TEMI E TESTI
108
DUCCIO TONGIORGI
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
SPARTACO E ALTRE RETICENZE MANZONIANE
ROMA 2012
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
Prima edizione: novembre 2012
ISBN 978-88-6372-463-9
Il volume è pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Studi linguistici e culturali
dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata
Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza
Tutti i diritti riservati
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
00165 Roma - via delle Fornaci, 24
Tel. 06.39.67.03.07 - Fax 06.39.67.12.50
e-mail: info@storiaeletteratura.it
www.storiaeletteratura.it
INDICE
Introduzione ............................................................................................
VII
Nota ai testi .............................................................................................
IX
PARTE PRIMA
SILENZI
La passione di Spartaco: immagini letterarie della rivolta servile
(1726-1831) ............................................................................................
3
1. Febbraio 1726: alla corte di Vienna si ride di Spartaco ....................
2. Spartaco fra i Lumi ............................................................................
3. Alla prova della Rivoluzione (e della dominazione napoleonica) .....
4. Diritto alla rivolta, imperialismo romano e opposizione italica .......
5. Dalle parti del «Conciliatore» ...........................................................
6. «Non resta che far torto, o patirlo» ...................................................
7. Quasi una conclusione .......................................................................
3
8
11
21
25
31
46
«Il faut laisser passer l’orage»: dialoghi (prudenti) sull’idea di nazione
(1814-1821) ..............................................................................................
49
PARTE SECONDA
MASCHERE E PARODIE
«Un vate di gran lode»: Manzoni epigrammista e un’ode bistrattata
di Monti ................................................................................................
67
Abbondio, Rodrigo ed altri «purissimi accidenti»: strategie parodiche
dell’onomastica manzoniana .................................................................
83
Indice dei nomi .......................................................................................
99
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»:
STRATEGIE PARODICHE DELL’ONOMASTICA MANZONIANA
1. Giova qui – in limine – tenere a mente il monito sotteso al dramma comico di Renzo e Agnese, costretti ad affidarsi ad un «letterato» per rendere
almeno possibile la loro comunicazione epistolare. Una vicenda che, come
spesso succede nei Promessi sposi, oltrepassa i confini della mera diegesi per
trasformarsi in apologo sentenzioso. «Stando alla pratica che ha della composizione», chiosa Manzoni, il lettore «pretende» quasi sempre che quel che
legge voglia dire altro dalla volontà dell’autore. E chi scrive, d’altro canto,
interpreta e ‘abbellisce’ liberamente il pensiero altrui. I due disgraziati personaggi, lontani e ignari delle reciproche sorti, obbligati a far «mettere in
carta» da terzi i propri pensieri, finiscono infatti per intendersi come «due
scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia».
L’ennesima incursione del romanzo nelle pieghe del problema sociale
dell’analfabetismo si risolve anche in un’esortazione alla cautela valida per il
moderno lettore-interprete, cui si chiede di non «correggere» né «migliorare»
il testo «secondo che torni meglio alla cosa». Un invito che, nei limiti del
possibile, si cercherà qui di accogliere: compito teoricamente semplice per
quanti, a differenza di Agnese, hanno «pratica dell’abbici» e dunque non
dovrebbero troppo faticare a farsi intendere. Ma perfino al «letterato» capita
«di dire tutt’altro di quel che vorrebbe»: «anche a noi altri», beninteso, «che
scriviamo per la stampa»1.
La premessa vale più che mai perché, in ordine alle scelte onomastiche
manzoniane, massime se relative ai Promessi sposi, la bibliografia si è fatta negli anni cospicua e le proposte esegetiche (talvolta – occorre dirlo – fondate
su ipotesi non verificabili) coinvolgono praticamente tutti i personaggi del
romanzo, minori e minimi inclusi2.
Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, cap. XXVII, pp. 393-394.
Ampia, appunto, la bibliografia critica, che qui si rinuncia a presentare in modo esaustivo: peraltro, a scoraggiare ogni tentativo in questo senso vale la considerazione che molti
1
2
84
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
Su alcune delle strategie onomastiche più significative, tuttavia, il giudizio
critico è ormai consolidato: già prima, ad esempio, che Gianfranco Contini
ne parlasse in un saggio citato con frequenza dai manzonisti, Cesare Angelini
e Ornella Castellani Pollidori avevano convincentemente individuato nel canone del rito ordinario della Messa una fonte probabile (e importante) di ispirazione3. Poco dopo, sullo stesso argomento e con nuove agnizioni, è apparso
un utile intervento di Eurialo De Michelis4. E dall’insieme di queste ricerche
ha preso più di recente le mosse un saggio di Umberto Morando, che ha accolto la tesi invalsa, rendendola però funzionale – a partire da uno spoglio accurato del Vocabolario di Francesco Cherubini e da un solido riferimento alla
tradizione poetica dialettale – ad una precisa caratterizzazione lombarda dei
nomi. Il presupposto verte infatti sull’assunto che «il Manzoni elesse i nomi
dei personaggi non a seguito di una geniale e assolutamente casuale illuminazione avvenuta leggendo il testo della Messa, ma in base alla precisa volontà di
fare de I promessi sposi una storia milanese anche nell’onomastica»5.
Al di là di questa ipotesi, del resto ben suffragata, del saggio di Morando
qui preme piuttosto mettere in rilievo alcuni spunti metodologici e interpretativi. Sull’opportunità di volgere la ricerca ai fini esclusivi «dell’ermeneutica
manzoniana», da lui esplicitamente richiamata, appena conterebbe insistere,
commenti al romanzo dovrebbero essere considerati voce pertinente. I contributi più importanti sono comunque segnalati in E. Ballerio – U. Colombo, Aspetti pedagogici della giovinezza di don Abbondio, «Otto/Novecento», 4-6, 1981, p. 155, n. 21. Più di recente sono
variamente tornati sull’argomento M. Barenghi, Cognome e nome: Tramaglino Renzo. Osservazioni sull’onomastica manzoniana, in Id., Ragionare alla carlona. Studi sui «Promessi sposi»,
Milano, Marcos y Marcos, 1994, pp. 57-72; P. A. Perotti, I nomi dei personaggi nei Promessi
sposi, «Critica letteraria», a. XXV, 96 (1997), fasc. III, pp. 637-650; e P. Marzano, Appunti di
onomastica manzoniana, «Sinestesie», 1 (2005), pp. 29-39. Di altri saggi utili nella prospettiva
di questo studio si dà notizia nelle note successive.
