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Litterae Caelestes 2017 (2).pdf

Last issue of Litterae Caelestes with articles on Augusto Campana, Alcuin, Cassiodorus, Gregory the Great

nuova serie rivista annuale internazionale di paleografia, codicologia, diplomatica e storia delle testimonianze scritte MARIO ADDA EDITORE Direttore responsabile Fabio Troncarelli fptroncarelli@iol.it Direzione editoriale Antonino Mastruzzo Marco D’Agostino Ernesto Stagni Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 53/2005 del 21 febbraio 2005 abbonamenti istituzionali addaeditore@addaeditore.it abbonamenti individuali addaeditore@addaeditore.it inviare articoli e corrispondenza a: Fabio Troncarelli via Giulio Cesare Santini, 18 00153 – ROMA fptroncarelli@fastwebnet.it Copyright © MMXVII Mario Adda Editore Mario Adda Editore Via Tanzi 59 -70121 Bari Tel. e Fax +39 080 5539502 www.addaeditore.it addaeditore@addaeditore.it ISBN I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. I edizione: Finito di stampare da Graica 080 per conto della «Mario Adda Editore» di Bari Printed in Italy Redattori Giulia Ammannati Adriano Magnani Andrea Piras Mirco Stocchi Redattori corrispondenti Marco Buonocore Shane Butler Teresa De Robertis Nicoletta Giovè Delio Vania Proverbio Vito Sivo Caterina Tristano Ideazione graica: Massimiliano D’Affronto Impaginazione: Cantieri Servizi Editoriali di Marco Puci m.puci@cantieriservizi.com Coordinamento redazionale Pamela Michelis David Troncarelli Giulia Troncarelli Comitato scientiico Robert Babcock (North Carolina Un. Chapel Hill) Pascale Bourgain (École des Chartes, Paris) Michelle Brown (he British Library, London) Paul Canart (Biblioteca Apostolica Vaticana) † William Courtenay (Madison University) Riccardo Di Segni (Rabbino Capo, Comunità Ebraica, Roma) Gianfranco Fiaccadori (Università di Milano) † Cosimo Damiano Fonseca (Università di Bari) David Ganz (King’s College, London University) Françoise Gasparri (IHRT, Centre Félix-Grat, Paris) Paul F. Gehl (Newberry Library, Chicago) Francisco Gimeno Blay (Universidad de Valencia) Jacqueline Hamesse (Academia Belgica-Louvain, Università di Louvaine-la-Neuve) Louis Holtz (Directeur Honoraire de l’ihrt et du Centre Félix-Grat, Paris) Antonio Iglesias (Universidad Autonoma de Barcelona) Santo Lucà (Università di Roma “Tor Vergata”) Francis Newton (Duke University) Angelo Michele Piemontese (Università di Roma “La Sapienza”) Charles Radding (Michigan State University) Richard Rouse (Ucla, Los Angeles) Paul Saenger (Newberry Library, Chicago) Franco Salvatori (Società Geograica Italiana, Roma) Herrad Spilling (Wüerttembergische Landesbibliothek, Stuttgart) Elisa Varela Rodríguez (Universidad de Girona) Jean Vezin (École Pratique des Hautes Études, Paris) Stefano Zamponi (Università di Firenze) 07 09 23 Saggi Ezio Attardo Rilessioni sulla scrittura dell’Isola di Pasqua Rocco Ronzani Nota sul Fragm. CLA 1626 delle Homeliae in Evangelia, 38 di Gregorio magno e sul codice CLA 1627 dell’Archivio Capitolare di Barcellona 47 Ilaria Morresi La prima fortuna del De rethorica di Cassiodoro. Estratti dalle Institutiones in un antico accessus al De inventione ciceroniano 75 Fabio Troncarelli Il diavolo nello specchio. I disegni di Alcuino nel codex pagesianus 113 Il discorso sul metodo 115 Fabio Troncarelli 161 Notiziario Campana paleografo Ezio Attardo RIFLESSIONI SULLA SCRITTURA DELL’ISOLA DI PASQUA Ezio Attardo uomo è per natura curioso, ed è sempre pronto a lasciarsi affascinare da tutto ciò che sia coperto da un velo di mistero. E anche quando questo velo sia stato sollevato, e il mistero non sia più tale, ugualmente siamo affascinati da quello che è ancora patrimonio di un ristretto numero di esperti. Così tutti restiamo incantati davanti agli incomprensibili geroglifi egizi, o stupiti di fronte agli oscuri segni cuneiformi delle scritture mesopotamiche. A maggior ragione, quando il mistero è fitto e impenetrabile anche per coloro che sono considerati esperti, ognuno di noi è affascinato e incline a farsi coinvolgere. Anch’io, pur avendo focalizzato i miei studi sulle scritture alfabetiche e protoalfabetiche, non riesco a sottrarmi al fascino che esercitano segni misteriosi, quali sono quelli tracciati sulle tavolette lignee provenienti dall’Isola di Pasqua. E pur mettendo le mani avanti, e protestando la mia incompetenza e ignoranza su questo affascinante e inquietante argomento, e, soprattutto, rischiando di diventare lo scopritore dell’acqua calda, non riesco a trattenermi dall’esprimere le mie riflessioni su questa scrittura e su quanto, riguardo ad essa, è stato finora pubblicato sul Web 1. 1 I segni delle tavolette lignee dell’Isola di Pasqua, che io riporterò in questo articolo, sono pubblicati sul Web e sono quasi tutti tratti da disegni attribuiti a Barthel (BARTHEL 1958). I testi pubblicati sono normalizzati: le righe, perché ne sia più facile lo studio, sono riportate come le leggeremmo noi occidentali. Infatti le tavoletta dovrebbero essere lette partendo dal basso a sinistra e andando verso destra; giunti alla fine della riga bisognerebbe girare la tavoletta e ricominciare da sinistra. Si veda la Figura 1. I testi citati sono: Testo A (Tahua); Fischer RR1 Testo I (Santiago Staff); Fischer = RR10 Testo Q (Small St Peterburg tablet); Fischer = RR17 Testo V Testo Y (Paris Snuff Box); Fischer == RR5 Testo B (Aruku Kurenga); Fischer = RR4 Testo F (Chauvet tablet); Fischer = RR7 Testo N (Small Vienna tablet); Fischer = RR23 9 Figura 1 - Testo F (Chauvet tablet): A sinistra vi è il disegno di Barthel riportato sul Web, in cui le righe sono disposte come le leggeremmo noi, partendo dall’alto a sinistra; a destra la fotografia della tavoletta, che dovrebbe essere letta partendo dal basso a sinistra, girando quindi la tavoletta, in modo da partire sempre da sinistra, e così via, fino alla fine della lettura. Prima di tutto, bisogna ribadire che questa scrittura sembra ancora sostanzialmente non decifrata. Tuttavia da alcuni studiosi sono state proposte delle buone idee, che potrebbero far progredire gli studi. Mi riferisco in particolare a Steven R. Fischer, che (come egli annunciò nel 1994) aveva identificato, in una sequenza di quattro segni (XlYZ), più volte ripetuta, una serie di genealogie. In sostanza vi era un segno (X) cui era attaccato un fallo eretto (l); seguivano un terzo (Y) e un quarto segno (Z): l’intera sequenza avrebbe avuto il seguente significato: “X copulò con Y e generò Z”. Nonostante alcuni studiosi abbiano avanzato diverse critiche su questa ipotesi, l’idea mi sembra buona, anzi, convincente: in sostanza Fischer avrebbe identifica- Testo R (Small Washington tablet); Fischer RR15 Testo C (Mamari); Fischer = RR2 Testo G (Small Santiago); Fischer = RR8 Testo K (Small London tablet); Fischer = RR19 Testo O (Berlin tablet); Fischer = RR22 Testo D (Echancrée); Fischer = RR3 Testo H (Large Santiago tablet); Fischer RR9 Testo L (London reimiro 2); Fischer = RR21 Testo P (Large St Peterburg tablet); Fischer = RR18 Testo T (Honolulu tablet 1); Fischer = RR11. 10 Ezio Attardo to un segno che, aggiunto, anzi unito, a un altro segno, indicherebbe un’azione di quest’ultimo; in poche parole avrebbe identificato un verbo. Questo si ritrova in diversi rongorongo, in alcuni molto frequentemente, come vediamo nella Figura 2 (1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15-16-17-18-19-2021-22-23) 2. Figura 2 - 1-2-3-4-5-6) Testo G verso riga 3, 7-8-9-10-11-12-13-14-15-16-17-18-1920-21) Testo I; 22-23) Testo P recto riga 2; 24-25-26) Testo B recto riga 10. Quindi il fallo rappresenterebbe il verbo “copulare”, cui dovrebbe seguire un sottinteso verbo “generare” 3. Io ipotizzo che il fallo si possa interpretare anche come “copulare e generare”, o, semplicemente come “generare”. Questo mi sembra che sia avvalorato dal fatto che su alcune delle tavolette di legno troviamo talvolta delle sequenze piuttosto lunghe di segni consecutivi, a cui è attaccato un altro segno, a destra, sempre lo stesso (si veda la Figura 3). 2 Nelle didascalie si preciserà se un dato segno si trovi sul recto o sul verso si una data tavoletta, seguendo i disegni eseguiti da Barthel, anche se è ovviamente opinabile quale sia effettivamente il recto e il verso, dal momento che non siamo in grado di dire alcunché sul contenuto dei rongorongo. 3 Va detto che Fischer dichiara di aver trovato sequenze che avrebbero lo stesso significato, in cui tuttavia il fallo manca. Inoltre io ho trovato anche sequenze in cui sono presenti tre segni successivi tutti con il fallo; si veda nuovamente la Figura 2 (24-25-26). 11 Figura 3 - 1) Testo Q recto riga 3: sequenza di 9 segni; 2) Testo A verso riga 3: sequenza di 6 segni; 3) Testo A verso riga 3: sequenza di 6 segni; 4) Testo A verso riga 5: sequenza di 7 segni; 5) Testo H recto riga 3: sequenza di 9 segni; 6) Testo P recto riga 3: sequenza di 6 segni. Noi, in teoria, conosciamo il significato dei segni presenti nelle suddette sequenze: infatti nel 1868, il vescovo di Tahiti, Monsignor Florentin-Étienne “Tépano” Jaussen, il primo 4 che aveva notato l’esistenza dei segni su un rongorongo 5, aveva trovato un Pasquense, un certo Metoro 6, che si trovava a lavorare a Tahiti e che aveva dichiarato di essere in grado di leggere i segni misteriosi presenti sulle tavolette di legno possedute dal vescovo. Egli prese la tavoletta che il vescovo gli aveva messo in mano e cominciò a leggere; e, tra lo stupore dei presenti, invece di parlare, aveva cominciato a cantare. Ma la lettura che Metoro dava delle tavolette lignee non sembrava avere senso 7. Tuttavia il vescovo di Tahiti pazientemente elaborò un elenco dei segni presenti sui rongorongo, elenco in cui i segni erano accompagnati dal significato loro attribuito da Metoro. Anche il segno attaccato alla destra 4 In realtà Padre Eugène Eyraud aveva notato alcuni anni prima la presenza di tavolette di legno con questa scrittura nelle abitazioni degli indigeni, ma questo fatto rimase sconosciuto fino alla scoperta di Jaussen. 5 I Pasquensi, ormai convertiti al Cattolicesimo, avevano dato a un sacerdote, Padre Gaspard Zumbohm, come dono per il vescovo di Tahiti, una matassa di corda, fatta di capelli intrecciati, avvolta intorno a un pezzo di legno. Quando la matassa fu svolta, Jaussen si accorse della presenza di strani segni geroglifici sul pezzo di legno, e cercò di saperne di più, riuscendo anche ad entrare in possesso di altre tavolette. 6 Metoro Tau’a Ure, figlio di Hetuki, era un maori, o saggio. 7 “Egli è trafitto. Esso è il re. Egli andò all’acqua. L’uomo sta dormendo contro il frutto in fiore. I pali sono innalzati …”. 12 Ezio Attardo dei segni suddetti è presente nell’elenco di Jaussen: esso si sarebbe dovuto leggere come kihikihi, cioè “muschio” (oppure maro = “piuma, piume”); ma nella sequenza in questione mi sembra evidente che questo segno debba avere un valore diverso. Ora io mi domando: quale può essere il significato di questo segno? Io ritengo che, in questo caso, il segno in questione indichi un’azione, cioè un verbo: diversi soggetti avrebbero compiuto la stessa azione. In effetti una studiosa, Catherine Routledge, antropologa e archeologa inglese, tra il 1914 e il 1915, durante un soggiorno nell’Isola di Pasqua, interrogando un uomo, un certo Kapiera, che sembrava degno di fede, aveva saputo che ogni carattere non aveva solo un significato letterale, ma ne aveva anche un altro. Questo mi sembra che possa essere dimostrato anche dal segno che indica una mano. Infatti quest’ultimo segno ricorre poco frequentemente da solo (1-2-3-4), ma molto spesso attaccato ad un altro segno (5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15-16-17-1819-20-21-22-23-24-25-26-27), anche più frequentemente del segno che rappresenta il fallo o di quello interpretato come “muschio”. Figura 4 1) Testo I; 2) Testo Q verso riga 7; 3) Testo T riga 2; 4) Testo C verso riga 1; 5) Testo A recto riga 1; 6) Testo A recto riga 2; 7) Testo A recto riga 2; 8) Testo A recto riga 3; 9) Testo B recto riga 1; 10) Testo B recto riga 4; 11) Testo F riga 5; 12) Testo N recto riga 2; 13) Testo N verso riga 3; 14) Testo R recto riga 1; 15) Testo C recto riga 1; 16) Testo C recto riga 6; 17) Testo C recto riga 13; 18) Testo C verso riga 10; 19) Testo G recto riga 2; 20) Testo G recto riga 5; 21) Testo K recto riga 2; 22) Testo K recto riga 3; 23) Testo K verso riga 2; 24) Testo K verso riga 3; 25) Testo O riga 2; 26) Testo L; 27) Testo D recto riga 4. 13 Che il segno che rappresenta la mano possa avere più di un significato sembra verosimile, anche per il fatto che, per quel poco che so della lingua rapanui, la parola rima significa non solo “mano”, ma anche il numerale “cinque”. Io credo che, in questi casi, il segno che rappresenta la mano indichi un verbo, da interpretare come “fare”, “agire”, oppure “prendere”. È possibile che si possa generalizzare questo? Bisogna cioè pensare che ogni segno, che usualmente si trovi separato dagli altri, se unito come un’appendice ad un altro segno sia da interpretare come un verbo? Io credo che questa sia un’ipotesi plausibile e valida per gran parte dei segni uniti alla destra di un altro segno come un’appendice: infatti spesso troviamo, nei 25 rongorongo esistenti in vari musei (più uno di cui rimangono solo fotografie), segni sia isolati che uniti ad un segno diverso che li precede. L’interpretazione da me suggerita mi sembra avvalorata anche da un altro elemento. Il segno che, in base alla lettura di Metoro, rappresenta la luna si trova anch’esso sia da solo (1-2) che unito ad un altro segno. Ora il segno che indica la luna, che in rapanui (in base all’elenco fornito da Jaussen) suona marama, potrebbe essere tradotto come “luna”, e questo, secondo me, dovrebbe essere il suo significato quando questo segno ricorre da solo; oppure “mese” quando ricorre da solo, in coppia o in gruppi più numerosi (3-4); ma marama in rapanui significa anche “vedere”, e questo potrebbe essere il suo significato quando esso si trovi unito a un altro segno (5-6-7). Figura 5 - 1-2) Testo B recto riga 1; 2) Testo C recto riga 5; 3) Testo C recto riga 7; 4) Testo Y; 5) Testo P verso riga 2; 6) Testo D recto riga 3; 7) Testo C recto riga 6. Pertanto anche gli altri segni, che si possano trovare sia da soli sia uniti alla destra di un altro segno, potrebbero avere più significati e valori per omofonia o per meto- 14 Ezio Attardo nimia, ossia sulla base di quella figura retorica che indica la sostituzione di un vocabolo con un altro che abbia con il primo un rapporto di contiguità o di dipendenza (cioè la causa per l’effetto, l’effetto per la causa, il contenente per il contenuto, la materia per l’oggetto, lo strumento invece di chi l’adopera, l’astratto per il concreto, le divinità mitologiche per ciò che esse indicano, etc.). In pratica i Pasquensi potrebbero aver usato un segno indicante un sostantivo concreto (la luna, la mano) per indicare un verbo che fosse omofono ad un sostantivo concreto (marama, che significa sia “luna” che “vedere”), oppure un altro segno, indicante sempre un sostantivo concreto, per rappresentare un altro termine che avesse con il primo un rapporto di contiguità o di dipendenza (la mano, che rappresenta sia la “mano” che il numerale “cinque”, dato che la mano ha cinque dita, oppure “fare”, “agire”, “prendere”, dato che con le mani usualmente facciamo qualcosa, agiamo, o prendiamo un oggetto). Così vediamo che il segno che Metoro aveva interpretato come un ornamento di legno a forma di piroga (1) qualche volta presenta attaccato alla propria destra un altro segno, secondo la mia interpretazione un verbo (2), talora addirittura un fallo (3-4); diverse volte è usato addirittura come verbo (5-6-7-8). Ugualmente il segno che, secondo Metoro, rappresenta la terra (9) si può trovare congiunto con un altro segno, cioè con verbo (10-11), talvolta addirittura con un fallo (12), e persino più spesso come un verbo (13-14-15-16-17). Figura 6 - 1) Testo A recto riga 2; 2) Testo D verso riga 3; 3) Testo B verso riga 9; 4) Testo I; 5) Testo A recto riga 3: come verbo; 6) Testo B verso riga 1; 7) Testo K verso riga 1; 8) Testo P recto riga 10; 9) Testo Q recto riga 9; 10) Testo Q recto riga 8; 11) Testo H recto riga 4; 12) Testo P recto riga 1; 13) Testo B recto riga 10; 14) Testo C recto riga 1; 15) Testo H verso riga 5; 16) Testo P verso riga 10; 17) Testo H verso riga 6. 15 Anche un segno interpretato da Metoro come le Pleiadi (1) si può trovare sia seguito da un altro segno (2-3-4-5), non di rado un fallo (6-7-8), sia come verbo (9-10). Così il segno che rappresenta la pioggia si può trovare da solo (11), con un verbo (12), con un fallo (13) o, più spesso, come verbo (14-15-16). Figura 7 1) Testo C recto riga 10; 2) Testo G recto riga 7; 3) Testo C verso riga 11; 4) Testo L; 5) Testo D verso riga 5; 6) Testo P verso riga 2; 7) Testo G recto riga 8; 8) Testo G verso riga 6; 9) Testo R verso riga 7; 10) Testo P verso riga 7; 11) Testo Q verso riga 3; 12) Testo C verso riga 10; 13) Testo I; 14) Testo B recto riga 10; 15) Testo D recto riga 3; 16) Testo H verso riga 6. Invece il segno che indica l’acqua (1) raramente si trova con un verbo (2-3) (mentre non si trova con un fallo), ed è usato spesso come verbo (4-5-6-7-8-9). Pure il segno che rappresenta il cielo, come venne interpretato da Metoro (10), poco frequentemente tiene unito a sé un altro segno come verbo (11-12); molto più spesso è esso stesso usato come verbo (13-14-15-16-17-18). Figura 8 - 1) Testo C recto riga 2; 2) Testo G verso riga 8; 3) Testo N verso riga 5; 4) Testo N recto riga 4; 5) Testo N verso riga 3; 6) Testo R verso riga 7; 7) Testo C recto riga 2; 8) Testo C recto riga 10; 9) Testo G recto riga 5; 10) Testo B recto riga 5; 11) Testo I riga 16 Ezio Attardo 13; 12) Testo N recto riga 4; 13) Testo A recto riga 1; 14) Testo B recto riga 6; 15) Testo B verso riga 7; 16) Testo C verso riga 5; 17) Testo C verso riga 8; 18) Testo G recto riga 1. Peraltro ci sono segni che non fungono mai da verbi, come quello che, secondo Metoro, rappresenta un uccello, la fregata (1): esso infatti si può trovare con verbo, cioè con un altro segno attaccato alla sua destra (2-3-4-5-6-7-8), a volte con un fallo (9), ma mai funge da verbo. Figura 9 - 1) Testo A recto riga 3; 2) Testo A recto riga 3; 3) Testo Q recto riga 8; 4) Testo R recto riga 4; 5) Testo R recto riga 7; 6) Testo C verso riga 4; 7) Testo K recto riga 3; 8) Testo D verso riga 2; 9) Testo G verso riga 3. Riprendiamo il segno che rappresenta la mano. In effetti, talvolta a questo segno, unito come un’appendice ad un altro, si può trovare un terzo segno, a sua volta attaccato alla mano (1-2-3-4-5-6), come se fosse il complemento oggetto di un verbo “fare” o “prendere”. Questo avviene raramente con altri segni, come, per esempio, con il pesce come verbo (7). Quale può essere il significato di ciò? Io credo che il terzo segno possa essere interpretato come un complemento oggetto. Così un pesce, che penda da una mano usata come verbo (4), si potrebbe forse interpretare come “prendere pesci”, cioè “pescare”. D’altronde spesso si trova un pesce usato come un verbo, probabilmente con lo stesso significato (8-9). Figura 10 - 1) Testo B verso riga 1; 2) Testo N verso riga 2; 3) Testo R verso riga 7; 4) Testo R verso riga 8; 5) Testo C recto riga 13; 6) Testo C verso riga 5; 7) Testo H verso riga 2; 8) Testo B verso riga 7; 9) Testo R verso riga 4. 17 I testi lignei dell’Isola di Pasqua molto probabilmente nascondono anche un certo numero di nomi propri. Questi nomi potevano forse essere composti di un sostantivo più un verbo. Ad esempio in un paio di tavolette (1-2) troviamo numerose volte un segno cui è attaccato un altro segno che Metoro aveva ugualmente interpretato come “muschio”. In questo caso i due segni andrebbero interpretati come un nome proprio, e un altro segno che fosse eventualmente attaccato alla loro destra sarebbe non più un complemento oggetto, ma il verbo indicante l’azione compiuta dal nome proprio stesso. La stessa cosa si potrebbe dire di un altro segno in cui la mano probabilmente è parte integrante del segno indicante il nome; anche in questo caso il segno ad esso unito non dovrebbe più essere considerato come un oggetto, ma come un verbo. Figura 11 - 1) Testo G verso riga 4; 2) Testo K recto riga 5; 3) Testo P recto riga 6; 4) Testo Q verso riga 5. Resta da capire quale significato si debba attribuire ai segni che si trovino, congiunti, alla sinistra di un altro segno. Sono altri verbi? Sono aggettivi? Può essere che i Pasquensi usassero talvolta due segni, i quali avessero un valore fonetico tale che, collegati o addirittura uniti insieme, potessero rendere un terzo termine, la cui lettura fosse resa dalla combinazione dei due segni precedenti. Avrebbero in sostanza seguito il principio del rebus; così un mio amico, che si chiamava Strazzabosco, inviando una cartolina o un qualunque messaggio, per scherzo si firmava disegnando uno straccio (in dialetto veneto “strazza”) e tre alberi per rappresentare il termine “bosco”. Non escludo nemmeno che i Pasquensi potessero usare lo stesso principio acrofonico di cui gli antichi scribi Egizi si servivano per scrivere nomi stranieri: in pratica avrebbero potuto disegnare dei segni per rappresentare un nome, difficile da rendere altrimenti, ma che potesse essere riprodotto foneticamente prendendo il primo fonema o la prima sillaba dei termini rappresentati dai segni usati. 18 Ezio Attardo Figura 12 - 1) Testo C verso riga 3; 2) Testo K verso riga 3; 3) Testo P verso riga 3; 4) Testo B verso riga 9; 5) Testo C recto riga 8; 6) Testo G recto riga 2; 7) Testo C verso riga 12; 8) Testo A recto riga 1; 9) Testo C verso riga 12. Così, ad esempio, il segno che rappresenta un ornamento di legno a forma di piroga potrebbe essere stato usato per rendere il valore fonetico /rei/, oppure /vaka/; la mano posta a sinistra potrebbe essere stata usata per il suo valore fonetico /rima/; oppure i segni rappresentanti la piroga o la mano potrebbero essere stati usati per rendere il fonema /r/, o le sillabe /re/ o /ri/. Dobbiamo ancora capire quale sia il significato di numerose sequenze di segni. Ma, usando un po’ di fantasia potremmo già cercare di interpretare qualche sequenza interessante. In una tavoletta troviamo un segno complesso con una mano grande e un fallo: potremmo forse immaginare di avere un nome (un nome proprio?), seguito dal numero “5” + la parola “figli” (probabilmente sottintesa), più il verbo “generò”; nel disegno segue una figura con il fallo, seguita da una mano da sola (quest’ultima forse da interpretare: “essi erano cinque”), seguita a sua volta da una mano con il fallo (che potremmo forse tradurre: “essi cinque generarono”), seguito da fregata, da un altro segno, seguito da un fallo isolato. Figura 13 - Testo I riga 6. 19 Abbiamo dunque trovato la chiave per decifrare la scrittura dell’Isola di Pasqua? Forse non ancora. Tuttavia io confido che gli studiosi che conoscano veramente la lingua rapanui e altre lingue polinesiane, che possiedano il patrimonio letterario trasmesso oralmente dei popoli della Polinesia, della Micronesia e della Melanesia, partendo da quanto ho scritto, possano fare ulteriori progressi nella comprensione di questa enigmatica e affascinante scrittura. 20 Ezio Attardo BIBLIOGRAFIA I disegni utilizzati sono disponibili sul Web e attribuiti a: Barthel 1958 = Barthel thomas, Grundlagen zur Entziferung der Osterinselschrift, Hamburg 1958. Fischer 1996 = Fischer steven r., Rongorongo: The Easter Island Script. History, Traditions, Texts, Oxford 1996, Oxford Studies in Anthropological Linguistics 14. 21 Rocco Ronzani NOTA SUL FRAGM. CLA 1626 DELLE HOMILIAE IN EUANGELIA, 38 DI GREGORIO MAGNO E SUL CODICE CLA 1627 DELL’ARCHIVIO CAPITOLARE DI BARCELLONA* Rocco Ronzani el corso di una ricognizione sulla tradizione manoscritta dei Dialogi di Gregorio Magno (590-604) in area iberica, ho avuto l’occasione di collazionare, un frammento conservato presso l’Archivio Capitolare di Barcellona (CLA 1 1626 ) e già identificato con l’episodio del monaco Teodoro narrato in Dialogi IV, 40 dell’edizione di A. de Vogüé (IV,38 di quella maurina). In realtà il brano trasmette l’episodio del monaco, nella versione che si legge in un’altra opera di Gregorio, la trentottesima delle Homiliae in Euangelia2. Al di là dell’identificazione del testo, che per lungo tempo ha fatto erroneamente considerare il frammento di Barcellona uno dei testimoni più antichi della tradizione manoscritta dei Dialogi, il foglio in pergamena, benché «in poor condition», come lo descrive Lowe, trasmette ancora interessanti elementi di carattere storico e paleografico – più di quanti finora ne siano stati rilevati – ai quali questa nota intende rivolgere l’attenzione. Tali elementi, infatti, ci permettono di ipotizzare che il frammento CLA 1626 sia coevo all’autore dell’opera e di provenienza romana o almeno italiana come potrebbe anche essere italiano – in alternativa all’ipotesi di un’origine francese già avanzata in passato – il codice CLA 1627 nel quale è conservato il frammento. 1 *Desidero dedicare questa nota al professore Anscari Manuel Mundó i Marcet (†25 dicembre 2012). Cf. R. ronzani, “Anscari” Manuel Mundó i Marcet. In memoriam. in “Cultura Neolatina”, 1-2 (2013), p. 5-9. Ringrazio Paolo Cherubini, viceprefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, per la rilettura del testo e i preziosi suggerimenti. E. A. lowe, Codices Latini Antiquiores. A Paleographical Guide to Latin Manuscripts Prior to the Ninth Century, I-XI, Oxford 1934-1966 (d’ora in poi CLA), XI, Oxford 1966, p. 13. 2 Cf. R. ronzani, La tradizione manoscritta dei Dialogi di Gregorio Magno. Nota su una recente ricognizione, in “Augustinianum”, 53/1, 2013, p. 231-260. 23 1. Il testo dell’omelia 38 Il frammento – come è stato già ricordato – riporta l’episodio del giovane Teodoro che, avendo seguito suo fratello in monastero « necessitate magis quam uoluntate », viveva in modo disordinato la sua preparazione alla vestizione dell’abito monastico. Durante una pestilenza Teodoro è colpito dal contagio e ridotto in fin di vita; in punto di morte ha la visione di un drago che vuole divorarlo e condurlo all’inferno, ma viene salvato dalla preghiera di intercessione dei fratelli riuniti intorno al suo capezzale. Il giovane, liberato dalla minaccia del drago e sopravvissuto alla peste, approda infine a una sincera e piena conversione. Negli anni immediatamente precedenti la stesura dei Dialogi, l’esemplare avventura di Teodoro fu impiegata da Gregorio anche nella sua predicazione e ne resta traccia in due Homiliae in Euangelia, le omelie 19, 7 e 38, 16, predicate rispettivamente nella primavera del 591 e nei primi mesi del 5923. Le tre versioni del racconto, quelle dei Dialogi e delle due omelie, sono molto simili dal punto di vista narrativo, mentre testualmente coincidono soltanto in alcune parti e in altre divergono in larga misura, in particolare l’omelia 19 rispetto alla versione presente nei Dialogi e a quella dell’omelia 384. Per un confronto tra le versioni dell’episodio di Teodoro, quelli dell’omelia 38 e dei Dialogi, propongo nello schema sinottico che segue i due racconti, il primo secondo l’edizione del CCL 141 e del frammento CLA 1626 e il secondo nel testo del codice CLA 1627 e dell’edizione di SCh 265. Nella seconda e terza colonna, tra parentesi quadre ho ricostruito il testo che nel frammento è caduto; le parentesi tonde sono impiegate per sciogliere le abbreviazioni ovvero per indicare correzioni presenti nel codice; i corsivi mettono in evidenza le divergenze e altre annotazioni. Sono indicati anche le linee e il cambio di pagina dei testi manoscritti. 3 Cf. GreGorivs maGnvs, Homiliae in Euangelia, cura et studio R. Étaix, Turnhout, 1999 (Corpus Christianorum Series Latina, 141), pp. LXVIIss.. Probabilmente le due omelie furono predicate l’8 aprile 591 e il 27 gennaio dell’anno seguente: cf. GrÉGoire le Grand, Homélies sur l’Évangile, I-II, a cura di R. Étaix - C. morel – B. Judic, Paris 2005-2008 (Sources Chrétiennes, 485, 522), II, p. 16-17. 4 Cf. E. Prinzivalli, Gregorio Magno e la comunicazione omiletica , in Gregorio Magno nel XIV centenario della morte, Atti del Convegno internazionale di Roma, 22-25 ottobre 2003, Roma 2004 (Atti dei Convegni Lincei, 209), p. 116. 24 Rocco Ronzani Homilia 38,16 (CCL 141, p. 377, ll. 456-472). Testo del frammento CLA 1626, f. [1]r-v Cumque extremum spiritum ageret, conuenerunt fratres, ut egressum illius orando protegerent. Iam corpus eius ab extrema fuerat parte praemortuum, in solo tantummodo pectore uitalis adhuc calor anhelabat. […] [egress]um il[lius] orand[o pr|otegerent.] Iam [corpus e]ius [ab | ext]re[m] a fue[r]at parte prae-|[mo] rtuum; in solo tantu[m mo] do |5 [pe]ct[o]re uitalis adhuc [calo-]|r anhelabat. Cuncti autem fratres tanto pro eo coeperunt enixius orare, quanto eum iam uidebant sub celeritate discedere, cum repente coepit eisdem fratribus assistentibus adnisu quo poterat clamare et orationes eorum interrumpere, dicens: Recedite, recedite. Ecce draconi ad deuorandum datus sum, qui propter uestram praesentiam deuorare me non potest. Caput meum in suo ore iam absorbuit. Date locum ut non me amplius cruciet, sed faciat quod facturus est. Si ei ad deuorandum datus sum, quare propter uos moras patior? Tunc fratres coeperunt ei dicere: Quid est quod loqueris, frater? Signum tibi sanctae crucis imprime. Respondebat ille ut poterat, dicens: Volo me signare, sed non possum, quia a dracone premor. Cumque hoc fratres audirent, prostrati in terram cum lacrimis coeperunt pro illius uehementius orare. Testo dell’omelia 38 nel CLA 1627, ff. 259v-260v […]17 Cumque extremum sp(iritu)m a|18geret, convenerunt fratres, || ut egressum illius orando pro-|tegerent. Iam corpus eius ab (corr. ex ad) ex|trema fuerat (iam add. e poi depennato) parte praemor-|tuum; in solo (corr. ex Cuncti autem | fratres tanto sulo) tantum mo-|5do pectopro eo coe-|perunt enixius re uitalis adhuc calor (corr. orare, quan-|to eum iam ex caro) | anhelabat. Cuncti uidebant sub cae-|10leritate autem | fratres tanto pro eo discedere. coepe-|runt enixius orare, Cu(m) repen-|te coepit eis- quanto | eum iam uidebant dem fratrib(us) ad-|sistent- sub cele-|10ritate discedere. ib(us) adnisu quo poterat | Cu(m) repen-|te coepit clamare et orationes eoru(m) eisdem fratrib(us) adsisten| interrumpere, dicens: tib(us) adnisu quo poterat | clamare, et orationes «R[e]ce-|15dite. Ecce eoru(m) | interrumpere, draconi ad deuor[an-]|d[u] dicens: m datus sum, qui propter | uestram praesentiam «Rece-|15dite. Ecce draconi d[e-]|18uorare me non [p] ad deuoran-|dum datus otest. sum, qui propter | uestram [Cap]u[t] || meum in [suo] praesentiam deuo-|18rare me ore i[am absor-|b]uit. Da[te] non potest. l[o]cu[m, ut] non |me amplius cr[uc]ie[t sed fac|] Caput || meum in suo ore iat quod facturu[s est. |5 Si] iam absor-|buit. Date locum ei ad deuorandum [da-]|ut non me | amplius cruciet, tus sum, quare propt[e] sed faci-|at quod facturus r | uos moras patior?». est. Si ei |5 ad devorandum Tunc | fratres coeperunt ei datus | sum, quare propter di-|cere: «Quid est quod uos | moras patior?» loq[ue-]|10ris, frater? Signum tibi | s(an)c(t)ae crucis Tunc fratres coeperunt ei inprime». di-|cere: «Quid est quod Res-|pondebat ille ut loque-|10ris, frater? Signum poter[at], | dicens: «Volo me tibi | s(an)c(t)ae crucis signare, | sed non possum, imprime». quia a |15 dracone praemor». Cu-|(m)q(ue) hoc fratres Res-|pondebat ille ut audirent, | prostrati in poterat, | dicens: «Volo me terram cu(m) |18 l[ac]rimis signare, | sed non possum, coeperunt ||. quia a |15 dracone premor». Cum-|que hoc fratres audirent, | prostrati in terram cu(m) |18 lacrimis coeperunt || […]. 25 Dialogi IV,40,4 (SCh 265, pp. 140-142, ll. 16-36. Cumque extremum spiritum ageret, conuenerunt fratres, ut egressum illius orando protegerent. Iam corpus ejus ab extrema parte fuerat praemortuum, in solo tantummodo pectore uitalis adhuc calor anhelabat. Cuncti autem fratres tanto pro eo coeperunt enixius orare, quanto eum jam videbant sub celeritate discedere. Cum repente coepit eisdem fratribus assistentibus clamare, atque cum magnis uocibus orationes eorum interrumpere, dicens: Recedite. Ecce draconi ad devorandum datus sum, qui propter uestram praesentiam deuorare me non potest. Caput meum in suo ore iam absorbuit. Date locum, ut non me amplius cruciet, sed faciat quod facturus est. Si ei ad deuorandum datus sum, quare propter uos moras patior? Tunc fratres coeperunt ei dicere: Quid est quod loqueris, frater? Signum tibi sanctae crucis inprime. Respondebat ille cum magnis clamoribus, dicens: Volo me signare, sed non possum, quia squamis huius draconis premor. Cumque hoc fratres audirent, prostrati in terra cum lacrimis coeperunt pro ereptione illius uehementius orare. Il confronto mostra con tutta evidenza che il frammento di Barcellona (CLA 1626) non trasmette il racconto di Teodoro presente nei Dialogi, bensì l’episodio narrato da Gregorio nell’omelia 38. Il testo dell’omelia, infatti, presenta ben riconoscibili differenze che, malgrado inevitabili contaminazioni, si sono mantenute stabili nella tradizione testuale. In via preliminare ricordo che il frammento è costituito da un solo foglio (indicato generalmente nei cataloghi e nella bibliografia come f. [1]r-v). Scritto in onciale e datato dal Lowe ai secoli VII e VIII, prima dell’attuale collocazione era inserito insieme ad altri frammenti nel riempimento del piatto posteriore della rilegatura del CLA 1627; attualmente è rilegato all’interno del bifoglio in pergamena che, dopo il restauro del codice, costituisce le carte di guardia iniziali del CLA 1627. Il CLA 1627 trasmette il secondo libro delle Homiliae in Euangelia di Gregorio Magno – compresa l’omelia 38 – e in passato, da Lowe e da altri studiosi, è stato messo in relazione con lo scriptorium dal quale proverrebbe anche il frammento. È per questa ragione che ho pensato di confrontare nella tabella il testo del frammento e quello dell’omelia 38 trasmessa dal codice – che poi è fondamentalmente il testo recepito dall’edizione critica5 – e tale confronto ci consente di rilevare la perfetta corrispondenza testuale. Questi rilievi, sebbene abbiano reso del tutto inservibile il testo del frammento ai fini dell’edizione critica dei Dialogi per la quale ho intrapreso la ricognizione e che costituisce il mio precipuo interesse, tuttavia offrono l’occasione per alcune riflessioni. 2. Il codice delle Homiliae in Euangelia (CLA 1627) Il codice delle omelie gregoriane CLA 1627 (360x280mm., <253x220 mm.>, 18 linee di scrittura) è un manoscritto composito: contiene anche il sermo de mortalitate (ff. 307r-309r; PL 76, 1311-1314) e il decretum Synodi Romanae del luglio 595, con le sottoscrizioni finali del pontefice, di ventitré vescovi e trentacinque presbiteri romani (ff. 309r-315v; MGH Epist., I,1, lib. V, ep. 57, pp. 362-367). Il codice 5 In considerazione dell’antichità del frammento delle Homiliae si può senz’altro revocare in dubbio la lezione con il doppio recedite accolta dall’editore del CCL. 26 Rocco Ronzani è acefalo, ma ben conservato ed è stato restaurato in occasione dell’Esposizione iberoamericana di Siviglia del 1929-1930. Oggetto in passato di varie indagini, il CLA 1627 attende ancora uno studio veramente esaustivo6. Infatti non sono state chiarite la storia del codice, la sua origine e provenienza. Lowe e Mundó lo datano ai secoli VII-VIII – come il frammento CLA 1626 – e ritengono che provenga da uno scriptorium franco, probabilmente situato nella Francia meridionale7. Per Mundó, inoltre, il codice si troverebbe nella biblioteca della cattedrale di Barcellona almeno dal X secolo8. L’origine francese del codice sembrerebbe confermata da alcune correzioni in 6 Cf. J. villanueva, Viage literario á las Iglesias de España, XVIII, Madrid 1851, pp. 88-94 (attribuisce però il f. 1 al sec. X); E. chatelain, Uncialis scriptura codicum Latinorum novis exemplis illustrata, Paris 1901, pp. 72, 84, 93 e passim; W. M. lindsay, Notae Latinae. An Account of Abbreviations in Latin Mss. of the Early Minuscule Period (c. 700-850), Cambridge 1915, passim; R. Gil i miquel, Un código anterior al siglo VIII: Homiliae Sancti Gregorii. Códice en letra uncial de la catedral de Barcelona, in “Revista histórica, investigaciones y bibliografía. Metodologia y enseñanza de la historia”, 1/4 (1918), p. 112-120; P.PuJol i tuBau, El manuscrit de les Homilies de Sant Gregori, de la Catedral de Barcelona, in “Butlletí de la Biblioteca de Catalunya”, 5, Anys 5-6, n. 8 (1918-19), Barcellona 1920, pp. 186-194; C. U. clark, Collectanea hispanica, Transactions of Connecticut Academy of Art and Sciences, 24, 1920, p. 124-127; S. PuiG, Dos codices gregorianos de la cathedral de Barcelona, Reseña eclesiástica, 167-168, 1922, p. 241-248; E. A. lowe, Nouvelle liste de “membra disiecta”, Revue bénédictine, 43, 1931, p. 103-104; Z. García villada, Lecciones de metodología y crítica históricas, Madrid, 1931, p. 225, immagine III (attribuisce il codice al secolo VII); Anscari Manuel mundó, Notes entorn de les butlles papals més antigues, in Homenaje a Johannes Vincke, para el 11 de mayo de 1962, Madrid, 1962-1963, p. 113; A. Petrucci, L’onciale romana. Origini, sviluppo e diffusione di una stilizzazione grafica altomedievale (sec. VI-IX), Studi medievali, 1, 1971, p. 75-134 e tavv. I-XX: p. 94; J. o’callaGhan, Las colecciones españolas de papiros, Studia papirologica, 15/1, 1976, p. 82; A. M. mundó, Les col·lecions de fragments de manuscrits a Catalunya, Faventia, 2, 1980, p. 116-117; Anscari Manuel mundó, Comment reconnaître la provenance de certains fragments de manuscrits détachés de reliures, Codices manuscripti. Zeitschrift für Hanschriftenkunde, Wien, Hefte 3/4, 11, 1985, p. 116-123, a p. 116-117; Jesús alturo i Perucho, El glossari “in Regulam sancti Benedicti” de l’Arxiu de la Catedral de Barcelona, Studia Monastica, 37, 1995, p. 271277; B. BischoFF-V. Brown, Addenda to Codices Latini Antiquiores, Medieval Studies, 47, 1985, p. 317-366; À. FáBreGa i Grau, Catàleg-Inventari general de l’Arxiu capitular de la Catedral de Barcelona, IV (pro manuscripto), Barcelona, 2005, p. 369-385, a p. 369-370. Fàbrega – al quale si deve la descrizione più dettagliata del CLA 1627 e la bibliografia più aggiornata – in riferimento al frammento accetta l’attribuzione tradizionale ai Dialogi gregoriani, ipotizza sulla base delle affermazioni di Pujol i Tubau l’origine dal medesimo scriptorium del codice (cf. P. PuJol i tuBau, El manuscrit de les Homilies de sant Gregori, de la catedral de Barcelona, Butlletí de la biblioteca de Catalunya, 5, 1918-19, p. 186-19), ma rileva anche che il frammento è stato scritto da una mano diversa da quella del codice. 7 Cf. CLA XI 1627 e Add. II p. 306; A.M. mundó, Les col·lecions de fragments, op. cit., p. 116. 8 Cf. A.M. mundó, Les col·lecions de fragments, op. cit., p. 116. 27 scrittura merovingica, elencate da Fábrega nel catalogo inventario della biblioteca di Barcellona9, e dal contenuto della vecchia rilegatura che, insieme al frammento pergamenaceo dell’omelia 38, conservava altri cinque frammenti pergamenacei10 e undici papiracei, databili ai secoli V-VII, tra i quali alcuni frammenti di diplomi regî merovingi11. Purtroppo, nonostante siano stati tante volte citati ed elencati nella bibliografia relativa al codice di Barcellona, anche dei frammenti papiracei non abbiamo una trascrizione e uno studio sistematico, già annunciato da Mundó e che mai ha visto la luce12. L’origine del CLA 1627, pertanto, non può stabilirsi semplicemente in base a dati che necessitano ancora di un serio approfondimento. Lowe, nella sua descrizione nei CLA, non fa alcun cenno alle correzioni in merovingica – che pure non mancano, anche se non sempre corrispondono a quelle identificate come tali da Fábrega13 – ma si limita a rilevare che il codice è «corrected 9 Le correzioni elencate da Fàbrega sono ai ff. 72r, 85v, 93v, 99v, 103v, 104r, 105v, 109r, 111r, 147r, 193r, 202v, 207r, 227r, 250r e altre. Cf. A. FáBreGa i Grau, Catàleg-Inventari general, op. cit., p. 378. 10 La descrizione di cinque frammenti estratti durante il restauro avvenuto in Vaticano nel contesto del restauro dei papiri diplomatici spagnoli sotto Pio XI (intorno al 1927) è offerta da: A. FáBreGa i Grau, Catàleg-Inventari general, op. cit., p. 383. I cinque frammenti sono: il nostro frammento gregoriano; un frammento del Glossarium in Regula sancti Benedicti (che Mundó ritiene essere di area catalana, trascritto nel sec. X, mentre Alturo lo riconduce all’area narbonese e ai secoli IX-X; J. alturo i Perucho, El glossari “in Regulam sancti Benedicti”, op. cit., p. 275); un frammento del sec. X delle Notitiae apostolorum, in carolina con influenze visigotiche; infine, 2 frammenti di cantorali del sec. XVII (inseriti nella rilegatura durante più recenti restauri). 11 Uno dei frammenti papiracei, contenente un passo di Isaia da una delle Veteres Latinae, dopo il restauro è rimasto in Vaticano e attualmente si trova nel codice miscellaneo: Città del Vaticano, BAV, Vat. Lat. 14175, f. 1-3; cf. G. mercati, Alcuni frammenti biblici di antica versione latina. 1. Tre frammenti di Isaia, in Nuove note di letteratura biblica e cristiana antica, Città del Vaticano, 1941 (Studi e Testi 95), p. 95 e 126; A.M. mundó, Les col·lecions de fragments, op. cit., p. 117. 