Studi Trentini. Storia
a. 97
2018
n. 2
pp. ***-***
Recensioni
1317 – Eine Stadt und ihr Recht. Meran im Mittelalter. Bausteine zur
Stadtgeschichte / 1317 – Una città e il suo diritto: Merano nel medioevo. Materiali di storia di cittadina, hrsg. von Gustav Pfeifer, Bozen/Bolzano, Athesia-Tappeiner, 2018 (Veröffentlichungen des Südtiroler Landesarchivs /
Pubblicazioni dell'Archivio provinciale di Bolzano, 43), 528 pp.
Con celerità sono comparsi in volume, a cura di Gustav Pfeifer, gli atti
del convegno tenuto a Merano dal 22 al 25 febbraio 2017 in occasione del
settimo centenario del privilegio concesso l’11 giugno 1317 da Enrico di
Carinzia-Tirolo, che sanciva per iscritto un primo ordinamento civico.
L’ambizione dell’iniziativa appare maggiore rispetto alla trattazione di un
evento e di un ambito pur importanti, poiché già il titolo, dopo la data e il
riferimento al solo campo del diritto, prosegue con Merano nel medioevo e
soprattutto con un sottotitolo in cui Materiali di storia cittadina suona nel
sinonimo tedesco Bausteine zur Stadtgeschichte ancor più pregnante, considerata la situazione storiografica relativa alla città sul Passirio. Da un lato,
infatti, l’ultima storia di Merano (di Cölestin Stampfer) risale al 1889; dall’altro la storia regionale, e nello specifico quella urbana, del Tirolo ha conosciuto un notevole sviluppo, sia in studi puntuali, sia in trattazioni più
estese, quale la monografia di Christian Hagen sulle città della contea tirolese nel tardo medioevo dal punto di vista dell’interazione tra cittadini e
signori territoriali (2015), nata all’interno di un progetto dell’università di
Kiel sul tema Städtische Gemeinschaft und adlige Herrschaft nell’Europa
centrale. Una direzione metodologica, questa della vergleichende Stadtgeschichtsforschung, vivace in tutt’Europa e auspicata nelle Conclusioni dallo
storico viennese Ferdinand Opll: comparazione tra urbanesimo medievale
tirolese ed europeo, ma in primis tra esempi tirolesi e austriaci. Quell’ambizione più vasta pare confermata dallo stesso Opll, che evoca una presenza-
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assenza che aleggia implicitamente in vari contributi, ossia il traguardo di
una Storia di Merano. In effetti i risultati più avanzati del complesso di ricerche sopra richiamato, convergono, riguardo ai singoli ambiti della vicenda meranese, in questi Atti; essi appaiono il frutto di una generazione di
storici che si è avvalsa di un’invidiabile situazione archivistica (numerosi
relatori sono attivi in ambito archivistico o museale – la sede sono le “Pubblicazioni dell'Archivio provinciale di Bolzano”) e di sopravvivenze documentarie notevoli, se si pensa ai ben 73 registri di imbreviature di notai
meranesi dei secoli XIV-XV a partire dal 1328 (una data e una mole che,
ad esempio, lo storico di una metropoli come Milano invidia). La presenza
di una ventina di saggi non può certo evitare “accavallamenti tematici”, ma
in misura assai minore di quanto l’avvertimento introduttivo di Pfeifer faccia pensare, sicché, se non l’organicità, va rilevata la completezza.
Due saggi introduttivi inquadrano il tema del volume: Josef Riedmann
definisce il ruolo delle città tirolesi (nel senso delle sole sottoposte ai conti
del Tirolo) in rapporto agli interessi dei conti, alle loro funzioni economiche e, in misura minore, politiche ed ecclesiastiche, e alla loro dimensione
(Merano con circa 1500 abitanti nel Quattrocento non costituiva un’eccezione). Gian Maria Varanini offre invece una visione comparativa estesa
all’intero arco alpino, rilevando come la debolezza e il ritardo delle istituzioni cittadine si riflettano nella documentazione pubblica, sebbene a Merano (“capitale” della contea fino al 1420) la qualità e quantità della stessa
nel tardo medioevo sia notevole; in misura maggiore rispetto al versante
occidentale delle Alpi, l’alterità del sistema urbano tirolese a quello tedesco
meridionale e norditaliano si conferma non solo per gli aspetti demici, ma
anche in senso qualitativo, nella consapevolezza dei contemporanei, per
l’assenza di una sede vescovile.
La citata “completezza” del volume, in assenza di una monografia, è
evidente nei saggi di Günter Kaufmann e Giuseppe Albertoni: sebbene
l’arco cronologico previsto sia limitato ai secoli XIV-XV, il primo, in 80
dense pagine, traccia la storia di “Merano prima di Merano”, dall’antichità
al 1027, esaminando fonti archeologiche, documentarie e letterarie, che
mettono in luce la consistenza di Maia, oltre il Passirio, e la natura dell’area
quale zona di confine politico ed ecclesiastico (il saggio sulla toponomastica di Johannes Ortner vi contribuisce, determinando origine etnica e quindi datazione dei termini rilevati); Albertoni “riprende” dal IX al XIII secolo, illustrando gli interessi dei poteri regi ed ecclesiastici per l’area e la conseguente evoluzione delle forme di organizzazione politica, sino
all’emergere dell’egemonia dei conti di Gorizia-Tirolo nel Duecento, epoca
che coincide con il potenziamento, da parte comitale, del ruolo di Merano.
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Un quinto del volume copre così le origini della città (15 a.C. – 1300 ca.),
sicché è trattato l’intero medioevo (e oltre, anche verso il XVI secolo).
Il già citato Hagen, avvalendosi della categoria di interazione, esamina i
rapporti tra città e signori territoriali in merito al rilascio del privilegio del
1317 (di cui offre l’edizione critica), istituzionalizzazione di usi precedenti;
un’interazione discussa anche da Julia Hörmann-Thurn und Taxis a proposito del ruolo anomalo di Merano come città di residenza signorile (fino
al trasferimento a Innsbruck nel 1420). Anomalo sia perché la sede è Castel
Tirolo, sia per la presenza non costante dei conti, che tuttavia assicurano ai
cittadini possibilità di impiego e alla città la presenza di servizi (ad esempio
la zecca e un banco di prestito). Pure con un approccio di storia istituzionale (ma anche sociale) Gertraud Zeindl e Katia Occhi presentano il processo con cui, successivamente al 1317, Merano ottiene strutture di autogoverno: il consiglio dei cittadini (dal 1413 è citato il Rathaus, dal 1415 il
borgomastro e i 25 Bürger des Rats saranno dotati di privilegi fiscali), il diritto di presentazione del giudice nominato dal burgravio, un ordinamento
degli aspetti economici e fiscali, e soprattutto, dal XV secolo, una commissione fiscale (Steuerauschuss) di 12-15 cittadini (già membri del Rat), che di
fatto amministra la città in ogni aspetto (ben più che il Rat): un’élite composta di artigiani e notai, che in taluni casi sale al livello della nobiltà. Da
subito l’ordinamento istituzionale è accompagnato dal possesso di un sigillo, sia in forma “maggiore”, sia in una più piccola, studiato nella sua evoluzione da Gustav Pfeifer.
Una “sociologia” della popolazione meranese, che integra i precedenti
saggi, è offerta da Erika Kustatscher sulla base di uno spoglio sistematico
delle fonti (1300-1480), con statistiche e tabelle, e da Reiner Loose, che
offre una vivace presentazione su base topografica. Ciò è rilevante per una
città, “dominata” da artigiani e mercanti, con un ruolo prettamente economico: Rolf Kießling lo descrive a partire dalla collocazione strategica per
il commercio transalpino attraverso la Venosta e il passo di Resia, da un
lato verso Augusta e Coira, dall’altro verso Bolzano, Trento e l’Italia; essa
determina l’istituzione delle due fiere di Pentecoste e San Martino, che solo
tardivamente il miglioramento della via del Brennero e la concorrenza fieristica bolzanina porteranno alla marginalità, segnando il declino della rilevanza economica di Merano. Tuttavia ciò non è ancora avvertibile nel
Quattrocento: la consistenza dei commerci con l’Italia, in tale secolo, è documentata su fonti trentine e venete da Edoardo Demo. Il declino sarà sanzionato dalla perdita della zecca, che già con Mainardo II aveva assunto il
rilievo documentato da Helmut Rizzolli, autore dei due tomi della Münzgeschichte Tirols.
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Un altro elemento, già richiamato, che attesta la dinamicità della società
meranese è la produzione notarile; la qualità del notariato è varia, ma la
conservazione di una Ars notariatus compilata a partire dalla trattatistica
italiana testimonia una precoce (e breve) influenza da sud (David Fliri).
Meno rilevante – come mostra l’indagine di Emanuele Curzel – si presenta
la funzione ecclesiastica di Merano (dipendente dalla ricca pieve di Tirolo),
che vede però, con il concorso cittadino e signorile, l’edificazione della
chiesa gotica di San Nicolò, gestita da un amministratore laico (che ha trasmesso urbari e libri contabili), quella dell’ospedale dello Spirito Santo e la
committenza principesca del monastero delle clarisse nella Neustadt, destinato a nobildonne tirolesi. Gli aspetti artistici di tale committenza non sono meno importanti per una ricostruzione a tutto tondo di una piccola città: sono trattati da Leo Andergassen, il quale rileva ancora una volta
l’interazione tra cittadini e signore. Né lo sono altri elementi “materiali”,
quali il tema dei frequenti incendi e degli ordinamenti per evitarli (Eva Maria Baur) e la “riscoperta” della cinta muraria (altro elemento di consapevolezza “urbana”) e delle sue porte a opera di Martin Leimer, che si avvale,
oltre che di fonti iconografiche, dell’indagine archeologica delle cantine
meranesi da ambo i lati della Stadtgasse, disposta su una linea est-ovest, con
alle due estremità rispettivamente la piazza del mercato e l’area della parrocchiale: a mancare all’appello erano i due tratti di mura in direzione
nord-sud.
In conclusione, se presentare i punti d’arrivo della ricerca recente può
fornire i prolegomena per una Storia di Merano (ignoro se l’occasione del
centenario sia stata colta anche a tale fine), in realtà al termine della lettura
si ha l’impressione che l’articolazione e l’arco cronologico dilatato dei saggi
ne attenuino di molto la mancanza.
Alberto Cadili
Carteggi fra basso medioevo ed età moderna. Pratiche di redazione, trasmissione e conservazione, a cura di Andrea Giorgi, Katia Occhi, Bologna,
Il Mulino, 2018 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Fonti, 13),
500 pp.
La pubblicazione dei risultati delle ricerche presentate in occasione del
seminario “Quaero ex tuis litteris” (Trento, 13-14 novembre 2014) è parte
di una serie di progetti di ricerca intrapresi già a partire dal 2011
dall’Istituto Storico italo-germanico e dedicati alla ricostruzione della “fisionomia” dell’archivio del Principato vescovile di Trento fra il 1532 e il
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1803. Le pratiche di redazione, conservazione e trasmissione della documentazione diplomatica ed epistolare sono state al centro del convegno
che, riprendendo le parole dei curatori del volume, ha consentito l’avvio di
“una riflessione scientifica” sul tema attraverso “vari punti di osservazione
fra loro complementari” (p. 10). A un nucleo di saggi dedicati ai carteggi e,
più in generale, all’archivio del Principato, sono stati quindi affiancati studi
relativi ad analoghe situazioni negli Stati territoriali dell’Italia basso medievale e moderna e contributi su un paio di esempi ‘transalpini’.
Dando precedenza alle ricerche d’interesse trentino, poste in coda al volume, il saggio di Katia Occhi (pp. 351-405), non specificamente dedicato
al tema dei carteggi, presenta gli esiti dell’indagine, ormai pluriennale,
sull’archivio del Principato vescovile. Dopo una descrizione dell’attuale
struttura dell’archivio, frammentato in diverse sedi di conservazione, la
ricercatrice fa il punto sulla documentazione vescovile fra il XIII e l’inizio
del XVI secolo quando, con il vescovo Bernardo Cles (1514-1539), iniziò
l’opera di recupero del materiale che da oltre un secolo si trovava in diversi
archivi austriaci (1532). Ai primi decenni del Cinquecento risale inoltre la
redazione a Trento di un repertorio dell’archivio vescovile, probabilmente
sulla falsariga dei più noti repertori commissionati all’epoca dagli Asburgo
a Wilhelm Putsch, Georg Rösch e Jeronimus Jeremia. Il repertorio trentino
‘fotografò’ la situazione dell’archivio-thesaurus vescovile e continuò a essere utilizzato e aggiornato per due secoli. Soltanto alla metà del Settecento
l’archivio fu diviso in due sezioni (latina e tedesca), mentre vi erano confluiti già sul finire del Seicento “i materiali nel frattempo sedimentatisi
nell’archivio della cancelleria” (p. 384). All’indomani della secolarizzazione
del Principato, nel 1803, l’archivio vescovile fu ripetutamente disgregato e
depauperato; la documentazione confluita a Innsbruck fu riorganizzata da
Otto Stolz, portando alla nascita del fondo Trientner Archiv. Abteilung
Akten, oggi noto come Atti trentini (oggetto di un corposo studio pubblicato dalla stessa Katia Occhi e da Rossella Ioppi nel volume Per una storia
degli archivi di Trento, Bressanone e Innsbruck, 2015), il quale, insieme ai
cosiddetti Libri copiali II serie (Akten-Codizes) rappresenta l’esito scritto
della cancelleria in temporalibus del Principato. L’appendice al saggio di
Occhi è curata da Rossella Ioppi, la quale presenta una descrizione codicologica di un repertorio seicentesco del thesaurus dell’Archivio vescovile,
recentemente rinvenuto nell’archivio della famiglia Alberti-Poia. Tale
strumento inventariale va collocato nel tardo XVII secolo, quando fu riorganizzato l’archivio della cancelleria, e si configura come duplicazione del
più antico repertorio d’epoca clesiana. L’analisi testuale e codicologica ha
permesso di chiarire come, almeno fino agli interventi settecenteschi,
l’archivio vescovile mantenne inalterata la sua struttura in 74 capsae.
