LIBERTÀ DAL SINAI
UGO VOLLI
Dal punto di vista di chi appartiene a una religione monoteista – e in modo del tutto particolare all’ebraismo – la nozione di
libertà religiosa appare oggi insieme necessaria e doverosa, ma
anche problematica. La si può perino considerare una forma di
ossimoro, almeno se si sta all’etimologia per cui la parola «religione» verrebbe da re-ligare, «vincolare assieme». È ovvio che per chi
pratica una vita religiosa è importantissimo che essa sia legalmente
ammessa, non soggetta a sanzioni e persecuzioni. Questa libertà
potrebbe essere in teoria riservata a una singola religione, e così è
stato spesso nella storia. Dal punto di vista etico, tuttavia, e anche
da quello pratico, in una società complessa come la nostra – ma
per l’ebraismo questo è vero dai tempi della diaspora, cioè da
millenni – non può esserci una libertà religiosa isolata, riservata a
una confessione, a discapito da tutte le altre: non sarebbe più libertà ma obbligo imposto con la violenza dello Stato. L’autenticità
dell’adesione dei fedeli sarebbe messa seriamente in discussione e
degenererebbe presto in adempimento burocratico mal tollerato.
È questa la libertà religiosa che potremmo deinire esterna, per
cui valgono le considerazioni introdotte nel pensiero europeo da
Baruch Spinoza (Trattato teologico-politico, 1670) e John Locke
(Lettera sulla tolleranza, 1685): la pace sociale e la sicurezza dello
Stato richiedono la sincerità del vincolo politico e quindi la libertà
di culto, cioè la possibilità di esprimere quello speciico legame col
divino che l’individuo sente nella sua coscienza.
Nonostante gli aspri dibattiti, i terribili spargimenti di sangue
e la maniera restrittiva e iniqua in cui il problema della libertà
religiosa è stato spesso risolto, oggi questo punto in Occidente
sembra chiaro a tutti, anche agli eredi di religioni e istituzioni che
in passato hanno aspramente combattuto questa libertà. I paesi
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in cui l’organizzazione del culto non è libera o è proibita a certe confessioni – come buona parte del mondo islamico, la Cina
ecc. – appaiono all’opinione pubblica odiosamente oppressivi e
incuranti dei diritti umani – salvo per quelle forme di relativismo
estremo, che qualcuno ha chiamato «razzismo umanitario», per cui
le nostre libertà non sono adatte agli altri, che essendo diversi non
devono essere «obbligati alle nostre libertà» –: una contraddizione
odiosa su cui non vale la pena di discutere. La libertà di religione,
in questa sua dimensione esterna, ci appare come un diritto soggettivo universale, che include naturalmente la possibilità legale di
cambiare religione o di non averne affatto.
LIBERTÀ E FEDE
Un problema sorge, però, se si considera la relazione interna che
il fedele ha con la sua religione, il cui carattere soggettivamente obbligatorio (dunque non libero) non può essere trascurato. L’importanza di questa natura implicitamente obbligatoria dell’adesione
a una religione generalmente sfugge. Ma esso è importantissimo,
soprattutto in quelle tradizioni –innanzitutto quella ebraica, cui
mi atterrò di qui in avanti – che consistono non tanto in una fede,
cioè in un particolare atto cognitivo, ma in una pratica, cioè in un
sistema di vita regolato da norme speciiche.
Nell’ebraismo le regole di vita sono dettagliate dalla Torah e
dall’insegnamento dei maestri: non si tratta solo di norme rituali,
ma anche di regole alimentari, matrimoniali e sessuali, di proprietà, sociali ecc.: i rapporti interumani appartengono alla sfera religiosa quanto quelli col divino ed entrambi sono sussunti sotto la
nozione di dat (letteralmente, «legge»), che è la parola più vicina
all’europeo «religione». È una religione dunque fatta di comportamenti più che di opinioni. La nozione di credo e di dogma arriva
in questa tradizione culturale molto tardi, appena nel Medioevo,
probabilmente per imitazione del Cristiaesimo e dell’Islam, soprattutto per opera di Maimonide – principalmente il Moré Nevuchim
o Guida dei perplessi –, che codiica in tredici principi la «fede»
ebraica: una mossa che non prevalse mai del tutto.