12 Cf. a. m. mundó, Entorn dels papirs de la Catedral de Barcelona, in “Miscel·lània papirològica Ramon Roca-Puig”, Barcellona 1987, p. 221-223. Mundó classifica i papiri come: 2 frammenti (forse di un unico papiro) di un documento in corsiva nuova (V-VI sec.); 2 frammenti (forse di un unico papiro) di un documento regio merovingico di VII sec.; 7 frammenti di papiro con lettere elongate di protocolli, con alcune linee di scrittura in latino sul verso che indicherebbero il riuso del papiro tra VI e VII secolo. La pubblicazione più recente di alcune immagini dei frammenti e di poche altre scarne notizie, in una rivista di divulgazione sul mondo classico, si deve a: M.tudela-Teresa noël, Inventari papirològic de Catalunya (II). Els Papirs de la Catedral de Barcelona, in “Auriga”, 48 (2007), p. 17-19. Il diploma e gli altri frammenti non compaiono nelle Chartae Latinae Antiquiores e neppure fa alcun cenno ad essi il più recente contributo di J. vezin, Un demi-siècle de recherches et de découvertes dans le domaine de l’écriture mérovingienne, in “Archiv für Diplomatik”, 50 (2004), pp. 247-275. 13 Ad esempio, è certamente una correzione in merovingica mentis nel margine destro del f. 147r, ma non lo è quella più estesa che si trova nel margine inferiore del f. 93v. 28 Rocco Ronzani by an Anglo-Saxon reader in the eighth century» e presenta « liturgical formulae in Anglo-Saxon minuscule», come mostra il ricorrente ‘dente di lupo’, e aggiunge che la foratura è tipica dei codici insulari o di influenza insulare, mentre non lo è la fattura della pergamena (CLA 1627). Si può aggiungere che nel codice sono presenti anche ampie correzioni scritte in un onciale di imitazione, di modulo più piccolo e meno curato rispetto all’onciale del testo. I segni di richiamo sono tipici della tradizione insulare (h e p per hic pone)14 a volte accompagnati oppure sostituiti da tratti di penna preceduti e seguiti da vari punti (·/. – :h:·/. – :p:·/.). I numeri dei quaternioni, inoltre, sono posti sull’ultimo foglio, al centro del margine inferiore, non sono preceduti da Q (per quaternio), ma sono preceduti e seguiti da due piccoli uccelli stilizzati. Circa l’antica rilegatura, Pujol che la studiò intorno al 1919 – quindi prima del restauro, avvenuto nel 1927 nell’ambito del progetto di conservazione, voluto da Pio XI (1922-1939), di tutte le bolle papiracee pontificie conservate in Catalogna – descrive in questi termini il frammento: « un full de lletra uncial, d’idèntica estructura als altres del manuscrit»15. A partire dall’affermazione di Pujol – che però esaminò in modo parziale il frammento incollato nella rilegatura e del quale, infatti, offrì soltanto la trascrizione del recto – gli studiosi hanno continuato a ritenere che frammento e codice fossero della stessa epoca e che il frammento contenesse il testo del capitolo 40 dei Dialogi gregoriani. In seguito il giudizio di Pujol sull’identità tra la scrittura del frammento e quella del codice delle omelie è stato sfumato, ma senza mai revocare in dubbio l’identificazione del frammento – che dopo il 1919 non è stato più collazionato – con il testo dei Dialogi16. Armando Petrucci, nel suo studio dedicato all’onciale romana del 197117, tra molti altri prende in esame anche il codice delle omelie gregoriane di Barcellona e il frammento CLA 1626 e in merito alla scrittura dei due testimoni non si esprime più 14 Si veda ad esempio il f. 230r. 15 P. PuJol i tuBau, El manuscrit de les Homilies de sant Gregori de la catedral de Barcelona, p. 187-188. 16 Cf. A. FàBreGa i Grau, Catàleg-Inventari general, p. 369-370. 17 Cf. A. Petrucci, L’onciale romana, si veda nota 3. 29 in termini di identità18. Tuttavia, per Petrucci, i due esempi di onciale « presentano grandi affinità» e conservano: sia pure in uno studiatissimo sforzo imitativo, molte delle caratteristiche più notevoli dell’onciale “lateranense”, quella degli scribi addetti alla riproduzione delle opere che Gregorio intendeva inviare per promuovere la sua politica religiosa e culturale, e cioè il modello imponente, la compattezza della scrittura, il tratteggio pesante e soprattutto i tratti ricurvi aggiunti alle aste orizzontali di E, F, L, T, qui trasformati dall’artificio calligrafico in pesanti ed evidentissimi ritocchi19. Se il giudizio di Petrucci è parzialmente confermato dall’analisi del codice delle omelie e della scrittura delle varie mani, di due o più scribi, che copiarono il codice e che imitarono con l’onciale romana con esiti diversi, riteniamo che la scrittura del frammento mostri evidenti caratteristiche dell’onciale romana originale. A questo punto è lecito chiedersi per quale ragione esistessero nella stessa biblioteca due codici in onciale contenenti la medesima opera di cui uno conservato e l’altro perduto ad eccezione del frammento CLA 1626 oggi nel codice sopravvissuto20. Si possono avanzare molte ipotesi, compresa quella dell’esistenza di più esemplari nella biblioteca di uno scrittorio importante che lavorava non solo per sé ma anche per altri centri ecclesiastici. Tuttavia sembra più semplice pensare che, nel 18 Una testimonianza indiretta dell’origine romana e gregoriana delle caratteristiche grafiche che Petrucci individua per definire l’onciale “lateranense” sarebbe la presenza di tali caratteristiche in codici sicuramente non romani del VII e VIII secolo, che contengono il testo di opere di Gregorio Magno; a nostro parere – scrive Petrucci – tali codici rappresentano vere e proprie “copie imitative” di esemplari prodotti in ambiente romano, A. Petrucci, L’onciale romana, p. 93. 19 Ibid., p. 94. 20 Inizialmente avevo ipotizzato che il testo trasmesso fosse quello dell’omelia 19. Quest’omelia avrebbe dovuto trovare posto in un probabile primo codice di omelie gregoriane che non possediamo più e che poteva essere presente nella biblioteca dalla quale proviene quello superstite. L’analisi del testo però ha escluso che si tratti dell’omelia 19, pertanto, trattandosi evidentemente dell’omelia 38. L’ipotesi dell’esistenza di un codice della prima parte è stata avanzata a suo tempo anche dall’editore critico delle omelie, Raymond Étaix. Il codice di Barcellona è il libro II, cioè la seconda parte delle omelie gregoriane sui vangeli, dalla omelia 21 alla 40, come si può evincere chiaramente dall’explicit delle omelie: «Fauente D(omi)no Iesu Christo | expliciunt omilias XX in secunda | parte super Euang(e)l(i)u(m) | expositio beati Gregorii papae | Vrbis Romae feliciter | utere felix. Amen (f. 306v)». Cf. GreGorivs maGnvs, Homiliae in Euangelia, pp. XXVII-XXVIII. 30 Rocco Ronzani medesimo centro di copia, esistessero due codici della medesima opera perché uno dei due codici era antigrafo dell’altro. Il codice completo delle omelie, che con Petrucci possiamo riconoscere come una copia “imitativa” di un codice lateranense, potrebbe essere stato esemplato proprio su un codice romano di cui ci resta soltanto il frammento CLA 1626, finito in seguito – non possiamo dire esattamente quando – a costituire parte della rilegatura della sua copia, dopo essere stato lungamente usato tanto da divenire logoro e quindi inservibile, donde la necessità di trarne una copia. In via preliminare, tra altre ipotesi che pure non possiamo escludere, si potrebbe anche pensare a due copie simultanee ovvero indipendenti realizzate nell’ambito del medesimo scriptorium, realizzate a partire da un antigrafo comune, scritto forse in onciale o forse no. Infatti, per rendere ancor più complessa la questione, secondo Lowe non si può escludere che, sulla base di alcuni errori (ma egli ne segnala soltanto due), i codici potrebbero essere stati esemplati non su un antigrafo non in onciale, ma in minuscola corsiva21. Non è questo il luogo per affrontare questioni ampie e complesse come il tema dell’onciale romana oppure la differenza tra un modello e una copia imitativa e come riconoscere quest’ultima22. Limitando pertanto l’attenzione ai pochi dati a disposizione, che saranno presto illustrati, l’ipotesi che il frammento CLA 1626 sia il testimone superstite del codice dal quale fu copiato anche il CLA 1627, che oggi lo custodisce, a chi scrive sembra quella meno peregrina. Che poi l’operazione di copia sia avvenuta nel medesimo scriptorium, secondo le comuni indicazioni di Lowe e Petrucci, non è un ostacolo e non è affatto necessario escluderlo, anche se è possibile avanzare più di una ipotesi anche sull’origine dei codici, come in seguito si rileverà. 3. Il frammento dell’omelia 38 (CLA 1626) Nel CLA 1626 (308x246mm., ma è stato evidentemente rifilato, <235x200 mm.>, 18 linee di scrittura; tavole 1-1bis, 2-2bis), sulla base dei dati raccolti da Petrucci 21 «Errors like “rebus” for saeuis, “tascanensis” for tuscanensis suggest an exemplar in minuscule » (cf. scheda CLA 1627). 22 Sui temi di più ampio respiro non posso che rimandare al più volte citato: A. Petrucci, L’onciale romana, op. cit. 31 negli studi sull’onciale romana, si possono riscontrare alcuni dei caratteri che contraddistinguono l’onciale impiegata negli scriptoria dell’Urbe e che Petrucci ha elencato sulla base di un gruppo di manoscritti prodotti certamente a Roma23. In questa sede, non potendo rifare la storia dell’onciale romana, ci limitiamo a ricordarne le caratteristiche più evidenti e tra esse: lo schiacciamento delle forme; la tipica a ‘a foglietta’, angolare e non tondeggiante; l’esecuzione rettilinea della parte superiore degli occhielli di B, P, R (molto evidente anche nell’esecuzione della B di uno dei copisti del codice); la d con il tratto superiore orientato in senso orizzontale. Alla fine delle righe – al contrario di quanto affermato da Lowe per il quale non si può dire nulla a causa della perdita del testo – è distinguibile con chiarezza il diminuendo dell’onciale romana. Non sono presenti lettere soprascritte (attestate però ampiamente nel CLA 1627, in particolare la piccola u soprascritta, tipicamente romana, in forma capitale presente in interlineo: sarebbe un dato rilevante se il CLA 1627 fosse apografo del CLA 1626), ma si possono vedere bene le letterine di modulo minore in fine di rigo: al f. retto l’ultima o di modo (l. 4 della nostra trascrizione); la n di quan|to (l. 8-9); la n di repente (l. 10-11); la desinenza at di poterat (l. 8-9); al f. verso la prima e di re|spondebat (l. 11-12). Un confronto con i codici in onciale scritti tra i secoli V-VIII mostra che il tracciato di alcune lettere, come la S, è molto simile a quello dell’onciale impiegata per scrivere i codici più antichi. Anche il tratto orizzontale della lettera E che, invece di essere centrato, tende a posizionarsi verso la parte superiore della curva, è un segno di antichità, richiamando da vicino il tratteggio dell’onciale old style. Tra le altre caratteristiche della scrittura più antica, nel frammento ricorre anche la netta separazione della L gemina. In generale l’antichità del frammento è suggerita dai tratti rotondi e schiacciati, dall’alta qualità e dalla naturalezza dell’esecuzione. Non ci sono apparentemente segni di interpunzione sul retto, mentre sul verso, appena distinguibili, si notano dei segni all’inizio e alla fine dell’interrogativa: «Quid 23 Cf. A. Petrucci, L’onciale romana, pp. 98-100; P. cheruBini-A. Pratesi, Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo occidentale, Città del Vaticano, 2010 (Littera Antiqua, 16), pp. 103104. 32 Rocco Ronzani est quod loquitur frater?». Non si può dire con certezza se essi – appena distinguibili – siano segni di interpunzione e neppure se siano o meno coevi alla scrittura del testo. Il testo, inoltre, che non è in scriptio continua, presenta una partizione singolare delle parole: ci sono spazi bianchi per distinguere gruppi di parole e le parole che sono all’inizio di una frase presentano in genere delle iniziali di modulo leggermente maggiore rispetto al resto della scrittura. Il testo del CLA 1627 impiega lo stesso sistema di separazione del testo per gruppi di parole separati da spazi bianchi. Faccio anche notare che il codice delle omelie e il frammento presentano lo stesso numero di righe (diciotto) per pagina. Rispetto ai coevi codici in onciale, censiti e studiati da Lowe, si tratta di una particolarità dei soli CLA 1626-1627 che rende i rispettivi fogli dei due codici quasi speculari (tavole 1 e 3, 2 e 3bis). Difficilmente distinguibili sono inoltre alcune lettere presenti in interlineo tra le righe 4 e 5 del recto: si può leggere chiaramente cuncti, ma non le due lettere che seguono. Forse si tratta di una correzione o della riscrittura in interlineo del sottostante cuncti autem che forse già nell’antigrafo era difficilmente leggibile. Escluderei l’ipotesi di una variante, infatti l’unica che si conosca per questa sezione, attestata nella tradizione manoscritta, premette hii a cuncti24. Oltre all’abbreviazione – già segnalata da Lowe come unica – B; per -bus (fratribus adsistentibus al f. retto), è presente quattro volte il trattino abbreviativo sulla vocale per indicare la caduta della m, l’abbreviazione Q; per il -que enclitico (in cumque al f. verso) e SCAE, con un lungo tratto di penna sopra, per sanctae. Un altro aspetto caratteristico dei codici romani in onciale che si riscontra nel frammento, benché il suo stato di conservazione non sia eccellente, è la membrana giallastra e ben lavorata; ben poco invece si può dire circa la foratura e la rigatura, impercettibili a motivo dell’usura del frammento. 24 La variante – che si trova in un codice di IX-X sec. proveniente da Silos e ora a Parigi (Paris, BNF, N.a.l. 2167) – è stata notata da Étaix nell’apparato critico dell’edizione delle omelie. L’editore, tuttavia, non sempre riporta tutte le varianti del CLA 1627. Ad esempio, una correzione nel margine inferiore del f. 93v, in una minuscola insulare, antica, corsiveggiante e non perfettamente leggibile, non si ritrova nell’apparato dell’omelia 29 (GreGorivs maGnvs, Homiliae in Euangelia, p. 249). Nel codice la correzione è indicata a testo da un richiamo (·/.) che precede l’inizio del paragrafo 5 dell’omelia (« Sequitur: Et Dominus … »). Dopo minor est gloria per il correttore seguirebbe: «·/. haec, fratres carissimi, haec diligite, per quae potestis regna celestia possidere », poi segue ancora, di non facile lettura e di difficile comprensione,«auxilia domino nostro Iesu Christo». 33 Per Lowe, come per Petrucci, il CLA 1626 potrebbe essere stato scritto (apparently) dalla stessa mano (o mani) del codice delle omelie gregoriane, ma manifestly nello stesso scrittorio che, tuttavia, egli non identifica (origin uncertain) e che, nel successivo item, la sintetica scheda del CLA 1627 alla quale rimanda, Lowe ricollega genericamente alla Francia meridionale, mediterranea, motivando tale localizzazione sulla base delle conoscenze che abbiamo sui centri scrittori dell’area, senza offrire però alcun dettaglio, e per la presenza nell’ornamentazione delle lettere di volatili simili al pellicano: «the presentation of what may be a flamingo in the initial L seen on our plate would favour a Mediterranean centre». 4. Qualche rilievo e ipotesi sull’origine del codice e del frammento Allo stato attuale delle ricerche, sulla base delle considerazioni preliminari, ritengo che l’origine francese del CLA 1627 avanzata da Lowe non sia da escludere, ma non mi sembra accettabile quella dell’origine meridionale, da uno scrittorio franco, come vuole lo studioso, e neppure quella avanzata da Mundó che localizza il centro di copia nel Rodano inferiore, non lontano dal confine narbonese-visigotico. Infatti, in mancanza di dati sufficienti sulla situazione dell’area meridionale nel corso del VII secolo, non siamo in grado di poter istituire sicuri confronti con altri codici. Quando poi tali confronti diventano possibili, emergono nette differenze tra l’onciale impiegata in quell’area e quella usata per scrivere il CLA 1627. Tra i rari casi di codici in onciale riconducibili con sicurezza alla Francia meridionale si può vedere il CLA 104(a-b)25, il Fulgenzio vaticano degli inizi del secolo VII, copiato forse in Septimania che presenta un’onciale molto diversa da quella del nostro codice, come diversa è l’onciale con la quale sono stati scritti sempre nel sud della Francia due codici più antichi, datati al VI secolo: il CLA 80726 e il CLA 132427, il 25 Cf. CLA 104a: « 267x188 mm. <198x137 mm.> in 23 long lines »; CLA 104b: « 267x188 mm. <200x140 mm.> in 33-34 long lines ». 26 Cf. CLA 807: « 285x203 mm. <233x165 mm.> in 27 long lines ». 27 Cf. CLA 1324: « 290x225-228 mm. <228-240x147-157 mm.> in 27-29 long lines ». 34 Rocco Ronzani Breuiarium Alarici, scritto per Lowe in un importante centro meridionale28. Inoltre, lo stato di progressiva decadenza dell’area meridionale tra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo non ci permette di individuare un centro scrittorio all’altezza di realizzare e usufruire di manoscritti importanti, per forma e per contenuto, come quello delle omelie gregoriane né centri di copia con significative presenze insulari che, invece, come è noto, percorsero e si insediarono nel regno franco ad altre e più alte latitudini29. Il codice di Barcellona, per le grandi dimensioni e per la cura con la quale è stato realizzato, se non si può considerare un prodotto di lusso è certamente un codice notevole, abbastanza corretto dal punto di vista testuale e prezioso per l’edizione critica delle omelie30, molto raffinato per esecuzione della scrittura e ornamentazione, frutto dell’attività di un centro di copia di grande rilievo. La presenza di scribi insulari ovvero educati a scrivere in insulare, ma anche la caratteristica decorazione con pesci e uccelli, spesso affrontati, che coniuga l’influsso della miniatura insulare con quello tardoantico e che sostituisce il semplice grafismo delle lettere, e ancora la presenza di alcune lettere maiuscole31, come la X in tre tratti, sono tutti elementi che indurrebbero a pensare al celebre scriptorium di 28 Anche il CLA 1391 (« 255x187 mm. <210xca. 160 mm.>, foll. 96-100: 180x ca. 140 mm.> in 21-27 long lines »), un codice in onciale scritto in Burgundia nel VII-VIII sec., che presenta il tratto superiore curvo della E forcellato in luogo dell’asta orizzontale, non è assimilabile al tipo di onciale del nostro codice. Molto diversi sono anche i codici in onciale scritti in area insulare (cf. ad esempio i CLA 1353: « 302-305xca. 210 mm. < ca. 255x165-170 mm.> in 2 columns di 30 lines »; 1588: « original dimensions of a folio at least 240x180 mm. <at least 225x140 mm.> in 26 long lines of which 24 survive »). 29 Gli unici scriptoria dei quali si può valutare l’attività sono quelli di Lione, Autun, Auxerre. Si veda il capitolo sull’opera dei monaci celti nel continente europeo di Pierre richÉ, Da Gregorio Magno a Pipino il Breve, in Storia del Cristianesimo. Religione-Politica-Storia. Vescovi, monaci, imperatori (610-1054), 4, a cura di G daGron-Pierre- r.-A. vauchez, ed. italiana a cura di G. cracco, Roma 1999, p. 641-645; sui codici originari dell’area francese cf. CLA, VI, Oxford 1953, p. XIIIss.. 30 Nel codice, tuttavia, mancano numerose pagine e non mancano errori e confusioni: e per i, o-u, b-u, ci-ti. Sul valore per l’edizione critica dell’opera cf. GreGorivs maGnvs, Homiliae in Euangelia, op. cit., p. XXVII-XXIX. 31 Si tratta della lettera A con il tratto centrale spezzato, della G a spirale e della X con il secondo tratto spezzato in due elementi leggermente ricurvi: si vedano ad esempio f. 10r e per la X ogni foglio del codice nel quale ricorre la lettera, in quanto adottata anche nell’onciale del testo. Cf. P. cheruBini-A. Pratesi, Paleografia latina, p. 213. 35 Luxeuil come luogo di copia del CLA 1627 oppure a una delle sue numerose filiazioni, senza escludere un centro di copia dell’Italia settentrionale, legato al mondo colombaniano, forse l’abbazia di Bobbio32 (tavole 4-4bis). Luxeuil, il celebre monastero fondato da san Colombano (Bobbio †615) intorno al 590 nella Burgundia settentrionale, fu per tutto il VII secolo un centro di raffinata cultura, scrittorio per uso locale e per l’esportazione di manoscritti in tutta l’Europa, ma fu soprattutto il cuore pulsante del rinnovamento del continente, di quell’Europa flaccens della quale Colombano vedeva proprio in Gregorio l’augustissimus flos, il punto di riferimento dell’opera di evangelizzazione e di acculturazione romana da parte dei suoi monaci33. È noto che il forte legame spirituale di Colombano e del suo monachesimo con la Roma gregoriana fu rafforzato anche dall’invio a Luxeuil e ad altri centri insulari sul continente di strumenti di evangelizzazione e di acculturazione come i codici prodotti nella Roma gregoriana34, analogamente a quanto Gregorio aveva fatto con 32 Le iniziali zoomorfe sono senz’altro di origine merovingica e sono state recepite in diversi scriptoria italiani, specie del Nord, come appare in codici della seconda metà del VII secolo quali l’Edictus Rotari di S. Gallo (St. Gallen, Stiftsbibliothek, cod. 730, CLA 949), scritto a Pavia ovvero a Bobbio, oppure il Codice di Egino di Berlino (Berlin, Staatsbibliothek zu Berlin, ms. Phillipps 1676), realizzato a Verona, ca. 796-799. Interessante in tal senso è lo studio di Crivello sul più tardo codice delle omelie gregoriane sui vangeli di Vercelli, uno dei più noti codici miniati di età carolingia (F. crivello, Le omelie sui vangeli di Gregorio Magno a Vercelli. Le miniature del MS. CXLVIII-8 della Biblioteca Capitolare, Firenze 2005 (Archivum Gregorianum, 6), si vedano in particolare le pp. 54-55 e tavole XI [f. 76r] e XII [f. 6r] dove compaiono lettere zoomorfe con uccelli, anche affrontati, la cui matrice è senz’altro la stessa delle miniature del codice di Barcellona). Cf. F. mütherich, Les manuscrits enluminés en Neustrie, in La Neustrie. Les pays au nord de la Loire de 650 à 850, Colloque historique international, Rouen 1985, Sigmaringen 1989, p. 319-338; C. nordenFalk, Fish- und Vogel-Buchstaben, in id., Studies in the History of Book Illumination, London, 1992, p. 60-63; P. cheruBini-A. Pratesi, Paleografia latina, pp. 214-215; P. cheruBini, La Bibbia di Danila: un monumento “trionfale” per Alfonso II di Asturie Scrittura e civiltà, 23, 1999, p. 75-131, a pp. 114-115. Fabio Troncarelli – in un recente incontro in cui abbiamo dialogato sul frammento di Barcellona e che ringrazio per il suggerimento – non ha escluso che il codice CLA 1627 possa essere stato scritto a Roma o in un altro importante centro italiano, al più tardi cinquanta anni dopo il suo antigrafo e la decorazione con iniziali zoomorfe potrebbe essere stata aggiunta più tardi. 33 Cf. B. luiselli, La formazione della cultura europea occidentale, Roma 2003 (Biblioteca di Cultura Romanobarbarica, 7), cap. IV, Il VII secolo, p. 245-311: allep p. 289-298; 306-309. 34 Colombano aveva letto la Regula pastoralis e conosceva, almeno per fama, le omelie su Ezechiele. Nell’ep. 1,9 chiede a Gregorio l’invio di una parte del commento al Cantico dei Cantici, dal versetto 4,6 alla fine, che non possedeva e altri testi. Cf. ep. 1, 9 in Sancti Columbani opera, a cura di G .S. M. walker, Dublin, 1957 (Scriptores Latini Hiberniae, 2), p. 10; E. malasPina, Colombano, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. di Berardino, I, Roma 2006, 1115-1116, con ampi riferimenti bibliografici. In merito ai codici in onciale di origine luxoviense, non può essere di certo avvicinato al nostro il codice ginevrino 36 Rocco Ronzani l’invio di codices plurimos nell’Inghilterra evangelizzata dal monaco Agostino e dai suoi compagni35. Gregorio Magno, infatti, nel corso del suo pontificato, si era impegnato a fondo in un grande progetto culturale e realizzò questo vasto impegno anche e soprattutto attraverso l’opera di trascrizione e diffusione dei suoi scritti che sono di gran lunga i testi più diffusi nell’Europa altomedievale, insieme alle altre opere da lui selezionate36. Tale operazione su vasta scala fu realizzata con l’aiuto essenziale e la sovrintendenza dei funzionari dello scrinium lateranense, in collaborazione prima con altri centri scrittori romani, come il monastero celimontano di S. Andrea37, in seguito con centri italiani e scriptoria d’oltralpe che, con i loro codici, hanno via via promosso il progetto culturale gregoriano. Come ho già ricordato, per il CLA 1627 non escluderei un centro di copia italiano come Bobbio. Infatti sappiamo che a Bobbio si scrisse in onciale fino all’VIII secolo e – benché più limitato rispetto a quanto per lungo tempo si è ritenuto – l’influsso insulare fu molto forte, all’origine del monastero, nel VII secolo, per via della presenza dei monaci di Colombano, in seguito, dopo un periodo di influenza franca, grazie al contatto con il mondo insulare garantito dai pellegrini. Ciò spiegherebbe le correzioni fatte sul CLA 1627 da mani educate alla scrittura di quell’area e molto risalenti. CLA VII,**614 (un altro frammento è a Parigi e uno a San Pietroburgo), scritto su papiro e contenente opere di Agostino (« 320xca. 220 mm. <250x160-180 mm.> in 28-33 long lines »). 35 Cf. Beda, Historia ecclesiastica, I,29. 36 Cf. A. Petrucci, L’onciale romana, pp. 85-88; E. colomBi, La presenza dei padri nelle biblioteche altomedievali: qualche spunto per una visione d’insieme, in Scrivere e leggere nell’alto Medioevo, Spoleto, 28 aprile - 4 maggio 2011, 1-2, Spoleto 2012 (Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 59), pp. 1098-1099. 37 Cf. A. Petrucci, L’onciale romana, p. 88. Sul ruolo dello scrinium lateranense si veda il recente lavoro di F. martello, All’ombra di Gregorio Magno, il notaio Paterio e il “Liber testimoniorum”, Roma 2012, pp. 60-103; A. Petrucci, L’onciale romana, p. 88. Il codice modello dell’onciale romana è per Petrucci il celebre ms. di Troyes 504 (Troyes, Btbliothèque Municipale, 504; CLA 838: « 288x230 mm. <ca. 208x155 mm.> in 25 long lines ») della Regula pastoralis gregoriana. Sul codice si veda la recente pubblicazione, in due volumi, uno di studi e l’altro che riproduce il ms., curati dallo stesso A. Petrucci-L. G. G. ricci, Codex Trecensis. La “Regola pastorale” di Gregorio Magno in un codice del VI-VII secolo: Troyes, Médiathèque de l’Agglomération Troyenne, 504. I. Riproduzione fotografica. II. Studi critici, Firenze 2005 (Archivum Gregorianum, 5), in particolare II, pp. 15-29. 37 Dopo le prime generazioni di monaci insulari, Bobbio risentì anche di un forte influsso franco, sotto gli abaziati di Atalano, Bertulfo e Bobuleno, attraverso i monaci provenienti da Luxeuil. È forse a questo secondo influsso che si potrebbero ricondurre gli interventi in scrittura merovingica presenti nel codice se davvero esso fosse bobbiense. Quanto ai frammenti in merovingica, già impiegati nella riempitura del piatto della rilegatura, dove si trovavano insieme al frammento CLA 1626, potrebbero essere giunti dalla Francia e, comunque, non è possibile datarne il reimpiego38. La ragione che spinge a propendere per un’origine italiana piuttosto che francese del codice dipende anche dal confronto con la coeva produzione in onciale della Penisola. Infatti, passando in rassegna gli specimina in onciale, riprodotti nei CLA e che presentano somiglianze con il codice di Barcellona, molti di essi sono tratti da codici riconducibili con ogni probabilità a scriptoria operanti in Italia e alcuni di essi sono cronologicamente vicini al pontificato di Gregorio Magno o anche più antichi. Tra questi ricordo il CLA 159739, un frammento delle Homiliae in Hiezechielem di Gregorio, di origine forse italiana e datato agli inizi del VII secolo, per Lowe poco dopo la pubblicazione dell’opera da parte del suo autore (cioè dopo il 601-60240), proveniente da Corbie e oggi conservato a San Pietroburgo41. Il CLA 85842, un altro codice delle Homiliae in Hiezechielem degli inizi del VII secolo, posseduto dall’abbazia di Fleury fin dai secoli VIII-IX, scritto probabilmente in Italia nel VII secolo e oggi a Berna. Il CLA 102443, commentario biblico di Esichio di Gerusalemme sul Levitico, anch’esso a San Pietroburgo, copiato in Italia nel 38 Cf. P. cheruBini-A. Pratesi, Paleografia latina, op. cit., p. 280. Si vedano anche gli studi di P. collura, Studi paleografici. La precarolina e la carolina a Bobbio, prefazione di G. C. BascaPÉ, Milano 1943; M. Ferrari, Spigolature bobbiesi, in “Italia medievale e umanistica”, 13 (1970), pp. 139-180. 39 Cf. CLA 1597: « 390xca. 290 mm. <290x230 mm.> in 28 long lines ». 40 Cf. F. santi, Homiliae in Hiezechielem, in Enciclopedia Gregoriana. La vita, l’opera e la fortuna di Gregorio Magno, a cura di G. cremascoli-A. deGl’innocenti, Firenze 2008, pp. 163-166. 41 Si tratta del codice Sankt-Peterburg, Rossijskaja Nacional’naja Biblioteka (olim Gosudarstvennaja ordena Trudovogo Krasnogo Znameni Publicnaja Biblioteka im. M.E. Saltykova Scedrina), Lat. F.v.I.1. Cf. GreGorii maGni Homiliae in Hiezechihelem prophetam, a cura di M. adriaen, Turnholt 1971, p. X. 42 Cf. CLA 858: « 335-342xca. 230 mm. <280x210 mm.> in 30 long lines ». 43 Cf. CLA 1024: « estimated original size ca. 400-xca. 310 mm. <293x220 mm.> in 2 colums of 31 lines ». 38 Rocco Ronzani VII-VIII secolo, in cui ricorre una forma di G con il tratto discendente corto, sottile, verticalizzato e terminante a sinistra con un’ansa appena accennata, molto simile a quella del codice delle omelie di Barcellona. Il CLA 32044, Isaia del VII secolo, proveniente da Bobbio, oggi in Ambrosiana. Tra gli altri numerosi specimina dei CLA, databili ai secoli VI-VIII, nei quali ricorrono le caratteristiche dell’onciale del nostro codice – anche se non sempre tutte e contemporaneamente (ad esempio lo stesso tratteggio pesante delle lettere, le forcellature sulle aste orizzontali etc.) – si possono ricordare i CLA: 5145; 15346; 16247; 30948 (scritto a Bobbio49); 31050; 40751; 41152 (questo codice ravennate del VI secolo presenta delle somiglianze con la scrittura del CLA 1627, ma anche differenze notevoli: ad esempio una forcellatura molto tipica dell’asta orizzontale della E, diversa da quella del nostro codice); 435 (dodici frammenti del libro dei Numeri, scritti a Roma tra VII-VIII sec., dati per dispersi da Petrucci nel suo articolo del 1971, ritrovati e conservati oggi in Roma, Biblioteca Vallicelliana, Tomo X-bis)53; 548 (scritto in un’area di influenza di Luxeuil; le scritture distintive in onciale presentano una X molto caratteristica, a tre tratti, come nel nostro codice); 571b54; 60955; 734 e 735 44 Cf. CLA 320: « 275x210 mm. <190x155 mm.> in 25 long lines ». 45 Cf. CLA 51: « 385x290 mm. <280x230 mm.> in 2 columns of 30-31 lines ». 46 Cf. CLA 153: frammento « 210x125 mm. in 2 columns of 30 lines ». 47 Cf. CLA 162: « 355x275 mm. <265x215 mm.> in 2 columns of 23 lines ». 48 Cf. CLA 309: « 300x215 mm. <232x160 mm.> in 22-24 long lines ». 49 Si tratta del codice milanese, Biblioteca Ambrosiana, B 159 sup. dei Dialogi e non dei Moralia come sostiene Lowe dei CLA III, 309. 50 Cf. CLA 310: « 265x185 mm. <205x145 mm.> in 30 long lines ». 51 Cf. CLA 407: « 320x260 mm. <220x190 mm.> in 2 columns of 27 lines ». 52 Cf. CLA 411: « maximum dimensions are 310x226 mm. <240x200 mm.> in 2 columns of 29 lines ». 53 Cf. E. D. Petrella, Frammenti di onciale e minuscola romana, Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, 22, 1911, p. 100-104. Per le misure cf. CLA 435: « the fragments formed part of a handsome ms. at least 445 mm. long, with an estimated width of about 300 mm … »; <ca. 300x200>, 2 colonne di 32 linee. 54 Cf. CLA 571b: « 285x245 mm. <210x195 mm.> in 21 long lines ». 55 Cf. CLA 609: « 257x180 mm. <215x145 mm.> in 28 long lines ». 39 presumibilmente italiani del VI-VII sec.56; 74757 (presenta quasi tutte le caratteristiche dell’onciale del nostro codice, ma è di fattura molto meno raffinata, di origine francese e databile all’VIII secolo, come indica, tra l’altro, la L gemina con i tratti orizzontali uniti). Si possono notare analogie anche tra il CLA 1627 e codici più antichi come il Salterio di Lione dei secoli V-VI, scritto nella miglior tradizione romana in un importante centro scrittorio probabilmente in Gallia58; il CLA 79859 che presenta particolari analogie nel tracciato delle lettere A e G; ancora, i CLA 81660 e 84161 dove compare la X in tre tratti, mentre la T presenta un tratto ricurvo a destra dell’asta orizzontale e una a ‘a foglietta’ dalle forme rotondeggianti diverse da quelle ricorrenti nei nostri due esemplari di Barcellona. Una G simile a quella del codice di Barcellona, ma con il tratto verticale terminante in un ricciolo più pronunciato, è impiegata in un altro codice italiano, il CLA 102462 (VII-VIII sec.). E infine si notano delle somiglianze tra la scrittura del codice e quella del CLA 146963, un codice tardo, legato probabilmente alla corte di Carlo Magno, che per secoli è stato impiegato nelle cerimonie di incoronazione imperiali (molto simile è il tracciato della E e della G)64. Allo stato attuale delle indagini non è possibile escludere le molte ipotesi avanzate, comprese quelle di Lowe e Petrucci ovvero quelle evincibili dalle loro asserzioni, e quindi non si può giungere a conclusioni definitive: esse richiedono il ritorno ai codici in onciale elencati e un loro studio sistematico. Tuttavia, sulla base delle 56 Cf. CLA 735: « 245x220 mm. <205x175 mm.> in 27 long lines »; il CLA 754 è in frammenti. 57 Cf. CLA 747: « calculated size 325x215 mm. <278x170 mm.> in 2 columns of 30 lines ». 58 Cf. CLA 772: « 290x255 mm. <205x205 mm.> in 13 long lines ». 59 Cf. CLA 798: le misure originali sono compromesse, il testo è disposto su 2 colonne di 30 righe. 60 Cf. CLA 816: « 186x145 mm. <155x120 mm.> in 23 long lines ». 61 Cf. CLA 841: « 245x180 mm. <185x135-140 mm.> in several columns of 26 lines ». 62 Cf. CLA 407: « estimated original size ca. 400xca. 310 mm. <293x220 mm.> in 2 columns of 31 lines ». 63 Cf. CLA 1469: « 320x250 mm. <220x145-162 mm.> in 26 long lines ». 64 Anche nel CLA 1629, il noto De baptismo paruulorum di sant’Agostino della biblioteca del Real Monasterio de El Escorial, degli inizi del VII secolo, benché non ci siano affinità con l’onciale del nostro codice, si possono notare lo stesso impiego di cornici puntinate per circoscrivere le correzioni – una specie di box – oppure virgole e altri segni (piccoli cuori) in margine alle righe per segnalare l’uso di citazioni dirette dai testi scritturistici (nel CLA 1627 gli esempi sono numerosi, si vedano i ff. 32r, 41r, 50v, 62v, 63v, 72v, 73r etc.). 40 Rocco Ronzani considerazioni generali e dei dati offerti dal frammento CLA 1626, elementi che riconducono all’onciale dei codici romani più antichi, resta una spiegazione semplice e plausibile che il codice dal quale proviene il frammento CLA 1626 sia più antico del CLA 1627 e che fu copiato, forse, perché usurato al punto da risultare inservibile alcuni decenni dopo la sua confezione: trattandosi di un codice di omelie e non di un’opera antica e desueta se ne deve ipotizzare un uso intensivo nell’ambito della formazione religiosa e per la liturgia. Inoltre, alla luce di quanto finora illustrato, potremmo ritenere non del tutto infondata l’ipotesi che il codice CLA 1627 provenga da uno scrittorio influenzato da quello di Luxeuil, francese ovvero italiano, databile al VII secolo, forse entro la metà. Escludendo invece l’ipotesi di Lowe di un antigrafo in corsiva che a un’analisi diretta del codice non sembrerebe sufficientemente fondata, si deve ritenere che la committenza del CLA 1627 dovette certamente annettere una qualche importanza alla forma esteriore dell’antigrafo tanto da richiederne una copia imitativa, realizzata nella medesima scrittura. E questo poteva accadere solo nel caso in cui le forme esteriori del codice richiamavano immediatamente e ideologicamente l’origine del manufatto: ciò si declinerebbe molto bene con un antigrafo di origine romana e gregoriana. È quindi plausibile che il frammento CLA 1626 abbia fatto parte dell’antigrafo del CLA 1627, cioè di un codice più antico, degli inizi del VII secolo, romano o almeno italiano, e quindi coevo o di poco posteriore al pontificato gregoriano, finito molti decenni dopo a costituire parte della rilegatura del suo apografo. Rocco Ronzani, OSA roccoronzani@gmail.com Istituto Patristico Augustinianum Via Paolo VI, 25 Roma 41 Tav. 1. CLA 1626 f. [1]r: «[egress]um il[lius] - [Cap]u[t]». Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona (Copyright © Arxiu Catedral de Barcelona). Tav. 1bis. CLA 1626 f. [1]r. Particolare. Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. 42 Rocco Ronzani Tav. 2. CLA 1626 f. [1] v: «meum in [suo] ore - l[ac]rimis coeperunt». Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. Tav. 2bis. CLA 1626 f. [1]v. Particolare. Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. 43 Tav. 3. CLA 1627 f. 260r: «ut egressum illius - Caput». Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. Tav. 3bis. CLA 1627 f. 260v: «meum in suo ore - coeperunt». Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. 44 Rocco Ronzani Tav. 4. CLA 1627 f. 190v. Onciale del codice e scritture distintive. Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. Tav. 4bis. CLA 1627 f. 190v. Particolare. Per gentile concessione dell’Arxiu Capitular de Barcelona. 45 Ilaria Morresi LA PRIMA FORTUNA DEL DE RETHORICA DI CASSIODORO. ESTRATTI DALLE INSTITUTIONES IN UN ANTICO ACCESSUS AL DE INVENTIONE CICERONIANO Ilaria Morresi n un articolo del 1976, V. Lagorio ha posto per prima l’attenzione su un manoscritto miscellaneo di argomento retorico, il cod. Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 1588 (R), copiato a Lorsch nel IX secolo, all’interno del quale ha isolato alcuni paragrai delle Institutiones cassiodoree (II 2, 1-13)1. In seguito, R è stato posto in relazione con un gruppo di codici del De inventione, che presentano il medesimo estratto cassiodoreo nonché un più ampio insieme di testi di accessus e commento a Cicerone: il distico Tullius erexit ... ore tubas (Anth. lat. I.2, n° 785), il commento di Mario Vittorino al De inventione e l’anonimo trattato De adtributis personae et negotio, posto tra I e II libro del commento di Vittorino2. Per quanto riguarda l’origine di questa silloge, L. Holtz ha sottolineato come «on a l’impression qu’un éditeur carolingien du De inventione a pris l’initiative d’ajouter ces extraits en tête du manuel. Mais s’il s’agissait d’une initiative plus ancienne, datant de l’époque même de Vivarium? On peut imaginer un élève de Cassiodore recopiant le chapitre des Institutions en tête du corpus de rhétorique»3. Alla ricerca di ulteriori indizi in questo senso, cerchiamo di procedere ancora nello studio di questa ‘iniziativa editoriale’, concentrandoci prima sui testi raccolti nella silloge (che chiameremo K), quindi su tutti i manoscritti che ne conservano traccia, per collocare inine questo gruppo di testimonianze all’interno dello stemma delle Institutiones. 1 Cfr. Lagorio 1976, pp. 43-45. Il capitolo De rhetorica delle Institutiones cassiodoree è edito in Mynors 1937, pp. 97-109. 2 Cfr. HoLtz 1986, p. 293 e nn. 74-75 p. 300; ippoLito 2006, p. xLv e 2009, pp. 183-184 e riesenweber 2015b, I, pp. 193-194; l’associazione tra i testi in esame è stata sottolineata anche da reeve 2006, p. 97. 3 In HoLtz 1986, p. 293. Ippolito, pur senza soffermarsi sull’argomento, ha invece ipotizzato che i manoscritti di tale gruppo discendano «da una silloge di retorica destinata ad un uso scolastico» (ippoLito 2006, p. xLv). 47 I testi di sussidio al De inventione nel corpus K Il primo testo diffuso nei manoscritti K è costituito dal distico Tullius erexit Romanae insignia linguae, / Rethoricas Latio dum sonat ore tubas, edito da Riese in Anth. lat. I.2, n° 7854. I due versi sono tramandati da sei codici K, tutti di area germanica e databili tra X e XI secolo (Wien, ÖNB, philol. 116; Fermo, Bibl. Comunale 16; München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6400; Paris, BNF, lat. 2335; S. Gallen, Stiftsbibl. 820 e Città del Vaticano, Pal. lat. 1588)5, nonché dal più tardo Toledo, Archivo y Biblioteca Capitulares 47-15, sempre subito prima degli estratti dal de rhetorica di Cassiodoro. Il distico è inoltre tradito in associazione con il solo De inventione in altri tre manoscritti, sempre di area germanica, databili al XII-XIII secolo (Firenze, Laur. Plut. 50.20; München, Bayerische Staatsbibl., Clm 14503; Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 11506)6 e alla ine del Laelius de amicitia nel ms. Città del Vaticano, BAV, Vat. lat. 11415, di sec. XV7; un testimone tardo è inine Oxford, Balliol College 248E, copiato nel 1445, dove i due versi si trovano in explicit del De inventione seguiti dalla Rhetorica ad Herennium8. Le Explanationes in Ciceronis rhetoricam di Mario Vittorino compaiono associate agli estratti da Cassiodoro in quattro manoscritti del gruppo K: Wien, ÖNB, philol. 116; Fermo, Bibl. Comunale 16; München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6400 e Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 1588. Gli stemmi dell’opera presentati dai due editori Ippolito e Riesenweber, pur divergenti per altri aspetti, concordano nel collegare tra loro i primi tre codici come testimoni della famiglia β9; quanto al Pal. lat. 1588 (R), che come vedremo per il testo di Vittorino dipende dal ms. Coloniensis ma attinge i capitoli delle Institutiones da una fonte differente, Ippolito nota che negli estratti da Cassiodoro esso «manifesta 4 Cfr. riese 1906, I.2, n° 785 a p. 263 in nota: «Ad Tullium spectant hi quoque versus Sangall. 