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Dedicato specificamente al tema dei carteggi è invece il contributo di
Massimo Scandola (pp. 407-441), che esamina il contesto relativo alla produzione delle fonti epistolari a partire dalla documentazione reperita nel
fondo Manoscritti della Biblioteca comunale di Trento, ove confluirono le
carte raccolte dall’erudito e collezionista trentino Antonio Mazzetti. Il corpus individuato e l’analisi delle sue caratteristiche estrinseche hanno consentito al ricercatore di formulare alcune ipotesi concernenti l’esistenza, in
epoca moderna, di una “segreteria di camera del principe”, ove si andò
sedimentando una buona parte del carteggio diplomatico, oltre alla già nota cancelleria del Principato (distinta in “segreteria latina e alemanna”) e
alla “cancelleria in spiritualibus”. Per quanto riguarda il contenuto, le lettere individuate da Scandola possono essere ricondotte in larga misura al
“carteggio interno”, inerente cioè alla gestione degli affari del Principato.
Vengono poi individuati un “carteggio di governo”, con il Consiglio aulico,
e un “carteggio prelatizio” relativo a questioni spirituali. In ultimo, sono
esaminate le “reti documentarie” fra i segretari e i funzionari del Principato
sotto i vescovi Cles e Madruzzo.
Collegata allo studio di Scandola è la biografia, ricostruita da Alessandro Paris, del funzionario vescovile Vigilio Vescovi, al servizio di Carlo
Emanuele Madruzzo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del XVII secolo
(pp. 443-457). Vescovi fu anzitutto amministratore della Mensa vescovile,
ma fra gli anni Cinquanta e Settanta del Seicento poté ricoprire in svariate
occasioni il ruolo di rappresentante vescovile alle diete tirolesi; questa funzione lo portò ad avere accesso all’archivio del Principato, grazie al quale
poté redigere un’opera storiografica dedicata al Madruzzo.
La sezione dei saggi dedicati all’analisi della documentazione negli Stati
italiani è aperta da Isabella Lazzarini (pp. 13-37), che prende in considerazione alcune signorie dell’Italia settentrionale fra la metà del Trecento e la
metà del Cinquecento: il Ducato di Milano, il marchesato di Mantova e le
città di Ferrara, Modena e Reggio. Lazzarini, muovendosi al contempo sul
piano diplomatistico e archivistico, individua tre nuclei di lettere: quelle fra
signori, quelle degli agenti diplomatici e quelle “inviate alle cancellerie da
individui diversi (...) non incaricati in quel momento di una specifica missione diplomatica” (p. 21). Il contributo di Armand Jamme, dedicato alle
‘lettere di governo’ nei domini sottoposti al potere temporale della Chiesa
nel XIII secolo (pp. 39-58), si focalizza prima di tutto sul tema dei libri iurium in alcune città dell’Italia centrale, quale esito di “selezione documentaria” atta a conservare e trasmettere gli iura e l’identità del comune, tralasciando invece “gli scritti dei superiori”, come pure gli atti pontifici, caratterizzati dalla “rapida obsolescenza e scomparsa”. Andrea Giorgi si dedica
al cospicuo “Carteggio del Concistoro” della Repubblica di Siena (pp. 59-
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161). L’autore prende anzitutto in considerazione la produzione documentaria nel XIII secolo, allorquando si verifica “un incremento dell’attività
scrittoria” con la “progressiva diffusione delle prime forme di registrazione
seriale” (p. 84); si passa poi ad analogo esame sulla documentazione
nell’età delle “signorie collegiali” (fine XIII-XIV secolo), per la quale si
riscontra, dalla metà degli anni Cinquanta del Trecento, l’inizio della registrazione delle lettere spedite su appositi registri e la plausibile “conservazione sistematica”, avvenuta a partire dallo stesso torno d’anni, delle lettere
ricevute; l’analisi diplomatistica fa emergere, inoltre, fra la fine del Duecento e la metà del Trecento, la maggiore “trasformazione dello strumento
epistolare” (p. 118). Impostata su un’analisi esclusivamente diplomatistica
è la ricerca di Giordano Brunettin sulle lettere dei patriarchi di Aquileia
nel tardo medioevo (pp. 163-213). Lo studioso presenta un repertorio di
tipologie documentarie in forma di littera – fra cui la lettera di grazia, la
lettera esecutoria o di mandato, il breve, il praeceptum, il procuratorium –
prodotte dalla “cancelleria” episcopale sulla falsariga di modelli papali.
Non manca poi la casistica, soltanto marginalmente toccata dallo studioso,
delle lettere prive “di carattere prescrittivo” ossia con “finalità informativa”, sovente utilizzate da personale dipendente dall’autorità patriarcale.
Nel saggio relativo alla documentazione epistolare del Regno di Napoli
(pp. 215-258), Francesco Senatore prende in considerazione una silloge di
documenti provenienti in larga misura dall’archivio della Sommaria
(l’organo di controllo finanziario del Regno), dovendo tuttavia fare i conti
con la perdita pressoché completa dei fondi archivistici più antichi
dell’Archivio di Stato di Napoli del 1943. Soltanto “con l’aiuto della diplomatica, osservando in particolare le note cancelleresche e quelle dei ‘razionali’”, egli tenta una ricostruzione delle modalità di produzione e conservazione della documentazione epistolare. Il caso fiorentino viene presentato da Giovanni Ciappelli (pp. 299-321) che prende a riferimento il
carteggio di Francesco di Marco Datini, noto per essere parte di uno degli
archivi di azienda medievale meglio conservati, e l’insieme della corrispondenza di Lorenzo il Magnifico, di cui rimangono circa 2.000 lettere. Il terzo
esempio su cui riflette Ciappelli è l’Archivio Mediceo del Principato, sul
quale è attualmente in corso il progetto denominato “Medici Archive Project”. Christina Antenhofer (pp. 259-298) presenta i risultati della ricerca
svolta su un piccolo corpus di 140 lettere disciolto nel fondo Sigmundiana
del Tiroler Landesarchiv di Innsbruck e provenienti in origine dall’antico
archivio dei conti di Gorizia: attraverso la comparazione col noto repertorio di inizio Cinquecento compilato da Wilhelm Putsch, ‘istantanea’
dell’archivio goriziano all’epoca della sua compilazione, Antenhofer affronta il tema della conservazione e della trasmissione del carteggio; lo studio fa
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emergere inoltre le reti di corrispondenti, i luoghi di provenienza e le tipologie di lettere. Olivier Poncet indaga le corrispondenze reali e governative
francesi nella prima età moderna (pp. 323-349). Dopo aver ricordato che in
Francia una conservazione più strutturata della documentazione archivistica si ha soltanto a partire dagli ultimi decenni del Seicento, allorquando si
iniziano a costituire i grandi depositi archivistici, Poncet sottolinea la mancanza d’interesse, in ambito francese, per lo studio della genesi dei fondi di
corrispondenza. A rendere difficoltose tali analisi, oltre alle dispersioni e
alle divisioni dei fondi, contribuì il ruolo del collezionismo privato che,
dalla metà del Seicento in avanti, pur talvolta contrastato dallo Stato, aveva
di fatto reso indisponibile una parte della documentazione medievale e
moderna.
Come sottolineato dalle parole conclusive di Gian Maria Varanini, un
approccio multidisciplinare – al contempo archivistico, diplomatistico e
storico – è messo in pratica in molti dei saggi raccolti, in modo particolare
nelle ricerche di Lazzarini, Giorgi e Jamme, mentre la prospettiva diplomatistica risulta predominante – anche in conseguenza delle fonti esaminate –
nei lavori di Brunettin e Senatore. A parte vanno considerati i contributi
dedicati in maniera specifica al Principato vescovile di Trento (Occhi,
Scandola e Paris); dei tre, il primo si pone, per il tema trattato, fuori dal
coro, essendo interamente dedicato alla descrizione degli “interventi” archivistici d’età moderna sull’archivio principesco-vescovile.
L’apparato iconografico, ricco e pertinente ai temi trattati, aiuta il lettore a individuare gli elementi – soprattutto di carattere diplomatistico – descritti nei testi.
Stefano Malfatti
Confraternite in Trentino e a Riva del Garda, a cura di Emanuele Curzel,
Marina Garbellotti, Maria Clara Rossi, Caselle di Sommacampagna, Cierre,
2017 (Biblioteca dei quaderni di storia religiosa, 9).
Le confraternite laicali sono state un fenomeno religioso importante
lungo tutto il secondo millennio della storia della Chiesa cattolica. Il volume che presentiamo riporta gli atti di un seminario di studi tenutosi per
iniziativa della Biblioteca e dell’Archivio storico di Riva del Garda presso
la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi di Trento che ha
avuto come oggetto il fenomeno confraternale in epoca medievale e moderna fino alla vigilia della rivoluzione francese. Possiamo con l’occasione
segnalare che le complesse vicende degli istituti confraternali (e ordini reli-
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giosi) nel periodo delle soppressioni da Giuseppe II fino alla costituzione
della nuova provincia del Tirolo (1780-1816) è stato studiato, poco tempo
dopo l’apparizione del presente volume, da Samuele Rampanelli e Jessica
Reich in un saggio che apparirà in un volume di prossima pubblicazione
dedicato alla costruzione della nuova provincia tirolese negli anni 18131816. In questo modo è stato completato un primo complessivo studio del
fenomeno confraternale trentino lungo l’epoca medievale e moderna fino
alle soglie della nuova e diversa fase di epoca contemporanea (secoli XIXXX), durante la quale, dopo la profonda crisi dell’epoca rivoluzionaria,
conobbe un nuovo sviluppo nella ripresa ecclesiale del secolo XIX e fino a
metà Novecento, per giungere poi nel contesto della nuova crisi di cristianità, perlomeno in diocesi di Trento, a una quasi totale estinzione.
Le confraternite sono state delle associazioni laicali – a più o meno rigida direzione e gestione clericale a seconda delle epoche – finalizzate alla
cura in forma associata della devozione e del culto a Dio, a Maria e ai santi,
come pure alla promozione di opere di misericordia e di carità a favore
degli iscritti, ed eventualmente degli esterni, facendo perno, in un numero
non trascurabile di casi, su una struttura materiale, un ospizio/ospedale di
accoglienza e di assistenza (più che di cura, perlomeno fino ad epoca settecentesca). Le confraternite sono state un fenomeno devozionale e caritativo, un importante fatto associativo ecclesiale di base, ma anche un altrettanto importante fenomeno sociale, talvolta relativo a un particolare gruppo o ceto sociale, talaltra a carattere molto più “interclassista”. Mediante le
confraternite, le varie articolazioni della società coltivavano la propria identità e i propri interessi, si presentavano sulla scena sociale e religiosa con le
proprie caratteristiche. Erano con tutto ciò anche un non trascurabile soggetto economico, titolare di beni mobili e immobili la cui rendita veniva
impegnata nella cura di manifestazioni religiose e in opere e strutture di
assistenza sociale a favore di target diversificati socialmente deboli (poveri
locali, forestieri, pellegrini, malati e anziani, orfani, defunti in ordine al
seppellimento e/o ai suffragi, ragazze prive di dote…) e a raggio variabile
(in maniera distinta per i propri iscritti e per i poveri esterni). Sono state
anche un significativo soggetto del mecenatismo devoto nelle chiese parrocchiali e curaziali o di proprietà. In questo modo innervavano variamente
la vita sociale e religiosa di una comunità, da quelle cittadine a quelle dei
borghi fino ai minuscoli villaggi.
Nella vita associativa e nell’articolazione organizzativa del sodalizio,
come pure nello svolgimento delle funzioni e nell’autopresentazione sulla
scena esterna, prevaleva l’elemento maschile; tuttavia non mancava quello
femminile, in rari casi perfino prevalente. Alla presenza delle donne nelle
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confraternite italiane tardomedievali è dedicato, nel volume, il saggio di
Anna Esposito.
I contributi che descrivono il fenomeno confraternale in diocesi di
Trento, rispettivamente in epoca medievale e moderna, sono quelli di
Emanuele Curzel e di Renato Giacomelli. Un focus particolare è portato da
Marina Garbellotti sulle confraternite ospedaliere trentine in età moderna
tra assistenza e modelli educativi. Due ulteriori saggi si concentrano
sull’ambiente rivano in epoca moderna, vale a dire quello di Enrico Barbieri sulle dinamiche economiche e aspetti contabili della confraternita della
Disciplina e relativo ospedale a Riva del Garda e quello di Sara
dell’Antonio sulla committenza artistica di questo sodalizio lungo i tre secoli dell’epoca moderna. Quali importanti contributi per un completamento del quadro confraternale e assistenziale trentino in epoca medievale e
moderna sono citati in maniera ricorrente nel volume gli studi di Serena
Luzzi e Marina Garbellotti apparsi in altre sedi. Un risultato complessivo
di questo volume e di altri lavori apparsi altrove è quello che, pure dentro i
limiti di una concezione e struttura fortemente dualistica della Chiesa in
epoca medievale e ancor più in epoca moderna (chierici/laici), non è mancata nella storia della Chiesa e della religiosità cattolica una importante
componente laicale, interessata a coltivare la propria devozione e al contempo propensa, pro anima e propter Deum, allo svolgimento di servizi caritativi.
