismo del mercato” che rilanciò la crescita ed ebbe molta popolarità per tutti la gli anni Ottanta, viene pianificata cultural mente col riflusso della “stagione dei movimenti”, che aveva portato la generazione nata dopo la guerra a mettere in discussione gli equilibri sanciti dalla guerra fredda e la stessa legittimità del sistema sociale e poli tico favorendo, vista l’ondata di rivendicazioni salariali senza precedenti e la nascita di movimenti di genere, di dissenso religioso, di ceti marginali ecc., l’insorgere di una forte ondata di lotte sociali. Nel 1975, si svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilateral Commission (nata due anni prima, come raccor do fra i circoli dirigenti finanziari e industriali di Usa, Europa e Giappone), e i tre principali relatori, il francese Michel Crozier, l’americano Samuel Huntington ed il giapponese Joji Watanuki, diagnosticarono tutti la crisi economica come il prodotto del «sovraccarico del potere decisionale», che rendeva lo Stato facile preda del ricatto dei più diversi gruppi sociali e dal conseguente indebolimento dell’autorità governativa, 3 e da cui discenderebbe, spiega Aldo Giannuli, «la prescrizione di una riforma complessiva che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, ridesse funzionalità decisionale e prestigio all’esecutivo, in modo da consentirgli di agire come riaggregatore della domanda sociale. In questo quadro, rafforzamento dell’esecuti vo a scapito del Parlamento, “raffreddamento” degli istituti di democrazia diretta (come il referendum), rego lamentazione legislativa dei conflitti di lavoro, erano altrettanti passaggi necessari sul piano istituzionale.» 4 Ma questa controrivoluzione conservatrice non caratterizzerà soltanto la destra istituzionale, ma condizionerà certe elaborazioni della sinistra europea dell'epoca, dalla Germania alla Francia, passando per l’Inghilterra. Ergo, Craxi va letto in questo contesto, sempre inserito nel quadro italiano. Il più antico partito politico della Germania, la «Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Spd» è stato uno dei primi a mutare pelle. Lo aveva già fatto nel 1959 «attraverso il “programma Godesberg”, un allontanamento della SPD dall’unione unilaterale alle teorie marxiste, una dichiarazione per un ordinamento liberale e democratico nella Germania occidentale e un’attenzione al ceto medio.»5 Ma la mutazione genetica in senso liberalsocialista avverrà con Helmut Schmidt, che aveva abbandonato le politiche keynesiane del predecessore e stava spingendo su un modello esteroflesso che non ha più abbando nato, un modello condizionato dall’analisi di Ralf Dahrendorf, uno dei più prominenti sociologi anglo-tedeschi a livello internazionale, aveva sostenuto la «Ende des sozialdemokratischen Zeitalters» (la fine dell’era socialdemocratica) negli anni Settanta, perché secondo lui, sociologo ex socialdemocratico passato ai libera li, il canto del cigno dell’era della socialdemocrazia viene dopo le crisi economiche del decennio, crisi che lasciava sorgere il dubbio su un'efficace, sino ad allora, strumento di governo della politica economica, l’eco nomia keynesiana, che aveva ispirato l’operato socialdemocratico post-marxista fino ad allora, come la «leg ge di stabilità» all’interno di una grande coalizione Cdu/Csu e Spd sotto il cancelliere democristiano Kiesin ger nel 1967 per le linee guida della politica sociale ed economica, legge elaborata dal Ministro socialdemocratico dell'Economia Schiller, ispirato da Keynes, che determinò il superamento del pensiero ordo-liberale del Ministro dell'Economia e cancelliere del secondo dopoguerra Ludwig Erhardt, contemplando i cosiddetti equilibri del «quadrato magico»: stabilità del valore monetario, equilibrio nel commercio estero, continua e proporzionata crescita economica seguita, allo stesso tempo, da un alto livello di occupazione. Le due crisi del petrolio danneggiarono la Spd: aumentarono l'orario ridotto e la disoccupazione, la politica economica governativa ebbe, come conseguenza, la citata stagflazione. Il crollo elettorale socialdemocratico del 4% alle elezioni del 1983 portò il conservatore partito di maggioranza Cdu/Csu a raggiungere quasi la maggioranza assoluta dei voti, spingendo i socialdemocratici ad adeguarsi alla prassi mercatista. «Ciò che Dahrendorf non poteva prevedere fu che, con il “New Labour” di Tony Blair, sarebbe sorta una nuova versione della politica socialdemocratica, che con il cancelliere socialdemocratico Schröder portò la Spd nuova3 M. Croizet, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, con prefazione di G. Agnelli e introduzione di Z. Brzezinski, Franco Angeli, Milano 1975, in pdf http://www.mauronovelli.it/La.crisi.della.democrazia_HUNTINGTON.pdf (ed. orig. The crisis of democracy. Report of the governability of democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York 1975, in pdf http://trilateral.org/download/doc/crisis_of_democracy.pdf). 4 A. Giannuli, Il vento culturale del neoliberismo: storia di una controrivoluzione, in aldogiannuli.it, 10 marzo 2017, http://www.aldogiannuli.it/vento-culturale-del-neoliberismo/ 5 R. Greca, La fine dell’era socialdemocratica. Sulla situazione dell’SPD in Germania, in CS.info n. 4, gennaio 2018, p. 4. mente a governare», ovviamente aprendosi al mercato, come avverrà dal 1987, e che porteranno il partito, un decennio dopo, sul solco del “New Labour”, a vincere con Gerhard Schröder, attorno ad un programma ispirato alle teorie di Anthony Giddens, favorevole cioè ad una terza via posizionata tra il capitalismo economico-liberale e la classica socialdemocrazia, elezioni vinte nel 1998 col motto «Neue Mitte» (il nuovo centro). Simile il caso francese. Lì il socialista francese François Mitterand vincerà alle presidenziali del 1981 con un programma socialmente avanzato che si imperniava sulla proposta di “riforme strutturali” in netta competizione “da sinistra” col Pcf. Mitterand vince le elezioni nel bel mezzo di una crisi di sistema che, come detto prima, parte da quella petrolifera, che a fronte della crescente disoccupazione, delle crescenti pressioni infla zionistiche e dell’attività imprenditoriale stagnante, vedrà i socialisti di Mitterand proporre i 110 Propositions pour la France,6 una “via francese al socialismo” fondato su ampie nazionalizzazioni dei gruppi industriali francesi, sempre meno competitivi, per mantenere i livelli di occupazione e aiutare il processo di rico struzione economica, un piano di nazionalizzazioni però che era tutt’altro che radicale e inedito, dato che il capitalismo francese aveva alle spalle una lunga tradizione di pianificazione statale dirigistica e di una crescita economica guidata dal governo. Infatti nel dopoguerra la presenza dello Stato francese nell’economia era preponderante, e nel 1946 il governo istituirà una commissione di pianificazione che produrrà piani a lungo termine per guidare lo sviluppo economico, arrivando, nei quarant’anni successivi, a produrre nove nove piani quinquennali statali. Anche le imprese private, inoltre, dipendevano dal governo per l’accesso al credito, facendo sì che, dal 1969 al 1981 lo Stato francese sarà responsabile di quasi la metà di tutti gli investimenti del settore privato. In sintesi le “110 Proposte per la Francia” del Parti socialiste erano un semplice programma keynesiano, e non ovviamente una sfida socialista contro le prerogative del capitale francese, ma che ovviamente ne tocca va i limiti. Ma il più grosso freno affrontato dal riformismo mitterandiano sarà, oltre all’ostilità del mondo imprenditoriale, il dilemma dell’adesione della Francia al sistema monetario europeo (Sme), il precursore della zona euro. Secondo Alessandro Visalli, «... già dal 1974 i governi della Germania, Francia (guidata dalla destra), Gran Bretagna e USA, nei “Quadripartite meetings” erano impegnati a definire lo schema dell’austerità e della governance internazionale (G6) per disciplinare il sud Europa (Portogallo, Spagna, Italia), e soprattutto era stato approvato, su forte spinta tedesca, nel 1978 lo SME (Andreotti, ad esempio dirà in Parlamento di aver avuto telefonate con il Cancelliere Tedesco e il Presidente Francese che spingevano per la pronta ratifica, malgrado le perplessità di molti, ad esempio di Eugenio Scalfari, e la posizione contraria del PCI, che rompe anche su questo il “compromesso storico”). Prende quindi l’esordio in forma molto più forte per i paesi europei il “vincolo esterno”. Lo SME è comunque un salto di qualità nelle politiche di integrazione europee, e si innesta in modo perfetto nella logica tedesca della moneta forte e delle esportazioni prioritarie (dato che ostacola le svalutazioni altrui). Prefigura anche, nelle intenzioni di alcuni, una competizione con il dollaro come moneta di riserva (“l’Esorbitante privilegio”, come lo aveva chiamato Giscar D’Estaing) per la quale serviva una base terri toriale molto più grande, che solo l’Europa poteva garantire.»7 Il contesto difficile francese – con la disoccupazione in costante aumento, dal 6,3% al 7% tra il 1979 ed il 1980, con l’inflazione salita al 12%, gli investimenti e produttività stagnanti e il deficit commerciale era sali to ad un livello insostenibile mettendo sotto pressione la moneta – obbligherà Mitterand, che inizialmente voleva proporre un programma di nazionalizzazioni – tipiche anche di una cultura dirigista francese presente pure in campo gaullista –, verrà accantonato davanti alle soluzioni inglesi e americane. Mitterrand, condizio nato da un'opinione pubblica influenzata a sua volta dagli ambienti imprenditoriali e dalla locale stampa, si trovò allora ad incontrare i limiti accuratamente progettati dai “Quadripartite Meetings” e dallo Sme. In par ticolare l’impossibilità di accompagnare la politica industriale e fiscale con quella monetaria, agganciando il franco al marco tedesco, moneta a sua volta eterodiretta dalla molto più potente Bundesbank, mise il governo di fronte ad un dilemma, un bivio: “Sono diviso tra due ambizioni: costruire l’Europa o costruire la giustizia sociale”. Mitterrand sceglierà la strada della capitolazione, che lo portò alla famosa svolta del suo governo, nel 1982-1983 che lo porterà a scegliere il rigore e le politiche deflazionarie, abbandonando il tentativo di reflazionare il sistema e sostenere l’occupazione, ed è lì che si assisterà al primo boom del Front national. L’obiettivo del programma comune delle sinistre di “spezzare il dominio del grande capitale e attuare una nuova politica economica e sociale” è quindi abbandonato. Anche la Francia, come l’America e la Germania, optano per il pacchetto di politiche rivolte a rafforzare la moneta, il cosiddetto “franco forte”, passando per 6 Qui, sull’edizione online di «Le Monde diplomatique», il programma socialista di François Mitterand per le presidenziali del 1981: https://www.monde-diplomatique.fr/mav/124/A/51865. 