3
Polemizzando garbatamente, a proposito del nome ‘Perpetua’, con Filippo Crispolti
(Indagini sopra Manzoni, Milano, Garzanti, 1940) Cesare Angelini aveva suggerito di considerare come fonte il «canone della messa»: cfr. C. Angelini, Del Manzoni, «Primato», 1 febbraio 1941, p. 12 (tesi poi riproposta in Id., Manzoni, Torino, Utet, 1942, pp. 132 e sgg.); ma
si veda anche O. Castellani Pollidori, Il messale fonte onomastica dei «Promessi sposi», «Studi
linguistici italiani», 1, 1960, fasc. II, pp. 177-179; e quindi G. Contini, Onomastica manzoniana, «Corriere della sera», 20 agosto 1965 (poi edito in Id., Varianti e altra linguistica, Torino,
Einaudi, 1970, pp. 201-205).
4
E. De Michelis, Onomastica manzoniana, «Nuova Antologia di Lettere, Arti e Scienze», CI (settembre 1966), fasc. 1989, pp. 9-27; cfr. anche Id., La vergine e il drago, Padova,
Marsilio, 1968, pp. 287-339.
5
U. Morando, Il vocabolario di Cherubini e l’onomastica manzoniana, in Francesco Cherubini dialettologo e folklorista, a cura di G. Sanga, numero monografico de «La ricerca folklorica.
Contributi allo studio delle classi popolari», 26 (ottobre 1992), pp. 61-73 (la citazione a p. 69).
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
85
se non fosse appunto che talvolta si tratta di un’avvertenza negletta, schiacciata dal gusto della trouvaille arguta e inaspettata.
Ma a convincermi è in particolare la prospettiva intertestuale invocata da
Morando. Credo per la verità che a Manzoni interessasse ben poco ammiccare
al lettore consapevole. Nessun compiacimento colto nei Promessi sposi guida
infatti l’atto del battesimo. È chiaro però che le strategie allusive eventualmente sottese alla scelta nominale potevano diventare una ghiotta occasione
per rinnovare la polemica contro la letteratura che traveste la realtà, che canonizza e idealizza figure esemplari, polemica diffusa per altri versi in tutto il
romanzo. Se dunque in questo campo talora si riconosce un rapporto tra testi
distanti, tale rapporto non potrà che essere problematico, elemento attivo della
onnipresente ‘contraddizione’, a sua volta cardine etico su cui si basa la scrittura narrativa di Manzoni. Appare così legittimo e forse utile leggere anche
secondo questa prospettiva l’insistita dimensione ‘rovesciata’ – quando non
direttamente parodica – che connota di frequente le sue scelte onomastiche.
Che i nomi dei Promessi sposi (di tutta la filiera, intendo, che portò alla redazione definitiva) siano spesso caricati di un valore antifrastico è innegabile
e talvolta è stato notato, anche se in genere in modo occasionale. Evidente,
per esempio, il gusto ludico che agisce sul nome stesso del primo protagonista, Fermo. Il quale nome nega e addirittura ribalta la condizione effettiva
del personaggio (protagonista, nel suo tormentato processo di formazione,
del «filone picaresco»6 del romanzo), costretto, materialmente, ad un errare
tanto incessante quanto spesso dovuto a mancanza di fermezza nel raggiungere gli obiettivi prefissi. Ma se è vero che il San Fermo della tradizione
dialettale lombarda è il santo protettore «dei bravacci» (così rappresentato,
per esempio, nei versi di Francesco Bellati opportunamente segnalati da Morando e ben noti a Manzoni), meglio si comprenderanno anche le ricorrenti e
divertite descrizioni del giovane in atteggiamento maldestramente spavaldo
e in posa quasi pronta all’offesa, peraltro e comprensibilmente molto attenuate già nella Ventisettana, allorché Renzo avrà conquistato il posto che
gli spetta. Tanto da rendere credibile l’ipotesi che il nome di Fermo sia stato abbandonato non già perché scopertamente moraleggiante, bensì perché
proprio l’antifrasi era troppo evidente7.
Cfr. E. Raimondi, La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna, Il
Mulino, 1990, p. 33.
7
Morando, Il vocabolario, p. 66, e n. 31. Vale la pena segnalare con Salvatore Nigro anche gli «apparenti controsensi» prodotti da frequenti (e un po’ meccanici) accostamenti, che
attivano un gioco evidentemente ironico sulla «salda fermezza» del personaggio: «Fermo
[…] non istarà quieto», «Fermo si era mosso», «raccomandando a Fermo di non si muovere»,
ecc. (cfr. Manzoni, Fermo e Lucia, pp. 914-915).
6
86
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
Su questa stessa linea si colloca anche la proposta interpretativa avanzata
anni fa da Antonio Belloni a proposito di Perpetua, tra le tante che riguardano il nome della serva di Don Abbondio, certo una delle più convincenti8:
Manzoni pescò fuori dal mare magnum dell’onomastica cristiana, un nome che, per
la sua rarità e per la sua struttura fonetica, ha in sé qualche cosa di singolare, così
che ben si comprende come sia divenuto per antinomia un nome comune. Il Manzoni l’ha applicato al personaggio con la sua solita fine malizia. Vedete combinazione!
Perpetua rimasta da maritare, “per non aver mai trovato un cane che la volesse”,
portava il nome di una santa che […] è alta protettrice delle donne maritate9.
Si tratta, del resto, della cifra più caratteristica del personaggio, impressa
post mortem a caratteri indelebili nelle parole con cui, grottescamente, Don
Abbondio la congeda definitivamente dal romanzo, a peste finita, quando
rinasce in tutti la voglia di fare progetti per il futuro:
ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento
che trovava l’avventore anche lei10.
Casi come questi sono diffusi nei Promessi sposi, e spesso attivano una
giocosa tensione che sconfina – appunto – nell’antifrasi. Qui si può solo citare qualche esempio. Con la sua assenza il padre Bonaventura è causa involontaria del coinvolgimento di Renzo nel tumulto, la peggiore fra le ‘avventure’
che il protagonista, ormai fuori dal pelago, rammenterà come primo esempio
di ciò che, volendo star lontano dai guai, si deve proprio evitare11. Si tratta
del resto di quel medesimo tumulto cui – quasi per destino e certo malgré lui
– Renzo resta ancorato nel nome quando, abbandonando il suo per questioni
di sicurezza, decide di farsi chiamare Antonio Rivolta12.