Riguardo all’impegno e associazionismo religioso dei laici nel medioevo
in area trentina Emanuele Curzel individua come motivo di fondo quello
della ricerca della salvezza. Una ricerca della salvezza da parte del popolo
cristiano che aveva naturalmente bisogno della mediazione liturgica dei
sacerdoti, come dimostra l’ampio “dittico” di nomi di defunti contenuto
nel sacramentario di Udalrico II vergato intorno al 1040 per la cattedrale di
Trento. Altro fenomeno significativo del panorama e della storia trentina a
partire dal medioevo centrale e per i due secoli successivi è la presenza di
gruppi, di solito numericamente modesti, di laici, in parecchi casi uomini e
donne, che si associano per una vita di devozione e al contempo per un
servizio di assistenza a pro di viandanti e pellegrini nella forma della gestione di ospizi di strada in fondovalle o di passo. Con l’occhio alla città di
Trento vengono menzionate e descritte in più d’uno dei saggi del volume le
importanti confraternite caritative degli Zappatori alemanni presso San
Pietro, i Battuti italiani presso Santa Maria Maggiore e la confraternita della Misericordia pure nel territorio della pieve italiana cittadina. Riguardo
alla prima si riporta un risultato degli studi recenti secondo i quali non si
tratterebbe di una confraternita di mestiere (minatori delle miniere argentifere del circondario di Trento), ma molto più probabilmente una confra-
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ternita di fossori, aventi dunque funzione essenzialmente funeratizia, assistenziale in senso lato, e devota. Tutte tre queste confraternite sostentavano
e servivano anche un ospedale/ospizio per i poveri e ammalati (quello della
confraternita della Misericordia evoluto in prima epoca moderna a conservatorio femminile), mentre le rispettive direzioni rispecchiavano l’elite della porzione di riferimento di popolazione cittadina.
Ormai però il panorama confraternale andava arricchendosi sia per distribuzione sul territorio che per specializzazione delle rispettive devozioni
e funzioni – peraltro rifluendo in generale prevalentemente nell’alveo strettamente religioso e devozionale e limitando le residue funzioni caritative e
assistenziali ai poveri locali e a quelli devoti (compreso l’obbligo di previa
confessione dei peccati e comunione per essere accolti nell’ospizio confraternale).
Parallelamente a questi sodalizi devoti esistevano naturalmente i sodalizi
di mestiere, i quali pure hanno la loro dimensione religiosa e devota.
Per l’epoca moderna l’indagine è svolta da Renato Giacomelli, il quale
pure rileva la progressiva concentrazione dell’impegno confraternale alle
funzioni religiose e all’ambito locale. Dentro queste coordinate impressiona, tuttavia, lungo l’epoca moderna, la crescita numerica, che passa (sempre limitatamente ai confini dell’attuale diocesi di Trento) da circa una
quarantina all’epoca di Bernardo Cles (ma negli atti della sua visita ne sono
recensite non più di dieci), alle oltre settanta censite dai visitatori di Ludovico Madruzzo, alle centotrenta di fine secolo XVI, alle trecentosettanta di
un secolo dopo, fino alle seicento alla vigilia degli eventi rivoluzionari. Anche le tipologie e gli indirizzi di devozione si arricchivano: le più numerose
sono sempre quelle mariane, in particolare del Rosario, ma sono cresciute
fortemente quelle del Santissimo Sacramento o Corpus Domini, dei santi,
in particolare san Rocco e sant’Antonio abate, a seguire i sodalizi della
Dottrina cristiana, della Buona morte, della Trinità, del Nome di Gesù...
A partire dalla metà del secolo XVIII si cominciava a parlare apertamente di “regolata devozione” e della necessità di impostare la vita religiosa personale e associata su criteri di maggiore sobrietà, sostanza religiosa e
più rigoroso riferimento liturgico, comprimendo al contrario in vari modi
l’eccessiva esibizione di forme e manifestazioni esterne, per finire a mettere
progressivamente mano alle dotazioni materiali ed economiche. Alla prevalenza dei criteri devoti e caritativi, si sostituivano nell’opinione pubblica
borghese e negli indirizzi di governo criteri utilitaristici, economicistici e
pedagogici. Siamo ormai in epoca di illuminismo e riformismo ecclesiastico, prima teresiano e giuseppino nei territori di diretta sovranità tirolese e
asburgica, successivamente su tutto il territorio diocesano da parte dei governi austriaco, bavarese, italico-napoleonico e di nuovo austriaco, per sfo-
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ciare nell’epoca di Restaurazione. I vescovi dell’epoca cercarono di barcamenarsi tra riformismo e resistenza, tuttavia il censimento del 1815, alla
fine del ventennio rivoluzionario, segnalava ancora l’esistenza di quasi duecento sodalizi, per quanto ormai impoveriti dal punto di vista patrimoniale
ed economico, compressi nelle loro manifestazioni pubbliche e indeboliti
nella loro struttura istituzionale (così nel saggio di Rampanelli e Reich sopra citato).
Severino Vareschi
Carlantonio Pilati, Di una riforma d’Italia ossia dei mezzi di riformare i
più cattivi costumi, e le più perniciose leggi d’Italia, saggio introduttivo, edizione e commento a cura di Serena Luzzi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2018 (Biblioteca del XVIII secolo. 34. “Settecento italiano”. Serie
diretta da Giuseppe Nicoletti e Renato Pasta), CLXII+339 pp., ill.
La riscoperta in Trentino del Settecento e, in particolare, della sua seconda metà nell’ambito degli studi storici, grazie a nuove indagini documentarie e soprattutto in seguito all’affermarsi di nuove sensibilità e indirizzi concettuali (radicalmente differenti rispetto al trattamento che era
stato riservato al secolo riformista per antonomasia dalla storiografia risorgimentale e post-risorgimentale), si può far risalire all’ottimo e mai invecchiato libro di Claudio Donati Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763) (1975). Un’opera che in sede locale, a significare la rottura
con i criteri interpretativi precedenti, iniziò peraltro a essere conosciuta e
valorizzata qualche anno dopo la sua pubblicazione. Sperando nel dire
questo di non far torto all’autrice, per la quale le questioni di storia regionale assumevano probabilmente un significato secondario nel dare alle
stampe il volume qui recensito, riteniamo che anche quest’ultimo possa
essere ascritto, almeno in parte, a quella sorta di tradizione ormai consolidata iniziata in Trentino negli anni Settanta, benché, nel caso in questione,
la prospettiva locale si limiti per l’appunto all’indispensabile e, al contrario,
risaltino soprattutto gli scenari italiano ed europeo.
Una prospettiva che si accorda, d’altronde, con le vicende intellettuali e
le esperienze di vita del protagonista del lavoro, Carlantonio Pilati, che dalla patria tridentino-anauniense, luogo che egli situava con disdegno “in
culo al mondo” – nonostante precisamente la sua valle, e per giunta particolarmente nel Settecento, avesse dato i natali a personaggi di levatura certamente sovraregionale – andò in giro per l’Italia e l’Europa, non senza
avere accarezzato l’idea di partecipare addirittura a una spedizione in An-
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tartide. Un girovagare cui il nostro fu costretto negli anni dalla nota vicenda dei bandi emessi dal tribunale viennese e da quelli vescovili tridentino e
feltrino, nonché dagli Inquisitori di Stato della Serenissima, a causa della
condanna subita dalla Riforma d’Italia (qui riproposta corredata di apparato esplicativo e preceduta da un saggio introduttivo assai corposo, quasi un
volume parallelo), ma che era anche connaturato al temperamento di un
uomo mosso da curiosità intellettuale, insoddisfazione e anelito
all’autoaffermazione e al riscatto da una condizione che l’autrice nella postfazione definisce di “outsider” e che gli avrebbe probabilmente offerto nulla più di una carriera modesta e forse anche instabile, causa certe sue spigolosità caratteriali, negli apparati amministrativo-giudiziari del disprezzato
territorio di origine.
Prima di procedere con altre osservazioni forniamo innanzi tutto qualche dato più preciso riguardo alla strutturazione del volume. Non si tratta,
come si è già accennato, della mera riedizione di una fonte a stampa, ma di
ricostruire le vicende editoriali e analizzare i contenuti dell’opera più nota
di Pilati, quella che gli diede fama e ne segnò l’esistenza, la Riforma d’Italia
appunto. La lunga introduzione, significativamente intitolata Riformare
l’Italia. Biografia di un progetto di secolarizzazione, costituisce una precisa
scelta dell’autrice, che evidentemente riteneva meno produttivo dedicarsi,
come le era stato suggerito alcuni anni or sono – quando l’indagine era ai
suoi esordi – alla stesura di una nuova biografia del filosofo e giurista trentino, dopo quelle compilate da alcuni vecchi studiosi regionali (di gran
lunga la più importante fu quella di Maria Rigatti del 1923, per la quale
Serena Luzzi esprime apprezzamento pur essendo stata data alle stampe in
un contesto culturale e politico dove Pilati era considerato un antesignano
della lotta per l’unità d’Italia) e i brandelli di biografia pilatiana che si rinvengono nel secondo volume della nota opera Settecento riformatore di
Franco Venturi, edita nel 1976, dove alla Riforma d’Italia era riservato un
lungo capitolo. Al lavoro di Venturi, innovativo per gli anni in cui vide la
luce e arricchito da un notevole scavo documentario e archivistico, Luzzi si
è sentita evidentemente molto legata e nella propria introduzione vi dedica
uno spazio significativo, oltre a ritornarvi nelle battute finali della postfazione, una sorta di omaggio a chi in qualche modo le ha fatto da apripista,
un ruolo che Venturi ha rivestito in passato per molti studiosi italiani che si
sono dedicati a quel periodo.
Quanto alla biografia di Carlantonio Pilati, dalla quale l’autrice stessa
afferma che comunque non si poteva prescindere, sistemandone i vuoti e le
imprecisioni, nel volume si opta per una cronologia, fatta seguire al saggio
introduttivo. Dopo i dati biografici troviamo l’elenco delle opere di Pilati,
con le relative traduzioni e riedizioni, e successivamente, preceduto dai
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criteri di edizione, il testo della Riforma d’Italia nell’edizione del 1770 in
due tomi, ampliata e pubblicata anonima come il volume singolo del 1767
e come questo recante quale luogo di stampa l’evocativa località di Villafranca al posto di quella reale, Coira nei Grigioni. L’autrice motiva la scelta
di aver riproposto non la prima ma la seconda edizione, che era stata da
Pilati arricchita con alcuni nuovi capitoli rispetto a quella del 1767, con
l’intenzione di offrire ai lettori un panorama più completo del pensiero
dell’autore. Il volume qui recensito si chiude con il consueto apparato bibliografico e gli indici e, prima di questi, con la già accennata postfazione,
che è qualcosa di più di un sunto della assai densa introduzione, poiché qui
l’autrice con qualche rapida pennellata consente al lettore di cogliere senza
scendere nel dettaglio i punti nodali della tormentata vicenda della Riforma
d’Italia e del suo non troppo fortunato autore. Ad appena un trentennio
dalla morte, la sua tomba nel paese natale di Tassullo appariva in un deplorevole stato di abbandono a un sacerdote trentino professore a Salisburgo
che si trovò a visitarla: un evidente intento di damnatio memoriae da parte
della patria valligiana, come annota l’autrice. Ironia della sorte, scrivere la
prima e per nulla sfavorevole biografia di Pilati, che aveva speso la propria
vita predicando la soppressione dei conventi, spettò a un francescano riformato.
Il saggio di apertura, come si diceva, è di ampie dimensioni. Uno dei
compiti più difficili consisteva nel ricomporre il puzzle degli autori delle
citazioni, implicite e non, che affollano un libro di natura compilativa come
la Riforma, obiettivo conseguito brillantemente grazie a un paziente lavoro
di indagine archivistica e documentaria in generale. L’autrice inoltre non
manca di sondare ogni aspetto del pensiero di Carlantonio Pilati, così come
esso si ricava non solo dalla Riforma d’Italia ma anche da altre opere, edite
e inedite, del pensatore e giurista anauniense. Il lettore senza questa puntigliosa e dettagliata disamina, qualora decidesse di affidarsi direttamente e
unicamente alla fonte, rischierebbe quanto meno di comprenderla parzialmente.
Impossibile poi elencare tutte le riflessioni che scaturiscono da questa
introduzione, a meno di non trasformare una recensione in una nota discorsiva e in un’occasione di discussione. I temi affrontati sono molteplici e
non va dimenticato il fatto che alcuni di questi sono ancora di stringente
attualità: la tolleranza, il pluralismo confessionale, il dialogo con la cultura
protestante, il divorzio, i rapporti tra uomo e donna, la sessualità, lo stesso
tema delle riforme che, applicato alle odierne istituzioni repubblicane e
ormai perfettamente secolarizzate, è comunque ancora un tormentone tipicamente italiano. Proprio all’Età dei Lumi, alla quale Pilati (pur con accenti propri e sotto l’influsso di determinati autori piuttosto che altri: ad
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esempio, Montesquieu più che Rousseau e Voltaire) certamente appartenne, si può far risalire, infatti, parte dei valori e delle certezze del mondo
attuale. Pensando alle interminabili crisi da cui la contemporaneità è attraversata e alla dilatazione ormai incontenibile di alcune delle conquiste risalenti alla stagione settecentesca (tra cui le libertà individuali), non si dovrebbe forse perdere l’occasione per riflettere su quest’ultima in maniera
più critica, beninteso, senza ricadere in una rievocazione mitologica
dell’ancien régime. Degli eccessi e delle contraddizioni di molti pensatori
settecenteschi, d’altronde, erano consapevoli già alcuni contemporanei.