7 A. Visalli, Francois Mitterand e le svolte degli anni ottanta, in sinistrainrete.info, 9 gennaio 2018, https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/11362-alessandro-visalli-francois-mitterrand-e-le-svolte-degli-anni-ottanta.html una diretta ed intenzionale contrazione dei consumi (dato che i francesi consumavano prodotti energetici e merci estere più di quanto ne producessero per l’estero), ovvero per la riduzione del potere di acquisto della gran parte della popolazione. La riduzione, in altre parole, del tenore di vita come politica espressa per competere sulla scena internazionale. «Il suo dietrofront e il suo successivo spostamento a destra hanno fatto pre cipitare il processo a lungo termine di privatizzazione e la ristrutturazione neoliberale del capitalismo francese; e contemporaneamente, hanno portato alla trasformazione del Partito socialista in un agente del merca to.»8 Mutazione genetica o allineamento alla socialdemocrazia europea? Nella sinistra italiana, egemonizzata dal secondo dopoguerra dal Pci e dalla cultura marxista, non si perdonerà mai a Craxi la mutazione genetica del socialismo italiano. Il politico fu allora considerato semplicemente come un traditore, un revisionista, e il suo agire verrà limitato e ricordato alla sola “Milano da bere”, al rampantismo post-ideologico dei ceti medi produttivi che sosteranno quell’esecutivo, una politica che, più che attrarre la classe operaia, avvicinerà al Psi degli anni Ottanta gli imprenditori e gli artisti che gli saranno riconoscenti e lo seguiranno con profonda devozione, dandogli poi il benservito nel 1992, con Tangentopoli. Craxi, scrive Michele Brambilla, era «Uomo di intelligenza politica straordinaria, [che] seppe capire la fine della sbornia ideologica (e della violenza) degli anni Settanta, e seppe interpretare come nessun altro gli Ottanta, anni ricchi di voglia di rinascere, di ridere, e pure di tanti eccessi. La “Milano da bere” era la Milano di Craxi. Una città che ripartiva dopo i cieli grigi e i cortei seguiti alla strage di piazza Fontana; una città che, come negli anni Sessanta, diventò centro di idee, di cultura, di innovazione. […] [I detrattori] Cominciarono a ironizzare sulla simiglianza fra i nomi Bettino e Benito, a disegnarlo vestito da Duce: fino a chiamarlo, con disprezzo, "il Cinghialone". Craxi era il Potere, e il Potere è da sempre adulato e odiato.»9 Su questo Brambilla ha totalmente ragione: Craxi interpretò lo Zeitgeist (lo “spirito dei tempi”) dell’Italia anni Ottanta, un’Italia che strutturalmente stava mutando pelle, e che da industriale stava diventando terziarizzata, dove prenderanno sempre più piede i servizi. Ma con lei mutava tutto l’Occidente, e muteranno pure i socialisti, che passeranno dal massimalismo marxista o dal keynesismo anni Settanta, al liberalsocialismo degli anni Ottanta-Novanta. Per l’Italia, come per l’Europa, sono anni di cambiamenti paradigmatici, anche in campo culturale. Siamo nella fase iniziale del riflusso – termine giornalistico e politico usato per descrivere quell’atteggiamento at teggiamento caratterizzato dal disimpegno politico e sociale e dal ripiegamento nella sfera del privato in un clima di disillusione e ritorno a valori del passato che caratterizzerà quella fase storica –, della società post industriale, caratterizzata dalla fine del modello fordista e della centralità operaia, dallo sviluppo del terziario avanzato e dalla prima globalizzazione finanziaria, con la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, i primi flussi migratori. Il cambiamento si palesa nella cocente sconfitta che i sindacati, nell’autunno 1980, avranno alla Fiat: i vertici dell’impresa automobilistica, volendo razionalizzare la produttività aziendale nel contesto del citato postfordismo, decidono di licenziare 15.000 lavoratori, incontrando una decisa opposizione operaia che, sotto la guida dei sindacati, occupa gli stabilimenti torinesi di Mirafiori. La cosiddetta “marcia dei quarantamila”, forma di riflusso dei ceti medi impiegatizi organizzati tipo “maggioranza silenziosa”, segna la fine della vertenza e l'inizio della frattura dell'unità tra i salariati del ceto medio (i cosiddetti colletti bianchi) e quelli della catena di montaggio (le tute blu).10 8 J. Birch, The Many Lives of François Mitterrand, in jacobinmag.com, agosto 2015, https://www.jacobinmag.com/ 2015/08/francois-mitterrand-socialist-party-common-program-communist-pcf-1981-elections-austerity/ 9 M. Brambilla, Craxi, ascesa e caduta. Una storia italiana, in quotidiano.net, 19 gennaio 2020, https://www.quotidiano.net/politica/craxi-storia-tangentopoli-1.4986009. Le caricature di Bettino Craxi vestito da Benito Mussolini furono inaugurate da Giorgio Forattini nelle vignette pubblicate sul quotidiano progressista «la Repubblica», storicamente ostile al craxismo (arrivando con lo schierarsi col leader democristiano irpino Ciriaco De Mita), men tre il nomignolo “il Cinghialone”, fu coniato dal giornalista Vittorio Feltri sulle pagine de «L’Indipendente», da lui diretto e tendenzialmente filoleghista, durante l’inchiesta Mani Pulite. 10 A livello mediatico la “marcia dei quarantamila” a Torino fe tornare alla ribalta l'espressione «maggioranza silenzio sa», utilizzata dal giornalista conservatore Indro Montanelli in un suo editoriale, che rientrò così nel linguaggio comune per designare, anche in Italia, i vari movimenti d'opinione di ispirazione cattolica, conservatrice o moderata (Cfr. I. Montanelli, Gente seria, in «il Giornale», 15 ottobre 1980). Secondo Alberto Libero Pirro «I presidi [sindacali] venivano riempiti di scritte, bandiere, ritratti e manifesti “come se, sul limite della propria esistenza, alla soglia della dissolu zione, quella classe operaia volesse incorporare ai muri della fabbrica l'intera propria storia”. Ricordato da molti il legame contraddittorio con l'estate di lotte operaie in Polonia. Apparirono striscioni e cartelli quali ‘Torino come Danzica’, ‘Trattative in fabbrica come ai cantieri Lenin’. Se gli operai del biennio rosso davanti agli stabilimenti pensavano di È in questo contesto che inizia l’ascesa politica del leader socialista Bettino Craxi, fase storica che coincide con la progressiva crescita elettorale del Psi, che slitterà sempre più al centro come già avvenuto col Psdi di Saragat.11 Aumenta la spettacolarizzazione della politica e, dopo il saggio di Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), si inizia a parlare di postmodernità sia in campo filosofico12 che artistico-architettonico,13 teorie che, occorre ricordare, trovarono in Italia un fertile campo di dibatti to, sdoganando il concetto di “pensiero debole”. 14 “L'afflato visuale” del Psi craxiano è uno dei più eloquenti sintomi dello Zeitgeist postmodernista, ovvero la contestazione e il superamento di forme e sistemi espressivi tipici dell'avanguardia, quindi decostruttivisti e anti-classici, a vantaggio di una rinata attenzione all'immagine, intesa in senso ampio. Gli anni Ottanta infatti «inaugurano la fenomenica di un nuovo apparato del potere che fa dell'immagine […] il suo motore centrifugo». 15 Il Psi, nella sua riconfigurazione craxiana, sarà il degno prodotto post-modernismo non solo per il suo im pulso iconico, ma soprattutto per la revisione delle basi ideologiche marxiane su cui si era strutturato il parti to sino a quel momento. Questo caratterizzerà il Psi craxiano sin dagli inizi, e consisterà nella differenziazio ne dai comunisti, una strategia che nasceva come reazione alla sconfitta socialista avvenuta alle elezioni poli tiche del 20 giugno 1976, che avevano visto il Psi prendere, come nel 1972, il 9,64%, risultato deludente di una strategia di totale subalternità del segretario socialista Francesco De Martino, che proponeva «equilibri più avanzati», cioè il farsi garante dell’apertura governativa a sinistra a vantaggio dei comunisti, dato che, se l'obiettivo del voto socialista era far entrare i comunisti “nella stanza dei bottoni” e attuare il “compromesso storico” con la Dc, molti potenziali elettori socialisti preferirono votare l'originale, cioè il Pci, che arrivò in fatti al 34,37%!16 La questione di fondo nasceva peraltro dalla peculiare natura del sistema partitico italiano e dalla collocazione del Psi, che nell’Italia degli anni Settanta era ormai un partito mediano: «circondati da un grosso partito interclassista, quello democristiano, a destra, e dal Pci, tipico partito operaio, a sinistra, i socialisti devono competere con due avversari potentissimi, dei quali l’uno ha monopolizzato le posizioni di governo e l’altro quelle di opposizione. In nessun altro paese occidentale socialisti o socialdemocratici devono confrontarsi con un’analoga competizione». Bisogna quindi sostituire l’«oligarchia alla cui guida è stato le gato il declino del Psi dopo il fallimento dell’era riformista del centro-sinistra». 17 Infatti, la peculiarità italiana la noterà Alberto Asor Rosa: secondo lui il successo comunista era dettata dal fatto che «l’erede pi autentico del riformismo secondinternazionalista, quello di Turati e Prampolini, è in Italia oggi il Partito comunista; il quale però è allo stesso tempo, in Italia, l’erede più autentico della tradizione leninista».18 Questo avrà ripercussioni fra i socialisti: «La delusione per il risultato delle elezioni del ’76 fa precipitare all’interno del ‘Fare come in Russia’, sessant'anni dopo era ‘Fare come in Polonia’. Da una parte il Marx degli operai torinesi dall'altra la Madonna di quelli Solidarnosc.» (A. L. Pirro, La “maggioranza silenziosa” nel decennio '70 fra anticomunismo e antipolitica, tesi di laurea magistrale in Storia contemporanea, Università di Roma La Sapienza, a.a. 2013-2014, p. 174). Sul nesso fra la “marcia dei quarantamila” e la “maggioranza silenziosa” cfr. G. F. Vené, L'ideologia piccolo borghese. Riformismo e tentazioni conservatrici di una non classe dell'Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1980; T. Giglio, La classe operaia va all’inferno. I quarantamila di Torino, Sperling & Kupfer, Milano 1981; G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana. FIAT, la sconfitta operaia dell’autunno 1980. Alle origini della controrivoluzione liberista, Manifestolibri, Roma 2000. 11 Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell'ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005. 12 Cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere [ed. orig. La condition postmoderne, Paris 1979], trad. it., Feltrinelli, Milano 1981. 13 Cfr. C. Jencks, The language of post-modern architecture, London 1977 e C. Aldegheri, M. Sabini (a cura di), Immagini del Post-moderno. Il dibattito sulla società post-industriale e l'architettura, Venezia 1983. 14 Cfr. G. Vattimo, P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983. 15 F. Chicchi, Si può negare un'immagine? Regime dell'immaginario e godimento del discorso capitalista, in «Alfabeta2», n. 33, novembre-dicembre 2013, p. 33. 16 Luciano Pellicani dirà che la strategia demartiniana aveva reso il Psi «un mal riuscito clone ideologico del Pci» (L. Pellicani, La battaglia culturale contro il comunismo, in G. Aquaviva, M. Gervasoni [a cura di], Socialisti e comunisti negli anni di Craxi, Marsilio, Venezia 2011, p. 162). Secondo il craxiano Claudio Martelli «la gestione demartiniana si era risolta in una doppia subalternità: alla Democrazia cristiana nel governo del paese, al Partito comunismo nella sinistra. […] Avendo condotto la campagna elettorale all’insegna del “mai più al governo senza il Pci”, i socialisti avevano compiuto il sacrificio della propria autonoma funzione politica, riducendosi a “partito di servizio” o “partito di cerniera” tra i due colossi della della politica italiana. E gli elettori li avevano puniti e ignorati» (C. Martelli, Ricordati di vivere, Bompiani, Milano 2013, pp. 179, 180). Cfr. sul tema G. Galli, Storia orgogliosa del socialismo italiano. Ma l’idea non muore, Marco Tropea Editore, Milano 2001, pp. 283 ss. 17 W. Merkel, Prima e dopo Craxi. Le trasformazioni del Psi, Liviana editrice, Padova 1987, pp. 5 e 82. 