820 s. X p. 64 et Medicei 50,20, s. XI: Tullius erexit ... tubas»; il distico è censito da Munk oLsen 1982-1989, i, n° 602 a p. 135, ed è stato recentemente studiato da reeve 2006, p. 97. 5 Per le descrizioni dei manoscritti vd. infra. 6 I testimoni sono elencati in ippoLito 2006, p. xLv e ippoLito 2009, p. 184. 7 I versi sono riportati in fondo al manoscritto, al f. 37v: cfr. ruysscHaert 1959, p. 3. 8 Cfr. Mynors 1963, p. 272. 9 Cfr. ippoLito 2006, in particolare l’introduzione alle pp. xi-Lxxxii con riferimenti bibliograici completi (lo stemma è a p. LXVII), e riesenweber 2013, pp. vii-xviii (stemma a p. xi) e 2015b, I, pp. 192-215 (stemma a p. 453). 48 Ilaria Morresi una strettissima afinità» con il testo tradito da β10. Posto che, com’è naturale, i capitoli del de rhetorica sono troppo brevi per permetterci di deinire in modo preciso le caratteristiche del secondo antigrafo del Palatino, sembrerebbe comunque naturale collegare anche quest’ultimo a un codice vicino alla famiglia β. Un elemento notevole a proposito del commento di Vittorino riguarda proprio le Institutiones: Cassiodoro riferisce infatti nel par. 10 del de rhetorica di avere lasciato nella biblioteca di Vivarium un codice con i commenta a Mario Victorino composita, uno con il De inventione e l’opera di Quintiliano, uno con Fortunaziano e inine un corpus comprendente tutti questi testi in un unico volume: Cassiod. inst. II 2.10, pp. 103, 19-104, 15 Haec licet Cicero, Latinae eloquentiae lumen eximium, per varia volumina copiose nimis et diligenter effuderit, et in Arte Rethorica duobus libris videatur amplexus, quorum commenta a Mario Victorino composita in bibliotheca mea vobis reliquisse cognoscor: Quintilianus tamen, doctor egregius, qui post luvios Tullianos singulariter valuit implere quae docuit, virum bonum dicendi peritum a prima aetate suscipiens, per cunctas artes ac disciplinas nobilium litterarum erudiendum esse monstravit, quem merito ad defendendum totius civitatis vota requirerent. Libros autem duos Ciceronis de Arte Rethorica et Quintiliani duodecim Institutionum iudicavimus esse iungendos, ut nec codicis excresceret magnitudo et utrique, dum necessarii fuerint, parati semper occurrant. Fortunatianum vero, doctorem novellum, qui tribus voluminibus de hac re subtiliter minuteque tractavit, in pugillari codice apte forsitan congruenterque redegimus, ut et fastidium lectori tollat et quae sunt necessaria competenter insinuet. Hunc legat qui brevitatis amator est; nam cum opus suum in multos libros non tetenderit, plurima tamen acutissima ratiocinatione disseruit. Quos codices cum praefatione sua in uno corpore reperietis esse collectos. L’interpretazione prevalente comprende nell’ultimo corpus menzionato anche le Explanationes di Vittorino11; come giustamente segnala Ippolito, «può tuttavia ancora sussistere il dubbio che esso contenesse solo il gruppo Cicerone-Quintiliano-Fortunaziano, non solo per l’estensione già notevolissima delle tre opere riunite, ma anche per la posizione relativamente marginale che la menzione di Vittorino occupa nel contesto del passo citato». Ad ogni modo, se anche la conoscenza di Vittorino a Vivarium è ben 10 In ippoLito 2006, p. xL. 11 Cfr. Hadot 1971, n. 9 a p. 74. 49 documentata durante la vita di Cassiodoro, non abbiamo alcun elemento per pensare che proprio a un archetipo vivariense risalga la nostra tradizione del testo12; questo tanto più che la silloge K comprendente gli estratti dalle Institutiones (a una prima impressione possibili indizi dell’origine vivariense del corpus) si è verosimilmente formata a uno stadio più avanzato della tradizione di Vittorino, intorno al citato subarchetipo β. Il terzo testo associato a distico, estratti da Cassiodoro ed Explanationes di Vittorino nei manoscritti K è il trattato anonimo De adtributis personae et negotio13. Si tratta di un breve testo tramandato dagli stessi testimoni manoscritti del commento di Vittorino al De inventione, di cui sin dall’Alto Medioevo era considerato una sezione; già nell’edizione di Halm14, il De adtributis è stato comunque riconosciuto come un trattato autonomo, caratterizzato da uno stile e una tecnica argomentativa molto distanti da quelli di Vittorino. La sua posizione rispetto al testo delle Explanationes contribuisce a raggruppare tutti i testimoni in due famiglie, a seconda che presentino il trattato tra I e II libro (come in tutti i nostri mss. K, afferenti al Coloniensis e al subarchetipo β) o in calce al II libro (come in tutta la famiglia γ). L’ultimo testo da considerare in relazione alla silloge K è il De inventione di Cicerone; in particolare sembra opportuno veriicare se i nostri codici costituiscano o meno un gruppo unitario all’interno dello stemma dell’opera15. In questo ci scontriamo purtroppo da subito con le dificoltà presentate dalla tradizione del De inventione: i testimoni, peraltro numerosissimi (più di duecento censiti da Munk Olsen solo per il periodo 12 Come nota sempre Ippolito, «è possibile che a materiali originari di Vivarium abbia attinto il compilatore del più antico testimone delle Explanationes, il Coloniensis 166, che contiene altri due testi, Fortunaziano e Censorino, menzionati da Cassiodoro [...]», cfr. ippoLito 2006, p. xiii. Hadot 1971, pp. 75-6, ipotizza addirittura che la strana attribuzione del testo di Vittorino a Q. Fabii Laurentii nel ms. di Colonia sia l’esito di una corruttela dovuta a un copista che ha confuso i due nomi di Quintiliano e Vittorino, le cui opere iguravano l’una di seguito all’altra nel codice di Cassiodoro: il Coloniensis 166 (cioè il testimone più autorevole delle Explanationes di Vittorino) deriverebbe così proprio da materiale vivariense. Un’interpretazione di questo genere parrebbe eccessiva (come già sostenuto da riesenweber 2015, I, pp. 57-59), tanto più che l’associazione tra tali testi, tutti trattati retorici composti tra III e IV secolo e molto popolari nella tarda antichità, costituisce un’operazione piuttosto logica, che non ha bisogno di essere necessariamente spiegata come derivante dal modello di Cassiodoro o dalla biblioteca di Vivarium. Segnaliamo comunque per completezza che i codici di Vittorino con gli estratti dalle Institutiones, come si è visto derivanti da un modello β, non presentano alcun contatto a livello stemmatico con il ms. di Colonia. 13 Cfr. le edizioni di ippoLito 2009 e riesenweber 2013, pp. 213-220. 14 Cfr. HaLM 1863, pp. 305-310. 15 Tra i contributi principali sulla tradizione manoscritta del De inventione si segnalano stroebeL 1886; MattMann 1975a e 1975b; winterbottoM 1983; acHard 1994 e da ultimo riesenweber 2009a, passim. 50 Ilaria Morresi compreso tra IX e XII secolo) sono fortemente contaminati, tanto da rendere la costituzione di uno stemma praticamente impossibile16. Anche la distinzione di base tra mss. mutili (i più antichi, caratterizzati da due lunghe lacune a I 62-76 e II 170-174 e da altre omissioni ed errori comuni) ed integri (i primi dei quali collocabili già nel X secolo) risulta valida solo ino ad un certo punto; è anzi stato notato come in molti manoscritti integri il testo di base risulti essere quello dei mutili, integrato in corrispondenza delle lacune grazie a un secondo modello ‘completo’. Il fatto che anche tra i nostri mss. K (comunque non tutti studiati per quanto riguarda il testo del De inventione) alcuni siano stati considerati come mutili, altri come integri e molti come contaminati, non deve quindi stupire particolarmente17. I manoscritti del gruppo K I manoscritti appartenenti al gruppo K presentano gli estratti dal de rhetorica di Cassiodoro in associazione con il distico su Cicerone, il De inventione, il commento di Vittorino e il trattato De adtributis, oppure con parte di questo materiale18. Il fatto che in molti testimoni queste opere esegetiche ‘di sussidio’ siano tramandate in modo parziale non deve stupire, in quanto testi di tal genere sono sempre caratterizzati da una tradizione luida e poco costante; una garanzia dell’antichità e del carattere unitario del materiale esegetico è costituita comunque dalla datazione dei manoscritti completi del corpus, tutti risalenti al X secolo, contro codici ‘parziali’ di XI secolo o posteriori19. 16 Cfr. winterbottoM 1983, p. 99; recentemente lo stesso Riesenweber nella sua edizione delle Expositiones di Vittorino ha segnalato: «Nam quin alteri exstiterint vere integri, alteri mutili integrorum ope expleti, dubium non est; ita autem factum esse, ut interdum pars integrorum cum mutilis consentire videatur, conicere nobis licet. Sed quia non habemus editionem, in qua distinguantur vere integri codices ab expletis, secutus sum E. Stroebel [...]» (in riesenweber 2013, p. xxvii). 17 Ma cfr. riesenweber 2015b, I, p. 194, che sottolinea la vicinanza dei codici della famiglia β di Vittorino al Sangallense 820 proprio per il testo del De inventione (vd. infra). 18 In quasi tutte le descrizioni dei mss. K l’edizione di riferimento citata per gli estratti da Cassiodoro non è quella di Mynors, bensì HaLM 1863, pp. 493-500: nei RLM Halm proponeva infatti un’edizione del capitolo de rhetorica basata sui mss. Würzburg, Univ. Bibl., M. p. misc. f. 5a (cod. W di Mynors, della famiglia Φ) e Bamberg. Patr. 61 (B, identiicato poi da Mynors come testimone principale della redazione Ω). 19 L’unica eccezione, come vedremo, è costituita dal cod. St. Gall. 820, un manoscritto privo del commento di Vittorino ma databile al X secolo. 51 I manoscritti completi, comprendenti in modo unitario distico, De inventione, estratti da Cassiodoro, Explanationes di Vittorino e De adtributis, sono: 1. Fermo, Bibl. Comunale 16 (4.3.1), scritto probabilmente in Austria o in Germania meridionale nel X secolo20. Contenuto del manoscritto: (ff. 1r-2r) cic. inv. II 170-173: Huiusmodi necessitudines ... in necessitate commoditatis21; (f. 2v) Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas; (ff. 2v-6v) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 6v-57r ) cic. inv.; (ff. 57v-127v) Mar. victorin. rhet. I; (ff. 127r-130r) De adtributis personae et negotio; (ff. 130r-154r ) Mar. victorin. rhet. II (senza soluzione di continuità con il De adtributis e senza sottoscrizione). Ad eccezione dell’estratto iniziale, il manoscritto comprende quindi esclusivamente il corpus che abbiamo identiicato come proprio del gruppo K; per quanto riguarda il testo del De inventione, il codice di Fermo è stato preso in considerazione in particolare dall’editore di Vittorino Riesenweber, che ne ha segnalato la vicinanza con il ms. St. Gall. 820 (un testimone parziale del nostro materiale esegetico, per cui vd. infra)22: si tratta di un elemento rilevante, in quanto mette in relazione con la classe dei manoscritti completi del corpus anche l’unico codice ‘parziale’ di X secolo, appunto il Sangallense. 2. Wien, ÖNB, philol. 116, datato alla seconda metà del X secolo e originario della Germania o dell’Austria, è giunto a Vienna dalla Domkapitelbibliothek di Salisburgo nel 180623. Contenuto del manoscritto: (f. 1r) Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas; (ff. 1r-5v) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 6r-59v) cic. inv.; (ff. 59v-128v) Mar. victo- 20 Cfr. le descrizioni di prete 1960, pp. 20-21; ippoLito 2006, pp. xxvi, Lxxvii-Lxxviii e da ultimo riesenweber 2015b, I, n° 8 a p. 108 (cod. A). Il manoscritto, già menzionato a proposito della tradizione di Vittorino in Mariotti 1967, pp. 32-33, è inoltre censito da Munk oLsen 1982-1989, I, p. 172. 21 Questo estratto dal II libro del De inv. (censito in Munk oLsen 1982-1989, I, n° 413 a p. 127), compare come testo di accessus allo stesso De inventione, con minime variazioni, anche nei mss. München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6405, f. 44v (per cui vd. infra); Praha, Státní knihovna ČSR, VIII.H.16 (1634), ff. 39v-40r; Oxford, Bodleian Library, Laud. lat. 49, f. 146r; Paris, BNF, lat. 7774A, ff. 180v-181r. 22 Cfr. riesenweber 2015b, I, pp. 193-195. 23 Cfr. endLicHer 1836, n° xxvii a p. 13, che identiica erroneamente gli estratti dalle Institutiones come tratti dal Dialogus de rhetorica et virtutibus di Alcuino (l’errore sarà poi ripreso a proposito degli estratti cassiodorei nel ms. St. Gall. 820, vd. infra); acad. caes. vindob. 1864 pp. 16-17; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 310; III.2, p. 45; ward 1995, p. 96 e n. 93; ippoLito 2006, pp. xxix, xvL e 2009, p. 183; riesenweber 2015b, I, n° 63 alle pp. 138-139 (cod. E). Sulla provenienza del ms. da Salisburgo si veda inine Forstner 2003, p. 184. 52 Ilaria Morresi rhet. I; (ff. 128v-131v) De adtributis personae et negotio; (ff. 131v-157v) Mar. victorin. rhet. II (senza soluzione di continuità con il De adtributis e senza sottoscrizione); (f. 157v) Invitatio amicae con neumi, inc. Iam dulcis amica venito (n° 9697 Walther), di mano differente. Il testo del De inventione nel ms. di Vienna è stato identiicato come appartenente alla famiglia dei mutili, ma con le lacune integrate in fogli a parte sulla base di un secondo modello integer24. 3. München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6400, datato al terzo quarto del X secolo. Il ms. proviene da Metz o forse da Freising, di cui riporta al f. 1r l’ex libris «Liber sancte Marie sanctique Corbiniani Frisinge», databile al XII secolo25. Contenuto del manoscritto: (f. 1r) Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas; (ff. 1r-5r) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 5v-59v) cic. inv.; (ff. 60r-141r) Mar. victorin. rhet. I-II; tra I e II libro si trova il De adtributis personae et negotio (ff. 114v-117r). Per quanto riguarda il testo di Cicerone, anche di questo manoscritto è stata segnalata la vicinanza a St. Gall. 820; secondo Achard si tratterebbe nella fattispecie di un codice integer contaminato con il Sangallense26. rin. I manoscritti che presentano distico, estratto da Cassiodoro e De inventione (omettendo quindi il testo delle Explanationes di Vittorino e ovviamente il De adtributis) sono: 4. Paris, BNF, lat. 2335-IV, un manoscritto originario della Germania e datato all’XI secolo27. Il codice comprende sei differenti unità datate dall’XI al XIII secolo e riunite al più tardi nel XIII secolo. La quarta unità, ff. 106-138, comprende: (ff. 106v-107r) Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas seguito da cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 107v-138v) cic. inv. Omogenee rispetto alla IV unità e copiate dalla stessa 24 Cfr. Mužik 1893 e 1895 (ms. Z1); MattMann 1975a, pp. 290-91, MazaL 1982, p. 74, acHard 1994, p. 41 e da ultimo riesenweber 2015b, I, pp. 193-195. 25 Cfr. HaLM 1873, p. 104; danieL 1973, n° 42 pp. 149-150; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 230; ippoLito 2006, pp. Lxxix-Lxxx; kLeMM 2004, p. 87; gLaucHe 2011, pp. 186-188 e da ultimo riesenweber 2015b, I, n° 27 alle pp. 118-119 (cod. F). 26 Cfr. acHard 1994, pp. 39-40 e ancora riesenweber 2015b, I, pp. 193-195. MattMann 1975b, pp. 287-88, considerava invece München Clm 6400 semplicemente come un codice integer. 27 Per la descrizione del ms. cfr. Lauer 1940, pp. 412-13; vernet 1957, p. 17; peLLegrin 1960, pp. 31-32; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 252. 53 mano sono la V e la VI, comprendenti rispettivamente la Rhetorica ad Herennium (ff. 139-160) e il De oficiis (ff. 161-179). 5. St. Gallen, Stiftsbibl. 820-III, copiato a S. Gallo a ine IX-inizio X secolo28. Il manoscritto è distinto in tre unità codicologiche, datate la prima (ff. 1-30 con il commento boeziano alle Categorie di Aristotele) alla seconda metà del IX, la seconda (ff. 31-62 con il De dialectica di Boezio) e la terza (ff. 63-176) al X secolo29. La terza unità codicologica comprende: (f. 63) notk. baLb. De exilio (un’inserzione successiva, databile all’XI secolo); (f. 64) Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas; (ff. 64-71) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 72-172) cic. inv.; (ff. 172-176) cic. inv. I 36, 62 – I 41, 76. Per il testo del De inventione, il ms. St. Gall. 820 è considerato uno dei principali testimoni mutili; l’estratto copiato ai ff. 172-176 costituisce proprio l’integrazione, di poco posteriore al resto del codice, della prima lacuna propria di questa famiglia (I 62-76), in corrispondenza della quale al f. 103 si legge la nota videtur deesse hic aliquid30. Da ultimo, i manoscritti comprendenti solamente gli estratti dal de rhetorica in associazione con il De inventione di Cicerone sono: 6. Kassel, Landesbibl. 4° philol. 3-I, della seconda metà dell’XI secolo, proveniente da Fulda31. Contenuto del manoscritto: (ff. 1rv) cassiod. inst. II 2, 10-13; (ff. 2r-84v) cic. inv.; (ff. 84v-86v) cassiod. inst. II 2, 1-1032; (ff. 87r-88r) De adtributis personae et negotio, 28 Il codice è stato studiato in modo approfondito; tra i più recenti contributi, a cui si rimanda per riferimenti bibliograici completi, si ricordano Munk oLsen 1982-1989, I, p. 285; cb II, n° 57 alle pp. 201-202; bergMann-stricker 2005, I.2, p. 558, in cui (come già nel catalogo di scHerrer 1875, p. 277) gli estratti dal de rhetorica di Cassiodoro, ff. 64-71, risultano ancora identiicati come Dialogus de rhetorica et virtutibus di Alcuino (per un errore che risale in ultimo al catalogo dei mss. viennesi di Endlicher, vd. supra). 29 Ma si noti che Munk oLsen 1982-1989, I, p. 238, distingue solamente due unità codicologiche: la prima ai ff. 1-62 (con entrambe le opere di Boezio) e la seconda ai ff. 63-176. 30 L’estratto è erroneamente catalogato da bergMann-stricker 2005 come De optimo genere oratorum, mentre viene identiicato in modo corretto da Munk oLsen 1982-1989, I, p. 286. Sul testo di Cicerone nel Sangallensis cfr. anche winterbottoM 1983, p. 99; acHard 1994, p. 37 e ancora riesenweber 2015b, I, pp. 193-195. 31 Descrizione in struck 1930, pp. 4-6 e 22-23; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 189; broszinski 1985, pp. 128133; riesenweber 2015b, I, n° 66 alle pp. 142-143. Sul codice si veda anche o’daLy 2015a, p. 41, che sottolinea la presenza di deinizioni e diagrammi sulla retorica analoghi a quelli dei mss. Chartres, Bibliothèque municipale 62 e München, Bayerische Staatsbibl., Clm 14272 (per cui vd. infra), ricondotti dalla studiosa alla scuola di Fulberto di Chartres. 32 Il primo breve testo Inst. 104,16-106,16 (f. 1rv del manoscritto) costituisce chiaramente la conclusione dell’e- 54 Ilaria Morresi pp. 213,2-16 ed. Riesenweber (Cum sint undecim ... et habitus [est]); (ff. 88v-89r) diagrammi di argomento retorico; (f. 89v) bianco; (ff. 90r-131r) boetH. diff. top.; (ff. 131r-146r) boetH. divis. Subito dopo gli estratti del de rhetorica di Cassiodoro (ff. 84v-86v), il ms. presenta dunque ai ff. 87r-88r un frammento dal De adtributis personae et negotio33, seguito ai ff. 88v-89r da diagrammi di argomento retorico tratti dalle Explanationes di Vittorino, Cicerone e Cassiodoro (Quidam civilis ratio facultas [...]; Partes genus cause [sic] status vel constitutiones vel quaestiones quae sunt vel extra scriptum [...])34. Struck ipotizza su base paleograica che questi tre testi costituiscano inserzioni più tarde rispetto al resto del codice, mettendo in relazione in particolare estratti da Cassiodoro e diagrammi inali (per il testo del De adtributis parla di un «Fragment gebliebenes späteres Einschiebsel», che risulterebbe ad ogni modo compreso tra due testi scritti dalla medesima mano)35. In questo modo anche nel ms. di Kassel sembrerebbe riproporsi, anche se in una forma un po’ particolare, l’associazione di De inventione, estratti da Cassiodoro e De adtributis tipica del gruppo K. 7. Milano, Bibl. Ambr. M 58 sup., di origine italiana, scritto nell’XI secolo36. Contenuto del manoscritto: (ff. 1r-3v) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 3v-41r) cic. inv.; (ff. 41r-76r) Rhet. Her.; (ff. 76r-80v) boetH. diff. top. IV, senza titolo37; (f. 80v) isid. orig. II 23. 8. München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6405, di XI secolo, originario della Ger- stratto principale riportato ai ff. 84v-86v (esattamente la prima metà del fasc. XI, un ternione comprendente i ff. 8489 in cui il testo cassiodoreo si interrompe proprio alla ine del f. 86v – dopo il quale, però, almeno in riproduzione non sembra di scorgere alcuna traccia di caduta di fogli; a sua volta il f. 1 corrisponde al primo foglio del fasc. I, un quaternione comprendente i ff. 1-8). Forse proprio per questo sconvolgimento, Munk oLsen 1982-1989, I, p. 189, nell’identiicare le due sezioni del manoscritto con il nostro estratto cassiodoreo le segnala con un punto interrogativo; una spiegazione plausibile è che la parte conclusiva del testo, omessa alla ine del f. 86v, sia stata copiata su un foglio lasciato bianco all’inizio del manoscritto. 33 L’estratto è identiicato con il n° 468a da Munk oLsen 1982-1989, I, p. 189. 34 Sulla diffusa presenza di diagrammi nei manoscritti del De inventione, tratti perlopiù dalle Explanationes di Vittorino (ma anche da Cassiodoro e da Boezio) e testimoni dello studio attivo dell’opera da parte dei suoi lettori medievali, cfr. o’daLy 2015b, passim, nonché la descrizione di un manoscritto del De inventione da poco rinvenuto: http://prphbooks.com/wp-content/uploads/2017/03/Cicero-11th-century-ms.pdf. 35 Cfr. struck 1930, p. 22: «Vielleicht stehen mit dem Cassiodor-Teil auch die rhetorischen Schemata auf Blatt 88v-89r in irgend welchem Zusammenhang, da sie offenbar von derselben Schreiberhand herzurühren scheinen». 36 Cfr. rivoLta 1933, n° 61 a p. 29; gengaro-viLLa gugLieLMetti 1968, p. 36; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 225. 37 Si tratta del testo identiicato da Munk Olsen con il n° 499, la cui presenza lo studioso rileva in altri 17 codici ciceroniani (ma in nessun altro ms. K), cfr. Munk oLsen 1982-1989, I, p. 132. 55 mania e giunto alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco da Freising, il cui ex libris si trova al f. 1r 38. Il manoscritto consta di tre unità codicologiche, contemporanee e omogenee, ai ff. 1-44; 34-51 (mutila dell’explicit); 52-90. Contenuto del manoscritto: (ff. 1v-3r) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 3v-43v) cic. inv.; (f. 43v) waLaHFr. strab. carm. 10 (Pars est rhetorice ... formula quintum, ed. E. Dümmler in MGH Poetae II, p. 359, n° 13716 Walther)39; diagrammi di argomento retorico (Civilis ratio [...]; Ratio [...]) in parte tratti dalle Explanationes di Vittorino; (ff. 43v-44r) notk. baLb. De exilio40; (f. 44r) diagramma di argomento logico (Substantia generalissima [...]); (f. 44v) cic. inv. II 57,17058,174 (Huiusmodi necessitudines ... expectare oportebit)41; (ff. 45r-51v) Mar. victorin. rhet., pp. 84,27-99,13 ed. Riesenweber; (ff. 52r-89v) boetH. arithm.; (f. 90r) tabula afinitatum; (f. 90v) diagramma di aritmetica. 9. München, Bayerische Staatsbibl., Clm 14272, copiato in Francia all’inizio dell’XI secolo42. Il manoscritto, una miscellanea di testi sulle arti liberali, consta di 7 unità più o meno contemporanee, assemblate sempre nell’XI secolo dal monaco Hartwic di St. Emmeram probabilmente a Chartres; è stato poi donato, forse dallo stesso Hartwic, al monastero di St. Emmeram di Ratisbona. L’unità che ci riguarda direttamente è la II (ff. 65-92), comprendente: (f. 65r) diagrammi di argomento retorico43; cassiod. inst. II 2, 1-3; 11-15; (ff. 65v-91r) cic. inv.; (ff. 91v-92v) bianchi. Holtz si è soffermato sugli estratti dal de rhetorica di Cassiodoro presenti in questo codice 38 Cfr. HaLM 1873, pp. 105-106; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 231; gLaucHe 2011, pp. 199-202; riesenweber 2015b, I, n° 69 alle pp. 143-144. 39 Questi versi, identiicati da Munk oLsen 1982-1989, I, p. 131, con il n° 482, compaiono anche in un altro ms. ciceroniano, il Laur. Plut. 50.12. 40 Si noti che il medesimo testo De exilio di Notkero Balbulo si trova anche al f. 63 del ms. St. Gall. 820 (vd. supra), in cui costituisce un’aggiunta di XI secolo. 41 Si tratta di una delle lacune tipiche dei mss. mutili del De inventione, identiicata da Munk oLsen 1982-1989, I, p. 127, con il n° 413a. 42 Il manoscritto è stato studiato in modo approfondo; tra i contributi principali si segnalano HaLM 1876, pp. 152; biscHoFF 1967, pp. 80-81; passaLacqua 1978, n° 397 alle pp. 176-177; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 232; risM 1986, pp. 110-113; HeLMer 2011, pp. 34-43; o’daLy 2015a, pp. 40-41 e riesenweber 2015b, I, n° 70 alle pp. 144145. 43 Il diagramma sulla ratio disposto sul margine superiore è in gran parte sovrapponibile a quello copiato nel ms. München, Bayerische Staatsbibl. Clm 6405, f. 43v; gli schemi sul margine laterale sono invece quelli del De rhetorica cassiodoreo, §§ 3 (genera causarum), 7 (controversia) e 11 (rhetorica argumentatio). 56 Ilaria Morresi sottolineando come il testo, originariamente mutilo alla ine del § 3 (p. 98, 15), sia stato completato in tempi successivi; la seconda mano ha riconosciuto la provenienza degli estratti e li ha quindi integrati copiando direttamente le Institutiones nella loro redazione autentica (evidentemente il testo che aveva a disposizione) nella sezione II 2, 11-15 (Inst. pp. 104,16-107,21 Rethorica argumentatio tractatur [...]. Argumentatio dicta est quasi argutae mentis oratio ... et pars esse non potest; il diagramma iniziale è riportato nel margine laterale destro)44. Per quanto riguarda invece il testo di Cicerone, il ms. München 14272 è identiicato come integer e deinito «une belle illustration de la tradition complète»45. 10. Città del Vaticano, BAV, Vat. Ottob. lat. 1190, copiato probabilmente in Italia settentrionale nel XII secolo46. Contenuto del manoscritto: (ff. 1r-64r) cic. inv.; (ff. 64v-66v) cassiod. inst. II 2, 1-13 (expl.: cum periculo capitis non, p. 106,16); (ff. 67r-131v) Rhet. Her. A proposito degli estratti da Cassiodoro, Holtz ha notato che nel manoscritto due lacune proprie della redazione Φ delle Institutiones (Inst. p. 100,14-15 absoluta est quae ... quaestione, comune anche a Ω, e p. 101,17 alius quoque ... non scriptum est, comune anche a Δ)47 sono integrate nel codice direttamente a partire da Cicerone48: il copista era quindi ben cosciente del rapporto tra l’accessus e il testo principale. 11. Milano, Bibl. Ambr. E 59 sup., datato all’ultimo quarto del XII secolo e originario della Francia49. Il ms. comprende due elementi codicologici contemporanei e omogenei, il primo (quello che ci interessa) ai ff. 1-68, e il secondo ai ff. 69-140. Contenuto del manoscritto: (ff. 1v-2r) cassiod. inst. II 2, 11-13 (pp. 105,1-106,16: Argumentatio dicta est quasi argutae mentis oratio ... non dubitavit occidere); (ff. 2r-68r) cic. inv.; (ff. 44 Cfr. HoLtz 1986, p. 293 e n. 83 a p. 301. Il codice era già citato in quanto comprendente estratti dalle Institutiones da Mynors 1937, p. xxxv in nota, insieme ai già menzionati mss. Kassel. 4° philol. 3-I e München Clm 6405. 45 Cfr. MattMann 1975b, p. 288 e acHard 1994, pp. 39-40, che segnala come il testo corrispondente alla prima lacuna dei mutili (I 62-76) nel codice di Monaco sia molto vicino al complemento aggiunto in St. Gall. 820 per colmare la lacuna. 46 Cfr. le descrizioni in McLbv 1975, pp. 470-71 e Munk oLsen 1982-1989, I, p. 293. Il manoscritto è stato studiato da de LacHenaL 1997, p. 550, per le due illustrazioni presenti ai ff. 66v e 68v, rappresentanti rispettivamente la Retorica che offre un libro a Cicerone e Orfeo che incanta la creazione con la sua musica. 47 Sulle varie redazioni del II libro delle Institutiones vd. infra. 48 In HoLtz 1986, n. 76 p. 300. Una situazione simile si veriica nel diagramma sugli status rationales (inst. II 2,4 p. 99,3-8), integrato con materiale tratto da cic. inv. I 10 nel ms. München, Staatsbibl., Clm 6400 (f. 2r). 49 Cfr. sabbadini 1903, pp. 270-71; cipriani 1968, p. 40; gengaro-viLLa gugLieLMetti 1968, p. 76; Munk oLsen 1982-1989, I, p. 224. 57 69v-128v) Rhet. Her; (ff. 128v-138r) boetH. diff. top. IV50; (ff. 138r-138v) componimenti poetici latini copiati a ine XII-inizio XIII secolo, inc. Quenam summa boni; Versiicaturo quedam (nn° 15065 e 20244 Walther). L’estratto dal de rhetorica in questo manoscritto risulta più breve che negli altri testimoni K, cominciando a Inst. p. 105, 1 anziché a 97, 5: l’interruzione alla ine del par. 13 e l’associazione con il De inventione sono comunque garanzie suficienti per quanto riguarda l’appartenenza al gruppo. 12. Un caso particolare è inine costituito dal già noto ms. Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 1588 (il codice R di Lagorio), l’unico testimone degli estratti dal de rhetorica privo del De inventione di Cicerone. R comprende51: (ff. 1r-25r) Fortun. rhet. I-III; (ff. 20v-31r) ps. aug. rhet.; (ff. 31r-38v) ps. aug. dialect.; (f. 39v) Anth. lat. I.2 R., n. 785: Tullius erexit romanae isignia [sic] linguae rhetoricas latio dum sonat ore tubas; (ff. 39v-41v) cassiod. inst. II 2, 1-13; (ff. 42r-103r) Mar. victor. rhet. I; (ff. 103r-105v) De adtributis personae et negotio52; (ff. 105v- 131r) Mar. victor. rhet. II; (ff. 131r-145v) cens. De die natali; (ff. 145v149) ps. cens. frg. Il Pal. lat. 1588 è stato identiicato da Lindsay e poi da Lowe53 come codice descriptus di Köln, Dombibliothek 166 (olim Darmstadiensis), di VIII secolo, per antichità e qualità del testo il più autorevole testimone conservato delle Explanationes in Ciceronis Rhetoricam di Vittorino54. Solo i nostri ff. 39-41, con l’estratto da Cassiodoro, sarebbero stati aggiunti successivamente e risulterebbero privi di ogni contatto con il ms. di Colonia: è verosimile che R li abbia derivati da un manoscritto appartenente ap- 50 Lo stesso estratto che abbiamo incontrato ai ff. 76r-80v del ms. Milano, Bibl. Ambr. M 58 sup., per cui vd. supra. 51 Descrizioni accurate del manoscritto si trovano in McLbv 1982, p. 247 e riesenweber 2015b, I, n° 53 alle pp. 135-136; si vedano inoltre Munk oLsen 1982-1989, i, p. 329; biscHoFF 19892, pp. 40, 74-75, 81, 92, 130-131; biscHoFF 1998-2014, ii, n° 6586 a p. 419; ippoLito 2006, pp. xxxviii-xLi. Il codice presenta al f. 149v l’ex libris dello scriptorium di S. Nazario di Lorsch e secondo Munk Olsen potrebbe corrispondere al Lib. de rhetorica Favii Laurentii dell’inventario III di Lorsch (n° 417 in Häse 2003, p. 165). 52 Il testo, su cui torneremo più avanti, è stato recentemente edito in ippoLito 2009 e riesenweber 2013, pp. 213-220. 53 Cfr. Lindsay 1924, p. 17, e CLa VIII, p. 39. 54 Dopo Lindsay, il rapporto tra la sezione più antica del Pal. lat. 1588 e il codice di Colonia (D) è stato ripreso in considerazione e ulteriormente deinito: ippoLito 2006, pp. xxxviii-xLi, pensa alla dipendenza del Palatino da «un perduto codice che, pur derivando forse da D, era stato corretto e integrato» (secondo la tesi propugnata da rapisarda 1989, passim e in particolare p. 25, in relazione al testo di Censorino); favorevole all’ipotesi di una dipendenza indiretta del Palatino da D, tramite due copie intermedie φ e ψ, è anche riesenweber 2015a, pp. 32-33 e n. 33 e 2015b, I, pp. 175-179. Per riferimenti bibliograici sul ms. Coloniensis cfr. ippoLito 2006, pp. xxxvii-xxxviii e Lxxiii-Lxxvi; riesenweber 2015a, passim, e 2015b, I, n° 17 alle pp. 113-114. 58 Ilaria Morresi punto al gruppo K, sulla cui precisa composizione non abbiamo più alcuna notizia. Su queste basi, non crea alcuna dificoltà il fatto che R non presenti (come invece avviene in tutti gli altri codici K) il De inventione di Cicerone: il testimone K sarà infatti costituito non dal manoscritto conservato, bensì dal secondo (e perduto) antigrafo da cui R ha copiato gli estratti cassiodorei ai ff. 39-41. A questo elenco di manoscritti K è inine possibile aggiungere alcuni codici successivi al sec. XII (dunque non compresi nel censimento di Munk Olsen); tra di essi si segnalano in particolare Ajaccio, Bibl. Mun. 85 (s. XV) e Toledo, Archivo y Biblioteca Capitulares 47-15, ff. 11v-16v (s. XIIIexpl.)55. L’estratto dal De rethorica di Cassiodoro nei manoscritti K: Un ulteriore ‘testo interpolato di transizione’? Com’è noto, R. A. B. Mynors nella sua edizione del 1937 ha identiicato tre distinte redazioni delle Institutiones saecularium litterarum di Cassiodoro56: la prima, Ω, circola in unione con il primo libro (le Institutiones divinarum litterarum) ed è stata riconosciuta come ‘redazione autentica’, corrispondente al punto di arrivo del processo redazionale d’autore; le altre due forme testuali Φ e Δ, comprendenti il solo II libro, incorporano interpolazioni sicuramente successive alla morte di Cassiodoro (post 580), ma che risultano inserite su un testo più antico rispetto a Ω. Grazie ai successivi interventi di van de vyver 1941, courceLLe 1942 e HoLtz 1986, il testo-base di ΦΔ (ω) è stato quindi identiicato con il brouillon iniziale di Cassiodoro: da un lato, il punto di partenza del progressivo rimaneggiamento autoriale (ramo sinistro dello stemma, che tramite un’ulteriore fase intermedia ω1 porta al testo ‘autentico’ Ω), dall’altro il testo su cui si sono 55 Il ms. di Ajaccio è già citato in HoLtz 1986, p. 300. Quello di Toledo comprende il De inventione di Cicerone (ff. 8r-11v) e la Rhetorica ad Herennium (ff. 16v-25r); in posizione intermedia tra questi due testi (ff. 11v-16v), la sola descrizione di d’aLverny 1968, p. 314 registra la presenza del distico Anth. Lat. I.2, n° 785: Tullius erexit ... ore tubas (f. 11v) seguito da cassiod. inst. II 2, 1-2, mutilo all’altezza di p. 98, 1: Partes igitur rhetoricae sunt quinque (f. 16v). 56 Cfr. Mynors 1937, pp. ix-Lvi. 59 innestate le interpolazioni successive, almeno in parte risalenti sempre all’ambiente vivariense (ramo destro dello stemma, in cui da una stessa copia interpolata del brouillon, detta II, discendono tanto Φ quanto, a seguito di un ulteriore rimaneggiamento III, Δ)57. Dopo aver collazionato l’estratto dal de rhetorica di Cassiodoro in R, Lagorio ha rilevato che, tra le tre redazioni principali delle Institutiones saeculares, il Palatino si accordava sempre con il testo ΦΔ contro Ω58, comportandosi come un estratto della redazione II 57 Tra i più recenti contributi sulla tradizione manoscritta delle Institutiones, primariamente incentrati sulla natura e le caratteristiche dei testi interpolati in relazione all’ambiente d’origine vivariense, ricordiamo almeno orLandi 1981; HoLtz 1986; troncareLLi 1998; HaLporn-vessey 2004 e più recentemente stoppacci 2012, 2015, 2017a e 2017b; pecere 2014 e troncareLLi 2016. 58 Lagorio cita anche «a few cases in which R agrees with Ω against both Φ and Δ», presentando come «typical instances» Inst. 102, 1 propterea quia ΩR] propterea qui ΦΔ e 106, 7 adicit ΩR] addicit Φ : addidicit Δ. A seguito di una nuova collazione del Palatino ad ogni modo il secondo caso viene a cadere (R presenta la stessa lezione addicit di Φ), mentre non emerge alcuna altra lezione comune ΩR contro ΦΔ: l’unico caso rimarrebbe quindi il quia di Inst. 102, 1 propterea quia] propterea qui ΦΔ, in cui in realtà diversamente da quanto registrato nell’edizione di Mynors i mss. Φ WAm presentano anch’essi la lezione corretta quia, mentre il quarto codice P è assente a seguito della caduta del bifoglio centrale del primo fascicolo; in questo modo la lezione propterea qui viene dunque ad aggiungersi alle (numerose) innovazioni proprie della sola seconda redazione interpolata. Gli accordi ΦΔ contro Ω nei §§ 1-13 del de rhetorica (Inst. pp. 97,6-106,16), in cui per l’appunto R concorda sempre con le redazioni interpolate contro il testo ‘autentico’, sono invece: Inst. 98, 11 in accusatione Ω] in accusatione et defensione ΦΔ R; 98, 11 acceptione Ω] petitione ΦΔ R; 99, 13 sunt Ω] sunt V (sive quinque) ΦΔ R; 100, 8 oportet aut Ω] oportet aut non cum eo quicum oportet aut ΦΔ R; 100, 10 dicitur Ω] adicitur ΦΔ R; 100, 19 probavimus Ω] probabimus ΦΔ R; 101, 3 lacessitus sit Ω] lacessierit ΦΔ : lacesserit R; 101, 17 aliud quoque quod non scriptum est om. ΦΔ R; 102, 3 statubus Ω] statibus ΦΔ R; 103, 2 anceps est] anceps ΦΔ R; 103, 6 cernitur implicata Ω] implicata est ΦΔ R; 103, 22 a bibliotheca Ω] in bibliotheca ΦΔ R; 103, 23 tamen Ω] etiam ΦΔ R; 104, 10 redegimus Ω] redigimus ΦΔ R; 104, 16 ita tractatur Ω] tractatur ΦΔ R; 105, 2 probabile Ω] probabiliter ΦΔ R; 105, 3 quae Ω] qua ΦΔ R; 105,20 propositione Ω] propo- 60 Ilaria Morresi delle Institutiones. In presenza di variante, R concordava inoltre con Φ contro Δ59, non presentando nessuno dei numerosi errori e interpolazioni propri della seconda redazione interpolata (III)60, ad eccezione di cinque casi: 98, 6-7 memoria est rerum et verborum animi irma perceptio ΩΦ] memoria est irma animi rerum ac verborum ad inventionem (-ne Δ) perceptio cum Cic. ΔR 99, 9-13 sed quemammodum ... sine lege om. ΔR 101, 4 aliud aliquod ΩΦ] aliud aliquid ΔR 105, 7 necessario unius ΩΦ] unius ΔR 106, 5 vivit. Vivit? ΩΦ] vivit ΔR Su queste basi Lagorio concludeva brevemente che «R adheres quite closely to the Φ archetype, but, because of its slight agreement with Δ, must be considered a transitional interpolated text»61. Sembrerebbe dunque di dover dedurre l’esistenza di una terza redazione interpolata, afferente al ramo destro dello stemma delle Institutiones e successiva rispetto alle prime modiiche apportate al testo-base II, in questo modo: sitione et conclusione ΦΔ R; 106, 3 nolitis Ω] nolletis ΦΔ : noletis R; 106, 10 in Philippicis Ω] in Philippicis dicit ΦΔ R; 106, 12 collectivum est in unum Ω] collectivum est cum in unum ΦΔ R. A parte si segnala 105, 7 inducit Ω] inducitur ΦΔ, om. R, per cui vd. infra. 59 Lagorio cita Inst. 100, 6 cum Ω] translatio est cum ΦR : translatio dicitur cum Δ; 100, 9-10 translativa Ω] translatio ΦR : translationi Δ; 100, 14-15 absoluta est ... quaestione om. Ω ΦR, hab. Δ; 104, 6 iudicavimus ΩΔ] iudicabimus ΦR. 60 Peraltro numerosissimi in questi paragrai, dove Δ interviene frequentemente sul testo interpolando materiale in gran parte tratto dall’Institutio oratoria di Quintiliano e dal De inventione ciceroniano; cfr. l’apparato di Mynors alle pp. 97, 6-106, 16. 61 Cfr. Lagorio 1976, p. 45. 61 Una prima presa di posizione rispetto a questa tesi si trova in HoLtz 1986, che deinisce la formula impiegata («transitional interpolated text») come «beaucoup trop vague». Il testo del Palatino, «emprunté à la recension Φ», gli sembra ad ogni modo piuttosto problematico proprio a causa degli accordi con Δ: anch’egli è quindi tentato di far risalire alla fase vivariense del testo il modello dei nostri estratti, in qualche modo ‘intermedi’ tra II e III. Rispetto a Lagorio lo studioso si esprime comunque in modo più cauto, sottolineando come, data la brevità del testo, non sia possibile prendere una posizione netta in proposito62. Per quanto riguarda i singoli casi di accordo ΔR contro ΩΦ, inoltre, Holtz per primo ha notato come a Inst. 98, 6-7 la prima mano di R omettesse in realtà l’intera deinizione di memoria, integrata solo a seguito di un successivo intervento di correzione che ha ricavato la formula direttamente da Cicerone63: quello che Lagorio rilevava come accordo di R con Δ viene così a connotarsi come autonoma integrazione del testo a partire dal De inventione. Dopo Holtz la discussione sugli estratti dal de rhetorica presenti in questi manoscritti è sostanzialmente caduta64. L’identiicazione di R (e dunque del gruppo K) come testimone di un terzo ‘testo interpolato’ intermedio tra II e III è però cosa di non poco conto, che peraltro complica molto le vicende della trasmissione del testo: l’elaborazione delle redazioni interpolate verrebbe infatti a coincidere non più con due interventi isolati e riconducibili a singole personalità (gli autori delle forme II e III), ma come una sorta di lavoro ‘di scuola’, che abbia gradatamente modiicato il testo del brouillon di Cassiodoro portandolo prima alla forma II, poi a quella del modello di K e inine a III. In altre parole, l’evoluzione del testo nel ramo destro dello stemma diventerebbe sostanzialmente sovrapponibile a quella del ramo sinistro, che da ω e tramite una forma intermedia ω1 porta all’elaborazione del testo deinitivo Ω da parte dello stesso Cassiodoro65. Dal momento che tutto questo poggia su cinque casi di accordo di R con Δ contro 62 Cfr. in particolare HoLtz 1986, n. 81 p. 301. 63 In HoLtz 1986, p. 293 e nn. 74-75 p. 300. Nel testo di R, proprio a causa di questo sconvolgimento, la deinizione di memoria segue, anziché precedere come dovrebbe, quella di pronuntiatio. 64 Accennano alla questione orLandi 1981, p. 340; pHiLLips 1990, pp. 111-112; stoppacci 2012, p. 125; rie2015b, I, p. 193 n. 3, e inine stoppacci 2017a, pp. 438-439 e 2017b, p. 46, i quali però si limitano a riferire l’ipotesi di Lagorio, senza sottoporla a un’analisi puntuale. senweber 65 Come dimostrato dallo stesso HoLtz 1986. 62 Ilaria Morresi ΩΦ, sembra opportuno analizzarli in modo più approfondito66: 98, 6-7 memoria est rerum et verborum animi irma perceptio ΩΦ K] memoria est irma animi rerum ac verborum ad inventionem (-ne Δ) perceptio cum Cic. Δ R2 Come si è detto, per quanto riguarda R questo primo caso di accordo con Δ viene meno in quanto la deinizione di memoria, omessa dalla prima mano, è stata successivamente integrata a partire dal testo di Cicerone e non da quello di Cassiodoro. Gli altri mss. del gruppo K presentano regolarmente la lezione ΩΦ. 101, 4-5 Comparatio est cum aliud aliquod alterius factum honestum aut utile contenditur. aliud aliquid ΔK praeter St. Gall. 820 München Clm 6405 : aliquid aliud Rac : aliquod aliud Rpc Questo secondo caso è poco signiicativo, in quanto si tratta di un errore facilmente poligenetico (e infatti i mss. K St. Gall. 820 e München Clm 6405 presentano lezione corretta). 