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Giuseppe Vaccaro: Il Quartiere Ina e la Chiesa del S. Cuore Immacolato di Borgo Panigale Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte Corso di Architettura Contemporanea A.A. 2004-2005 Di Mirko Nottoli Un quartiere nel quartiere. Così si potrebbe definire il Villaggio Ina-Casa sorto a Borgo Panigale tra il 1953 e 1954. A tutt’oggi uno dei più importanti interventi di edilizia popolare del dopoguerra, l’ampliamento urbanistico si inscrive all’interno dei piani di ricostruzione per risolvere il drammatico bisogno di alloggi, fattosi impellente sia per i danni bellici sia per le nuove ondate di immigrazione che stavano interessando il nord Italia in quegli anni. Borgo Panigale entra a far parte del Comune di Bologna il 5 novembre 1937 con il Regio Decreto n. 1973 dopo oltre un decennio di resistenze da parte della popolazione desiderosa di mantenere un’ autonomia che durava da 105 anni. L’aggregazione avviene per motivi di ampliamento dell’area del capoluogo ma anche di controllo “politico” viste le tradizioni socialiste e le inesauste attività antifasciste che animavano la comunità. La vicenda è lunga e complessa e conosce alterne vicende: si conclude nel dopoguerra quando, con la delibera del Consiglio Comunale di Bologna del 21 settembre 1960 Per maggiori approfondimenti si rimanda a: Borgo Panigale nella storia, p.p. 29-37, op. cit., Borgo Panigale viene dotato di un proprio consiglio e organizzato in Quartiere. Già il piano regolatore del 1944, elaborato sotto la supervisione del podestà Agnoli e debitore delle enunciazioni emerse dal concorso del 1938 proposto da Alberto Legnani, prestava particolare attenzione a questa zona, dove il collegamento dei nuclei esterni della città, rappresentati da Borgo Panigale da un lato e da S. Lazzaro dall’altro, riconfermava lo sviluppo lineare del capoluogo emiliano. La riconosciuta importanza non solo di queste espansioni intercomunali ma anche di Corticella e Casalecchio è evidenziata dallo studio planimetrico delle borgate, che anticipava lo strumento previsto nel Prg. del 1955 per le nuove zone adibite a sviluppo residenziale. Nella relazione al Piano Regolatore della città di Bologna datata 12 ottobre 1955 si legge: E’ necessario alleggerire il nucleo centrale di parte delle attività culturali, amministrative e commerciali, alcune delle quali possono ugualmente e forse meglio esplicarsi altrove. Ciò potrà ottenersi con l’organizzazione di centri di vita nei quartieri periferici e con la creazione di organiche comunità residenziali nelle zone d’espansione…Per conseguire una situazione più coerente ai principi sociali ed igienici e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti occorre riorganizzare i detti quartieri arricchendoli dell’elemento verde. Per i vari quartieri è stato pertanto previsto il completamento dei centri di vita (chiese, scuole, attrezzature ricreative, mercati, centri assistenziali) In: Dieci anni di decentramento a Bologna, p. 336, op. cit.. Con la famosa legge n. 43 del 28 febbraio 1949, Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia. Case per lavoratori, inizia il progetto di ricostruzione pubblica più ingente che l’Italia abbia mai conosciuto. Un programma che affonda le radici negli studi sui nuovi insediamenti urbani realizzati durante la seconda metà dell’Ottocento, quando il fenomeno dell’urbanizzazione, avvenuto in seguito alla rivoluzione industriale, rischiava di gettare le città in un caos malsano e ingovernabile. In tutto questo un ruolo fondamentale veniva ovviamente ad assumerlo lo Stato che con il proprio intervento si assumeva il compito di pianificare, progettare e finanziare gli interventi urbanistici, dotandosi di strumenti e qualificazioni adeguati per rispondere