18 A. Asor Rosa, Le due linee di tendenza, in «l’Unità», 20 giugno 1976. Psi una crisi che, iniziata nel ’68, quando l’elettorato ha voltato le spalle al partito socialista unificato, è andata acuendosi ad ogni tappa elettorale».19 Da qui la convocazione del Comitato centrale all’Hotel Midas il 13 luglio 1976, che portò all’elezione di Craxi alla segreteria, svolta, che lo ha visto segretario del partito fino al 1993, che porta il Psi ad esprimere per la prima volta un presidente della Repubblica socialista, Sandro Pertini, e un presidente del Consiglio so cialista, giustappunto Craxi, il tutto tenendo presente che nei primi anni Settanta egli era a capo di una cor rente del Psi, quella autonomista, che poteva contare internamente per non più del 10% del corpo del partito. Questi punterà ad affermare la completa autonomia del Psi dal Pci partendo dall'attacco al pensiero marxi sta, primariamente nella sua veste massimalista: intervistato da «Le Monde» nel luglio del 1976, prenderà le distanze da una «malattia del sangue» del socialismo italiano, il massimalismo, rivalutando – cosa impossibile con le precedenti politiche frontiste o di flirt filocomunista pre-craxiane – le radici riformiste di Turati e delineando come riferimento ideologico la dottrina di Eduard Bernstein. 20 Il 4 maggio 1977, svolge una relazione sul tema “Marxismo e revisionismo” alla Karl Marx Haus di Treviri, città natale di Marx, per conto della Fondazione Friedrich Ebert, alla quale parteciparono il presidente dell’Internazionale socialista Willy Brandt e rappresentanze dei partiti dell’Internazionale. Craxi non solo attacca il “giacobinismo” leninista, ma adottando l’operazione di utilizzare Engels contro Marx in chiave democraticistica, elogerà il “compromesso socialdemocratico” fra Stato e mercato, dicendo: «I partiti socialisti e socialdemocratici hanno seguito una via opposta (a quella leninista). Hanno preferito attenersi alle indicazioni del vecchio Engels e alla metodologia operativa abbozzata da Bernstein. Anziché distruggere la democrazia rappresentativa, l’hanno potenziata; anziché cancellare il mercato, hanno mirato a sottoporlo al controllo politi co; anziché accentrare i processi decisionali, hanno cercato di decentrarli, in modo da avvicinare la cosa pubblica ai lavoratori. Certo, non sono risulti ancora creare un tipo di società conforme ai principi della democrazia socialista, dal momento che ancora oggi le società europee presentano tratti tipicamente classisti. Ma il metodo da essi adottato è ri sultato essere l’unico capace di accrescer e la libertà e l’influenza delle classi lavoratrici.» E concludeva: «Oggi, alla luce degli esperimenti compiuti nei Paesi che hanno saggiato la via leninista, ci appare chiaro che la statizzazione integrale dei mezzi di produzione fagocita la logica pluralistica e tende a distruggere tutte le precondizioni che hanno reso possibile lo sviluppo della libertà delle classi lavoratrici.» 21 Craxi propone la superiorità d’una lettura che colleghi la prudenza del Capitale, l’ultimo Engels della Spd, il gradualismo di Kautsky e di Bernstein, la lezione italiana di Rodolfo Mondolfo e della turatiana « Critica Sociale», rispetto all’utopismo quarantottesco del Manifesto, della Comune, del bolscevismo di Lenin e Trockij e della loro idealizzazione in Gramsci. L’allontanamento dal marxismo è graduale, e passa da varie tappe: nel 1977 vi è l’elaborazione del documento Progetto per l’alternativa socialista, che cerca di «ricollocare il Partito Socialista su una nuova frontiera riformatrice dopo l’esperienza negativa del centro sinistra», 22 ridisegnando così «le linee di un socialismo democratico completamente libero da condizionamenti, che siano quelli derivanti dagli “insufficienti” modelli delle socialdemocrazie nordiche o, ancor di più, dalle fallimen tari esperienze di socialismo dell’Est», che cerca di essere la risposta sia al consociativo accordo di solidarie tà nazionale tra Dc e Pci che agli input che arrivano dalla sinistra dei movimenti, un «riformismo radicale» da cui deriverebbe «la dialettica tra autogestione e decisione, tra momento rappresentativo e momento deci sionale, tra politica (diffusa) e amministrazione (concentrata)», proponendo di «incrementare la prima riducendo il dirigismo della seconda, cosa che non era invece stata fatta ai tempi del centro-sinistra», 23 tesi smentita al XLI congresso socialista di Torino del 1978, dove Craxi proporrà un «riformismo pragmatico» alla Kautsky come «corredo intellettuale e morale del socialismo democratico».24 La svolta post-marxista avviene nell’agosto del 1978, con l’intervista che il segretario Craxi concede a Eugenio Scalfari per «L’Espresso» intitolato Per noi Lenin non è un dogma, i cui contenuti saranno sviluppati dal politico nel pamphlet Il Vangelo socialista, scritto però dallo storico Luciano Pellicani (ma firmato dal leader socialista), e rielaborate a set 19 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 506. 20 Cfr. Intervista di Craxi a “Le Monde”, in «l’Avanti!», 4 settembre 1977, cit. in M. Pini, Craxi, Mondadori, Milano 2007, p. 106, 21 B. Craxi, “Marxismo e revisionismo”, relazione alla Karl Marx Haus di Treviri, a cura della Fondazione Friedrich Ebert, 4 maggio 1977, in Il Capitale e la rivoluzione, in mondoperiao.net, 5 agosto 2019, https://www.mondoperaio.net/ il-capitale-e-la-rivoluzione-bettino-craxi/ 22 P. Ciofi, F. Ottaviano, Un partito per il leader. Il nuovo corso socialista dal Midas agli anni Novanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 1990, p. 59. 23 C. Vercelli, Il craxismo oltre Craxi? Traiettoria di una parabola politica e culturale, in «Asti contemporanea», n. 12/2009, p. 96. 24 B. Craxi, Marxismo, socialismo e libertà, in Id., Lotta politica, SugarCo, Milano 1977, p. 136. tembre su «Mondoperaio» nell’articolo Leninismo o socialismo, testi in cui il segretario del Psi brucerà le polveri della polemica politica coi comunisti, ridefinendo l'incidenza dell'eredità marxista-leninista-autoritaria nella prospettiva di un socialismo libertario, riformatore e spinto alla decisiva rivalutazione della figura di Pierre-Joseph Proudhon, contrapposto a Karl Marx, sostenendo, in estrema sintesi, che il socialismo era incompatibile col comunismo.25 L’intervista era una risposta pungente all’intervista che il leader del Pci Enrico Berlinguer aveva rilasciato sempre al direttore de «la Repubblica» in quei giorni, rivalutando il leninismo. L’afflato post-modernista si avverte, dato che, anche se Craxi non arriva a stabilire un nesso di continuità (e di necessità) tra il pensiero di Marx e l’arcipelago Gulag come elaborato dal filosofo francese André Glucksmann, esponente dei nouveaux philosophes, ma vi è un’implicita contiguità, forse data dall’affermarsi di tali riflessioni in Italia, soprattutto a sinistra,26 in una fase di riflusso e di recupero, dal punto di vista storiografico, della categoria di “totalitarismo” con l’accostamento fra comunismo e il nazi-fascismo, e con la decostru zione dei linguaggi, dei simboli e delle rappresentazioni sedimentatisi nelle culture del movimento operaio mentre si avvia la destrutturazione del rapporto fra intellettuali e politica per come esso si era definito nei de cenni precedenti. Il leader socialista stava operando secondo molti un attentato ai numi tutelari della sinistra italiana e con un'immagine allusiva all'autorità oltraggiata di Karl Marx, Scalfari titolò così un suo articolo su «la Repubblica» il 26 agosto 1978: Craxi ha tagliato la barba al profeta. Insomma, un Craxi che rende il Psi più simile al Psdi di Saragat, in continuità con la socialdemocrazia europea. 27 Entrato da un decennio nell’Internazionale socialista, il Psi craxiano fa questi strappi nel quadro d’un progetto in formazione, l’eurosocialismo, messo a fuoco a Bruxelles l’anno seguente, in vista delle prime elezioni dirette dell’Europarlamento nel 1979. Strappo anticomunista anche grafico: durante il citato XLI Congresso di Torino del 1978, lo stemma del Psi palesava il sopravvento del garofano rosso rispetto ai classici falce, martello e libro, relegati in posizione in feriore, che scompariranno del tutto nel corso degli anni (dal 1985), un simbolo, il garofano, riscoperto dal sindacalista della Uil Giulio Polotti, svolta non dissimile all’utilizzo della Quercia da parte del Pds postco munista e socialdemocratico nel 1991. 28 L’ostilità anticomunista negli anni Ottanta – preannunciata, nel pieno della crisi legata al rapimento del leader della Dc Aldo Moro, dall’esprimere una linea divergente da quella della fermezza esposta da comunisti e democristiani, a favore di un’intermediazione con le Brigate rosse –, porterà il Psi a candidarsi per diventare non solo il partito maggiore tra i partiti minori (oscillando tra il 10 e il 15%), centralizzando attorno a sé un terzo polo laico che potesse offrire alla borghesia italiana il superamento di un’anomalia democratica nel pa - 25 Cfr. B. Craxi, Perché per noi Lenin non è un dogma, intervista rilasciata a E. Scalfari, «L’Espresso», 2 agosto 1978 e B. Craxi, L. Pellicani, Il Vangelo socialista, in «L’Espresso», 27 agosto 1978, poi ripubblicato in B. Craxi, Pluralismo o leninismo, SugarCo, Milano 1978. Proudhon «vedeva il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo un'"assurdità antidiluviana" che, se fosse prevalso, avrebbe "asiatizzato" la società europea». La criti ca craxiana a Lenin era, se possibile, ancor più povera e greve: il leninismo era per Craxi «la giustificazione filosofica del diritto storico degli intellettuali di governare autocraticamente le masse lavoratrici». 26 Cfr. M. Di Maggio, I Nouveaux Philosophes nella stampa italiana, in E. Taviani, G. Vacca (a cura di), Gli intellettuali nella crisi della Repubblica (1968-1980), Viella, Roma, 2016, pp. 311-332. I nouveaux philosophes erano un gruppo di filosofi antimarxisti (J.-M. Benoist, C. Hervé, J.-P. Dollé, A. Gluksmann, Ch. Jambet, G. Lardreu, B.-H. Lévy, Ph. Némo) che, in posizione critica nei confronti del marxismo e di tutte le ideologie di massa, intendevano svolgere una meditazione filosofica libera da qualsiasi conformismo politico-culturale puntando sulla difesa della dignità e della li bertà dell'individuo; tutti avevano un’identica matrice culturale, che si ricollega a due esperienze comuni: la rivolta pari gina del maggio ‘68 e l’incontro con lo strutturalismo, quello puro di Lévi-Strauss o di Foucault, il marx-strutturalismo di Althusser o il freud-strutturalismo di Lacan e della sua École Freudienne de Paris. 27 Così Colarizi e Gervasoni: «il patrimonio ideale del Psi non sembra intaccato più di tanto. Si è solo determinata una torsione dal marxismo classico a un socialismo libertario e autogestionario; risulta più accentuata l’impronta giellista e azionista e si rivaluta la tradizione riformista di Turati che, in ogni caso, solo negli anni successivi è destinato a diventare una vera e propria icona del craxismo» (S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago, cit., p. 74). 