106, 5-6 Hic tamen vivit. Vivit? immo etiam in Senatum venit. vivit alt. om. Isid. ΔΚ praeter Paris. lat. 2335 nec non codd. Ω B2MUp Anche l’omissione di vivit in questo contesto costituisce un errore facilmente poligenetico, commesso tra l’altro anche da Isidoro (che cita il passo in orig. II 9, 11) e dai mss. B2MUp della redazione Ω; si noti inoltre che il ms. Paris, BNF, lat. 2335, come vedremo un testimone K molto signiicativo, presenta la lezione corretta vivit vivit. 105, 6-7 propositio inductionis est quae similitudines concedendae rei necessario unius inducit aut plurium. necessario om. ΔK praeter Paris. lat. 2335 | inducitur ΦΔ : om. K praeter Paris. lat. 2335 | plurimarum Δ L’omissione di necessario è forse il caso più signiicativo di accordo tra i due testi in esame. I mss. K appaiono però caratterizzati da una seconda omissione, quella del verbo inducitur, presentando quindi il seguente testo (chiaramente erroneo): propositio inductionis est quae similitudines concedendae rei unius aut plurium. In questo contesto non si può escludere che anche l’omissione di necessario sia conseguenza di un più ampio sconvolgimento testuale interno al gruppo, indipendente rispetto a Δ; anche in questo 66 I dati qui riportati si basano sulla collazione di 10 manoscritti K sui 12 anteriori al XIII sec.: codd. Città del Vaticano, BAV, Ott. lat. 1190 e Vat. lat. 1588; Milano, Bibl. Ambrosiana, E 59 sup. e M 58 sup.; Kassel, Landesbibl. 4° philol. 3; München, Bayerische Staatsbibl., Clm 6400, 6405 e 14272; Paris, BNF, lat. 2335; St. Gallen, Stiftsbibl. 820. 63 caso, inoltre, il ms. Paris. lat. 2335 presenta il testo corretto Φ, con la variante inducitur propria di II. 99, 9-13 Sed, quemammodum ipse se Cicero emendans in libris de Oratore dicit, translatio inter legales accipi debet status, nam et Fortunatianus ait: Nos «translationem tantummodo legalem accipimus. cur ita? quoniam nulla translatio, id est, perscriptio, potest esse sine lege». sed quemammodum ... sine lege om. ΔK praeter Paris. lat. 233567 Il paragrafo omesso da ΔK (sempre con l’assenza signiicativa del Parigino) è inserito nelle Institutiones all’interno del diagramma sugli status causarum. L’edizione di Mynors dà l’impressione che questo breve testo sulla translatio sia compreso tra due diagrammi, per l’appunto quello sugli status rationales e quello sugli status legales68; il testo concorde dei manoscritti ΩΦ presenta invece la seguente situazione: 67 Il medesimo paragrafo sulla classiicazione della translatio in Cicerone, effettivamente omesso nei testimoni Δ αβεθζπδ, si trova invece trascritto sotto forma di glossa marginale nei codd. ιη (per un prospetto dei testimoni Δ delle Institutiones cfr. Mynors 1937, pp. xxxi-xxxiv). 68 Cfr. Mynors 1937, p. 99; anche HoLtz 1986, n. 79 a p. 301 sottolinea che «cet alinéa se trouve entre deux séries de tableaux synoptiques». 64 Ilaria Morresi In questo contesto, l’omissione della nota sulla translatio testimoniata in Δ e nei mss. K si conigura come una logica sempliicazione del diagramma; anche questo accordo ΔΚ non risulta quindi di peso decisivo, e potrebbe essere spiegato come un caso di innovazione autonoma nei due gruppi. Ancora una volta, inoltre, il ms. Paris. lat. 2335 non presenta l’innovazione. In conclusione: dei cinque casi presentati da Lagorio a sostegno della propria ipotesi, solamente i due accordi ΔK sull’omissione di necessario a p. 105, 7 e della nota sulla translatio a p. 99, 9-13 sembrerebbero avere un qualche peso. Anche questi però non sono abbastanza forti da farci ipotizzare la dipendenza dei codici K da una vera e propria redazione autonoma intermedia tra II e III, specie considerando che in tutti gli altri (numerosi) casi di lezione singolare di Δ essi concordano sempre con Φ. In entrambi i passi, inoltre, il ms. Paris, BNF, lat. 2335 non presenta l’innovazione comune a Δ, bensì il testo ‘corretto’ proprio di Φ: è dunque opportuno deinire con più precisione la posizione di questo manoscritto all’interno del gruppo, per stabilire se eviti gli errori perché contaminato (contaminazione di cui mancano, però, altri indizi all’interno del testo), o piuttosto perché stemmaticamente superiore rispetto all’insieme degli altri codici K. In quest’ultimo caso, gli accordi del secondo ramo con la redazione Δ verrebbero chiaramente a delinearsi come innovazioni autonome in errore poligenetico, e il testo cassiodoreo nei mss. K andrebbe considerato come un semplice estratto dalle Institutiones (testo II) inserito in codici di argomento retorico, da studiare soprattutto in rapporto alla fortuna dell’opera69. La Posizione dei codici K nello stemma delle Institutiones I manoscritti collazionati70, compreso il Paris. lat. 2335, condividono le seguenti innovazioni, riconducibili al subarchetipo K: 101, 3 ideo iure factum] ideo factum K; 101, 69 La pratica di inserire estratti dalle Institutiones in manoscritti miscellanei dedicati alle artes è ben attestata anche per i secoli successivi all’abbandono di Vivarium: cfr. per esempio il ms. Wolfenbüttel Weissenburg 86, che presenta ai ff. 140-141 la Praefatio al secondo libro e il capitolo sugli status causarum (II 2, 8, pp. 102,17-103,6) nella forma Φ. 70 Come si è già accennato, la collazione ha interessato tutti i manoscritti del gruppo K ad eccezione dei codd. Wien, ÖNB, philol. 116 e Fermo, Bibl. Comunale 16. 65 5 contenditur] conditur sive conceditur K; 101, 19 status ergo] status autem K; 102, 20 a quo] quo (quoque Milano M 58 sup) K praeter Kassel 4° philol. 3; 103, 2-3 aut iudicatio dubia est] iudicatio aut dubia est (iudicatio dubia est Kassel 4° philol. 3) K. Dalla collazione emerge poi un insieme consistente di errori comuni a tutti i codici K ad eccezione del Paris. lat. 2335 (gruppo L), innovazioni che possono quindi essere accostate alle omissioni di necessario a 105, 7 e della nota sulla translatio a 99, 9-13 esaminate sopra: 101, 9 et tamen] et tunc L; 102, 2 se ipse etiam Cicero] se ipse Cicero etiam L; 102, 5-7 Omnis controversia, sicut ait Cicero – aut simplex est – aut iuncta. Et si iuncta erit considerandum est utrum ex pluribus quaestionibus iuncta sit, an ex aliqua comparatione] Controversia: – simplex – coniuncta, ceteris omissis L (tabulam omittit München Clm 6400, spat. vac. relicto)71; 102, 13 quid potissimum quaeritur] quid potissimum L praeter Kassel 4° philol. 3; 103, 21 amplexus] complexus L; 104, 4 vota requirerent] vocare quererent (quirerent St. Gall. 820) L; 104, 13-14 plurima tamen] plurima tunc (plurima München 6400) L; 105, 7 necessario unius (unius, om. necessario Δ) inducitur (inducit Ω) aut plurium] unius aut plurium L72. Per il resto, i codici K presentano un testo di tipo II, caratterizzato dalle seguenti innovazioni proprie della prima redazione interpolata: Inst. 100, 6 cum Ω] translatio est cum ΦK praeter Ott. lat. 1190 (translatio cum) : translatio dicitur cum Δ; 100, 9-10 translativa dicitur Ω] translatio adicitur (translatio dicitur Kassel 4° philol. 3) ΦΚ : translationi adicitur Δ; 104, 4 libros autem duos] libros autem duo (libros autem II München Clm 6400 Pal. lat. 1588, libros autem secundos Milano M 58 sup. Kassel 4° philol. 3 Ott. lat. 1190) ΦK; 104, 6 iudicavimus ΩΔ] iudicabimus ΦK praeter Paris. lat. 2335; 106, 7 adicit Ω] addicit ΦK : addidicit Δ. Nessuno di questi errori presenta caratteristiche attribuibili con certezza al subarchetipo Φ piuttosto che al suo modello II; proprio a favore di quest’ultima ipotesi ci fa anzi propendere il fatto che, nei tre casi più signiicativi di ac- 71 L’innovazione si conigura come una logica sempliicazione del diagramma, molto simile all’omissione del paragrafo sulla translatio a p. 99, 9-13. 72 In altri casi l’innovazione diffusa nel gruppo è evitata da singoli manoscritti K, che hanno probabilmente corretto il testo in modo autonomo: 103, 23 vobis reliquisse] iubis reliquisse K praeter Ott. lat. 1190 Paris. lat. 2335; 105, 4 captat] capiat K praeter Milano M 58 sup. Milano E 59 sup. Ott. lat. 1190 Paris. lat. 2335; 106, 4 ostentabile est quod] ostentabile est qui K praeter Milano E 59 sup. Milano M 58 sup.a.c. Ott. lat. 1190 Paris. lat. 2335; 106, 9 eventum simile] eventum similem simile (simile simile St. Gall. 820, similem simili Ott. lat. 1190) K praeter Pal. lat. 1588 (eventum similem) München Clm 6405 Paris. lat. 2335; 106, 13-14 cum gratia noluit, hunc voluit] cum gratia noluit, hunc noluit K praeter Ott. lat. 1190 Paris. lat. 2335. 66 Ilaria Morresi cordi ΚΦ (Inst. 100, 6; 100, 9-10; 106, 7), Δ presenti un’ulteriore innovazione singolare, evidentemente originatasi al ine di correggere il testo erroneo di II. K ha inoltre lezione corretta, in accordo con ΩΔ, in corrispondenza di tre errori (comunque facilmente correggibili) presenti nel subarchetipo Φ: Inst. 100, 7 non aut is agere videtur] non aut his agere videtur Φ; 101, 12 cum sententia] cum sententiam Φ; 106, 10 te miror Antoni] te minor Antoni Φ73. In questo contesto, la spiegazione più verosimile per la posizione di K nello stemma delle Institutiones è che esso discenda dal subarchetipo Φ, oppure che afferisca ad un terzo ramo dipendente da II ma autonomo sia rispetto a Φ che rispetto a III, in questo modo: Le citate tre lezioni di K superiori a Φ potrebbero infatti essere dovute tanto a correzioni operate da K74 quanto ad una collocazione di K nello stemma a un livello più alto rispetto al subarchetipo Φ. In entrambi i casi, gli accordi dei mss. L con Δ nell’omissione di necessario e del paragrafo sulla translatio si spiegherebbero (peraltro senza particolari dificoltà, dati i contesti analizzati sopra) come innovazioni poligenetiche indipendenti. 73 In un ultimo caso di innovazione Φ i manoscritti K presentano una situazione più articolata, probabilmente a seguito di autonomi interventi di correzione: 100, 6-7 cum causa ex eo pendet] cum causa ex eo pendit Φ Kassel 4° philol. 3 Milano M 58 sup. München Clm 6400 St. Gall. 820. Altri due errori che Mynors segnala come Φ per questa sezione (non condivisi da K) sono invece frutto di una svista dell’editore: 102, 1 propterea quia] propterea qui ΦΔ, in cui in realtà Φ presenta la lezione corretta (vd. supra); 103, 11 partitio] partio Φ, in cui l’errore è proprio dei soli codd. Φ PAac. 74 L’unico errore dificile da correggere ope ingenii è quello a p. 106, 10 (minor), che si trova però all’interno di una citazione ciceroniana da Phil. II 1,1. 67 È ovviamente possibile spiegare le lezioni superiori del Paris. lat. 2335 anche ipotizzando che il codice sia stato sistematicamente contaminato a partire da un manoscritto di tipo Φ (da cui avrebbe ‘ereditato’ gli accordi in errore con la prima redazione interpolata citati sopra); in questo secondo caso le due innovazioni comuni a Δ potrebbero essere ricondotte a un modello II1 intermedio tra II e III. Anche qui non abbiamo comunque motivi per identiicare ΙΙ1 con un’ulteriore ‘redazione interpolata’: è più probabile che le innovazioni corrispondano semplicemente a un passaggio di copia rispetto al modello II. Dato il carattere poco signiicativo degli accordi KΔ e inoltre l’assenza, nel Paris. lat. 2335, di tracce lasciate da una contaminazione sistematica, l’ipotesi della dipendenza da Φ o (forse più probabilmente) dal suo modello II sembrerebbe comunque la più forte. In questo caso, nessun elemento certo ci permetterebbe di collocare la formazione del corpus di sussidio al De inventione proprio a Vivarium e non piuttosto (magari dopo alcune copie) in ambiente carolingio, dove le redazioni interpolate erano ampiamente diffuse: se pure II è stato approntato ancora a Vivarium nei decenni subito successivi alla morte di Cassiodoro, non saranno necessariamente vivariensi tutti i suoi discendenti. I manoscritti K potranno dunque essere considerati non tanto come copie di un ulteriore ‘testo interpolato di transizione’, quanto piuttosto come testimoni della fortuna del de rhetorica nella sua prima forma interpolata II, all’interno di in una silloge di accessus al De inventione ciceroniano verosimilmente assemblata durante la Rinascenza carolingia. 68 Ilaria Morresi BIBLIOGRAFIA acad. caes. vindob. 1864 = Tabulae codicum manuscriptorum praeter Graecos et Orientales in Bibliotheca Palatina Vindobonensi asservatorum, edidit Academia Caesarea Vindobonensis, I, Wien 1864 [Graz 19652]. acHard 1994 = Cicéron. De l’invention, texte établi et traduit par G. acHard, Paris 1994 (Collection des Universités de France. Série latine, 320). bergMann-stricker 2005 = R. bergMann – s. stricker, Katalog der althochdeutschen und altsächsischen Glossenhandschriften, voll. 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I DISEGNI DI ALCUINO NEL CODEX PAGESIANUS Fabio Troncarelli el 790 Alcuino, scrisse una lettera dall’Inghilterra al suo discepolo Giuseppe chiedendogli vestiti e denaro perché la sua missione diplomatica si prolungava oltre il previsto. Lo pregò inoltre di inviargli qualcosa che gli serviva per ingannare il tempo durante la sosta forzata e cioè: ”pigmenta multa de sulfure bene et coloribus ad picturas1”. Questa richiesta, piuttosto inconsueta, non ha suscitato molto interesse2, eppure è meritevole di attenzione, poiché mette in discussione l’immagine tradizionale di un Alcuino disinteressato all’ornamentazione dei suoi codici3. Come ha suggerito il Saywer, i “pigmenta” erano destinati “presumably to illuminate manuscripts”, un’ipotesi che sembrerebbe confermata dalla presenza del pigmento a base di zolfo. Depone in questo senso la formula che ricorre nel testo alcuiniano ”pigmenta de sulfure bene”: infatti, l’avverbio “bene” è una contrazione della frase fatta “bene pulverizato”, spesso impiegata per indicare i composti a base di zolfo polverizzato4, come viene ricordato in un ricettario altomedievale a proposito della polvere d’oro 1 alcuinus, Epistulae, a cura di E. Dümmler, in MGH, Epistolae, IV, Berolini 1895, n. 8, pp. 33-34. Sulla missione diplomatica di Alcuino e la complessa situazione politica del momento ci limitiamo a rimandare al recente volume di d. dales, Alcuin: his life and legacy, Cambridge 2012, pp. 5-106 (con aggiornata bibliografia). 2 s. leBecq, Marchands et navigateurs frisons du haut Moyen Âge: Corpus des Sources écrites, Lille 1983, pp. 362-363; P. sawyer, The Wealth of Anglo-Saxon England, Oxford 2013, p. 66 3 Quest’opinione, in apparenza ben fondata, è piuttosto diffusa ed è stata ribadita recentemente anche nel bel catalogo della mostra Trésors carolingiens. Livres manuscrits de Charlemagne à Charles le Chauve, a cura di M.-P. Laffitte-C. Denoël- M. Besseyre, Paris 2007, p. 151. 4 t. hunt, Popular Medicine in Thirteenth-century England: Introduction and Texts, Cambridge 1990, p. 242, n. 56:”Capiatis...parum de sulphure bene pulverizato”. 75 per miniare5, ottenuta mescolando all’oro mercurio e zolfo ridotti in polvere e non cotto o sublimato6. In ogni caso, qualunque cosa si voglia pensare dei “pigmenta” alcuiniani, resta il fatto che la loro richiesta dimostra un interesse non occasionale nei confronti della “pictura” da parte del futuro abate di Tours e legittima un’indagine su eventuali manifestazioni dello stesso interesse nello stesso autore. Una simile ricerca richiede, naturalmente, un approfondito studio di molte testimonianze significative e tuttavia, come introduzione a questo ambizioso progetto, vale la pena considerare i risultati dell’analisi di un solo manoscritto, che, secondo l’opinione degli studiosi più autorevoli, è copia diretta di un esemplare prodotto nella cerchia di Alcuino7 e, secondo le più recenti ricerche8, è stato addirittura annotato e corretto da Alcuino stesso: il codice Pagès 1 della biblioteca Apostolica Vaticana (un tempo segnato Roma, Casa dei Padri Maristi, A II 1). Codex pagesianus Quest’importante testimone della trasmissione di Aristotele nel Medioevo è stato 5 a. caFFaro, Scrivere in oro. Ricettari medievali d’arte e d’artigianato (secoli IX-XI). Codici di Lucca e di Ivrea, Napoli 2003 (Nuovo Medioevo, 66), pp. 18; 199-201. 6 Lo zolfo polverizzato si usava per produrre polvere d’oro, mentre nella maggioranza dei casi era usato in altra forma: per ottenre il cadmio, si impiegava zolfo purificato attraverso sublimazione (caFFaro, Scrivere, p. 59) oppure lo zolfo veniva mescolato ad altri ingredienti e bollito (ibid., p. 153); per ottenre lo sconosciuto colore denominato “antimis dedami”, si cuoceva lo zolfo insieme ad altri componenti (ibid., p. 65); per l’orpimento artificiale si fondevano zolfo e ealgar o solfuro di arsenico (c.cennini, Libro dell’Arte, Vicenza 1975, cap. XLVI); per avere il cinabro artificiale si cuoceva lo zolfo insieme ad altri componenti (caFFaro, Scrivere, p. 115). In generale, comunque, la maggior parte dello zolfo etratto veniva fuso direttamente dove veniva trovato (ibid., p. 89). Si veda per una prima introduzione Il colore nel Medioevo. Arte, simbolo, tecnica, Atti delle Giornate di studi, 2-3-4 Maggio 1996, Lucca 1998 e Il colore nel Medioevo: arte, simbolo, tecnica; pietra e colore; conoscenza, conservazione e restauro della policromia. Atti delle giornate di studi, Lucca, 22- 23-24 novembre 2007, a cura di P. A. Andreuccetti-I. Lazzareschi Cervelli, Lucca 2009. 7 d. BullouGh, Alcuin and the Kingdom of Heaven: Liturgy, Theology and the Carolingian Age, in Id.,Carolingian Renewal: Sources and Heritage, Manchester, 1991, pp. 37-40, in particolare p. 176; L. holtz, L’oeuvre grammaticale d’Alcuin dans le contexte de son temps, in Alkuin von York und die geistige Grundlegung Europas. Akten der Tagung vom 30. September bis zum 2. Oktober 2004 in der Stiftsbibliothek St. Gallen, a cura di E. Tremp-K. Schmuki, St. Gallen , 2010, pp. 129-149, in particolare p. 144, n. 47 8 F. troncarelli, L’antica fiamma. Boezio e la memoria del sapere antico nell’alto medioevo, Roma 2017 (Temi e testi 162), pp. 97-152. 76 Fabio Troncarelli più volte esaminato e descritto nel passato9, ma un’analisi più approfondita e aggiornata della sua scrittura e della sua struttura codicologica rivela che molte valutazioni tradizionali vanno rimesse in discussione. Tradizionalmente, il Pagès 1 è stato datato all’epoca dell’episcopato di Leidrat di Lione (798-814) che avrebbe ordinato di trascriverlo a a copisti attivi nella città francese.:infatti sul verso del primo foglio figura una nota autografa di Leidrat, che dona il volume alla chiesa di Santo Stefano di Lione, al momento di rinunciare volontariamente alla sua carica. Tuttavia, in base a nuove ricerche, data e attribuzione del cimelio vanno modificate, poché nel recto del primo foglio c’è una nota di possesso del vescovo Arbeo di Freising († 784), alle cui dipendenze era Leidrat da giovane. Questa sottoscrizione, scritta da una mano simile a quella di Leidrat e databile all’ultimo quarto dell’VIII secolo, permette di assegnare almeno la prima parte del codice a un periodo precedente il 784: uno spostamento cronologico che viene ampiamente confermato dall’aspetto generale della scrittura dei copisti del codice e dalla somiglianza grafica delle diverse mani con la scrittura di amanuensi di codici che vengono da Freising, come ad esempio il münchen, Bayerische Staatsbibliothek, CLM 6309 (C.L.A, 1272) dell’epoca del vescovo Arbeo. 9 I principali contributi di carattere paleografico e codicologico sul manoscritto sono: l. delisle, Notice sur un manuscrit de 1’église de Lyon du temps de Charlemagne, in «Notices et Extraits des manuscrits de la Bibliothéque Nationale et autres bibliothèques», 35 (1897), pp. 831-842; J. 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Infatti, oltre al nome di Arbeo, premesso alla prima opera contenuta nel manoscritto, troviamo note di possesso di Leidrat alla fine dei singoli testi riportati nel volume:è logico interpretare le note di possesso di Leidrat come diversi ex-libris, apposti uno per volta, ciascuno alla fine di ogni singolo volumetto, diviso dagli altri, un’opinione confermata dal fatto che queste opere hanno ciascuna una numerazione dei fascicoli indipendente, solo in seguito ritoccata in modo da renderla progressiva e continuativa. Senza dubbio i volumetti sono stati scritti dagli stessi amanuensi che avevano vergato il primo opuscolo, con inchiostri diversi, come avviene in trascrizioni fatte a breve distanza di anni l’una dall’altra. E tuttavia i testi sono stati realizzati in momenti diversi, anche se non eccessivamente distanti tra loro e il volume è il frutto di un’operazione finale di rielaborazione e riassestamento dell’intera miscellanea. In sostanza dobbiamo datare il codice all’ultimo quarto del sec. VIII, considerando che è costituito da parti diverse scritte in questo periodo10. Allo stato attuale il manoscritto misura mm. 260 x 175 ed è costituito da ff. 114, ma come ha fatto notare il Delisle, gli ultimi fogli sono stati rilegati in modo sbagliato e la successione delle pagine pagine non è corretta ( quella giusta sarebbe in base all’attuale numerazione: 105-108; 110-113; 109; 114). Va osservato, comunque, che lo spostamento dei fogli non è stato fatto in un’epoca molto lontana da quella della trascrizione, come mostrano le note occasionali tracciate da mani del IX secolo negli spazi bianchi dopo la fine dei testi copiati. Ciò che abbiamo sommariamente ricordato significa, di conseguenza, che il pagesianus è stato scritto da amanuensi di fiducia di Leidrat che lo accompagnano sin dall’inizio della sua carriera e che non è stato realizzato tutto di seguito, ma in anni successivi Il pagesianus sarebbe, dunque, un codice “fattizio”: una raccolta artificiale, costituita da parti distinte, anche se trascritte dagli stessi copisti o da copisti ad essi simili in diverse date, tra 784 e fine dell’VIII secolo,che unisce opere logiche rare, inizialmente copiate separatamente e solo in seguito messe insieme in un unico volume. 10 Il codice ha subito vari rimaneggiamenti nel corso dei secoli, che hanno provocato lo spostamento di alcuni fogli e la modifica della fascicolazione originaria: più recentemente il volume è stato restaurato e presenta numerose tracce di questo intervento, non certo raffinato. Allo stato attuale il manoscritto misura mm. 260 x 175 ed è costituito da ff. 114, ma come ha fatto notare il Delisle, gli ultimi fogli sono stati rilegati in modo sbagliato e la successione dei testi è inesatta. 78 Fabio Troncarelli Il manoscritto cela un affascinante enigma. A partire dal f. 39r fino al f. 48r troviamo numerose correzioni interlineari e marginali dell’introvabile commento al Peri hermeneias di Boezio, scritte da una mano coeva a quella del copista, che usa un inchiostro più pallido di quello dell’amanuense e scrive in un’elegante minuscola, sostanzialmente carolina, ma con precise influenza insulari, databile tra l’ultimo quarto dell’VIII e gli inizi del IX secolo. La mano di questo correttore di cultura non comune, che si permette il lusso di correggere il testo, all’epoca rarissimo, del commento di Boezio, si firma più di una volta con sigle costituite dalle lettere “AL” ed “ALC”, che troviamo anche in altri fogli del codice senza correzioni, a volte addirittura in forma di alfabeto figurato, a fianco o anche dentro un disegno (tavv. 1-2). Sembra lecito interpretarle come abbreviazioni del nome di “Alcuinus”, che peraltro troviamo scritto per esteso due volte dalla stessa mano a f. 39r nel margine inferiore, in senso obliquo a quello del testo sul foglio; e a f. 5v , nel bel mezzo della pagina, con una disposizione piuttosto inconsueta, intercalando le lettere del nome tra le righe del testo e disponendole in diagonale dal basso verso l’alto. L’ipotesi di una presenza diretta di Alcuino a fior di pagina del pagesianus, posseduto da Leidrat, è perfettamente credibile, dal momento che il futuro vescovo di Lione fu discepolo prediletto di Alcuino e rimase per molti anni al suo fianco o comunque in contatto con lui, in un proficuo rapporto di scambio culturale. Ciò collima, del resto, con le osservazioni degli studiosi più attenti ed autorevoli che hanno studiato da vicino il problema, come Louis Holtz che ha sottolineato la profonda fedeltà del segretario di carlo Magno al commento al Peri hermeneias di Boezio al punto da sostenere che “Alcuin avait sa source sous les yeux.” e che: ”nous avons vraisemblement conservé avec le ms. Roma, Casa dei Padri Maristi, s.n. [in seguito A II 1 ed oggi Pagès 1], une copie de l’exemplaire d’Alcuin11”. Formosa difformitas La mano che è possibile attribuire ad Alcuino ha tracciato nel codice un gran numero di disegni. Che si tratti della stessa mano è garantito da due elementi: l’uso, 11 holtz, L’oeuvre grammaticale, p. 144, n. 47. 79 in alcuni casi, dello stesso inchiostro con cui sono state tracciate le correzioni e la presenza di numerose sigle formate da lettere che sembrano scritte della stessa persona: “AL”, “ALC” e dal nome intero “ALCUINUS”, all’interno degli stessi disegni, a volte in forma di calligramma12 (tav. 1). Le immagini che esaminiamo si trovano disseminate in diversi fogli: sono di formato piccolo o piccolissimo, a volte eseguite con cura ed a volte appena accennate come uno schizzo sommario: solo con l’aiuto dei raggi ultra-violetti è possibile distinguerle, perchè ad occhio nudo sono quasi invisibili, sia per le cattive condizioni di conservazione del manoscritto, sia per l’intenzionale evanescenza dei loro tratti, delineati con mano molto leggera. I disegni sono disposti spesso nel margine inferiore, ma anche in quello superiore e in quello di destra e di sinistra; a volte sono figure isolate di uomini o animali, ma sovente le linee di ciascuna si sovrappongono con quelle di altre e le figure sembrano quasi generarsi l’una dall’altra E non basta. Con una singolare tecnica volta a disorientare chi guarda creando più di un’illusione ottica contemporaneamente, spesso quella che sembra una sola immagine si sdoppia e si triplica, poiché racchiude al suo interno altre figure più piccole. Questo continuo effetto di trompe-l’oeil13 ha un’origine antica, come del resto è antico il metodo di inglobare e quasi incastrare i corpi e i volti l’uno nell’altro: negli affreschi, nelle gemme, nei candelabri, nei vasi, negli oggetti d’uso dell’arte romana classica e tardoantica troviamo moltissimi esempi di un simile illusionismo.14 Esso è particolarmente sviluppato nella glittica, soprattutto nelle gemme a carattere apotropaico, astrologico o magico-religioso15, nelle quali è possibile trovare con 12 troncarelli, L’antica fiamma, pp. 000. 13 .o. calaBrese, Il trompe l’oeil, Milano, 2013. 14 M. mulliez, Le luxe de l’imitation: les trompe-l’oeil de la fin de la République romaine, mémoire des artisans de la couleur, Naples, 2014 (Collection du Centre Jean Bérard, 44 =Archéologie de l’artisanat antique ; 8); J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico: antichità ed esotismi nell’arte gotica, Milano, 1973; Id., Risvegli e prodigi. La metamorfosi del gotico, Milano, 1999; Id., Lo specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction. Milano, , 2007 ( ed. orig. Le miroir: révélations, science-fiction et fallacies, Paris, 1981). Sul calligramma e sui carmina figurata vedi: G. Pozzi, la parola dipinta, Milano 1981; u. ernst, Carmen figuratum. Geschichte des Figurengedichts von den antiken Ursprüngen bis zum Ausgang des Mittelalters, Köln,1991 15 Su questi temi la bibliografia è vastissima: si veda qualche contributo recente con aggiornata bibliografia: M. G. Maioli, Magia e superstizione in Immagini divine. Devozioni e divinità nella vita quotidiana dei Romani, 80 Fabio Troncarelli grande frequenza sia figure accorpate ad altre, i cosiddetti grylloi, sia illusioni ottiche basate sulla pareidolia, come ad esempio i volti che si moltiplicano, ma hanno in comune uno o più elementi o quelli che cambiano davanti ai nostri occhi se li teniamo dritti o se li rovesciamo (tav. 2 a, b). Illusioni ottiche analoghe, anche se ottenute con tecniche diverse, si annidano nei calligrammi16, veri e propri giochi visivi nei quali le lettere divengono immagini e le immagini lettere, senza che nessuno si meravigli di dover cercare ciò che si cela “sotto il velame” dell’apparenza17 (tav. 2c). Alcuino, che si faceva chiamare Publius Alcuinus in onore del celebre autore di versus intexti Publio Porfirio Optaziano18, coltivò con impegno la pratica del carmen figuratum19, dedicandone due a Carlo Magno ed ispirando direttamente il suo discepolo Rabano Mauro20, insieme al quale viene rappresentato nei codici più antichi e autorevoli della sua raccolta di poesie figurate conosciuta come Liber de a cura di J. Ortalli-D. Neri, Firenze, 2007, pp. 99-111 in particolare pp. 100-111, con bibliografia; c. sFameni, in Isis en Occident Actes du II Colloque international sur les études isiaques, Lyon III 16-17 mai 2002, Leiden 2003 (Religions in the Graeco-Roman World, 151) pp. 377-40. Sul malocchio e gli amuleti contro il malocchio come le gemme vedi J. h. elliott, Beware the Evil Eye The Evil Eye in the Bible and the Ancient World, 2: Greece and Rome, 2016; 3. The Bible and related sources, 2016; 4, Postbiblical Israel and early Christianity trough Late Antiquity, Eugene (Oregon)-Cambridge 2016. Da ultimo segnaliamo lo studio di r. coGlitore PIETRE FIGURATE Forme del fantastico e mondo minerale, Pisa, 2004 16 G. Polara, Optaziano Porfirio tra il calligramma antico e il carme figurato di età medioevale, in «Invigilata lucernis», IX (1987), pp. 163-173. Vedi anche id., Aenigmata, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, I 2, Roma 1993, pp. 197-216; id., Il Technopaegnion di Ausonio: «Ludus laboranti», in «Giornale italiano di filologia», XLIX (1997), pp. 277-284 ; id., Tra ars e ludus. Tecnica e poetica del Technopaegnion di Ausonio, in id., La poesia tardoantica e medievale, Alessandria 2001, pp. 55-70. 17 h. sPillinG, Opus Magnentii Hrabani Mauri in honorem sanctae crucis conditum. Hrabans Beziehung zu seinem Werk, Frankfurt/M. 1992; raBani mauri, in honorem sanctae crucis, a cura di M. Perrin, Turnhout , 1997; m. c. Ferrari, Il “Liber sanctae crucis” di Rabano Mauro. Testo, immagine, contesto, Bern, 1999.Vedi anche R. E. GuGlielmetti, Hrabanus Maurus, in La trasmissione dei testi latini del medioevo. Mediaeval Latin Texts and Their Transmission, 3, a cura di P. Chiesa- L. Castaldi, Firenze, 2008. 18 Publilii Optatiani Porfyrii Carmina, a cura di G. Polara, I-II, Torino 1973. Sull’argomento vedi: F. derThe Carmina of Publilius Optatianus Porphyrius and the Creative Process, in Studies in Latin Literature and Roman History, a cura di f. Deroux,12, Bruxelles, 2005, pp. 447–66. oux, 19 F. chazelle, The Crucified God in the Carolingian Era: Theology and Art of Christ’s Passion, Cambridge 2001. 20 M. J. Perrin, La poésie de cour carolingienne, les contacts entre Alcuin et Hraban Maur et les indices de l’influence d’Alcuin sur l’ In honorem sanctae crucis, in «Annales de Bretagne et des Pays de l’Ouest», 111(2004), pp. 333-335. 81 laudibus Sanctae Crucis. Anche altri autori che gravitavano intorno alla corte di Carlo, come Teodulfo, Paolino di Aquileia e Giuseppe Scoto scrissero lo stesso genere di poemi, composti di versus intexti21. Ritroviamo lo stesso brulichio di lettere e di corpi nei disegni del codex pagesianus, soprattutto all’inizio e alla fine del volume. In preda a una vera e propria angoscia da horror vacui, chi disegnava ha cosparso una vera folla di volti, di animali, di esseri fantastici sugli spazi bianchi del recto e del verso del primo foglio e sul verso dell’ultimo: quest’interventi sono databili nel periodo successivo alla sottoscrizione di Arbeo, in parte coperta da qualcuna di queste immagini e nel periodo precedente alla sottoscrizione di Leidrat, che ha coperto, a sua volta, alcune illustrazioni. I soggetti rappresentati, molto vari e chiaramente ispirati dall’arte romana classica e tardoantica, rientrano in gran parte, nell’iconografia delle raffigurazioni grottesche22 che rivivranno nelle drôleries e nei “grilli” romanici e gotici23(tavv. 3-19). Sono questi gli esseri che si accalcano nei margini del pagesianus: fauni eccitati; volti scurrili; uccelli avidi; uomini con orecchie d’asino; arpie con becchi adunchi; lupi, topi, basilischi pronti a mordere. Questa ridda frenetica di forme informi è resa ancora più vorticosa da un gioco ossessivo di illusioni ottiche: spesso, infatti, un mostro racchiude al suo interno un’altro mostro, che si rivela solo un attimo dopo il 21 ernst, Carmen figuratum, pp. 158-202. 22 d. iozzia, Aesthetic Themes in Pagan and Christian Neoplatonism: from Plotinus to Gregory of Nyssa, London/NY, Bloomsbury 2015; a. shePPard, The Poetics of Phantasia: Imagination in Ancient Aesthetics, London, Bloomsbury 2014. Vedi anche su questi temi Baltrušaitis, Risvegli e prodigi, pp.227-275; e. GomBrich, Il senso dell’ ordine. Studi sulla psicologia dell’arte decorativa, Torino 1984, pp. 401-449. 23 l.m.c. randall, Images in the Margins of Gothic Manuscripts, Berkley-Los Angeles, 1966 (California Studies in the History of Art, 4); c. nordenFalk, Drolleries, in «The Burlington Magazine», 109 (1967), pp. 418-421; o. demus, Pittura murale romanica, Milano 1969; r. mellinkoFF, Riding Backwards: Theme of Humiliation and Symbol of Evil, in “Viator” 4 (1973), pp. 153-176; m. schaPiro, The Sculptures of Souillac, in id., Romanesque Art, London 1977, pp. 102-130 (trad. it. Arte romanica, Torino 1982, pp. 114-144); l.F. sandler, Reflections on the Construction of Hybrids in Gothic Marginal Illustration, in Art the Ape of Nature. Studies in Honor of W.H. Janson, New York 1981, pp. 51-65; k.P. wentersdorF, The Symbolic Significance of ‘Figurae Scatalogicae’ in Gothic Manuscripts, in Word, Picture and Spectacle, a cura di C. Davidson, Kalamazoo 1984, pp. 1-20; m. camille, Image on the Edge. The Margins of Medieval Art, London-Cambridge (MA) 1992; id., Mouths and Meanings: Towards an Anti-Iconography of Medieval Art, in Iconography at the Crossroads, a cura di B. Cassidy, Princeton 1993, pp. 43-54; Mein ganz Körper ist Gesicht: groteske Darstellungen in der europäischen Kunst und Literatur des Mittelalters, a cura di K. Kroll, H. Steger, Freiburg im Brsgau 1993; J wirth, Les marges à drôleries des manuscrits gothiques (1250-1350), avec la collaboration d’I. Engammare-A. Bräm-H. Braet,-F. Elsig,- A. Fisch Hartley-C. Fressat, Genève 2008. 82 Fabio Troncarelli primo, come ad esempio il mulo che raglia racchiuso dentro la testa di un leone che ruggisce al fol. 1v. Altre volte ci pare di scorgere una sola ombra inquietante, ma basta tenere gli occhi aperti ed ecco un grappolo di figure, che si sprigionano dalla prima, come nel fauno del fol. 1v, che al posto dei capelli ha una testa di cinghiale e una testa di leone con la criniera al vento; al posto della barba ha un’altra testa di leone; al posto delle guance due teste diaboliche sovrapposte; al posto della mandibola due uccelli incastrati uno nell’altro, il primo con il becco a punta, il secondo con volto di mostro. La tensione creata da questi effetti si allenta con l’apparizione improvvisa di qualche presenza aerea, fantastica e mite, come l’Uomo Zodiacale; di qualche caricatura che ci sorride e ci fa sorridere; di qualche animale domestico che evoca una vita più serena come l’agnello, il gatto, il cane. A volte ci sorprendiamo a isolare le lettere di cui è intessuto un volto enigmatico che sembra una maschera benigna e ci accorgiamo che ripetono sempre lo stesso nome. Ma queste lettere appaiono, impreviste, anche nei volti dei demoni e ci trascinano di nuovo negli Inferi che avevamo abbandonato. Ben presto il corteo confuso di animali selvatici e mostri ricomincia a sfilare e ad affaticare la nostra vista, sciorinando davanti ai nostri occhi volpi, faine, orsi, squali, serpi, nani famelici. Tutto ricomincia di nuovo come prima e ci lascia una sensazione di disagio. L’aspetto più interessante di questa complessa visione è la tecnica con cui sono eseguite le immagini: una tecnica che varia di continuo e per questo di continuo sconcerta. In alcuni casi, infatti, le figure sono incise sulla pergamena con una punta sottile e si moltiplicano davanti a noi senza che quasi ce ne avvediamo, poiché le scambiamo per pieghe naturali di una membrana rugosa e scabra. In altri casi, invece è stato usato un inchiostro molto pallido che ci mette sull’avviso della presenza sulla pagina di qualcosa di non ben definito: quello che percepiamo non è chiaro e facciamo fatica a riconoscere forme incerte, sia per il loro colore poco visibile, sia perché esse sono costituite da linee incomplete, da punti staccati tra loro, a volte da leggere sbavature di inchiostro che creano ombre. In altri casi, al contrario e inaspettatamente, le immagini sembrano quasi a rilievo, poiché intorno a loro è stata scavata la pergamena con la pietra pomice, lasciando emergere il volume dei corpi e creando un contrasto tra il colore della pergamena e quello della raschiatura. In qualche occasione, poi, le figure sono state tracciate con la biacca e spiccano in 83 modo evidente sul fondo più scuro della pagina. Il risultato di questo caleidoscopio di tecniche è soprendere il lettore con un caleidoscopio di immagini che non sono evidenti a prima vista, ma che affiorano all’improvviso, emergendo da uno sfondo a prima vista bianco, come una specie di apparizione misteriosa. Imagines Se andiamo oltre al foglio iniziale del pagesianus e sfogliamo tuttto il manoscritto, possiamo dire senza difficoltà che quasi ogni pagina del codice che consideriamo presenta nei margini laterali e nel margine inferiore figure analoghe a quelle che abbiamo evocato, non dimenticando, come abbiamo già detto, che sono poco visibili ad occhio nudo e che solo alcune sono eseguite con cura, come quelle che abbiamo visto, mentre nella maggioranza dei casi sono state tracciate molto rapidamente e sommariamente, con la stessa fretta impulsiva con cui si scrive una nota di commento, obbedendo a una subitanea ispirazione. E a dire il vero, a qualcosa di simile a un’annotazione estemporanea durante la lettura fanno pensare molte immagini nei margini laterali del foglio, che svolgono il ruolo di vere e proprie maniculae figurate, simili a quei piccoli ritratti che servono a indicare passi significativi, che troviamo in parecchi codici medievali, a cominciare da quelle che ricorrono nei margini dei manoscritti autografi di Boccaccio24. Nel pagesianus il compito di indicare passaggi significativi viene assegnato a profili di esseri umani con il naso rivolto verso una riga del testo o a uccelli col becco orientato nella stessa direzione o anche a teste di animali, come il cavallo o il capriolo, il cane, il bue, l’asino, con il muso che sembra dirigersi verso un brano da ricordare (così ad esempio ai ff. 8v, 26v, 44v). Una finalità in qualche misura analoga di ausilio alla fruizione del testo può forse essere attribuita ad altre raffigurazioni fantastiche o realistiche che si affollano nello spazio bianco alla fine di un’opera, quasi a voler sottolineare che c’è una cesura, a volte solo di poche righe, a volte molto più estesa, e che la lettura deve riprendere dopo quest’area priva di segni alfabetici (es. ff. 30r-v). 24 Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Torino 1999. m. cursi, La scrittura e i libri di Giovanni Boccaccio, Roma 2013 (Scritture e libri del Medioevo, 13). 