Come quello studioso elvetico menzionato da Serena Luzzi insieme con
altri recensori della Riforma d’Italia – opera della quale molti, pur condividendone le idee, avevano criticato lo stile troppo virulento – il quale nel
1767, nella sua corrispondenza privata con il redattore della rivista berlinese cui era destinata la propria recensione, affermava – in maniera forse riduttiva ma comunque efficace – che “il signor Pilati, peraltro uomo degno
di stima, è un altro di quelli che vogliono estirpare tutti i pregiudizi per
mettere sul trono i propri”.
Mauro Nequirito
Francesca Brunet. “Per atto di grazia”. Pena di morte e perdono sovrano
nel Regno lombardo-veneto (1816-1848), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, 352 pp.
Sarebbero sufficienti le righe di presentazione scritte da Brigitte Mazohl
per avere contezza delle coordinate di lettura di questo studio di Francesca
Brunet centrato sulla discussione attorno al “diritto di grazia del re o
dell’imperatore nei confronti dei delinquenti condannati a morte” nel
Lombardo-Veneto durante la Restaurazione, o meglio, secondo l’accezione
più nota in ambito austriaco, durante il Vormärz.
Non tragga in inganno l’arco cronologico del sottotitolo (1816-1848)
perché l’indagine, che mostra tutte le sfaccettature della complessità euristica fin dalle prime battute, sottende ed esplicita in più di un passaggio la
conoscenza di quel riformismo tardo settecentesco in ambito giuridico, che
solo all’indomani della conclusione dei conflitti austro-francesi trova un
concreto terreno di applicazione nel novero del sistema giudiziario del
Lombardo-Veneto. Se al centro dell’interesse sono poste la pena di morte e
il possibile “atto di grazia”, come dichiara il titolo del saggio, appare fin da
subito evidente che il filo rosso del discorso è retto dall’attenzione riposta
negli strumenti della comunicazione politica: nell’interazione comunicativa
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tra Vienna e il Senato lombardo-veneto di Verona, nella considerazione
dell’organizzazione giudiziaria a tre istanze (dal tribunale provinciale al
tribunale supremo), nella “composizione linguistica e territoriale dei tribunali” e, non ultima, nella disamina della procedura penale di tipo inquisitorio. È chiaro che l’interesse dell’autrice, come scrive lei stessa
nell’introduzione, è orientato a mettere in luce le “strategie di repressione,
punizione e clemenza” in una società dominata da una potenza straniera,
dove i conflitti di carattere politico andavano a sommarsi ai numerosi delitti comuni (omicidio, furto, rapina ecc.). Se l’indagine tende a soffermarsi
intorno al significato dei codici e delle procedure penali e alla considerazione degli scopi politici, sociali e giuridici che si celavano dietro la dialettica dei tribunali, trova a questo punto “centralità euristica” il rigoroso approccio con le fonti documentarie che l’autrice dimostra di dominare con
disinvoltura, nel rivolgersi ora al materiale documentario conservato
all’Haus-, Hof- und Staatsarchiv e all’Allgemeines Verwaltungsarchiv di
Vienna, ora al fondo del Senato lombardo-veneto dell’Archivio di Stato di
Milano (per citare i principali contesti di conservazione archivistica). Ma
l’autrice dimostra di conoscere e di non trascurare nemmeno quei fondi
documentari apparentemente minori (fondi dei tribunali di Vicenza, Verona e Rovigo e gli archivi di privati) conservati in istituzioni archivistiche
pubbliche, in biblioteche e musei.
È sul piano del metodo della ricerca, dunque, che si deve segnalare una
prima nota di interesse per questo contributo. I due temi centrali, la pena
di morte e la “sistemazione giuridica della grazia” sono così affrontati sulla
base di un’attenta riflessione sulle fonti, documentarie in primis, ma non
solo, ampiamente descritte nelle pagine introduttive, dove trova spazio
l’analisi attenta dei fondi archivistici consultati, il vaglio critico delle diverse fonti documentarie consultate, l’attenzione alle modalità di sedimentazione e di conservazione delle medesime nei contesti originari e, non ultimo, la loro contestualizzazione in relazione con l’attività svolta dai soggetti
produttori. Ne deriva l’adozione di un linguaggio tecnico, proprio di chi ha
dimestichezza con la disciplina archivistica, attento a porre in evidenza i
criteri originari di produzione della documentazione giudiziaria nel corso
degli iter procedimentali, con particolare insistenza sulle “intenzionali”
sedimentazioni documentarie in ben distinte serie archivistiche. Non è
questo sicuramente un dato scontato e va segnalato proprio in funzione del
conseguente esame delle fonti, che si caratterizza nel segno di una particolare attenzione al necessario rapporto tra documenti e fascicoli e agli iter
procedimentali che li hanno generati. Che si tratti di indagare gli “Atti del
Senato di Verona” (1815-1851), gli “Affari criminali” (1819-1851), gli “Affari politici” (1821-1851), i “Protocolli di Consiglio del Senato” (1815-
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1851), gli “Atti presidenziali (1817-1851), conservati nell’Archivio di Stato
di Milano, oppure la documentazione prodotta dai tribunali periferici o dai
più distanti uffici e dicasteri della capitale (conservata, quest’ultima, nelle
serie viennesi dei “Vertrauliche Akten”, dei “Kaiser Franz Akten”, e nei
fondi della “Staatskanzlei”, dell’“Oberste Justizielle” o dell’“Hofkanzlei”),
gli approcci euristici rimangono ben saldi a circoscrivere e a marcare gli
scopi della ricerca sinteticamente esplicitati dal titolo e sottotitolo del libro.
Considerazioni che si possono ben estendere anche all’ampio utilizzo che
l’autrice fa delle fonti documentarie conservate in archivi privati, in particolare quei carteggi ricchi di informazioni riservate, prodotti dai numerosi
personaggi che hanno popolato i tribunali del Lombardo-Veneto nella
prima metà del secolo XIX. È noto come queste fonti permettano di meglio contestualizzare, se non di sottoporre a severa critica, i contesti documentari ufficiali, talora più asettici e formali.
Ne consegue la coerente strutturazione del testo in quattro parti, nelle
quali vengono affrontati in ordinata sequenza argomentativa tre piani della
ricerca: in primo luogo i presupposti istituzionali, giuridici e normativi, con
particolare attenzione alle procedure marcatamente inquisitorie e gerarchiche dettate dalla legislazione, alle fasi procedimentali segnate dalla confessione, dalle prove e dalla sentenza, alla verticalità comunicativa tra le varie
istanze, retta dalle relazioni e correlazioni dei consiglieri, che regolamentava la dialettica procedimentale tesa all’identificazione del reato,
all’individuazione della pena per giungere al vaglio e discussione degli
eventuali motivi di grazia; in seconda battuta l’ampia discussione dedicata
al dibattito innescatosi nel Lombardo-Veneto sull’interpretazione delle
norme, che vide coinvolti giuristi e giudici in dialogo con i dicasteri viennesi, soprattutto in ottica di “comunicazione giuridica”, analisi che viene affrontata sulla base di una attenta lettura delle opere di carattere eminentemente pratico che accompagnarono l’interpretazione del codice penale,
soprattutto nei primi anni della sua applicazione, ma anche in considerazione del discreto numero di riviste giuridiche alla cui collaborazione furono chiamati numerosi giudici e le stesse autorità giudiziarie; infine la “prassi”, come indica il titolo della parte terza, dedicata alla concreta disamina
dei casi giudiziari sulla base della documentazione processuale dei tribunali, dove l’autrice insiste con particolare scrupolo sull’evidenza delle “logiche del perdono che orientavano le eventuali proposte di grazia” e sul ruolo esercitato dal Senato nella commutazione delle pene capitali, imprimendo di fatto una forzatura alle rigidità del codice penale.
Nella prima parte l’autrice dedica spazio non solo al contesto istitutivo e
organizzativo del tribunale veronese e al ruolo da esso esercitato
all’indomani della sua attivazione (agosto 1816), ma anche al profilo bio-
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grafico dei senatori. Francesca Brunet sottolinea l’importanza che si deve
riservare alla provenienza regionale e all’appartenenza territoriale dei giudici, premessa del resto necessaria a contestualizzare, nelle pagine successive, il ruolo da essi esercitato non solo nelle attività giudiziarie alle quali essi
erano chiamati a rispondere, ma anche nei confronti del dibattito
sull’interpretazione del codice penale che traspare dalla lettura delle relazioni e correlazioni prodotte in sede di giudizio o dalle informazioni veicolate dai periodici e dai testi giurisprudenziali ai quali i giudici parteciparono attivamente. Se nelle preture gli impiegati erano prevalentemente lombardi e veneti, nei tribunali provinciali, d’appello e del Senato di Verona la
presenza di personale proveniente dalle province ereditarie della Monarchia e del Tirolo italiano assumeva una dimensione ben maggiore, come del
resto hanno già anticipato in proposito le osservazioni di Marco Meriggi. E
qui entrano in gioco sicuramente i salari (ben più sostanziosi quelli percepiti nel Lombardo-Veneto rispetto a quelli dell’area tirolese), così come le
competenze linguistiche e di mestiere maturate presso le università di
Vienna e di Innsbruck. Ma ancor di più contava l’esistenza di una rete di
funzionari che ruotava attorno al consigliere aulico Antonio Mazzetti, un
trentino formatosi presso le università di Vienna e di Innsbruck, vero e
proprio regista nel tessere relazioni professionali e nello spendere parole in
favore dei conterranei da piazzare nei tribunali lombardo-veneti. La formazione di una “Lega dei tirolesi”, comprensibilmente odiata dai lombardi e
dai veneti, avrebbe esercitato nel tempo funzioni e ruoli marcatamente decisivi sia nel contesto dei procedimenti giudiziari, ma anche nel dibattito
giuridico e nelle meccaniche comunicative che ad esso si accompagnarono.
Personaggi come Antonio Salvotti, Giuseppe Benoni, Paride Zajotti, Francesco Degli Orefici, per citare i più noti, ritornano non a caso con insistenza nelle pagine del volume. E se il loro ruolo fu importante nel definire posizioni e valutazioni in merito alle discussioni che interessavano i delitti
comuni, tanto più lo fu in merito a quello relativo ai delitti politici. Basti
pensare a quello esercitato da Antonio Salvotti e da Paride Zajotti in occasione dei processi alla Carboneria e alla Federazione Italiana prima e alla
Giovine Italia poi, i cui esiti furono successivamente resi noti sulla stampa
milanese e veneziana proprio a cura degli stessi giudici inquirenti. L’autrice
rimarca il tema della comunicazione pubblica, ancor più significativa dal
punto di vista politico in procedimenti che prevedevano pene capitali ed
eventuali commutazioni nella grazia del sovrano. Ne è esempio l’attivismo
di Mazzetti, Salvotti e Zajotti nella divulgazione sulla stampa milanese degli
esiti dei processi contro Federico Confalonieri e Filippo Andryane. La redazione dell’articolo pubblicato nel 1824 sulla “Gazzetta di Milano” passò
attraverso un iter di revisioni e rifiniture che implicò la messa in atto di
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indagini e rapporti che coinvolsero autorità politiche, giudiziarie e di polizia del Lombardo-Veneto. Emerge qui con tutta chiarezza la posizione
ideologica dei loro autori e l’impatto che essa voleva avere nei confronti del
pubblico lombardo. Il tema della comunicazione politica è ripreso nelle
pagine seguenti, dedicate alla trattazione delle amnistie generali del 1835 e
del 1838, occasioni nella quali “l’immagine paterna del re clemente” e il
rapporto con i sudditi passò per un’ampia produzione di materiali celebrativi, cronache, memorie, poesie (vi partecipò anche il Mazzetti con la composizione di un carme) e di rappresentazioni iconografiche. Nella produzione degli articoli destinati al lettore lombardo si replica sostanzialmente
lo schema adottato nella pubblicità delle sentenze, con la partecipazione di
più soggetti (giudici e funzionari) alla redazione degli articoli destinati alla
stampa. È merito dunque dell’autrice l’aver posto l’accento sulla provenienza e formazione, scolastica, professionale e ideologica, di quella nutrita
schiera di funzionari trentini e tirolesi, presenti con la loro azione non solo
nelle aule dei tribunali, ma anche nel più ampio contesto della pubblicistica, tanto da caratterizzare un’epoca, quella del Vormärz in area lombardoveneta, che avrà negli anni del Risorgimento conseguenze profonde a più
livelli, istituzionale, sociale e giudiziario.
Sebbene la ricerca mostri ulteriori spunti di interesse che in questa occasione riesce impossibile porre in evidenza (tipologie e qualità dei delitti,
tipi e funzioni delle pene, contesti ambientali e sociali dei soggetti portati
in giudizio), vi sono almeno altri due aspetti sui quali orientare l’attenzione,
anche in prospettiva di successivi sviluppi della ricerca. Il primo, quello
ascrivibile alla storia della mentalità, che tocca le questioni relative ai criteri
di categorizzazione dei delitti, di individuazione delle pene e delle conseguenti sentenze, ivi compreso il dibattito sulla eventuale concessione della
grazia, intesa anche come eventuale correzione della norma in casi particolari (falsificazione delle carte di pubblico credito). Il secondo, sulla valenza
delle fonti giudiziarie come “campo di esplorazione per la storia sociale”,
che per dichiarazione della stessa autrice non ha costituito il focus centrale
della ricerca, ma che traspare ampiamente in molte delle pagine dedicate ai
delitti comuni e, su un piano diverso, anche in quelle che affrontano i delitti politici.