28 «Nel 1987, invece, i tempi erano apparsi maturi per togliere di mezzo gli arnesi e, tre mesi prima delle elezioni, Filippo Panseca mostrò a tutti da Rimini, all'ombra del tempio da lui creato come scenografia per il congresso del partito, il nuovo simbolo socialista, con il fiore dal gambo lungo e senza altri elementi grafici. “Onorevole, ma perché ha scelto solo il garofano come simbolo per il suo partito?”, chiese a Craxi Giovanni Minoli in uno degli spot della famosa cam pagna - “Cresce l'Italia” - che precedette le elezioni di quell'anno: “Il garofano - rispose - è un grande e antico simbolo del mondo del lavoro italiano e internazionale. Il suo significato, il suo messaggio è fede nel progresso, fede nella liber tà e speranza nell'avvenire: forse è bene che se lo mettano in tanti!”, chiosava, sorridendo a modo suo» (G. Maestri, "Unità socialista" per il Psi: il cambio di parola non passò inosservato, in isimbolidelladiscordia.it, 3 novembre 2018, http://www.isimbolidelladiscordia.it/2018/11/unita-socialista-per-il-psi-un-cambio.html). norama occidentale, in cui sempre e solo un partito, la Dc, aveva espresso la presidenza del Consiglio. Craxi offrì l’alternanza, prospettando di assicurare la governabilità e la stabilità all'azione di Governo. 29 La strategia craxiana, che così verterà alla differenziazione netta col Pci, muovendo i suoi passi dal rendersi il referente primario di chiunque nell’Italia repubblicana, dal mondo politico alla società civile, fosse critico da sinistra al “compromesso storico” e alla nascita di un’asse Pci-Dc; i primi referenti saranno gli intellettuali ostili alla bipolarizzazione marxismo-cattolicesimo che, avendo come nume tutelare un filosofo come Norberto Bobbio, intellettuale liberalsocialista funzionale alla critica al marxismo-leninismo che Craxi stava animando e inauguratore, con quest’ultimo, del Centro di Formazione Rodolfo Mondolfo, trasformerà la rivista «Mondoperaio» nell’avanguardia liberalsocialista per la formazione di un “terzo polo” intellettuale, in parte composto da «quell’area fiancheggiatrice, costituita da quanti, più di un decennio prima, erano rimasti coinvolti, a vario titolo, dai progetti di programmazione che il centro sinistra aveva lanciato e che poi, per il declino dei medesimi, si erano allontanati dal partito», 30 senza contare i non pochi cani sciolti e, più in generale, al milieu che va formandosi nel riflusso dei movimenti libertari sessantottini e gli «uomini di cultura che negli anni precedenti hanno abbandonato il Partito comunista, e in parte da intellettuali che hanno svolto le loro prime esperienze – anche ideologiche – all’interno della nuova o dell’estrema sinistra», come i filosofi della politica Paolo Flores d’Arcais, Luciano Pellicani, storici come Luciano Cafagna, Ernesto Galli della Loggia, Massimo L. Salvadori, Furio Diaz, giuristi come Giuliano Amato, Federico Mancini, Gino Giugni, politologi e sociologi come Roberto Guiducci e Gianfranco Pasquino, economisti come Franco Momigliano, Antonio Pedone e Giorgio Ruffolo, che aderiranno al «revisionismo socialista» craxiano perché «gli intellettuali sono un’estrema risorsa per il PSI del nuovo corso, perché si trovano a dare una cornice e un’identi tà a una serie di proposte politiche che Craxi e la sua maggioranza, per il momento abbastanza composita tra autono misti, ex demartiniani e lombardiani, sono costretti a elaborare empiricamente, giorno per giorno. Per l’obiettivo di Craxi in quel momento, quello di rompere il compromesso storico, le riflessioni degli intellettuali sono una continua fonte di legittimazione. Un’azione politica indispensabile alla sopravvivenza del PSI diventa un’opera culturale per la sua modernizzazione, e poi per il rinnovamento della sinistra tutta.»31 Si crea così una sorta di pensatoio socialista gravitante attorno a «Mondoperaio» di Fausto Coen, che non ha però un’unità d’intenti: una parte degli intellettuali propongono un’«alternativa socialista» atta a condizionare il Pci nel suo processo evolutivo “socialista libertario”, per poi rivedere e recuperare, da rinnovate posizioni di forza, il vecchio legame “frontista” contro la Dc, e altri, vicini a Claudio Martelli e Luciano Pellicani, craxiani di ferro, il cui intento è attaccare il Pci «su più fronti: quello della sua legittimità democratica [...]; quello del suo snaturamento e della perdita di identità come soggetto del cambiamento e della trasformazione: in sintesi, una antidemocratica forza della conservazione che ostacola il progresso del paese», tentando così «un’operazione di isolamento dei comunisti». 32 Viste le premesse divergenti, l’idillio fra il mondo intellettuale e la dirigenza craxiana si spezza nel 1979, quando la crisi del compromesso storico non porta all’«alternativa socialista» bensì al possibile ritorno del Psi nell’area di governo, e una parte dello staff intel lettuale di «Mondoperaio», Bobbio in testa, presenterà dei manifesti di critica al leader, prendendo poi le distanze o da Craxi o dal partito, contro la gestione verticistica craxiana, arrivando minacciare di chiudere i fondi agli intellettuali critici nei suoi confronti e alla stessa rivista «Mondoperaio» e, nell’aprile 1980, dopo che il Psi ritorna al governo, viene chiuso «per mancanza di fondi» il Centro culturale Mondoperaio diretto da Paolo Flores d’Arcais, che accusa Craxi di intolleranza, per l’articolo che egli ha scritto «contro l’ingresso al governo del PSI».33 L’episodio rivela una dicotomia interna al mondo intellettuale attratto da Bettino Craxi. Secondo Alberto Asor Rosa infatti: «… gli intellettuali socialisti si dividono in due gruppi. Ci sono quelli i quali optano per una nuova progettualità riformatrice, di impianto pluralista e genericamente liberalsocialista, volta a superare i limiti di una dottrina marxista “pura” e di un egemonismo politico-culturale comunista, peraltro entrato anch’egli in una fase di crisi, ma rivolta a tutta la sinistra ed aperta ai contributi dell’intera sinistra [...]. E ci sono quelli per i quali il “riformismo” è prevalentemente un modo di intervenire sulle cose esistenti, modificandole nella misura in cui questo appare possibile e opportuno. È chiaro che, mentre per i primi la presenza dei socialisti nel governo è un accessorio utile ma non indispensabile, per gli altri praticamente non si può essere seriamente riformisti senza stare al governo. E siccome si può stare al go 29 Cfr. G. Galli, Storia del socialismo italiano. Da Turati al dopo Craxi, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2007. 30 C. Vercelli, Il craxismo oltre Craxi? Traiettoria di una parabola politica e culturale, cit., p. 93. 31 M. Gervasoni, Metamorfosi della cultura socialista? Il PSI e gli intellettuali, in «Italianieuropei», n. 5/2004. 32 P. Ciofi, F. Ottaviano, Un partito per il leader, cit., pp. 55 e 64. 33 P. Guzzanti, Il PSI è sul punto di chiudere “Mondoperaio” rivista scomoda, in «la Repubblica», 11 aprile 1980. Cfr. F. Coen, P. Borioni, Le cassandre di Mondoperaio, Venezia, Marsilio, 1999. verno, almeno in questa fase, solo escludendone i comunisti, anche dal punto di vista culturale il rapporto di questi ultimi nei rapporti della tradizione comunista sarà assai più ostile e conflittuale.»34 È tale dicotomia a determinare la spaccatura fra una fetta dell’intellighenzia socialista e il craxismo. Nel li bro di Giuliano Amato e Luciano Cafagna Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘70, comprendiamo come la componente che rimarrà legata a Craxi avrà del «riformismo», un riformismo «a spizzichi»: «Entro quali limiti e per quali aspetti la formulazione dei programmi può oggi precedere la loro implementazione? È una domanda che ci si pone, muovendo dal fatto che i conflitti possono essere affrontati soltanto nella fase di implementazione: prima di arrivarci, infatti, la consistenza e, talora, l’identità stessa dei vincoli non possono essere note.»35 Si assiste all’avvento prodigioso di un riformismo che non è riformismo, ma che diventa l’arte del governo delle cose, una tecnica al servizio della politica per «governare il cambia mento», il che fa sfumare la specificazione identitaria «socialista». La cultura socialista così, sfuma rispetto a quella moderata, facendo da serio supporto all’anticomunismo craxiano. E qui sta il paradosso del Psi, con Craxi che parla di «alternativa di sinistra», mentre la formula rimarrà teoricamente astratta, visto che di fatto apriva le ostilità contro il principale partito della sinistra – una con traddizione con l’intento di creare un’alternativa alla Dc – il Pci per logorarlo, in discontinuità con la vecchia strategia socialista: mentre quest’ultimo fu per l’asse privilegiato con la sinistra democristiana e, con De Martino, per farsi garante del Pci, con Craxi si aprirà l’asse privilegiato con le correnti della Democrazia cristiana anticomuniste e disponibili ad un'alleanza coi socialisti (Fanfani innanzitutto, ma anche Donat-Cattin, Bisaglia, Marzotta, in seguito Forlani e Andreotti), svolta favorita nel febbraio 1980, quando durante il XIV congresso della Dc passò il documento di Donat-Cattin sul “preambolo”, che favorisce la vittoria dell’omonimo gruppo, che modificò la linea politica democristiana a vantaggio del superamento della “solidarietà na zionale” col Pci.36 L’intento craxiano, alla lunga, era di logorare i comunisti, ridimensionandone così il peso elettorale (come avverrà negli anni Ottanta, col Pci in calo) a vantaggio socialista per poi, in un secondo momento, fare l’«al ternativa di sinistra» con i comunisti, ormai logori, ma alle condizioni di Craxi, e abbandonare la Dc. Non casualmente, il 4 ottobre 1990, Craxi propose che nella corona rossa del suo simbolo la scritta venisse modificata da “Partito socialista” a “Unità socialista”, ottenendo nel partito risposte differenti, dall’ex leader della sinistra socialista Claudio Signorile che imputa a Craxi l'errore di non aver sfilato il Psi dal governo, dando il segno di non voler cambiare sul serio e dicendogli «Tu non puoi fare l'Unità socialista e stare a governare con i democristiani e i ministri socialisti», all’ex vice di Craxi Giulio Di Donato che vedeva l'unità socialista come “una prospettiva”, considerando che per lui «falce e martello non aveva più alcun senso». Non a caso sarà Craxi, sempre nel 1990, portare il Pci nell'Internazionale socialista, un Pci che nel gennaio 1991 sarebbe diventato Pds, portando quest’ultimo, con Tangentopoli nel 1992, a risfoderare la questione morale di berlingueriana memoria e riaprire così l’ostilità ai danni del Psi in nome di un’egemonia a sinistra che andava otte nuta ad ogni costo, anche sostenendo la magistratura nonostante ormai la distanza fra le due forze fosse mini ma (alle elezioni del 1992 il Pds, per la rottura che porterà alla nascita di Rifondazione comunista, avrà il 16,11%, contro un Psi al 13,62%), anche se in anni precedenti, il Psi avrà come referenti nel Pci quelle fran ge come i miglioristi e gli esponenti della potente area emiliana, che proporranno, invano, a Natta e Berlin guer per un'alleanza con i socialisti e il passaggio alla socialdemocrazia. Fra la fine degli anni Settanta e l’inizio del nuovo decennio il «nuovo Psi» è una realtà che si fonda su cinque elementi quali la citata revisione ideologica antimarxista, il ritorno al governo con la Dc e col Pci condannato all’emarginazione, la consapevolezza di essere il baricentro delle coalizioni, della governabilità e di conseguenza della stabilità economica, la sconfitta delle opposizioni di sinistra entro il partito e, infine, la 34 A. Asor Rosa, La sinistra alla prova. Considerazioni sul ventennio 1976-1996, Einaudi, Torino 1996, pp. 78, 79. 