– 52 –
In realtà, come spiega Martin Buber (1950), la parola ebraica tradotta con «fede» è emunà (la stessa radice di amèn)1, che non indica
primariamente l’atto cognitivo del «credere che», ma il rapporto
personale con la divinità, la «iducia» in essa e ancor più la «fedeltà»
o la «fermezza» di comportamento che la sostiene. Dunque dal punto di vista ebraico l’adesione alla religione non ha a che fare con le
cose che «si sperano e non si vedono» ma è soprattutto accettazione
di un modello di vita, impegno assunto e rispettato di seguire certe
leggi, osservanza2. Il che naturalmente comporta una restrizione
dei comportamenti possibili: aderire all’ebraismo, da questo punto
di vista, richiede una rinuncia a una parte della propria libertà, per
esempio alla libera scelta del cibo da consumare. Dal punto di vista
interno, la religione non è libertà ma obbligo. Un tema delicato, che
è reso ancora più problematico dal fatto che tale rinuncia si presenta per la maggior parte dei fedeli a sua volta non solo come previa
(ereditata dai genitori) e dunque non libera, ma anche perché essa
è storicamente obbligatoria, intimamente legata com’è alla costituzione stessa del popolo ebraico. Un midrash – cioè un commento
rabbinico antico al testo biblico – contenuto nel trattato Shabbat del
Talmud lo mette in evidenza con un’immagine straordinaria:
«E si fermarono sotto il monte» (Es 19,17). R. Avdimi bar Hama bar
Hasa ha detto: Questo insegna che il Santo, benedetto Egli sia, ha
rovesciato la montagna su di loro come una botte, e ha detto loro:
«Se accettate la Torà, bene, ma se non lo fate, questa sarà la vostra
tomba»3.
Dunque nel momento stesso della Rivelazione i saggi del Talmud
leggono una costrizione divina, la quale, secondo l’etica ebraica per
1
Le trascrizioni dall’ebraico in questo articolo non sono realizzate secondo criteri linguistici scientifici, ma in modo da agevolare la pronuncia del lettore italiano non esperto.
2
Vale la pena di precisare qui che in questo articolo mi occupo della posizione di
principio che caratterizza l’ebraismo. L’osservanza di cui parlo ha preso molte forme
diverse a seconda dei diversi filoni di ebraismo, dei luoghi e delle epoche storiche, ed è
stata anche talvolta abbandonata da ambienti importanti della modernità ebraica, anche
se in questo momento appare in ripresa. Documentare questi cambiamenti e cercare
di spiegarli è un lavoro cui si sono dedicati gli storici e i sociologi e che qui non posso
certamente propormi.
3
Talmud bavli, Shabbat 88a.
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cui solo una scelta volontaria ha valore di merito4, diminuisce di
molto il senso dell’accettazione ebraica della Rivelazione, quel famoso naaseh v’nishmah («faremo e ascolteremo»: Es 24,7) oggetto
di tanti commenti rabbinici e da ultimo di una splendida «lezione
talmudica» di Lévinas. Il problema non sfugge ai maestri del Talmud. Nelle righe seguenti del trattato talmudico si legge:
R. Aha bar Yaakov ha osservato: «Questo fornisce la base per una
protesta forte contro [l’obbedienza alla] Torà»5. Raba disse: «Sia
come sia, hanno accettato nei giorni di Ahashverosh, com’è scritto:
«Gli ebrei hanno osservato e accettato» (Es 9,27) – hanno osservato
ciò che avevano già accettato –.