Franco Cagol
Gli antichisti italiani e la Grande Guerra, a cura di Elvira Migliario,
Leandro Polverini, Firenze, Le Monnier, 2017, 240 pp.
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Il volume raccoglie gli atti di un incontro di studio svoltosi a Trento nel
maggio 2015, in occasione del centenario dell’ingresso in guerra dell’Italia.
Il convegno fu organizzato dal Dipartimento di Lettere e filosofia
dell’Università nell’ambito di un progetto di ateneo dedicato al centenario
della Prima guerra mondiale.
Rispetto ai lavori svoltisi tre anni or sono, mancano all’appello un paio
di interventi dedicati a figure di rilievo come quella di Plinio Fraccaro (veneto di origine, a lungo docente a Pavia, esperto anche di geografia e topografia) e al linguista Giacomo Devoto; nonché un contributo sull’archeologia di guerra ad Aquileia. Di queste perdite non ha particolarmente sofferto, tuttavia, la struttura del volume, che ha anzi una sua simmetrica coerenza. Vi sono infatti due saggi di ampio respiro, uno iniziale e uno finale, che
fungono da inquadramento. Dopo l’Introduzione di Elvira Migliario, in
apertura Gustavo Corni scrive di Intellettuali e grande guerra. Uno sguardo
europeo (pp. 9-21) e chiude Paolo Pombeni con un saggio dal titolo Paralleli improbabili: i rinvii alla classicità per la creazione del consenso politico
agli scopi di guerra (pp. 221-232) e che è dedicato in buona sostanza all’“uso pubblico”, o per meglio dire all’abuso e alla strumentalizzazione,
della storia antica. Il corpo del volume è poi strutturato in due parti, anche
se non editorialmente distinte, ma poste in successione. I primi cinque contributi riguardano studiosi del massimo rilievo a livello nazionale, da Julius
Beloch, Ettore Pais, Gaetano De Sanctis (Leandro Polverini, La storia antica in Italia al tempo della Grande Guerra, pp. 23-34), a Ettore Ciccotti (Federico Santangelo, Ettore Ciccotti: l’interventismo di un “solitario”?, pp. 3556), Pietro Bonfante (Gianni Santucci, Pietro Bonfante e gli Stati Uniti
d’Europa all’alba dell’entrata in guerra, pp. 57-68), Giorgio Pasquali (Augusto Guida, Giorgio Pasquali. Un filologo classico fra Berlino e Roma, pp.
69-105), oltre all’archeologia come comparto disciplinare (Maurizio Harari, La Grande Guerra nella storiografia dell’archeologia italiana, pp. 107114); altri quattro invece sono dedicati al contesto regionale trentino e alle
regioni irredente in generale, con le loro specificità. Sui due versanti, quello nazionale e quello locale, prevale il taglio biografico e il riferimento ai
percorsi individuali: sia che si tratti dei grandi studiosi ora citati, sia che si
tratti degli antichisti trentini e giuliano-istriani (Alessandro Maranesi, Antichisti trentini, giuliani e istriani alla ricerca di un’idea di romanità, pp. 115143, cui si può accostare Cristina Bassi, L’archeologia come strumento di
conoscenza delle proprie origini: l’impegno degli archeologi nel contesto dell’irredentismo trentino, pp. 145-161) – del resto a loro volta figure tutt’altro
che irrilevanti anche sullo scenario nazionale, come è il caso di Paolo Orsi
(Vincenzo Calì, Paolo Orsi ed Ettore Tolomei di fronte alla guerra: visioni a
confronto, pp. 193-220) o dello stesso Giovanni Oberziner (Gino Bandelli,
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Giovanni Oberziner, storico trentino. Dalla rivendicazione dell’autonomia
amministrativa al raggiungimento dei “confini naturali”, pp. 163-192). C’è
dunque un saggio equilibrio nell’articolazione del progetto; il caso del
Trentino ha un suo ovvio rilievo per l’Italia intera, dato il rilievo simbolico
della città (più che del suo territorio) ma non viene isolato né avulso.
Prima di considerare alcune delle esperienze singole, è bene richiamare,
con Pombeni, alcuni elementi culturali di carattere generale che avevano
contrapposto già nel pieno Ottocento le diverse modalità di legittimazione
del potere politico, tra il modello greco-latino e il modello germanico, fra
l’organizzazione sociale su base giuridico-istituzionale e la cosiddetta o pretesa “libertà germanica”, se si vuole fra Gesellschaft e Gemeinschaft, con la
mitizzazione della libertà germanica contrapposta alla presunta cristallizzazione dello spazio pubblico realizzata nel mondo romano (Pombeni, Paralleli improbabili, pp. 223-224). L’autore prosegue fornendo alcune suggestioni sul cesarismo, e riflette anche su Guglielmo Ferrero, ma qui interessa
il fatto che egli parte da lontano, appunto dal pieno Ottocento. Più che
l’uso strumentale, metodologicamente scorretto e “improbabile” della storia antica, qui interessa il fatto che i potenti sistemi simbolici (la patria, il
suolo, il sacrificio) allora elaborati influenzano profondamente la costruzione identitaria nazionale, in Europa come in Italia. Dunque gli studiosi
nati attorno agli anni Quaranta o alla metà del secolo XIX, e attivi
nell’ultimo ventennio e poi ancora sino alla guerra mondiale hanno un comune retroterra, del quale la storia antica è pars magna.
Ma pur avendo un ruolo rilevante la storia antica non è sola, in questo
background. Sono importanti anche l’archeologia (si veda Marcello Barbanera, L’archeologia degli Italiani: storia, metodi e orientamenti
dell’archeologia classica in Italia, 1998) e la preistoria e la protostoria, il cui
grandissimo rilievo è stato sottolineato soprattutto da più recenti ricerche
(si veda in particolare Antonino De Francesco, The Antiquity of the Italian
Nation. The Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy 1796-1943,
2013). Non a caso nel volume di cui stiamo scrivendo si incontrano più
volte l’antropologo Giuseppe Sergi (ampiamente citato da Maurizio Harari
nelle sue sintetiche, ma molto chiare paginette sulla Grande Guerra nella
storiografia dell’archeologia italiana), così attento alla ‘stirpe mediterranea’
e alle origini mediterranee della civiltà europea, e il paletnologo Luigi Pigorini, fondatore della paletnologia italiana, che fu maestro di uno dei protagonisti di questo volume, Giovanni Oberziner. Non a caso la prima pubblicazione scientifica di quest’ultimo (I Reti in relazione con gli antichi abitatori d’Italia. Studi storici e archeologici, del 1882) è dedicata proprio alle
antichità preromane.
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In un certo senso, dunque, le scelte per lo più militanti, interventiste e
nazionaliste degli studiosi italiani di storia antica erano scritte nel loro
DNA. Non sorprende dunque che al momento dell’entrata in guerra
dell’Italia e durante il conflitto essi si siano trovati a proprio agio e abbiano
avuto contatti molto stretti i colleghi di altri campi della ricerca umanistico-letteraria e storica, assumendo non di rado iniziative importanti, da leaders dell’accademia umanistica italiana quali complessivamente erano. Così
per esempio, alla pubblicazione nel 1916 del fascicolo Per la coltura classica
e per l’Italia, nel quale Girolamo Vitelli col saggio Italiani e tedeschi ribadiva i debiti della cultura italiana nei confronti della scienza filologica tedesca, fece seguito in varie sedi editoriali la reazione di un composito schieramento, nel quale storici moderni, storici antichi, filologi e letterati si trovarono fianco a fianco. In questo schieramento ebbe un ruolo preminente
Corrado Barbagallo, che da tempo partendo dalle posizioni del materialismo storico aveva maturato un approccio assai critico nei confronti del filologismo dominante; egli percepiva il marxismo come strumento per ridare
fiato a una “problematica storica depressa dall’erudizione”. Fu con questo
programma che Barbagallo promosse nel 1917 la “Nuova rivista storica”, il
cui programma era espressamente quello (cito) di una “nazionalizzazione
della cultura storica”. Nella stessa linea si colloca pochi mesi dopo la raccolta di saggi Per l’italianità della coltura nostra. Discussioni e battaglie, edita nel 1918 dalla editrice Dante Alighieri, la stessa della “Nuova rivista storica”, nella quale si leggono contributi oltre che di Barbagallo, di Mondolfo, di Bignone, di Fraccaroli, e di Ciccotti, uno dei protagonisti di questo
volume.
Rispetto a queste pur decise posizioni, non mancarono asprezze ancora
maggiori, talvolta al limite dell’insulto. Un Ettore Romagnoli, per esempio,
da tempo scriveva della necessità di “affilare le armi”, di “picchiar sodo
contro i ciuchi d’Allemagna”, prendendo di mira in particolare Festa e Pasquali, e si proponeva di sparare “a palle incatenate contro il Wilamowitz”
(l’importante filologo che, come ricorda anche Gustavo Corni nel suo saggio a p. 13, lanciò nell’ottobre 1914 l’appello, poi sottoscritto da oltre
4.000 professori ordinari, a sostegno del militarismo tedesco, considerato
“una benedizione per l’intera cultura europea”). Ed è significativo, allargando lo sguardo fuori dall’antichistica, che persino un personaggio mite
ed equilibrato, alieno anche semplicemente da eccessi verbali, come lo storico dell’arte Pietro Toesca, sia arrivato nel 1917 a teorizzare la non citabilità di opere scientifiche scritte da tedeschi. Egli scrive infatti del “gravissimo compito che abbiamo nella scuola di liberare le menti da quella pusillanime soggezione [alla cultura tedesca] che per tanto tempo le ha avvilite”;
del dovere di “fare qualcosa nel nostro ambito [cioè lo studio e
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l’insegnamento] che non sia indegno di quello che i nostri mirabili giovani
fanno sulle frontiere”; che occorre “che cresca ancora in noi la coscienza di
dover ora annientare per sempre il nostro barbaro nemico. E pensare che
tanti di noi – chi è senza colpa in questo? – erano sotto il torpore della cultura filologica tedesca, e non vedevano più in là”. Anche Giuseppe Rensi, il
noto filosofo di orientamento scettico e di estrazione socialista, interventista democratico, scrisse sulla “Nuova Rivista Storica” un intervento contro
la concezione tedesca a proposito di storiografia filosofica.
Altre posizioni sono invece più equilibrate. L’archeologo Giulio Emanuele Rizzo, che pure non era stato e non era tenero coi “tedeschi d’Italia”,
nel 1917 esprime ripugnanza per (cito) la “crociata bandita da alcuni nostri
colleghi, ‘non citate più libri tedeschi’”; “come si fa a negare ciò che hanno
fatto i Teutoni per i nostri studi”, e prosegue con assennate considerazioni
sulla scarsa attitudine degli italiani “all’umile lavoro impersonale e collettivo” e “l’organizzazione e concordia di intenti”, mentre “edizioni di testi e
monumenti, manuali scientifici e trattati, repertori, lessici, cataloghi di musei... tutta roba made in Germany. Non credo che vedremo la nostra rigenerazione scientifica. Poveri eravamo, più poveri siamo, poverissimi resteremo dopo la guerra. Alle nostre scuole universitarie si nega il necessario...
Con quali mezzi provvederemo a formare lei giovani una nuova coscienza?”.
Rispetto a questo scenario, le esperienze proposte nei contributi che costituiscono la prima parte del volume costituiscono altre tessere di un mosaico estremamente vario, fatto di traiettorie personali molto diverse tutte
accomunate dal denominatore comune del patriottismo. Su questa base, le
condizioni esistenziali dei singoli – l’educazione, il luogo di formazione, la
tappa raggiunta nella carriera – influiscono evidentemente sulle posizioni,
sulle convinzioni, sulle argomentazioni espresse nei mesi drammatici
dell’inizio della guerra, sino al maggio radioso.
Va sottolineato ancora che c’è una componente in senso stretto disciplinare, perché come ricorda (p. 23) Leandro Polverini in apertura del veloce
saggio dedicato al trittico dei massimi storici dell’antichità attivi in Italia tra
i due secoli – Julius Beloch, Ettore Pais, Gaetano De Sanctis – rispetto ad
altri specialisti del mondo antico gli studiosi delle fonti scritte (anche se
Pais, in particolare, non è solo questo) sono coinvolti certamente in modo
più diretto. È un trittico ‘paradigmatico’, come giustamente scrive l’autore:
un tedesco che non rinnega la patria, un italiano che rinnega la sua formazione tedesca, anche se nei fatti resta fedele a un metodo di lavoro e di ricerca che lo aveva indelebilmente segnato; e infine De Sanctis, un sostenitore della neutralità, a sostanziare la quale concorre sicuramente e forte-
23
mente anche la sua riflessione religiosa, da cattolico liberale, ma che si
astiene, patriotticamente, dal manifestare e dal propagandare tale posizione.
Ai tre menzionati si aggiunge, su posizioni diversamente interventistiche
e con una storia personale e culturale a sua volta peculiare, Ettore Ciccotti,
socialista e meridionalista, storico molto aperto e sensibile alle sollecitazioni della scienza economica e della sociologia; un Ciccotti che incarna ormai
la sfilacciatura della valenza cosmopolita propria delle correnti socialiste,
mentre la nazione tendeva a identificarsi con lo Stato, secondo le consolidate dottrine dei giuspubblicisti, che però non rimasero confinate nel dibattito specialistico.