35 G. Amato, L. Cafagna, Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni ‘70, Il Mulino, Bologna 1982, p. 231. 36 Il «preambolo» era il gruppo di correnti moderate che si presentò al XIV congresso Dc, a sostegno della candidatura a segretario di Flaminio Piccoli e con l’obiettivo di estromettere Benigno Zaccagnini dalla direzione del partito. Ne facevano parte le correnti moderate, cioè i dorotei dello stesso Piccoli e di Antonio Bisaglia, Primavera di Andreotti, Forze Nuove di Carlo Donat Cattin e i sostenitori del napoletano Antonio Gava. Il nome prende origine dal preambolo al documento congressuale che fu sottoscritto dai maggiori esponenti della nuova maggioranza nel quale si escludevano ulteriori accordi di governo con il Pci. La spiegazione più semplice al “preambolo” si può leggere nell’intervista a Donat-Cattin di Paolo Torresani: «Non ho mai considerato l’ipotesi di un partito comunista che diventa in certo qual modo socialdemocrazia, in sostanza l’ipotesi di Scalfari e di parecchi nostri amici democristiani […] La rappresentatività di classi e di energie nuove sono tutti elementi che sospingono a cercare il pieno coinvolgimento del partito comunista nella vita dello Stato democratico, ma senza abbandonare il compito storico che la DC ha esercitato e continua a esercitare: quello della garanzia delle istituzioni e della gestione democratica. La questione comunista è aperta: seria, importante e grave» (cit. in La mia Dc. Intervista a Donat Cattin, di P. Torresani, Vallecchi, Venezia 1980). fondazione del partito leaderistico, che fanno del Psi il partito craxiano, diventando «per lo stile della leadership, per il suo appello politico, per la sua strategia, un partito nuovo. Mai così unito al suo interno, mai così identificato con la guida di un uomo, mai così aggressivo e visibile, il Psi rappresenta una novità sulla scena politica italiana».37 Questo avviene con la fine del pluralismo in terno al Psi. Un tempo esso era diviso in aree, e lo stesso Cra xi era alla guida del partito grazie a tali giochi di corrente. Tale pluralismo reggeva finché rimaneva in auge l’asse Craxi-Signorile (il leader della sinistra lombardiana che aveva permesso la vittoria del primo nel 1976 con la svolta del Midas), ma l’accordo fra destra autonomista nenniana – da cui nasce Craxi – e sinistra interna lombardiana salterà nel 1978, quando sarà evidente che il neo-segretario socialista avrà in mente il progetto “autonomista”, per ridimensionare il Pci, di riproporre un nuovo centrosinistra, l’accordo organico con la Dc, in sintonia con l’impostazione del nume tutelare craxiano, l’anziano Pietro Nenni, che farà saltare così l’asse con i lombardiani. Fra il 1979 e il 1980 Craxi entra in conflitto non solo contro le “elucubrazioni intellettuali” già viste (v. il conflitto con lo staff di «Mondoperaio»), manifestatesi con degli appelli contro il verticismo craxiano,38 ma anche contro le manovre della sinistra lombardiana legata a Signorile. L’approccio del leader verrà definito negli anni Ottanta socialcraxismo, riferendosi ad uno stile tutto personale fatto di spregiudicatezza, schiettezza, risolutezza, determinazione e giovanilismo, 39 in sintesi «decisionismo». Vi è perciò una continuità con le altre socialdemocrazie europee, ma la novità, tutta post-modernista, dove la politica di partito è identificata col leader e, lo si noterà al congresso di Palermo del 1981, la struttura organizzativa rimane fagocitata, poiché integralmente ancillare all’iniziativa del leader, e nel mentre, non solo le opposizioni interne tacciono, ma anche la dialettica interna si inaridisce. «La promessa di ridare smalto alle fortune del socialismo – nota la Colarizi – ha di per sé un effetto trascinante sulla base: galvanizza gli umori depressi dei tanti simpatizzanti socialisti che il declino elettorale ha allontanato da ogni militanza attiva». 40 Lo stile craxiano ben si confà alla promozione della «Grande Riforma», promossa su «l’Avanti!» il 27 settembre 1978, linea che lo storico cattolico Pietro Scoppola definirà «neo-plebiscitaria», volta a trasformare la nostra in una “democrazia governante”, che «si riduceva a due punti principali: repubblica presidenziale (di tipo francese) o, in subordine, cancellierato alla tedesca e clausola di sbarramento al 5% per le elezioni politiche. Nelle intenzioni, questo avrebbe consentito al Psi di assorbire i socialdemocratici, i radicali e forse anche liberali e repubblicani, consentendo la nascita di una “terza forza” intorno al 20-25% decisiva per ogni coalizione: sia con la Dc che con il Pci, che non potevano ripetere l’esperimento delle “grandi intese” fra loro due, dopo il fallimento della “solidarietà nazionale”.»41 Possiamo osservare, come nota Aldo Giannuli che si può tracciare obbiettivamente una linea Gelli-CraxiBerlusconi-Renzi, che stabilisce una continuità in nome della governabilità. 42 Memorabili, infatti, le polemiche e le frasi di Bettino Craxi, riprese poi dal leader del centrodestra Silvio Berlusconi, contro le insufficien ze del Parlamento, la cui unica soluzione verte sul rafforzamento del potere esecutivo ai danni di quello legi slativo. L’intento della «Grande Riforma» si riconnetteva da una parte all’altro tema di fondo, quello della «governabilità» che stava baricentrando il partito su un nuovo asse politico centrale – e centrista, è il caso di dire – del sistema italiano, che ben si coniugava con la gestione cesaristica che Craxi, proprio in quel periodo, stava impostando nel partito a scapito dell’opposizione interna, e che, sfruttando la nuova vicinanza dell’ex lombardiano De Michelis a Craxi e il cambio di linea democristiano nel 1980 con la vittoria del grup po del «preambolo», archivia ogni idea di «alternativa socialista» lombardiana e rilancia «la parola d’ordine 37 G. Pasquino, La strategia del Psi: tra vecchie e nuove forma di rappresentanza, in «Critica Marxista», vol. 21, n. 1, 1983, p. 29. 38 Cfr. Un documento di intellettuali socialisti, in «l’Avanti!», 21 ottobre 1979, cit. in M. Gervasoni, Metamorfosi della cultura socialista? Il PSI e gli intellettuali, cit. I firmatari sono Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Luciano Cafagna, Giuseppe Carbone, Federico Coen, Paolo Flores d’Arcais, Ernesto Galli della Loggia, Gino Giugni, Roberto Guiducci, Lucio Izzo, Federico Mancini, Guido Martinotti, Franco Momigliano, Antonio Pedone, Luciano Pellicani, Giorgio Ruffolo, M. L. Salvadori, Luciano Vasconi. Il secondo documento in P. Guzzanti, Compagni, ecco quello che non ci va, in «la Repubblica», 18 dicembre 1979. I firmatari del secondo manifesto sono gli stessi del primo, eccetto Pellicani e Va sconi, i cui nomi non compaiono, a cui si aggiungono Franco Bassanini, Giovanni Carabba, Furio Diaz, Pio Marconi, Gianpiero Mughini, Giovanni Pasquino, Paolo Sylos Labini e Villetti. Secondo Gervasoni «Bisogna dire che il secondo manifesto è probabilmente finalizzato a intervenire direttamente nella caduta di Craxi e nella sua sostituzione.» 39 Cfr. G. Quaranta, Il socialcraxismo, in «L’Espresso», 23 luglio 1978. 40 S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., p. 508. 41 A. Giannuli, Se proprio vogliamo discutere di cosa fu il craxismo…. (3) “La Grande Riforma”, in aldogiannuli.it, 17 gennaio 2010, http://www.aldogiannuli.it/se-proprio-vogliamo-discutere-di-cosa-fu-il-craxismo-3-la-grande-riforma/. 42 Cfr. A. Giannuli, Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi): Il piano massonico sulla «rinascita democratica» e la vera storia della ssua realizzazione, Ponte alle Grazie, Firenze 2016. della “governabilità” che dà alla partecipazione socialista nel governo il significato di un atto responsabile per il bene del paese, [...] poi un ottimo alibi». La vittoria alle amministrative del 1980, col Psi che avanza di tre punti percentuali rispetto alle politiche dell’anno precedente, raggiungendo il 12,7% e il 20% a Milano, con Carlo Tognoli che ottiene 20.000 preferenze, lanciano Craxi a leader egemone nel partito, e il socialcraxismo diventa il marchio distintivo dei socialisti italiani. La ricerca della governabilità – e la relativa proposta presidenzialista – è favorita dal riflusso e dall’emergere negli anni Ottanta di nuovi dinamici gruppi economici-finanziari forti nell’Italia del Nord (si pensi al legame, anche di amicizia privata, che Craxi avrà con Silvio Berlusconi, che aiuterà ad emergere), che faranno del Psi l'avanguardia di un progetto di neocapitalismo laico e liberalsocialista e alla nuova borghesia dei servizi, che si stava affermando nella società post-industriale. Infatti: «Gli intellettuali ora si chiedono quale debba essere il ruolo del PSI in una tale fase. Da qui lo spunto per una riflessione programmatica che debba dare al PSI una veste di partito non più per l’alternativa ma concorrenziale alla Democrazia Cristiana, al governo ma non schiacciato in difesa dello status quo. Un partito capace di riformare il sistema, emendandolo dal carattere partitocratrico, dal clientelismo, dal consociativismo, dalla presa dello Stato sulla società. L’occasione per il rilancio degli intellettuali è dato dalla conferenza di Rimini del 1982, che costituisce il trait d’union tra la riflessione valoriale degli anni 1976-1979 e il suo tentativo di messa in opera. Qui i sociologi, i politologi e gli economisti hanno il proscenio, poiché si tratta di scoprire i caratteri nuovi della società italiana. Nelle relazioni di Fe derico Coen e di Giorgio Ruffolo, di giuristi come Federico Mancini, Enzo Cheli, Gino Giugni, Massimo Severo Giannini, di sociologi come Alberto Martinelli, Francesco Alberoni, Luciano Gallino, Luciano Benedusi, Giovanni Bechelloni, “post industriale” è lo slogan più diffuso: il PSI deve farsi partito rappresentativo di nuovi soggetti sociali, dai piccoli imprenditori ai professionisti, quel mondo “produttivo senza voce” a cui i socialisti intendono fornire visibilità. Soprattutto nelle relazioni di Alberoni e di Martelli (che qui lancia lo slogan dell’“alleanza dei meriti e dei bisogni”) l’accento è posto sulla società degli individui, la cultura politica socialista riformista deve rispondere alle richieste dei singoli in una prospettiva di regolazione che non soffochi le diverse spinte che vengono dalla società. Rispetto al programma del 1978 troviamo una interazione tra intellettuali e politici, con interventi alternati degli uni e degli altri, mentre il legame con la tradizione è assicurato dalle relazioni degli storici, Arfè e Tamburrano.»43 Questi convegni confermano che il Psi rappresenta lo Zeitgeist dominante degli anni Ottanta, facendosene portavoce e, a differenza dei comunisti italiani che difenderanno un