L’ironia manzoniana – è noto da tempo – funziona anche come arte del rovesciamento, strumento che innesca una diffrazione di punti di vista definita
8
Tra le ipotesi si veda almeno quella avanzata a suo tempo da Felice Scolari: «Perpètua
è in lombardo (prima dei Promessi Sposi) una donna ciarliera e pettegola» (F. Scolari, Nomi,
Cognomi e Soprannomi nei «Promessi Sposi», Milano, De Mohr, 1908, p. 24).
9
A. Manzoni, I Promessi sposi, con note di A. Belloni, Milano, Vallardi, 1923, vol. I, p. 33.
10
Manzoni, I Promessi sposi. Storia della colonna infame, cap. XXXVIII, p. 562.
11
Ibidem, cap. XXXVIII, p. 571.
12
Rivolta è un paese del comune di Lecco, ed è anche un cognome diffuso, come avvertono molti commentatori. Ma è difficile – ovviamente – non cogliere un’allusione esplicita
ai trascorsi turbolenti che il protagonista si è appena lasciato alle spalle. Peraltro anche
assumendo il nome di ‘Antonio’ – come ha segnalato Ettore Bonora nel suo commento al
romanzo (Torino, Loescher, 1972 e edizioni successive, ad locum) – Renzo rinnova, con il
richiamo al ‘suo protetto’ Ferrer, un implicito, ma insistito legame alle vicende della sommossa di San Martino.
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
87
da Ezio Raimondi «polifonica»13. Ma la dimensione ironica dell’onomastica
manzoniana appare in più di un caso risolta entro un quadro, non sempre
esplicitato, di relazioni intertestuali: un livello più complesso, evidentemente
parodico in senso proprio, in cui la pointe antifrastica impone una riflessione
sul mandato della letteratura, e sulla ‘verità’ che essa dovrebbe esprimere.
2. Del resto più di un personaggio del romanzo deve esplicitamente il suo
nome alle pagine di qualche rispettabile volume. Anche se – con evidenza –
la sua condotta tradisce appunto il mandato ricevuto assieme al battesimo. È
così per la Geltrude del Fermo, il cui padre
si pose […] a frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse
stato portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata
monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al solo
esser proferito l’idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per la
sua neonata14.
Destinata fin dal battesimo al convento con il conforto di un testo stampato, per di più posto nelle mani di un cattivo lettore («il Marchese Matteo
[…] non aveva perduto il suo tempo sui libri»), Geltrude non può che essere
la radicale (e drammatica) manifestazione rovesciata dell’exemplum cui dovrebbe ispirarsi. Recita, e suo malgrado non può fare altrimenti, un copione
già scritto (e stampato). L’unica deroga alla parte che le è stato imposto di
interpretare, la sua protesta più vivace prima della catastrofe, ha però proprio i tratti dello sberleffo: di fronte alle più giovani educande si mostra,
gesticolando in modo ridicolo, come in una «parodia caricata» del suo stesso stato monacale. Un’infrazione alle regole inutile, che produce nell’attrice
improvvisata una rabbia ancor più desolante, e nessun senso, per quanto
illusorio, di liberazione.
Del resto, Geltrude non lo sa, ma anche quella performance comica, che
interpreta e che assomiglia tanto alla sua vita, è già un topos della letteratura
drammatica:
13
Cfr. al proposito il capitolo Ironia polifonica in Raimondi, La dissimulazione romanzesca, pp. 45-80.
14
Manzoni, Fermo e Lucia, II, II, 9, p. 193. Il riferimento bibliografico è volutamente
generico, essendo diffusissimi nel Seicento i ‘leggendari’, più o meno dipendenti dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varazze. Tra i libri di Brusuglio si trova comunque una Raccolta
di vite de’ Santi per ciaschedun giorno dell’anno alle quali si premettono la vita di Gesù Cristo
e le feste mobili. Prima edizione veneta riveduta e accresciuta dall’autore. Febbraio Ottobre.
Tomo III, XI, Venezia, Ferrarin, 1778-1779, voll. 2 (cfr. il regesto curato da Cesarina Pestoni,
«Annali Manzoniani», vol. VI, 1981, p. 220).
88
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
ad un viaggiatore che l’avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere
non molto dissimile da una attrice ardimentosa, di quelle che nei paesi separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca in quelle commedie dove i riti
cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata15.
La natura ‘mista’ del personaggio Geltrude (poi Gertrude), letteraria e
storica, su cui tanto si è insistito con la ricerca delle fonti, è esplicitata e insieme smentita dallo stesso testo manzoniano, in nome di una contraddizione
sempre immanente alle cose e agli uomini. Ad accentuare questo carattere provvede, qui nel Fermo e Lucia, lo sguardo «estraniante» del viaggiatore, occhio esterno al romanzo e quindi pronto a cogliere, da vero «critico
teatrale»16, tutta la letterarietà già codificata dei gesti della giovane donna.
La riscrittura dei Promessi sposi, invece, comporterà tra l’altro la caduta
dei due brani citati. Manzoni sottrae Gertrude dal conflitto diretto con i
libri, che per lei hanno significato solo imbrogli. Non sarà più il Leggendario
a imprigionarla in un nome che segna il suo destino17; nemmeno potrà più
assomigliare, così esplicitamente, ad una «parodia caricata», alla maniera di
certa commedia protestante. Ma resta intatta, anche nell’ultima versione del
romanzo, la sua dimensione quasi grottesca e rovesciata e la disponibilità di
Gertrude a trasformarsi nel personaggio buffo di una pièce:
Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo
imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una
monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma erano risa che
non la lasciavano più allegra di prima18.
La parola scritta (e soprattutto stampata) condiziona anche i nomi e persino
l’innominato ne subisce le conseguenze. A lui già l’Anonimo aveva negato ogni
diritto onomastico19. «Di costui non possiamo dare né il nome, né il cognome,
Manzoni, Fermo e Lucia, II, I, 49, pp. 184-185: il corsivo è mio.
Così il commento di Nigro, convincente (ibidem, p. 994).
