Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
Inferno III, 9
DANTE ALIGHIERI, “DIVINA COMMEDIA”
LETTURE CRITICHE
Danilo
Caruso
INTRODUZIONE
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uesta pubblicazione riunisce miei lavori di analisi letteraria, nei quali mi
sono basato sul mio personale indirizzo critico e metodologico maturato nel
seno della mia attività di studioso e scrittore. Nei miei saggi degli ultimi
anni ho avuto occasione di chiarire come la psicologia analitica di Jung sia un ottimo strumento di valutazione, naturalmente non disgiunta dall’apporto in sede
analitica di altri spunti filosofici. La filosofia, che studia “il tutto” in cui inquadrare anche un testo, e il pensiero junghiano, che offre, a mio avviso, la migliore chiave d’interpretazione dell’autore e del suo prodotto, rimangono, sempre secondo
me, i più validi strumenti di chi voglia comprendere in generale “l’umanità”.
1. IL MACHIAVELLICO DISEGNO
DELLA “FOLLIA” ERASMIANA
L’
opera più nota di Erasmo da Rotterdam è il suo celeberrimo encomio alla
pazzia. Di esso ho condotto una analisi seguendo la mia metodologia critica (in parte di ispirazione junghiana) e il mio modello di comprensione
della civiltà occidentale. Si tratta di un esame mirante all’obiettività di valutazione, perciò scevro di coinvolgimenti religiosi.
Il quadro storico europeo in cui visse l’Olandese era una bomba a orologeria. Quantunque “L’elogio della follia” sia cronologicamente prima di Lutero, il
suo contenuto riflette un maturo intento preventivo antiriformatore. I segnali che
indussero l’Olandese ad agire si possono ritrovare nei fermenti a lui prossimi
(contemporanei e passati). Erasmo ha capito che la sovranità della Chiesa cattolica
sul mondo è in imminente pericolo: che il di lui futuro avversario fosse Lutero o
un altro, è questione di importanza relativa in relazione alla persona (non dobbiamo però trascurare un dettaglio di forma importante: l’analoga provenienza
agostiniana di Lutero). Lo scrittore cattolico ha compreso la struttura irrazionalistica dell’affermatosi sistema capitalistico moderno, e con mezzi congeniali ha
provato a creare un fronte per arginare l’urto della deflagrazione protestante ormai nell’aria. La strategia erasmiana ne “L’elogio della pazzia” tende a togliere
linfa vitale all’incipiente contestazione avversaria aperta, aspira cioè a sottrarre la
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base dei fedeli alla Riforma. La tecnica adottata consente a Erasmo di contendere
dentro lo stesso agone dell’irrazionale, del nevrotico. L’Olandese usa ironia socratica con l’obiettivo di adescare i folli (gli stupidi, gli ignoranti) per mezzo di un encomio del loro desiderio di essere gaudenti (vicini più al bestiale che all’umano).
Dopo averli irretititi, spera di poter elevare la loro dimensione spirituale di rozzezza alla volta di una nevrosi maschilista religiosa filocattolica, nell’auspicio di
non arrivare secondo rispetto ai riformatori venturi. La pazzia erasmiana non è
univoca: da un lato è in realtà il suo opposto, vale a dire derisione di vizi e difetti
non amati da Erasmo.
Questo insieme di deficit è ricondotto nella di lui visione antifemminista a
una categoria di pazzia “femminile”. Tale aspetto si ricollega alla funzione razionale junghiana del “sentimento”: Erasmo ha spezzato l’asse delle facoltà razionali,
comprendente pure la “ragione”, associata nella psicologia analitica a un archetipo
al maschile. Mentre agli occhi di Jung ciascuno possiede in maniera positiva dimensioni psichiche maschili e femminili strutturate in modi specifici a seconda
dell’essere uomini o donne, e senza paragoni discriminatori, Erasmo pretende con
ipocrisia di avvicinare il suo interlocutore attraverso un encomio per buona parte
insincero allo scopo di far presa su soggetti poco predisposti al ragionamento.
Spera di raggiungere la massa al fine di trascinarla nella sua trappola nevrotico-teologica, dove la funzione della “ragione” si è chiusa in sé, nel rifiuto del
“femminile”, in modo erroneo visto quale opposto irrazionale (quando invece la
facoltà del “sentimento” si trova lungo l’asse delle funzioni razionali umane). Tutto quello che scoppierà qualche anno dopo la pubblicazione de “L’elogio della follia” ha in esso una lucida previsione difensiva. L’irrazionalismo dominava lo scenario già da tempo a livello economico: la Riforma risulterà solo un’elaborazione
di altri schemi nevrotici (paralleli e omogenei) a sostegno del capitalismo moderno. Nell’opera erasmiana in esame, in fin dei conti, l’autore non ha fatto altro che
inferire in maniera formalmente logica una sua verità (di fede, di nevrosi) da un
gruppo di premesse false e ipocrite: dalla (disprezzata) follia stupidità femminile
ha ricavato la validità formale (e retorica) di una pazzia nevrosi maschilista.
La generale follia di Erasmo si arena al livello di libido freudiana: alla pulsione verso il piacere, l’Olandese vuol sostituire alla fine quella verso la distruzione (dei nemici della Chiesa). Tommaso Moro rimase un “pazzo” vittima di una
nevrotica pulsione autodistruttiva. La libido junghiana opera meglio in soggetti
quantomeno consapevoli di nevrosi. Erasmo non è poi così molto diverso dalla
tipologia psichica cui appartiene Lutero: entrambi sono sulla stessa linea teologica,
solo che il primo è più moderato, il secondo è un estremista. Tutti e due vogliono
una palingenesi del Cristianesimo: l’Olandese è un nevrotico idealista, il Tedesco
un nevrotico rivoluzionario. In una lettera inviata al suo caro amico Tommaso
Moro (la cui data esatta non è conosciuta: 9/10 giugno 1508/9), Erasmo da Rotter-
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dam spiega la natura ideologica de “L’elogio della follia”. Più volte l’autore qualifica il suo testo come qualcosa di satirico, estraneo nella sua sostanza immediata a
un intento didascalico (razionale). Egli in tale opera declina, nei più vari e dotti
modi, tipologie di azioni che ha ascritto sotto i termini “morίa” e “stulticia (stultitia)”. In greco e latino questi due termini, non a caso di genere femminile, indicano
l’allontanamento dal logos e dalla ratio. Non esiste coscienza di una dimensione
semantica medica: “folle” è chi si comporta da “irresponsabile”, chi ha smarrito
l’uso corretto della ragione. Perciò in simile satira erasmiana troviamo celata
un’apologia del modello del filosofo cattolico quale lui era. Lui e Moro erano rigorosi osservatori dell’ortodossia romana: il primo fino al punto di assurgere ad anti-Lutero; il secondo sino all’esito di farsi uccidere (nonostante avesse avuto facile
possibilità di una migliore sorte).
Stando alla stima di Erasmo per Moro, nelle loro formae mentis non intravedo margine per dotare “L’elogio della pazzia” di una connotazione positiva. Entro un certo punto nei tipi descritti si mira solo a una raffinata presa in giro di categorie di stupidi (e già Bertrand Russell lo aveva notato). Erasmo, il quale era ordinato al sacerdozio, e antifemminista, era consapevole di quello che faceva: denigrava la scala di lontananza dalla perfetta osservanza della religiosità cristiana
(per lui più paolina che altro) e dalle humanae litterae in mancata funzione di
questa. Che simili idioti, visti sopra tale scala, fossero felici grazie alla loro stulticia
(alla loro superficialità) è indubbio. Però Erasmo non li approva: l’intenzione critica redazionale della sua nota opera in parte rimane in contrasto con la letterarietà
(ricordiamoci di quanto detto da Russell); fa un elogio satirico di impostazione retorica, e lo chiarisce a Moro, ma quello che dice veramente nella sua globalità è
appunto altro, stampato nell’intenzione e non nella forma letterale integrale.
In virtù del carattere, dello status sociale e intellettuale erasmiani si può
concludere che egli non si sarebbe mai permesso di rivolgere un pubblico attacco
al sistema di appartenenza di impronta cristiano-cattolica (anche se la sua inclinazione irrazionalistica lo spinse una volta addirittura a difendere Lutero, prima di
attaccarlo col “De libero arbitrio”).
Rivolgere a “L’elogio della follia” un’ermeneutica positiva, astraendo lo
scritto dal proprio contesto e dalla precisa figura del suo creatore (con i suoi pregi
e i suoi difetti) mi sembra portare fuori strada. Erasmo sta deridendo tutti quelli
diversi da lui, ossia da un teologo ordinato al sacerdozio, di profonda cultura e di
talento. Nella sua “pazzia” compare il “femminile” dell’esistenza umana: infatti
per lui la donna è un soggetto “stolto”, dunque i cui difetti si trasfigurano in questo suo testo. Egli disapprova allora simile distrazione agli occhi della pseudoragione (nevrosi). Alla fine afferma che tale prima “follia” è il fondamento della felicità degli “stupidi”, e, per contrasto consegna il diritto del suo pensiero (e non il
rovescio satirico); sostiene che per essere felici, in un’altra accezione (per lui più
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consona e veritiera), la via è il Messia e la sua Chiesa con l’ortodossia romana. A
lui interessa l’apologia del cattolico soldato di Cristo, non l’apologia dei “folli”
gaudenti in generale. Erasmo mostra sì caratteri progressisti, tuttavia come si vede
non a 360°: di formazione agostiniana, bisogna anche valutare quanto ci fosse di
“pragmatico” nel suo spirito pacifista. Se egli da un canto non gradisce la follia dei
più perché stupidità, d’altro lato nella sua opera accoglie ai vertici della sua fenomenologia una finale tappa di pazzia particolarmente diversa da tutte le altre viste
prima. Alla follia-stupidità (femminile) viene contrapposta la follia-nevrosi (maschilista). Involontariamente Erasmo ha dichiarato la natura nevrotica della religione cristiana: idolatria di impostazioni teologiche maschiliste, arroccate in una
difesa dal “femminile”, spingenti Erasmo a teorizzare una scissione nel concetto
stesso di stulticia per guadagnare alla nevrosi cristiana uno spazio di proponibilità
(appunto scelta e condotta di fede religiose estranee alla ragionevolezza). Se il logos operante isolato si muta in nevrosi, tuttavia l’opposto senza ratio fa scomparire la civiltà umana. Il testo erasmiano, analizzato nella sua obiettività, rivela la sua
matrice propagandistica religiosa, giocante una partita sullo stesso campo irrazionalistico di Lutero: il che la dice lunga sul significato dell’auspicata scelta a beneficio della follia-nevrosi cristiano-cattolica (“L’elogio della pazzia” infatti finì poi
nell’occhio della Controriforma).
Lo scrittore olandese incalzato dai cattolici cercò di combattere la riforma
protestante in tutti i modi: utilizzando armi di natura irrazionalistica (apologia di
una stulticia filocattolica), e di natura schiettamente più razionale (le quali si concretizzano nel suo pacifismo, che pertanto si colora di un’ombra machiavellica
poiché costui gradirebbe sempre un mondo sotto l’ortodossia romana).