La rassegna delle figure alle quali è dedicata, nel volume, una specifica
attenzione si chiude col giurista romanista Pietro Bonfante, del quale
Gianni Santucci valorizza la solida formazione positivistica che nella fase
più drammatica della guerra (1917) lo mette in rotta di collisione con Croce. Il filosofo era desideroso di sconfiggere “l’autorappresentazione del
diritto romano come ‘scienza’” e più in generale la pretesa, da parte dei
giuristi, di candidarsi a diventare protagonisti nella comunità intellettuale;
ma Santucci ricorda anche il respiro largo delle riflessioni di Bonfante, attento come nessun altro dei personaggi analizzati nel volume al contesto
extraeuropeo e mondiale, anche sotto il profilo demografico ed economico.
Infine, un ampio saggio è dedicato all’eterodosso bastian contrario
Giorgio Pasquali, con la sua difesa a spada tratta della Kultur e della “civile
elevatezza della nazione tedesca”, come recitava la lettera di solidarietà da
lui proposta nell’ottobre 1914 e sottoscritta anche da Croce, Cardinali, Salvatorelli e altri. Di Pasquali, Guida ripubblica tra l’altro alcuni interventi
giornalistici poco noti.
Come si è già accennato, non è difficile riscontrare tra questi studiosi e
altri, che altrettanto degnamente avrebbero potuto essere menzionati in
questa sede, varie linee di convergenza e di divergenza: il mosaico è molto
complesso e per certi versi è arbitrario e fuorviante lo stesso criterio disciplinare ‘antichistico’, che in qualche misura proietta sul primo Novecento
la nostra percezione delle specializzazioni scientifiche. Indico a mo’ di
esempio alcune di questi ulteriori possibili accostamenti delle tessere del
mosaico. Occupandosi di Bonfante, per esempio, Santucci ricorda quanto
sia importante la contiguità fra i vari storici del diritto, romanisti e medievisti (che tutti quanti, pochi anni dopo, avrebbero sentito “il fascino del
regime”, come recita il titolo di un importante volume che approfondisce
le scelte di questa importante categoria di intellettuali fra il 1918 e il 1925
(disponibile on-line: I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di
Italo Birocchi, Luca Loschiavo, http://romatrepress.uniroma3.it/ojs/index.
24
php/giuristi). Bonfante e il suo collega pavese Arrigo Solmi agiscono di
pari passo, esprimendo un comune sentimento di solidarietà verso i combattenti. C’è poi la sensibilità religiosa e cattolico-liberale, che è
dell’antichista De Sanctis ma anche del giurista Arturo Carlo Jemolo, fermamente neutralista eppure pervicace nel reclamare per se stesso, in quanto italiano e patriota, la chiamata sul teatro di guerra. Jemolo è una rara
avis in una corporazione accademica quasi esclusivamente interventista,
che fu non a caso la spina dorsale dei governi di guerra (Orlando, Scialoja,
Ruffini, lo stesso Nitti) ma nella quale sono numerosi persino i volontari di
età matura come Bensa, Venezian, Fabio Luzzatto, Ugo Conti.
Un tratto comune, che onora molti degli studiosi biografati in questo
volume, mi sembra poi l’impegno civile, la scelta di ragionare pubblicamente, di educare, di manifestare il proprio pensiero, con articoli giornalistici e conferenze pubbliche, e con discussioni alla luce del sole. Vediamo
così Beloch contro Labriola sul “Giornale d’Italia” nel 1914, De Sanctis sul
“Marzocco” in difesa di Beloch nella primavera del 1918, Ciccotti in tutta
la sua attività parlamentare, Pasquali in posizione neutralistica e poi a difesa della legittimità della posizione tedesca sul “Giornale d’Italia” e poi sul
“Corriere d’Italia”. Sorprendentemente la guerra, così inumana e però piena di umanità, suscitò bisogni, e fornì da questo punto di vista occasioni di
‘crescita’.
L’altra gamba sulla quale si regge il volume, l’antichistica del Trentino e
delle terre irredente, è costituita come si accennava sia da quadri d’insieme
di carattere disciplinare o tematico (Maranesi, Bassi) sia da medaglioni
biografici, come quello di Giovanni Oberziner (scritto, come si è visto, da
Gino Bandelli) o anche dittici, come nel caso della corrispondenza OrsiTolomei (proposta o riproposta da Vincenzo Calì).
Allo scoppio della guerra la situazione nella quale gli studiosi locali si
trovano è molto diversa rispetto a quella che si riscontra nel Regno. Se in
Italia tra il 1914 e il 1915, ma poi ancora nel 1917 e 1918, ci si divise e si
discusse in modo lacerante, per quello che riguarda il territorio trentinotirolese e l’area alto-adriatica gli eventi degli anni di guerra sono tutto
sommato poco incisivi, anche se le ricerche presentate nel volume ci ricordano certo l’inasprimento della propaganda negli anni immediatamente
precedenti alla guerra, il confino e l’esilio per un vecchio studioso come
Luigi de Campi (Maranesi, Antichisti trentini, giuliani e istriani, pp. 131132; Bassi, L’archeologia come strumento, pp. 152-154), oppure durante la
guerra i salutari e profetici dubbi di Paolo Orsi, che scrivendo a Ettore Tolomei fra una considerazione e l’altra di geografia e di tattica militare prospetta all’interlocutore il fatto che il confine al Brennero e l’inglobamento
25
del Sudtirolo avrebbero procurato all’Italia non pochi guai sul lungo periodo.
Ma per l’insieme dell’antichistica trentina e alto-adriatica le posizioni si
erano cristallizzate molto tempo prima, e di questo la maggior parte dei
contributi del volume si occupa. Non diversamente da quanto si è visto per
il regno d’Italia, anche in questo caso infatti le ricerche accolte nel volume
assumono come punto di partenza le radici ottocentesche della coscienza
scientifica e documentata della romanità e della italianità. In generale non
va dimenticato che non si trattava di un’antichistica accademica, ma di
un’organizzazione informale a cerchi concentrici costituita da dilettanti
delle valli che spesso facevano ritrovamenti di rilievo; da funzionari e studiosi attivi a Trento come de Campi (che è anche rappresentante presso la
dieta del Tirolo e sostenitore ad esempio dell’Università italiana a Trieste);
e infine da una cerchia esterna o cassa di risonanza fatta dalle riviste irredentistiche e dagli emigrati che occupavano posizioni importanti nelle istituzioni culturali del regno, e che erano attenti alle tematiche archeologiche
e antichistiche come Malfatti a Firenze, Orsi in Calabria e Sicilia e in altri
settori disciplinari un Chilovi o un Papaleoni. Per il Trentino non sorprende che l’anno 1869 costituisca una svolta dal punto di vista della storia degli studi e delle ripercussioni sulla vita culturale. E ciò non solo perché in
quell’anno viene scoperta la Tabula Clesiana, ma anche perché nello stesso
anno Francesco Rauzi pubblica il volumetto Pianta antica della città di
Trento. Osservazioni e memorie, dando sistematicità e visione d’insieme alle
origini romane della città e del distretto. Oltre che dal punto di vista obiettivo, anche sul piano della gestione mediatica e propagandistica la Tabula
Clesiana – naturalmente proposta nel senso della romanizzazione piuttosto
che di quello del riconoscimento della specificità culturale degli Anauni,
Sinduni e Tulliassi – ha come sappiamo una grande importanza. Nel 1903,
commemorando il mostro sacro Mommsen, uno stizzito Oberziner arrivava
a scindere nel grande epigrafista lo scienziato, che aveva bensì riconosciuto
l’importanza del celebre documento, e il cocciuto politico che “era ancor
sempre e in tutto il pangermanista dei suoi giovani anni” (Bandelli, Giovanni Oberziner storico trentino, p. 168). Del resto, come ci spiega Gino
Bandelli, la parabola scientifica e intellettuale di questo studioso, che è anche lui un emigrato nel regno, è molto lineare. Sulla base di partenza dei
suoi studi di antichità pre-romane, Oberziner sviluppa presto una forte
sensibilità irredentistica e dopo il volume del 1900 sulle guerre alpine di
Augusto la sua produzione è in modo crescente, come dimostra la bibliografia, una produzione polemistica e di battaglia giornalistica filonazionale.
Nell’economia del volume è particolarmente utile il confronto che ha
operato Alessandro Maranesi nel suo saggio comparativo sulla ricerca di
26
un’idea di romanità fra le due province irredente. La sedimentazione di
una visuale nazionale nell’area trentina e nell’area alto-adriatica segue infatti tempistiche diverse, ed è influenzata da diverse dinamiche culturali. Da
subito la situazione trentina è più caratterizzata dal punto di vista della
“determinazione etnico-culturale”, “espressione politica, etnica e intellettuale da cui sarebbe discesa direttamente quella di italianità” (Antichisti
trentini, giuliani e istriani, p. 118). Invece a Trieste e in Istria non si evidenzia questa dimensione in certo modo antagonistica, conflittuale. Nella
prima metà dell’Ottocento attraverso le ricerche di Kandler, di Gregorutti,
soprattutto di Tomaso Luciani e di Pervanoglu la dimensione municipale si
rafforza, e non si trasforma subito in patriottismo nazionale, italiano. La
romanità è invece un “elemento in grado di legittimare storicamente
l’autonomia dell’organizzazione municipale all’interno dell’impero”. L’uso
dello stesso appellativo “nazionale” si viene diffondendo solo lentamente, e
non prima degli anni Ottanta si colloca la prospettiva anti-slava nella quale
ad esempio Bernardo Benussi radicalizza le sue affermazioni. Dagli sparsi
accenni alla Dalmazia e all’Istria che si trovano nel volume, verrebbe da
dire che in linea di massima la ricezione in Italia della peculiarità della romanizzazione di quell’area è inadeguata, e che se ne percepisce forse prevalentemente la versione radicalizzata, senza troppi distinguo.
Gian Maria Varanini
Francesco Altamura, Dalle Dolomiti alle Murge. Profughi trentini della
Grande Guerra. Storie e memorie delle popolazioni di Primiero e Vanoi sfollate in Puglia nel 1916, Nardò (Le), BESA, 2017, 147 pp.
Il volume di Francesco Altamura descrive la vicenda di 1.643 profughi
di Primiero e Vanoi che vennero sfollati tra il maggio e il giugno del 1916
dalle autorità militari italiane e inviati temporaneamente in Puglia, come
destinazione di prima accoglienza. Il testo analizza nel primo capitolo le
disposizioni di evacuazione e il viaggio verso il Meridione. Si concentra poi
nella sezione centrale, più corposa, sui meccanismi di accoglienza sviluppati dalle autorità locali e dalla carità pubblica pugliese durante la breve
permanenza di primierotti e canalini nelle provincie di Capitanata, Terra
d’Otranto e Terra di Bari. Il libro si conclude poi con una valutazione sul
rimpatrio – avvenuto già nell’estate dello stesso anno – e una riflessione
sulla conservazione della memoria dell’evento e sullo stato delle fonti disponibili. Il testo è arricchito da una puntuale prefazione di Paolo Malni,
che inquadra la vicenda all’interno di un contesto storiografico e fattuale
27
più ampio. Segue poi una postfazione di Gianfranco Bettega, finalizzata a
contestualizzare l’evento nell’ambito dello sviluppo socio-economico del
Primiero dal 1866 a oggi.
Gli aspetti di interesse del volume sono già stati còlti da Malni nella prefazione allo stesso. Infatti, mentre sono oramai numerose le testimonianze e
gli studi che ricostruiscono le vicende dei profughi trentini durante la
Grande guerra in Austria-Ungheria, continuano a rimanere in secondo
piano le ricerche relative al profugato trentino in Italia. Il panorama storiografico è mutato negli ultimi anni, per merito soprattutto dei lavori di Manuela Broz, Luciana Palla e di Malni stesso. Tuttavia, come rileva giustamente lo storico goriziano, questi studi condividono la stessa prospettiva:
analizzano infatti la vicenda dal punto di vista focale dei trentini, “vuoi
perché gli autori provengono da quelle realtà, vuoi perché le fonti su cui
hanno lavorato restituiscono prevalentemente la memoria del profughi, le
direttive dell’autorità centrale o l’attività dei comitati” (p. 15).
Il panorama storiografico esistente, quindi, lascia in ombra la prospettiva di chi accoglie e solo in rarissimi casi ha indagato i fondi archivistici
prodotti nelle località di accoglienza. In questo si situa l’elemento di interesse del volume in oggetto, dato che si propone di analizzare la vicenda
facendo uso coscienzioso anche delle fonti delle aree di ricezione e, in particolare, di fonti a stampa locali e degli archivi di prefettura (fatto salvo
quello di Foggia, per problemi di conservazione). Da questo punto di vista,
il testo di Altamura si propone di colmare un vuoto storiografico. Le iniziative analoghe sono infatti rarissime: impulsi simili – ma molto meno accurati per qualità della ricerca e ampiezza spaziale – si contano solo per Carpineto Romano (dove vennero ospitati 80 profughi di Castelnuovo Valsugana)1 e per alcuni vaghi cenni relativi all’area emiliana2. Il volume recensito
spicca rispetto a questi tentativi per ampiezza d’analisi e capacità di vagliare fonti istituzionali, letteratura trentina, pubblicistica locale e, non da ultimo, un interessante corpus di audio-interviste, collazionando in tal modo
le informazioni necessarie a ricostruire la vicenda.
Ne scaturisce un volume che, nonostante sia conciso (non da ultimo per
la brevità stessa dell’esperienza di profugato, che quindi ha lasciato scarne
tracce documentarie nei luoghi di stanziamento), è solido nella prospettiva
e ricostruisce nel dettaglio la vicenda. L’analisi dell’organizzazione
1
“Cetto, chisti so comme nnu!” 1916-1919. I profughi di Castelnuovo Valsugana a Carpineto
Romano, a cura di Ornella Stenico, Nicoletta Macali, Stefano Gelsomini, Colleferro (Rm),
Comune di Carpineto Romano, 2016.