alle nuove esigenze dettate dalla contemporaneità: crescita demografica, industrializzazione, nuove classi sociali, masse operaie disagiate, reti di comunicazioni, mezzi di trasporto pubblico, senza dimenticare standard di vita accettabili, in opposizione quindi alla indiscriminata crescita delle periferie attraverso la giustapposizione di interventi disordinati, frammentari e speculativi. Tali problematiche vennero affrontate nel nostro Paese durante la seconda metà del novecento con il piano Ina-Casa, dal 1949 al 1963, sostituito poi dai piani per l’edilizia economica e popolare di cui i comuni si sono dotati dal 1962, con la legge n. 167. Filiberto Guala, ingegnere presidente del Comitato di attuazione dell’ Ina-Casa così descrive gli intenti all’origine del suo mandato: La concezione del piano è partita dalla visione del disagio di tante migliaia di disoccupati colpiti, non solo nel fisico ma anche nello spirito perché privati del lavoro come completamento della propria personalità. Questa visione ha ispirato un uomo di governo l’idea di fare appello alla solidarietà di tutti i lavoratori perché l’operaio che lavora dia la possibilità, mediante un suo contributo, ad altri che non lavorano di ritornare nel consorzio civile in: Di Biagi Paola, op. cit., p. 11. L’uomo di governo di cui parla era Amintore Fanfani, all’epoca ministro del lavoro e della previdenza sociale del Governo De Gasperi. Fu egli a dire: Il piano per la costruzione di case per lavoratori è nato per la preoccupazione di recare un contributo al riassorbimento dei troppi disoccupati italiani. Reputai utile rivolgere il mio sguardo alle costruzioni edilizie, visto che esse sono le più capaci a fungere da volano nel sistema economico Ibidem. Approvato, come detto, il 28 febbraio 1949, l’avvio del piano è caratterizzato da una grande rapidità. Già il 7 luglio, a Colleferro, nei pressi di Roma, si inaugura il primo cantiere, a ottobre ne sono aperti ben 649. Il primo settenato è senza dubbio quello più proficuo per l’ente. In ambito bolognese il programma Ina-Casa si intreccerà all’interno di un quadro ricco di complicazioni. Qui infatti il modello politico amministrativo che governa la città metterà in discussione con ogni mezzo il ruolo egemonico del potere Centrale nella costruzione di abitazioni popolari. Nell’immediato dopoguerra qui come altrove il bisogno di alloggi emerge drammaticamente e l’amministrazione comunale si farà promotrice di un proprio “piano-case” complementare al piano Fanfani, convinta che, come ebbe a dire l’assessore Bentini, “la penicillina Fanfani non risolverà il problema” e rifiutando quella concezione classista di una città fondata sull’idea di zonizzazione che inversamente era uno degli obiettivi primari ricercati dai quartieri Ina. A Bologna comunque il senso civico e la comunanza di intenti sembrano alla fin fine superare ogni steccato ideologico e la costruzione di case ad opera del comune e il Piano incremento occupazione operaia sembrano procedere di pari passo. Sul quartiere di Borgo Panigale il sindaco Dozza, nella seduta del 5 gennaio 1951 ebbe a dire: una delle ragione per le quali l’Ina-Casa ha scelto Bologna come centro per una costruzione così cospicua di appartamenti è stato perché a Bologna, per opera dell’ ufficio tecnico comunale, queste costruzioni sono venute a costare meno che in altre città Ibidem, p. 391. I miglioramenti apportati al tipo di abitazione più popolare costruiti dal comune, del resto, in direzione degli schemi abitativi adottati dall’Ina-Casa non sono che un esplicito riconoscimento alle competenze qualitative del piano Fanfani. Nel giugno del 1944, pochi mesi dopo l’approvazione della legge Fanfani, l’ Ina- Casa destinò alla città di Bologna 300 milioni di lire. Successivamente acquistò un