17
La caduta del passo è attestata già nella Ventisettana: cfr. A. Manzoni, I Promessi
Sposi, saggio introduttivo, revisione del testo critico e commento a cura di S. S. Nigro, collaborazione di E. Paccagnini per la «Storia della Colonna infame», tomo primo, I Promessi
Sposi (1827), Milano, Mondadori, 2002, IX, 42, p. 186. Sul nome di Gertrude si è soffermato,
toccando tuttavia questioni distanti da quelle qui sollevate, A. R. Pupino, Lucia e la signora
di Monza, tra fisiognomica e onomastica, «Il Nome nel testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria», V, 2003, pp. 79-101 (cfr. in specie le pp. 99-101).
18
Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, cap. X, p. 159.
19
Sul problema del nome ‘negato’ al personaggio, tema che ha naturalmente interessato
da tempo la critica, vedi il recente contributo di G. Melli, Strategie onomastiche manzoniane:
nomi dati, negati, taciuti, in Studi di onomastica e letteratura offerti a Bruno Porcelli, a cura
di D. De Camilli, Pisa-Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 2007, pp. 161-171. Sulla
15
16
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
89
né un titolo», dice subito il narratore, quasi a cautelarsi. La colpa, appunto, è
dei «libri stampati» dell’epoca, reticenti e fin omertosi su questo punto:
Ma per tutto un grande studio a scansare il nome, quasi avesse dovuto bruciar la
penna, la mano dello scrittore20.
Appena un accenno, che a qualche commentatore è parso superfluo, ad
altri invece foriero di indizi sulle fonti dell’episodio21. Ancora una volta Manzoni insiste nel legare la sorte dei nomi a quella dei libri. Una prudenza moralmente colpevole inchioda stavolta (ancora una volta si dovrà forse dire) i
letterati, e lo stesso Anonimo da cui tutto sembrerebbe dipendere, impedendo loro di rivelare l’identità del terribile uomo. Per quanto siano solo «purissimi accidenti» talvolta i nomi – siamo avvisati fin dall’Introduzione – è bene
tacerli22. Nel «bel latino» degli scrittori accreditati da Manzoni, quindi, trova
spazio facilmente la credenza popolare secondo cui «il suo nome significava
qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso»23.
Anche nel Fermo e Lucia il dato è nascosto, perché all’estensore del manoscritto (anche a lui) era mancato il coraggio di scoprire il velo che occulta
la realtà:
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello che
abbiamo trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al prudentissimo
nostro autore è sembrato di avere ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare
con un soprannome quest’uomo24.
Ma il soprannome era pur sempre percepito come una minaccia, poiché
nella perifrasi – il Conte del Sagrato – si condensavano le allusioni alla vicenda più terribile di cui l’uomo era stato protagonista, impressa nella fantasia popolare, o forse, come piaceva pensare allo stesso Conte, filtrata dalla
letteratura: così che il nome poteva essere il calco (si badi, ancora una volta
mendace e rovesciato) di qualche «romanzo di quei tempi», ispirato alle storie immortali di antichi virtuosi condottieri.
Il Fermo e Lucia appare ancora una volta meno reticente (o più scoperto)
dei Promessi Sposi:
‘reticenza’ onomastica manzoniana è tornato recentemente L. Terrusi, Silenzi, nomi, asterischi. Gli ‘asteronimi’ manzoniani, in Atti del XIV Convegno internazionale di Onomastica e
Letteratura, «Onomastica & Letteratura», XII, 2010, pp. 269-277.
20
Manzoni, I Promessi sposi. Storia della colonna infame, cap. XIX, p. 284.
21
Utili indicazioni al proposito si ricavano dal puntuale commento di Stella-Repossi
(ibidem, pp. 868-869).
22
Ibidem, Introduzione, p. 4.
23
Ibidem, cap. XIX, p. 287.
24
Manzoni, Fermo e Lucia, II, VII, p. 292.
90
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno aveva del Conte,
non è da domandare; e l’impressione comune di stupore, e di sgomento fu tale che
nessuno poteva pensare al Conte senza che il fatto non gli ricorresse al pensiero;
e così fu associata al nome quella idea che tutti avevano associata alla persona. Il
Conte sapeva che lo disegnavano con questo soprannome, ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse di quello ch’egli sapeva fare; o forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta
qualche menzione di Scipione l’Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver
com’essi il nome dal luogo illustrato da una grande impresa 25.
L’ironia del rovesciamento, dunque, si trasforma in affondo ideologico
che chiama in causa la stessa funzione sociale della letteratura. Si tratta di
una riflessione che evidentemente condiziona la stessa inventio del romanzo, tanto più importante nel momento in cui crollava, con drammatica evidenza, ogni prospettiva legata all’azione cospirativa e alla prassi lato sensu
politica. La tragedia seguita al fallimento dei moti, che costrinse molti cari
amici e importanti interlocutori di Manzoni in carcere o all’esilio, significò anche consegnare alla scrittura letteraria una nuova e ancor più alta
responsabilità.
Mentre avviava il suo cantiere narrativo Manzoni aveva presente la sorte
di tutti questi amici, come aveva senz’altro sul suo tavolo di lavoro i fogli color azzurro sbiadito del «Conciliatore»: indispensabili – lo aveva ben scritto
poco tempo prima a Fauriel!26 – per comprendere il Romanticismo italiano,
ma fondamentali soprattutto per sostenere l’utilità (in primo luogo sociale)
del genere ‘romanzo’. Proprio la querelle sul romanzo, cui avevano dato vita
– per la parte romantica – Borsieri, Pellico e altri collaboratori del foglio, si
riflette, come è noto interamente nelle pagine liminari del Fermo e Lucia, fin
dalla ‘prima’ Introduzione, in cui la critica ha riconosciuto da tempo un tessuto di sotterranee e precise citazioni dal «Conciliatore», intese soprattutto a
fronteggiare, proprio con le armi della parodia, «l’ostilità del classicismo più
vieto ad ogni novità letteraria»27.
Ibidem, II, VII, p. 296.
In appendice alla lettera del 17 ottobre 1820 Manzoni stilò per l’amico Fauriel un
elenco di una quarantina di articoli della rivista, utili per comprendere la «questione romantica» italiana. E il 29 gennaio dell’anno successivo spedì poi allo stesso Fauriel l’intera raccolta del «Conciliatore». Ma per alcuni degli aspetti qui richiamati a proposito del rapporto
tra Manzoni e l’ambiente del Foglio Azzurro, e per la bibliografia critica relativa, si veda qui
il secondo capitolo, e in specie la nota 28 a p. 58.