2
Carla Antonini, Appunti per una storia di Piacenza nella Grande Guerra, in “Studi piacentini”, 41 (2011), pp. 203-215; Alberto Molinari, Dopo Caporetto: i profughi a Modena, “EReview”, 2 (2014), https://e-review.it/molinari_dopo_caporetto_profughi_a_modena
28
dell’assistenza evidenzia inoltre, da una prospettiva locale, molti dei limiti
dell’assistenza statale italiana già evidenziati da Malni, Palla e Broz tramite
l’analisi di fonti provenienti dagli archivi centrali o da patronati. Nella sostanza, si tratta di un’iniziativa editoriale che, assieme al testo di Luciana
Palla su Trentino orientale e Grande guerra (1994), ricostruisce nel dettaglio la sorte delle genti di Primiero sfollate durante il conflitto e che supporta molte delle tesi generali espresse da Malni nel secondo tomo del volume Gli spostati (2015).
Questi, dunque, i meriti del libro. La lettura attenta del testo porta tuttavia alla luce anche alcuni elementi di riflessione, che lasciano aperte questioni che meritano di essere trattate. La prima problematica riguarda una
nota di metodo. Data la breve permanenza dei profughi canalini e primierotti in Puglia, la documentazione archivistica istituzionale che supera
temporalmente il momento della prima emergenza è scarna. Per questo
motivo, l’autore fa frequente ricorso ai contenuti di una ventina di audiointerviste, registrate in un recente soggiorno in Primiero. Manca tuttavia
un’introduzione metodologica riguardante l’utilizzo di questa fonte, di per
sé problematica. Anche la bibliografia di riferimento riguardante i limiti di
utilizzo della storia orale è incredibilmente asciutta, se relazionata allo spazio che queste fonti hanno nell’impianto narrativo del libro. Di questi limiti, tuttavia, l’autore dovrebbe essere conscio, dato che gli intervistati raccontano gli eventi per interposta persona (i protagonisti delle vicende sono
infatti madri, padri o nonni, oramai non più in vita) e che, almeno in un
caso, l’autore cita l’episodio di un’intervistata (p. 118, n. 66) che era depositaria di una memoria distorta dell’evento. Date le potenzialità selettive
della memoria, ciò pone sul piatto alcuni importanti problemi di utilizzabilità di queste fonti.
Il volume si presta a una seconda valutazione, che non riguarda questioni di metodo, ma che incide sulla completezza potenziale della narrazione della vicenda. L’autore, che pure oltre ai fondi pugliesi ha visionato
gli archivi reperibili a Trento che avrebbero potuto contenere informazioni
sulla vicenda (Archivio di Stato e Fondazione Museo Storico del Trentino),
non ha fatto uso delle dettagliate informazioni che Luciana Palla ha raccolto sullo stesso argomento negli archivi parrocchiali e comunali di Mezzano,
Canal San Bovo e Fiera3, che avrebbero arricchito il testo. Allo stesso modo, ha dedicato parte del suo soggiorno di ricerca alla visione dei fondi
dell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, concentrando la sua attenzione
3
Luciana Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra. Combattenti, internati, profughi di
Valsugana, Primiero e Tesino (1914-1920), Trento, Museo del Risorgimento e della lotta
per la libertà, 1994, pp. 207-216.
29
sui fondi del Ministero dell’Interno - Divisione Generale Pubblica Sicurezza (Divisione polizia, profughi e internati di guerra, di cui cita 3 buste consultate). In realtà i materiali presenti nel medesimo archivio avrebbero
permesso un’analisi ancora più dettagliata, permettendo di limitare il ricorso all’uso massiccio delle audio-interviste. A titolo d’esempio, presso
l’Archivio Centrale dello Stato - Ministero della Guerra - Comando Supremo - Segretariato Generale per gli Affari Civili, sono conservate almeno
due buste corpose contenente informazioni dettagliate sull’evacuazione (b.
218) e sul rimpatrio (b. 224) dei profughi primierotti, i cui contenuti
avrebbero potuto far da solido puntello all’argomentazione.
Infine, sarebbe stato interessante – almeno dalla prospettiva del lettore
trentino – sapere se la memoria dell’evento si fosse conservata a livello orale o familiare anche nei luoghi di stanziamento, oltre che nei discendenti
delle famiglie sfollate, per riempire di contenuti ulteriori l’analisi del sistema dell’accoglienza organizzato in Puglia durante il conflitto.
Francesco Frizzera
La scuola trentina tra guerra e dopoguerra (1914-1924), a cura di Paolo
Marangon, Trento, Università degli Studi; Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2017, 136 pp.
Nella sua introduzione, il curatore Paolo Marangon sottolinea come a
lungo nella storiografia italiana lo studio delle vicende scolastiche negli anni delle due guerre mondiali sia stato assai poco frequentato a confronto
con altri periodi dell’età contemporanea. Questa carenza si nota meno in
ambito trentino, dove invece le ricerche non sono mancate, a segnalare
un’attenzione del tutto speciale per la Grande guerra che si è manifestata a
livello regionale. A dimostrarlo vi è anche questo volume, nato nell’ambito
del progetto “Wars and post-war: states and societies, cultures and structures. Reflections from a centenary” promosso dall’Università degli Studi di
Trento e coordinato da Gustavo Corni.
Come accennato, il volume si apre con un’introduzione che traccia le linee essenziali della storiografia nazionale e regionale sul tema. Subito
emerge un elemento che ritroviamo in tutto il volume e cioè l’impossibilità
di isolare il caso trentino da quello altoatesino. La questione dell’italianizzazione dell’Alto Adige e dell’utilizzo a tal fine della scuola risulta strettamente intrecciato con il processo di nazionalizzazione della vita scolastica
trentina. Questo perché a governare il mondo della scuola regionale vi sono a lungo gli stessi uomini e le stesse istituzioni. Dapprima il governo
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provvisorio militare e quello civile, poi una sovrintendenza scolastica unica
con sede a Trento che continuerà a reggere anche la scuola altoatesina ben
oltre la costituzione nel 1927 della provincia di Bolzano. Come appare evidente proseguendo nella lettura, per comprendere al meglio le vicende scolastiche del territorio è dunque necessario muovere da una prospettiva almeno regionale. E il libro, a dispetto del titolo, in parte lo fa.
Il primo saggio, a firma di Andrea Dessardo, affronta alcuni aspetti della complessiva politica scolastica delle autorità italiane nella Venezia Tridentina. Si tratta d’interventi che hanno inizio già durante gli anni di guerra per mezzo del Segretariato generale per gli affari civili istituito presso il
Comando Supremo, che nei primi mesi successivi all’intervento italiano
modifica i programmi scolastici delle scuole dei territori occupati nel Trentino meridionale, adeguandoli a quelli italiani. Le autorità si preoccupano
immediatamente di garantire la regolare apertura delle scuole e persino di
organizzare a Firenze corsi abilitanti per i maestri dei territori occupati.
L’universo scolastico viene precocemente individuato come decisivo per
svolgere la necessaria “opera di redenzione spirituale” in grado “di aprire
le piccole anime a quella conoscenza della Patria che era stata loro sistematicamente negata”, come recita un testo redatto dal Segretariato generale
nel 1917 (p. 20). Dopo la vittoria a occuparsi di scuole, come di ogni altro
aspetto politico e amministrativo, è il governatore militare Guglielmo Pecori Giraldi, di cui si segnala in particolare l’azione volta ad aprire scuole
italiane nelle aree mistilingui dell’Alto Adige, senza che questo mettesse in
discussione l’esistenza dell’insegnamento in lingua tedesca. Ma l’impegno
più gravoso fu volto alla difficile ricostituzione del tessuto scolastico regionale, sconvolto dalle distruzioni e dalla profuganza. Il saggio di Dessardo si
conclude con un accenno all’opera dell’ultimo organismo chiamato a governare la scuola prima dell’avvento del fascismo, l’Ufficio centrale per le
nuove province istituito presso la Presidenza del consiglio dopo il passaggio delle competenze sui territori da annettere dall’amministrazione militare a quella civile. L’analisi si concentra sui contenuti e l’impostazione, non
solo pedagogica, dei corsi d’aggiornamento per i maestri organizzati
nell’estate 1919, proprio in corrispondenza del trasferimento delle competenze dai militari ai civili.
Nel suo contributo Quinto Antonelli espone con concretezza le difficoltà ma anche i cambiamenti della scuola trentina del dopoguerra. In particolare richiama l’attenzione su quattro novità di grande rilievo che modificarono profondamente il profilo dell’istituzione scolastica: la caduta del divieto di iscrizione alle scuole medie per le ragazze; la soppressione del
“nubilato obbligatorio” per le maestre; l’opportunità, prima negata, di dare
vita ad associazioni studentesche e infine la sospensione dell’obbligatorietà
31
dell’insegnamento religioso. A ragione l’autore sostiene che “questi quattro
provvedimenti segnalano immediatamente una forte discontinuità con la
scuola asburgica e prospettano nell’immediato una scuola più aperta, rispettosa, partecipata e certamente più laica” (p. 43). Insomma, il passaggio
dalla Monarchia asburgica al Regno d’Italia non avviene per forza di cose
nel segno di un peggioramento della qualità, così come, allora come oggi,
una vaga e acritica nostalgia per l’Impero vorrebbe farci credere. Il saggio
prosegue mostrando come la fase della transizione postbellica si caratterizzi
per dinamiche in parte contraddittorie. Se da una parte si conserva in larga
misura l’impianto scolastico precedente, dall’altra si notano i primi segni di
“italianizzazione” del sistema, in particolare con l’introduzione di forme di
devozione ai simboli dell’italianità e di liturgie laico-religiose intorno ai
caduti per la redenzione. La riforma Gentile del 1923 segnerà il vero momento di svolta a chiusura della transizione.
Andrea Vitali affronta il tema della scuola di lingua tedesca in Trentino
tra guerra e dopoguerra. In una ricostruzione di lungo periodo l’autore
muove dal ruolo di difesa nazionale attribuito alla scuola e agli insegnanti a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con ricadute concrete anche in
Trentino. Agli inizi del XX secolo, se Ettore Tolomei iniziava a elaborare i
suoi piani d’italianizzazione del Sudtirolo tedesco, sull’altro versante vi era
chi teorizzava la necessità e la legittimità di “restituire” l’originaria anima
tedesca ai trentini. Terreno di scontro privilegiato tra associazioni nazionalistiche tedesche e italiane furono le “isole linguistiche” germanofone, in
primo luogo Luserna. In quel contesto, le scuole divennero le trincee della
lotta nazionale, a maggior ragione una volta scoppiata la Grande guerra. A
conflitto concluso, tra i pochi provvedimenti in ambito scolastico presi da
Pecori Giraldi vi è il mutamento della lingua d’insegnamento, dal tedesco
all’italiano, nelle scuole delle isole linguistiche germanofone del Trentino, a
Lauregno, Proves, Senale San Felice, Trodena, Anterivo, Palù, Fierozzo,
Frassilongo, Luserna, così come la chiusura della sezione tedesca del ginnasio di Trento, presso la quale si erano formati i figli dei funzionari asburgici. L’Italia liberale continuava a garantire la minoranza tedesca in Sudtirolo ma non le comunità germanofone del Trentino.
Il quarto e ultimo saggio, opera di Alessandro Gentilini, è dedicato
all’interessante figura di Luigi Molina, primo provveditore agli studi di
Trento, carica che ricoprì dal 1923 al 1944. La sua nomina a un incarico
così delicato anche da un punto di vista politico si dovette verosimilmente,
oltre che alle sue capacità professionali, alla sua precoce adesione al fascismo. Uno dei compiti principali che gli furono affidati era quello di italianizzare la scuola tedesca dell’Alto Adige, cosa che Molina fece ordinatamente e con sincera convinzione, come spiega egli stesso nella sua autobio-
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grafia redatta ben dopo la caduta del regime. Con la stessa alacrità lavorò al
rapido e completo smantellamento del sistema scolastico trentino e alla sua
sostituzione con quello italiano, ispirato a un rigido centralismo, ulteriormente accentuato dalla riforma Gentile. Lo studio del percorso biografico
e personale di un personaggio come Molina, che ha rivestito un ruolo di
prim’ordine nella scuola trentina anche dopo il 1945, offre spunti interessanti per una ricerca di carattere generale sui modi e i tempi
dell’avvicinamento dei funzionari al fascismo, sulle modalità della loro selezione, sugli adattamenti a livello locale delle riforme disegnate al centro e
sulla continuità amministrativa tra fascismo e repubblica.
Il libro offre squarci interessanti sulle vicende scolastiche trentine e altoatesine tra Prima guerra mondiale e immediato dopoguerra e lascia intendere quali ulteriori potenzialità di ricerca vi siano nella storia della scuola in età contemporanea.
Andrea Di Michele
Armando Costa, I vescovi di Trento. Notizie – profili, seconda edizione
riconsiderata e aggiornata, Milano, Ancora, 2017, 903 pp.
Il volume di Armando Costa I vescovi di Trento era uscito nel 1977 ed è
ben noto a tutti coloro che si sono confrontati con la storia della diocesi
trentina negli ultimi quarant’anni: ne sono state apprezzate le qualità e ne
sono stati compresi i limiti, inevitabilmente crescenti con il progredire della
ricerca che ha fornito altri materiali, ha circostanziato i giudizi, ha precisato
i contesti in cui si è collocata l’azione di coloro che lungo più di 1600 anni
si sono succeduti sulla cattedra vescovile trentina. Conscio di tutto ciò,
mons. Costa ha voluto procedere a una nuova edizione (o “rivisitazione”)
del suo volume, producendo (con la collaborazione di Miriam Lenzi) un
tomo di notevoli dimensioni che però, in sede di premessa, l’autore chiede
al lettore di considerare ancora come un “cantiere aperto”.