Achaferosh o Assuero è il nome del re persiano della megillah
(rotolo) di Ester, storia di persecuzione e di salvezza miracolosa
da un genocidio, in seguito cui, sostiene qui il Talmud, gli ebrei
avrebbero ri-accettato la Torà, praticandola dopo averla trascurata
– anche se di questo nel testo della megillah non si parla –. Anzi,
si insegna che esso è un’eccezione inquietante nel canone ebraico
perché il divino non vi è mai menzionato. Il punto signiicativo qui
per noi è che, accennando a un tentativo di genocidio, il nostro
brano talmudico lega implicitamente l’accettazione della legge alla
sopravvivenza del popolo ebraico. Anche la montagna rovesciata
era una minaccia, ma questa volta non si tratta di una punizione
divina, bensì dalla persecuzione umana. Accettare la diminuzione
della libertà sarebbe dunque condizione per preservare la libertà
più fondamentale di tutte, quella dell’esistenza6. Il che corrisponde
perfettamente al dato sociologico per cui il rispetto delle medesime
regole di comportamento quotidiano è stato funzionale alla preservazione dell’identità. Ma nell’accettazione della Torà, secondo i
maestri del Talmud, è in gioco molto di più, una decisione metaisica fondamentale. Prosegue infatti il midrash:
Resh Lakish ha detto: Perché è scritto: «E fu sera e fu mattina: il sesto
giorno», qual è lo scopo di quell’aggiunta di “il”? Essa insegna che il
Santo, benedetto Egli sia, ha stipulato un patto con le creature e ha
detto loro: «Se Israele accetterà la Torà, esisterete, ma se non lo fa,
tornerete indietro nel tohu vabuhu» (Gn 1,3).
Tutto ciò è espresso nel solito linguaggio igurato del Midrash,
ma vale la pena di leggere la spiegazione complessa che ne trae la
tradizione successiva. Scrive il direttore del Collegio Rabbinico
Italiano, rav. Gianfranco di Segni, citando un’opera del celebre
Maharal7:
Il Maharal di Praga dice8: «La Torà è qualcosa di troppo importante per l’esistenza del mondo intero perché venga lasciata alla libera
volontà del popolo ebraico (o di qualsiasi altro popolo). […] Gli
ebrei furono quindi costretti ad accettare la Torà per il bene di tutti,
di loro stessi come di tutto l’universo. Il mondo senza la Torà non
poteva sussistere, e non era quindi possibile rischiare di mettere a
repentaglio l’esistenza del mondo intero lasciando la libertà di scelta
agli ebrei: questi dovevano essere obbligati in tutte le maniere ad accettare la Torà». Il Maharal aggiunge anche che questa «violenza» che
gli ebrei subirono fu in realtà un atto d’amore che Dio fece verso di
loro: secondo una norma della Torà (Dt 22,28-29), colui che violenta
una donna non sposata è obbligato poi a prenderla in moglie, e non
potrà mai più ripudiarla. Dio quindi, che in un certo senso violentò il
popolo d’Israele (che come è noto è paragonato alla “sposa” di Dio),
non potrà mai più respingerlo e disconoscerlo ed è «costretto», per
così dire, dalla Sua stessa Torà a mantenere un legame particolare con
il popolo ebraico9.
Sono qui enunciati due altri limiti interni alla libertà religiosa
dell’ebreo: il primo è relativo al senso metaisico della Rivelazione e il secondo al rapporto che Israele ritiene di avere con il suo
Dio. Partiamo dal primo. Nella concezione ebraica la Torà non è
«storia della salvezza», come sostengono molti teologi cristiani,
cioè percorso per uscire dalla condanna del «peccato originale»
Rambam, Hil. Teshuva 5,4.
Dato che secondo la legge ebraica, non vi possono essere contratti sottoscritti sotto
costrizione, e l’essenza della Torah è vista come un patto (b’rit) fra Dio e Israele.
