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Il consumo di informazione non può viaggiare soltanto sul web e sui social. Altrimenti rischiamo di finire in celle. Parla il filosofo dell’Oxford Internet institute colloquio con Luciano Floridi di Fabio Chiusi 46 26 febbraio 2017 L’Espresso VkVSIyMjVm9sb0Vhc3lSZWFkZXJfQW5zYSMjI2E4NzFmOTUwLTEwM2YtNDA0MC1hZDE2LTU4ZDdjYWQ0MGUzYSMjIzIwMTctMDItMjdUMDg6NTM6MjcjIyNWRVI= Foto: S. Kembowski - dpa / GettyImages La libertà L è fuori dalla bolla a rivoluzione dell’informazione è ormai arrivata alle masse. E l’impatto è tale da mutare la concezione stessa dell’umano. Luciano Floridi, filosofo dell’Oxford Internet Institute e tra i massimi esperti della materia al mondo, lo teorizza da anni: siamo “inforg”, esseri viventi cioè intesi come entità composte di informazione. Nemmeno la ruota o il motore a scoppio avevano potuto tanto, dice all’Espresso: le tecnologie che costruiamo ci stanno mutando radicalmente. Inevitabile dunque il passaggio da un mondo di carta a uno di bit cambi anche il nostro rapporto con la conoscenza e la cultura. Come, professor Floridi? «Il fenomeno noto è che la cultura non è più lineare, né ordinata nel senso in cui un libro è ordinato in capitoli; quello interessante, tuttavia, è capire cosa comporti. Da un lato c’è una certa liberalizzazione, che trovo positiva. Possiamo comporre la nostra scaletta di lettura. Leggere proprio quel capitolo, sentire quella canzone, vedere quel sito web, avere a che fare con quella pagina di Facebook. L’ordine dei miei tweet è un ordine che nessun altro ha. Basta prendere in prestito lo smartphone di un amico per non capirci niente, perché l’ordine in cui ha sistemato le sue icone, le sue funzionalità è tutto suo, è assolutamente personalizzato. Il passo successivo è comprendere che la linearità non era tale solo per un individuo, ma per tutti». Che significa? «Che non siamo più tutti in cammino sulla stessa strada. Si pensi alle notizie: prima del digitale era la storia ad adattarsi alla linearità dei mass media, piuttosto che viceversa. C’è meno uniformità a livello sociale, vero. Ma c’è anche un lato meno positivo, la sua controparte: la frammentazione. Noi che studiava- Numero zero mo queste cose alla ine degli anni ’80 pensavamo che questa liberalizzazione avrebbe comportato più intelligenza, più approccio critico, maggior dialogo, più tolleranza - banalmente, perché ciascuno avrebbe visto tanti altri angoli del mondo. Il lineare, pensavamo, comporta che o stai in ila o sei fuori luogo; se invece le strade sono tante un po’ di tolleranza diventa la norma, no?». Invece? «Purtroppo la molteplicità dei percorsi di letture, di acquisizione dei dati, di consumo dell’informazione, di dialogo e interazione ha comportato un rinchiudersi nelle proprie nicchie. È il famoso problema delle “bolle”. Oggi si chiama “ilter bubble”, ma era noto già trent’anni fa, anche se con il nome di “daily me”». Cosa è cambiato da allora? «Che l’impatto è talmente grande che chiunque se ne accorge. Dopo Brexit e Trump quello che era un discorso accademico è diventato realtà quotidiana. Ci sono milioni di individui che vivono in ambienti informazionali che sono del tutto slegati dalla realtà. A forza di interagire soltanto con chi e cosa ci piace, a un certo punto tutto il mondo diventa semplicemente un grandissimo “io”, una sorta di stanza degli specchi. Questo è pericoloso. Qui all’Oxford Institute facciamo molto lavoro sociologico, e abbiamo notato che l’impatto concreto è straordinario». Il passaggio dalla linearità alla frammentazione significa che viviamo in bolle e filtri ideologici più marcati dell’era della carta e della tv? «Certamente. Dipende dalle persone, però, perché anche qui c’è polarizzazione. Quelli che già vivevano parzialmente in una “bolla” oggi vivono in celle blindate. Se una volta compravi solo un certo giornale, per esempio, andavi comunque in edicola, e lì ti cascavano gli occhi sugli altri. Ora invece il resto semplicemente scompare, c’è una totale opacizzazione del resto del mondo». Ma non vale per tutti. «No, c’è una minoranza che invece vede il mondo in maniera molto più articolata. Il risultato è un ancora maggior distacco tra gli uni e gli altri. Perché questa polemica contro gli esperti, le élite: non c’eravamo già prima? No, non così. Perché oggi chi sta dentro una “bolla” lo fa interamente, e chi ne sta fuori