Ci rendiamo allora conto, riallacciandoci all’epistola erasmiana per Tommaso Moro, che “L’elogio della follia” è un invito a scegliere la stulticia nel suo
massimo grado, cioè quello nevrotico-religioso cattolico, mettendo da parte il
buon senso, la ragione, come fece appunto il personaggio cui il testo fu dedicato.
Tommaso Moro seguì alla perfezione l’invito ad abbracciare la follia-nevrosi: fu
condannato a morte a causa della sua ostinazione a non allontanarsi dalle direttive
di Santa Romana Chiesa. La pazzia erasmiana rappresenta il faro di un’azione incosciente, che può condurre persino alla morte. Mentre, non più paradossalmente,
se proponiamo un paragone con Pirandello, in quest’ultimo possiamo notare che
la follia, sebbene sia presente in un contesto distopico, non assume un carattere
distruttivo radicale del suo portatore: il pazzo pirandelliano è consapevole della
sua condizione, del fatto di essere rinchiuso in una specie di ergastolo esistenziale.
La gamma della pazzia erasmiana, rifiutata per osservanza teologica la dimensione del gaudente, ci consegna in ultimo un modello comportamentale che
assurge davvero alla patologia medica. E per fede una cosa del genere non sembra
ragionevole: c’è differenza tra onorabilità personale e nevrosi annichilente. Il mes-
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saggio di Erasmo mi appare estremistico, poiché è come se dicesse: «Considerato
che siete tutti pazzi, perché non andate sino in fondo nella follia?». E quello che c’è
in simile fondo non lo reputo buono: farsi ammazzare per aria fritta teologica. Plasmare irragionevoli kamikaze controriformatori da offrire alla propaganda di fede
sembra il proposito de “L’elogio della pazzia”. E da vivo la Chiesa di Roma protesse sempre Erasmo, altro dettaglio che dovrebbe far riflettere: in quegli anni per
finire nelle mani dell’Inquisizione non ci voleva poi molto. E se vogliamo dirla tutta sopra quest’opera di Erasmo, a detta di Giovanni Papini, l’Olandese si è altresì
rifatto al “De triumpho stultitiae” di Faustino Perisauli.
I contenuti dell’encomio erasmiano sono eloquenti da subito. La Follia parlando dell’insegnamento afferma: «muliebrem rixandi pertinaciam tradit». Si noti
il dettaglio antifemminista: Erasmo prende quale termine di paragone negativo “la
perseveranza muliebre nel litigare”. Egli (cap. VIII1) mostra di aver capito che la
vita degli uomini comuni (i folli), in particolar modo per lui nell’Europa segnata
dall’esperienza luterana, è un campo di scontro (irrazionale) di interessi economici
(proto o post-capitalistici): la Riforma protestante ebbe successo in Germania soprattutto perché liberava dall’oppressione tributaria ecclesiastica romana. Lo scrittore olandese coglie gli ideali dell’ufficialmente partorito irrazionale sistema capitalistico (plutocrazia): la ricchezza, l’edonismo, l’abbandono della filosofia.
Nella (vana) speranza erasmiana che la Chiesa di Roma possa riuscire ad
assorbirlo e a presiederlo. Nel cap. XI l’autore de “L’elogio della pazzia” raggiunge una intuizione molto notevole, e la rende evidente nelle sue parole ante litteram: la sua “follia” è la libido freudiana, la voluntas schopenhaueriana; qui, in dettaglio, l’eros, ma anche un “femminile” in senso junghiano (la Morίa come immagine archetipica di Grande Madre). Nel cap. XIII c’è un paio di passaggi
dell’Olandese (ordinato sacerdote a 25 anni) che mi ha turbato e lasciato sinceramente perplesso: ci sono allusioni a pederastia e pedofilia?
L’apologia dei vizi capitali enunciata nel cap. XVI dalle parole del “sacerdote” Erasmo non può essere presa alla lettera: nella di lui ottica costituisce dissimulazione retorica (ironia socratica). Egli vuol combattere in realtà la follia stupidità
(“femminile”) con le di essa stesse armi, per sostituirla in maniera conveniente al
suo intento propagandistico cattolico con la follia nevrosi (maschilista religiosa):
una sostituzione in regime di omogeneità. Un manifesto antifemminista di Erasmo
(di chiara ascendenza religiosa giudeocristiana, benché egli voglia nasconderne la
radice) è contenuto nel cap. XVIII: quando parla male delle donne, l’Olandese non
dissimula; esprime il punto di vista allora ufficiale della Chiesa, pertanto in simile
circostanza sì che va preso alla lettera. «Animal… stultum… atque ineptum, verum ridiculum et suave, quo convictu domestico virilis ingenii tristiciam sua stul1
La partizione cui faccio riferimento è quella in 68 sezioni.
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ticia condiret atque edulcaret [si badi bene, “per mezzo della di lei follia”, “stulticia sua”]». Inoltre alla fine del cap. XXVI: «ad voluptatem et nugas natura propensiores… ut est ingeniosus, praesertim ad praetexenda commissa sua, sexus ille [attenzione alla particolarità indicata: “praesertim sexus ille”, “specialmente il genere
femminile”]». La elocutio erasmiana segue una logica particolare, non direi schizoide, ma bisogna interpretare con massima attenzione ermeneutica i tasselli del
suo mosaico al fine di comprendere quest’imbuto nel quale egli vuol far cadere il
suo lettore. Si nota in maniera nitida l’eco del misogino “De cultu feminarum” di
Tertulliano: ecco uno dei modelli del Cristianesimo erasmiano. Inoltre agli occhi
dell’antifemminista Erasmo il tradimento di coppia si declina solo al femminile e
lo spiega soprattutto nel cap. XX. Nel cap. XIX compare un’idea di amicizia che
l’Olandese non potrebbe mai condividere sul serio: non si può pensare che egli si
rivolti contro l’ideale del “Laelius” ciceroniano. Una finta apologia erasmiana del
narcisismo appare nel cap. XXII: un sacerdote come lui (esentato dall’esercizio della funzione) mette al primo posto Cristo e la di lui Chiesa. Erasmo, nel succo dei
capp. XXIV-XXVII, sembra voler dire che fuori della Chiesa di Roma, del suo modello politico teocratico e del dogmatismo cristiano-cattolico non ci sia spazio per
nessuno. All’inizio del cap. XXIX è la descrizione ante litteram erasmiana del rischio d’impresa capitalistico. Un Erasmo pirandelliano invece si appalesa al principio della seconda metà del suddetto capitolo.
L’Olandese, che nel cap. XXXII pare esternare il mancato gradimento per le
parlate volgari, spiega pure come in parole povere la follia (stupidità e ignoranza)
sia alla base della semplicità evangelica (è un ragionamento contenuto in alcuni
passaggi, non una deduzione supplementare): simile pazzia rappresenta la solida
base concettuale di partenza del suo piano propagandistico per condurre gli stolti
alla somma follia (nevrosi religiosa, apice del suo scritto).
Si noti infatti che i soggetti descritti possiedono i requisiti utili al fine di divenire kamikaze della fede cattolica. Mentre, pericolosissima rimane la figura dello studioso indipendente (cap. XXXV), una minaccia alla credibilità del dogmatismo presso il volgo: l’attività di studio è pertanto da scoraggiare su larga scala,
giacché controproducente nei confronti della Chiesa di Roma.
Erasmo nel cap. XLV chiarisce che la folle azione di mangiare le altrui ipocrisia e finzioni varie rappresenta un ottimo antidepressivo, soprattutto per donne
(delle quali peraltro ha bassa stima in generale). Al principio del cap. XLVI vi è la
pazzia erasmiana nella veste di perenne “soma” huxleyano. Lo scritttore nel cap.
LXVII indica i modelli del suo Cristianesimo ideale (san Paolo e sant’Agostino):
due modelli, in particolare, sessuofobici (viene usato il vocabolo “castimonia”: astinenza, soprattutto sessuale). Più avanti l’Olandese userà l’espressione «stultis
materculis et idiotis patribus (dativi; mammine insensate e padri idioti)», dove si
può notare che in fatto di follia (stupidità) l’eccellenza (stultitia) sia prerogativa
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femminile, mentre al genere maschile pare che attribuisca qualcosa di diverso, denotante un livello semantico più lieve di semplicità/ingenuità: ciò costituisce una
palese discriminazione di genere di matrice religiosa.
Inoltre nei capitoli L-LIII Erasmo esprimerà, in sintonia col suo Cristianesimo ideale di ascendenza paolino-agostiniana, il suo disprezzo nei confronti
dell’attività intellettuale allorché questa vada contro il dogmatismo religioso della
Chiesa romana. Soprattutto nel LIII è contenuta un’apologia della semplicità (stupidità) evangelica, stupidità (antifemminista) che è la base da cui il discorso erasmiano prende la direzione verso la follia nevrosi maschilista, cui mira ad approdare alla fine l’autore dell’encomio alla pazzia. In tale sezione è altresì contenuta
una perla dell’antifemminismo di Erasmo; egli scrive (parla la Follia): «Num Deus
potuerit suppositare mulierem, num diabolum, num asinum, num cucurbitam,
num silicem?». È posta chiaramente la domanda se Dio possa incorporarsi in enti
spregevoli o poco nobili: ora si può vedere che in questa teologica squalificante
categoria egli accluda oltre a un demonio, un asino, una zucca e una pietra, anche
“la donna”. E si noti come in simile graduatoria di esempi del peggio (animato intelligente, animale, vegetale, minerale) “la donna” abbia il primo posto precedendo addirittura un diavolo: nel caso erasmiano siamo alle porte della misoginia.
Il seguente capitolo LIV pone il limite alla forma della stupidità religiosa.
Infatti l’Olandese attacca, non senza acredine (e con una punta di antisemitismo:
«novum Iudaeorum genus»), le categorie di base dei religiosi cattolici perché votate all’esteriorità e all’edonismo. Il Cristianesimo erasmiano è sì integrale nella sua
formale idealità; ma nella sostanza globale, integralista nella sua nevrotica costruzione piena di pregiudizi vari: pagani, filosofi (non cristiani) ed Ebrei sono additati nel LI quali modelli di errore di fede. Indicazione da cui si deduce sempre che
per Erasmo solo la Chiesa cattolica ha diritto di cittadinanza in questo mondo e di
essa dev’essere il ruolo di guida universale (a modo di quella datole da Dio).
Di nuovo i pregiudizi erasmiani tornano evidenti, ad esempio, alla fine del
LIV laddove vengono disprezzati ancora i mercanti (filocapitalisti e dunque ideologicamente pro riforma) e le donne (propense nella mentalità di Erasmo al tradimento del marito: usa uno spregiativo “mulierculae”). Nel cap. XLVIII si nota
l’avversione anticapitalistica dell’autore de “L’elogio della pazzia”, e di conseguenza verso tutto ciò che rappresenterà la riforma protestante in simile chiave,
riforma che egli cerca di prevenire. Nel cap. LV Erasmo dice apertamente ciò che
vuole: regnanti e corti conformati in maniera rigorosa alla morale cattolica (un
concetto che ad esempio si ritrova in “Lord of the World” di Robert Hugh Benson2). Nei capp. LV-LVI i rimproveri in tal senso sono pesantissimi. Addirittura si
A tale romanzo distopico ho dedicato una monografia: “L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.