27
A. Cottignoli, Il Pellico “conciliatore” e la questione romantica, in Idee e figure del “Conciliatore”, p. 154 (ma per l’intera questione si cfr. le pp. 147-155). Sul punto opportuno anche
il rinvio ad E. Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui ‘Promessi Sposi’, Torino, Einaudi,
1974, pp. 128-131.
25
26
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
91
Ora, per quanto «l’aspirazione al romanzo» avesse spinto i redattori della
rivista a presentare in questa direzione «una serie di tentativi e sperimentazioni stilistiche»28, fu la misura del narrar breve a prevalere di gran lunga
nelle pagine del giornale, anche, s’intende, per ovvie e molto concrete ragioni editoriali29. Tra le poche prove di respiro più ampio è invece opportuno
ricordare il Battistino Barometro di Silvio Pellico30: satira di costume e insieme riflessione ironica sul penoso stato del romanzo in Italia. Difficile davvero pensare che Manzoni non l’avesse presente: si tratta peraltro di uno dei
testi della rivista più martoriati dalla censura, che ne interruppe la stampa
dopo la terza puntata, il 2 settembre 181931.
La vicenda di Battistino si svolge al suo principio sulla «riva Trammezzina» (il Lago, s’intenda, è quello di Como), dove il protagonista e voce narrante si dichiara (a modo suo) innamorato di Luigia, senza però risolversi a
chiederla ufficialmente in sposa. Il padre di Battistino, del resto, sconsiglia
matrimoni troppo affrettati: «un uomo non deve rompersi il collo (così definiva egli il maritarsi) prima di aver goduto almeno trentacinque anni di
libera vita». Non la pensa così Luigia – energica e per niente incline a inutile
rossori – che quasi arriva a minacciare il fidanzato: «tutti aspirano alla mia
mano», lo avverte. Di fronte alla scenata della giovane donna Battistino, indifeso e ‘incolto’, non sa come comportarsi:
Che avrebbe qui fatto un uomo bene educato, cioè che avesse letto romanzi? Non
v’era un momento da esitare. Precipitarsi ai piedi di Luigia, a costo d’esser bastonato dal dottore Abbondio, piangere, dimandar perdono e giurare per tutti i santi di
volerla sposare, non fra dieci anni, ma anche sul momento, a dispetto di tutti i padri
e di tutte le madri del genere umano. Il matrimonio non si sarebbe lasciato consumare lì su due piedi; no, ma gli animi offesi si sarebbero calmati, Luigia m’avrebbe
Ibidem, p. 141.
Assai utile quanto si dice, al proposito, nel paragrafo I romanzi del Conciliatore in A.
Cadioli, La storia finta. Il romanzo e i suoi lettori nei dibattiti di primo Ottocento, Milano, Il
Saggiatore, 2001, pp. 133-143.
30
S. P. [Silvio Pellico], Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro, «Il Conciliatore», 87 (1 luglio 1819); 100 (15 agosto 1819); 105 (2 settembre 1819): si possono leggere nel
terzo volume di Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, alle pp. 11-20; 190-195; 273-277,
e quindi, raccolti, in Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro. Con un’appendice di
articoli dal «Conciliatore», a cura di M. Ricciardi, Napoli, Guida, 1983.
31
Così scriveva lo stesso Silvio al fratello Luigi, in data 20 luglio 1819: «Dimenticavo
di dirti che il pezzo di Battistino stampato sul Conciliatore è tutto impiastrato di correzioni
ed aggiunte della Censura. Ho quindi provato di mandare un altro squarcio formante quasi
un intero giornale: la seconda Censura, cioè non l’italiana, ma quella del Governatore lo ha
escluso totalmente. Siamo disperati. Il macello che si fa dei nostri pensieri è incredibile»: cfr.
Pellico, Lettere milanesi, p. 176.
28
29
92
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
rialzato dal suolo, le sarei caduto fra le braccia, il suo alito divino avrebbe dissipata
ogni mia angoscia... Me infelice! Io non aveva letto romanzi!32
Un matrimonio pieno di ostacoli, insomma, di fronte ai quali il più incollerito di tutti è il padre di Luigia, Abbondio appunto, che trova davvero
sconvenienti i tentativi di posticipare a data da destinarsi l’impegno nuziale,
non si dà pace ed è «furibondo» con Battistino «perché, invece di chiedere
in moglie la sua figliola» «tirava innanzi col prometterle amore». Quando
poi Battistino, il cui padre è divenuto improvvisamente ricco, è costretto
a lasciare il suo paesello in riva al lago per andare a Milano, il suo addio si
carica di accenti mesti e ironici insieme:
Oh riva Trammezzina! […] tu non hai né colossali Duomi, né banchieri che offrano
la casa loro al passeggiere ricco; ma tu hai pulite chiesuccie ove niuno discorre di
cose profane. […] Paese d’amore, paese d’incancellabili rimembranze, culla d’un
angelo creato d’elementi terrestri, ma d’animo superiore all’umano! Benedetta la
barca che si ferma sul tuo lido! Benedetti i passi che calcano le tue arene e i tuoi
fiori! Benedetti i cuori che vi palpitano di reciproco affetto!... Benedetti i figlj i di
cui padri non hanno portato dall’America due milioni di lire italiane33.
Una barca forse ‘benedetta’, certo ben triste, avrebbe poco dopo portato via da quelle piagge anche Lucia, il cui addio, in specie nel Fermo, è
soprattutto una protesta contro le città «superbe e affollate», contro quegli
«edifici che il cittadino chiama elevati» ma di fronte ai quali il «montanaro»
«non sente il diletto della maraviglia»34. Nei Promessi sposi, poi, ella rivolgerà il suo pensiero a colui che si allontana, in cerca di fortuna, dal paese natio
verso le «città tumultuose», guardando però con desiderio il «campicello»
e la «casuccia» «che comprerà, tornando ricco a’ suo monti»35: compiendo,
cioè, il percorso inverso a quello che trascina in città – suo malgrado – lo
sconsolato Battistino. Addio al paesello, insomma, e insieme, tanti saluti
all’idillio36.
Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, vol. III, p. 19.
Ibidem, p. 195.
34
Manzoni, Fermo e Lucia, I, VIII, p. 165.
35
Id., I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, cap. IX, p. 124.