vasto terreno pianeggiante di collocazione marginale, situato a circa 5 km alla periferia orientale della città, di 120 mila metri quadrati a nord della via Emilia, vicino agli stabilimenti della “Ducati”, proteso verso la campagna per circa mezzo chilometro. Come si può leggere sul Giornale dell’Emilia del 6 gennaio 1951, l’Ina-Casa, in accordo con l’Ufficio tecnico, predispose lo studio urbanistico del villaggio che sarebbe sorto oltre il perimetro definito dal piano di ricostruzione bolognese, circondato da zone destinate ad attrezzature sportive e agricole. A tale scopo l’ente dispose di due stanziamenti, di 600 e 500 milioni, per la realizzazione quasi totale dell’opera mentre il Comune si dichiarò pronto a provvedere a tutti i servizi pubblici, per una spesa complessiva di 173 milioni. L’Ina-Casa inoltre decise di cedergli oltre a tutte le aree stradali anche le aree occorrenti per la costruzione di edifici di uso pubblico e commerciale, per un totale di 10800 mq, affidando la costruzione degli edifici a quattro enti appaltanti: Comune, Amministrazione provinciale, Iacp e Consorzio Grande Bonifica Renana. A partire dal luglio 1951 inoltre il locale Istituto autonomo della case popolari (Iacp) farà anche da Stazione appaltante della Gestione Ina-Casa, amministrando per conto di essa gli stabili costruiti e ceduti in locazione o con patto di riscatto. A progettare l’intera composizione urbanistica fu incaricato l’architetto Giuseppe Vaccaro, bolognese di nascita, già noto in Italia per la sua collaborazione giovanile con Marcello Piacentini e per la realizzazione di alcuni manufatti architettonici che restano tra i più importanti esiti raggiunti dal Razionalismo Italiano (si vedano il palazzo delle Poste di Napoli, la Scuola di Ingegneria di Bologna e la Colonia Agip di Cesenatico). Amico di Adalberto Libera, responsabile dell’Ufficio Architettura dell’Ina-Casa fino al 1952, col quale condivideva il medesimo interesse sul tema dell’abitazione (si vedano i progetti per la casa-collina o per quella modulare, di ispirazione lecorbuseriana, chiamata “Alfa Pater”, o i numerosi articoli di Vaccaro sulla questione, alcuni dei quali scritti a quattro mani proprio con Libera si vedano, ad esempio, “La carta della casa” di Vaccaro, Libera e Ponti pubblicato sul “Popolo d’Italia” il 15 giugno 1943 o “Per un metodo nell’esame del problema della casa, di Vaccaro e Libera, su “Architettura Italiana” n. 5-6 1943 ), Vaccaro era entrato a far parte della commissione istituita da Arnaldo Foschini preposta ad esaminare la qualità e l’abitabilità dei vari progetti presentati all’Istituto. Coadiuvato nella progettazione degli edifici da Guido Cavani, Gianluigi Giordani, Alberto Legnani, Alfredo Leorati, Francesco Santini e Gildo Scagliarini, Vaccaro diede vita ad un quartiere che rispondeva ai criteri urbanistici più all’avanguardia, debitore dei risultati espressi dal documento simbolo dell’urbanistica dell’epoca, la famosa Carta d’Atene, un quartiere dotato della massima organicità sia dal punto di vista sociale che da quello tecnico ed economico, definito da Astengo, sul n. 7 di Urbanistica del 1951, un esempio di “plasticismo organico”. Il progetto previde un borgo “autosufficiente” comprendente circa 35 fabbricati ad uso abitativo con 727 appartamenti, edifici commerciali, il mercato, la scuola, l’asilo, il giardino pubblico e ovviamente la chiesa, fulcro dell’intero complesso. Varie le tipologie di case studiate per correre incontro alle più diverse esigenze: unifamiliari, duplex, a schiera (con orto), case ad appartamenti lineari, a tre o 4 piani, a torre o a pianta stellata (a “H”). Gli appartamenti, anch’essi di varia grandezza, sono comunque sempre costituiti da ingresso, soggiorno, cucina separata o in nicchia, camere da letto (da