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può leggere una profetica allusione junghiana a Enrico VIII (a cui si deve
l’uccisione di san Tommaso Moro). A partire dal cap. LVII la Follia narrante è
davvero uscita di senno! Fa l’apologia del cattolicesimo romano. Nei capp. LVIILIX l’Olandese rivela in modo inequivocabile il rigorismo del suo Cristianesimo
ideale: rigore e radicalità lo riconducono direttamente, anche se a posteriori, a Lutero. Erasmo è una sorta di Lutero cattolico ante litteram, funzionale al progetto di
palingenesi della Chiesa romana, minacciata dall’imminente moto riformatore
protestante. La vocazione kamikaze che dovrebbe assumere il cristiano nella concezione erasmiana traspare eloquente da un passaggio (LVIII) dove la Pazzia (in
contrasto con l’edonismo pontificio, ma discorso valido in generale) dice in tono di
rimprovero: «mori, inamabile; tolli in crucem, infame». Poi, riguardo al pacifismo
dell’Olandese è ancora una volta da puntualizzare che esso appare “interessato”:
l’obiettivo non sarebbe bloccare le guerre in assoluto, bensì fermarle perché dannose alla Chiesa cattolica, perdente terreno in campo politico. Un assetto europeo
pacificato darebbe ai cattolici l’opportunità di agire sulle masse con un’azione
mediatica, quale ad esempio quella rappresentata dalla diffusione de “L’elogio
della follia”, più vantaggiosa a loro: Erasmo guarda a un sistema globalizzato in
stile “1984” (pace interna e possibilità di guerra esterna anticristiana).
Se egli nella serie dei suddetti capitoli evidenziata critica con forza gli uomini al vertice delle gerarchie ecclesiastiche, lo fa per consentire – come direbbe
Marcuse – l’assorbimento (appunto pacifico dentro al sistema) di una contraddizione (l’ostilità alla Chiesa romana). Purtroppo per l’Olandese e i cattolici integralisti tale strategia di contenimento non sortirà effetto.
Che egli abbia a cuore solo la sua fazione, disinteressandosi dei non cristiani, lo dimostra un ulteriore passaggio dell’encomio, dove lui (per bocca della Pazzia) deplora l’agire «plurimo Christiani sanguinis dispendio»: non si sta dispiacendo dello “spargimento considerevole di sangue” di tutti! I nemici della Chiesa
si possono uccidere (non attacca nell’encomio l’Inquisizione), la guerra campale
interna pertanto va fermata giacché Roma papalina non è in grado di affrontarla.
Machiavellica l’apologia erasmiana del pacifismo. Erasmo, dopo aver criticato la
vocazione edonistica negli ecclesiastici cattolici, mostra nel cap. LX di essersi reso
consapevole che alla radice della prossima riforma luterana ci sono interessi economici: i Tedeschi ricchi non vogliono più regalare i loro soldi alla Curia romana.
A Roma papalina non avranno il tempo di gattopardesche correzioni: la
scissione della Cristianità occidentale è alle porte e inarrestabile. Vano l’impegno
“marcusiano” dell’Olandese “a una dimensione” volto a tenere dentro al cattolicesimo il movimento di protesta riformatrice. È ormai tardi per depotenziarlo:
l’irrazionalismo capitalista prenderà il sopravvento sulla nevrosi più schiettamente religiosa. Anticapitalismo e antifemminismo di Erasmo in una sua fotografia
della realtà compaiono nella parte centrale del cap. LXI. Un passaggio erasmiano
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alla fine del cap. LXIV dimostra tutt’altro da quello che a una lettura superficiale
potrebbe apparire, e cioè da una difesa degli eretici. Qua Erasmo ragiona come
O’Brien (“1984”), e spiega che non bisogna fare martiri in seguito a ragioni teologiche, da un lato; dall’altro, cerca di cautelare i cattolici con un esempio induttivo
sugli avversari. Poiché in difficoltà, la Chiesa romana dovrebbe inaugurare una
tregua, a proprio vantaggio, nell’ambito della persecuzione degli eretici.
L’Olandese non sta prendendo di mira l’Inquisizione, sta puntualizzando
una strategia d’azione. L’istituto inquisitorio cattolico dava la caccia in misura
maggiore alle streghe (non rientranti nella categoria di “eretico”): dalle parole di
Erasmo (nonché dalla sua mentalità misogina) evinciamo che simile schieramento
femminile dei nemici della Chiesa è materia di lecita persecuzione.
A difesa delle streghe, che stanno in compagnia di pagani (oggetto di ingiuste accuse erasmiane di violenza sopra i Cristiani) ed Ebrei, non dice proprio niente: dunque l’Inquisizione è legittimata a uccidere e a esistere nella sua funzione
generale. La figura della strega fa parte di quel novero magico-satanico che il brano evocato indica come perseguibile. Poi il problema erasmiano qui sembra altresì
semantico: non dare l’etichetta di “eretico” al condannato. L’importante è: non fare martiri fra gli avversari allo scopo di evitare un loro consolidarsi. Erasmo, nella
sua moralistica crociata contro la “corporeità”, nel cap. LXVI ha una mirabile accidentale intuizione: coglie l’inconscio collettivo junghiano.
Negli ultimi tratti de “L’elogio della follia” si annida quello che considero
un piccolo capolavoro della misoginia erasmiana. Un’allusione, senza ombra di
dubbio, volgare. Una cosa su cui i traduttori perbenisti fanno i finti tonti. La Pazzia a un certo punto, parlante come noto in latino, al principio del cap. LXV, attribuisce a sé la qualità di «teologa del fico». La cosa strana (non per uno studioso
attento) è che lo faccia usando due termini del greco antico (nel testo: «συϰίνῃ
θεολόγῳ», aggettivo concordato con un sostantivo al caso dativo singolare). Evidente la non così tanto sottile intenzione semantica di Erasmo: il sostantivo “fico
(il frutto)”, naturalmente pure collegato all’aggettivo per quanto attiene al significato, in greco antico ha pure una dimensione metaforica indicante “muliebria genitalia” (simile accezione è rintracciabile in Aristofane).
L’Olandese, in parole povere, sta disprezzando il genere femminile (la Follia che narra è femmina), e tramite questa acrobazia linguistica egli ribadisce il suo
pregiudizio secondo cui “mulier tota in utero”. Erasmo fa dire alla Pazzia che
l’unica materia su cui potrebbe elucubrare con competenza una donna è soltanto
la propria sessualità. I traduttori puritani non mettono in evidenza tale aspetto,
molto negativo, grazie a una voltura evasiva: se Erasmo non si fosse voluto avventurare in questo gioco di parole non avrebbe usato il greco antico bensì il latino
(dove suddetta possibilità semantica manca). I capitoli conclusivi de “L’elogio della Pazzia”, dal LXV all’ultimo, proclamano l’ideologia politico-religiosa di Erasmo
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in maniera solenne: un Cristianesimo paolino-agostiniano, il quale è una antifilosofica religione aperta alla nevrosi maschilista. Gesù si rivela nelle “folli” parole
erasmiane il primo kamikaze cristiano, e tra i seguaci più radicali nel tempo altri
masochisti kamikaze. La religiosità dell’Olandese è sessuofobica e misogina: sino
alla fine continua a parlare male delle donne. Erasmo rimane proteso in una lotta
contro la sensualità. Propone altresì una nevrotica versione del mito della caverna.
Tra lui e O’Brien, protagonista di “1984”, non c’è differenza, se non negli accidenti
esteriori. Predicano le stesse cose. La concezione ecclesiastica erasmiana coincide
coll’Oceania del Big Brother3. A Erasmo servono pazzi da asservire a una nevrosi,
preferibilmente poco istruiti; gente sana, e colta, difficilmente si lascerebbe irretire.
Perciò questo contorto encomio dell’insania, dell’irresponsabilità. Soltanto
un’istituzione lontana dalla Ragione può per quindici secoli perseguitare, torturare e uccidere in modo sadico streghe, omosessuali, eretici, non cristiani.
2. PASCAL E LE RAGIONI
DEL CUORE
Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point.
Blaise Pascal, “Pensées”
B
laise Pascal (1623-1662) è stato scienziato e pensatore di notoria fama (fu inventore della calcolatrice). Una sua opera postuma, progettata nei suoi appunti al fine di un’esaltazione fideistica del Cristianesimo, ne ha consacrata
la fama presso un ampio pubblico. I suoi “Pensieri” (iniziati a scrivere nel ’53), ordinati in vario modo a seconda dei curatori del testo (e dell’impostazione che costoro hanno creduto migliore dare), rappresentano in ogni caso, a prescindere dal
montaggio editoriale, un riflesso della personalità pascaliana prima della sua
prematura scomparsa. In essi è possibile rintracciare testimonianza di una svolta
nettamente nevrotica nella mente del Pascal scienziato.
Nell’esame seguente farò riferimento a concetti della psicologia analitica
junghiana, e chiarirò come, a mio avviso, la psiche pascaliana sia stata teatro di
Per approfondimenti suggerisco di vedere il mio saggio intitolato “Il Medioevo
futuro di George Orwell (2015)”.
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qualcosa paragonabile a un terremoto, dalle cui macerie il filosofo francese non ha
trovato la capacità di risollevarsi in maniera non deviata verso una forma ossessiva. Pascal ebbe, ed esordì sullo scenario esistenziale con, una mentalità logicomatematica interessata alla scienza (grazie all’influenza educativa proveniente dal
padre): dunque, usando gli schemi di Jung riguardanti le tipologie caratteriali, è
possibile dire che lo scienziato avesse avuto dapprincipio una preponderante personalità logico-percettiva. Tuttavia a un certo momento della sua vita, dopo aver
subito il condizionamento proveniente dal pensiero giansenista a partire dal ’46,
un evento esteriore creò quella detonazione all’interno della sua psiche che consentì a un complesso (nevrotico) di trovare breccia per assalire il suo Io.
Per me, in linea di massima, il Cristianesimo si fonda sopra una nevrosi
maschilista4: accade cioè un arroccamento, nell'asse delle funzioni personali razionali, della razionalità (logos, maschile) a scapito del sentimento (eros, femminile),
causando così una rottura sostanziale della struttura nella sua meccanica di contatto funzionale. Il Verbo (ragione) viene ritenuto erroneamente l’unico tratto razionale, il suo opposto pertanto irrazionale: dunque se la ratio è “bene”, la libido
diventa “male” (Satana e la donna di lui porta). La religione cristiana (non solo
medievale) si è espressa su questa base: misoginia, omofobia, antisemitismo,
l’intolleranza teologica, hanno in essa tale sostrato nevrotico, maschilista e pseudorazionalistico. Nel Pascal dei “Pensieri”, giansenista, fautore di una riforma della Chiesa cattolica in senso radicale (vicino all’irrazionalismo luterano), prende
campo simile schema nevrotico, il quale in lui covava dentro l’eccesso di dominio
della sua personalità logico-percettiva: si può dire che già fosse nevrotico, di una
mania ordinatrice, e in misura più lieve.