modello fordista in crisi e non punteran no a difendere le vittime delle nuove contraddizioni sistemiche (intercettando il consenso dei colletti bianchi, pur sempre salariati, delle partite IVA, dei disoccupati e dei non garantiti, oltre che la classe operaia già sindacalizzata e dei pensionati, in un’epoca in cui si stanno formando prime forme di critica populista localista e neo-qualunquista, come le leghe regionali nell’Italia del Nord), sarà sagace perché colse il cambiamento strutturale di quegli anni cavalcandolo elettoralmente (nei limiti del sistema italiano). Ma non sarà una pecu liarità esclusivamente italiana. Il politologo Gianfranco Pasquino, in un articolo sulla mutazione del Psi pub blicato su «Critica Marxista» scriverà infatti che «Tutti i partiti socialisti dell’Europa occidentale nascono come partiti della classe operaia [e] tali rimangono fino alla metà degli anni sessanta [...] Ma per vincere le elezioni […] devono far breccia in altri gruppi sociali», 44 strategia comprensibile e fatta propria anche dal Pci, che nello stesso periodo non solo si aprirà elettoralmente ai ceti medi, ma nella metà del decennio suc cessivo assisterà, nel 1975, «anche in conseguenza del successo nelle elezioni amministrative, c’è un drastico trasferimento di quadri – i migliori, i piú preparati, i piú capaci – negli enti locali, per far fronte all’amministrazione delle città, delle province; uno svuotamento del ruolo di questi quadri sperimentati nel partito e un ingresso vasto e tumultuoso di piccola e media borghesia nelle strutture di partito, nelle sezioni, che non è di per sé un fatto negativo, ma che diventa devastante in quanto si accompagna alla de-proletarizzazione nella composizione degli organismi e alla de-ideologizzazione del clima culturale interno al partito. Sono proprio queste classi medie progressiste, orientate a sinistra, assieme ai loro intellettuali di riferimento, che portano nel partito le ideologie più eclettiche e stravaganti senza trovare un adeguato contrappeso, una massa critica sufficiente di anticorpi. Tutto ciò si combina con la graduale scomparsa delle cellule sui luoghi di lavoro, con il primato delle sezioni territoriali e della dimensione elettorale, propagandistica, istituzionale della politica; l’assenza di una formazione politico-ideologica dei quadri e delle nuove generazioni.»45 Ciò favorì la gradua43 M. Gervasoni, Metamorfosi della cultura socialista? Il PSI e gli intellettuali, cit. L’autore cita nel testo G. Arfé, Recuperare la tradizione socialista, G. Tamburrano, Un partito che ha la storia più lunga e più ricca, in Conferenza programmatica del Psi, Rimini 31 marzo-4 aprile 1982, Quaderni de «Il Compagno», Roma 1983. Quasi contemporaneamente a Bologna, segnala sempre Gervasoni, è organizzato un convegno del Psi sulla piccola impresa. Cfr. G. Acquavi va, Una proposta socialista per i ceti economici e dirigenti, in «l’Avanti!», 13 aprile 1982. 44 G. Pasquino, La strategia del Psi: tra vecchie e nuove forma di rappresentanza, cit., p. 30. 45 F. Sorini, S. Tiné, Alle origini della Bolognina e della «mutazione genetica» del Pci. Un contributo per tenere aperta la riflessione storica, in Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, a cura di A. Höbel, M. Albeltaro, Editori le «mutazione genetica» del Pci, destinato a sfociare nella svolta della Bolognina e nella sua auto-dissoluzio ne. Il Psi sarà certamente aperto al mondo del lavoro, ma non nel senso etimologico del laburismo, ma interclassista, non più da referente della classe salariata come quello degli albori e del primo centrosinistra, ma della borghesia emergente del nuovo miracolo economico anni Ottanta, della modernizzazione, capace di intercettare le professioni emergenti legate alla “cetomedizzazione” della società, e più specificamente quella che viene qualificata come «nuova borghesia», il cui epicentro è identificato in una metropoli europea e mo derna come Milano, la capitale di un nuovo modo di produrre, legato al terziario avanzato e all’espansione del circuito dei servizi, un nuovo partito aperto a stilisti cinematografari, finanzieri yuppies, architetti, scenografi, manager pubblici, pubblicitari, ecologisti che si emancipavano dal forchettonismo democristiano, dalla plumbea e grigia feudalità dorotea, dal grande capitalismo borghese del “salotto buono” e dai Fanfani come dagli Agnelli, dai Gava come dai Crespi, raccogliendo la domanda di rappresentanza politica di quei nuovi gruppi sociali stabilendo un nesso diretto tra la loro esistenza e la sua identità politica con discorsi che vanno nella direzione della «società postmoderna» in quanto postindustriale, una «nuova borghesia» che mette al centro il tempo libero, inteso ormai non come parentesi esistenziale, ma come identità fine a sé, una strategia di successo per il Psi che risiedeva nell'alleanza tra gruppi privati emergenti e statali per scardinare il “bipar titismo imperfetto” Dc-Pci, ormai senza alternanza. Le simpatie che il Psi trova in quegli anni trova nel mondo degli imprenditori e dei cosiddetti ceti emergen ti, spingeranno dunque i craxiani, nel 1987, a ideare delle tessere di partito con l'immagine de Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, ma “aggiornata”: l’opera, che originalmente rappresenta le rivendicazioni dei lavoratori durante la rivoluzione industriale per indicare la classe lavoratrice salariata formata da operai, contadini e artigiani, cioè lo strato più basso della società’, quello dei subalterni al terzo stato cioè la borghesia, un’opera forte della sua pregnanza iconografica durante tutto il Novecento, 46 nella tessera socialista il proletariato immaginato da Pellizza si trasforma in un corteo compatto di professionisti, di yuppies rampanti, di donne in carriera che sfoggiano tailleur alla moda e tacchi a spillo, ma con pochi, e indistinti, operai, con cui il craxismo entra in conflitto all’inizio del decennio, a indicare la citata “cetomedizzazione” del Psi cra xiano e la sua nuova natura di catch-all party, cioè partito pigliatutto, molto spregiudicato anche ideologicamente parlando, che, in virtù della peculiarità post-modernista per cui, finita la modernità e con lei le grandi narrazioni dell’età moderna (illuminismo, idealismo, marxismo) che avevano giustificato ideologicamente la coesione sociale ispirando le utopie rivoluzionarie, e si apre ora un’era fluida e post-ideologica che mette in crisi il pensiero totalizzante, aprendo interrogativi sul problema di reperire criteri di giudizio e legittimazione locale e non più universale, portando alcuni settori craxiani non solo a diventare il referente elettorale di chi, nel decennio precedente, veniva definito come «padrone», ma contribuendo a rimuovere la pregiudiziale an tifascista dell’arco costituzionale nei confronti della destra nazionale, con aperture culturali nei confronti de gli ambienti intellettuali della destra missina e verso quella “nuova” e metapolitica di Marco Tarchi, alimentando inoltre la revisione storica per il Ventennio unito alla passione nazionale e risorgimentale durante la cosiddetta fase del “socialismo tricolore”. 47 Riuniti University Press, Roma 2014, p. 369. 46 Cfr. M. Onofri, Il suicidio del socialismo. Inchiesta su Pelizza da Volpedo, Donzelli, Roma 2009. 47 Negli ambienti postmissini Craxi è definito, ben prima di Berlusconi, il vero sdoganatore del Msi. Lo sosteneva an che, nel dicembre 2005, la figlia del leader socialista, Stefania Craxi, durante una tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Tatarella, vicina ad Alleanza nazionale, e dalla Fondazione Bettino Craxi a ricordare che «Nel 1983, incaricato di formare il governo, Craxi fu il primo presidente del Consiglio italiano ad aprire le consultazioni anche al Msi. E ricevette Almirante». Anche se, per sua stessa ammissione «tra Craxi e Almirante c'erano ben pochi punti di contatto [...] Ma su due punti si capivano: entrambi erano due politici puri, senza nessun altro interesse che la politica, l'ambizione di far crescere il proprio partito; e poi l'amor di patria e la convinzione che fosse necessario dotarla di istituzioni forti, da qui le battaglie per la grande riforma istituzionale della repubblica presidenziale», ed «è da lì che il Msi prese le mosse per la lunga traversata fino al governo della Repubblica», perché «tanto è stato duro, traumatico il cambiamento imposto da Craxi, tanto è stato morbido il processo seguito dal Msi, oggi An» (cit. in «Mio padre Craxi, il primo sdoganatore della destra», in iltempo.it, 2 dicembre 2005, https://www.iltempo.it/politica/2005/12/02/news/mio-padre-craxi-ilprimo-sdoganatore-della-destra-396437/). Cfr. inoltre M. L. Andriola, Fra postmodernità, crisi del marxismo e affermazione delle nuove destre metapolitiche: il caso italiano, in «Paginauno», n. 62, aprile-maggio 2019, pp. 46-55, dove viene documentato l’incontro fra intellettuali di sinistra, spesso craxiani, come la redazione di «Mondoperaio» o di «Pagina», quest’ultima composta da intellettuali post-operaisti o post-sessantottini come «Ernesto Galli della Loggia, Massi mo Fini, Pierluigi Battista, Paolo Mieli e Aldo Canale [...] le cui pagine costituiranno uno dei luoghi privilegiati del dia logo con le nuove espressioni della cultura di destra», fenomeno che Marco Revelli classificherà come «aperture di cre dito da parte socialista nei confronti della “nuova destra”» e dell’intellighenzia missina (M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 44). Questo cogliere elettoralmente il generarsi di una nuova società facendola propria, porterà ad una radicale “mutazione genetica” del Psi e di rimando della sua classe dirigente, che diverrà il riflesso del suo elettorato, ed erano ormai più simile ai rampanti professionisti finanziari dell’epoca che alla classica iconografia operai sta del socialismo italiano, sia riformista che massimalista, e la cosa si espletava visivamente, scrive Manuel Barrese, nei «faraonici congressi socialisti, i primi in Italia ad essere organizzati alla maniera americana con largo impiego di apparati scenici pensati appositamente per innescare l'emotività del pubblico, dall'altra si rivelò cruciale l'azione di modernizzazione dei simboli e delle icone distintive del PSI che, nel concreto, portò alla fortunata adozione del garofano rosso» dato che «fu grazie all'apporto di Filippo Panseca, demiurgo del le effimere, e spesso criticate, scenografie delle conventions socialiste, e del grafico Ettore Vitale, artefice della messa a punto del nuovo simbolo del garofano nonché del suo codice di applicazione, che gli ideali cra xiani poterono trovare una convincente visualizzazione.» 