una a tre), bagno con vasca, terrazzo. Le lavanderie sono collettive e si trovano o nelle cantine o nel sottotetto, vicine a terrazze dotate di stenditoi. Particolare attenzione è stata riservata alla distanza tra un edificio e l’altro in modo da garantire appartamenti soleggiati e ventilati, oltre a spazi verdi riservati ai bambini. Stretto tra due importanti arterie (la via Emilia e l’asse che sarebbe sorta più a nord secondo il piano regolatore), Vaccaro aveva previsto un’originale maglia di strade interne che si collegava ad esse. Pur avendo a disposizione un terreno vergine e pianeggiante, per evitare il senso di monotonia e staticità che avrebbe dato una serie di assi ortogonali, egli diede alle vie un andamento irregolare e tortuoso, ricco di prospettive e di angoli da scoprire A tal proposito si legga quanto afferma il primo opuscolo emesso dalla Gestione Ina – Casa: “l’ uomo non ama e non comprende le realizzazioni indefinite e monotone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria che per un numero; non ama le sistemazioni a scacchiera, ma gli ambienti raccolti e mossi allo stesso tempo. Saranno dunque le condizioni del terreno, il soleggiamento, il paesaggio, la vegetazione, l’ambiente preesistente, il senso del colore a suggerire la composizione planimetrica affinchè gli abitanti dei nuovi nuclei urbani abbiano l’impressione che in questi sia qualcosa di spontaneo, genuino, di indissolubilmente fuso con il luogo sul quale sorgono. In: Primo fascicolo delle Norme e suggerimenti per la progettazione delle case del piano, ottobre 1949.. A criteri estetici e pratici rispondevano anche i lunghi viali alberati appositamente predisposti. Gli esercizi commerciali invece si aprivano sulla via Emilia e sulle arterie principali, in modo che potessero beneficiare dell’ intenso movimento. Il risultato finale, come tutt’ora si può constatare – anche se il crescente flusso di automobili posteggiate un po’ ovunque, anche in luoghi all’origine adibiti ad altre funzioni, ne hanno snaturato la percezione complessiva – è una “borgata” che sembra sorta per gemmazione spontanea, perfettamente in linea con i suggerimenti forniti dall’Ina – Casa testé descritti. Progetto originale del quartiere Ina-Casa di Borgo Panigale A tal proposito, com’era solito fare essendo questo uno dei principi fondamentali del suo modus operandi, Vaccaro non si dimenticò delle tradizioni e delle usanze del luogo, che egli ben conosceva essendoci a Bologna nato e cresciuto: ecco allora gli esercizi commerciali trovare posto nel cosiddetto “portico del treno”, che volutamente riecheggia i famosi portici bolognesi perché è là che i bolognesi discutono tradizionalmente di affari e di tempo libero – e che già presagisce quello ben più imponente del quartiere Barca – mentre sulla via Emilia gli edifici sono rivestiti dal tipico laterizio rosso, materiale simbolo del territorio. Il fulcro dell’insediamento, oltre alla Chiesa, doveva essere il centro educativo, composto da asilo e scuola elementare, posti sul lato sinistro del quartiere, il centro commerciale suddiviso in negozi, mercato coperto e cinema che avrebbero dovuto sorgere nella parte centrale, sulla via Emilia, e i servizi di utilità come farmacia, caserma dei carabinieri, distributore di benzina e ufficio postale. Di questi non furono mai costruiti il cinema-teatro, la caserma dei carabinieri (che già non figura più in una planimetria del 1952) e il mercato coperto. L’asilo solo in tempi recenti. Il distributore c’è ancora ma non è più quello di Vaccaro, che sembrava uscito da un quadro di Hopper o da un Noir americano degli anni ’50. distributore Agip progettato da Vaccaro Già quasi completato per intero nel 1954, per la chiesa invece i parrocchiani dovettero aspettare fino al 1971, più di dieci