6
Vale la pena di citare a questo proposito un altro testo dello stesso periodo (Midrash
rabbà Shemot 41,9): «Che cosa significa libertà? Rabbi Jehudà dice: libertà dai regni stranieri. Rabbi Nehemjà dice: libertà dall’angelo della morte. Ma i nostri maestri dicono:
libertà dalle sofferenze, testo citato in Mello 1993, p. 188.
7
Rabbi Judah ben Bezalel Loew, rimasto nella leggenda popolare come il creatore del
Golem, ma grande teologo e studioso di Kabbalah, rabbino capo di Praga nel Seicento.
8
In Tiferet Israel 32 e altrove.
9
http://www.kolot.it/2011/06/07/shavuot-la-montagna-rovesciata-e-lidentita-ebraica/.
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– 55 –
4
5
(che nell’ebraismo non ha questo ruolo); ma è insieme una sorta
di progetto generale dell’universo e la cronaca della costruzione
del popolo ebraico e della sua liberazione nella sua terra. La Torà
appare in un certo senso precedente alla storia e alla sua stessa
scrittura, fondamento del mondo, «radice»10, e la sua rivelazione
costituisce il culmine e insieme il punto di partenza dell’esistenza
ebraica. Non aderire a questo momento (cui spiritualmente partecipa ogni ebreo) signiica sottrarre al mondo il suo senso essenziale.
L’obbligo della sua accettazione è nei confronti della creazione nel
suo complesso.
Conseguenza di questo modo di vedere è il secondo fatto, cioè
il rapporto che non si può rompere fra Israele e la divinità, un rapporto che è il senso profondo dell’ebraismo e la ragione della sua
vita. Tutto ciò spinge ovviamente nel senso di privilegiare rispetto a
qualunque libertà l’obbedienza alle norme (mitzvot) imposte nella
Torà e spesso rappresentate dalla letteratura ebraica come un giogo
– volontario e obbligatorio assieme –. Su questo punto il dibattito
nel mondo ebraico è sempre stato vivacissimo, fra quelli come
Yeshayahu Leibowitz11, che in tempi recenti riducono in sostanza
l’ebraismo all’obbedienza e coloro che, come David Hartman12,
sottolineano piuttosto il carattere simmetrico e consensuale del
patto.
Un altro aspetto che rende ancora più problematica nell’ebraismo la nozione interna di libertà di religione è il fatto che il soggetto contraente il patto – libero o costretto a farlo, in questo caso non
importa – non è il singolo individuo, ma il popolo. La dimensione
collettiva in cui l’ebraismo vive il rapporto col divino (e dunque
tutta la sfera che l’Occidente chiama religiosa) è continuamente
confermata nella liturgia e nella preghiera, dalla richiesta di un
Molti commentatori mettono in relazione il bereshit del primo versetto della Torà
usualmente tradotto «in principio» con la Torà, che altrove è definita «reshit» cioè fondamento o radice (Cf. U. VOLLI, Al principio - Interpretazione oltre l’interpretazione - Un
esempio ebraico, «Versus» 103-105 (2007), pp. 149-191)
11
Cf. Y. LEIBOWITZ, Commandments in Contemporary Jewish Religious Thought, a cura
di A.A. Cohen-P. Mendes-Flohr, The Free Press, New York 1987, p. 71.
12
Cf. D. HARTMAN, A Living Covenant: The Innovative Spirit in Traditional Judaism,
Jewish Lights, Woodstock, VT 1998.
10
– 56 –
quorum di dieci adulti (minjan), necessario per la recitazione di
tutte le preghiere il cui oggetto sia la santiicazione del Nome divino, al plurale insistentemente usato nei testi liturgici: per esempio
nella confessione di colpa, Vidduy, nell’equivalente più prossimo di
un «credo», lo Sh’ma Israel, o nella preghiera che conclude quasi
tutte le funzioni precisando la natura del culto, l’Alenu. È al popolo
ebraico nel suo complesso che si imputa l’obbligo del rispetto dei
precetti della Torà e del culto, con la conseguente responsabilità
reciproca13.