48 Il partito, infatti, era diventato, in conformità alla sua ascesa elettorale negli anni del riflusso delle lotte sindacali, dell’inizio dell’affermarsi della finanza e dell’affermazione di una mentalità post-ideologica, in netta differenza al decennio precedente, un partito meno capillare, meno militante e meno strutturato dei due principali contendenti. Fu allora che comparvero in seno al Psi i tratti più eclatanti dello scadimento e della spettacolarizzazione della politica a scapito non solo della democrazia interna fatta di dibattito – di fatto, come dicevamo, il Psi, sconfitta l’ala sinistra legata a Signorile, si identificherà con Craxi e col craxismo –, portando Rino Formica, fra i stretti collaboratori di Craxi, a parlare di quella craxiana come di una corte di «nani e ballerine», riferimento all’Assemblea nazionale socialista, organo privo di ogni autonomia e potere decisionale, con cui si era deciso di sostituire il Comitato centrale, fino ad allora vero organo politico del partito, ormai piena di perso naggi nominati dal leader ma provenienti non dalla politica, ma dal mondo dell’arte e dello spettacolo, come Gigi Riva, Alberto Lattuada, Francesco Alberoni, Nicola Trussardi, Giorgio Strehler, Sandra Milo, Lina Wertmuller, Gerry Scotty, Ornella Vanoni, Marina Ripa di Meana e tanti altri. Nel 1984, a conclusione del Congresso di Verona, Craxi venne eletto Segretario “per acclamazione”, e Norberto Bobbio scrisse un seve rissimo editoriale sul quotidiano torinese «La Stampa», dal titolo La democrazia dell’applauso, che accentuerà il suo distacco dal craxismo, che iniziava così: «Non riesco a capire come il partito socialista che si considera democratico, ed anzi si ritiene al centro del sistema democratico italiano di cui avrebbe reso possi bile in questi anni la governabilità, abbia acconsentito ad eleggere per acclamazione il suo segretario genera le». E proseguiva: «L’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica. È la maniera […] con cui i seguaci legittimano il capo carismatico; un capo che proprio per il fatto di essere eletto per acclamazione non è responsabile di fronte ai suoi elettori. L’ acclamazione, in altre parole, non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua “missione”». L’articolo concludeva con qualche parola di comprensione per “l’entusiasmo” dei militanti di quel partito felici di avere per Segretario «un uomo politico di forte carattere, autorevole, che ha dato al partito un’unità sinora sconosciuta» ma con l’invito, perentorio «a ricordare ancora una volta che la democrazia è il governo delle leggi non degli uomini».49 Ovviamente, non va affatto tralasciato l’annoso problema della “questione morale”. Il Psi craxiano, a diffe renza delle socialdemocrazie europee – o dello stesso Pci, anche per la peculiarità tutta italiana che vede il suo predomini a sinistra nello spazio politico generalmente occupato dalle socialdemocrazie – non aveva un fortissimo radicamento nei sindacati e nelle cooperative. Mentre il Pci riceveva finanziamenti dall’Unione Sovietica, peculiarità nota ben prima del controverso dossier Mitrokhin, e aveva una cospicua risorsa nelle cooperative oltre che nelle strutture sindacali, il Psi, che durante la fase del frontismo beneficiava in parte dei rubli moscoviti, dopo la rottura dai comunisti poté accedere al sistema delle partecipazioni statali e dell’industria di stato dapprima solo attraverso l'intercessione della Dc, cui poi pagava pegno politico, partito che ave va l’appoggio economico degli Stati Uniti e del Vaticano. Ma l’autonomia craxiana spingerà questi ad una maggiore spregiudicatezza, facendola esporre più di altri partiti alla ricerca di un finanziamento diretto delle frazioni della nuova borghesia, che per i grandi gruppi erano comunque profusi trasversalmente, una vicenda che si inserisce nelle torbide vicende dei legami fra classe imprenditoriale, banchieri, politici e scandali come quelli della P2 e del crac del Banco Ambrosiano dei primissimi anni Ottanta, che confermano che è fisiologi - 48 M. Barrese, Tra il garofano e Il Quarto Stato. L'identità visiva del Partito Socialista Italiano nell'era craxiana, in engramma.it, n. 114, aprile 2014, http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1533, articolo utilissimo, da cui ho tratto informazioni, citazioni e bibliografie utilizzate in questo saggio, sull’apparato scenico del Psi degli anni Ottanta, di forte derivazione post-modernista. 49 N. Bobbio, La democrazia dell’applauso, in «La Stampa», 16 maggio 1984. co, nel vigente sistema capitalista, che le variegate frazioni della borghesia imprenditoriale finanzino e supportino, legalmente e non, i propri rappresentanti per ottenere dei vantaggi. Questo farà sì che Craxi, forte del sostegno del ceto imprenditoriale privato, mirerà a neutralizzare, da una parte, il peso comunista nel sistema politico italiano e la drastica riduzione del conflitto di classe esploso una quindicina di anni prima, e mai del tutto riassorbito, favorendo dall’altra fine dell’unità sindacale (socialisti contro comunisti nella Cgil, e quest’ultima contro Cisl e Uil), senza però dimenticare la ricerca di un consenso generale e trasversale e interclassista. Il tutto, va detto per onestà intellettuale, rientra ancora in quel pro cesso di «concentrazione sociale» tipico dell’Italia postbellica che si proponeva di costituire un luogo organi co e permanente ma non istituzionalizzato di mediazione sociale, aggiustamento e confronto, quel «patto dei produttori» coi sindacati e partiti visti come intermediari del «compromesso socialdemocratico» su cui si era retto il sistema, in Italia e in Europa occidentale durante i gloriosi trenta (1945-1975), la regolazione democratica del capitalismo, cioè l’orientamento della creazione di valore al lungo periodo e l’affermazione di un circolo virtuoso investimenti-salari-welfare, in cui «Attraverso gli investimenti era possibile ottenere un aumento della produttività che a sua volta consentiva la crescita dei salari e la copertura del sistema del welfare […] Il [cui] circolo si chiudeva e diveniva virtuoso perché la presenza di alti salari e del welfare imponevano alle economie nazionali di fondare la propria competitività sulla continua innovazione dei processi e dei prodotti, anziché sulla svalutazione del lavoro».50 È nell’ottica della «concentrazione sociale» – il che inquadra Craxi nella socialdemocrazia novecentesca – che va analizzato l’accordo di “S. Valentino” del 14 febbraio 1984, nato all’inizio come verifica del prece dente patto sociale, l’“accordo Scotti” (dal nome del ministro del lavoro che l’aveva promosso), che prese la forma di un vero e proprio patto di concertazione sociale sotto l’impulso craxiano e del ministro del lavoro De Michelis per concordare con le parti sociali una complessa manovra atta a sviluppare una vigorosa azione anti-inflattiva, visto che, come poi vedremo, Craxi ereditò una grave situazione con l’inflazione del 20%, e di rilancio delle attività produttive, della ricerca e dell’occupazione per poter agganciare il sistema economico nazionale ad una ripresa mondiale mentre l’economia reale marcava all’epoca, come oggi, una preoccupante stagnazione. La riduzione dell’inflazione, che favorirà la difesa del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, e conseguentemente della dinamica prevedibile della derivante contingenza, furono programmate attraverso la “prederminazione” per il solo anno 1984 dei futuri scatti di contingenza, o “scala mobile”, e la parallela “predeterminazione” delle dinamiche delle tariffe e dei prezzi controllati e con un impegno da parte delle imprese a “muovere” i prezzi liberi in coerenza con tali obiettivi. L’accordo fu siglato da da tutte le organizzazioni imprenditoriali dell’industria, commercio, servizi, artigianato, agricoltura e cooperazione, anche schierate a sinistra, da Cisl e dalla Uil e accompagnate dall’assenso della componente socialista della Cgil, non venendo però firmato, all’ultimo momento, dopo aver concorso in precedenza con i suoi segretari confederali a scrivere molte pagine dell’intesa, dalla Cgil, per la maggiore egemonizzato dal Pci, forza politica però, che nell’inverno del 1977, in piena stagione di “austerità” e col suo appoggio esterno al governo monocolore Andreotti – il governo della «non sfiducia» – e si era appena imba stita la classica e severa manovra che a quei tempi prendeva il nome di «stangata», con l’abolizione delle fe stività, l’aumento del tasso di sconto, l’aumento della benzina, della luce, delle sigarette, dei saponi, dei fertilizzanti, delle tariffe postali, dei biglietti dei treni, delle assicurazioni auto, e per evitare il peggio furono anche congelati gli scatti della scala mobile e in cambio i lavoratori ne ebbero dei Bot non vendibili per un anno e mezzo, come ricorda l’allora migliorista Giorgio Napolitano nel suo libro Dal Pci al socialismo europeo (Laterza, 2007), confermando che l’opposizione all’accordo di “S. Valentino” – legittimo, sia chiaro – aveva però da parte del Pci una mera finalità anticraxiana. La sconfitta, nel 1985, del fronte del Sì che raggiunge il 45,7% dei consensi contro il 54,3% del fronte del No, favorevole al taglio, dimostra però, d’altro canto, che la politica di logoramento ai danni dei comunisti era riuscita appieno, e che il decisionismo di Craxi, che attribuì alla vitto del Sì effetti traumatici sulla vita del Paese e del futuro dell'esecutivo, convalidava una “svolta a destra” dei socialisti italiani (molto simile ai vecchi centristi del Psdi saragattiano) che rendevano il Psi un precursore – ben più di Mitterand che accetta quasi a malincuore la svolta deflazionista per il “bene” dell’integrazione francese al sistema monetario euro peo – dell’evoluzione neoliberale che avrà la socialdemocrazia europea negli anni Novanta con l’accettazio ne della terza via blairiana.51 50 S. De Bartolo, Dal compromesso socialdemocratico all’egemonia neoliberale, in pandorarivista.it, 27 febbraio 2010, https://www.pandorarivista.it/articoli/dal-compromesso-socialdemocratico/. 51 Giuliano Parodi dirà: «Si sarebbe dimesso Craxi in caso di sconfitta? Risposta naturalmente impossibile: certamente la sconfitta di un certo modo di interpretare la lotta a sinistra rappresentò il momento migliore della presenza socialista al governo del paese, e forse un precedente importante rispetto alle politiche di là da venire del New Labour britannico e della socialdemocrazia tedesca alla Schroeder» (G. Parodi, L'Italia diffidente, in «Mondoperaio», n. 1/2017, p. 12). Anche un’analisi critica verso il socialismo liberale di Craxi, che come dicevamo anticipò il filone che si identificherà nella terza via di Tony Blair, non può non riconoscere al segretario socialista non pochi meriti: sorvolando, perché se ne parla spesso, e a sproposito, delle vicende relative a Sigonella dove Craxi viene dipinto come antesignano del “sovranismo” (vicenda da inquadrare nell’applicazione del “lodo Moro” e nella politica estera italiana della Prima Repubblica), sono altre le vicende relative al Psi di Craxi su cui andrebbe fatta luce, ricercandone i meriti prima e durante la sua permanenza a Palazzo Chigi, specie in campo econo mico: è lì che si registreranno i successi di Craxi, col calo dell’inflazione, dal 1983-1987 dal 12,30% al 5,20%, favorendo così l’economia italiana che registrerà una crescita dei salari di due punti in al di sopra dell’inflazione, che proietteranno il Paese come quinto paese industriale fra i più avanzati al mondo, un risultato straordinario conseguito non con “cure da cavallo” auspicate dai retori delle “lacrime e sangue” di scuola neoliberista che determinano inevitabilmente, come effetto collaterale della terapia, pesanti recessioni economiche, ma con un modello economico misto e senza massicce privatizzazioni o deflazionismo. Ma di contro, però, in quegli anni il debito pubblico passò da 400mila a un milione di miliardi di lire e il rapporto debito-Pil dal 69 al 92%. Secondo molti opinionisti sarà tale debito a obbligare, per il successivo passaggio del la lira dalla banda larga a quella stretta del Sistema monetario europeo voluto dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi e la speculazione finanziara del famigerato mercoledì nero, il governo del socialista Giuliano Amato a varare una manovra “lacrime-e-sangue” da 93mila miliardi di lire cancellan do completamente la scala mobile e l'indennità di contingenza, e al suo posto è stato introdotto per tutti i la voratori dipendenti (dirigenti esclusi) l’elemento distinto di retribuzione, senza la riforma delle pensioni e il contestatissimo prelievo forzoso del 6 permille dai conti correnti degli italiani. Ma Craxi, in quella fase, «fu allontanato, poi letteralmente estromesso dalla vita politica con il “tradimento di Scalfaro” che nominò Ama to Presidente del Consiglio nonostante le forze politiche vincitrici delle elezioni dell’aprile 1992 avessero indicato Craxi [che] non voleva fare le privatizzazioni e il ruolo di quel governo doveva essere proprio quello di privatizzare tutto. Amato fu subito pronto, nominato il 29 giugno già l’11 luglio con decreto 333 trasforma in S.p.a Eni, Enel, Iri, Ina. Poi tutto il resto è storia. Ma Amato e Ciampi erano i due più acerrimi nemici di Craxi negli anni ’90, costantemente attaccati da articoli del leader socialista e pensare che Craxi avrebbe po tuto in qualche modo influenzare le loro decisioni è quantomeno irreale.» 