84 Fabio Troncarelli Non è impossibile che anche i disegni nei margini inferiori dei fogli abbiano una funzione di sussidio per il lettore, aiutandolo a scandire lo specchio di scrittura e separarlo dalla parte inferiore, un’area quasi sacra nella quale nessuno dovrebbe osare intervenire. Da ultimo vanno ricordate alcune, non frequenti, imagines, che fanno pensare all’abbozzo appena delineato della decorazione di un’iniziale che un miniatore di mestiere dovrà realizzare in seguito: in esse troviamo precisi echi dell’arte tardoantica, sia nei singoli soggetti rappresentati (tav. 20) sia soprattutto per il gusto superdekorativ, simile a quello di certi esemplari del VI secolo, fonte di ispirazione per codici merovingi ed insulari. Le figure ricorrenti che possiamo trovare in tutte le diverse posizioni e funzioni che abbiamo ricordato, siano esse isolate, avvinghiate tra loro o racchiuse sapientemente l’una nell’altra, sono queste: la testa di un uomo, spesso con espressioni grottesche la testa dell’Uomo Zodiacale (con un ariete tra i capelli) la testa di un fauno la testa di un uomo con orecchie d’asino o con un berretto con orecchie d’asino la testa di esseri metà uomo e metà animale la testa di animali o uccelli fantastici, con becchi adunchi o con volti umani la testa di un asino o di un mulo la testa di un cavallo la testa di un elefante la testa di un cane (di diverse razze) la testa di un lupo la testa di un coniglio o un coniglio intero (o di una lepre) la testa di un caprone o un caprone intero la testa di una pecora o una pecora intera (o un agnello) la testa di un capriolo o un capriolo intero la testa di un cervo la testa di una volpe la testa di un riccio la testa di un topo o un topo intero la testa di un gatto la testa di un maiale o di un cinghiale la testa di un orso 85 la testa di un grosso felino la testa di un serpente o un serpente intero la testa di un drago la testa di un grosso pesce o un grosso pesce intero la testa di un bue o di un toro il bucranio la testa di un’anatra la testa di un uccello col becco a punta Abbiamo ritrovato gli stessi disegni o altri ad essi simili nelle forme e nel significato simbolico, (accompagnati spesso dalle lettere “A, L, C” o “A, L, C, U, I, N, U, S” inserite nelle immagini) in alcuni codici che sono stati connessi in vario modo con Alcuino, scritti a Tours o in ambienti nei quali la presenza alcuiniana è accertata25 e datati, più o meno da tutti gli studiosi, a un’epoca precedente a quella della morte: il BAV, Reg. lat. 76226; Il Paris BNF lat. 884727; il Troyes, Médiathèque du 25 Per tutti i codici che ricordiamo si vedano e. k. rand, A Survey of the Manuscript of Tours, Cambridge (Mass.), I, 1929 (The Mediaeval Academy of America Publications, 3), pp. 96-97; 113-114; B. BischoFF, Katalog der festländischen Handschriften des neunten Jahrhunderts (mit Ausnahme der wisigotischen), III: Padua-Zwickau, Wiesbaden 2014, pp. 146-147; 386; 435; d. Ganz, Handschriften der Werke Alkuins aus dem 9. Jahrhundert Alkuin von York und die geistige Grundlegung Europas a cura di E. Tremp – K. Schmuki, Sankt Gallen, Sankt Gallen 2010 (Monasterium Sancti Galli 5), pp. 185-94, Akten der Tagung vom 30. September bis zum 2. Oktober 2004 in der Stiftsbibliothek St. Gallen 26 G. Billanovich, Dal Livio di Raterio (Laur. 63, 19) al Livio del Petrarca (B. M. Harl., 2493), in «Italia medievale e umanistica», II (1959), pp. 103-178; J. Vezin, La répartition du travail dans les «scriptoria» carolingiens, in «Journal des Savants», (1973) , pp. 213, 215; l. d.reynolds, Livy, in Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, a cura di L. Reynolds-N. Wilson, pp. 208-209; B. BischoFF, La biblioteca di corte di Carlo Magno, in Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Bari-Roma 1988, pp. 127-128; J. J. John, The Named (and Namable) Scribes in Codices Latini Antiquiores, in Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni di copisti dalle origini all’avvento della stampa, Atti del seminario di Erice, X Colloquio del Comité international de paléographie latine (23-28 ott. 1993), a cura di E. Condello-G. De Gregorio, Spoleto 1995, pp. 109, 111, 116, 117, 118, 119, 120; v. von Büren, Livy’s Roman History in the Eleventh-Century Catalogue from Cluny: The Transmission of the First and Third Decades, in Medieval Manuscripts of the Latin Classics: Production and Use, Proceedings of the Seminar in the History of the Book to 1500, a cura di C. A. Chavannes Mazel- M. McFadden Smith-Anderson, Leiden 1993, pp. 59, 60, 64, 88; P. Busonero, Alcune osservazioni sul rapporto tra antigrafo e apografo nella tradizione della terza decade di Livio, in «Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», 18 (2004), pp. 19-36. 27 m. c. Ferrari, Der älteste Touronische Pandekt Paris, Bibliothèque Nationale de France 8847 und seine Fragmente , in « Scriptorium», 53 (1999), pp. 108-113. 86 Fabio Troncarelli Grand Troyes, Fonds ancien 174228. E’ necessario - e intendo farlo nel futuro - approfondire lo studio di tali manoscritti ed altri eventuali testimoni dello stesso tipo, tenendo presente i limiti cronologici entro i quali va condotta l’analisi29. Latina siren Abbiamo già osservato, en passant, che dietro a tutto questo repertorio di ombre e illusioni c’è evidentemente l’arte romana, soprattutto l’arte tardoantica con le sue drôleries grottesche e il suo gusto per il trompe l’oeil. Ci resta da aggiungere che l’influenza di simili modelli si spiega agevolmente attribuendo ad Alcuino la paternità delle illustrazioni. Com’è noto, infatti, egli si formò in un centro ricco di codici antichi e di cultura come York, in stretto contatto con i vicini monasteri di Lindisfarne e Wearmouth-Jarrow, nei quali circolavano straordinari esempi dell’arte tardoantica, a cominciare dal codex grandior della Bibbia di Cassiodoro. In seguito, il futuro abate di Tours si recò a Roma ben due volte, soggiornandovi a lungo: ebbe modo così di ammirare e studiare con calma monumenti grandiosi di un passato non ancora scomparso e manoscritti prestigiosi che oggi non esistono più. Oltre a questa straordinaria esperienza, non possamo dimenticare l’importanza della cultura insulare, entro la quale comunque Alcuino affondava le sue radici: una cultura imbevuta di modelli tardoantichi, anche se declinati all’interno di un linguaggio autonomo ed innovativo. Basti pensare a un capolavoro come l’Evangeliario di Lindisfarne, per comprendere come l’eco inconfondibile del mondo latino, sia pur rielaborato in modo originalissimo, fosse chiaramente percepibile a chi volesse distinguerne gli accenti, anche senza un mitico viaggio nella lontana Urbe. 28 F. t. coulson-a. a. Grotans, Classica Et Beneventana: Essays Presented to Virginia Brown on the Occasion of Her 65th Birthday, Turnhout 2008, p. 252; c. cazaux-kowlski, Une pièce négligée du puzzle neumatique français : la notation lyonnaise in Solange Corbin et les débuts de la musicologie médiévale,a cura di C. Cazaux-Kowlski-I. His J. Gribenski, Rennes 2015, p. 111-146, in particolare pp.. 133-134. 29 La ricerca deve prendere in esame codici datati prima della morte di Alcuino, tenendo presente però che l’abate di Tours comincia ad avere problemi alla vista a partire dal 799 (Ep.170) e che di conseguenza avrà avuto difficoltà nello scrivere e nel disegnare. Non va dimenticato, tuttavia, che codici datati dopo il 799 dagli studiosi possono essere stati scritti prima o comunque iniziati molto tempo prima della data finale della loro trascrizione (un fenomeno di cui abbiamo tracce anche nei codici di cui abbiamo parlato: ad esempio nel Paris BNF lat. 8847 troviamo spesso che la scrittura del testo ha coperto disegni preesistenti). 87 Ma se l’influenza di certe fonti non è difficile da indovinare, ben più complesso appare il tentativo di spiegare in qualche modo quale sia la segreta ispirazione che spingeva un personaggio come Alcuino a riversare una così grande folla di figure grottesche, bizzarre e fantastiche nei margini di uan miscellanea di testi filosofici, che nel suo ambiente era ritenuto estremamente importante e raro. Senza dubbio egli avrà voluto tributare un omaggio a quell’arte che stimava enormemente e senza dubbio avrà voluto, nello stesso tempo, dare sfogo alla sua fantasia esuberante: una fantasia che non aveva molte occasioni di emergere liberamente nella sua vita pubblica. E tuttavia, davanti a così tante chimere, che compaiono e appaiono ancora, senza sosta, senza fine, viene il sospetto che il diabolico autore di questo teatro d’ombre abbia in mente un senso segreto, più profondo del gioco fantasioso, fine a sé stesso o del deferente ossequio a una pur nobile tradizione. Gli stessi mostri, gli stessi grilli che già facevano capolino tra le righe di codici insulari come il Book of Kells e che si moltiplicano nel codice Pagès, di lì a poco si riprodurranno con selvaggia energia sui capitelli e sui portali delle chiese di età romanica, nelle scene che evocano l’Inferno o la ridda dei dannati, ma anche e soprattutto negli spazi dedicati alla raffigurazione del turba dei demoni che assediano da ogni lato il creato. Una simile scelta presuppone una qualche idea del mondo e non può essere giustificata solo come espressione di sfrenata fantasia. Del resto, già nell’arte antica e tardoantica, le maschere spaventose, i volti spiritati, gli esseri deformi, i corpi umani generati da corpi animali negli affreschi, nell’oreficeria, negli oggetti, nei mobili, nella glittica alludevano in molti casi a qualche cosa di più intenso ed arcano del gioco fantasioso di una decorazione fine a sé stessa. E’ noto che nel mondo antico e tardoantico era radicata la convinzione che l’universo fosse popolato da una miriade di esseri invisibili e che il neoplatonismo e l’orfismo rinforzarono questa fiducia primitiva, evocando in diverso modo la presenza dei daimones disseminati tra terra e cielo, intemediari tra l’uomo e la divinità. Sintetizza efficacemente quest’opinione un brano di Apuleio che vale la pena riprodurre: «Vi sono delle potenze divine intermedie nello spazio della nostra atmosfera tra il cielo che sovrasta, e la terra che sottostà, grazie alle quali i nostri desideri e i nostri meriti pervengono agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni: ad essi i celesti e i terrestri portano agli uni preghiere, agli altri doni, trasmettono dagli uni agli altri richieste di soccorsi, come interpreti per gli uni e salvatori per gli altri. Come dice 88 Fabio Troncarelli Platone nel Simposio, sono loro che amministrano tutte le rivelazioni, i vari prodigi della magia e i presagi di ogni tipo. In effetti ciascuno tra quelli che appartengono al novero dei dèmoni, insignito di una funzione, la espleta secondo la propria competenza: dar forma ai sogni, dividere le viscere spaccandole, governare il volo degli uccelli, modulare il canto, ispirare i vati, scagliare i fulmini, far scontrare le nubi e tutti gli altri segni con i quali diviniamo il futuro. Tutti questi fenomeni si deve ritenere che abbiano luogo per volontà, comando e autorità divina, ma attraverso l’obbedienza, l’opera e l’ufficio dei dèmoni..e ...si addicono bene alla posizione intermedia dei dèmoni. Infatti essi stanno in mezzo tra noi e gli dèi sia per la loro collocazione spaziale sia per la natura del loro spirito, avendo in comune con i celesti l’immortalità, con i mortali la passionalità30.». Contro Apuleio si levò severo il monito di Agostino, a due secoli e mezzo di distanza, il teologo cristiano che più si avvicina al platonismo, tanto da considerarlo la migliore della filosofie antiche e sicuramente quella più vicina alla verità. Nel De Civitate Dei31, il santo risponde polemicamente ad Apuleio affermando: «Il platonico Apuleio, parlando dei costumi dei demoni, dice che hanno le stesse passioni degli uomini; essi cioè si adirano per le ingiurie, si placano con gli ossequi e con i doni, godono degli onori, si dilettano dei vari riti, e se in essi viene trascurato alcunché si impermaliscono. Fra le altre cose che dice ad essi appartengono le divinazioni degli auguri, degli auspici, degli indovini e dei sogni, e che i miracoli dei maghi sono pure opere loro. Quindi li definisce brevemente dicendo che sono animali per la forma, sensibili per l’anima, ragionevoli per la mente, aerei per il corpo, eterni per il tempo...Non è gran cosa che siano animali: lo sono anche le bestie; non è gran cosa che abbiano la razionalità: l’abbiamo anche noi; e che giova loro essere eterni, se la loro eternità non è beata? È difatti migliore una felicità temporanea che un’eternità infelice. E come possono esserci superiori per le passioni dell’animo, se la loro eternità non è beata? È difatti migliore una felicità temporanea che un’eternità infelice. E come possono esserci superiori per le passioni dell’animo se anche noi le abbiamo? E non le avremmo se non fossimo così miserabili! Che cosa importa che 30 aPuleius, De deo Socratis, in e. Pianezzola- l. cristante - G. ravenna, Autori di Roma antica, Firenze 1995, 3, pp. 319-20 (capitoli 6 e 13 nella traduzione di G. Ravenni). 31 auGustinus, De civitate Dei, a cura di C. Borgogno, Roma 1952, 1, VIII, 16, 17, 18, pp. 396-400), 89 siano formati di un corpo aereo, quando a qualsiasi corpo si preferisce un’anima di qualunque natura? Perciò il culto di religione a cui è tenuta l’anima non si deve dare ad una cosa inferiore all’anima.». Eppure, nonostante la condanna agostiniana, la fede ancestrale nella presenza dei demoni e del loro potere continuò indisturbata nei secoli che intercorrono tra la fine del mondo antico e l’età moderna, come mostrano esempi di ogni tipo, a cominciare dall’innumerevole quantità di amuleti e gemme dal valore apotropaico, nelle quali si mescolano disinvoltamente elementi cristiani e pagani; per finire alle numerossissime forme di rituali magici intessuti di riferimenti cristiani e soprtatutto preghiere ad angeli che contrastino l’influsso dei demoni, siano essi angeli riconosciuti dalla chiesa o siano essi dichiarati estranei al culto cattolico dalle autorità religiose. Un segno evidente della contraddittorietà e dell’ambiguità perfino dei più pensosi esponenti della cultura cristiana medievale, sta nel fatto che questo genere di preghiere, che hanno lo stesso valore dei talismani, furono in certi casi onorate, raccomandate e considerate degne del massimo rispetto proprio dagli stessi personaggi che esecravano l’uso superstizioso degli amuleti da parte del popolo ignorante: come fece per l’appunto Alcuino, pronto a stigmatizzare la superstizione dei filatterii degli Ebrei e delle collane con ossi di animali dei rozzi contadini inglesi, ma pronto egualmente a lodare e perfino a utlizzare le loricae apotropaiche diffuse nel mondo celtico, che, in certi casi, non erano altro che le stesse formule magiche per esorcizzare i mali del corpo e gli influssi maligni ribattezzate in chiave cristiana32. In realtà, non puo’ meravigliarci una simile manifestazione di quella che, in sintonia con la storia della medicina e con l’antropologia culturale, potremmo definire “filosofia spontanea33”, quel coacervo di idee e sentimenti “non sistematico e non formalizzato nel quale vengono convogliati elementi di conoscenza scientifica e 32 P. -y. lamBert, Celtic loricae and ancient magical charms, in Magical practice in the latin west. Papers from the International Conference held in Zaragoza, 30 Sept.-1 October 2005, a cura di R. L. Gordon- F. M. Simón, Leiden-Boston 2010, pp. 629-648. Giustamente Patrick Sims-Williams interpreta la contraddizione apparente di Alcuino come la manifestazione tipica del ceto sociale più elevato dell’Inghilterra altomedievale,vhe si apre alla civiltà dell’Europa postromana e non vuole confondersi con lo stile di vita e l’identità dei ceti più bassi legati al mondo della tradizione (P. sims-williams, Religion and Literature in Western England 600-800, Cambridge 1990, pp. 273-327). 33 La città dei segreti. Magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (XV-XVIII secolo), a cura di F. Troncarelli, Milano 1985, p. 18. 90 Fabio Troncarelli di senso comune, elaborazioni teoriche e frutti di esperienze, credenze personali e frammenti di vita vissuta.34”. La fortuna millenaria delle figure di demoni con funzione apotropaica, disseminate nelle zone di confine tra interno ed esterno delle case e dei templi, che corrispondono ai margini dei manoscritti, affonda le sue radici nella “filosofia spontanea” della tradizione popolare e dotta, continuamente rinvigorita da filosofie nuove che il senso comune riadatta e semplifica. I demoni, si accalcano nei punti nei quali possono fare irruzione nella nostra esistenza e riescono a volte a varcare queste soglie, questi confini, apparendo inattesi ed imprevisti, davanti ai nostri occhi, come avviene nelle celebrazioni misteriche e come avviene, secondo una tradizione classica e medievale, nelle comunicazioni “medianiche”, che possono essere captate attraverso speciali oggetti che hanno poteri inauditi, come gli specchi o le superifci che riflettono il cielo e l’aria popolata di esseri misteriosi35. E’ difficile dire quanto tutto ciò sia consapevolmente presente nelle drôleries del codice pagesianus, in parte ricalcate sulle figure dei talismani antichi, che sembrano anticipare le illustrazioni grottesche dei manoscritti di età gotica: e tuttavia è altrettanto difficile essere sicuri del contrario solo per rassicurarci, esorcizzandone l’influsso e pensando che le figure fantastiche sono solo un gioco, l’espressione della fantasia sbrigliata dell’autore. Questi disegni elusivi e invisibili, accortamente mascherati per sorprendere il lettore sono una una sorta di messaggio subliminale che gli lascia una sensazione di disagio. Forse, almeno in parte, nei margini di un manoscritto che doveva attirare l’attenzione dell’uomo colto e spingerlo a esercitare la sua ragione sull’esempio di Aristotele, si celava anche il riflesso ambiguo di ciò che Freud ha chiamato l’Unheimlich: la percezione che intorno a noi c’è qualcosa di oscuro e inesplicabile, che viene avvertito come familiare ed estraneo e provoca al tempo stesso angoscia e confusione: il sorriso del diavolo nello specchio, beffardo, inquietante, enigmatico. 34 G. cosmacini, Scienza e ideologia della medicina dell’Ottocento, in Annali della storia d’Italia, 7, Torino 1984, p. 1224. 35 Baltrušaitis, Le miroir, pp. 188-203. Vedi anche The Mirror in Medieval and Early Modern Culture: Specular Reflections, a cura di N. Frelick, Turnhout, 2016. Alla fiducia millenaria nei metodi apotropaici corrisponde, simmetrica, la fiducia millenaria nell’esistenza intorno a noi di una rete di influssi negativi ed aggressivi, diretti contro di noi, la cui quintessenza è il Malocchio. 91 Tav. 1: BAV, Pagès 1, fol. 113v (particolare). Tav. 2 a, b: BAV, Pagès 1, fol. 113v (particolare). 92 Fabio Troncarelli Tav. 3 a, b, c a: Roma, Museo Nazionale Romano, Gryllos, Intaglio in gemma vitrea gialla, II-I sec. a. C (Inv. 50/30 C) Il gryllos è costituito da una testa di caprone e una testa 93 umana: è però possibile percepire anche una terza testa umana, con corna di caprone, all’interno della testa dell’ariete ( La glittica Santarelli ai Musei Capitolini. Intagli, cammei e sigilli, a cura di A. Gallottini, Roma 2012, n. 265). b. London British Museum, Gryllos. Pietra incisa in un anello, XVIII sec.(Inv. : 1913,0307.100). La gemma raffigura cinque teste che si generano l’una dall’altra e che si possono percepire in due modi diversi, se le si guardano al dritto o al rovescio. 94 Fabio Troncarelli c: raBano mauro, De laudibus S. Crucis, poema figurato n. 3 (ed. Perrin) , con le lettere evidenziate delle parole Salus e Crux, formate da altre parole del poema (la spiegazione del poema è in m. Perrin, L’iconographie de la Gloire à la sainte Croix de Raban Maur, Turnhout, 2000, pp. 128-129). 95 Tav. 4: BAV, Pagès 1, fol. 1v: i disegni più importanti sono evidenziati con colori diversi (il rosso indica una figura isolata o un gryllos composto di figure diverse, ma ben percepibili individualmente; il verde indica una figura nascota all’interno di un’altra figura; l’azzurro indica che la figura che vediamo è composta di varie figure incastrate tra loro difficili da percepire e piuttosto piccole). 96 Fabio Troncarelli Tav. 5 a, b: BAV, Pagès 1, fol. 1v (particolare nella parte alta di sinistra che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 1). a) Gryllos formato da una testa di Silenoo, una testa di cinghialee una lepre (smotivo iconografico molto diffuso). Ci sono altre figure nascoste all’interno del gryllos. b) Le diverse figure di cui è composto il gryllos e le lettere “A”, “L” nascoste all’inrerno di una delle figure. 97 Tav. 6: a) BAV, Pagès 1, fol. 1v (Gryllos formato da esseri con poteri apotropaici: di cui vediamo solo la testa: Sileno, il cinghiale e la lepre); b) Gemma romana di diaspro rosso, che rappresenta un gryllos formato da esseri con poteri apotropaici, di cui vediamo solo la testa o una parte del corpo: Sileno, il cinghiale e due orecchie di lepre (Reading, Reading Museum, Duke of Wellington Collection, Inv.: 03006. vedi: m. heniG, A corpus of Roman engraved gemstones from British sites, Oxford 1978 n. 377.). Tav.. 7: Gryllos formato da una testa di fauno e di leone, con un uccello e un caduceo: motivo iconografico piuttosto diffuso, a cui possono essere aggiunti altri elementi secondari (maschere, teste di lupo, uccelli etc.) a) British Museum, Disegno a penna del XVIII secolo di una gemma con poteri apotropaici, Inv. 2010,5006.1157 (BM Cat. Gem 2571). b) BAV, Pagès 1, fol. 1v (particolare della parte centrale del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numeo 4). 98 Fabio Troncarelli Tav. 8: Confronto tra gli elementi costitutivi delle due immagini di grylloi della tav. 7. 99 Tav. 9: BAV, Pagès 1, fol. 1v (particolare). All’interno del volto del fauno ci sono le lettere del nome “Alcuinus”. 100 Fabio Troncarelli Tav. 10 a, b: BAV, Pagès 1, fol. 1v (particolare) a) Figure racchiuse nella figura principale. 101 b) Una delle figure racchiuse dentro la figura principale a confronto con un bassorilevo romano (sarcofago del Blenheim Palace, Oxfordshire). 102 Fabio Troncarelli Tav. 11 a, b, c, d: BAV, Pagès 1, f. 1v: La figura principale del gryllos è una testa di fauno se la si guarda dritta e un leone se la si guarda a rovescio. 103 Tav. 12 a, b, c: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte superiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 2). a) La testa di leonessa ; b) testa di leonessa nel mosaico della Villa romana del casale di Piazza Armerina (”Corridoio della grande caccia”), IV secolo d. C. ; c) la testa di leonessa racchiude una testa di mulo (evidenziata col colore verde). 104 Fabio Troncarelli Tav. 13 a, b c, d: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte superiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 2): a) testa di mulo che raglia; b, c: confronto tra le a testa di mulo che raglia del pagesianus e una testa di mulo nel mosaico teodoriciano della Cripta degli Scavi di Aquileia. 105 Tav. 14 a, b,c,d: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte superiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 2): confornto tra la testa di un essere fantastico (b) e la testa di un cavallo (c) nel pagesianus e la testa di una maschera (a) e di un cavallo (d) negli affreschi della Casa di Augusto sul Palatino (I sec.a C.). 106 Fabio Troncarelli Tav.15 a, b: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte sinistra inferiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 7): a) testa d’asino; B) figure racchiuse nella testa d’asino (evidenziate con il rosso, il verde, l’azzurro). 107 Tav. 16 a, b: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte sinistra inferiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 7). a) Animali racchiusi nella testa della figura principale. b) Confronto tra la testa di cavallo percepibile con effetto di pareidolia in una roccia di un affresco romano del primo secolo a. C. (Casa di Vila Graziosa, Musei Vaticani, sala dellle Nozze Aldobrandini: particolare della scena in cui I Lestrigoni distruggono la flotta di Ulisse) e la testa di cavallo racchiusa entro la figura principale del disegno del pagesianus della parte sinistra inferiore del foglio 1v. 108 Fabio Troncarelli Tav. 17: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte sinistra inferiore del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 7): 109 Tav. 18: BAV, Pagès 1, f. 1v ( figure disseminate in diverse poszioni sul f. 1v) 110 Fabio Troncarelli Tav. 19 a, b: BAV, Pagès 1, f. 1v (particolare della parte destra del foglio che nella tav. 4 abbiamo indicato col numero 7) 111 Tav. 20 a, b: BAV, Pagès 1, f. 113v: volto disegnato dentro un’iniziale confrontato con il volto di Sileno nel gryllos del diaspro del Guernsey Museum at Candie, Guernsey (Roman collection, II-III sec. d. C.) 112 Fabio Troncarelli CAMPANA PALEOGRAFO1 Fabio Troncarelli Delacroix... si abbandonava incantato, nel sogno ad occhi aperti, al suono della musica leggera e appassionata [di Chopin], come un uccello che scintilla e danza su un abisso che ti gela il cuore. c. Baudelaire, Scritti sull’arte, Torino 1992, p. 346 a pubblicazione, impeccabile ed elegante, dei due volumi di scritti di Augusto Campana, che raccolgono la maggior parte dei suoi interventi su Biblioteche, codici, epigrafi2, per le edizioni di Storia e Letteratura, grazie alla generosità, all’intelligenza critica e alla sagacia di Rino Avesani, Michele Feo ed Enzo Pruccoli, ci offre l’opportunità di affrontare un tema rimosso nella cultura italiana e meritevole della massima attenzione: il significato ed il ruolo svolto dal grande studioso romagnolo nell’ambito della Paleografia. Non si può dire che questo argomento goda di un’indiscussa popolarità: la maggioranza di coloro che hanno rievocato la 1 Desidero ringraziare tutti cloro che hanno contribuito a migliorare le mie ricerche, in particolare la dottoressa Paola Delbianco della Biblioteca Civica Gambalunga di Rimini, Valentina Saraceni delle Edizioni di Storia e Letteratura, Marco Buonocore e Antonio Manfredi della Bibliteca Apostolica Vaticana e soprattutto il professor Rino Avesani, a cui sono legato da tanti anni di affetto e comunanza di idee, ed a cui queste pagine sono dedicate. 2 a. camPana, Scritti. II. Biblioteche, codici, epigrafi, a cura di R. Avesani- M.Feo-E. Pruccoli, Roma 2017 (Storia e Letteratura, 241). Vedi pure id., Scritti, I, Ricerche medievali e umanistiche, a cura di R. AvesaniM.Feo- E. Pruccoli, Roma 2012 (Storia e Letteratura, 240); id., Scritti, III, Storia, civiltà, erudizione romagnola, a cura di R. Avesani- M.Feo-E. Pruccoli, Roma 2017 (Storia e Letteratura, 242). 115 sua figura si sono soffermati solo occasionalmente sulla sua identità di paleografo e nei più importanti contributi generali sulla storia della scrittura, pubblicati dal 1960 a oggi, il nome stesso di Campana figura raramente. Il paradosso di Campana-paleografo è questo: tutti hanno riconosciuto e riconoscono che egli era un “conoscitore di manoscritti” di altissimo livello, un esperto “antiquario” dal giudizio infallibile, un grande intenditore di testimonianze scritte. Pochissimi, però, sono disposti ad ammettere che fosse un paleografo vero e proprio. Il suo testo teorico più denso e illuminante, la Prolusione al corso di Paleografia ad Urbino del 1960 (pubblicato nel 1967) intitolata Paleografia oggi: rapporti, problemi e prospettive di una “coraggiosa disciplina”, è completamente ignorato da undici su dodici tra i manuali più significativi di questa disciplina negli ultimi trentacinque anni, segnalati dall’ultimo di essi, la Paleografia latina di Pratesi e Cherubini, che non la nomina, a sua volta3. Allo stesso modo nel volume collettivo Un secolo di Paleografia e Diplomatica4, nel quale alcuni tra i più famosi paleografi di tutto il mondo commemorano la lunga vita degli studi paleografici e diplomatistici tra Otto e Novecento in Europa e negli Stati Uniti, troviamo una sola citazione, estemporanea della Prolusione di Urbino5. Analoghe omissioni dobbiamo constatare in ricerche più analitiche: valga per tutti l’esempio del celebre6 The Handwriting of Italian Humanists di una studiosa come Albinia de la Mare del 1973, nel quale l’articolo di Campana del 1950 con lo stesso titolo del libro (Scritture di umanisti7) non viene neppure citato e c’è solo un vago accenno della scoperta dell’autografo di Poggio fatta da Campana nel 1948, dando invece rilievo alla conferma di Ruysschaert nel 19598, e Ullman nel 19609, igno- 3 I manuali sono elencati e discussi in a. Pratesi-P. cheruBini, L’avventura grafica del mondo occidentale, Città del Vaticano,2010 (Littera antiqua, 16), pp. 10-18. 4 Un secolo di Paleografia e Diplomatica (1887-1986). Per il centenario dell’Istituto di Paleografia dell’Università di Roma, a cura di A. Petrucci-A. Pratesi, Roma 1988. 5 Ibid., p. 80 nota 172. 6 a. c. de la mare, The Handwriting of Italian Humanists, I-1: Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Coluccio Salutati, Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Bartolomeo Aragazzi of Montepulciano, Sozomeno da Pistoia, Giorgio Antonio Vespucci, Oxford,1973, p. 78. 7 Campana, Scritti, II, 1, pp. 113-136. 8 J. ruysschaert, Codices Vaticani latini11414-11709, Città del Vaticano 1959, pp. 93-96. 9 B. l. ullmann, The origin and development of Italian scripture, Roma 1960 (Storia e letteratura, 55), pp. 48-49. 116 Fabio Troncarelli rando la notizia (certo scarna) che lo studioso romagnolo ne aveva dato per iscritto nel 1950, un testo peraltro citato esplicitamente sia da Ruysschaert, sia da Ullman10. L’elenco potrebbe continuare. Non credo che sia necessario insistere su questa vicenda ed anzi mi pare opportuno dimenticare chi dimentica e cercare di ripensare al tema che affrontiamo alla luce di nuovi orientamenti, più sereni ed equilibrati di quelli del passato. Renovatio studiorum Negli ultimi anni c’è stata una salutare reazione contro la rimozione del significato del ruolo di Campana paleografo e questa reazione non nasce dal caso. Nel 1996 Marco Buonocore, con il suo spirito di pioniere, ha aperto la discussione sui temi di cui ci occupiamo, pubblicando alcune schede inedite di codici, redatte da Campana, per il catalogo dei manoscritti vaticani di Fulvio Orsini, ritrovate nell’Archivio della Biblioteca Apostolica Vaticana, che contenevano preziose valutazioni di manoscritti. La sua segnalazione ha stimolato ricerche più approfondite nello stesso archivio: grazie all’aiuto di Delio Proverbio e Christine Grafinger, Antonio Manfredi ha potuto raccogliere tutte le schede preparatorie del catalago dei manoscritti di Orsini, un lavoro a cui lo studioso romagnolo aveva atteso per anni ed anni11. Le schede, opportunamente ricomposte in forma di volume manoscritto, sono attualmente consultabili nel fondo dei codici vaticani latini, divise in a quattro tomi con la segnatura complessiva: Vat. Lat. 15321. Oltre a tali testi, vi sono state numerosi saggi interessanti nelle diverse celebrazioni della figura e l’opera di Campana che hanno ovviamente accompagnato l’opera, 10 Nel cinquantesimo di ‘Studi e testi’, 1900-1950, Città del Vaticano 1950 (Pubblicazioni varie, 20), p. 79. Sul volumetto si veda m. Buonocore, Editoria, in La Biblioteca Apostolica Vaticana come luogo di ricerca e come istituzione al servizio degli studiosi. Atti del Convegno internazionale, Città del Vaticano, 11-13 novembre 2010, a cura di M. Buonocore-A. Piazzoni, Città del Vaticano 2011 (Studi e testi, 468), p. 550. 11 a. manFredi, Le carte di Augusto Campana per il catalogo dei manoscritti latini di FulvioOrsini (Vat. lat. 15321 1-4]), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XIX, Città del Vaticano 2012 (Studi e testi, 474), pp. 357-367. 117 ancora in corso, di pubblicazione integrale dei suoi scritti editi ed inediti12. In particolare va ricordata l’introduzione di Armando Petrucci a due contributi epigrafici dello studioso romagnolo, pubblicati nel 2005: in essa vengono ricordati e commentati suoi scritti paleografici13. Il ruolo di Campana paleografo e in particolare il significato della sua Prolusione di Urbino sono stati evidenziati anche in altri recenti saggi di diversa natura. Caterina Tristano vi ha fatto più volte riferimento, tracciando nel 2011 un quadro ampio ed articolato degli studi paleografici fondati su codici vaticani14. Gianmarco De Angelis, nel 2013 e nel 2017 ha fatto altrettanto, delineando con passione e competenza il ruolo svolto dal maestro di Campana, Pietro Torelli, modello di metodo positivo e positivistico nella Diplomatica e nella Paleografia, e di altri paleografi lombardi tra Otto e Novecento che hanno osato approfondire le problematiche poste dalla scuola del Traube15. E proprio tratteggiando la figura di questo grande paleografo tedesco, Marina Passalacqua nel 2014 ha fatto correttamente riferimento a Campana e alla sua Prolusione di Urbino16. Partendo da un’altra angolazione, Daniele Bianconi ha tracciato nel 2014 un rapido schizzo della Paleografia italiana del Novecento, dedicando spazio all’impulso dato dallo studioso romagnolo e dalla Prolusione di Urbino alle ricerche sulle testimonianze scritte17. 12 Testimonianze per un Maestro. Ricordo di Augusto Campana, Roma 15-16 dicembre 1995, a cura di R. Avesani, Roma 1997; Augusto Campana e la Romagna. Atti del convegno di Santarcangelo di Romagna, 5-6 aprile 1997, a cura di A. Cristiani -M. Ricci, Bologna 2002; Omaggio ad Augusto Campana. Atti del convegno di Cesena, 14-15 novembre 1997., a cura di C. Pedrelli, Cesena 2003. 13 Studi epigrafici ed epigrafia nuova nel Rinascimento, a cura di A. Petrucci Roma 2005 (Filologia medievale e umanistica, 2); a. camPana, Due epigrafi del Poliziano a Roma, ripubblicato in camPana, Scritti , II, 2, pp. 799-850. 14 c. tristano, Paleografia e Codicologia latina, in La Biblioteca Apostolica Vaticana, pp. 70-144. 15 G. de anGelis, Pietro Torelli paleografo e diplomatista, in Notariato e medievistica. Per i cento anni di “Studi e ricerche di Diplomatica comunale” di Pietro Torelli. Atti delle giornate di studi (Mantova, Accademia nazionale Virgiliana, 2-3 dicembre 2011), in” Nuovi studi storici”, 93 (2013), pp. 73-85; Id., Raccogliere, pubblicare, illustrare carte». Editori ed edizioni di documenti medievali in Lombardia tra Otto e Novecento, Firenze 2017. 16 m. Passalacqua, Lezioni di filologia: Ludwig Traube, Elias Avery Lowe, Eduard Fraenkel, in “Quaderni del Vicino oriente”, VIII (2014), pp. 19-29. 17 d. Bianconi, Paleografia: riflessioni su concetto e ruolo, in Storia della scrittura e altre storie, a cura di D. Bianconi, Roma 2014 (Accademia Nazionale dei Lincei, “Bollettino dei Classici”. Suppl. 29), pp. 7-29. 118 Fabio Troncarelli Tempestas egregia È maturo il tempo di una valutazione più serena e equilibrata del metodo e delle ricerche di Campana in ambito paleografico, delle sue opinioni e delle sue aspirazioni, superando non solo il silenzio sulla sua identità di paleografo, ma anche quello o sugli eventuali fraintendimenti (consapevoli o inconsapevoli) delle sue opinioni. Non ci sarebbero state, infatti, tante reazioni recenti su questi temi se non ci fosse stato un senso di disagio nei confronti della “rimozione” culturale e in ultima analisi psicologica di un’esperienza intellettuale ed umana che avrebbe potuto e dovuto essere considerata non una fonte di scandalo ma una fonte di ispirazione. Un analogo senso di disagio è quello che provano oggi molti studiosi di fronte alla crisi, per lunghi anni spasmodicamente esorcizzata, della Paleografia e della Diplomatica, nonostante tanti autorevoli tentativi di negare difficoltà progressivamente sempre più evidenti ed il valore salutare delle crisi di ogni sapere, se esse vengono interpretate e gestite nel senso di una crisi di crescita. Non si può dire che un simile atteggiamento sia stato il più diffuso negli ultimi tent’anni riguardo alle discipline di cui ci occupiamo ed il risultato, sotto gli occhi di tutti, è non solo la frammentazione di metodi e orientamenti, ma soprattutto la smentita di norme e principi che sembravano definitivi e che oggi sembrano invece gravemente pericolanti. Valga per tutti come esempio la discussione aperta dell’idea di “canone della scrittura” e della contrapposizione tra scrittura canonizzata o “normale” e scrittura “usuale”, idee impropriamente attribuite al solo Cencetti, ma in realtà già implicite, se non addirittura esplicite in ricerche precedenti alle sue18. Questi cardini della Paleografia vengono oggi apertamente messi in discussione da vivaci interventi - tra i quali ricordiamo quelli di Cavallo, Crisci, Degni, D’Agostino,- che evidenziano non solo i limiti sul piano concettuale, ma anche quelli dovuti ad un loro uso arbitrario19. L’esistenza di tali problemi non può certo meravigliare chi ha da anni sostenuto la validità di punti di vista alternativi o chi ha 18 m. d’aGostino- P. deGni, La Perlschrift dopo Hunger: prime considerazioni per una indagine, in “Scripta” , 7 (2014), pp. 77-94, in particolare pp. 77-80 19 Ibid., p. 80, nota 9. 119 cercato di introdurre idee diverse da quella della rigida della contrapposizione tra canone e scrittura usuale. Del resto, una simile svolta era stata ampiamente preannunciata e in fondo prefigurata da autorevoli paleografi: si pensi solo per fare un esempio alla critica più che fondata di Armando Petrucci allo schema ideale della contrapposizione tra scrittura canonizzata e scrittura usuale espressa già nel 197920. Il paleografo sottolineava in questa occasione che una simile formula vale solo in casi di monografismo e mostra la corda in caso di multigrafismo. Infatti la scrittura “usuale” può costituire il polo opposto della scrittura “normale” se esiste un solo modello calligrafico a cui fare riferimento e una sola scrittura “usuale” che da esso dipende: se invece esiste più di un modello di scrittura canonizzata ed “usuale”, le influenze dei diversi modelli e delle diverse forme di corsiva si possono combinare in soluzioni eclettiche che danno luogo a sviluppi contrastanti. Una simile critica è stata ampiamente approfondita e sviluppata da una ricca messe e di studi, al punto tale che, come afferma Caterina Tristano, si parla apertamente della compresenza in certe situazioni di diverse scritture “usuali”, che interagiscano tra loro contraddicendo implicitamente in modo palese l’assunto dell’incontro-scontro tra una sola scrittura “normale” e una sola scrittura “usuale”. Vi è dunque :“ la necessità di riprendere in esame il problema complessivo dell’evoluzione della scrittura capitale libraria...e della scrittura onciale” superando”ogni fittizia dicotomia”. Di conseguenza si deve ammettere che “tale considerazione metodologica è valida non solo per la comprensione dei fenomeni grafici dell’età romana e in relazione al passaggio dalla “écriture commune” alla “nouvelle écriture commune” malloniana, ma è applicabile anche all’amplissimo panorama delle “scritture usuali” di stampo cencettiano lungo tutto il periodo medievale, con le ingerenze e i prestiti provenienti da sistemi allotri, ma culturalmente vicini o sovrapposti, che hanno alimentato le sinapsi grafiche tra il filone della scrittura corsiva e quello della scrittura libraria prima che quest’ultima si fissasse in canoni e tipi21 In sostanza le “idee forti” della Paleografia teorica vengono, contraddette, rielaborate e sviluppate all’interno delle analisi di singoli fenomeni grafici e il quadro 20 a. Petrucci, Funzione della scrittura e terminologia paleografica, in Palaeographica Diplomatica et archivistica studi in onore di Giulio Battelli, a cura della Scuola Speciale di Archivisti e Bibliotecari dell’Università di Roma, 1, Roma 1979 (Storia e letteratura, 139), pp. 3-30. 21 tristano, Paleografia, p. 99. 120 Fabio Troncarelli che ne risulta è più complesso, più maturo, meno schematico ed astratto, più ‘empirico’ insomma. Di una simile aspirazione alla Paleografia “empirica” si è fatto portavoce da anni Attilio Bartoli Langeli, che ha ribadito recentemente il suo punto di vista, con la consueta efficacia del suo stile vivace e garbato:”Non sarà inutile invitare a una storiografia empirica, basata sul reale, basata sul visibile. Una storiografia che sappia guardare. Qualcuno parlò della Paleografia come scienza dello spirito. Ma la Paleografia, la Diplomatica, la stessa storiografia sono scienze dell’occhio. La parola intelligere, lo sappiamo, viene da intus legere; non è troppo chiedere che, prima, si proceda al foris legere, con altrettanta sapienza e curiosità. L’invito è a una storiografia descrittiva, capace e vogliosa di descrivere; per uno avvezzo alle edizioni è una sorta di bandiera, se è vero che in latino medievale describere significa trascrivere. L’invito è a stare coi piedi per terra, a non darsi troppe arie. Così la pensava anche Federico II, che nel prologo al De arte venandi cum avibus coniava parole d’oro: «Intentio vero nostra est manifestare [si noti il verbo] solum ea que sunt sicut sunt». Proviamoci, è un buon esercizio di misura e di realismo: far vedere le cose che sono così come sono.22”. Torniamo a Campana. E’ evidente che gli sviluppi recenti della ricerca riportano prepotentemente alla ribalta gli orientamenti dimenticati dei suoi scritti paleografici. In particolare gli spunti di metodo e di merito disseminati nella sua Prolusione di Urbino. Nelle pagine che seguono ci concentreremo su questi aspetti, dando per scontata l’originalità di ricerche su singoli problemi a carattere paleografico che per ragioni di spazio saremo costretti a trascurare, a meno che non vi sia una ragione specifica per occuparsene. Riferendosi alla Prolusione e alla figura di Campana in generale, Armando Petrucci ha definito lo studioso romagnolo: “un vero e proprio anticipatore di rinnovamenti23”. E’ proprio in questa direzione che dobbiamo procedere, mettendo in evidenza le intuizioni e le anticipazioni del studioso romagnolo, che meritano oggi di essere recuperate, ripensate e approfondite. 22 a. Bartoli lanGeli, Lectio magistralis in occasione del conferimento del Premio internazionale Ascoli Piceno per la medievistica (XXVI edizione) 2014, in corso di stampa. 23 camPana, Scritti, II, 2, p. 849. 