Nella psiche pascaliana, in una prima fase il “verbo scientifico” e il “Verbo
religioso” si trovano a coabitare nel medesimo angolo: però succede che i due aspetti siano inconciliabili, e che la spinta sempre più pressante della schietta funzione logica, la funzione caratteriale dominante in Pascal, provochi per saturazione un rovesciamento polare alla volta del segmento razionale emarginato, quello
del sentimento (funzione inferiore): da questa dinamica traggono origine le “ragioni del cuore” sostenute dal filosofo.
Nel momento in cui egli si rende conto dell’insostenibilità logica del Cristianesimo, ne produce apertamente la legittimazione entro un ambito nevrotico
che niente ha a che vedere con sane funzioni dell’asse caratteriale razionale. Non è
facile dire quanto in simile fondazione sia nevrotico pseudorazionale camuffato (le
“ragioni del cuore” quali ripieghi formali tecno-nevrotici) e quanto possa essere
sintomo di una personalità scissa tra logico-percettivo e sentimentale-intuitivo. In
Al fine di approfondire invito a leggere questa mia monografia: “L’apologia
dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.
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questo secondo caso Pascal potrebbe essere stato alle porte della schizofrenia. Il
fatto che sia morto giovane, in circostanze non molto chiare di malattia, lascerebbe
dubbi. Il pensatore francese viene ritenuto un precursore dell’esistenzialismo, e
queste sfaccettature personali ne indicano tracce speculative. La “canna pensante”
dei “Pensieri” è in primis lui stesso, una sorta di Leopardi del Cattolicesimo. Se si
contestualizzano i contenuti degli appunti pascaliani in previsione dell’apologia
organica, emergono, tra l’altro, i segnali di una gravissima crisi esistenziale accompagnata da nevrosi. Accanto a temi teologici ed esistenziali leciti (quali la ricerca di Dio e la bocciatura del vuoto “divertissement”) si possono notare sfumature di integralismo, antisemitismo e misoginia.
Non si può estrarre un qualunque simpatico “pensiero” di Pascal isolandolo dall’insieme, come uscisse fuori dai cioccolatini. Si deve sempre ricordare che il
filosofo d’Oltralpe promuove nei “Pensieri” una dimensione fideistica nevrotica5,
dove una totalitaristica ideologia religiosa cristiana non lascia spazio alla libertà di
posizioni differenti, tanto meno alla liceità della ricerca filosofica di cui egli disconosce il potere di indagare con efficacia. Fu il padre di Pascal (morto nel ’51) a
condizionare in fatto di giansenismo i figli, soprattutto Blaise e Jacqueline (la quale si farà suora nel ’52, per poi morire dopo un’esperienza di rigore). A sua volta il
fratello influì sulla sorella, sostenendo quelle tesi religiose, e contribuendo così alla
di lei entrata in monastero. Quindi fu il turno di Jacqueline nel condizionare Blaise. In quegli anni il filosofo soffrì di forti mal di testa (al pari di Simone Weil 6), il
che mostra un significativo sintomo somatico del suo stato di disagio interiore.
Il famoso memoriale trovatogli addosso nell’abito quando morì, un testo
datato 23 novembre 1654, è indice eclatante ulteriore della sua situazione psicologica di deriva nevrotica. Pascal, proseguendo la parabola involutiva, aveva scelto
di concentrarsi sopra una prospettiva speculativa intimistico-esistenziale, cosa che
gli precluse la possibilità di una ripresa mentale. Le lettere “Provinciali” composte
dopo a sostegno del giansenismo, nelle quali il concetto di “peccato originale”
rappresenta il perno della sua critica contro una visione esistenziale meno negativa, sono ennesima riprova di quanto detto.
Nonostante tutto Pascal rimane un notevole pensatore: il suo ragionamento
sulla scommessa a proposito dell’esistenza di Dio costituisce una raffinata riflessione filosofica, nella quale purtroppo per lui, il filosofo sottovaluta la possibilità
che Dio possa non essere cristiano o anche in generale non prediligere una religione in particolare. Se la sua dicotomia “esprit géometrique / esprit de finesse” non
Un caso parallelo si ritrova in Erasmo da Rotterdam e nella sua “follia”: vedi qui
a pag. 1.
6 Per un confronto si veda: “Simone Weil / Filantropia e fede di una filosofa” nel
mio saggio “Donne della libertà (2012)”.
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LETTURE CRITICHE
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fosse stata tematizzata in un contesto psichico quasi schizoide, Pascal avrebbe colto il valore archetipico presente nelle “ragioni del cuore”, le cui intuizioni lo avrebbero condotto allo junghiano inconscio collettivo.
Però egli non coglieva immagini di archetipi da miti religiosi sani (contenenti esempi catartici); egli maneggiava attraverso il Cristianesimo immagini da
nevrosi (spesso, da parte di sadici e masochisti, motivo nella storia di torture e uccisioni di innumerevoli persone allo scopo di produrre una pseudocatarsi nella
società): queste ultime gli provenivano da un malsano complesso (Gesù Cristo, il
Logos) che stringeva il suo Ego in modo saldo dopo il suo crollo psichico.
Perciò da un punto di vista sostanziale il filosofo francese rimase lontano
dal cogliere l’inconscio impersonale, i di esso input e le di esso immagini archetipiche: egli si mantenne nell’ultimo periodo della sua vita nell’area della cosiddetta
“ombra” junghiana, dalla quale traggono sostegno i complessi causa di nevrosi.
Aveva altresì conosciuto la depressione nell’infanzia, persa la madre nel ’26, e più
in là la sorella Jacqueline (responsabile a Port-Royal delle novizie) nell’ottobre del
’61: lui morì ad agosto dell’anno successivo; parrebbe che quest’ultimo evento
possa considerarsi un colpo di grazia sul suo essere. Condivido il giudizio di Voltaire a carico di Pascal, accusato di atteggiamento misantropico ed eccessivamente
pessimistico: in effetti l’illuminista non ha torto a sottolineare il tratto di aberrazione del suo connazionale nell’opera postuma ricordata. Il “coeur” isolato e privo
della guida della “raison” non conduce a niente di buono; è come se i cavalli della
biga platonica corressero in direzione di un baratro: il cuore ha le sue negative ragioni (nevrosi) cui la ragione non può sottostare. Si potrebbe concludere che Pascal sia un “Cartesio impazzito”, rimasto vittima dell’ingannatore “genio malefico” del “metodico dubbio cartesiano”.
3. LA PLATONICO-JUNGHIANA
DICOTOMIA “NARCISO/BOCCADORO”
H
ermann Hesse (1877-1962) è stato uno dei più rappresentativi autori della
letteratura non solo novecentesca. “Narciso e Boccadoro” compare nel novero delle sue opere più conosciute: un testo dove l’autore del romanzo
affronta vari argomenti psicologici (dall’amicizia in particolare alle relazioni umane in generale e allo sviluppo della personalità). La mia analisi critica, d’impostazione non solo junghiana, mira a evidenziare aspetti portanti della struttura narra-
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tiva. Riguardo al profilo biografico dello scrittore (vincitore del Premio Nobel nel
’46) è pertanto opportuno precisare subito che costui riflette alcuni suoi tratti di
vita nella figura di Goldmund (in termini di psicologia analitica, dotato di una
personalità “sentimentale-percettiva”), di cui Narziss (invece, dalla personalità
“logico-intuitiva”) si prenderà “cura” (in senso terapeutico). La gamma
dell’“amicizia” che Hesse delimita in apertura dell’opera assume limiti molto ampi: va infatti dalla “filia” all’“eros”.
Il creatore del romanzo parla infatti in maniera esplicita della possibilità
omoerotica del rapporto tra Narziss e Goldmund, già nel cap. II. Vi ritorna quindi
nel successivo, dove ribadisce un paideutico orizzonte platonico-simposiaco, rivisto entro i gravi limiti pregiudiziali del Cristianesimo medievale. Lo scopo che si
prefigge Narciso accantona l’eros terrestre (del discorso di Pausania) a beneficio di
quello uranico (di cui Socrate è modello del docente, sempre nel “Simposio”): a
Boccadoro, in questo riproposto schema dell’evocata paideia, nello scenario di un
contesto cattolico integralista, spetta inizialmente il ruolo del discente. Egli è colui
che, più giovane, nella dicotomia psichica “apollineo/dionisiaco” occupa il grado
di Alcibiade7. Narciso si pone nei confronti dell’“amato” nelle insolite vesti, in relazione al teatro narrativo dove si trova protagonista, di analista junghiano.
A prescindere dall’impostazione data al mio esame del testo di Hesse, è il
caso di ricordare che allo scrittore fu molto familiare il pensiero di Jung, e che egli
stesso fu altresì a contatto diretto col fondatore della psicologia analitica (cui si rivolse a causa di un giovanile grave stato di malessere esistenziale): tra l’altro, nel
cap. IV compare un significativo accenno all’astrologia, la quale costituisce una
materia evocata non in maniera accidentale, giacché è stata oggetto di profonda
analisi da parte di Jung8.
A proposito del legame “platonico” tra Narziss e Goldmund, Hesse sfida il
negativo pregiudizio cattolico e ripresenta l’impianto formativo giovanile simposiaco. L’autore del romanzo oltre a far riferimento concettuale al “Convito” non
manca di rievocare pertinenti contenuti dal “Liside” platonico, laddove si parla
dell’amicizia quale vicinanza fra caratteri umani non del tutto simili.
Nel cap. V Narciso compie uno strano coming out davanti a Boccadoro: gli
dice che a lui viene negato l’eros in quanto religioso, e si capisce con abbastanza
facilità che sta dichiarando di essere omosessuale, ma che la Chiesa gli impone
continenza integrale sul lato biologico, e che l’unico spazio rimasto al suo interesse
Allo scopo di approfondire, suggerisco la lettura del mio studio intitolato “Eros e
la libido junghiana nel Simposio” dentro il mio saggio “Note di critica (2017)”.
8 Per approfondimenti, consiglio di vedere la mia ricerca dal titolo “Astrologia e
tarocchi nella visione di Jung” contenuta nella mia opera “Percorsi di analisi umanistiche (2018)”.