lo fa altrettanto interamente. In passato stavamo tutti un po’ dentro e un po’ fuori, chi più e chi meno. La cosa si è estremizzata. Non siamo tutti nelle nostre “bolle”: tanti stanno nelle loro piccole “bolle”, ma alcuni stanno in tante “bolle” diverse, e se ne rendono conto. È che non parlano più con quelli che ne stanno dentro. È come se parlassero lingue diverse. Ecco perché vince Trump senza che media e intellettuali se ne accorgano. Il successo di Grillo, Le Pen, Farage, e la vittoria di Brexit seguono la stessa dinamica». Somiglia a quanto suggeriva David Weinberger in “Too Big To Know”: se la conoscenza diventa una proprietà delle reti, significa che perde il suo fondamento condiviso. «Va rivista l’idea di quali siano i fondamenti minimi del sapere comune. Oggi pensare che la tua fetta di cultura sia la torta è sbagliato. Ci sono tante fette, domani la torta sarà rimessa insieme, ma siccome non c’è ancora una cultura dominante dobbiamo avere un po’ di pazienza». Quanta? «Serviranno non una o due generazioni, ma uno o due secoli, o più. Eppure credo che una cultura davvero cosmopolita si stia formando, perché il mondo è sempre più piccolo. Ancora, dobbiamo fare attenzione a cosa intendiamo per “cultura”. Qualche definizione aiuta. Informazione uguale domanda più risposta; incertezza uguale domanda, ma senza avere la risposta; ignoranza è non avere neanche la domanda. Ecco, la cultura è ciò che fa passare dall’ignoranza all’incertezza; noi invece pensiamo sia il passaggio dall’incertezza all’informazione. Non è così. È quando inalmente sei in grado di porre le domande giuste che sei una persona acculturata». Oggi poi gran parte di quella frammentazione avviene in modo automatico. Non c’è, spesso, una scelta conscia di ogni persona di chiudersi dentro al proprio “daily me”: ci sono degli algoritmi - opachi - a farlo per noi. Pensa aiutino a formare la cultura cosmopolita di cui parla o che, invece, la ostacolino? «L’architettura delle “bolle” non è gestita da noi, ma è nelle mani di processi di automazione, di meccanismi so- PRIMA PAGINA vraumani - che vanno al di là dell’individuo. Questo è preoccupante. È un po’ come l’architettura di una città, il risultato di tante scelte e non scelte prese da soggetti diversi che si accumulano nel tempo e danno vita poi a un particolare sistema. Non possiamo lasciare sia l’artiiciale a decidere, dovremmo controllare questi processi in modo più consapevole». Ma questo insieme di architetture automatiche - fatto di “bolle”, frammentato, e dovuto al passaggio al digitale - che effetti ha sul cervello umano? La scienza, sull’argomento, sembra dividersi, e non dire molto di definitivo. «L’impressione è che l’impatto del digitale sulla cognizione umana non sia afatto chiaro ai neuroscienziati che lo studiano. Allo stesso tempo, c’è l’aspettativa ci sia eccome. Ciò che aggiungerei invece io, da filosofo, è che certo, il passaggio da una cultura lineare a una frammentata comporti delle trasformazioni, ma non vorrei se ne esagerasse la portata rispetto a tutti gli altri modi in cui il cervello cambia. Per esempio, imparare uno sport o certe abilità motorie all’età giusta. O ancora, il semplice atto di imparare a scrivere. Il digitale sta insomma trasformando il cervello? Sicuramente. Più di altre cose? Forse. È l’unica cosa? Sicuramente no». E se le intelligenze artificiali, come pare, dovessero presto consentirci di rinunciare alla scrittura e comunicare coi computer a voce, come con gli altri esseri umani? La preoccupa un’umanità senza familiarità col testo scritto? «Sì. La scrittura in tutte le sue forme quella meccanica con la penna, quella digitale con la tastiera - ha una funzione di controllo, nel senso buono del termine, del proprio pensiero, dei propri ragionamenti, delle informazioni che uno gestisce, che poche altre cose riescono a dare. Mi preoccupa un po’ dunque un eccessivo aidamento alla visualizzazione, alla parola orale, perché noi non siamo ai tempi di Cicerone, in cui si scriveva poco, certo, ma il controllo oratorio della parola era straordinario. Oggi invece ci lasciamo andare. E così abbiamo meno controllo sulle nostre idee, e disimpariamo a scambiare opinioni in maniera argomentata, tollerante e informata». Q L’Espresso 26 febbraio 2017 VkVSIyMjVm9sb0Vhc3lSZWFkZXJfQW5zYSMjI2E4NzFmOTUwLTEwM2YtNDA0MC1hZDE2LTU4ZDdjYWQ0MGUzYSMjIzIwMTctMDItMjdUMDg6NTM6MjcjIyNWRVI= 47