anni dopo la sua progettazione, quando venne inaugurata dal Cardinal Lercaro il 18 settembre Vedi Resto del Carlino, 19 settembre 1971., adattandosi, i parrocchiani, fino ad allora ad officiare i propri riti dentro una baracca di legno prefabbricata. Come mostra il progetto offerto dallo Iacp sulle varie aree di competenza, il Comune doveva provvedere alla costruzione delle strade, delle fognature e dell’illuminazione pubblica onde garantire l’abitabilità degli edifici. Dopo il termine dei lavori si aprì l’annosa questione dell’assegnazione degli alloggi, assegnati, come scritto sul primo bando afflitto dal Ministero del lavoro e Previdenza sociale, con promessa di vendita (a riscatto) e in locazione a lavoratori che prestassero la loro opera in alcuni comuni intorno Bologna, selezionati da un’apposita commissione. E’ possibile seguire la lunga controversia attraverso una serie di articoli che durante tutto il 1953 il “Giornale dell’Emilia” (oggi “Resto del Carlino”) ha dedicato alla delicata situazione, denunciando nello stesso tempo i ritardi nell’allacciamento dei servizi igienici e nella situazione della rete stradale che hanno causato non pochi disagi ai primi abitanti. Centro fisico e spirituale dell’intero quartiere la chiesa è probabilmente l’edificio al quale Vaccaro riserva la maggior parte dell’interesse. Questo perché Borgo Panigale rientra nell’area di intervento del Cardinale Giacomo Lercaro, impegnato in quegli anni a fronteggiare il problema lasciato aperto dall’amministrazione comunale (non senza sottointesi politici ovviamente), con la carenza grave in materia di previsioni di servizi pubblici e comunitari, e in particolare di quelli religiosi, proprio nel momento in cui l’espansione edilizia stava consumando tutto il territorio disponibile. Egli quindi comincia a promuovere un processo d’azione totale per assicurare alle comunità parrocchiali le aree necessarie per le attività socializzanti e comunitarie dei quartieri. Ogni parrocchia pertanto, mediamente dimensionata intorno alle 8000 unità, ricercava il proprio insediamento e autodefiniva le proprie necessità di attrezzature religiose, educative e sportive e, per i 22 nuovi centri di quartiere così individuati, tra cui anche quello di Borgo Panigale, con una responsabilizzazione comunitaria che fu forse il primo esempio di partecipazione reale, arrivò ad esprimere l’autotassazione che permise l’acquisto dei terreni necessari, in gran parte non previsti dagli strumenti ufficiali. In quest’ambito, per sensibilizzare l’opinione pubblica, lo stesso Lercaro volle a Bologna, nel 1955, il primo Congresso di Architettura Sacra che vide la partecipazione di personalità internazionali quali Le Corbusier, Neutra, Saarinen oltre ai “nostri” Quaroni, Michelucci, Figini. L’Ufficio Nuove Chiese, che si esprimerà nel gruppo redazionale della rivista “Chiesa e quartiere”, cui si diede origine a partire da quel momento, elaborò insieme al Centro di Studi Sociali, diretto da Achille Ardigò, al Centro di Studi per l’Architettura Sacra e al Centro di Vita Pastorale, il primo “Piano dei Servizi della Città”, anticipatore di quel piano che l’Amministrazione comunale elaborerà con la “Variante” solo nel 1976. L’attività realizzativa dell’Ufficio Nuove Chiese divenne punto di riferimento per tutta Italia facendo di Bologna il polo più avanzato del movimento di architettura moderna nel campo del sacro, alla cui azione si deve, tra l’altro, il coinvolgimento di un maestro del calibro di Alvar Aalto per la realizzazione della chiesa di Riola di Vergato. E’ quindi attraverso l’operato del cardinale Lercaro che Borgo Panigale si pone nell’ampio respiro del movimento per il riscatto dell’architettura religiosa contemporanea, venendo eletto a parrocchia nel 1956 dedicata al “Cuore