36
Accenna appena al confronto tra i due testi G. Ragonese, Lettura del Conciliatore, in
Studi letterari. Miscellanea in onore di Emilio Santini, Palermo, Manfredi, 1956, p. 317. Più
insistita la lettura intertestuale di G. Aliprandi, Motivi grafici nei «Promessi sposi», in Studi in
onore di Alberto Chiari, vol. I, Brescia, Paideia Editore, 1973, pp. 83-85, il quale tuttavia non
allude alla contaminazione onomastica qui di seguito proposta. Più in generale, sulla prospettiva ironicamente anti idillica del romanzo di Pellico si veda U. M. Olivieri, P. Borsieri
e il romanzo d’area lombarda nella prima metà dell’Ottocento, in Effetto Sterne. La narrazione
umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, pp. 136-143.
32
33
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
93
In questo quadro di relazioni e atmosfere note al manzonista lo stesso
nome Abbondio desta invero qualche curiosità, anche perché il personaggio
di Pellico esaurisce interamente la sua funzione (comica, suo malgrado) nella
richiesta perentoria di un matrimonio che fosse per lui, come abbiamo visto,
s’avrebbe proprio da fare.
Nella storia critica dell’onomastica manzoniana il curato ha davvero un
posto di rilievo, anche se le interpretazioni proposte sono spesso divergenti.
Qualche commentatore dei Promessi sposi ha insistito (talvolta con verve critica
ragguardevole) sulla coloritura impressionistica prodotta dal nome, evocatrice
di ‘rotondità’ paciose e – si immagina – imbelli. Più spesso ritorna però l’avvertimento, certo molto serio, che il nome era diffuso nella zona, Sant’Abbondio
essendo il patrono di Lecco: di modo che, scegliendolo, Manzoni intese dare
una coloritura locale e verosimile al personaggio37. Un nome azzeccato, comunque, come già Arturo Graf aveva avuto modo di constatare:
Si potrebbe frugare da cima a fondo tutti gli onomastici antichi e moderni, senza
riuscire a trovarne uno più adatto, più proprio, più figurativo. Nomina, numina. […]
Gran brava fregatina di mani dev’essersi data don Alessandro il giorno in cui gli
cadde in mente o gli capitò sotto, Dio sa come, quella del suo curato38.
Mi pare comunque notevole, e difficilmente casuale, che nella stretta cerchia del primo romanticismo milanese nascano due Abbondi, l’uno appresso
all’altro, entrambi perseguitati da una sorta di ossessione matrimoniale (per
conto terzi), benché l’angoscia del secondo sia alimentata da circostanze opposte a quelle che urtano il primo. E viene subito in mente la connotazione
insistita che segna il curato manzoniano fin dall’inizio del romanzo, facendone una figura dall’essenza ‘rovesciata’, definita tutta per via d’opposizione.
Una «caratterizzazione ironica» – hanno scritto giustamente Cesare Repossi
e Angelo Stella – messa in rilievo sul piano descrittivo da un sapiente e memorabile «gioco dei contrari»: il curato, lo si ricorderà, soprattutto era «non
nobile, non ricco, coraggioso ancor meno»; «non era nato», neanche, «con
un cuor di leone»39. Della sua vocazione sappiamo quanto basta: «vaso di
Una rassegna critica sulle diffuse e diverse interpretazioni del nome del curato si legge
in Ballerio-Colombo, Aspetti pedagogici, pp. 139-39. Un’allusione allo scultore delle cariatidi
della milanese Casa degli Omenoni (Antonio Abbondio detto l’Ascona) nella scelta onomastica del curato pare invece di scorgere in un forse troppo denso passo di S. Nigro, Naufragi
di terraferma, saggio introduttivo a Manzoni, Fermo e Lucia, p. XXIV.
38
A. Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi. Aggiuntovi preraffaelliti, simbolisti ed esteti e letteratura dell’avvenire, Torino, Loescher, 1898, p. 162.
39
Manzoni, I Promessi Sposi. Storia della colonna infame, cap. I, pp. 15 e 17. Per il commento di Stella-Repossi cfr. ibidem, p. 688. La stessa caratterizzazione si rileva già in Manzoni, Fermo e Lucia, I, I, p. 34 («non nobile, non ricco, non animoso» ecc.).
37
94
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro» (negli
stessi termini l’immagine – biblica e poi rielaborata da La Fontaine – ricorre nello stesso «Conciliatore», al quale molti commentatori direttamente
rimandano)40, solo per esclusione «aveva […] ubbidito ai parenti, che lo vollero prete».
In fondo, per un personaggio che si adatta al mondo negandosi, anche
il battesimo incentrato sulla parodia poteva diventare presagio della sorte.
3. Il nome cela infatti un destino, oppure – ironicamente, appunto – lo
nega. Ma tale destino sarà evidentemente più impegnativo se esso nome viene «ereditato da una tradizione» che ne ha consacrato per tutti il carattere.
«In questo ultimo caso» ha scritto Franco Ferrucci
il nome diventa omonimico del destino, come accade nell’epica classica e medievale e a tutti i personaggi di derivazione mitica o storica. Storia, favola, leggenda
e mito hanno questo in comune: i nomi di coloro che guidano le loro gesta sono
indiscutibili. Anche quando il personaggio viene presentato per la prima volta, il
nome viene imposto con la sicurezza di chi non può sbagliare e in riferimento costante a un rapporto di discendenza. Tutto questo verrà parodizzato nel battesimo
di Pinocchio da parte di Geppetto: «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli
porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre,
Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di
loro chiedeva l’elemosina41.
L’uomo assegna – biblicamente – il nome alle cose. Ma che succede quando ad offrire il nome è direttamente la letteratura? La tradizione prova a
consegnarci nomi ‘indiscutibili’: anche Manzoni lo sapeva, naturalmente, ma
non credo fosse appagato da questa imposizione.
In una densa lettera a Gaetano Giudici, che ci riporta a mesi tanto tormentati politicamente quanto densi di impegno creativo e di progetti per
il futuro (7 febbraio 1820), Manzoni (da Parigi) riferisce tra l’altro del suo
sincero coinvolgimento emotivo nei confronti di quei personaggi che «eccitano» nel lettore, senza contraddizioni, uno spiccato «interesse ammirativo».
In essi, dice, si possono ben «vedere rappresentati gli uomini e le cose in un
modo conforme a quel tipo di perfezione che tutti noi abbiamo».