121 Nova et vetera Riprendiamo, dunque, in mano la Prolusione di Urbino. Vi troveremo molti spunti di riflessione. Il primo, di carattere generale, riguarda l’impostazione della ricerca paleografico, ma anche, indirettamente, la ricerca storica pure e semplice. In sintonia con una serie di indicazioni che risalgono almeno al Traube e che ricorrono in molti paleografi italiani della prima metà del Novecento e in particolare Franco Bartoloni24 e Giorgio Cencetti25 l’autore rivendica il valore della “Paleografia come scienza storica” che trova nel suo “oggetto e nei [suoi] metodi la sua propria giustificazione nell’ambito della conoscenza storica” e che ha “il diritto... a considerarsi non più ancilla ma domina, non più disciplina ausiliaria... ma scienza”. E tuttavia, a differenza di altri suoi colleghi che senza avvedersene sono andati di male in peggio, Campana sottolinea l’importanza di non chiudersi nell’orgogliosa ma astratta rivendicazione di una dignità identitaria narcisistica commettendo lo stesso errore che ha commesso il Croce rispetto a Gentile e al Fascismo: rinunciare all’esercizio vitale della Storia vera e propria, con le sue luci e le sue ombre, e rifugiarsi in un indefinito ed ambiguo Storicismo, che idolatra la Storia, ma non sa praticarla. Potremmo dire, citando il maestro di Campana Pietro Torelli, che se è vero che la Paleografia deve “eliminare ogni tendenza all’ isolamento, cioè gretta praticità” è non meno “ necessario preservare le scuole universitarie dalla tendenza opposta alla pura teoria che arrischia di darci eruditissimi paleografi...che non sanno leggere documenti26”. Gli fa eco Campana che mette in evidenza le multiformi possibilità del vizio atavico di isolarsi in un sapere autoreferenziale, fingendo di superarlo con superficiali fughe in avanti: Le roccheforti che avrebbero dovuto essere difese dalla cosiddetta scuola storica [il crocianesimo] capitolarono, anche per la debolezza di certe posi- 24 F. Bartoloni, Scritti, 1951, p. 9:”Ormai la Paleografia ha mutato completamente aspetto. Da disciplina ausiliaria della storia e della filologia si è trasformata, fino ad assumere dignità e autonomia di scienza”. 25 G. cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1956 (rist. con aggiornamenti nel 1997, pp. 7-13 (nella edizione del 1997, pp. 11-17). 26 Citato in de anGelis, Pietro Torelli, p. 81. 122 Fabio Troncarelli zioni di isolamento provinciale o, che in fondo è lo stesso, nazionalistico della cultura italiana27”. L’equiparazione dello Storicismo e del crocianesimo mal digerito con il nazionalismo fascista è significativa: nonostante l’apparenza, sbandierata da tanti emuli di Pirgopolinice, si tratta di due facce della stessa medaglia che finiscono con il consacrare quell’isolamento provinciale, che a parole tutti vorrebbero evitare. In realtà dietro a simili meccanismi di difesa si annida un pregiudizio tipico della cultura italiana che si riverbera con facilità in posizioni ideologiche che sembrerebbero opposte: la tendenza ad “anteporre la genialità, vera o presunta, alla più semplice e più utile intelligenza”. Mentre invece, per dirla con Torelli: “è vana l’ipotesi geniale ove lo strumento può dare prova certa28”. L’esercizio vero di una disciplina come la Paleografia e più in generale del sapere dello storico è possibile solo rinunciando alle scorciatoie opposte e complementari del dogmatismo catechistico e del soggettivismo istrionico, pur se camuffato da culto per la Storia invece che da culto della Nazione o da culto di una fazione, variazioni sul tema di ciò che il Vico chiamava la Boria de’ dotti. ”La Paleografia è...una scienza storica. Una scienza, cioè, non classificatoria, descrittiva, meccanica, al modo naturalistico, ma mirante alla ricostruzione dello sviluppo storico della scrittura, come uno specchio della cultura, anzi come un aspetto stesso della cultura: che facendo storia di tale aspetto lo vede in organica connessione con ogni altro e fa dunque, nell’ambito suo, storia della cultura”. Non è difficile accostare a queste parole quelle di personaggi apparentemente lontani da Campana e che a prima vista potrebbero essere scambiati per estranei al suo sapere, mentre invece, sotterraneamente, ne sono fratelli in ispirito. Basti pensare alle parole con cui Pratesi commemorava Cencetti, dieci anni dopo al sua morte:” Che cosa rimane...dell’insegnamento di Giorgio Cencetti?...Rimangono e non si potranno certo rifiutare i concetti di scrittura come manifestazione dell’attività spirituale dell’uomo, come espressione della sua cultura, a qualunque livello, e della Paleografia come studio storico del suo svolgimento: seppure le linee di tale svolgimento non sono sempre riconducibili a una schematizzazione prefigurata dello sviluppo del fenomeno grafico (e lo stesso Cencetti avvertiva..che il suo paradigma andava inteso soltanto 27 camPana, Scritti, II, 1, p. 450. 28 P. torelli, Metodi e tendenze negli studi attuali del nostro diritto, Modena 1928, p. 11. 123 come un’astrazione dei singoli processi concreti e storici: salvo poi richiamarsi a quello proprio per ogni caso concreto), nondimeno sarà non sarà possibile ricostruire tale sviluppo senza fare ricorso...a quei concetti...Per dirla con le parole di Augusto Campana: solo in questa Paleografia totale si può attingere la conoscenza piena, storica, critica e critica perché storica29.” Dunque, ad onta delle rimozioni di cui parlavamo all’inizio, nella cultura italiana del Novecento è perfettamente distinguibile,come ha detto De Angelis, una linea culturale di “passione per una Paleografia come parte essenziale della storia della cultura” e una decisa “avversione nei confronti del tradizionale approccio classificatorio-descrittivo” , una linea che si isipira idealmente a Traube e accomuna” Luigi Schiaparelli... Giorgio Pasquali...Pietro Torelli, Giorgio Cencetti e Augusto Campana30”. In questa linea il Campana, nella sua Prolusione, inserisce con audacia anche il Mallon e i suoi seguaci in Francia: l’identità del paleografo romagnolo è talmente forte da non avere paura di un dialogo con coloro che la Paleografia italiana dell’epoca teneva a distanza e criticava. Non si può negare, sostiene Campana, che anche questi ‘fratelli separati’ siano riconducibili al più genuino metodo storico, senza aver paura del loro tecnicismo astruso e delle loro affermazioni drastiche, che per tanti paleografi italiani costituivano e costituiranno ostacoli insormontabili. “E’ significativo che...l’esigenza di storicizzare...la Paleografia è evidente oltre che nei Lineamenti...del Cencetti...nei lavori dei paleografi francesi...persino nello spregiudicato e violento rifiuto polemico delle classificazioni tradizionali31”. E tuttavia, pur porgendo un ramoscello d’ulivo a coloro che altri mal sopportavano, lo studioso romagnolo conserva indipendenza di giudizio, muovendo ai paleografi francesi una critica originale. Contrariamente ad altri, Campana rifiuta l’eccessiva importanza assegnata al filone corsivo dal Mallon: non è vero, infatti, che l’unico motore della storia paleografica sia la spontaneità della scrittura corsiva che si oppone a una tradizione sclerotizzata. 29 a. Pratesi, Giorgio Cencetti dieci anni dopo: tentativo di un bilancio, in Frustula paleographica, Firenze 1992 (Biblioteca di Scrittura e Civiltà, IV), p. 394. 30 de anGelis, Raccogliere, p. 107. 31 camPana, Scritti, II, 1, p. 452. 124 Fabio Troncarelli “Vi è ...nella scienza paleografica più recente una certa tendenza a trascurare la Paleografia libraria, in conseguenza della dottrina che pone al centro della storia delle forme grafiche quella che è stata chiamata dai francesi scrittura comune e da uno dei nostri scrittura usuale, la quale è la sola sede, come efficacemente si dice, nella quale avvengono gli spontanei e decisivi mutamenti che determinano il moto storico della scrittura. Concetti questi che si sono rivelati notevolmente fecondi di spiegazioni e ricostruzioni storiche e che hanno fatto notevolmente progredire il cammino della nostra scienza fuori degli schemi di una dottrina tradizionale che rischiava di divenire sterile. Ma quando ad esempio il Mallon, nel suo violento rifiuto della terminologia tradizionale di uno Schiaparelli o di un Lowe, trasferisce la sua polemica contro le teorie a una sorta di attacco all’oggetto stesso della ricerca e giunge a parlare dell’onciale come di una scrittura esclusivamente artificiosa, di vita storica limitata e di trascurabile importanza nello svolgimento generale della scrittura latina, a me sembra dire cosa solo in parte vera e dimenticare che anche una scrittura libraria è viva, pur se destinata ad esaurire la sua vita nel tempo e disconoscere che per parecchi secoli l’onciale è stata la scrittura per eccellenza del libro per tutta la cultura romana occidentale, ciò che già basterebbe a conferirle importanza nella storia della civiltà, e mi sembra dimenticare che proprio in grazia di questa diffusione e prestigio culturale essa ha avuto anche influenza sullo svolgimento dinamico di altre scritture32” Una scrittura viva. E’ questo l’oggetto del vero storico: quello che citando Francesco e Sanctis potremmo definire “il vivente”. Quest’apparente evidenza, nella sua disarmante semplicità, è la critica più micidiale che si possa fare a posizioni come quelle di Mallon. Se è vero che Campana è stato un “anticipatore di rinnovamenti” possiamo dire che la sua critica, garbata e ricca di humanitas, anticipa altre critiche o puntualizzazioni nei confronti del metodo di Mallon sia a proposito di problemi specifici, come quello dell’onciale, sia a proposito di problemi generali. Per quanto riguarda il problema specifico dell’onciale non si può dimenticare che tutti gli interventi che si sono avuti dopo la data della Prolusione hanno confermato ampiamente le parole del studioso romagnolo e evidenziato il ruolo tutt’altro che artificioso e retrogrado svolto da questa scrittura. Riassume il senso di questa ricca 32 camPana, Scritti, II, 1, p. 458. 125 messe di studi un’affermazione lapidaria di Pratesi e Cherubini:”Là dove i testi sono destinati ad una sorta di conservazione sclerotica, continua ad essere usata la capitale; quando invece rivestono un ruolo innovativo all’interno della società sono in onciale e semionciale33”. Se ci spostiamo sul piano delle critiche di carattere generale alle critiche del metodo di Mallon e della scuola francese dobbiamo ammettere che Campana muove in modo diverso dai più autorevoli paleografi italiani. E tuttavia nonostante questa divergenza, vi è un eguale senso di imbarazzo nei confronti di metodi troppo sbrigativi. E c’è di più. Campana, come al solito ha precorso nuovi orientamenti degli studi perché la sua critica, più radicale anche se in apparenza più mite, è alla base di nuovi orientamenti paleografici che sono assai più incisivi di quelli dei paleografi del passato. Questo modello di sviluppo, implicito nelle posizioni del Mallon ed ampiamente sviluppato, sia pur riveduto e corretto, da altri studiosi34, fa pernio sull’idea di un meccanico evoluzionismo, ricalcato sbrigativamente sulle teorie elaborate dalla linguistica, secondo il quale la norma viene violata dalla prassi perché ciò è più facile ed “economico” e questa infrazione diviene alla fine “normale” perché tutti la preferiscono alla vecchia e antiquata regola: nella storia della scrittura dovrebbe avvenire ciò avviene nella storia della lingua, nella quale la lingua istituzionale diviene sempre più arcaica ed astrusa e viene sostituita da forme più sbrigative e usuali. La logica di un simile cambiamento è del tutto meccanica. Pur ammettendo il peso dell’economia dello sforzo dell’evoluzione della scrittura (ma anche della cultura), ciò non è sufficiente, da solo, a giustificare ogni suo cambiamento: a differenza di ciò che accade nella lingua, in ambito grafico (e culturale) senza una “riformulazione” globale voluta e ben pensata delle forme di comunicazione, l’infrazione della 33 Pratesi- cheruBini, Paleografia, p. 92. 34 e. casamassima-e. staraz, Varianti e cambio grafico nella scrittura dei papiri latini. Note paleografiche, in “Scrittura e civiltà”, 1 (1977), pp. 9-110; e. casamassima, Tradizione corsiva e tradizione libraria nella scrittura latina del Medioevo, Roma 1988. Casamassima, pur criticando nettamente Mallon per il suo tecnicismo astratto, ha ribadito in modo insistente che il vero fattore di cambiamento, l’unica forza spontanea e viva è la scrittura corsiva “antagonista” della scrittura libraria, chiusa e conchiusa in un artificiosità irridemibile. Sulle luci ed ombre del suo metodo si veda a. Petruccci, Storia della scrittura come storia di strutture: originalità e tradizione nell’opera di Emanuele Casamassima paleografo, in Per Emanuele Casamassima: un incontro di studi su scrittura libro biblioteche, in “Medioevo e Rinascimento”, 5 (1991), pp. 105-118. 126 Fabio Troncarelli norma, la cosiddetta “variante” resta in un binario morto, come dimostra la lunghissima vita della Capitale libraria ed epigrafica latina, che da sempre è stata scritta in modo corsivo senza che le soluzioni corsive abbiano minimamente intaccato l’impianto generale della scrittura. Dal momento che una scrittura viene usata per comunicare messaggi significativi, tutti i componenti della società, a cominciare dalle pubbliche autorità, fanno in modo che essa si preservi e continui ad esercitare la sua funzione, perché in caso contrario le strutture stesse della comunicazione verrebbero meno. Di conseguenza, la scrittura tende a mantenere la sua forma molto di più della lingua, che prevede diversi registri di uso, dal colloquiale all’aulico. Nell’ambito della Capitale epigrafica più solenne ed ufficiale le forme canonizzate in vigore sin dalla seconda metà del III secolo a. C., si sono conservate molto più a lungo dei caratteri del latino arcaico: la scrittura corsiva, che ricorda quella tracciata dalle “zampe di una gallina” come dice Plauto (Ps. 27-30), non ha scalfito il primato della scrittura lapidaria e libraria, come invece è avvenuto nell’ambito della lingua. Le forme grafiche corsive sono state ampiamente praticate e tollerate nell’uso quotidiano, senza che a nessuno sia venuto in mente di sostituire sistematicamente le vecchie formule alle nuove, anche se, ovviamente, esisteva una dialettica feconda di sviluppi tra le diverse manifestazioni grafiche della capitale corsiva usuale e quelle della capitale canonizzata35 E’ solo il “terremoto” sociale e culturale intervenuto negli ultimi secoli del mondo antico, con la massiccia compresenza nella società latina di scriventi provenienti da altre aree grafiche e linguistiche e addirittura di non scriventi che tuttavia avevano in sorte l’esercizio di potere sugli scriventi, come i barbari, che ha determinato una serie di cambiamenti radicali nella millenaria vita della Capitale e nella millenaria vita del monografismo latino, rapidamente trasformato in un sistema multigrafico e quindi permeabile al gioco delle “varianti” e della loro possibile trasformazione da bizzarrie a soluzioni grafiche condivise da tutti. 35 Pratesi-cheruBini, Paleografia, pp. 39-61. Ma vedi soprattutto G. cencetti, Note paleografiche sulla scrittura dei papiri latini dal I al III secolo d.C, in id., Scritti di paleografia, a cura di G. Nicolaj, Dietikon-Zürich 19952, pp. 47-107. Come ha scritto Cencetti:” Se a un certo momento la scrittura dei libri si è trasformata da maiuscola in minuscola, ciò non è avvenuto in virtù di uno svolgimento i cui presupposti fossero già insiti e contenuti in nuce in essa medesima: ché, anzi, se una tendenza caratteristica esiste nella scrittura dei libri è piuttosto verso la calligrafizzazione, la stabilizzazione, la canonizzazione dei segni e magari la stlizzazione e l’esagerazione del tratto, non certo quella verso la modificazione delle forme grafiche fondamentali, che è invece cartteristica della scrittura usuale e corrente”. 127 Un fenomeno analogo, anche se apparentemente inverso, è quello che ha portato all’evoluzione del multigrafismo delle “scritture altomedievali”36 nel monografismo della “minuscola carolina”: rappresentare un simile complesso fenomeno come il puro, meccanico gioco di varianti che si affermano automaticamente per la loro “economicità” è schematico. Come ha scritto efficacemente Pratesi, citando indirettamente Cencetti: “La canonizzazione[della carolina] non può essere frutto di poligenesi37; sarà necessariamente il risultato dell’elaborazione di una scuola determinata, anche se allo stato attuale delle conoscenze - parlo ovviamente delle mie - non saprei dire quale.38”. L’aspetto fallimentare dell’enfasi attribuita alla corsiva è che, pur ammettendo, come del resto Campana stesso fa, che gli studi che ne sottolineano l’importanza “si sono rivelati notevolmente fecondi di spiegazioni e ricostruzioni storiche”, essi non servono a spiegare tutto ed anzi si rivelano incerti e contraddittori se si cerca di applicarli sistematicamente. Non a caso la posizione di grandi studiosi come Bischoff, che si ispirano a quella “Paleografia empirica” di cui parlava Bartoli Langeli, pur riconoscendo l’importanza dell’impulso dato dalla corsiva, la definiscono un “vivaio delle nuove scritture calligrafiche39”, ma non la considerano il deus ex machina che spiega tutto. E ben a ragione. Alla prova dei fatti le teorie astratte mostrano la corda. Si pensi, ad esempio, all’approfondimento di ricerche degli ultimi cinquant’anni sulla scrittura di Petrarca e sui suoi sviluppi nell’ambito delle esperienze che potremmo definire “protoumanistiche”40, che valorizzano al massimo l’i- 36 Per la nozione di “scritture altomedievali” che risale a Pratesi si veda a. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Roma 1989, p. 100. 37 “Se si trasforma la poligenesi in polipalingenesi è ammissibile e spiegabile la prosecuzione in vari luoghi di un processo generale e diffuso in tutto l’antico ambiente scrittorio romano”: G. cencetti, Postilla nuova a un problema paleografico vecchio: l’origine della minuscola Carolina, in , cencetti, Scritti di paleografia, pp. 109-134. 38 Pratesi, Le ambizioni di una cultura unitaria: la riforma della scrittura, in Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, Spoleto 1981 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 27), pp. 507-530) ristampato in Pratesi, Frustula palaeographica, pp. 267-279, in particolare p. 530. 39 B. BischoFF, Paleografia latina. Antichità e Medioevo, a cura di G. P. Mantovani G. P.-S. Zamponi , Padova 1992, (Medioevo e umanesimo, 81),p.88. 40 La bibliografia in questo campo è ricchissima: si veda per una prima introduzione quella che correda 128 Fabio Troncarelli mitazione degli antichi come fattore propulsivo e non come ha detto un ricercatore a dire poco sprovveduto e superficiale come “morte della storia”. Non c’era nulla di retrogrado in queste esperienze, anzi: eppure esse nascevano e si sviluppavano a partire dal recupero intenzionale di modelli gloriosi di un’antichità vera o sognata, non certo dal gioco spontaneo della corsiva e delle sue varianti41. A parte questi ed altri studi di analogo significato, va detto che anche sul piano teorico generale non sono mancate critiche pertinenti. Antonino Mastruzzo ha smontato, con buoni argomenti, le posizioni dei seguaci del filone inaugurato da Mallon42 ed ha mostrato che l’attribuzione di un ruolo centrale nell’evoluzione grafica alla scrittura corsiva finisce con il mitizzare il ruolo del ductus rispetto alla complessità di fenomeni che interagiscono sia nella realtà concreta della storia della scrittura, sia nella realtà storica pura e semplice, ripetendo così, sans paraître, lo stesso errore rimproverato a Mallon e Marichal. “C’è forse una sfumatura di ingenuo ottimismo positivista nella convinzione di potere accedere alla comprensione della scrittura in quanto «sistema e movimen- l’analisi di questi temi di tristano, Paleografia , pp. 76-77. 41 a. Petrucci, La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano 1967 (Studi e Testi, 248); id., “L’antiche e le moderne carte”: ‘imitatio’ e ‘renovatio’ nella riforma grafica umanistica , in Renaissance- und Humanistenhandschriften, a cura di J. Autenrieth , München 1988, pp. 1-12 (ma tutto il volume va preso in considerazione); s. zamPoni, Il libro del Canzoniere: modelli, strutture, funzioni, in Rerum vulgarium fragmenta. Codice Vat. lat. 3195. Commentario all’edizione facsimile, a cura di G. Bellon-F. Brugnolo-H. Wayne Storey-S. Zamponi, Roma-Padova 2004, pp. 13-7; F. BruGnolo, Libro d’autore e forma-canzoniere. Implicazioni grafico-visive nell’originale dei Rerum vulgarium fragmenta, ibidem, pp. 105-29; h. wayne storey, All’interno della poetica grafico-visiva di Petrarca, ibidem, pp. 131-7; m. Feo, Rerum vulgarium fragmenta, in Petrarca nel tempo. Tradizione lettori e immagini delle opere. Catalogo della mostra. Arezzo, Sottochiesa di San Francesco, 22 novembre 2003 - 27 gennaio 2004, a cura di M. Feo, [s.l., ma Pontedera], 2003, pp. 41-63; a. Petrucci, Spazi dei testi e strategie petrarchesche, in La parola scritta e le sue grazie. A proposito della mostra “Petrarca e il suo tempo”, Pontedera 2006, pp. 45-56; s. zamPoni-t. de roBertis, Libri e copisti di Coluccio Salutrati: un consuntivo, in Coluccio Salutati e l’invenzione dell’umanesimo. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 2 novembre 2008-30 gennaio 2009, a cura di T. De Robertis-G. Tanturli-S. Zamponi, Firenze 2008, pp. 345-363; a. manFredi, Nella biblioteca di Coluccio Salutati, La biblioteca, Schede 56-96, L’officina. Schede 97-113, Appendice, Schede 114-118, ibidem; m. cursi, Per la prima circolazione dei Rerum vulgarium fragmenta: i manoscritti antiquiores, in Storia della scrittura e altre storie, a cura di D. Bianconi, Roma 2012; Petrarca, l’umanesimo e la civiltà europea: atti del convegno internazionale, Firenze, 5-10 dicembre 2004, a cura di D. Coppini – M. Feo, Firenze 2012. 42 a. mastruzzo, Ductus, corsività, storia della scrittura: alcune considerazioni, “Scrittura e civiltà” 19 (1995), pp. 403-464.; ID.,”Vocabulo novicio quidem sed commodo”. A proposito della parola ‘corsivo’, in Segni, per Armando Petrucci, a cura di L. Miglio- P. Supino, Roma 2002, pp. 176-189. 129 to» attraverso un approccio di tipo seccamente funzionalista e che faccia leva unicamente sull’analisi del ductus. Innanzitutto perché la ricerca di un migliore rendimento funzionale è solo uno dei possibili requisiti di una scrittura, accanto al quale saranno sempre presenti altre esigenze, di tipo connotativo; l’immagine che complessivamente una scrittura proietta di sé stessa è, se non più, almeno altrettanto importante di eventuali incrementi di efficienza sul piano dell’esecuzione e una scrittura, anche corsiva, recherà sempre, in definitiva, delle connotazioni non endogene le quali potranno far valutare positivamente, e quindi perpetuare, anche la complessità, la difficoltà di esecuzione. Inoltre, se l’approccio allo studio della scrittura vuole essere di tipo funzionalista, dovrebbe avere la coerenza di esserlo fino in fondo, valutando cioè ogni forma grafica come pienamente inserita nel complesso quadro della comunicazione scritta, la quale è di tipo visivo e implica, su un versante, la produzione dei segni, su un altro la loro fruizione, la loro percezione. Così ad esempio, se sul piano della produzione dei segni, in sé considerato, potrà risultare più economico ridurre il numero degli stacchi di penna, non si potrà comunque prescindere dal fatto che gli stacchi di penna e la loro distribuzione dipendono in larga misura anche da fattori percettivi, dall’organizzazione dei patterns visivi, dalle stesse modalità di una lettura che potrà essere, per richiamare l’attenzione su uno solo dei possibili fattori condizionanti, oralizzata o endofasica e che quindi imporrà, o non imporrà, precise demarcazioni e segmentazioni dello scritto.43”. 43 “Il punto di forza di una siffatta paleografia di impianto strutturalista viene senz’altro individuato nell’analisi del ductus, ovvero dei «rapporti che corrono, nel farsi a fil di penna, come numero, successione e direzione, tra gli articuli all’interno delle lettere e tra le lettere nella catena grafica», analisi che sola consente di risalire dalle forme, dalle figurae statiche delle lettere, al gesto che le ha generate. Strettamente correlata all’esame del ductus è l’attenzione per le legature come fatto sistemico, come visibile manifestazione della corsività. Questo richiamo, di lontana ascendenza malloniana, alla centralità del ductus e ad una metodologia di indagine marcata in senso dinamico e non statico, ha trovato ampio consenso, finendo con l’imporsi, con risultati di sicura rilevanza, anche all’attenzione della paleografia greca, tradizionalmente orientata verso altri interessi.Va però anche rilevato, come altrove ho cercato di dimostrare, che la nozione di ductus reca in sé una certa carica di ambiguità la quale rischia, se non esplicitata, di produrre sul piano delle prassi descrittive, delle concrete procedure di analisi e, conseguentemente, sul piano interpretativo, una sorta di impasse metodologica; la stessa attenzione per le legature, se non opportunamente raccordata ai fatti tecnici e di esecuzione da cui il fenomeno trae origine, può risolversi in una repertoriazione di forme che finisce con il riproporre istanze tipologiche e classificatorie di stampo tradizionale. a. mastruzzo, Problemi metodologici e prospettive di ricerca nello studio della tradizione grafica corsiva, In” Litterae Caelestes”, 1 (2005), pp. 29-39. 130 Fabio Troncarelli Il richiamo all’esistenza di patterns visivi a proposito della scrittura è quanto mai opportuno ed è stato acutamente intuito proprio da Campana (come vedremo meglio più avanti). Alla luce di una simile prospettiva, acquista un profondo significato la reazione istintiva di Campana di fronte agli eccessi “ideologici” di studiosi “brillanti”, ma sempre pronti ad “anteporre la genialità, vera o presunta, alla più semplice e più utile intelligenza”. E ci invita ad osare e nello stesso tempo ad essere più umili, nel momento stesso in cui, avventurandoci verso nuovi orizzonti, proviamo l’orgoglio di varcare le Colonne d’Ercole della tradizione. Cognitio de futuris magis proprie dicitur providentia quam praevidentia Restando nel tema delle “anticipazioni” vale la pena sottolineare l’importanza di alcune intuizioni della Prolusione che hanno avuto in seguito uno sviluppo vigoroso. Innanzi tutto l’idea del necessario confronto e collegamento tra la Paleografia latina e la Paleografia greca. Nalla sua Prolusione lo studioso romagnolo auspica con lucidità questa collaborazione affermando:”Un’altra conseguenza dell’attuale concezione della Paleografia dovrebbe essere...un avvicinamento sempre maggiore tra Paleografia latina e Paleografia greca” tenendo presente “gli apporti del materiale papirologico”, poiché “tutta la cultura dell’antichità classica è stata...una cultura bilingue44”. E’ proprio a partire da un’impostazione di questo genere che si sono avuti nel corso del Novecento contributi fondamentali per la Paleografia. Elencarli tutti sarebbe impossibile e del tutto pleonastico perché si tratta di testi ampiamente noti. Inoltre ci farebbe deviare dal cammino che abbiamo intrapreso: ci limitiamo pertanto a menzionare solo qualche riflessione di carattere generale, indicando alcuni punti di riferimento, e cioè pagine celebri di Pratesi, Cavallo e Petrucci45 . 44 camPana, Scritti, II, 1, p. 455. 45 a. Pratesi, Gli orientamenti della Paleografia latina negli ultimi decenni, in Cento anni di cammino. Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica (1884-1984). Atti delle manifestazioni per il centenario della Scuola con documentazione relativa alla sua storia, a cura di T. Natalini, Città del Vaticano 1986, pp. 73-83, ristampato in Pratesi, Frustula Paleographica, pp. 111-123; G. cavallo, La La koinè scrittoria greco-romana nella prassi documentaria di età bizantina, in “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik”, 19 (1970), pp. 1-31, rist. in G. cavallo, Il calamo e il papiro. La scrittura greca dall’età ellenistica ai primi 131 Un’ altra intuizione che verrà ampiamente sviluppata dagli studiosi è quella della necessità di rompere i limiti cronologici tradizionali dell’indagine paleografica allargando la ricerca ai manoscritti successivi alla scoperta della stampa fino ai giorni nostri ed osando prendere in considerazione, in una ricerca paleografica a tutto campo, oggetti di studio che, di solito, la pigrizia e la furbizia accademica decreta essere competenza di cattedre universitarie distinte, come i libri a stampa, le epigrafi, le testimonianze grafiche spontanee di scriventi non professionali, Ha scritto infatti Campana:” In tema di Paleografia latina dalla concezione attuale dovrebbe discendere anche una rottura e un allargamento dei tradizionali limiti cronologici della Paleografia, sia verso l’antichità...sia verso i tempi moderni..dopo l’invenzione della stampa...nel mondo moderno e modernissimo46”. Un simile allargamento di prospettive è più volte auspicato negli scritti dello studioso romagnolo, che ribadisce in diverse occasioni che: “la forza della Paleografia...sta nelle possibilità da parte di una scienza particolare di trovare punti di convergenza con altre47”. Infatti “ogni disciplina storica è ausiliaria di ogni altra...se è vero, e soleva dirlo Pasquali, che nella ricerca storica...non esistono discipline delimitate o compartimenti stagni, esistono problemi48”. In questa luce vanno inquadrati anche gli occasionali spunti, a volte garbatamente polemici ed a volte riflessivi, sul ruolo svolto da discipline importantissime, come ad esempio (ma non solo) la Diplomatica o la Codicologia, che possono esorbitare dalla loro funzione ed essere tacitamente e impropriamente trasformate in regine della ricerca scientifica, cui tutto il resto va subordinato. A torto o a ragione, Campana era convinto che solo la collaborazione tra discipline poteva portare frutti ed secoli di Bisanzio, Firenze 2005, pp. 43-71; id., Écriture grecque et écriture latine en situation de “multigrafismo assoluto”, in L’écriture: le cerveau, l’œil et la main. Actes du colloque international du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, College de France 2, 3 et 4 mai 1988), a cura di C. Sirat- J. Irigoin-E. Poulle, Turnhout 1990 (Bibliologia. Elementa ad librorum studia pertinentia, 10), pp. 349-362; a. Petrucci, Paleografia greca e paleografia latina: significati e limiti di un confronto, in Paleografia e Codicologia greca (Berlino-Wolfenbüttel, 17-21 ottobre 1983), a cura di M.D’Agostino, Marco – A. Doda,- D. Harlfinger- G-. Prato, 1, Alessandria 1991 p. 463-484. 46 camPana, Scritti, II, 1, p. 455. 47 Ibid., p. 347. 48 Ibid., pp. 451-452. 132 Fabio Troncarelli era invece estremamente riluttante, a costo di essere, lui che era tanto mite, addirittura brusco di fronte a riproposizioni della “boria de’ dotti” vichiana travestita da novità scientifica o gabellata come intoccabile dogma: “Nessuno studierebbe codici se non fossero libri e non si vede la necessità di costruire una scienza di per sé per lo studio di aspetti che acquistano interesse e validità solo nella storia del libro nella sua totale realtà, del libro come monumento di cultura. Questa...la concezione integrale del libro come monumento, uno studio veramente storico cui Filologia, Paleografia, Codicologia collaborino indistintamente è la nuova, vera, dinamica possibilità a cui mira questo campo di studio. E questa è forse da pensare come una delle mete ultime della Paleografia libraria, dalla quale non è separabile, in stretto parallelismo con Epigrafia e Diplomatica, l’aspetto antiquario della Codicologia49”. Anche in questo caso è del tutto pleonastico ricordare al lettore che su tali intuizioni si basa indirettamente l’esplosione di studi su simili argomenti a partire dal 1960, un’autentica rivoluzione culturale che ha offerto alla comunità degli studiosi nuove, fondamentali prospettive: basta ricordare, a questo proposito, i contributi molteplici di paleografi come Armando Petrucci50, programmaticamente aperti proprio nelle direzioni a cui Campana accennava a cominciare dal tema della “scrittura esposta” per finire a quello delle diverse manifestazioni grafiche “dell’età moderna e modernissima”, senza dimenticare l’apporto originale e innovativo di studiosi di altra formazione che hanno esplorato in varie direzioni l’universo dei libri a stampa, come Roger Chartier, Robert Darnton o Conor Fahy51. E’ sin troppo facile osservare che tali ricerche vanno ben oltre le intuizioni di Campana e riguardano campi di studio molto vari, alcuni dei quali sono certamente diversi da quelli che egli era solito praticare. Già è molto facile. E’ anche molto 49 camPana, Scritti, II, 1, p. 456. 50 Rimandiamo il lettore, per ovvi motivi di spazio, solo a qualche titolo significativo a. Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino 1986; id., Scrivere e leggere nell’Italia medievale, Milano 2007; id., Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma 2017. 51 r. chartier, Lectures et lecteurs dans la France d’Ancien Régime, Paris, 1987 (L’Univers historique, 49); id., Les origines culturel de la Révolution française , Paris 1990; r. darnton, L’intellettuale clandestino. Il mondo dei libri nella Francia dell’Illuminismo Milano 1990; id., Il grande affare dei Lumi: storia editoriale dell’Encyclopedie, 1775-1800, Milano, 20122; c. Fahy , Saggi di bibliografia testuale, Padova 1988 (Medioevo e Umanesimo 66). 133 facile essere originali dimenticando gli originali. E dimenticare che all’epoca in cui lo studioso romagnolo formulò le sue osservazioni non era affatto scontato violare certe regole del gioco: basti pensare che un manuale, per tanto versi innovativo e originale come quello del Cencetti, termina la storia della scrittura con l’età umanistica, anche se poi dedica molte pagine su quello che dopo in ambito grafico, come “conseguenza della diffusione della stampa52”. Allo stesso modo, il più autorevole ed informato manuale di paleografia esistente oggi, redatto da Alessandro Pratesi e Paolo Cherubini e pubblicato nel 2010, si conclude, allo stesso modo, con “l’apparizione della stampa a caratteri mobili”, aggiungendo solo poche considerazioni sugli ”sviluppi moderni della storia della scrittura latina53”. Se, dunque, la scansione tradizionale degli studi paleografici è ancora rigorosamente rispettata da autorevoli studiosi contemporanei, non si può trascurare l’audacia dell’esortazione di Campana e il valore del suo invito a varcare i limiti della disciplina, in senso cronologico e in senso scientifico: non solo per trovare il coraggio di oltrepassare le Colonne d’Ercole del sapere tradizionale, ma anche per allargare i confini della Paleografia vera e propria. Restando in tema di anticipazioni non possiamo passare sotto silenzio il richiamo dello studioso romagnolo alla necessità di un’indagine accurata e approfondita degli autografi degli intellettuali italiani. Il tema affiora più volte nella sua produzione e ritorna, in particolare, nella Prolusione, nella quale egli ribadisce:”l’importanza... in stretto senso paleografico, delle scritture individuali dei grandi capitani della cultura e dei loro allievi e gregari...e l’utilizzazione...delle note marginali dei codici. Sono nuove province che da poco tempo hanno cominciato ad essere colonizzate e a dare i primi frutti estesi, aperte alla fraterna e necessaria collaborazione di filologi, paleografi e bibliotecari54”. La singolarità di queste osservazioni non è sfuggita a Bianconi, che riferendosi a questa citazione ha scritto:”Da allora quelle province sono state ampiamente esplorate e colonizzate55”. Ciò è senza dubbio vero, ma anche in questo caso è necessario 52 cencetti, Lineamenti, pp. 259-352. 53 Pratesi-cheruBini, Paleografia, pp. 609-614. 54 camPana, Scritti, II, 1, pp. 458-459. 55 Bianconi, Paleografia, p. 18. 134 Fabio Troncarelli non dimenticare l’originalità delle intuizioni di Campana: esse sono state la base di partenza di un nuovo campo di ricerca - la cui importanza è stata sottolineata da molti studiosi a cominciare da Attilio Bartoli Langeli56- che è stato senza dubbio esplorato negli ultimi decenni, ma a cui si schiudono ancora oggi insperati orizzonti, come testimonia la bella iniziativa, ancora in corso d’opera, di raccolta degli Autografi dei letterati italiani, coordinata con la consueta perizia da Paolo Procaccioli57, realizzando, finalmente presso le Edizioni Salerno, un progetto editoriale che lo stesso Campana aveva presentato alle Edizioni Storia e Letteratura nel 195058. Ha scritto a questo riguardo Antonio Ciaralli: “Non è difficile costatare come con le scritture post-umanistiche siamo al cospetto...di uno dei capitoli più trascurati negli studi paleografici...Il fatto è che grava su quelle scritture il pregiudizio che esse non reintrino nella categoria della scrittura a mano...ma in quelle della calligrafia...esposta ai personalismi dei singoli scriventi... Ma i confini tra le due categorie risultano in verità estremamente labili, tanto che anche alle scrittture più personali sono applicabili...molti dei principi analitici propri dell’indagine paleografica tradizionale. In esse è difatti possibile riconoscere il modello grafico appreso nell’educazione primaria, nonché il polo grafico di riferimento...; si tratta di misurare, insomma , il dissidio che oppone la scrittura regolare, cioè sotoposta a regola (script) alla scrittura libera (free writing)59” Un’altra delle “anticipazioni” della Prolusione riguarda i rapporti tra Paleografia e Linguistica. Scrive infatti Campana:”Altre prospettive mi sembrano aprirsi proprio 56 a. Bartoli lanGeli, Autografia e paleografia, in «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani. Atti del Convegno internazionale di Forlí, 24-27 novembre 2008, a cura di G. Baldassarri-M. Motolese-P. Procaccioli- E. Russo, Roma 2010, pp. 41-60. 57 Le Origini e Trecento I, a cura di G. Brunetti- M. Fiorilla-M. Petoletti, Roma 2013; Le Origini e Trecento, II, a cura di G. Brunett- M.Fiorilla-M. Petoletti, Roma 2013; Il Quattrocento, I, a cura di F. Bausi- M. Campanelli- S.Gentile-J. Hankins-T. De Robertis, Roma 2013; Il Quattrocento, II, a a cura di F. Bausi- M. Campanelli- S.Gentile-J. Hankins-T. De Robertis, Roma 2013; Il Cinquecento, I, a cura di M. Motolese-P. Procaccioli-E. Russo-A. Ciaralli, Roma 2009 e 2013; Il Cinquecento, II, a a cura di M. Motolese-P. Procaccioli-E. Russo- A. Ciaralli, Roma 2009 e 2013. 58 camPana, Scritti, pp. 909-913. 59 a. ciaralli, Dello studio. Per una difesa apologetica dell’inurile, Prolusione all’inaugurazione dei corsi della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Perugia, 2010-2012, Perugia 2012, pp. 4-5. 135 nel centro, nell’essenza stessa di questa ricerca, dall’accostamento con altre discipline...Anzitutto la linguistica. Se si parte dall’osservazione elementare che lingua e scrittura sono ambedue mezzi espressivi...è facile intuire come i problemi e le distinzioni relativi alla natura di lingua e scrittura come fatto individuale (soggettivo) e come fatto sociale e collettivo e quindi istituzionale e strutturale (oggetivo)...si possano vedere negli stessi modi60”. Un simile allargamento di prospettive è gravido di conseguenze: da un lato, infatti, essa può favorire lo studio della scrittura applicando categorie generali desunte dalla linguistica, come è stato fatto, per esempio da Giorgio Costamagna61; ma da un altro lato, invitando i ricercatori ad occuparsi diacronicamente del rapporto tra la lingua e le sue manifestazioni grafiche nel corso del tempo, essa esorta indirettamente gli studiosi a occuparsi di un macrocosmo di “varianti” che sono molto più significative di quelle bizzarre, capricciose e casuali che sono state individuate nel filone della scrittura corsiva. Per interpretare presunte “varianti” linguistiche non è sufficiente infatti, invocare il principo di “economia dello sforzo”: esse vanno invece considerate espressioni alternative di comunicazione, dotate di una vita autonoma rispetto alla norma e possono essere comprese solo se entriamo in sintonia con il vero e proprio universo costituito da scrittori diversamente acculturati, con livelli diversi di alfabetizazzione, che si esprimono differentemente non perchè è più “economico”, ma perchè corrisponde al loro modo di essere. Si pensi solo per fare un esempio alla celeberrima ricostruzione della visione del mondo del mugnaio Menocchio fatta da Ginzburg62: solo se si ammette l’esistenza di una microstoria che deve essere indagata secondo le sue regole e i suoi principi, si può comprendere una galassia di testimonianze altrimenti destinate ad essere espunte dalla conoscenza. L’invito a valutare i rapporti tra paleografia e linguistica comporta infatti necessariamente quello di occuparsi simultaneamente del livello di padronanza del mezzo linguistico e grafico ed offre al paleografo uno strumento di valutazione 60 Ibid., II, 1, p. 459. 61 G. costamaGna, Paleografia e Scienza, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XXVIII (1968), pp. 293314; Id., Paleografia latina. Comunicazione e tecnica scrittoria, in Introduzione allo studio della storia, a cura di L. Bulferetti, Milano 1968, pp. 395-440. 62 c. GinzBurG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino 1976. 