Il “cantiere” ha la stessa articolazione del volume degli anni Settanta: si
divide in quattro sezioni o “epoche” (romano-barbarica, medioevale, rinascimentale e barocca, moderna) ed è dotato di alcune parti di corredo, alcune poste in apertura (la serie dei vescovi di Trento, una “nota bibliografica”, uno “sguardo generale”) e alcune in chiusura (serie dei vescovi di
Bressanone, la diocesi di Trento in quanto “suffraganea”, le vicende della
residenza vescovile, le strutture di governo del principato, un prospetto
sincrono degli eventi). Ogni sezione si apre con alcune pagine di “sfondo
storico” – inevitabilmente sommarie e talvolta ripetitive – e si articola poi
33
seguendo le singole biografie; alcune trattazioni, in corpo minore, sono
dedicate ai coadiutori. Dopo una scheda dedicata alla famiglia di origine,
talvolta inutilmente iterata, il profilo viene sviluppato tenendo conto delle
notizie disponibili e includendo nell’esposizione citazioni più o meno ampie tratte da documenti d’archivio o (più spesso) da altri saggi o volumi,
cui si fa riferimento in modo talvolta esplicito e talvolta implicito; gli studi
del Costa stesso (a cominciare dalle pagine che hanno accompagnato la
compilazione La Chiesa di Dio che vive in Trento del 1986, dalla biografia
del vescovo Tschiderer del 1994 e dal volume Cardinali e vescovi tridentini
del 2014) sono sostanzialmente riproposti. Ogni biografia si chiude con
una “bibliografia” che dovrebbe esplicitare le fonti delle notizie che compaiono nelle pagine precedenti e orientare il lettore desideroso di approfondimenti: tale sezione è purtroppo poco curata sul piano formale (il modo in cui saggi e volumi vengono citati è spesso incoerente o scorretto),
non offre appigli di carattere critico (sono poste sullo stesso piano le opere
più attardate o puramente compilative e quelle più recenti; non si fa distinzione tra saggi scientifici e articoli su strenne, mensili e quotidiani) e non
dà garanzie di completezza. Il “cantiere” di Costa ha infatti tenuto conto
dei Monumenta Liturgica di Rogger, delle biografie redatte da Vareschi,
della Storia del Trentino ITC e del Territorio trentino nella storia europea di
Fbk Press, ma sembra non conoscere numerose ricerche che avrebbero
dovuto essere segnalate (per fare qualche esempio: il Codex Wangianus, le
opere di Brandstätter, gran parte della bibliografia specialistica su Bernardo Cles; manca persino un riferimento esplicito all’opera di Grisar su
Tschiderer!…). Si potrà dire che ancora di un “cantiere” si tratta: ma dopo
decenni di lavoro l’autore appare ancora impegnato più nell’accumulo dei
materiali (ed è lontano dall’aver terminato tale raccolta) che nella loro selezione e strutturazione. Si aggiunga che l’apparato delle note è discontinuo
ed episodico: solo in pochi casi si dà conto in modo puntuale della provenienza di notizie, citazioni e giudizi. Il lettore che non conosce già gli argomenti trattati non può quasi mai risalire alla fonte, con il risultato che
molto di quanto viene riferito chiede di venire accolto sulla base della credibilità del compilatore.
Detto questo in termini generali, pare opportuna una valutazione differenziata della qualità delle diverse parti. Modeste e puramente compilative
(nei termini sopra esposti, vale a dire con scarso senso critico nella selezione degli autori su cui fare affidamento) appaiono le duecento pagine delle
prime due sezioni (dal IV al XV secolo). Nella terza parte (XVI, XVII e
XVIII secolo: 250 pagine) il volume poggia in ampia misura su citazioni di
autori quali Jedin, Bellabarba, Donati, Farina, Gelmi, Nequirito, Nubola,
Vareschi: ciò fa sì che l’esposizione sia, se non completa e ordinata, per lo
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meno equilibrata e contenutisticamente valida. La parte dedicata agli ultimi
due secoli (350 pagine) è la più interessante, soprattutto lì dove offre dati e
notizie che costituiscono un punto di partenza per chi voglia avere una
prima informazione sui vescovi e sulle vicende della Chiesa trentina dell’epoca più recente. Purtroppo un’impostazione scopertamente apologetica
(perché derivante da fonti encomiastiche o da bibliografia dichiaratamente
di parte, cui l’autore attribuisce piena credibilità) finisce con il disegnare
profili nei quali prevalgono gli aspetti positivi e sono invece negati o nascosti quelli più problematici. La quarta sezione riveste però un altro e diverso
motivo di interesse: essa riferisce infatti la voce di una persona nata nel
1927, che ha vissuto la seconda metà del Novecento ricoprendo ruoli di
notevole responsabilità nella Chiesa trentina (Costa è stato tra l’altro direttore dell’Ufficio Stampa della diocesi dal 1967 al 2000 e decano del capitolo della cattedrale dal 1986 al 2001). Per cui ciò che viene detto, il modo in
cui viene detto e anche ciò che non viene detto nel volume è testimonianza
di come una parte della Curia ha vissuto e interpretato le vicende ecclesiali
e civili del XX secolo: lo si vede chiaramente, ad esempio, lì dove Costa
commenta in modo univocamente favorevole l’operato del vescovo de Ferrari, critica l’opera di Gargitter e dei suoi collaboratori, difende con enfasi
le scelte di Giovanni Maria Sartori. Chi vorrà usare il volume di Costa dovrà dunque tenere conto di queste sue caratteristiche, leggendolo con prudenza critica e valorizzandone il peculiare punto di vista.
Emanuele Curzel
Giuseppe Cuscito, Trieste. Diocesi di frontiera. Storia e storiografia,
Trieste, Editreg, 2017, 325 pp.
Da qualche decennio il genere letterario “storia delle diocesi” ha ritrovato un certo successo. Sono usciti quattordici volumi della collana Storia
religiosa della Lombardia (1986-2007), undici della Storia religiosa del Veneto (1991-2008), due (finora) della più recente Storia delle chiese locali
pubblicata dalla Facoltà teologica del Triveneto e – spostandosi un po’ più
a sud o un po’ più a ovest – sono apparse la Storia della Chiesa di Bologna
(1997), la Storia della Chiesa di Ivrea (1998-2007), la Storia della Chiesa riminese (2010-2015). Nel 2017 è uscita la Storia della diocesi di Trieste scritta da Giuseppe Cuscito, noto esperto di archeologia e dei primordi della
presenza cristiana nella regione aquileiese. Rispetto a quasi tutti i volumi
sopra citati, che sono opere collettive, il libro in questione si caratterizza
per l’avere un solo autore, con tutti i difetti e i pregi che ne conseguono; tra
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i pregi non si può non citare lo stile, che è unitario e che appare felicemente condizionato dal fatto che il testo trae origine dalle lezioni che Cuscito
ha tenuto per molti anni presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di
Trieste (e dove la trattazione, per necessità di sintesi, non entra nei dettagli,
la bibliografia viene puntualmente indicata). Un’altra differenza rispetto ai
volumi e alle serie sopra indicati sta nella esplicita volontà dell’autore (indicata fin dal titolo) di non fare solo narrazione dei “fatti” ma anche, di
volta in volta, di segnalare quali storici si sono misurati con i diversi temi e
quali sono stati i loro punti di vista: un modo metodologicamente maturo e
particolarmente adatto per parlare di vicende e personaggi, specie della
storia recente, che sono stati oggetto di valutazioni difformi a seconda delle
impostazioni nazionali o ideologiche che sono state via via adottate.
Il volume si articola in dieci capitoli che, seguendo la scansione cronologica, partono dall’antichità cristiana e giungono fino ad anni molto vicini
a noi. I primi due sono dedicati al periodo che arriva fino al XIV secolo e
sono relativamente brevi, ma appaiono solidamente fondati sulle ricerche
che Cuscito stesso ha seguito direttamente e danno al lettore punti fermi su
quanto è effettivamente conoscibile circa le epoche più remote della cristianità triestina. Altri tre dettagliati capitoli affrontano i secoli XV, XVI e
XVII, durante i quali la casa d’Austria determinò sia la scelta dei vescovi,
sia gran parte delle politiche (contro)riformistiche. Il sesto capitolo tratta
invece del periodo in cui, dopo il 1719, la politica asburgica favorì la crescita economica della città e la conseguente immigrazione di minoranze
ortodosse, riformate ed ebraiche, ritenute portatrici di dinamismo imprenditoriale e commerciale; ai vescovi, che nel periodo precedente erano riusciti a respingere o marginalizzare le presenze considerate eterodosse, furono così posti nuovi e inediti problemi.
Con il settimo capitolo entra in campo la principale protagonista delle
vicende (e delle tragedie) dell’ultimo secolo e mezzo: la questione nazionale. I vescovi dovettero cimentarsi con la difficile impresa di mantenere una
posizione di equilibrio tra le diverse istanze: talvolta riuscirono a essere
elementi di mediazione, talvolta finirono con l’acuire le tensioni, anche
perché la questione nazionale si intrecciava con quella sociale o quella liturgica (essendoci, in area slava, radicate tradizioni di uso della lingua locale). L’autore affronta il tema evitando di recepire in modo acritico i giudizi
di chi in passato aveva adottato, nelle proprie valutazioni, la discriminante
nazionale; talvolta l’origine slava o austriaca dei vescovi li aveva fatti ritenere solidali con l’“oppressore” asburgico anche quando le loro scelte erano
state invece rivolte a superare le lacerazioni ecclesiali e sociali che i contrapposti patriottismi procuravano. Il regime fascista sostenne evidentemente il nazionalismo italiano: Cuscito deve quindi misurarsi con le inte-
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ressanti ma controverse eredità dei vescovi Luigi Fogàr (1923-1936) e Antonio Santin (1938-1975). Nell’ultimo capitolo si accenna infine agli episcopati che hanno seguito il trattato di Osimo (1975) e la conseguente ridefinizione dei confini diocesani, che staccando Capodistria da Trieste (1977)
ha ridotto la diocesi tergestina alle modeste dimensioni attuali (più di
200.000 abitanti, ma soli 134 kmq).
Il lettore – che pure apprezza la competenza e le modalità espositive
dell’autore – trova talvolta qualche difficoltà a comprendere i motivi per
cui determinate parti non si trovano nell’ordine cronologico che è, nel volume, prevalente. Fuori posto appaiono le vicende dello scisma tricapitolino nel cap. I e la trattazione sul comportamento morale del clero nel cap.
III; nel cap. IV si parla della Controriforma prima che di Pietro Bonomo
(1502-46), vescovo apprezzato ma anche discusso per le sue troppe simpatie verso il fronte riformato; nel cap. IX, l’ampia parte rivolta al sinodo
diocesano del 1959 è posta al termine della trattazione dedicata al vescovo
Santin, che lasciò la carica nel 1975 in un clima ecclesiale ormai molto
cambiato. E ci si chiede anche se non sarebbe stato possibile aggiungere
qualche notizia in più circa la posizione della Chiesa triestina durante la
Prima (p. 199) e soprattutto durante la Seconda guerra mondiale (pp. 221224): si intuisce che si tratta, almeno in quest’ultimo caso, di temi già trattati in altre sedi, ma il tutto appare sottodimensionato se posto a confronto,
ad esempio, con le numerose pagine che trattano poi della “lotta per i confini” (peraltro in questo modo il lettore coglie quanto sia stato drammatico
nell’area il secondo dopoguerra, non solo per le istituzioni e la società ma
anche per la Chiesa; una situazione di sofferenza e di tensione superata solo negli ultimi decenni).
Quale interesse specifico può avere il lettore trentino per questo volume? Più d’uno. Per cominciare, esso dà qualche notizia circa la presenza a
Trieste di due vescovi di origine trentina: Giovanni Betta, già medico personale di Cristoforo Madruzzo e poi di Massimiliano II d’Asburgo, vescovo
dal 1558 al 1565; e Nicolò de Coret, consigliere dell’arciduca Carlo, vescovo dal 1574 al 1591 (il Betta non ha lasciato memoria di sé particolarmente
positiva; il de Coret si distinse per lo zelo controriformista). Una città come
Trento, che vuole essere impegnata nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso, non può che guardare con interesse ai percorsi e agli esperimenti
che un’altra città, Trieste, ha dovuto affrontare da tre secoli a questa parte.
Ma soprattutto il libro di Cuscito ci presenta un altro contesto nel quale la
tensione nazionale, tra XIX e XX secolo, ha operato nel determinare appartenenze e schieramenti. Le geometrie nazionali dell’area (con una maggioranza italiana nella città principale e in alcuni centri costieri, un vasto
entroterra in grande maggioranza slavo, la presenza di altre robuste mino-
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ranze nazionali e religiose) non sono quelle delle valli atesine; ma anche a
Trieste vescovi, preti e laici dovettero faticosamente cercare un punto di
equilibrio tra l’adesione alla propria “patria” e il riconoscimento della fratellanza cattolica (magari in funzione anti-moderna). Il libro di Cuscito invita inoltre a leggere con un’ottica storica, senza preoccupazioni di tipo
celebrativo o apologetico, anche epoche molto vicine alla nostra; e costringe a confrontarsi con l’assenza, a Trento, di un’opera di questo genere, in
quanto il volumetto del 2009 in cui Iginio Rogger aveva riunito i testi delle
sue lezioni manca di una parte adeguata sul XIX e sul XX secolo e la compilazione di Armando Costa, per quanto utile, ha limiti evidenti.
Emanuele Curzel
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