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verso l’“amato” possa essere del tutto intellettuale e immateriale (una prospettiva
radicale che il “Simposio” non contempla). Boccadoro è un ragazzo che, in seguito
alla sua non permessa uscita notturna dal monastero assieme a degli amici, porta
alla luce il suo meccanismo mentale inculcatogli dal sistema socioeducativo cattolico medievale relativo alla considerazione del sesso femminile, il cui contatto per
uno, in particolare come lui, che voglia dedicarsi alla vita religiosa, rappresenta
tabù. Il sensuale contatto con una ragazzina (che lo bacia furtivamente) accelera
l’intensità d’azione sopra di lui del complesso di peccato-nevrosi, già messosi in
moto nel momento in cui era stato condotto in una casa presso due fanciulle,
l’interazione con le quali ai suoi occhi era off limits.
Il bacio, in occasione dell’allontanamento dei ragazzi, apre in Goldmund la
crepa di quella contraddizione psichica tra ratio (nevrotica) e ragioni del cuore (libido), una situazione di sostanza opposta alla dicotomia pascaliana in merito, nella quale interverrà in guisa terapeutica Narziss.
Boccadoro mostra tracce della cultura misogina cristiana, dove tutto ciò che
è riconducibile a una categoria di “femminile” viene qualificato come “potenziale
peccato”. Il Cristianesimo ha spezzato l’asse caratteriale junghiano razionale sul
quale “ratio” e “libido” normalmente stanno in contatto alternativo ma non esclusivo. Esso di quell’isolato segmento del “maschile-logico” ha fatto, in modo nevrotico (maschilista), l’unico parametro di razionalità: e quindi “irrazionale”, “peccaminoso”, viene a risultare l’opposto “femminile” (libido). E Goldmund non è, in
principio, esente da simile devianza. Sarà Narziss in un chiarificatore passaggio,
nella veste di terapeuta, a dare input di correzione all’amico.
L’azione psicoanalitica di Narciso prosegue oltre l’episodio chiarito, e, tenendo come metro di scandaglio la nevrosi cristiana antifemminista, volge alla ricerca di qualcosa di “rimosso” nella psiche di Boccadoro. E individua il complesso
psichico promotore di questa perniciosa “rimozione” nella figura di un padre radicalizzato. Narciso portando avanti il cammino formativo di Boccadoro sbocca
esplicitamente nel tema dell’“individuazione junghiana”, e fa uso di una terminologia simbolica (l’immagine del “dormiente” e l’idea di “risveglio”/“rinascita”
spaziano dal Buddismo al Pietismo: il nonno materno di Hesse era stato oltre che
missionario, al pari del genitore dello scrittore, altresì studioso del mondo orientale). Narziss e Goldmund emergono qui in modo chiaro come due archetipi junghiani, facenti richiamo alla ragione e al sentimento (asse delle facoltà razionali;
percezione e intuizione, in quello delle irrazionali, rimangono qualità d’appoggio).
L’incontro tra Narciso e Boccadoro rappresenta una alchemica “coniunctio
mystica”, una unione fra “spirito” e “natura”, “Sole” e “Luna”, “maschile” e
“femminile” (in senso lato, junghiano), “pensiero logico” e “arte”. In un colloquio
con l’abate di Mariabronn, Narciso espone quale sia il contenuto della “rimozione” di Boccadoro: la madre di costui. Ella, provenuta dal ambienti pagani, aveva
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abbandonato il marito e il figlio: per via della sua condotta e del sospetto di essere
una strega, era rimasta vittima della damnatio memoriae del coniuge; damnatio
trasferita al figlio, il quale non aveva fatto altro che rilevare inconsapevolmente un
comportamento insano. Alla fine del cap. V Narciso può celebrare come chiuso il
percorso alchemico compiuto assieme a Boccadoro. Quest’ultimo si trova ormai in
fase di “individuazione junghiana” avanzata: il suo compito al momento consiste
nel recuperare l’immagine materna (estromessa in un ampio primo momento grazie a una operazione nevrotica), e dunque nel diventare quel che “è” in conformità
ai positivi connotati del suo “essere”.
Narziss seguendo la sua inclinazione di psicoterapeuta ha reso Goldmund
autonomo e autentico, così come a lui stesso, d’altro canto, è capitato di confermare la sua autonomia e la sua autenticità interagendo con l’amico. L’atto di fuga di
Boccadoro dal convento, raccontata nei capp. VI-VII, e culminante con un quasi
immediato deludente abbandono da parte di Lisa (la quale, consumato un congresso carnale con lui, essendo sposata torna subito dal marito timorosa di essere
punita), ha un sapore eminentemente autobiografico.
Hesse, secondo gli auspici paterni, da giovane finì in un seminario protestante al fine di intraprendere una carriera religiosa sulle orme del padre. Ma il
suo spirito libero (e intollerante del nevrotico rigore religioso pietista in cui era
cresciuto) lo indusse a scappare da lì: la pesante esperienza di disagio vissuta sino
ad allora lo aveva spinto addirittura a un tentativo di suicidio (fallito; più in là negli anni ricaduto nel malessere, voglio ricordare, evidenziando tangenze plathiane, che nel suo rinnovato percorso clinico di ripresa, prima di passare in mani junghiane, fu sottoposto ad elettroshock).
Quella che obiettivamente nel romanzo potrebbe apparire qui una infelice
sbandata giovanile è da interpretarsi, nel senso formale, come un adeguamento
alla personale vocazione spirituale. Ancora una volta l’autore (naturalizzatosi
Svizzero dopo la Grande Guerra) rivela sfaccettature platonizzanti (le quali prefigurano altresì alcuni aspetti della futura psicologia archetipica di James Hillman):
il filosofo ateniese nel suo “Fedro” spiega che ogni anima verrebbe al mondo con
un’indole predeterminata (appunto archetipica); e perciò lo scopo esistenziale della prima sarebbe di prenderne coscienza (alla maniera di Jung: “individuarsi”).
L’uscita dal monastero di Boccadoro costituisce una “rinascita, un “risveglio” in
direzione di un senso più genuino dell’essere: la tappa di questa frazione del romanzo può paragonarsi alla vicenda del Buddha, il quale lasciò “piani artificiali”
(serenità e benessere della casa paterna) desideroso di immergersi in “forme autentiche” (conoscenza del mondo e scoperta del significato della vita).
Fuori del convento, Goldmund, appetito dal gentil sesso durante le sue peregrinazioni, si dà con naturale spontaneità. Il primordiale abbandono gli fa ritenere che l’accidentalità sia la regola a lui congeniale (giacché le sue partner non
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mostrano interesse a proseguire un rapporto stabile al di là dell’actus copulandi).
Questo iter, nel cui contesto egli non si fa tanti scrupoli moralistico-religiosi, degno del miglior Andrea Sperelli, rimane tuttavia l’ingenua evoluzione spirituale di
Boccadoro, il quale non sta altro che esperendo tappe della dialettica erotica del
“Simposio” (iniziata con l’eros terrestre).
Da Lisa a Lidia, Goldmund passa dalla frustrazione dell’abbandono, attraversando l’amore del Bello nel molteplice fenomenico, a un amore più casto, e in
quanto tale ancora frustrante, e d’altro canto più “platonico”. L’eros volgare di cui
parla Pausania nel “Convito”, in Boccadoro si potrebbe portare a scrematura allorché è lui, giocoforza, a inseguire Lidia, e non è una donna a concederglisi volentieri. Da tale momento entra in gioco nella narrazione una dinamica di corteggiamento e di approccio sessuale ricalcante il medievale “De amore” del Cappellano.
Goldmund conferma sempre però l’inclinazione caratteriale junghiana sentimentale percettiva, prediligendo poco, nel suo giovanile fiorire, una dimensione
ragionata. La quale in maniera compensativa, è sostenuta da Lidia (cui spetta il
ruolo di opposto “logico”). Ella, sì, potrebbe a questo punto rappresentare la controparte psichica sessuale (l’“anima” teorizzata da Jung) per l’Io di Boccadoro e
così contribuire a un passo ulteriore dell’“individuazione junghiana” di lui (un
passo nei confronti del quale l’azione di Narciso si era defilata).
Il threesome di Goldmund è un riflesso del rigetto hessiano del rigorismo
pietista: esso fallisce nella sua sostanza, non nella forma che ha trovato uno spazio
potenziale. Hesse lo definisce «unnatürlichen Zusammensein [uno “stare-insiemeinnaturale” ossia inopportuno, sconsigliabile, ma non illecito o impossibile in assoluto]». Nella sua prosecuzione del suo apprendistato esistenziale Boccadoro
constata (sulla falsariga del Buddha) che tutto ciò che nasce, nella lotta della e per
la vita, in un modo o nell’altro perisce: piacere e dolore sono due facce della stessa
medaglia.
Dopo l’uccisione di Vittore, il protagonista omicida, purificato da una confessione religiosa, approda presso il laboratorio di un artista, dove darà corpo alla
sua inclinazione creativa, al suo “essere” inteso in senso frommiano (della bontà
dell’uso di tale categoria è riprova il suo scarso interesse per l’“avere”). Goldmund
trasferisce la propria concezione esistenziale nella sua visione estetica, la quale assume una marca oraziana. Nell’esperienza artistica Boccadoro trova un notevole
sbocco alle sue istanze di vita. Nella nuova tensione rappresentativa egli raggiunge vertici archetipici junghiani: gli archetipi del femminile (grazie a Elisabetta, figlia del suo mentore) e della Grande Madre (mediante l’iniziale riflessione sulla
propria, promossa da Narciso).
La profondità di pensiero maturata lo conduce anche a tematizzare il concetto di “libido”, in maniera sempre implicita: infatti essa manifesta sfumature che
vanno da Schopenhauer (“voluntas”) a Jung passando per Freud. Un altro arche-
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tipo, stavolta di natura maschile (il saggio razionale) viene colto da Goldmund
quando si propone di scolpire una statua lignea con le fattezze di Narziss;
un’opera che avrà un esito molto felice nel suo obiettivo materiale di simbolica
rappresentazione archetipica. Pur rimanendo un “sentimentale-percettivo”, la
personalità di Boccadoro è cresciuta sin qui sulla base delle sue esperienze refrattarie all’“avere” frommiano.
Al centro della sua attenzione è ora emerso l’archetipo della Grande Madre,
oltre che nella sua valenza positiva altresì in quella negativa (sorgente di vita da
un canto, di morte dall’altro). Quest’ultimo argomento costituisce un nuovo punto
di tangenza tra Hermann Hesse e Sylvia Plath9. Nonostante l’adozione caratteriale
di Goldmund, costui è in grado di comprendere che l’arte è una sintesi fra logicoformale e sentimentale-sostanziale; per lui, inoltre, la prassi artistica dà luogo alla
benefica “funzione trascendente” junghiana, nell’ambito della quale avviene una
sorta di aristotelica catarsi nell’autore (le cui negative tensioni interiori vengono
scaricate dentro un prodotto estetico).
Il senso di vuoto sorto in Boccadoro dopo aver terminato il san Giovanni
con le sembianze di Narciso lo fa ripiombare in una condizione di inquietudine
spirituale interiore. Il suo stato d’animo lo predispone a radicali riflessioni di impronta esistenzialistica (dove egli constata l’urto tra l’autenticità del mondo della
vita e la bestiale gaudente ipocrisia dei più, i quali fuggono nel divertissement davanti all’angoscioso problema dell’essere diveniente che svanisce nel nulla). È innegabile tuttavia notare che nel testo hessiano simile lato heideggeriano di Goldmund sia condito pure da indizi di un disturbo bipolare (di evidente ascendenza
autobiografica nei riguardi di Hesse).