136 Fabio Troncarelli in più rispetto all’attenzione per la scrittura “usuale”: egli è invitato infatti ad occuparsi di tutti gli scriventi così come la linguistica ci invita ad occuparci di tutti coloro che usano la lingua senza stabilire una gerarchia tra chi è ai vertici della conoscenza e chi è ai gradi inferiori ed anzi prestando estrema attenzione alle forme di espressione alternative rispetto a quelle ufficiali. La crescita progressiva di indagini dedicate ai rapporti tra lingua parlata e scrittura e tra i diversi livelli di assimilazione o rifiuto della cultura grafica (e non solo grafica) dominante rispetto a quelle subalterne è stata possibile solo perché l’intuizione di Campana ha dato dei frutti, anche se ciò non è avvenuto attraverso un esplicito richiamo alle sue posizioni. Paradossalmente, lo studioso che alternava con pari rigore lo studio dei graffiti delle chiese medievali63 a quello delle epigrafi di papi e imperatori, ha aperto una strada che, consapevolmente o inconsapevolmente, hanno seguito tutti coloro che hanno studiato le manifestazioni grafiche dei semialfabeti con lo stesso rigore con cui studiavano quelle di intellettuali come Petrarca 64 . Solo procedendo su questa strada possono essere compresi universi grafici tradizionalmente esclusi dalle ricerche: quelli più conosciuti, come ad esempio il mondo delle scuole e dell’insegnamento, nel quale parola e scritto s’incontrano ogni giorno65; e quelli meno noti, che formano il microcosmo delle testimonianze grafiche degli “esclusi”, come ha mostrato brillantemente Attilio Bartoli Langeli con il suo bel libro La scrittura dell’italiano66. Reagire in senso conservatore a simili ricerche, giudicandole indagini attente solo allo “aspetto sociologico” della scrittura è miope e superficiale, così 63 camPana, Scritti, II, 1, pp. 351-356; II, 2, pp. 765-774. Ma si vedano anche gli studi sulle iscrizioni non certo auliche e sui graffiti di San Gemini (Scritti, II, 1, pp. 483-595) . 64 A puro titolo di esempio citiamo qualche saggio famoso come Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana. Atti del seminario tenutosi a Perugia il 29-30 marzo 1977, Perugia 1978; a. Petrucci, Per la storia dell’alfabetismo e della cultura scritta: metodi, materiali, quesiti in Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana pp. 33-47; Id., Per la storia dell’alfabetismo e della cultura scritta: metodi, materiali, quesiti , in “Quaderni storici”, 13 (1978)p p. 451-465; a. Bartoli lanGeli, Ancora su paleografia e storia della scrittura: a proposito di un convegno perugino, in “Scrittura e civiltà.”, 2 (1978), pp. 275-294. 65 Si vedano a rigurado le belle pagine di P. cheruBini, Insegnamento scolastico della scrittura ed evoluzione delle forme grafiche della Paleografia latina, Scuola Vaticana e di Paleografia, Diplomatica,e Archivistica, Inaugurazione del Corso Biennale, Anni Accademici 2010-2012 (Città del Vaticano, 25 ottobre 2010), 2011, pp. 73-86. 66 a. Bartoli lanGeli, La scrittura dell’italiano, Bologna 2000. 137 come sarebbe miope e superficiale valutare come puro fenomeno “sociologico” la complessa evoluzione della lingua volgare e delle sue manifestazioni nel corso del tempo e della sua lunga interazione con la lingua latina. Basti pensare a questo riguardo all’importanza della scoperta di Petrucci di un fenomeno significativo della morfologia della scrittura (della morfologia! Non certo della sociologia della scrittura): la cosiddetta “minuscola elementare di base”67e cioè di un modo di scrivere da parte dei semialfabeti radicalmente diverso da quello di coloro che sono professionisti della penna e possono permettersi il lusso di seguire il cosiddetto “canone” o violarlo nella prassi della cosiddetta “scrittura usuale”. Sullo sfondo di simili indagini, ricordiamolo, va collocato lo sviluppo recente di una letteratura scientifica a dire poco impetuosa, che ha posto sul tappeto questo genere di problemi, spiazzando completamente la Paleografia tradizionale, molto di più della presunta “rivoluzione copernicana” del Mallon e dei suoi seguaci. Valga per tutti l’esempio delle ricerche di Giorgio Raimondo Cardona, ispirate a quella che è stata definita “antropologia della scrittura”68. La comparazione delle forme grafiche nei diversi sistemi alfabetici nelle diverse civiltà e l’analisi delle componenti visive della scrittura non può essere espunta, come pure è stato fatto, dall’orizzonte del paleografo, considerando la scrittura alfabetica come un fenomeno estraneo al cosiddetto “sistema di comunicazione visivo”. Questo presunto “sistema”, considerato a torto estraneo e quasi alternativo rispetto al sistema alfabetico, è in realtà la base stessa della scrittura in quanto tale, sia essa alfabetica e non alfabetica: tenerne conto, senza rimuoverne fobicamente le implicazioni, significa affrontare il problema puro e semplice della essenza della comunicazione scritta. Un’ultima doverosa puntualizzazione riguarda i numerosi spunti presenti nella Prolusione e in altri scritti dell’autore a favore di un rapporto dialettico tra paleografia e storia dell’arte, sostenendo più volte: “che la Paleografia, in quanto storia della scrittura, dovrà muoversi in avvenire sempre più verso una concezione metodologica vicina a quella delle arti figurative: insomma storia della scrittura come storia 67 a. Petrucci, Libro, scrittura e scuole , in La scuola nell’Occidente latino, Spoleto 1972 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 19), pp. 313-337, in particolare p. 327. 68 G. r. cardona, Antropologia della scrittura, Torino 1981; id., Storia universale della scrittura, Milano 1986. 138 Fabio Troncarelli di forme grafiche e dire storia di forme grafiche è quasi la stessa cosa che storia di forme ornamentali e figurative69” e che: “storia della scrittura è anzitutto storia di forme visive70”. A questo proposito Campana invoca il confronto con le ricerche di Alois Riegl da un lato e Julius von Schlosser dall’altro, richiamandosi soprattutto, sull’esempio di Traube, al metodo “indiziario” di Giovanni Morelli. Senza dubbio le affermazioni dello studioso romagnolo possono essere “sconcertanti” come egli stesso afferma e provocare una reazione di difesa da parte degli studiosi che hanno applicato e applicano, come ha scritto Bianconi:”i modelli...della linguistica strutturale allo studio della scrittura” e a quelli dediti “all’applicazione del metodo quantitativo e statistico (beninteso alle scritture e non alla materialità del libro)...e alla conseguente immissione dell’informatica e delle tecnologie”, anche se costoro, come osserva lo studioso romano “nonostante la promessa di uno statuto scientifico forte, devono ancora dare risultati convincenti71”. E tuttavia non suoneranno affatto stupefacenti, ma piuttosto premonitrici e rivelatrici a chi, ispirandosi al metodo storico ed applicandolo, non deve dare davvero ulteriori risultati convincenti alla ricerca scientifica. Tra gli ultimi discepoli di questo sapere alla ricerca di una “conoscenza piena, storica, critica e critica perché storica “ va annoverato, certamente, Carlo Ginzburg che proprio dalla Prolusione di Urbino prende avvio per il suo celebre libro sul “paradigma indiziario” di quel Giovanni Morelli, additato come esempio da Campana e da Traube72. Ha scritto con lucidità a questo riguardo Susanna Niccolini: “Ginzburg...ha per primo richiamato l’attenzione sulla congiuntura tra il metodo di Morelli e quello di Traube offerta da Campana: il passo di Campana è commentato anche in In memoria di Augusto Campana [dello stesso Ginzburg], p. 37, dove si pone l’accento sull’eccezionalità per quelle date, del giudizio espresso su Giovanni Morelli73”. Commentando quest’impostazione, la 69 camPana, Scritti, II, 1, p. 347. 70 Ibid., p. 461. 71 Bianconi, Paleografia, p. 10 72 c. GinzBurG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino 2000. 73 s. niccolini, Augusto Campana per la storia delle arti figurative in Augusto Campana e la Romagna. Atti del Convegno tenuto a Santarcangelo di Romagna nel 1997, a cura di A. Cristiani e M. Ricci, Bologna 2002, pp. 279-314, in particolare p. 309, nota 99. 139 studiosa aggiunge:”Per molti anni Campana combatté da solo questa battaglia per un’indagine comparata dello stile artistico e stile scrittorio, nella quale alla paleografia libraria si associava l’epigrafia... Come gli accadeva per le ricerche paleografiche, nelle osservazioni dedicate alle arti figurative Campana faceva dialogare l’indagine ‘clinica’ sul particolare con la varietà dei fatti: un dettaglio poteva aprire inaspettate prospettive restituendo voce e significato a corpo intero dell’oggetto.74” Queste parole ricordano in modo irresistibile la lezione di metodo di Erich Auerbach, nel quale il richiamo a questo tipo di indagine empirica che risale dal particolare al generale: “ prima ancora di essere una qualità del critico letterario è una virtù dell’uomo moderno,75.” Le intuizioni di Campana hanno trovato ampia possibilità di sviluppo in campo paleografico, oltre che negli studi di storia e di storia della cultura, permettendo ai paleografi di affrontare indagini nuove con occhi nuovi. L’analisi dei “pattern visivi” a cui si accennava in precedenza parte necessariamente da questa metodologia per comprendere la dinamica propria della scrittura nelle sue manifestazioni più mature. Chi scrive ha invitato da tempo i paleografi a servirsi della teoria della “configurazione” visiva elaborata dalla Gestalt per spiegare in modo coerente la forma di una scrittura rispetto ad un’altra76. 74 Ibid., p. 314. 75 Mi sia permesso di citare quanto scrivevo a questo riguardo alcuni anni fa:”La prima cosa importante da osservare a proposito di Auerbach è la attualità del suo richiamo all’empiria. L’empiria auerbachiana, prima ancora di essere una qualità del critico letterario è una virtù dell’uomo moderno, che si muove in modo molto diverso dal passato a causa di una rivoluzione culturale avvenuta a metà del XVIII secolo. Auerbach assegna un ruolo egemone in tale processo allo storicismo. L‘espressione, che soprattutto in Italia può indurre in equivoco, ha un significato più ampio e complesso di quello comune e designa ciò che potremo definire ‘senso storico’. Si tratta di una dimensione psichica e culturale entro la quale i fenomeni vengono concepiti, non di una riedizoine impoverita del senso comune della filosofia idealistica...Lo storicismo è l’esatto contrario del trionfo del reale-razionale di Croce: il senso della storia non dà certezze ma solo una maggior possibilità di comprensione. L’uomo moderno che ha visto crollare tutti i miti e che ha imparato a capire le forme più diverse della realtà, cerca di trovare il filo di una matassa imbrogliata, senza pretendere di dare norme al caos. Non a caso Auerbach eleva il procedere a tentoni al rango di vero e proprio metodo: solo accettando la frammentarietà del reale, infatti, è possibile muoversi al suo interno. Lo studioso ha affermato a questo riguardo... «Se è impossibile raccogliere in una sintesi ogni singolo fatto, è forse possibile arrivare alla sintesi spiegando il singolo fatto caratteristico. Questo metodo consiste nel trovare spunti o problemi chiave sui quali valga la pena di specializzarsi: giacche da essi una via conduce alla conoscenza di nessi, tanto che la luce da essi irradiata illumina quasi tutto un paesaggio storico». .. “. F. troncarelli, Una questione di stile, in Il pane degli angeli, pp. 291-306, in particolare pp. 299-301. 76 F. troncarelli, La comunicazioene scritta, Napoli 1995, pp. 32-35. 140 Fabio Troncarelli Ma al di là delle teorie, a tali strutture portanti della visione dobbiamo fare ricorso comunque anche nella prassi e nelle analisi specifiche, se vogliamo spiegare fenomeni altrimenti inspiegabili: l’idolatria nei confronti della corsiva si dimostra sterile e inefficace per comprendere fenomeni universali che nulla hanno a che vedere con la dialettica tra scrittura usuale e scrittura normale. Un caso che conosco direttamente è quello dell’inversione di alcune lettere di un alfabeto che vengono scritte così al contrario, pur restando nello stesso sistema alfabetico, un fenomeno apparentemente inspiegabile e comunque non spiegato, che ricorre in tutte le epoche e tutti i contesti grafici possibili e che ci rimanda al problema generale della pluralità di utilizzazione possibile di ogni alfabeto, al là della canonizzazione o addirittura contro la canonizzazione. Come penso di avere mostrato, una “variante” così speciale della scrittura non nasce davvero dal principio della “economia dello sforzo”, dal momento che ci vuole esattamente lo stesso “sforzo” a scrivere una lettera dirittta e una rovesciata. E neppure dalle tensioni interne alla scrittura canonizzata, sottoposta a continue pressioni dalle “varianti” usuali che fanno ressa intorno alla scrittura canonizzata per sostituirla. In realtà non è all’uso che dobbiamo pensare, ma piuttosto alle dinamiche della percezione: quest’ aspetto caratteristico della scrittura-lettura delle lettere sottosta ad ogni gestione del fenomeno grafico e si manifesta esplicitamente in casi come questo, che nascono da una difficoltà psico-percettiva di distinguere lettere apparentemente uguali, perché costituite dagli stessi segni, ma di fatto diverse, perché i segni non sono sempre disposti in modo simmetrico. Un fenomeno analogo che ho avuto modo di analizzare è quello della condizione “fluttuante” degli alfabeti che ricorrono nelle aureole dei santi, nelle decorazioni dei vestiti e nell’ornamentazione delle vesti nella pittura di età gotica e rinascimentale: l’assimilazione di un alfabeto ad un altro in base alle forme esteriori, per cui una lettera ebraica viene interpretata come una lettera latina solo in base alla sua forma visiva e non al suo significato specifico, non si spiega a causa dell’interazione tra la scrittura corsiva e quella canonizzata, ma invece a causa dell’interazione tra le somiglianze apparenti delle lettere di alfabeti diversi di lingue diverse, un’illusione ottica che prende il posto della percezione analitica delle forme77. 77 F. troncarelli, “Fundamentum mundi”: l’alfabeto nell’aureola, in Il polittico degli Zavattari in Castel Sant’Angelo: contributi per la pittura tardogotica lombarda, a cura di A. Ghidoli, Firenze 1984, pp. 109-116. 141 Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Per ora basti dire che molte altre ricerche sugli aspetti visivi delle testimonianze scritte si avvalgono dell’apertura di orizzonti implicita nelle intuizioni dello studioso romagnolo. Si pensi, solo per fare un esempio, alle affascinanti ricerche sul libro in volgare figurato, a cominciare da quelle che hanno identificato le immagini delineate da Boccaccio, copista e illutratore dei suoi codici78: tali scoperte hanno costretto gli studiosi a porsi il problema del rapporto tra scrittura e immagine tra XIII, XIV e XV secolo79 e quello, per dirla con la Tristano, “della interazione della Paleografia...con ambiti scientifici differenti80”: eventi che coesistono e si svolgono in modo indipendente dalle dinamiche che pure sono vivissime ed interessantissime, delle relazioni, negli stessi secoli, delle scritture “altre” con quelle canonizzate e delle eclettiche incoerenze di esperimenti grafici inconsueti, come ad esempio l’uso della mercantesca in ambito librario81. Chi si occupa con profitto di simili affascinanti fenomeni grafici e culturali non può dimenticare che, contemporaneamente, esistevano altri fenomeni, non meno affascinanti, nei quali il presunto ruolo propulsore della corsiva non ha alcun peso ed il rapporto tra paleografia storia dell’arte è invece la chiave di volta della ricerca. Allo stesso modo, gli studi dedicati al problema della “parola dipinta”82, alle di- 78 m. G. ciardi-duPrÉ del PoGGetto, L’iconografia dei codici miniati boccacciani dell’Italia centrale e meridionale, in Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Torino 1999, II, pp. 145-153, pp. 3-52. m. cursi, La scrittura e i libri di Giovanni Boccaccio, Roma 2013 (Scritture e libri del medioevo, 13). 79 Si vedano ad esempio m. G. ciardi duPrè dal PoGGetto, Narrar Dante attraverso le immagini: le prime illustrazioni della Commedia, in Pagine di Dante. Edizioni della Divina Commedia dal torchio al computer. Catalogo della mostra (Foligno, Oratorio del Gonfalone, 11 marzo-28maggio, 1989-Ravenna, Biblioteca Classense, 8 luglio-16 ottobre,1989), a cura di R. Rusconi, Milano-Perugia, pp. 79-102; eadem, Nuove ipotesi lavoro scaturite dal rapporto testo-immaginenel Tesoretto di Brunetto Latini, in “Rivista di storia della miniatura”, 1-2, 1996-1997, pp. 89-98; c. FruGoni, L’ideologia del Villani nello specchio dell’unico manoscritto figurato della Nuova cronica, in Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, Firenze, 2005, pp. 7-12; 80 tristano, Paleografia e Codicologia, p. 80. 81 Ibid., p. 79. 82 G. Pozzi, La parola dipinta, Milano 1981. Si veda anche a questo proposito la letteratura dedicata a fenomeni di questo tipo nell’ambito di scritture “nazionali”, come ad esempio l’effetto di Carpet page nei codici insulari: cfr. c. nordenFalk, Celtic and Anglo-Saxon Painting: Book Illumination in the British Isles. 600-800, New York 1977. 142 Fabio Troncarelli mensioni magiche e simboliche della pagina scritta83, alle forme di comunicazione alternative a quelle usuali come i calligrammi, i monogrammi e gli ambigrammi84 o in generale al rapporto tra scrittura, testo e immagine, che si sono moltiplicati negli ultimi decenni, pongono con estremo vigore il tema dell’interazione tra grafia e figure, consapevolmente gestita da autori aperti e disponibili a questi scambi reciproci tra campi di tensioni espressive. 83 Della sterminata letteratura in merito ricordiamo a titolo di esempio un contributo recente di vari autori, con ricca bibliografia: Magical practice in the Latin West, papers from the international conference held at the University of Zaragoza, 30 Sept.-1 Oct. 2005, a cura di R. L. Gordon- F. M. Simón, Leiden-Boston 2010, pp. 381-39. 84 Ricordiamo solo qualeche titole recente, con aggiornata biblografia: d. r. hoFstadter, Ambigrammi. Un microcosmo ideale per lo studio della creatività, Firenze 1987; u. ernst, Carmen figuratum. Geschichte des Figurengedichts von den antiken Ursprüngen bis zum Ausgang des Mittelalters, Köln 1991, pp. 158-202; c. chazelle, The Crucified God in the Carolingian Era: Theology and Art of Christ’s Passion, Cambridge 2001; Anulus sui effigii: identità e rappresentazione negli anelli-sigillo longobardi, Atti della giornata di studio, Milano, Università Cattolica, 29 aprile 2004, a cura di S. Lusuardi Siena, Milano 2006 . Vedi anche Publilii Optatiani Porfyrii Carmina, a cura di G. Polara, I-II, Torino, 1973; c. deroux, The Carmina of Publilius Optatianus Porphyrius and the Creative Process, in Studies in Latin Literature and Roman History, a cura di C. Deroux, 12, Bruxelles 2005, pp. 447–66. 143 Archana revelata Nelle pagine precedenti ci siamo soffermati a lungo sulla Prolusione di Urbino, poiché essa è emblematica e rappresentativa di una serie di intuizioni e spunti di riflessione a carattere paleografico, che hanno trovato ampio sviluppo nei decenni successivi. Resterebbe da commentare la pluralità di contributi paleografici di Campana, un compito veramente arduo data al gran quantità di materiale a disposizione. Ci limiteremo pertanto, a integrazione di quello che abbiamo detto, a ricordare alcuni contributi significativi sul piano dell’analisi di singole testimonianze scritte, che costituiscono l’indispensabile complemento alle riflessioni teoriche che abbiamo commentato. La collaborazione tra paleografia e altri ambiti di ricerca trova un’applicazione evidentissima nei volumi pubblicati nella ricostruzione della storia di biblioteche significative: basti ricordare i saggi nel volume che presentiamo sui copisti dei codici malatestiani e le ricostruzioni dei patrimoni librari di biblioteche come quella di Benevento, attraverso l’attento e pionieristico studio dei suoi cataloghi antichi identificando le mani di alcuni dei suoi più importanti bibliotecari85. In questo ambito è significativo che nei volumi che presentiamo sia stato recuperato un testo solo parzialmente edito di Campana, la sua tesi di laurea sulla Biblioteca Maltestiana di Cesena, finalmente definitiva e provvista di note86. Un vero e proprio inedito, invece, è quello pubblicato da Manfredi e ripreso nei volumi che presentiamo, Le biblioteche del Rinascimento a tre navate, un contributo che non riguarda solo la storia di importanti biblioteche come la Malatestiana di Cesena, ma anche e soprattutto il problema cruciale del modello ideale di raccolta di libri a cui tali istituzioni si richiamavano ed il ruolo che esse hanno rivestito nella conservazione di un certo tipo di testimonianze scritte87. Come ha scritto Campana:”la storia delle biblioteche ha raggiunto tale estensione e sviluppo...che le danno ormai 85 camPana, Scritti, II, 1, pp. 209-244; 1, pp. 185-212; 425-494. 86 camPana, Scritti, II, 2, pp. 801-908. 87 a. camPana, Le biblioteche del Rinascimento a tre navate, a cura di A. Manfredi, Cesena 2015. Ristampato in pp. 913-940. Di Antonio Manfredi vedi anche il bel saggio Su un inedito di Augusto Campana «Le biblioteche italiane del Rinascimento a tre navate», in “Studi Romagnoli”, LXVI (2015), pp. 579-604. 144 Fabio Troncarelli il carattere...quasi di una disciplina autonoma88”, ricordando il grande contributo alle ricerche sui manoscritti nel passato di uomini come Delisle, Sabbadini, Mercati, Rand, Ullmann, Lehmann “con la sua scuola oggi degnamente continuata da Bischoff” e dalla “varia attività dell’Institut de Recherche e d’Histoire des Textes”, di grandi esperti come Ker in Inghilterra e come i rppresentanti delle scuole di Rand ed Ullmann negli Stati Uniti, che esaminano la “storia delle biblioteche ...sempre in stretta connessione con la storia della cultura”. A parte questo settore di ricerche, non possiamo dimenticare il contributo paleografico di Campana in ricerche su problemi specifici: ricordiamo solo per fare qualche esempio qualche titolo significativo, come il saggio sul codice ravennate di S. Ambrogio del VI secolo, un caposaldo dello studio dell’onciale e della semionciale in quest’epoca, nel quale compare uno dei primi esempi databili di iniziale figurata89; quella delle scorribande in territorio veronese all’epoca di Pacifico90; del “Textus Evangelii” donato da Enrico II a Montecassino91; i molteplici contributi dedicati a codici e copisti di ogni tipo, tra XIV e XV secolo fornendo una miriade di elementi agli studiosi dell’età di Petrarca, di Boccaccio, di Poggio,di Poliziano92. A questo elenco, del tutto sommario, si deve aggiungere l’enorme massa di informazioni e di considerazioni disseminata nelle schede dei codici di Fulvio Orsini conservate nella biblioteca Vaticana e soprattutto nelle carte inedite custodite presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini: tra le migliaia di pagine, di abbozzi, di appunti sparsi su codici ed argomenti di ogni genere, ci sembra opportuno segnalare un “brogliaccio” meritevole di attenzione, che pubblichiamo in appendice: l’abbozzo (non finito) della redazione di una conferenza tenuta nel 1956 sulla nomenclatura della beneventana, che affronta con vigore e lucidità problemi generali della paleografia e problemi specifici di questa scrittura93. Soprattutto l’esordio di 88 camPana, Scritti, II, 1, p. 179. 89 camPana, Scritti, II, 1, pp. 249-312. 90 Ibid., pp.313-330. 91 Ibid., pp. 113-136; I, 1, pp. ; I, 3, pp. 92 camPana, Scritti, II, 1, pp. 209-244; 1, pp. 185-212; 425-494. 93 Littera beneventana e littera longobarda: note di antica terminologia paleografica, Rimini, Biblioteca Civica Gambalunga, Carte Campana, Cassetta 122, 8. 145 questo testo, datato Pisa, 9 febbraio 1958, ci riporta direttamente nell’ambito delle riflessioni che sfoceranno nella Prolusione:” La Paleografia è una scienza moderna: in quanto scienza, nel suo primo assetto scientifico non anteriore al secolo XVIII, ma solo ai primi del secolo XX, diventa compiutamente consapevole delle sue possibilità. Come ogni scienza, possiede un suo proprio patrimonio terminologico, del quale si può fare storia...Ma questo accade ad ogni scienza, e in questo senso i termini paleografici possono dirsi tutt’al più appartenenti a una di quelle che i linguisti chiamano lingue speciali, e per la loro formazione spesso artificiale e astratta e per il loro uso limitato...Ma tra questi termini ve ne sono anche di origine remota e popolare, che nel passato ( e talvolta ancora oggi, per esempio scrittura gotica) di uso comune, e che sono da considerarsi creazioni spontanee di determinate cerchie e perciò entrano a pieno diritto nella storia della lingua. E’ giusto porre una distinzione netta tra termini della lingua antica e terminologia scientifica moderna...ma ciò non impedisce rapporti tra i due campi...Non si può pretendere che linguisti e lessicografi abbiano trovato o possano studiare adeguatamente tali termini...Spetta dunque ai paleografi di avere cura di questo materiale, di raccoglierne e di vagliarne le testimonianze, ai fini della loro propria ricerca, ma anche per comunicarne i risultati a linguisti e lessicografi...94”. Nella seconda parte del testo, datata Pisa 31 febbraio 1959, l’autore ritorna sugli stessi concetti ed approfondisce il suo discorso iniziale: “In realtà le testimonianze antiche dei nomi di scrittura presenta molto spesso un grande interesse oltre che per i linguisti e lessicografi, per paleografi e storici della cultura o, diciamo meglio, poiché la storia della scrittura è insieme storia della cultura, per il paleografo in quanto storico della cultura..Il paleografo è interessato ovviamente a tali testimonianze non solo perché si tratta di fonti utili alla storia e alla ricerca sui codici[ma] ancor più perché ognuna di tali testimonianze rappresenta un precedente nella sua propria ricerca: una definizione paleografica“ante litteram”, anteriore all’origine stessa della scienza paleografica95”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a riflessioni di grande significato e ad anticipazioni di ricerche che avranno un notevole sviluppo nella paleografia degli 94 Ibid., p. 1. 95 Ibid., pp. 5-6. 146 Fabio Troncarelli ultimi cinquant’anni: e soprattutto a un monito a considerare “storicamente” la nomenclatura antica, a volte contraddittoria, delle scrittura, valutando attentamente le testimonianze e non isolandole dal contesto storico ed idolatrandole come se fossero più precise delle definizioni moderne solo perché rivestite da una patina antica96, evitando cioè quello che Nicolettà Giovè ha definito “quella sorta di affastellamento terminologico che continua a segnare gli studi paleografici97 Ci siamo allontanati molto dal nostro punto di partenza ed è ora di ritornarvi e di concludere. Da tutto quello che abbiamo detto, mi sembra evidente che l’identità di paleografo di uno studioso senza dubbio poliedrico e geniale come Campana, sia un’ aspetto troppo a lungo trascurato. In particolare, mi sembra che nella sua Prolusione di Urbino vi sia una ricca miniera di riflessioni e di anticipazioni, che hanno avuto un loro sviluppo negli ultimi decenni, molto spesso autonomo rispetto alla loro formulazione, che andrebbero meditate e valorizzate. In ogni caso, può confortare la constatazione che di questi argomenti finalmente si comincia a prendere atto. L’importanza della Prolusione di Campana è stata ribadita più volte negli ultimi anni, squarciando il velo di silenzio che sembrava averla impropriamente avvolta. Citandola esplicitamente, la Tristano scrive:” forse cercare di comprendere...è l’obiettivo ultimo della Paleografia moderna e per raggiungerlo serve una ‘paleografia totale’...” . Queste parole concordano con quelle di Petrucci a proposito di Campana, che ricorda la: ”sua personalissima visione della Paleografia come disciplina ‘totale’...aperta a ogni possibile esperienza di studio delle testimonianze scritte98” la quale, secondo lo studioso romano, ha una sua consonanza con quanto noi stessi 96 tra le varie proposte di utilizzazione di nomenclature antiche per indicare scritture del passato ricordiamo: G. I. lieFtinck, Manuscrits datés conservés dans les Pays-Bas. Catalogue paléographique des manuscrits en écriture latine portant des indications de date, I, Les manuscrits d’origine étrangère (816-c. 1560), Amsterdam 1964. criticato per le sue proposte di nomenclatura tra gli altri da E. Poulle in [Compte-rendu], in Bibliothèque de l’école des chartes, 1965 (123), pp. 558-561. BischoFF, paleografia, PP. 206-210. Vedi anche per altre proposte di nomenclature ispirate a antiche definizioni: E. casamassima, Trattati di scrittura del Cinquecento italiano, Milano 1966 (Documenti sulle arti del libro, 5); s. caroti-s. zamPoni, Lo scrittoio di Bartolomeo Fonzio umanista fiorentino, Milano 1974 (Documenti sulle arti del libro, 10), con un intervento di Casamassima intitolato Literulae Latinae. Nota paleografica, alle pp. IX-XXXII. 97 n. Giovè, Letteratura e scrittura.A proposito degli autografi dei letteratii taliani delle Origini e del Trecento, in “Studi Medievali”, ser. III, 56 (2015), pp. 317- 331, in particolare p. 327. 98 camPana, Scritti, II, 2, p. 846 147 abbiamo affermato nella introduzione alla Integral Paleography di Boyle, nella quale abbiamo scritto:”the most open minded palaeographers... would not be any problem in accepting a multidisciplinary approach and in recognising the nexus between ‘history’ and the ‘written word’” 99. E’ a questa lezione di spregiudicata umiltà che vorremmo richiamarci alla fine della nostra veloce incursione neli territori sconfinati delle ricerche dello studioso romagnolo, ricordando che egli li percorreva abitualemente con umiltà e signorile riserbo, quei “modi ...nacosti e riservati” che tanti studiosi e amici come Petrucci hanno avuto modo di notare. Ci preme mettere in luce, in conclusione delle nostre osservazioni, che al di là del carattere personale, questa serietà operosa, schietta ed umile veniva, a nostro giudizio, dalla dimestichezza con grandi, laborioso, frugali studiosi positivisti, devoti allo studio come a una missione e pieni di disprezzo per “chi con clangor di buccine s’esalta”. Come Pietro Torelli, che ha più volte esaltato con esemplare modestia la grandezza, degna di un quadro di Degas, del Santo Vero che traspare attraverso le fonti. Di quest’atteggiamento uomini come Campana fecero un blasone, il blasone eloquente e silenzioso di un’etica e di una dignità antica che li rende diversi dalle “palatinae canes”. Non c’è miglior commento ad una simile tensione morale delle parole di Torelli, che concludeva un suo lavoro, ricordando di averlo potuto compiere, in totale iso- 99 Ibid., nota 13. Ci sia permesso richiamare un conceto fondamentale, su cui abbiamo insistito in questa introduzione:”As Armando Petrucci noted in the introduction to his Breve storia della scrittura latina : “Today.... the methodological limits concerning the study of Latin writing and other ancient scripts appear ever shorter and increasingly inadequate, since the latter is invariably based essentially upon an analysis of the writing. The short fall seems to stem from the need to satisfy the ever widening range of interests of the readers and in particular those working in the historical domain. Such pressures are effectively transforming palaeography strictu sensu into a history of hand-writing, resulting in studies of single, well established scripts, that are fitted into socio-cultural contexts, and to systems of production of written testimonies that historians have periodically need to create and exploit....All those who have the opportunity of consulting manuscripts, whether they be palaeographers or not, have a way of testing on each occasion, the unique way in which the manuscript transmits its contents. This sensation is even stronger in those cases where the codices demonstrate close relationships between the text and the illuminations. This sort of relationship is often over looked by the more traditional schools of thought, since these tend to divide the study into two parts: the historical and palaeographical study on the one hand, and the art historical study of the illustrations on the other. Only by offering the reader the original link between the words and the images, or by revealing the relationship between those who commissioned the work and those who executed it, can the original message of the text be faithfully rendered.When one comes to interpreting the text and its message, it is however very often difficult to find a suitable compromise between the different analytical methods and tools”. F. troncarelli, Preface to l. Boyle, Integral paleography, Turnhout 2001 (Textes et Etudes du Moyen Ages, 16), pp. 148 Fabio Troncarelli lamento durante il regime fascista, solo grazie all’aiuto di giovani allieve, umili e severe come lui: “Gli uomini, si sa, hanno altro da fare, non si possono mettere a questo aspro lavoro di fonti, il solo che tempra a tutte le conquiste. Ci credono come dei trasognati, ma siamo illuminati dentro dall’ardore della ricerca e dalla gioia di aver trovato100.”. 100 Citato in u. nicolini, Tecnica e spirito nel Torelli editore di fonti, in Atti del Convegno di studi su Pietro Torelli nel centenario della nascita 1880-1980. Mantova, 17 maggio 1981, Mantova 1991, p. 25. 149 Appendice Rimini, Biblioteca Civica Gambalunga, Carte Campana, Cassetta 122, 8. Littera beneventana e littera longobarda: note di antica terminologia paleografica101 [Il testo è scritto su un quaderno, a righe della cartoleria F. Lega, di Corso Mazzini 3, Faenza, che contiene precedentemente anche la redazione manoscritta dell’articolo sulla biblioteca di Benevento. Le pagine sono numerate da 1 a 8 e corrispondono alle pp. 33-40 del quaderno] I Pisa, 9 febbraio 1958 La Paleografia è una scienza moderna: in quanto scienza, nel suo primo assetto scientifico non anteriore al secolo XVIII, ma solo ai primi del secolo XX, diventa compiutamente consapevole delle sue possibilità. Come ogni scienza, possiede un suo proprio patrimonio terminologico, del quale si può fare storia, come di fatto in sede trattatistica si suole farla, anche se per lo più ridotta a semplice enumerazione (per esempio dei vari nomi usati nel corso degli studi paleografici per una determinata scrittura) o condizionata dal fine pratico della discussione sull’opportunità di usare un termine piuttosto che non altro. Ma questo accade di ogni scienza, e in questo senso i termini paleografici possono dirsi tutt’al più appartenenti a una di quelle che i linguisti chiamano lingue speciali, e per la loro formazione spesso artificiale e astratta e per il loro uso limitato, spesso individuale, non presentano un interesse propriamente storico, di storia della lingua in un senso più vivo e generale. Ma tra questi termini ve ne sono anche di origine remota e popolare, che nel passato (e talvolta ancora oggi, per esempio scrittura gotica) di uso comune, e che sono 101 Nel 1956 Campana intervenne nel terzo congresso internazionale di studi altomedievali tenuto a Benevento e a Salerno, con una relazione che aveva questo titolo (camPana, Scritti, II, 1, p. 236, nota 78). Nel 1958 e nel 1959, lo studioso romagnolo stese un abbozzo della versione scritta, che avrebbe dovuto essere pubblicata negli Atti del convegno (Atti del 3° congresso internazionale di studio sull’alto medioevo.Benevento - Montevergine - Salerno - Amalfi, 14-18 ottobre 1956, Spoleto 1959.).Il testo non non fu terminato e rimase tra le sue carte, accompagnato, tuttavia, da una serie di appunti che ci fanno comprendere come doveva concludersi. [Nota del curatore della trascrizione]. 150 Fabio Troncarelli da considerarsi creazioni spontanee di determinate cerchie e perciò entrano a pieno diritto nella storia della lingua. È giusto porre una distinzione netta tra termini della lingua antica e terminologia scientifica moderna, per il carattere spontaneo e spesso generale della prima e artificiosa e spesso limitato della seconda, ma ciò non impedisce rapporti tra i due campi: per esempio continuazione o adozione di termini antichi nell’uso scientifico moderno (per es. beneventana), uso arbitrario ma spesso generalizzato, in sede scientifica di termini antichi (per es. uno che risale addirittura all’età antica, uncialis). Non si può pretendere che linguisti e lessicografi abbiano trovato o possano studiare adeguatamente tali termini. Si tratta di un materiale estremamente raro, di sparso e difficile reperimento e di ardua interpretazione, che non può essere correttamente valutato né storicamente ordinato se non da chi abbia famigliarità con gli oggetti che quei termini designano. In questo caso, più che mai, è una certa storia di parole che presuppone una storia di cose. Spetta dunque ai paleografi di avere cura di questo materiale, di raccoglierne e di vagliarne le testimonianze, ai fini della loro propria ricerca, ma anche per comunicarne i risultati a linguisti e lessicografi. E i paleografi non hanno certo mancato di farlo, anche se in misura, come io credo, ancora del tutto inadeguata alle possibilità che offre tale campo di ricerche. Basti ricordare, a semplice titolo di “esemplificazione”: 1) La discussione che ha dato luogo a una bibliografia assai estesa, sull’interpretazione storica di un termine attestato già nell’antichità cristiana e poi in sporadiche fonti medievali, litterae unciales: termine che da secoli è ormai assunto nella moderna terminologia paleografica con un significato preciso che non è certamente quello originario102. 2) L’interesse vivacissimo che sembra aver avuto il maestro, a fortiori, della moderna paleografia, il Traube; tra le sue carte era compreso un pacco di schede (di circa 540 fogli) riguardante i nomi di scritture (prima del Mabillon), con particolare riguardo a inventari antichi di biblioteche nei quali tali nomi ricorrono e al “trattato” attribuito a Rabano Mauro103. 102 Su questo tema si veda P. meyvaert, Uncial letters: Jerome’s meaning of the term, in “The Journal of theological studies,” n.s., 34 (1983), pp. 185-188 [Nota del curatore della trascrizione]. 103 P. lehmann, Ludwig Traube handschriftlichen Nachlass, in L. trauBe, Vorlesungen und Abhandlun- 151 3) Il capitolo dedicato dal Lowe nella sua opera fondamentale sulla beneventana, ai nomi con i quali fu designata nel Medioevo e nel Rinascimento e a quelli che furono usati dai paleografi104. Ma è tempo di venire all’argomento specifico che qui interessa: gli antichi nomi della scrittura beneventana. Le pagine già citate del Lowe costituiscono una trattazione fondamentale sull’argomento e io non avrò motivo di discostarmi né dalle linee essenziali della sua ricerca, né dalle sue conclusioni. Ma dalla pubblicazione del suo libro sono passati più di quarant’anni, e non farà meraviglia che i materiali da lui raccolti consentano qualche integrazione: mio principale proposito è appunto di raccogliere e illustrare le nuove testimonianze che da molti anni in qua mi è accaduto di raccogliere. Ma la trattazione del Lowe non era, né, allora, poteva essere, esclusivamente storica. Egli vi raccoglieva e vagliava una per una, con perfetta obiettività, le testimonianze dei nomi usati nel Medioevo e nel Rinascimento per indicare la scrittura beneventana: faceva d’altra parte la storia della fortuna di questi nomi (e di altri inventati dai paleografi) fino al suo tempo. Le due fasi sono implicitamente distinte nella sua trattazione non diversamente da quello che ho detto più sopra, anche se la distinzione non è nettamente formulata su un piano di storia della lingua. Ma al suo tempo l’uso dei paleografi non era univoco ed egli scendeva in campo con l’idea ben precisa che il nome più conveniente per la scrittura da lui studiata fosse quello già usato nel Medioevo, risuscitato nel XVIII secolo dal Garampi e dal Marini, ma che nel 1914 era ben lontano dall’aver raccolto il consenso universale dei paleografi, sebbene avesse avuto quello autorevolissimo del Traube. E qui la ricerca di Lowe non era più di storia della cultura medievale, né di storia della scienza paleografica: era discussione metodologica, dunque in certo senso pratica. Le armi, cioè le ragioni erano valide, il combattente non meno nel lavoro e la battaglia fu vinta. Fu vinta perché l’opera The Beneventan script (1914), seguita pochi anni dopo dal monumentale atlante Scriptura beneventana (1920) [....]105 sono rimaste da allora in gen, [a cura di P. Lehmann], I, [München ]1909, p. LXVI s. (“XVI Schriftnamen”) e cf. trauBe, I, 26 [Nota di Campana]. 104 E. A. Loew, The Beneventan script: a history of the South Italian minuscule, Oxford 1914, pp. 22-40 (cfr. [cap.] II, The Name).Si veda anche il sommario del capitolo a p. XV “Use and misuse of the name “Lombardic” etc.[Nota di Campana]. 105 Nel testo ci sono due righe cancellate [Nota del curatore della trascrizione]. 