Al suo corrispondente, però, confessa di sentirsi coinvolto anche e soprattutto da un «altro interesse»,
40
Cfr. L. Pecchio, L’arte di far libri coi libri, «Il Conciliatore», n. 18, 1 novembre 1818,
poi in Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, vol. I, p. 293.
41
F. Ferrucci, Il battesimo dell’eroe, in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, vol. V, Le Questioni, pp. 888-889.
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
95
creato dalla rappresentazione la più vicina al vero di quel misto di grande e meschino, di ragionevole e di pazzo che si vede negli avvenimenti grandi e piccoli di
questo mondo.
«Di questi due generi d’interesse» – la conclusione infatti non lascia spazio a dubbio alcuno – «io credo il più profondo ed il più utile ad eccitarsi
sia il secondo»42.
Quali opere e quali autori ha in mente Manzoni quando scrive queste
righe? All’amico Giudici egli indica genericamente – e senza specificare – l’esempio offerto dai personaggi di Corneille: ma anche, aggiunge, di Metastasio
e di «infiniti altri romanzi». È lecito supporre, però, che proprio a Corneille, e
ad una tragedia in particolare, fosse soprattutto rivolto il suo pensiero.
È un fatto, d’altronde, che questa riflessione manzoniana sottende, nel
giudizio e anche nella lettera, un passo del Corso di letteratura drammatica
di Schlegel riferito al Cid e certo allusivo anche al personaggio di Don Rodrigo. Il quale infatti – a dire del critico tedesco – emergerebbe dal dramma
di cui è protagonista quale figura eccezionalmente esemplare «di lealtà e di
onore cavalleresco». Dopo questa tragedia – anzi – tali «sentimenti» non
avrebbero più trovato espressione adeguata nel teatro di Corneille. Rodrigo, insomma, si impone come uno di quei personaggi «grandiosi» che destano nel lettore la «meraviglia» e l’«ammirazione» (Manzoni alluderà, con
lieve scarto lessicale – ma non semantico – ad un «interesse ammirativo»).
«Anzi», prosegue Schlegel, Corneille
ama così volentieri di levarci in ammirazione, che allorquando non gli è dato d’inspirarcene per gli eroi della virtù, vuole sforzarci e sentirne per gli eroi del vizio; tanta
è l’audacia ch’egli dà loro, la forza d’animo, l’estensione di spirito, tanto li innalza
sopra le debolezze umane.
Spesso, però (le tangenze manzoniane si fanno sempre più evidenti)
i grandi compensi ch’essi hanno in sé medesimi, allontanano da loro il nostro interesse, sia che meritino, o no, d’inspirarne43.
In questi termini dunque il più affermato teorico romantico della drammaturgia interpretava Il Cid e in specie il personaggio di Don Rodrigo. Il
42
A Gaetano Giudici, da Parigi, 7 febbraio 1820, in Manzoni, Tutte le lettere, tomo I,
pp. 192-195.
43
A. W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, traduzione con note di G. Gherardini,
Milano, Giusti, 1817, 3 voll.: vol. II, p. 117 (i corsivi sono miei). La traduzione francese di
Albertine Necker de Saussure (1814), dalla quale questa di Gherardini dipende, è presente
nella ‘raccolta di Brera’, in una copia direttamente postillata dallo stesso Manzoni. Alcune postille, peraltro, riguardano proprio passi relativi all’opera di Corneille (Cfr. Manzoni,
Opere inedite o rare, vol. II, pp. 436-437).
96
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
successo (contrastato) della tragedia (recitata trionfalmente a Parigi nel 1636:
solo otto anni prima Don Abbondio aveva incontrato per strada i bravacci!)
aveva infatti, da sùbito, trasformato l’eroe in icona.
Rodrigo, insomma, nella storia della letteratura europea non sta certo fra
i nomi che il puntiglioso padre di Tristram Shandy avrebbe potuto definire
«neutri», incapaci cioè (poiché ogni nome è un destino) di predisporre tanto
al «bene» quanto al «male»44. Del resto – aveva ben ammonito Francesco
Maria Zanotti proprio all’inizio della sua Arte poetica (un testo assai ricorrente nei curricula collegiali fin de siècle) – «facendo menzione di Rodrigo
[…] cui non viene a mente la […] tragedia francese?»45
Già alla fine del 1816, probabilmente, e comunque entro i primi mesi
dell’anno successivo, l’interesse manzoniano per le opere di Corneille è attestato da più fonti46. Manzoni legge (o rilegge) il tragico francese metodicamente sull’edizione parigina del 1801, la quale proponeva, assieme al
commentario voltairriano, le osservazioni critiche su quest’ultimo proposte
da Charles Palissot47. Anche i Commentaires sur Corneille di Voltaire, nell’edizione della Société Littéraire-Typografique (1785), furono tra le sue mani,
e postillati con cura48.
44
«His opinion, in this matter, was, That there was a strange kind of magick bias, which
good or bad names, as he called them, irresistibly impress’d upon our characters and conduct» (L. Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, London, R. and J.
Dodsley, 1760, vol. I, cap. XIX p. 114). Segnalo che nella biblioteca manzoniana di via del
Morone si conserva la traduzione francese delle Oeuvres complètes di Sterne (Paris, Bastien,
1803, voll. 6).
45
F. M. Zanotti, Dell’arte poetica. Ragionamenti cinque (1758), Al cortese lettore, in Id.,
Opere scelte, Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1818, vol. I, p. 6. Anche il Goldoni de Il cavaliere e la dama, commedia – stando ai recenti commenti (per esempio quello di
Salvatore Nigro) – che Manzoni potrebbe aver tenuto presente più volte nel corso della stesura
del romanzo, attribuisce al suo Don Rodrigo caratteristiche morali che appartenevano già al
personaggio omonimo messo in scena da Corneille. Questi, infatti, si caratterizza soprattutto
come un «cavaliere generoso e prudente» (I, 1), che ama in segreto senza riuscire a manifestarsi, ma il cui amore puro è premiato infine con il matrimonio, sospirato e mai esplicitamente
chiesto, per pudore e senso del dovere, fino all’ultima scena. Per la commedia di Goldoni l’edizione di riferimento è adesso quella, a cura di F. Arato, edita a Venezia, da Marsilio nel 2003.