Nel cap. XII la dialettica platonica del “Simposio” che Boccadoro ha intrapreso a percorrere da tempo trova lo spunto per salire di gradino nello sprone costituito dalla sua intenzione a rappresentare in immagine simbolica la Grande
Madre. A beneficio del suo progetto egli si lascia guidare dall’intuizione dentro se
stesso, dove cerca tracce dello junghiano “inconscio collettivo”. E di esso e delle
immagini archetipiche Hesse descrive un letterario quadro simbolico nella scena
di Goldmund presso un fiume.
Il significato dell’esistenza rappresenta una materia di riflessione che attraversa il cap. XIII in modo particolarmente interessante laddove Hesse paragona la
Grande Madre, oggetto di ricerca di Boccadoro, a Medusa, poiché ciò offre una
nuova rilevante sostanziale tangenza plathiana.
Appare pertanto utile dopo aver evidenziato in precedenza più di una comunanza tra Hermann Hesse e Sylvia Plath, riportare in nota due brani dal mio
Alla poetessa bostoniana ho dedicato due saggi critici: “Sylvia Plath e l’utopia
dell’essere (2016)”, “Sulla poesia di Sylvia Plath” (2016).
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primo saggio di critica plathiana: “Sylvia Plath e l’utopia dell’essere”, pagg. 13-14,
2310. Goldmund, il quale è tornato a girare per il mondo, ha avuto occasione di osIn “Medusa” (poesia plathiana del 16 ottobre ’62) l’archetipo della Grande Madre, in veste soprattutto negativa, si mostra nella sua evidenza.
Suo simbolo è appunto Medusa, la quale riflette l’immagine dell’inconscio
collettivo: «le orecchie rivolte [che fanno coppa, letteralmente; n.d.r.] alle incoerenze del mare [l’acqua è per Jung simbolo dell’inconscio; n.d.r.] / … snervante
testa – palla di Dio». Ella si incarna e si sovrappone nella figura della mamma (da
non trascurare che un genere marino di medusa si chiama Aurelia, come la madre
di Sylvia) in modo tale da lasciare all’archetipo il suo gioco di ambiguità bipolare,
cosicché Medusa può essere «lente di misericordie», ma d’altro canto provocare
l’assedio dell’io della poetessa (v. 2a strofa).
Il non sereno, ambiguo, legame archetipico del complesso materno attraversa le strofe 3-5, culminando nell’emblematica immagine della «placenta», il rassicurante luogo di una Grande Madre positiva. La Plath ricorda la condizione di
estremo disagio di fronte a costei: «morta e senza denaro, / sovraesposta come
una radiografia». E in un sussulto titanico, che segue quello di “Daddy” scaccia il
negativo dell’archetipo. Dopo le ultime due incisive strofe, un singolo, isolato verso, lapidario dice: «Non c’è più niente tra noi».
Da sottolineare la metafora uterina collegata alla Grande Madre: «bottiglia
nella quale vivo, / orrendo Vaticano [il colle, nella cui zona fu il posto del martirio
di san Pietro]». Questa riflette il carattere elementare dell’archetipo, la sua statica
presenza (dunque positiva, tuttavia impantanante nella dipendenza) in un simbolo che è variante in merito del più classico vaso. Il verso terminale di “Medusa” si
può accostare all’incipit di “Daddy” (nella sostanza sono molto simili): «There is
nothing between us»; «You do not do, you do not do / any more». In “Medusa” si
compie la simbolica uccisione della madre (Grande Madre negativa presente, ad
esempio, come detto nelle favole) affinché ci sia l’emancipazione dalla faccia oscura dell’archetipo; e il processo di individuazione, mirante a realizzare le interiori
coerenza e integrità psichiche, dopo un’ulteriore rivisitazione del “maschile” (motore dell’azione menzionata, la quale comporta il recupero del “femminile” rifiutato), possa procedere libero verso il guadagno di un piano di equilibrio psichico di
natura androginica (raggiungimento del Sé, riabilitante l’archetipo non più oscurato da qualità negative).
È indubbio che le esperienze di maternità avessero condotto Sylvia Plath a
una relazione archetipica con la Grande madre sotto un più maturo carattere trasformatore, consentendole di superare il livello del carattere elementare, e quindi
di affrontare il mostro con più efficace vigore. Il muro materno, alla cui “ombra”
in precedenza si era mossa (in maniera più agevole se di fatto distante dalla figura
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servare il lato negativo della Grande Madre, di cui cerca l’immagine simbolica. Un
rinnovato sprone, di natura traumatica, gli proviene dagli effetti di un secondo
omicidio (dopo quello per legittima difesa personale) a scapito di colui che stava
tentando violenza sessuale ai danni di Lena. Ma lo scenario della peste dilagante
rappresenta subito dopo lo spunto delle di lui considerazioni.
Il ritorno della vocazione artistica in Boccadoro, nell’ambito della sua riflessione sulla dialettica della Grande Madre (positiva/negativa), fa pensare ancora
una volta a Sylvia Plath e alla di lei attività artistica. Parlando di peste, Hesse introduce motivi manzoniani nella sua narrazione.
Come Don Rodrigo viene provvidenzialmente punito mediante il contagio,
così in “Narziss und Goldmund” Boccadoro viene opportunamente separato dai
compagni del momento, al fine di conservare la prospettiva del suo iter (in relazione al quale Roberto e Lena costituiscono “tappe hegeliane” da rimuovere).
L’argomento della peste offre, d’altro canto, lo spazio all’autore del romanzo di
ricordare il clima medievale cristiano legato a superstizioni e all’antisemitismo, i
quali (non solo) in casi di epidemia fornirono insensato pretesto per uccidere, in
modo irragionevole e incivile, presunti diffusori del contagio pestilenziale.
Per quanto concerne il percorso esistenziale di Goldmund, egli ha ormai recuperato l’inclinazione verso l’arte in una dimensione matura, grazie a cui ha colto
il significato della produzione estetica: rappresentare nella materia finita qualcosa
il cui valore va al di là dello spazio e del tempo dell’artista e del suo prodotto; comaterna), le pare statica costruzione psichica da abbattere: lo confessa in una lettera alla madre dello stesso 16 ottobre, giorno di “Medusa”, lettera nella quale rifiuta la prospettiva simbolica del rifugio uterino, e riconosce la sua grandezza come
autrice che ha raggiunto la maturità dell’essere: il suo potere creativo è completo,
perfetto.
[…]
“Perseus: the triumph of wit over suffering” è una significativa lirica, contenente la visione della storia umana nella concezione di Sylvia Plath: una dialettica della Grande Madre “negativa (Medusa) / positiva”, il cui «più grande ventre»
di quest’ultimo lato preserva dal «rigor mortis» il mondo empirico.
Tale dialettica ruota attorno al concetto di “maternità” inteso in senso lato,
cosmico, e si articola in tre gradi, come nella dinamica hegeliana. Le tre possibilità
fenomeniche relazionate all’archetipo della Grande Madre (esemplificate in
“Three women”, testo plathiano del marzo del ’62) sono: la positiva accettazione
dell’essere umano; il di lui negativo rifiuto; una via di sintesi, intermedia, di parziali accettazione e rifiuto. La prevalenza del negativo in due casi condiziona in
peggio l’esistenza, però la radicale presenza del positivo mantiene il cosmo in vita
(cosa puntualizzata dalla Plath) e offre una possibilità di riscatto.
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LETTURE CRITICHE
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gliere archetipi junghiani (nel caso la Grande Madre) e idee platoniche (a partire
dalla più importante: l’Idea del Bene/Bello). L’ultimo passo di Boccadoro alla volta della definitiva “individuazione junghiana” segna l’estremo del limite del “negativo razionale” della sua dialettica parabola esistenziale: la sua vocazione fiorisce nel campo dell’arte, ma a causa della sua indulgenza sentimentale-percettiva
verso le donne rischia di perdere la vita e di non passare alla dimensione del “ritorno in sé e per sé” nel suo tragitto che alla fine lo ha indicato quale artista fra le
varie possibilità del suo essere. Provvidenzialmente ricompare Narciso a tirarlo
fuori dei guai: l’allegoria qua ci dice che è la ragione (pensiamo al Virgilio dantesco) a salvare l’integrità psichica dalla deriva, e il soggetto nelle sue relazioni col
mondo esterno. La junghiana “funzione trascendente” nella produzione estetica a
beneficio di Goldmund non avrà la peggio al cospetto di un atto che appare di estrema irresponsabilità allorché egli si propone la meta dell’amoroso convegno
con l’amante del governatore.
La seconda metà del cap. XVII (dedicato al ritrovarsi assieme di Narciso e
Boccadoro) è molto bella sotto vari profili: storico-critico, filosofico-concettuale,
psicologico. Si può accostare quel colloquio tra i protagonisti, in virtù della di esso
profondità, a quello intercorso fra Socrate e Diotima (descritto nel “Simposio”).
Questo hessiano dialogo (platonico) riassume in maniera mirabile tutti i
temi principali del romanzo, e per ciascuno di essi ribadisce esplicita la risposta,
nel corso della narrazione emersa più o meno implicita. Di grande bellezza e rilevanza narrativa è quella sezione iniziale del cap. XVIII dove Narziss spiega a Goldmund il “processo di individuazione”, previsto dalla psicologia analitica di Jung,
in termini aristotelici. Ormai l’esistenza di Boccadoro si incornicia nella junghiana
“fase culturale” (non scontata per tutti), nella quale vengono rivisti secondo
un’ottica superiore i personali contenuti della precedente “fase naturale”. Così è
stato per Goldmund, il quale è altresì approdato alla “virtù” della “moderazione”.
Tuttavia, in una sorta di popperiana falsificazione della bontà di tutto
quanto è stato testé detto, Boccadoro nella conclusione del romanzo ricade
nell’errore fatale: era tornato al convento con Narciso a guisa dell’omerico Ulisse
a Itaca; ma Hesse opta in favore di una dimostrazione negativa, e dà a Goldmund
il ruolo finale dell’Ulisse dantesco (vale a dire di colui che non si adegua al buon
senso e alla ragionevolezza). Nell’ultimo estremo eccesso Boccadoro perde se stesso, non riesce a rappresentare in opera simbolica la Grande Madre, bensì è questa
a raccoglierlo nell’abbraccio della morte. In un finale un po’ distopico, dove Narziss gli proclama il suo amore («ich dich liebe»), Goldmund, in articulo mortis, ribadisce il valore per l’esistenza umana del suddetto archetipo.
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LETTURE CRITICHE
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4. IL NON UMANO E IL DISTOPICO
NE “LA METAMORFOSI” KAFKIANA
ranz Kafka (1883-1924) è uno degli scrittori più noti vissuti nel ’900. La sua
esistenza, stroncata da una tubercolosi, fu segnata dall’infelice legame col
padre (che era un commerciante). Ebbe pure instabili relazioni amorose.