Ciò signiica che il solo soggetto dell’attività religiosa è il popolo ebraico, Am Israel (o la sua presenza concreta nella forma di
K’lal Israel, comunità ebraica, o almeno una sua rappresentanza
legittima secondo i principi religiosi, il minjan): non vi può essere
l’ebraismo di un singolo, che non sia connesso in linea di principio alla sua comunità. E dunque anche il soggetto della libertà
religiosa, secondo questo modo di vedere, non può che essere
il popolo. Il che costituisce certamente un problema rispetto a
quella tradizione politico-culturale del liberalismo che vede solo
nel singolo il depositario di diritti, i quali possono essere delegati
al gruppo esclusivamente in un secondo momento. Questo punto
di vista è espresso nell’equivalenza frequente fra libertà religiosa e
libertà di coscienza, o di opinione, dove la prima è eventualmente
fondata sulla seconda, quella che sopra ho chiamato esterna. Che
la coscienza sia in linea di principio libera, cioè che non possa
essere costretta, una volta che si sia formata, è un dato ovvio se si
identiica la coscienza con il «foro interiore» di un soggetto isolato.
Si parte cioè dalla posizione cartesiana per ignorare magari che
cultura, educazione, collocazione nel mondo, consenso degli altri
ecc. hanno un forte potere di formazione.
Inutile dilungarsi qui sul fatto che spesso le religioni maggioritarie e le politiche di potere hanno cercato di allestire macchine
pedagogiche più o meno soisticate e spesso di buon successo per
violentare la libertà di coscienza degli individui. Questa spinta è
più forte e penetrante per il fatto che essa si riproduce – come
13
È il principio molto noto «Kol Israel Arevim ze BaZe»: «ogni ebreo è garante di ogni
altro ebreo» (Talmud Babilonese, Shavuot 39a).
– 57 –
spiega Foucault – «molecolarmente», grazie a forme di potere,
inluenza e prepotenza locale cui l’individuo «isolato» è in realtà
sempre sottoposto. Dunque quest’idea di una libertà del singolo
è in fondo un modello ideologico, certamente rispettabile ma non
esattamente realistico.
Da un certo punto di vista la libertà di coscienza ha inluenza
più vasta di quella religiosa, perché si estende ad argomenti politici,
scientiici, artistici, culturali. Da un altro punto di vista e soprattutto
nel caso ebraico, la libertà religiosa è più profonda ed esigente perché riguarda non solo le convinzioni interiori ma anche le pratiche, i
riti, i modi di vivere. E questi dificilmente possono essere compiuti
in solitudine. Richiedono dunque l’intervento di altre libertà, quella
di espressione, di manifestazione, di organizzazione, di amministrazione giuridica ed economica, e certamente anche un minimo di
dignità e di sicurezza. Nell’estrema miseria e nel costante pericolo
di vita dei lager nazisti la libertà di coscienza poteva anche non essere direttamente minacciata, perché i carneici non erano interessati
all’opinione delle vittime, ma volevano solo prendere vita, proprietà,
lavoro, dignità. Ma certamente la libertà religiosa era umiliata.
DUE ASPETTI DELLA LIBERTÀ
Dopo queste considerazioni che illustrano la dificoltà dialettica
della nozione di libertà di religione misurata sulla realtà ebraica, è
necessario chiedersi che posto vi sia per tale libertà nell’ebraismo.
E come per l’analisi svolta inora, sarà bene distinguere nel nostro
ragionamento un aspetto esterno e uno interno. Per quanto riguarda il suo esterno, la tradizione ebraica, forse per essere stata tanto
a lungo minoritaria, è particolarmente liberale. A differenza delle
altre religioni monoteiste, infatti, l’ebraismo non pretende affatto
di possedere l’unica via per la salvezza spirituale (qualunque signiicato si voglia attribuire a questa espressione)14. La rivelazione della
Torà è universale, nel senso che la sua verità è valida per tutti e
14
Nella tradizione ebraica questa nozione si esprime parlando di olàm habbà, «mondo
futuro», o di «prolungamento dei giorni».