46
Lo si evince, tra l’altro, dalla lettera a Fauriel datata Milano, 23 maggio 1817 (cfr.
Manzoni-Fauriel, Carteggio, p. 228 e le n. 1 e 26, rispettivamente alle pp. 231 e 234).
47
Oeuvres de Pierre Corneille avec le commentaire de Voltaire sur les pièces de théâtre,
et des observations critiques sur ce commentaire, par le citoyen Palissot, Paris, P. Didot, a. IX
(1801), voll. 12. L’opera è presente tra i libri della ‘raccolta di Via Morone’: cfr. il regesto
curato da Cesarina Pestoni (qui citato per esteso alla n. 14), alla p. 91.
48
Oggi conservati nella ‘raccolta di Brera’: cfr. la p. 184 del regesto citato alla nota precedente. Le postille ai Commentaires voltairriani si possono invece leggere in Manzoni, Opere
inedite o rare, vol. II, pp. 401-404.
ABBONDIO, RODRIGO ED ALTRI «PURISSIMI ACCIDENTI»
97
Specificamente al Cid – un’opera che fu da subito accusata di aver infranto le regole aristoteliche di unità drammatica – egli fece riferimento più volte
nello stendere i cosiddetti Materiali estetici, e anche – ovviamente – nella
Lettre allo Chauvet. Più avanti – ma siamo ben oltre la scrittura del romanzo
– dell’interesse per le opere di Corneille recheranno vistose tracce le pagine
del discorso Sul romanzo storico. Furono inoltre ben presenti a Manzoni le
violenti censure che lo stesso Voltaire aveva rivolto ai nomi dei personaggi
della Pertharite: le ricordò anche all’amico Fauriel, che stava allestendo la
traduzione francese dell’Adelchi49.
Converrà ricordare che già altre significative reminiscenze proprio del
Cid di Corneille sono state riconosciute nelle pagine del romanzo manzoniano: al proposito Arnaldo Bruni ha convincentemente ipotizzato che l’animoso colloquio tra il giovane Lodovico e il nobile arrogante che gli chiede di
farsi da parte (nel quarto capitolo dei Promessi sposi), alterco che prelude al
duello tra i due, riprenda direttamente proprio alcune modalità del confronto tra Le Comte e il vecchio Don Diègue: il quale poi, proprio per la differenza anagrafica tra i due contendenti, verrà sostituito nella sfida dal figlio Don
Rodrigo, lacerato in quest’occasione tra il rispetto del codice cavalleresco
e del vincolo familiare, che gli impongono di combattere, e il sentimento
amoroso (ricambiato) per la figlia di Don Diego, che invece gli suggerisce di
negarsi alla contesa50.
Tanto più, allora, sarà lecito sostenere che nella scelta onomastica dell’eroe negativo del romanzo manzoniano abbia potuto avere un ruolo il riferimento al Cid51: ancora una volta, e pour cause, concepito in senso antifrastico. Una sorta di sfida, una delle tante: trascinare un personaggio idealizzato
dalla tradizione letteraria nel fango della realtà ‘effettuale’ proposta da una
scrittura finalmente aderente al vero.
Anche in questo caso Manzoni agita le acque. Ci consegna – con alcune,
poche, eccezioni esemplari – un catalogo di personaggi tutt’altro che univoci,
in cui bassezze e pregi morali spesso convivono e in cui la contraddizione è
A Claude Fauriel, Milano, 6 marzo 1822, in Manzoni-Fauriel, Carteggio, p. 338 e nn.
19-20 e pp. 342-343.
50
Cfr. A. Bruni, Controfigure di Lucia Mondella, in Operosa parva. Per Gianni Antonini.
Studi raccolti da D. De Robertis e F. Gavazzeni, Verona, Valdonega, 1996, pp. 246-247.
L’importanza di alcuni temi morali proposti dal teatro di Corneille, che avrebbero (genericamente) condizionato la stesura dei Promessi sposi, era stata riconosciuta già da G. Getto,
Manzoni europeo, Milano, Mursia, 1977, passim.
51
En passant, e senza riflettere sulla moralità affatto diversa dei personaggi, lo aveva già
ipotizzato Eurialo De Michelis («Più indovinato di tutti il nome spagnuolo di Don Rodrigo,
forse nell’eco dal Cid di Corneille»): cfr. De Michelis, La vergine e il drago, p. 318.
49
98
«IL MONDO SOTTOSOPRA»
ammessa: «quel misto di grande e meschino» – come appunto aveva scritto a
Giudici ragionando sull’idealità dei personaggi – «di ragionevole e di pazzo
che si vede negli avvenimenti grandi e piccoli di questo mondo»52. E, come
a rendere un suggello estremo al suo programma, trasporta l’eroe eponimo
della virtù dei cavalieri nei bassifondi del vizio e della mediocrità, ne fa un
teppistello di provincia, spregevole certo, ma anche tutto sommato modesto
per obbiettivi e capacità di delinquere: banale, è stato detto, come spesso sa
esserlo il male. Proprio l’opposto, comunque, del personaggio «grandioso»
che lo stesso Manzoni aveva imparato a riconoscere nell’eroe di Corneille,
disposto ad ogni sacrificio di sé pur di rispettare i dettami ferrei e incontrastabili del codice cavalleresco.
All’ombra di questa magnanima figura ancor più parrà meschino il dialogo proprio sul ‘punto d’onore’ cui danno vita i commensali di Don Rodrigo,
e che fra Cristoforo semplifica a suo modo, suscitando la divertita replica
degli astanti:
– Quand’è così, - riprese il frate, - il mio debole parere sarebbe che non vi fossero
sfide, né portatori, né bastonate.
[…]
– Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime lei
vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il
punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorta che il supposto è
impossibile53.
Quanto Manzoni desiderasse mettere il mondo sottosopra davvero non
saprei dire, e forse non conta troppo saperlo. Certo nel romanzo fu pronto
a stravolgere le certezze offerte dalla letteratura, a denunciare, anche per
mezzo della parodia, l’imbroglio sotteso ad esegesi troppo sicure della propria ‘verità’ testuale. Persino i nomi, che sono sì conseguenze delle cose, ma
soprattutto rinviano assai spesso a pagine lette e finanche imparate pedissequamente a memoria, rischiavano di suggerire interpretazioni che forse gli
apparvero davvero troppo scontate.
52
53
Cfr. supra, n. 42.
Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, cap. V, pp. 71-72.