L’aggettivo “kafkiano” è rimasto, consolidatosi non solo nel linguaggio critico letterario, a indicare atmosfere di inquietudine prodotta da dimensioni surreali, di
ansia derivante da contorto complesso di colpevolezza. Fra le opere dello scrittore
praghese, notissima è “La metamorfosi” (pubblicata nel 1916).
Il racconto di Kafka ruota tutto attorno al tema del disagio, la cui paradossale messa in scena stigmatizza quelle che sono le conseguenti eventuali sgradite
percezioni al suo proposito. Nella particolare vicenda, personale e familiare, di
Gregorio Samsa si possono rintracciare due piani del “sentirsi scarafaggio” (e
quattro punti di vista specifici). Un primo piano è quello soggettivo: quello legato
a chi patisce le difficoltà. Un secondo, quello oggettivo: relativo cioè alla considerazione esteriore di chi contempla una situazione di disagio. Nella narrazione kafkiana un aspetto saliente ha la radice biografica, la quale comporta un approccio
psicologico nei confronti di Gregorio. Costui è il riflesso letterario di Franz, così
come si vedeva collocato nella sua famiglia: all’ombra di un padre “patriarcanevrosi (freudiana)”, proiezione di una dispotica figura (al pari del Dio veterotestamentario). Non è un caso che il racconto esordisca parlando di risveglio da incubi, per poi immergersi in un narrato da incubo. Il “sentirsi scarafaggio” è soprattutto l’autopercezione dell’autore all’interno del suo novero familiare.
La morte causata da inedia (anoressia) di Gregorio attira ancora una volta
l’attenzione sulla vita dello scrittore. A simile percorso ermeneutico soggettivo in
chiave psicologica si accompagna, su tale area, un’altra possibilità di lettura filosofica richiamante la “caverna platonica”. La nuova anomala allegorica condizione
del protagonista letterario e della sua abitazione rievocano immagini del mito descritto da Platone: Gregorio è posto in una condizione leopardiana di disincanto
delle illusioni fenomeniche. Il suo simbolico “essere-non-umano-per-il-mondo”
costituisce un’uscita da esso, un’uscita dalla grotta del fenomenico. Non per niente
la sua stanza personale, via via subirà la privazione dei connotati convenzionali a
beneficio del resto dell’alloggio (luogo simbolico di quel mondo da cui, “illuminato”, viene rifiutato e scacciato). Egli coglie il “senso della vita” attraverso una radicale negatività (una sorta di negativo razionale hegeliano, o noluntas schopenhaueriana). Alla fine sarà bandito dall’appartenenza all’umanità, e dunque la sua
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LETTURE CRITICHE
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perdita ritenuta più un guadagno che una sofferenza. Alcuni tratti finali del racconto evocano in maniera distopica il tema dell’eutanasia, in quella forma di eliminazione dei disabili elaborata dai princίpi nazisti. Tal argomento offre la sponda
al piano oggettivo in quest’analisi ermeneutica: l’essere percepito come non umano ha un teatro di osservazione negli altri.
Se, come diceva Sartre, la persona si reifica al cospetto di un’altra coscienza,
nessun inferno è peggiore di quello prospettato dalla caduta di un soggetto con
impedimenti in balia della considerazione di persone insensibili, loro veramente
inumane (come nel caso dei familiari di Gregorio, i quali si adoperano a favore
della sua ghettizzazione alla volta di una “soluzione finale”: la stanza di Gregorio
è altresì junghiana prefigurazione delle camere a gas naziste).
Al livello della “visione medica” succede quello “sociale”, sopra lo spazio
della reificazione e della riduzione ad animale. L’appartenenza ebraica di Kafka,
indubbiamente, col suo secolare retaggio di persecuzioni ed emarginazioni, pesò
nelle sue riflessioni sul porsi in società. Una società nella quale però l’attivismo
ebraico paterno nell’attività lavorativa (causa del distacco dal figlio) offre la chiave
di una lettura politica de “La metamorfosi”. Il sistema socioproduttivo capitalista
tratta i suoi componenti alla stregua di bestie, ingranaggi della produzione del
consumo, e cerca di sopprimere in un modo o nell’altro chi non è adeguato ai suoi
fini. Molto maltusiana la scomparsa di Gregorio: divenuto inabile e inutile
all’apparato, finisce soppresso a causa di motivazioni nascoste sotto il tappeto della spregevole ipocrisia.
Viene abbandonato al posto di essere accudito giacché la sua presenza e il
suo essere costituiscono costante deviazione da un ideale di vita edonistico. Esistono testimonianze che indicano simpatie di Franz Kafka verso posizioni politiche anarchiche. Nel pensiero kafkiano la vita è intravista dietro una forte coloritura distopica. Predomina l’idea di un’irrazionale oppressione, la quale disvela una
sua mancata natura di equilibrio. Le immagini kafkiane emergono a guisa di incubi dall’inconscio (personale o collettivo), e lasciano al lettore la prosecuzione sulla
via della junghiana maturazione archetipica.
Le narrazioni dello scrittore praghese, sotto tale profilo, costituiscono “miti
negativi”. Mentre il “distopico” possiede una interiore ratio, il “kafkiano” rappresenta un distopico privato di questa (è riflesso del magma libidico secondo la concezione di Jung). Dunque il “kafkiano” (reale, non letterario) può scaturire nella
coscienza individuale da nevrosi promosse da complessi che hanno riferimenti
presso una realtà circostante non ordinata e perciò disagiante. Dal canto suo anche
il “distopico” è frutto di nevrosi, però quest’ultima attecchisce sul campo di una
pseudorazionalità (si costruisce indebitamente con i mattoni del Logos).
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LETTURE CRITICHE
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5. IL DIAVOLO BULGAKOVIANO
E LA STREGA MARGHERITA
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Inferno XXXIV, 139
Dante Alighieri, “Divina Commedia”
“I
l Maestro e Margherita [Master i Margarita]” di Michail Bulgakov (18911940) è una celeberrima opera della letteratura di tutti i tempi. La sua gestazione occupò l’ultimo quarto di vita dello scrittore russo; il testo venne
reso pubblico postumo, alla fine degli anni ’60, grazie alla vedova Elena Sergheevna Shilovskaya (1893-1970). È un romanzo la cui comprensione si può rendere
più profonda se accostato alla “Divina Commedia”, e se la vicenda esistenziale
bulgakoviana a sua volta viene paragonata a quella dantesca.
Entrambi gli scrittori sono stati vittime dell’oppressione di sistemi totalitari:
quello sovietico novecentesco e il precedente medievale cattolico (di cui la Firenze
comunale pagava il prezzo degli aspetti negativi). L’URSS sta a Bulgakov come la
città di Dante nell’Alto Medioevo sta al suo celeberrimo figlio. Tutti e due hanno
imbevuto le succitate opere di un sentimento di rivalsa (non solo letteraria). Il testo bulgakoviano analizzato alla stregua di una “Commedia sovietica” rivela una
parte della sua ricchezza in maniera nitida. Simile gamma di tensione narrativa di
spessore costruttivo intersoggettivo, si completa con una dimensione psicologica
osservabile in interiore nei personaggi nevralgici. La prima parte del “Master i
Margarita” (capp. 1-18: vale a dire 3×6; idest, a scrivere, 666) presenta la sezione
“infernale”: dove ipocriti e concupiscenti vengono scoperti e puniti. Bulgakov
proveniva da una famiglia di cristiani ortodossi osservanti: il padre fu un professore del campo storico-religioso, e uno zio insegnò in seminario. È evidente che lo
scrittore di Kiev si portasse dentro il peso di una formazione giovanile familiare
entrata in contrasto con l’indirizzo marxista dell’URSS.
L’impressione è che Bulgakov elabori e trovi una via di mezzo tra l’ateismo
materialista di Stato e la reazionaria dogmatica religione cristiana. Il Satana bulgakoviano emerge quale simbolico vertice archetipico di questo processo. Tale personaggio ricorda moltissimo il richiamo di Jung a non scorporare dall’immagine
del divino l’aspetto dell’“ombra”, giacché la teorica possibilità del male appare da
un lato come garanzia della libertà dell’azione (umana) in genere, dall’altro come
monito a non compierlo de facto. Questo è il costo ontologico della libertà sogget-
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LETTURE CRITICHE
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tiva. E tale è il significato della citazione goethiana in apertura del romanzo.
L’orientamento filosofico di Bulgakov si mostra spiritualista, anche se non più cristiano. L’autore russo smaschera la tradizionale costruzione evangelica sulla vita
di Gesù, però mantiene la sua riflessione nel romanzo lungo una via di pensiero
difficilmente armonizzabile con l’impianto materialistico su cui poggiava l’URSS.
Se tradizionalmente si vede, e non a torto, nella figura del Master (“magister” è un
appellativo di Faust in Goethe) una trasposizione della persona di Bulgakov e delle sue esperienze di difficoltà al cospetto di un non benevolo accoglimento presso
la critica letteraria ufficiale sovietica (livello biografico esteriore), non si sottolinea
che, essendo il Maestro a sua volta riversatosi (nell’ulteriore interno romanzo) nel
personaggio di Pilato (colui che vive con disagio la dicotomia “pragmatismo politico / giustizia obiettiva”), Bulgakov (a un livello di analisi esistenziale interiore)
carichi pure nel procuratore romano lo strato più profondo della sua psiche per
quanto attiene al tema religioso.
Un tema che si scopre quindi familiare e paterno, ed elaborante ciò che si
rivela un complesso di colpa di tradimento nei riguardi del genitore (scomparso
nel 1906). Pilato rappresenta il Bulgakov che ha accettato il nuovo corso socialista
della Russia, che ha rinnegato il Cristianesimo ortodosso simboleggiato dalla figura di Jeshua Ganozri. Lo scrittore di Kiev, tuttavia, non sembra consegnarsi al materialismo e salva in maniera junghiana l’orizzonte spiritualista. Il senso di colpa
che perseguiterà il procuratore della Giudea a causa dell’uccisione di Jeshua indica nella realtà il complesso bulgakoviano in relazione a un simbolico parricidio.
Allorché il Master, alla fine, libererà Pilato dalla sua condizione di angosciante rimorso, è Bulgakov che abbandona quel suo stato di pensiero colpevolizzante. Nella prima parte de “Il Maestro e Margherita” si concentra il “negativo”: dalle punizioni ai vari ipocriti e opportunisti che rovinano la società (nel dettaglio moscovita) alla morte di Gesù. Un Messia demistificato, molto filosofico e molto filantropico, si è contrapposto a un Pilato dalla profonda coscienza umana (alla base della
sua sofferenza psicologica): una situazione che lo indurrà, quasi fosse un Conte di
Montecristo sui generis, a disporre giustizia obiettiva facendo uccidere in un secondo momento il traditore Giuda.