Immacolato di Maria” per decreto del cardinale stesso. A reggerla fu chiamato don Dante Zani che fu costretto a celebrare messa fino al 1965 in una baracca di legno. Dei ritardi ci informa tra gli altri Giorgio Trebbi in un articolo apparso su “Ingegneri architetti costruttori”, riferendoci inoltre del disappunto dello stesso Vaccaro nel vedere in varie riprese rinviato il sospirato inizio dei lavori, non concependo egli, a ragione, il realizzarsi di un’opera a distanza di tempo dalla sua progettazione perché ciò inevitabilmente crea qualche frattura tra il progettista e l’opera stessa Trebbi Giorgio, Ingegneri architetti costruttori, op. cit.. Egli ci racconta ancora dello spiacevole quanto comico inconveniente occorso ad un gruppo di architetti tedeschi che partiti dalla Germania in Pullman per vedere l’opera, giunti a Borgo Panigale trovarono al posto della chiesa un bello spiazzo vuoto! Dovendo diventare il punto nevralgico del quartiere, quello su cui tutte le arterie convergono, nasce da subito l’esigenza di separalo fisicamente e concettualmente dal contesto, facendolo spiccare come sagoma volumetrica “diversa” (come dimostra una delle prime relazioni presentate da Vaccaro alla Diocesi). E non potendo competere in altezza, vista la presenza di palazzi di 4 o 5 piani, Vaccaro scelse l’opzione opposta appiattendo il più possibile l’edificio, il quale finiva per emergere per contrasto, ossia come vuoto volumetrico, come pausa nel tessuto edilizio. Non ancora contento pensò bene di interrare ulteriormente l’edificio al quale si accede infatti scendendo un paio di gradini. Come fulcro dell’intera composizione la Chiesa è concepita a forma circolare recuperando così la concezione sottesa agli antiche templi paleocristiani. Simile ad un U.F.O. atterrato nel bel mezzo di un villaggio, la chiesa consiste in un elemento perimetrale circolare in cemento armato che ne delimita lo spazio e in una copertura più alta, simile ad una cupola, anch’essa circolare, formata da un piatto sorretto da 4 pilastri sfilati e cruciformi, sempre in cemento armato. La particolarità dell’edificio, fin dai primi progetti, è che i due elementi rimangono strutturalmente indipendenti, collegati tra loro da un “tamburo” vetrato di cristalli atermici legati da montanti di materia plastica. L’interno, lasciato interamente in cemento grezzo non intonacato, crea un unico ambiente architettonico caratterizzato da una coerenza totale, pulito e funzionale, in cui si esplicita la poetica razionalista del suo ideatore. Dopo la sede della facoltà di ingegneria infatti questa chiesa è senza dubbio l’intervento più noto tra quelli realizzati a Bologna da Vaccaro. Il progetto prevedeva anche la costruzione del campanile per il quale Vaccaro chiamò l’amico Adalberto Libera il quale, accolta con grande entusiasmo la proposta, elaborò la celebre soluzione dei quattro pali in cemento centrifugati, legati da un collarino alle estremità delle antenne. E’ lo stesso Libera a rievocare quel momento a conclusione del suo articolo su “L’architettura, cronache e storia” del 3 settembre 1955: Fu una sera che Vaccaro mi disse: “al campanile non ho ancora pensato, vuoi progettarlo tu?”. Accettai commosso. Sapevo con quale infinito impegno aveva affrontato il tema di questa chiesa: lasciarne a me un parte era una grande offerta alla nostra amicizia Libera Adalberto, in: Architettura, cronache e storia, op. cit.. Discorso a parte merita la copertura. In questa prima fase dei lavori Vaccaro aveva previsto un piatto a piastra, con struttura reticolare metallica rivestita all’interno da pannellature in metallo di rame lucido lavorato, in modo che, visibile dall’esterno attraverso il tamburo vetrato, desse l’impressione di un aureola dorata sospesa a mezz’aria sopra la chiesa stessa. In