52 Ma se Craxi non è responsabile della manovra lacrime-e-sangue di Amato, lo è almeno del debito degli anni Ottanta? Partiamo dall’inizio: nel 1981 durante il governo Spadolini, il primo che vedrà un politico non proveniente dalla Dc alla presidenza del Consiglio, avverrà il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, quando l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi posero fine, da un punto di vista formale, dall'obbligo per la banca centrale della garanzia del collocamento integrale in asta dei titoli pubblici offerti dal Ministero del Tesoro, cioè l’acquisto sul mercato primario dei titoli invenduti, operazione mai ratificata dal Parlamento. Da quel momento gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca d’Italia si ridussero, aumentando la quantità di titoli che il governo doveva piazzare presso i privati a tassi di mercato. Di contro la Banca d’Italia alzò drasticamente i tassi di interesse, e combinato di questi due fattori – unito alla riduzione del tasso d’inflazione, per effetto della stretta monetaria della BdI, e al rallentamento del tasso di crescita – fecero schizzare verso l’alto i tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) sui titoli Stato, operazione funzionale alla partecipazione italiana al Sistema monetario europeo, a cui l’Italia aveva aderito nel 1979, e che frenerà come visto l’afflato riformista del socialista François Mitterrand in Francia nel 1982-1983, imponendo all’Italia di adeguare i propri tassi di interesse a quelli vi genti nei mercati europei (soprattutto tedeschi), presupponendo la riduzione del gap inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi europei, gap, va detto, conseguenza non della politica di monetizzazione del deficit/debito degli anni Settanta, ma della crisi petrolifera del 1973. Sarà questa la causa dell’escalation del debito pubblico, come ammetterà lo stesso Andreatta su «Il Sole 24 Ore» il 26 luglio 1991: «la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale». Nel corso degli anni Ottanta il rapporto debito/Pil dell’Italia passò dal 58,5% del 1981 a poco meno del 100%, nonostante nell’anno del divorzio registrava un disavanzo del 5,8%, ridottosi nel corso degli anni Ottanta e Novanta, diventando positi vo. E qui si vedrà la posizione del Psi craxiano: nel 1982 il governo Spadolini II cadde a causa dello scontro politico fra il ministro del tesoro Beniamino Andreatta ed il ministro delle finanze Rino Formica, proprio su questo provvedimento. La crisi di governo che ne scaturì, che vedrà il Psi opporsi al divorzio, è ricordata con il nome ‘Lite delle Comari’. Ergo, Craxi – e lo diciamo pur evidenziando i limiti del craxismo, quindi con 52 L. Pinasco, Craxi e la politica economica, verità e mistificazioni, in ilmediterraneo.org, 23 gennaio 2020, https:// www.ilmediterraneo.org/23/01/2020/risposta-di-pinasco-agli-attacchi-a-craxi-da-sinistra/?fbclid=IwAR0Jfl0dKgA3DzmcPsVf-lmMyMuZyw04KUFMCRcc4p2UfrcqGWW5N9n_i9o. onestà intellettuale – si adoperò per scongiurare il divorzio Tesoro-Banca d’Italia, e fece di tutto per evitare che il debito pubblico diventasse un problema per l’Italia così com’è oggi. Con che provvedimenti? Va detto, a livello preliminare, che Craxi, quando era presidente del consiglio, non poteva far dimettere Carlo Azeglio Ciampi dal suo ruolo di Governatore della Banca d’Italia, nonostante questi fu l’attore prima rio della nascita del debito pubblico. Inizialmente Craxi cercò perciò di attrarre investitori controllando il tasso di inflazione, evitando l’aumento dell’interesse pagato sui titoli di debito, ma a nulla servì. Craxi compre se allora – e qui ci ricolleghiamo al grande cambio di paradigmi economici che aveva messo in discussione in keynesismo sdoganando il neoliberismo negli anni Ottanta – che i grandi agglomerati di capitale privato non seguivano le leggi dell’economia pubblica ma il proprio interesse, concretizzato in due fondamentali direzioni: da una parte l’internazionalizzazione del debito pubblico e dall’altra la privatizzazione delle aziende strategiche di stato. Craxi si opporrà a queste due politiche. Intuì che serviva, a seguito del divorzio del 1981, un sistema di banche pubbliche per coprire le spalle al debito pubblico, è favorirà perciò la nascita di un polo pubblico bancario-assicurativo formato da Ina-InspBnl, un grosso polo finanziario capace di ammortizzare e coprire le spalle alla grosso struttura del debito pubblico, cosa che oggi manca all’economia italiana. Nonostante questo, come detto prima, il debito pubbli co italiano sarà di una certa consistenza, non risultando però un problema nella misura in cui esso era, per così dire, di proprietà dei cittadini italiani alle sue imprese, divenendo una sorta di credito per le generazioni future fatte in titoli di stati rimborsabili con gli interessi. Il problema sorgerà con la successiva politica di “internazionalizzazione” del debito pubblico, con una percentuale del 4% nel 1988 – a un anno dalla fine del governo Craxi – e del 32% nel 2018, contro il 75% di debito pubblico in mano alle famiglie e alle imprese italiane alla fine del governo Craxi e il 6% sempre nel 2018. Questa fuoriuscita di ricchezza dalle mani dei cittadini può, se utilizziamo la categoria oggi tanto in voga di “sovranità”, essere un cedimento ai danni della sovranità economica di uno Stato. Lo scrive l’economista keynesiano Luca Pinasco, che scrive che Craxi: «Capì che se ad esempio il governo dovesse proporre una politica di spesa pubblica da 30 miliardi, al fondo speculatore di turno basta vendere una piccola quota di titoli italiani per causare un incremento di 10 miliardi nella quota di interessi sul debito cosi da rendere insostenibile la politica di spesa. O ancora peggio il pericolo che la vendita di titoli possa essere indirizzata a destituire un governo come accadde a Berlusconi nel 2011. [Inoltre] Craxi fu un ostacolo insormontabile al secondo obbiettivo degli speculatori in quanto si oppose energicamente all’ utilizzazione dello stru mento della privatizzazione, ovvero la svendita di quote delle aziende strategiche statali, per ridurre il debito, persino ricorrendo a direttive del governo per bloccare il piano di vendita dell’allora presidente dell’IRI Romano Prodi. Intuì che ciò avrebbe distrutto l’industria italiana dunque le maggiori fonti di reddito e lavoro dello stato, come effettiva mente dagli anni novanta fino ad oggi continua a succedere.»53 Da notare che diverse personalità citate in questa trattazione, da Romano Prodi (cresciuto alla scuola di Nino Andreatta) a Carlo Azeglio Ciampi passando per Giuliano Amato fino al Pci/Pds riformista che sosterrà l’austerità negli anni Settanta e negli anni Novanta, saranno tutti politici o riferimenti del centrosinistra postTangentopoli, i primi fautori delle privatizzazioni, dei cedimenti forzati di sovranità economica ai danni del paese e più accesi sostenitori dell’Unione europea e dell’ingresso dell’Italia nell’euro e della riconversione della sinistra al pensiero unico liberale e mercatista. Va detto però, sempre per equilibrio, che anche il Psi sarà una forza europeista, rimanendo al governo anche col governo Andreotti VII che portò l’Italia in Maastricht, trattato firmato dal ministro degli Esteri Gianni De Michelis (Psi), avviando il processo di modifica dei Trattati di Roma che avrebbe portato all’Atto unico europeo. Anche se va detto che Craxi da una parte e Andreotti dall’altro – perché l’unica forza contraria a Maastricht sarà Rifondazione comunista – criticheranno l’impostazione franco-tedesca del Trattato, mentre il leader socialista dirà più volte che l’Ue, se proprio andava fatta, doveva far prevalere l’elemento politico su quello economico, aumentando le politiche sociali. È stato detto però che il craxismo sia stato vittima di «un'analisi fenomenologica approssimativa, e orienta ta oltretutto da categorie [...] deformanti come l'edonismo individualistico e la spettacolarizzazione della politica, con annesso corollario del socialismo craxiano come prima espressione della “nuova politica” postmoderna, testimoniata appunto dal Cavaliere dopo il 1994.»54 Effettivamente le vicende del craxismo vanno inquadrate nel giusto contesto, quelle di una socialdemocra zia di un paese occidentale che stava mutando e si stava modernizzando, e che si stava perciò allineando agli altri paesi limitrofi, dato che era un'anomalia il partito socialista, marxista, massimalista e filocomunista in vigore dal dopoguerra all’era craxiana, solo che la narrazione comunista e postcomunista dominante in Italia a sinistra, che vedeva come una virtù l'unità delle sinistre modellata sul Fronte Popolare del 1948, s'indignerà 53 L. Pinasco, Il ritorno di Bettino Craxi, in «L’Intellettuale Dissidente», 11 giugno 2015, https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/esteri-3/oggi-ci-vorrebbe-craxi/. 54 L. Karrer, I riti mancati, in «Mondoperaio», n. 6-7/2016, p. 65. per un Craxi che, se cercava l'alternativa a sinistra, lo faceva cercando di ridimensionare a suo vantaggio il Pci e uscire dall’anomalia italiana del bipolarismo imperfetto che non permetteva l’alternanza per l’esistenza della conventio ad excludendum, l’implicito patto dei partiti centristi con il quale si escludeva pregiudizialmente ogni tipo di coalizione di governo con i partiti marxisti, creando una democrazia bloccata. L'anomalia craxiana, o l’idea che esisti in sé la categoria politologica del «craxismo» è una lettura falsata, ereditata dal conflitto Pci-Psi e da un’ostilità fatta propria dal Pci-Pds-Ds negli anni Ottanta-Novanta-Duemila, che vedrà in Craxi il precursore di Berlusconi, mentre esso era semplicemente una variante italiana del «socialismo li berale».