In quest’ultimo, più che in Voland, è da intravedersi Stalin; e se Stalin è
Giuda, Ieshua, con le sue anarchiche idee, appare, in una lettura politica, trotzkijsta. La seconda parte del testo bulgakoviano in esame accantona la dimensione
punitiva di Satana e dei suoi accompagnatori a Mosca, una nigredo alchemicojunghiana, per lasciare posto alle successive fasi (albedo, citrinitas, rubedo). Il diavolo di Bulgakov, Azazello, Korovev, Beghemot, Ghella, hanno attuato sin qui
“giustizia compensativa”, hanno risanato uno squilibrio compensandolo con la di
esso moneta, non hanno ricercato un sadico fine: il cattivo umano uso della libertà,
il quale è stato un male, ha provocato una reazione opposta e contraria volta a ri-
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Caruso
mediare sullo stesso piano (in misura omogenea, come se si trattasse del ritorno di
un rimbalzo). Nello sregolato agire i concupiscenti e ipocriti personaggi bulgakoviani della prima frazione del romanzo hanno trovato la radice di un contrappasso. La seconda frazione (capp. 19-32 e epilogo) offre finalmente la protagonista
centrale, Margherita, la quale fu creata e inserita nel progetto narrativo (assieme al
Maestro) dall’autore russo solo dopo che egli conobbe la sua ultima compagna.
La sua assenza nelle fasi redazionali precedenti e il suo successivo ingresso
convalidano la linea analitica qui portata avanti in parte imperniata su motivi biografici e psicologici bulgakoviani (più sopra accennati). Nella seconda parte del
“Master i Margarita” i due protagonisti che danno il titolo al romanzo, rappresentano, in termini analitici junghiani, il maschile-ratio (animus) e il femminile-libido
(anima). Demistificare la religione e ricondurla ai suoi aspetti simbolici e archetipici è infatti l’operazione intellettuale che il Maestro bulgakoviano compie, il quale va altresì nella direzione di incontro con Margherita, ossia dell’individuazione
junghiana.
Speculare la vicenda di Margarita che andando verso il Master si avvicina
all’animus. Ma il di lei caso è ricco di vari significativi aspetti, sia letterari che psicologici. Sotto il profilo letterario-alchemico gli episodi connessi alla “crema di
Azazello” segnano il passaggio dalla nigredo al blu alchemico, e quelle legate alla
“gran ballo di Satana” alla citrinitas. Margherita dice di sì all’invito di Voland, il
che tradotto in termini psicoanalitici significa che ella vivrà l’esperienza della personalità “mana”: infatti diverrà una “strega” con poteri sovrannaturali. Nella sua
psiche l’animus si è convertito in canale di invasamento dell’inconscio collettivo
(Satana). Margarita sperimenta l’ebbrezza del “mana” (si ricordi la distruzione
dell’appartamento di Latunskij, critico ostile al Maestro amato dalla protagonista)
sino a quella singolare festa che è riproposizione della magmatica elaborazione
dell’inconscio assoluto. Tutta la feccia dell’umanità là presentatasi a ossequiarla
raffigura l’insieme dei contenuti non positivi dell’inconscio impersonale che ribollono alla volta di una mediatrice cagliata archetipica.
I passaggi inerenti all’infanticida Frida (la quale chiede aiuto a Margherita
al fine di non essere più eternamente tormentata dal suo contrappasso) sono indicativi di alcuni concetti della psicologia analitica. Jung ha chiarito che in ambito di
“personalità mana” fondamentale è la rinunzia al potere concesso dall’inconscio
collettivo affinché si pervenga all’individuazione nella psiche personale. Pertanto
quando, terminata la festa, Voland chiede a Margarita quale ricompensa ella voglia essendosi prestata nel ruolo di regina del ballo, la donna non sfrutta il “mana”
subito allo scopo di soddisfare il di lei desiderio di ricongiungersi col Master, bensì pretende sia esaudita la sua richiesta in favore di Frida.
Soltanto dopo ciò (la rinunzia al “mana”) il processo alchemico sopra evocato raggiunge la citrinitas con l’arrivo del Maestro, magicamente prelevato dalla
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clinica dove era ricoverato a causa del suo disagio mentale. Nel romanzo su Pilato
che il Master aveva scritto, di cui Bulgakov torna di nuovo a esporre passaggi nella seconda sezione generale del suo testo a partire dal cap. 25, l’uccisione di Giuda
rappresenta, sopra il piano esegetico politico, il simbolico omicidio di Stalin, il
traditore della Rivoluzione, la causa del male nell’URSS.
Capire perché “Il Maestro e Margherita” non trovò spazio nell’epoca staliniana, non è difficile: costituisce una colossale critica (nell’ermeneutica oggettiva)
al sistema comunista precipitato nell’involuzione sino al punto di giungere alla
persecuzione e all’uccisione di Trotzkij (il fautore della rivoluzione globalizzata):
un Gesù Cristo sovietico condannato dalla camaleontica burocrazia russa (Pilato:
gattopardesco simbolo del vecchio quadro di potere amministrativo, il quale non
vuol perdere i propri privilegi). Il procuratore romano si presta a una duplice
chiave di lettura simbolica: quella dell’ermeneutica soggettiva (legata agli aspetti
biografici bulgakoviani, di cui parlato prima), e l’altra dell’ermeneutica oggettiva
(connessa agli aspetti della storia sovietica, testé spiegata).
La sizigia, il mistico matrimonio tra il Master e Margarita, si celebra mediante il loro avvelenamento (simbolico) da parte di Azazello: infatti i due si “risvegliano”, e sarà per sempre rubedo per loro. Finiscono con l’essere posti in una
sorta di limbo cristiano (il dogma cattolico è stato abolito da Benedetto XVI); un
limbo che appare altresì somigliare a un paradiso pagano; i protagonisti sembrano
essere collocati nei Campi elisi. Non si prospetta davanti a loro una condizione di
dannati; perciò, sebbene la struttura fantastica narrativa offra spunti di aggancio a
una visione spiritualista, quella si discosta parecchio dal canonico impianto fideistico cristiano. Tenendo presente che Margherita è un’originale creatura goethiana
prima inesistente nella tradizione faustiana, più che in Goethe è nel “Faust” di
Gounod, di cui Bulgakov era amante, che è possibile rintracciare una vena di ispirazione nella progettazione del “Master i Margarita”.
Nell’opera teatrale goethiana (dove ci sono gatti parlanti), Margherita, la
quale non apprezza i gioielli, è la figlia quattordicenne di una vedova usuraia.
Nella versione lirica compare Mefistofele che predice il futuro (si veda il caso di
Berlioz nel romanzo). La bulgakoviana Margherita trae ascendenza gounodiana:
quella di Gounod, amata da Siebel, con i gioielli fattile avere da Faust (a lui forniti
dal diavolo), dice di sentirsi come una regina (si ricordino le circostanze legate alla
“crema di Azazello” e al “gran ballo di Satana”).
Valentino, fratello di Margherita, mette al collo un talismano regalatole da
costei: pensiamo alla collana indossata da Margarita alla festa di Voland. La Margherita gounodiana, d’altro canto, nel dramma porta una collana di Faust, la quale
toglierà dopo l’uccisione del di lei fratello da parte di quest’ultimo. Il sabba nella
notte di santa Valpurga a inizio del conclusivo atto di questo “Faust” mostra influenze confluite nel finale dell’opera di Bulgakov; in particolare, la festa di Mefi-
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stofele nel suo dominio, dove risalta la figura di Cleopatra, offre suggestioni a beneficio dell’ideazione bulgakoviana del “gran ballo di Satana”.
L’infanticida Margherita della chiusura del dramma dà lo spunto per il personaggio di Frida. Il Mefistofele di Gounod, infine, s’impegna allo scopo di agevolare Faust nella conquista di Margherita, ma lei pentitasi della propria condotta
muore e va in paradiso. Nel “Master i Margarita”, i due protagonisti seguono in
relazione a ciò un percorso che presenta delle tangenze (per analogia e contrasto).
Al di là dei dettagli esteriori, il “Faust” goethiano, con le sue connotazioni
superomistiche e tecnocapitalistiche, non si presta a un congeniale accostamento
con l’opera dello scrittore russo. La Margherita di Bulgakov è molto considerevole
sotto il profilo dell’essenza letteraria, somma una gamma ampia di tipologie: a paragone possiamo citare dall’universo distopico la personalità “mana” della lewisiana Jane Studdock11, il suicidio (omicidio) di Mabel Brand12, e al di fuori la dantesca Beatrice. La prima gestisce un potere “magico” che le consente di conoscere
cose lontane o future (di avere quindi una superiorità sulla realtà fenomenica), la
seconda muore perché insofferente delle cose turbolente del mondo, e la terza è
l’ultima guida nella rinascita (spirituale) di Dante. La ricchezza che l’autore di
Kiev ha saputo conferire a Margherita eleva costei al ruolo di sui generis Beatrice
in tale “Divina Commedia sovietica” esaminata. Bulgakov, nell’elaborazione de “Il
Maestro e Margherita”, ha incrociato due distinte intenzioni redazionali, come il
Sommo Poeta fece con la “Vita nuova” nell’inserire testi poetici creati a parte.
Quest’ultima opera racconta una storia che comincia con un incontro (ripetuto nel
tempo), e similmente da un incontro si sviluppa la vicenda narrativa bulgakoviana
tra il Master e Margarita.
A proposito della vexata quaestio su cosa voglia intendere lo scrittore russo
quando dice che i suoi due protagonisti principali hanno meritato la “pace” e non
la “luce”, immagino che non volesse fare una distinzione gerarchica sulla condizione ultraterrena, bensì distinguere due esistenziali generali modi di possibili
umani itinera letterari: mentre il percorso dantesco è un cammino che ambisce alla
“luce” e con essa (Dio) culmina passando attraverso un ripensamento mistico, il
Maestro demistifica la realtà, razionalizza e al termine ottiene la “pace” (Elisio). Il
fatto che Dante abbia bisogno nella “Commedia” di Virgilio (la ragione) all’inizio
rispecchia gli orizzonti della sua partenza (da solo) e del suo arrivo (poi con Beatrice e san Bernardo). Il Master agisce lungo il sentiero non mistico della “pace”,
ed essa alfine consegue ma non come premio minore.
Per approfondimenti suggerisco il secondo capitolo (“Un romanzo alchemico”)
del mio saggio intitolato “Mitopoiesi junghiana in Clive Staples Lewis (2017)”.
12 Al fine di approfondire consiglio la mia monografia “L’apologia dell’irragionevole di Robert Hugh Benson (2017)”.
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INDICE
Introduzione
pag. 1
1. Il machiavellico disegno della “follia” erasmiana
pag. 1
2. Pascal e le ragioni del cuore
pag. 10
3. La platonico-junghiana dicotomia “Narciso/Boccadoro”
pag. 13
4. Il non umano e il distopico ne “La metamorfosi” kafkiana
pag. 22
5. Il diavolo bulgakoviano e la strega Margherita
pag. 24
Palermo
marzo 2019