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dell’aspettativa messianica ebraica fa parte l’attesa che tutti i popoli
la riconoscano e in particolare accettino il monoteismo. Ma l’accoglimento della Torà, quello che secondo il Midrash riportato sopra
è stata forse coattivo, non consiste nella sola accettazione di tale
verità, bensì nell’assunzione degli obblighi pratici da essa imposta
che costituiscono il vero impegno ebraico. Una cosa è sapere che vi
è un solo Dio, accettare la sua regalità e il suo insegnamento etico,
altra cosa è obbedire a regole di comportamento speciiche, come
la proibizione di mangiare animali non ruminanti. Questi obblighi
infatti secondo il pensiero ebraico non si estendono affatto a tutta
l’umanità ma solamente a Israele in quanto am segullà e mamlechet
kohanim (Es 19,5-6), «possesso particolare» della divinità e «regno
sacerdotale» – quel che di solito si traduce con «popolo eletto» –.
L’«elezione» e l’assunzione di obblighi particolari sono la stessa
cosa e coincidono in fondo con la coazione di cui ho discusso:
coazione metaisica, e anche quotidiana ed estesa a mille dettagli,
ma riservata alla funzione speciica del popolo di Israele. Il che
signiica che gli altri popoli non sono affatto tenuti ad assumere
l’ebraismo. L’ebraismo, infatti, non ha un atteggiamento missionario, di assimilazione o di conquista. Non è un caso che nel corpo
stesso della Torah vi siano numerose norme volte a garantire e ad
assicurare i diritti degli stranieri, anche quando dimorano in mezzo
al popolo di Israele e conservano i loro usi.
È importante per il nostro discorso ricordare che la tradizione
talmudica ha elaborato esplicitamente una normativa interreligiosa,
secondo cui sono considerati giusti e dunque meritevoli dell’olàm
habbà 15, tutti i non-ebrei che rispettano le cosiddette «leggi di Noè»
(inteso come il progenitore comune dell’umanità attuale), cioè che
non bestemmiano, sono monoteisti, non rubano, non uccidono,
non hanno relazioni sessuali indebite, non si nutrono membra di
animali vivi e hanno un sistema giudiziario. Si tratta di norme che
appartengono evidentemente all’ambito dell’etica e non della fede
(come del resto buona parte delle 613 mitzvòt o precetti che si
applicano invece agli ebrei). È su questo piano, delle azioni e non
15
E. BENAMOZEGH, Israele e l’umanità, Marietti, Genova 1990, pp. 209-240.
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della fede, esattamente l’opposto di ciò che afferma Paolo di Tarso,
che si gioca secondo l’ebraismo la salvezza. Ne consegue qualcosa
di più di una teoria della tolleranza, una vera e propria valorizzazione delle forme di organizzazione sociale e religiosa, che vale senza
pregiudizio per le diverse fedi, teologie, liturgie. La libertà esterna
di religione, nei limiti del monoteismo e del «non bestemmiare» è
per l’ebraismo non una concessione ma un valore
La libertà interna è strettamente connessa alla rivelazione. Nel
libro delle Massime dei padri (Pirké Avot), un trattato della Mishnà
particolarmente importante perché costituisce il tentativo più autorevole e completo, se non sistematico, di auto-comprensione della
tradizione farisaica che generò l’ebraismo successivo alla distruzione del Tempio, si legge a nome di rabbi Jehoshua ben Levi (VI 2)
una strana riscrittura ermeneutica del versetto in cui si dice che le
prime tavole della legge furono scritte da Dio stesso, «incise sulle
tavole» (Es 23,16). Al tikrè charut ellà cherut dice questa Mishnà,
cioè «non leggere “incise” ma “libertà”»16. «Libertà sulle tavole,
perché nessun uomo è libero se non chi si dedica allo studio della
Torà», prosegue il testo. Si tratta evidentemente di un’apologia di
quell’attività di studio del testo sacro che per il pensiero ebraico da
solo «vale tutti i precetti» – anche perché i maestri non pensano a
una disamina testuale astratta, volta al puro interesse intellettuale,
ma a uno studio con esiti pratici, premessa dell’esecuzione corretta
delle regole bibliche –.