152 Fabio Troncarelli poi, e non è da pensare che siano mai per essere sostituite, le sole normali opere di consultazione e di riferimento per ciò che riguarda la beneventana: come fatto linguistico, ciò sarebbe bastato ad affermare, vittoriosamente nell’uso universale degli studiosi e delle scuole di paleografia, il termine di beneventana, anche se quei libri non fossero, come sono, opere di così solida struttura e di tale livello scientifico che raramente la nostra scienza en ha dato o potrà darne di uguale. II Pisa 31 febbraio 1959 In realtà le testimonianze antiche dei nomi di scrittura presenta molto spesso un grande interesse oltre che per i linguisti e lessicografi, per paleografi e storici della cultura o, diciamo meglio, poiché la storia della scrittura è insieme storia della cultura, per il paleografo in quanto storico della cultura; anzi, più generalmente per filologi e storici, l’esatta valutazione del significato di un termine paleografico antico che occorra in un testo letterario in un documento importa evidentemente al filologo e allo storico per la compiuta identificazione di quel testo o di quel documento. Il riferimento alla scrittura di un manoscritto in un’isolata testimonianza letteraria e nell’inventario di una biblioteca antica è evidentemente essenziale per la storia e l’identificazione di quel manoscritto, se è giunto fino a noi, per ricostruirne o intuirne l’età e l’origine, quando esso sia perduto: non può prescinderne chi si occupa di storia e ricostruzione di biblioteche medievali; in molti casi accertamenti di questa natura danno la chiave e forniscono comunque un indirizzo preciso per la soluzione di intricati problemi di storia di una tradizione manoscritta (si pensi per esempio alle testimonianze umanistiche sul codice Laudense perduto delle opere retoriche di Cicerone). Ma naturalmente più direttamente interverrà la paleografia. I nomi attribuiti a singole scritture, siano essi contemporanei o posteriori, sempre tuttavia appartenenti all’età classica, al Medioevo o al Rinascimento (insomma all’epoca della tradizione manoscritta dei testi) implicano l’individuazione di particolari tipi di scrittura e l’esigenza di definirle, sia attraverso determinate caratteristiche del loro aspetto (per esempio la littera formata cursiva), sia per mezzo di un relativo riferimento temporale (littera antiqua), sia riconoscendole proprie di particolari ambienti o uf- 153 fici (littera curialis), di una nazione (littera gallica), di un singolo centro (littera bononiensis). Il paleografo è interessato ovviamente a tali testimonianze non solo perché si tratta di fonti utili alla storia e alla ricerca dei codici, [ma] ancor più perché ognuna di tali testimonianze rappresenta un precedente nella sua propria ricerca: una definizione paleografica “ante litteram”, anteriore all’origine stessa della scienza paleografica. Ma, vorrei dire che vi è interessato in senso anche più generale: tali testimonianze da parte di lettori e bibliotecari antichi di una loro attenzione alle forme grafiche del libro, di una loro consapevolezza della varietà di aspetto grafico che presentavano ai loro occhi codici lontani, per età e provenienza, da quelli del loro tempo e ambiente, rappresentano nel loro insieme i primi accenni di una classificazione delle forme grafiche, nelle quali già hanno posto criteri storico-geografici, dunque i remotissimi precedenti di una considerazione storica che porterà a poco, a poco alla costituzione della moderna scienza paleografica. Non credo di esagerare, e del resto spero di avere occasione di ritornare sull’argomento, riconoscendo valide testimonianze di un simile atteggiamento mentale presso i compilatori dei vecchi inventari di biblioteche che ci forniscono le più abbondanti testimonianze in materia antica di terminologia paleografica: penso soprattutto a casi come l’inventario di Bobbio del 1461, pubblicato dal Peyron o come l’inventario, di poco posteriore, della biblioteca lasciata ai Domenicani di Perugia da Leonardo Mansueti106 dai quali è possibile desumere una vera e propria classificazione delle antiche scritture librarie, poco importa se ai nostri occhi sia per apparire empirico e inadeguato. Di tratta, come si vede, di termini relativi: si osserva e si cerca di definire le scritture che si allontanano dall’uso comune, dalla scrittura propria e del proprio tempo (si vedrà che anche le testimonianze antiche del termine beneventana sono periferiche o tardive rispetto all’area della beneventana e quanto al tempo piuttosto tarde: quelle che indicano propriamente la beneventana tutte posteriori al periodo della vita storica di quella scrittura).. E’ dunque evidente che la loro esatta interpretazione comporta notevoli difficoltà, presupponendo anzitutto la loro corretta datazione e localizzazione (non sempre si 106 Per il primo [caso] vedi G. Mercati e del resto già Peyron....[Nota di Campana]. 154 Fabio Troncarelli tratta di testimonianze datate e localizzate), la valutazione della cultura di chi usa questi termini, il riconoscimento (non sempre facile) della scrittura che con quei termini si intendeva definire. Il solo testo [d] “teoria” o “trattazione” medievale che ci sia pervenuto è quello già ricordato più sopra, studiato da Traube e da Bischoff. Ad esso si può in qualche modo accostare una pagina di uno scrittore del secolo XIV, Johannes da Rupescissa, che avrò occasione di pubblicare e commentare più oltre. Ma altre testimonianze, sia documentarie che letterarie abbondano in ogni tempo. Le più numerose ci sono offerte da antichi inventari di biblioteche, documenti che hanno il vantaggio, dal punto di vista della nostra ricerca, di essere quasi sempre datati e localizzati e spesso compilati da persone conosciute: già ho avuto occasione di ricordare alcuni casi insigni, altri avrò occasione di citare nel corso di questa ricerca. Una categoria particolare di testimonianze a sé stante è data dalle disposizioni di scrittura che si trovano apposte, a guisa di titolo sui codici stessi. Ne incontreremo più oltre due casi proprio per il nostro argomento (“liber litterae beneventanae”; “liber de littera veneventana”): ma ne parlo anche qui in sede introduttiva perché la loro singolarità esige un chiarimento. Note di questo genere sembrano infatti a prima vista assai strane: perché un antico lettore avrebbe dovuto sentire il bisogno di scrivere sui codici stessi tali indicazioni e definizioni paleografiche affatto inconsuete, inoltre oziose, in quanto esprimono [una] cosa che a lui e ai suoi contemporanei appariva di per sé evidente dal solo aspetto del codice? Io penso che tali note non siano veramente manifestazioni isolate di comuni lettori, ma note di antichi bibliotecari e più precisamente penso che siano la riproduzione di indicazioni con cui i codici stessi erano designati in antichi inventari. Anche questo sembrerà strano, ma se si pensa che non sono poi tanto frequenti nel Medioevo bibliotecari in grado di redigere un buon inventario (cioè, prima di tutto di riconoscere con precisione il contenuto dei codici) e che gli antichi inventari non sono sempre compilazioni propriamente bibliografiche, ma spesso documenti pratici, redatti per esigenze patrimoniali o giuridiche o per ordini di superiori gerarchici e spesso affidati a persone incompetenti e sbrigative, apparirà possibile e anche probabile che in certi casi, di fronte a codici di contenuto non facilmente individuabile e forse anche di difficile lettura per la scrittura inconsueta o antiquata, si sia fatto ricorso a tali indicazioni di comodo, che in qualche modo definivano il libro facendo 155 appello non al suo contenuto, ma al suo aspetto grafico. Tali indicazioni dal punto di vista pratico erano in fondo ugualmente valide e funzionali e una volta inscritte sul codice in occasione della redazione dell’inventario (tale deve essere stata la pratica genericamente seguita e sarebbe facile indicarne l’esempio) stabilivano un raccordo tra l’inventario e i singoli libri della biblioteca, rendendo possibile, ogni volta che occorresse il reperimento di un singolo libro, come la verifica dell’intera consistenza libraria. Purtroppo manca nei casi citati la controprova che ci sarebbe offerta dagli inventari, perché non è conosciuta la provenienza dei codici. Le [loro] note non si possono attribuire a una particolare biblioteca, tuttavia io sono convinto che la spiegazione che ne ho dato sia esatta e non ritengo impossibile trovarne una conferma almeno parziale: basterebbe infatti trovare altre note delle stesse mani (cioè dello stesso bibliotecario o funzionario) in qualche altro codice proveniente dalle stesse biblioteche: anche per questo motivo ritengo necessario darne una riproduzione fotografica107. Del termine beneventana il Lowe raccoglieva allora sette testimonianze antiche. Lo riprendo qui in esame nello stesso ordine, numerandole per comodità egli studiosi con gli tessi numeri e aggiungendo qualche precisazione e integrazione; poi di seguito aggiungerò le testimonianze nuove che ho raccolto, senza preoccuparmi dell’ordine cronologico perché nell’insieme si tratta di testimonianze assai disparate e dislocate e alcune di esse databili molto approssimativamente. [Il testo scritto sul quaderno si interrompe a questo punto. Ad esso sono allegati alcuni foglietti, che contengono una mezza pagina di appunti sparsi e l’elenco ragionato delle testimonianze sull’uso del termine scrittura beneventana e scrittura longobarda che trascriviamo di seguito] . Beneventana Studi sul nome: Garampi-Marini ( 5 [testimonianze])-Lowe (7 [testimonianze]) 1) 1028: “ littera (ben)eventana”, copia romana di bolla papale del 962 107 Nel testo c’è scritto: “Tav. I, 1 3 2”[Nota del curatore della trascizione]. 156 Fabio Troncarelli 2) Copia romana con notifica di privilegio papale, 1046 :”in littera veneventana” (scritta dal notaio romano’Johannis Pauli Altieri’). Fin qui è document[ato] il nome, ma questi nomi non si riferiscono alla beneventana, ma alla curiale. Spiegazione del Lowe nella credenza dei notai romani: somiglianza della beneventana con la curiale romana; la libraria di Roma non rassomiglia alla curiale, la libraria meridionale sì. 3) Commento di Gilberto Anglico al De oraculo angelico (Abbati Joachim) di Cirillo, comm[entatore] carm[elitano], fine XII :” codicillus...antiquitatis sui vetustissimis licteris et quasi beneventanis” trovato a Cluny108: significato dubbio, ma non simile109. Qui resta da inserire un’al[tra opera in cui] il testo di Gilberto è citato110 [del] XIV [secolo] nel commento inedito di Jo[hannis] (de Rupescissa) a quel medesimo testo111 (Bignami Odier112) commentato come segue:”libellus...enarratur litteris beneventanis, id est litteris quarum forma fuit in civitate Beneventi inventa, et est talis modus loquendi ac si dicamus: ista littera est gallica, et ista bononiensis et ista curialis; est enim Beneventum civitas in Apulia a qua ill[a]e litter[a]e vetustissim[a] e illius libelli sunt dicte...apulianis litter[a]e scriptus.”. 4) “Liber antiquus de littera beneventana” inv[entario] papale = Registri di Gregorio VIII, Beneventana 5) Inv[entario] di S. Mauro di Veroli113 1336: molti atti in “littera benev.”, “de littera lang.” (distinzione? Una sola è certamente la beneventana). 6) XIV sec. “liber lictere bernvi(e)ventane” o “berm(e)ntana”(non beneventana 108 Lowe dice “Colmar”: cfr. lowe, The Beneventan, p. 37 [Nota del curatore della trascrizione]. 109 Opinione di Campana, che critica su questo punto Lowe [Nota del curatore della trascrizione]. 110 Testimonianza reperita da Campana che integra quelle raccolte da Lowe [Nota del curatore della trascrizione]. 111 Il testo della Maior expositio Cirilli è conservato nel codice Paris BNF lat. 2599, ff. 1r-254r: edizione parziale in m. Boilloux, Maior expositio Cirilli .Étude d’un commentaire prophétique du XIVe siècle: Jean de Roquetaillade et l’oracle de Cyrille (v. 1345-1349), Le Temps est proche... (Apo. 1, 3 & 22, 10), a cura di P. Bourgain-M.Aurell. Paris 1993 [Nota del curatore della trascrizione] 112 J. BiGnami odier, Études sur Jean de Roquetaillade, Paris 1952 [Nota del curatore della trascrizione] 113 Informazione aggiunta da Campana che integra quella fornita da Lowe [Nota del curatore della trascrizione]. 157 Lowe) sul V(at.) L(at.)1349 in beneventana (la forma berviantana produce bermentana, vermentana) cit Serra, cognome, nome (“territorium barbetanum” cfr. Iguanez) 7) “Liber de lictera Veneventanam” sul Barb. Lat. 421 in ben[eventana]. Provenineza: Benevento, X, Cassino (è il Chigi del Marchese di San Sebastiano di Alatri?) (Sono indicazioni scritte in occasione della redazione di inventari).(Lowe si esprime alquanto avversamente). Testimonianze nuove 8) 1261, Sulmona, menzione di una Bibbia in 5 volumi “de littera beneventana” alla cattedrale- certo Benev(entana). 9) Sec. XIII, inventario della Certosa di Trisulti, due codici in “littera benev.”. Certamente [beneventana]. Non citare i “supplì”114 di Gallo. 10) Jo. (de Rupescissa ) v. supra al n. 3: è una testimonianza curiosa 11) 1340 (presa di Algesiras)nell’anonimo romano (è la sola in volgare ma...) “ così ne venne la lettera a Roma a Millore Stefano della Colonna (lingua univ.) [in]” berbentana a gran pena intesa” (frainteso da Ugolini e da altri prima di lui: “in scavato Brabantensi dialecto”) 12) 1374 “quodam quaterno antiquo litterarum beniventanarum”: così un documento di Zara (ed. Praga) indica il cartulario del mon[astero] di San Crisogono, che è in ben[eventana] 13) Inv[entario] di S. Pietro tra XV e XVI secolo, lettera di Callisto III “in littera beneventana”, cfr. sopra !4) 1449, Inventario dle monastero di San Crisogono di Zara (compil[ato] da Nicc [olò] De Nais ab[ate] e proc[uratore] di Pietro Barbo): parecchi codici in “littera beniventana” e “litterae beneventanae”, spesso anche “de littera antiqua” = beneventana (carolina [ invece per il] Praga115). Così abbiamo portato da 7 a 14 le testimonianze che aveva raccolto Lowe. 114 Nel senso di “pasticci” [Nota del curatore della trascrizione]. 115 Si riferisce a Giuseppe Praga autore di uno vasto studio sullo scriptorium di San Crisogono di Zara apparso in diversi numeri dell’Archivio storico per la Dalmazia tra 1929 e 1930[Bota del curatore della trascrizione]. 158 Fabio Troncarelli Longobarda [Definizione] non trattata da Lowe, innanzi tutto perché più nota e perché d’uso continuo anche dopo il Medio Evo (il solo esempio antico a lui noto sembra essere del 1336). Anch’io non ho cercato di proposito...( [aprire una ] parentesi), ma ecco una prima sistem[azione] del materiale. 1300 (Nicola Cilento) M. 5001, Chronica salernitana, Erchemperto: “Incipit liber quarundam ystoriarum...prout inventum fuit in quodam antiquo libro scripto litterarum langobardarum”- cioè certamente in beneventana (già [segnalato da] Pertz, Westerbergh116) 1336, vedi sopra n. 5 (Veroli); (long[obarda] = gotica [secondo] Gallo) 1430-1435, Inv[entario della Biblioteca] Capitolare di Benevento. Cfr. Zara, ma qui i codici in beneventana sono tutti in “littera longobarda”(tutto il gruppo e altri 5 e “Psalterium longobardum” in massima parte conserv[ato]) oppure “de littera antiqua” rispetto alla gotica (mentre altrove etc. ) Inventario sec. XV, cattedrale di Amalfi “de littera longobardorum” - certamente benev[entana] (ma anche “de littera est lingua bardo...” così. Vedi Pirri117) 1461, Inv[entario] di Bobbio: “in littera longobarda, dffcili ad legendum”(quanti?)- certamente precar[olina] [Italia] sette[ntrionale] Inv[entario] dei codici di Angelo Decembrio compilato da lui stesso: un Giuseppe-Egesippo “in littera quae dicitur longobarda”- può essere beneventana “Longobardo caractere” inv[entario] Bosso, il codice di Ausonio da lui mandato a Poliziano Testimonianze varie di Poliziano miscell[anee], che in complesso si rifanno alla benev[entana] 1495, una novella in rima di Gaspare Visconti parla di “libri per troppa antichità tutti intarlati , con letre longobarde per colonne, da non trarle il Cambiaso o il Ve- 116 Chronicon salernitanum, a cura di G.H. Pertz, MGH, Scriptores rerum langobardicarum, 3, Hannover 1839; Chronicon salernitanum: a critical edition with studies on literary and historical sources, and on languages, a cura di U. Westerbergh , Stockolm 1956 [Nota del curatore della trascrizione]. 117 P. Pirri, Il Duomo di Amalfi e il Chiostro del Paradiso, Roma 1941, p. 151[Nota del curatore della trascrizione]. 159 nagoune” cioè (in margine): “Il C[ambiaso]ad Irio da V[isconti] dexzifaratori senza scontri de ogni rifarsi” (Renier) V[aticano] L[atino] 5007 (Gesta episcopi neapolitani, in onciale e in benev[entana]) “scripta in longobardo” (poi sec. XVI e in uso comune, Robertello Orsini ecc., che passa agli studiosi di paleogr[afia] fino al nostro secolo)118 Qualche conclusione 1) Le più antiche testimonianze di beneventana (fino a XIV-XV etc.): nessuna probab[ile]. “9 Tra il XIII e il XV “benev[entana]” e “long[obarda]” sono usate per benev[entana]: sidus intendere (= Duc. Di Benevento), queste testimonianze sono per lo più di località periferiche (anche se nella zona beneventana fa eccezione Benevento). Qualcuno si è meravigliato ecc. (Gallo, senza impatto. Iguanez?) 3) Forse nel XIV, certo nel XV tutto simi[li] termini significano in qualche caso “scrittura strana” 4) “Longob[arda]” significa a partire dalla metà del XV almeno anche la precarolina settentrionale 5) L’uso di beneven[tana] si esaurisce dopo il XV; “longobarda” continua con significato più o meno preciso, fino all’epoca moderna. * Invito a cercare e comu[nicare le informazioni]. 118 Ci permettiamo di segnalare un altro esempio antico dell’uso di “littera longobarda”, che risale al XIII secolo nel Cartulario dell’Abbazia di San Giovanni in Fiore,, in cui si ricorda che nel 1216 il monastero S. Giovanni prestò alcuni codici al monastero di Calabromaria , tra i quali figuravano “psalteria duo et passionale de lictera longobarda“ cfr. F. troncarelli, A proposito di codici latini calabresi, in “Florensia”, I (1987), pp. 91-96. [Nota del curatore della trascrizione]. 160 CULTURA E FILOLOGIA DI ANGELO POLIZIANO, TRADUZIONI E COMMENTI, A CURA DI P. VITI, LEO S. OLSCHKI EDITORE, MMXVI, 272 PP. (EDIZIONE NAZIONALE DELLE OPERE DI ANGELO POLIZIANO. STRUMENTI VI). Adriano Magnani l presente ed elegante volume, che arricchisce di un nuovo strumento l’edizione nazionale delle opere di Poliziano, riunisce gli atti del convegno tenutosi a Firenze dal 27 al 29 novembre del 2014 e rappresenta una messa a punto tanto necessaria quanto completa a proposito degli studi sulla produzione filologica di Angelo Poliziano sia come commentatore che come traduttore. Le pagine introduttive di P. Viti (V-VIII) ci danno conto dei filoni di ricerca nazionali ed internazionali in cui si inseriscono i contributi presenti in questo volume: le novità in essi contenute e la volontà di tenere aperta la ricerca sia al proficuo scambio con gli ambiti scientifici d’oltralpe, sia al recupero ed alla valorizzazione dei contributi delle precedenti generazioni di studiosi di Poliziano. I primi cinque saggi (pp. 1-109) si concentrano sull’attività di traduttore del Poliziano, mentre i successivi nove (pp. 111-250) su quella di commentatore. Il primo contributo della prima sezione è a cura di A. Calciolari: La traduzione dell’”Enchiridion” di Epitteto: trasmissione e problemi testuali, pp. 3-20. In questo saggio l’autore ricostruisce il delicato passaggio biografico (siamo nella tarda primavera del 1479) del Poliziano in cui maturò, nel ritiro “forzato” ma pur sempre “suave” di Fiesole, la traduzione dell’Enchiridion di Epitetto. La traduzione, come ebbe modo di far notare il Poliziano stesso nell’introduzione, era resa difficile dalla debolissima qualità dei manoscritti del testo di Epitteto a sua disposizione, alcuni addirittura mutili, debolezza che cercò di colmare con integrazioni a senso in base al commentario di Simplicio. La circolazione di questa traduzione fu affidata soltanto a copie manoscritte (quelle sopravvissute di scadente qualità) almeno sino alla morte del Poliziano: dal codice Riccardiano (766) deriva la prima versione a stampa (Bologna 1497) della traduzione in questione, contenuta in un volume miscella- 163 neo curato, in maniera talvolta superficiale, da Filippo Beroaldo. L’autore passa in rassegna gli interventi del Beroaldo rispetto al codice Riccardiano, interventi non sempre felici (in particolare la contaminazione con la traduzione del Perotti, autore presente nella miscellanea) ma che confermano, in maniera diretta, la trasmissione del testo a stampa come derivata da questo codice. Nonostante alcuni interventi correttivi (i quattro passi viziati per errori di aplografia) è il testo “curato” dal Beroaldo che passa nell’edizione aldina del 1498 curata da Alessandro Sarti. Questa traduzione ottenne poi un interessante successo editoriale nell’epoca successiva al di fuori dell’Italia: più di una trentina di edizioni sia all’interno di raccolte di Poliziano che in opere miscellanee, ed addirittura tutte le altre testimonianze manoscritte della traduzione. All’elenco delle testimonianze manoscritte derivate dal testo Beroaldo-Sarti l’autore aggiunge la breve analisi di un nuovo testimone conservato nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna (A 1223). Stabiliti questi legami di parentela tra manoscritti e testi a stampa, l’autore si rivolge ai lacunosi e mutili codici greci su cui lavorò il Poliziano: G. Boter li aveva già identificati nel Vaticano greco 327 e nel Dresdensis Da 55 o da due testi perduti da questi codici derivati. Il Poliziano lavorò quindi, con ogni probabilità, avendo il Vaticano come codice di riferimento (con il commento di Simplicio) e ricorrendo all’altro per eventuali integrazioni, lavorando con la propria sensibilità laddove ambedue i manoscritti non restituissero un testo accettabile. C. Bevegni, Poliziano, Plutarco e le “Amatoriae Narrationes”, pp. 21-32, si sofferma su un caso specifico nelle “precoci, costanti ed intense” frequentazioni plutarchee del Poliziano. Pur essendo un autore costantemente presente al nostro, l’unico scritto plutarcheo da lui tradotto per intero è stato un “dialogo” minore e di incerta paternità: le Amatoriae Narrationes. Il presente contributo prende in considerazione questa traduzione e ci offre una serie di saggi tesi a mettere in evidenza le principali caratteristiche del metodo di lavoro del Poliziano. La traduzione è cronologicamente anch’essa collocabile nell’operoso soggiorno estivo a Fiesole del 1479. L’opera scelta è una piccola raccolta mitologica (cinque) a sfondo amoroso, tradizionalmente considerata spuria, che si iscrive in una polemica comune, nel mondo antico, contro la passione amorosa scatenata e foriera di tragiche conseguenze. L’occasione per questo delizioso esercizio di traduzione, come si evince dalla 164 lettera dedicatoria, è dovuta al legame di amicizia che legava il Poliziano al pesarese Pandolfo Collenuccio, interessato a storie amorose dotate di questo risvolto moraleggiante. Il codice utilizzato da Poliziano è stato identificato nel Laurenziano Greco 80.21: dai significativi e mirati saggi proposti dal Bevegni nelle pagine del presente contributo (organizzati per addizioni, amplificazioni, libertà traduttive, arricchimenti e potenziamenti semantici, variatio, difficoltà traduttive) la traduzione appare fedele al testo greco, elegante e precisa fornendoci così un’altra importante testimonianza dell’alto valore del metodo e delle capacità traduttive del Poliziano. Il contributo di S. Fiaschi, Traduzioni dal greco nei “Miscellanea”: percorsi di riflessione, pp. 33-50, è invece dedicato ad approfondire un aspetto in particolare dell’impressionante attività di recupero e confronto con i testi greci del Rinascimento e della produzione di miscellanee, ove spesso queste traduzioni dal greco di testi più impegnativi trovavano posto. Il Poliziano, sia con la sua Miscellanea filologica che con altra opere composite, offre senz’altro un campo assai vasto ed interessante per questo genere di indagine considerato che è spesso lui in prima persona a raccontarci il suo metodo di lavoro e le fonti soggiacenti alle sue versioni. L’autrice prende quindi in considerazione una serie di passi tesi ad evidenziare il complesso lavoro del Poliziano e le numerose fonti testuali e codicologiche a sua disposizione: Ovidio, Seneca, Giovenale, Claudiano, Gellio, Giulio Africano per il versante latino, Nonno, Achille grammatico, Callimaco, Plutarco, Libanio, il lessico Suda, Eliodoro per quello greco, più numerose incursioni nella letteratura scoliastica, vengono tradotti non solo per necessità immediata ma sempre all’interno di un discorso a carattere filologico più vasto e complesso teso alla fruizione ed all’interpretazione completa del testo non solo come episodio sintattico linguistico quanto piuttosto come espressione culturale a tutto tondo. Esempio classico, in questo senso, è la celebre traduzione dei Lavacri di Pallade di Callimaco: ove il Poliziano in prima persone evidenzia ragioni, metodologie (anche editoriali) e difficoltà incontrate nella traduzione del lungo testo dal greco al latino, nella volontà di rispettare senso, metrica ed artifici retorici in modo da approdare a quella che l’autrice del saggio felicemente definisce (p. 47) come “rappresentazione artistica del passato” (interpretamentum nelle parole del Poliziano stesso). Altro caso di traduzione poetica interessante brevemente analizzato è quello di Zosimo che, in un 165 passo della sua Storia Nuova, tratta dell’istituzione dei Ludi Saeculares: anche qui, come in altri casi, l’interpretamentum è finalizzato non di certo alla divulgazione del testo quanto piuttosto a suscitare una discussione filologica e linguistica tesa al recupero non tanto della singola testimonianza quanto del fatto culturale antico ad esso sotteso. D. Speranzi, Poliziano, i codici di Filelfo, la Medicea privata. Tre schede, pp. 51-68. In questo saggio l’autore si sofferma sull’incontro tra il Poliziano ed il codici appartenuti al Filelfo confluiti, alla sua morte, nella biblioteca privata di Lorenzo dei Medici. Dopo aver brevemente riassunto quanto si sa sulle sorti della biblioteca del tolentinese, l’autore si sofferma su alcuni codici la cui vicenda si interseca con quella del Poliziano (e della sua raccolta libraria) e che hanno visto il suo intervento, a volte autografo, su di essi. Il Pluteo 69.1, magnifico codice su due colonne con le vite parallele di Plutarco con probabili interventi autografi del Poliziano stesso; Pluteo 10.20, Filone Alessandrino appartenuto al Filelfo (ex libris) con due postille autografe del Poliziano; Pluteo 32.16, raccolta di poesia esametrica acquistata a Costantinopoli dalla vedova del Crisolora con note autografe del Poliziano; Pluteo 69.9 (Polibio) e Pluteo 59.22 (Dione Crisostomo) con note di possesso del Filelfo “aggiornate” dal Poliziano; seguono infine due schede aggiuntive che l’autore propone all’attenzione degli studiosi: Pluteo 85.21, con il commento di Simplicio al De anima di Aristotele, presenta note di lettura del Poliziano ed interventi del dotto Andronico Callisto che con il Poliziano fu sempre in strettissimi rapporti; Pluteo 49.9, con le Epistulae ad familiares di Cicerone: codice approdato, dopo numerose peripezie, nella biblioteca del Filelfo (che lo postillò di sua mano) e di lì in quella medicea, come nei Miscellanea ricostruisce Poliziano stesso. Chiude la sezione il corposo contributo di S. Dall’Oco, Sulla tradizione a stampa di Erodiano (secoli XV-XVII), pp. 69-87, con appendice alle pp. 88-109. La traduzione dell’Historia de imperio post Marcum di Erodiano è una delle traduzioni più fortunate del Poliziano. La recensione dei codici si è progressivamente arricchita di testimoni individuati dal 1954 in poi: il Rinuccini 20 della Laurenziana resta il testimone più antico mentre assai studiato è anche il codice V.E.2005 (Biblioteca nazionale centrale di Roma) con la dedica ad Innocenzo VIII, entrambi i codici portano l’intervento di Poliziano. La prima edizione bolognese, con la lettera all’a- 166 mico Andrea Magnani, ci chiarisce il metodo e le difficoltà incontrate nella traduzione del testo: già dalla lettera dedicatoria al papa siamo informati del singolare successo di cui questa traduzione ha goduto proprio per il merito di aver rimesso in circolazione un autore dell’epoca tarda e non tra i più conosciuti. L’alto valore pedagogico dei fatti narrati e le indubitabili qualità oratorie dello scrittore lo rendevano particolarmente attraente agli occhi del Poliziano nell’ottica del suo progetto pedagogico, progetto che trovò riscontro nella curia romana, come si evince dalla positiva lettera di risposta del dedicatario Innocenzo VIII. Questa operazione pose le basi della successiva fortuna editoriale del testo e della traduzione di Erodiano tanto in Italia (edizione del Manuzio nel 1498) quanto Oltralpe (Strasburgo, Colmar, Parigi, Ginevra, Basilea, Londra), sia come volume autonomo che all’interno di volumi miscellanei. Nelle pagine successive l’autore traccia una interessante, anche se provvisoria, storia della fortuna editoriale di questa traduzione, fortuna che si intreccia con i nomi dei principali umanisti dell’epoca. Alle pagine 88-109 viene riportato, in ordine cronologico, il catalogo delle edizioni a stampa del testo di Erodiano con la traduzione del Poliziano. La seconda sezione (Poliziano commentatore) si apre con il contributo di R. Ricciardi, Angelo Poliziano e il testo di Properzio, pp. 113-51. Le cure dedicate dal nostro al testo di Properzio sono l’applicazione concreta delle sue idee in materia di metodo filologico: collazione ed indagine sui singoli manoscritti studiati in tutti i loro aspetti materiali. Il testo di Properzio su cui il nostro autore lavorò è l’incunabolo della Corsiniana (Inc. 50. F. 37) stampato a Venezia da Vindelino da Spira nel 1472. Visto il precario stato di conservazione del volume l’autore ha lavorato sulle postille del nostro fedelmente trascritte dal gesuita Vito Maria Giovinazzi. Da queste si congettura che il Poliziano abbia cominciato il suo lavoro attorno al 1472 su codex vetustus di cui non abbiamo notizia ma pare si possa identificare con il Guelferbitanus Gudianus 224 di Bernardino Valla (grazie ad una correzione al testo di cui egli stesso parla in Miscellanea I, 81), ma anche su altri testi su cui nulla possiamo dire. Al fine di stabilire se il Poliziano si sia servito del codice del Valla per correggere l’incunabolo corsiniano, l’autore stende una tabella orientativa con le varianti del testo grazie alla quale si può affermare, con un certo margine di sicurezza, che il nostro si sia servito, per le correzioni, di un altro ottimo codice 167 properziano ora smarrito, oltre ad alcuni manoscritti facilmente identificabili (Par. 7989, Laur. 36, 49 e Vat. Ottob. 1514) ed a numerose edizioni umanistiche. Il contributo successivo è di S. Grazzini, Osservazioni sulla “Lectura Iuvenalis” di Poliziano, pp. 153-76. Poliziano si dedicò a tutte le sedici satire di Giovenale nell’”anno accademico” 1485-6, le sue lezioni furono sunteggiate in maniera più estesa da Bartolomeo de Galeata (Ravenna Biblioteca Classense ms. 237), in maniera più concisa da Bartolomeo della Fonte (Biblioteca Riccardiana ms. 153, fogli 135r-139v). L’interesse del Poliziano per il testo di Giovenale ha un andamento, contrariamente ai commentatori medievali tutti concentrati sulle prime satire, decisamente irregolare ma con picchi di interesse attorno alle satire IX-XI-VII-XVI-VI-VIII-II (giusto per citare le prime sette più commentate). L’interesse per la costituzione del testo e l’abbondanza del materiale da trarre dai commenti non sono elementi sufficienti a giustificare questa attenzione riservata alle satire meno conosciute di Giovenale: da una parte c’è sicuramente la complessità del testo, che lo rese tra i più studiati del 400, ma dall’altra c’è sicuramente da registrare una affinità morale e stilistica talmente forte da giustificare l’influsso di Giovenale nella scelta di Miscellanea come titolo di una delle sue più celebri opere. L’autore del saggio dedica poi la sua attenzione alla figura di Bartolomeo de Galeata, cercando di ricostruirne il profilo come studente (coscienzioso ma con una preparazione in greco alquanto debole) e come studioso (anche se nelle sue note ciò che risalta, più che altro, è il sempre eccezionale metodo filologico del Poliziano a lezione, metodo dal Galeata inteso fino ad un certo punto). Dal confronto tra le pagine redatte dal Galeata e quanto Poliziano stesso scrive sui medesimi problemi filologici nei suoi Miscellanea desumiamo ancora una volta quanto imponente fosse il lavoro di amplificazione ed arricchimento nella seconda fase di lavoro, ma quanto determinate brillanti soluzioni a problemi testuali ed interpretativi assai difficili fossero già presenti in nuce nel magistero universitario del Poliziano. Sempre di sunti delle lezioni universitarie del Poliziano si occupa il contributo successivo: C. Paolino, Le “Recollectae” del corso di Poliziano sulle Georgiche, pp. 177-86. Anno accademico 1483-4. Il dotto torna su uno dei suoi testi preferiti: le Georgiche di Virgilio. Come testo base probabilmente Poliziano adoperò un 168 incunabolo ora a Parigi (BNF Rés. g. Yc. 236), mentre le lezioni trascritte da Michele da Cafaggio sono conservate in quello stesso manoscritto classense (il 237) a cui poi il Galeata aggiunse i suoi appunti sulle lezioni di Poliziano stesso e di Pellegrino Agli sull’Eneide di Virgilio e su Giovenale. Il commento alle Georgiche, in latino con inserzioni vernacolari, è purtroppo incompleto (si interrompono a 2, 312-3), abbondano le imprecisioni sintattiche e i fraintendimenti dovuti alla natura discorsiva della lezione, ma il testo è comunque prezioso per comprendere come evolveva il costante interesse e studio del Poliziano per quest’opera virgiliana e le differenti fonti di cui si è servito di volta in volta anche in maniera critica (essenzialmente i commenti di Probo e Servio). G. Zollino, Il commento di Poliziano “Super Philippicas Ciceronis”, pp. 187-95. L’autrice dedica la sua attenzione a questo commento conservato nel miscellaneo ms. Clm 755, ff 44r-57r della Staatsbibliothek di Monaco e lì giunto con la biblioteca di Federico Piero Vettori acquistata nel 1758 da Carlo Teodoro di Baviera. Tra gli altri testi presenti alcuni trascritti dal fedele discepolo del nostro, Pietro Crinito a cui deve essere originariamente appartenuto il manoscritto. Il commento in questione è frammentario: si tratta probabilmente di una serie di lezioni a carattere accademico, prive perciò di quello spiccato carattere retorico, cifra dei discorsi ufficiali, lasciate a metà che ricostruiscono la situazione politica a Roma all’indomani dell’assassinio di Cesare, ove il Poliziano si serve ampiamente, e correggendoli, degli scritti dei numerosi umanisti a lui precedenti che si erano occupati di quel periodo storico. Il costante interesse per il lessico e la grammatica e l’uso di repertori umanistici quali le Elegantiae del Valla e il Cornu Copiae del Perotti presuppongono una classe di uditori di livello alto, mentre pare che il commento non dovesse estendersi oltre i capitoli iniziali della prima orazione, la qual cosa conferma il fine didattico del testo. L’autore del saggio mette quindi in evidenza la struttura bipartita di questo commento: prima una introduzione sulla fortuna del testo e sul contesto storico, poi l’esegesi vera e propria del testo con una particolare attenzione all’ambito lessico-grammaticale, accompagnata da note a carattere più squisitamente retorico. L’uso meramente didattico di questo commento sembra essere confermato dal livello quasi basilare di comprensione del testo a cui si guidano gli alunni, tuttavia ambedue le sezioni in cui esso si divide sono una buona testimonianza di come il 169 Poliziano si muova con assoluta disinvoltura ed estrema competenza tra le fonti tanto antiche quanto umanistiche, pur producendo delle lezioni che fossero facilmente comprensibili ad un pubblico di competenza relativamente modesta. M. Marchiaro, L’”Expositio Plinii” nel codice Monacense CLM 754: nota paleografica e codicologica, pp. 197-204. Questo contributo si collega agli altri per il fatto di essere dedicato all’aspetto codicologico e paleografico di un corso universitario del Poliziano confluito, assieme ad altro materiale, nella biblioteca di Pietro Crinito. Il Crinito cercò di dare un primo ordine, con criteri spesso discutibili, alla massa dei documenti pervenuti in suo possesso: uno dei risultati di quest’opera di assemblaggio è il codice Monacense CLM 754, costituito da 294 fogli in parte autografi del Poliziano in parte di altre mani (Crinito e Iacopo Modesti). L’ultima parte del codice (ff. 285-294), non indicizzata da dal Crinito, riporta gli appunti presi durante delle lezioni attribuite al Poliziano sul testo della Naturalis Historia di Plinio il vecchio. Sappiamo che il Poliziano ha rivisto a più riprese il testo di Plinio ma non ci risultano corsi universitari su questo argomento, quanto piuttosto un corso privato su richiesta a studenti portoghesi ed inglesi tra il 1489 ed il 1490, di cui questi fogli del codice monacense sarebbero testimonianza. Dall’analisi codicologica del gruppo di fogli sembra che si possa ammettere la perdita di alcuni appunti iniziali, mentre lo studio paleografico della mani di alcuni studenti che circolavano attorno alla figura del Poliziano consente di attribuire questi appunti non tanto al Crinito quanto piuttosto a Pier Matteo Uberti. L. Ruggio, Poliziano e Terenzio, pp. 205-19. L’attività drammaturgica del Poliziano si è sicuramente giovata della sua assiduità tanto con i testi antichi che trattavano di architettura teatrale tanto del suo continuo interesse per le opere di Terenzio nel senso di una ricostruzione complessiva, artistica e sociale, del teatro antico. Oltre alla vivace polemica coeva sul valore del teatro antico e sul suo influsso sulla rinascita del teatro umanistico è soprattutto lo stato di forte problematicità del testo terenziano, giuntoci tramite la trasmissione medievale, ad essere una delle ragioni che certamente suscitò la sua attenzione per questo autore: frutto di questo interesse furono, tra le altre cose, sia la collazione al celebre codice Bembino, sia il suo ricco commento all’Andria. L’opera si apre con un’introduzione storica sulla commedia 170 antica (origine, senso e struttura) e prosegue con un commento puntuale che si serve tanto delle fonti antiche quanto di quelle coeve (come il De priscorum proprietate verborum di Giuniano Maio). L’intervento di I.G. Rao, Preliminari per uno studio dei commentari alle “Pandette”, pp. 221-35, ci porta nell’ambito del diritto tardoantico, campo in cui pure si esercitò l’attività del Poliziano, anche se in maniera saltuaria. Il codice delle Pandette era, all’epoca, praticamente inaccessibile: fu quindi uno specifico privilegio concesso dal Magnifico a dare l’opportunità al nostro di studiarlo liberamente, tanto dal punto di vista codicologico (capitolo 41 della prima centuria dei Miscellanea) quanto dal punto di vista filologico e linguistico. Ma fu a partire dall’estate del 1490 che Poliziano dedicò a questo testo un suo lavoro metodico e completo di collazione (con gli incunaboli laurenziani del Digestum vetus, Infortiatum e Novum: plutei 91 inf. 15-17), lavoro fortunosamente ritrovato nel 1762 da Angelo Maria Bandini. Viene poi descritto l’origine del codice fiorentino della Pandette e come esso sia fortunosamente giunto in Laurenziana, le copie incomplete che se ne fecero ed il lavoro di collazione in tre volumi che ne fece il Poliziano durante la permanenza del codice nel tabernacolo di Palazzo Vecchio tra il 19 luglio ed il 29 agosto del 1490. Terminato il lavoro di collazione il nostro si dedicò allo studio di questo testo nell’ottica di un lavoro complessivo di commento che però sfortunatamente non vide mai la luce: ce ne resta il lavoro preparatorio presente, oltre che nelle Miscellanee, nei quaderni di appunti del Crinito conservati a Monaco di Baviera (Clm 807 e 755). Anche il brevissimo contributo successivo è dedicato allo stesso argomento: P. Viti, Due schede su Angelo Poliziano e il Digesto, pp. 237-40. Vi si illustrano due schede (Miscellanea I, 78 e I, 92) con delle correzioni che il Poliziano apportò al testo del Digesto tramandato in maniera indiretta confrontando il testo del codice fiorentino con un passo, nel primo caso, del commento di Paolo al libro II dell’editto, e nel secondo caso con un passo di Ulpiano. L’ultimo contributo, A. Guida, Poliziano e Leopardi: un incontro non riconosciuto, pp. 241-50, ci porta a Roma all’inizio del soggiorno di Leopardi sul finire 171 del 1822. Tra i numerosi frutti del breve periodo passato a catalogare i codici greci della sezione barberiniana della Biblioteca Apostolica Vaticana c’è un inedito attribuito in un primo momento a Libanio e poi a Coricio che però era già stato studiato dal Poliziano anche se in traduzione latina. Alla domanda se intercorra qualche relazione tra l’estensore dei perduti fogli barberiniani e il capitolo dei Miscellanea del Poliziano l’autore del saggio risponde, fondandosi su validi argomenti filologici e paleografici, in maniera affermativa, identificando addirittura l’estensore dei fogli con il Poliziano stesso. Chiudono il volume gli indici, a cura di L. Ruggio. Da questa breve rassegna si può evincere come questo volume rappresenti un momento importante di riflessione sull’avanzamento degli studi circa l’affascinante e complessa figura del Poliziano e dell’umanesimo italiano ed europeo. L’indefessa attività di ricerca ed approfondimento, il rapporto sempre fecondo del nostro autore con i testi della letteratura greca e latina, il solido lavoro filologico e linguistico, il sicuro metodo didattico calibrato a seconda del pubblico che aveva d’innanzi sono altrettanti aspetti che sono stati messi in risalto in questo ricco volume: i risultati raggiunti, a volte assai sorprendenti come nel caso del Leopardi, si affiancano a linee guida circa i futuri sviluppi della ricerca che lasciano vivo l’interesse in chi si trova a scorrere queste pagine e consentono di ben sperare circa ulteriori sviluppi che garantiscano una ricostruzione sempre più dettagliata e umanamente vera di uno dei periodi culturali della nostra storia senza dubbio tra i più vivaci. Per la parte grafica e la strutturazione del volume la casa editrice Olschki è, come sempre, garanzia di perfezione. 172 Annotazioni Annotazioni Annotazioni Annotazioni Annotazioni Annotazioni