Ma al di là dell’esortazione allo studio vi è in questo passo
un’idea della libertà intellettuale dell’interpretazione che è uno dei
tratti caratteristici della cultura ebraica. Celebre è l’altra dichiarazione, attribuita dal Talmud a una bat kol 17, una voce divina, una
sorta di mini-rivelazione puntuale, per cui nel conlitto fra le due
La proposta ermeneutica si spiega meglio pensando che il testo sacro della Torà
non è vocalizzato (a differenza delle copie di studio, che riportano la vocalizzazione
massoretica (VII-IX secolo), considerata dalla tradizione ebraica del tutto autorevole,
ma non escludente altre possibili letture. Il testo liturgico della Torà ammette dunque
entrambe le lezioni.
17
L’espressione significa letteralmente “figlia della voce”, perché nessuno possa presumere di aver avuto davvero un contatto diretto con la divinità. Come se in questi
fenomeni profetici si potesse cogliere un riverbero della presenza divina, ma non la sua
oggettivazione.
16
– 60 –
grandi scuole talmudiche, Bet Hillel e Bet Shammai, che in molte
tradizioni avrebbero dato luogo a eresie e scomuniche, proclama elu
veelu divrè elokìm haim: «l’una e l’altra sono parole del dio vivente»,
anche se la regola segue l’opinione di Hillel. Altrettanto famosa,
nella tradizione ebraica, è la disputa intorno al «forno di Akhnai»18,
in cui una certa questione di purità rituale viene decisa non secondo l’opinione del più autorevole maestro del suo tempo, rabbi
Eliezer, che pure nel racconto è capace di farsi assistere da svariati
miracoli e perino anche lui da una bat kol, ma secondo quella della
maggioranza degli studiosi, con l’argomento che il testo ci assicura
accettato poi dalla divinità, che «la Torà non è in cielo» (Dt 30,12),
ma è stata data agli uomini e dunque alla loro interpretazione. In
effetti, una delle caratteristiche del Talmud è di riportare sistematicamente le opinioni di minoranza in tutte le discussioni, incluse
talvolta quelle di un illustre maestro, Alisha ben Abuja detto Acher,
cioè «l’altro», per aver ripudiato a un certo punto la fede.
Insomma vi è nella tradizione ebraica una larghissima libertà di
opinione e di coscienza, che abitua a una larga convivenza interna
di differenze e solo in certi casi molto estremi dà luogo a riiuti più
o meno drastici (il caso appena citato di Acher, quello di Spinoza
ecc.). Ma tale libertà ha a che fare con lo «studio», cioè con la
dimensione intellettuale e cognitiva (includendo molto di quel che
nel Cristianesimo sarebbe dogma e dunque obbligo). Altra cosa
è il fare, quella pratica che costituisce l’oggetto dell’impegno assà
venishmà da cui questa analisi è partita. Ma la libertà è comunque
«sulle tavole», che sono date al Sinai, fatte di quella montagna che
si minacciava di rovesciare sul popolo ebraico se non avesse accettato la legge. La quale, nella terminologia rabbinica tradizionale, se
non è considerata frutto di interpretazione, ma volontà divina precisa è deinita halakhà leMoshé min Sinai: «regola data a Mosè dal
Sinai»; non sul Sinai ma dal Sinai. Da queste leggi viene l’identità
del popolo ebraico e anche la sua libertà interna, perché costrizione
divina e libertà secondo questa concezione si identiicano.
18
Cf. J. BALI-V. FRANZINETTI-S. LEVI
Firenze 2010.
DELLA
– 61 –
TORRE, Il forno di Akhnai, Giuntina,