una relazione esplicante il progetto nei suoi punti di massima, conservata presso la Curia bolognese (vedi allegato), Vaccaro addirittura ipotizzava per la soffittatura interna una possibile decorazione a mosaico o con sacre raffigurazioni. E le differenze non finiscono qui: in un paio di schizzi, anch’essi gentilmente offertici dall’Ufficio Nuove Chiese della Curia di Bologna, non datati ma presumibilmente preliminari al progetto definitivo, si può vedere come Vaccaro avesse inizialmente previsto, al posto dei 4 pilastri cruciformi, 4 piloni di calcestruzzo con su raffigurati figure di Santi in bassorilievo. Una soluzione evidentemente ben presto abbandonata, come dimostrano i primi progetti approvati in cui già figurano i noti pilastri adottati poi da Nervi. Presente invece nei progetti ma mai realizzato è il pulpito posto sulla sinistra, a ridosso del relativo pilastro. In attesa del finanziamento il progetto rimase dunque in sospeso per sei anni durante i quali Vaccaro rivedeva e rimaneggiava il disegno iniziale, convincendosi alla fine della troppa diversità del piatto metallico rispetto all’unità stilistica del tutto e della necessità conseguente di adottare il cemento armato anche per la copertura. E’ a questo punto che entra in scena Pier Luigi Nervi uno dei pionieri nell’uso del beton armeè in Italia. Già collaboratori per la stazione di Napoli (nel 1954), i due architetti formularono la soluzione che oggi si può vedere. A dire il vero già Vaccaro aveva individuato la possibilità di un soffitto che evidenziasse le linee strutturali diventando allo stesso tempo un motivo decorativo e simbolico. Nervi accettò talmente in pieno le idee proposte dell’amico che i quattro pilastri di sostegno sono rimasti gli stessi disegnati da Vaccaro nella prima fase progettuale. L’ultima versione cambia solo per il vincolo di attacco con il soffitto che da semplice cerniera passa a collarino con fungo. Nervi trasse da questa esperienze lo spunto per molti suoi lavori successivi come dimostra ad esempio il Palazzo del Lavoro di Torino. Nervi stesso scrisse: L’idea era di mettere in evidenza un sistema di nervature corrispondenti ad una naturale trasmissioni dei carichi da vari punti della copertura ai 4 pilastri, e, come primo orientamento, Vaccaro pensava a qualcosa di analogo alle nervature disposte lungo le linee delle isostatiche dei momenti principali. E difatti abbiamo cercato di avvicinarci, in via concettualmente corretta anche se matematicamente non esatta, a tale disposizione la cui caratteristica è data dalla presenza di due famiglie di nervature incontratesi a 90°. … Il risultato è chiaro ed armonioso come accade ogni volta che l’ispirazione di un elemento architettonico è preso da fatti o leggi, fisiche o statiche. L’interno nel progetto originale con la copertura in lamelle di rame Il soffitto nerviano con il particolare attacco del pilastro Sui metodi costruttivi prosegue: …mi auguro molto sinceramente che la struttura venga realizzata…In quanto all’esecuzione si potrebbe adottare il sistema a tavelloni pre-fabbricati su modello in gesso, già da me più volte sperimentato, l’unico possibile per raggiungere una perfetta esecuzione e un costo inferiore a quello che si avrebbe con le usuali cesseforme in legno… Nervi Pier Luigi, Quaderni di Chiese e quartiere, op. cit. Queste nervature sono tracciamenti degli andamenti delle linee di sforzo che si manifestano nella struttura, riecheggianti le onde formate da un sasso gettato nell’acqua. Lungo queste linee isostatiche egli fa correre degli ingrossamenti capaci di far convogliare in se stessi le sollecitazioni che agiscono al piano della piastra. Come testimonia Glauco Gresleri che fu direttore dei lavori voluto personalmente da Vaccaro, la forma relativa è ottenuta con un procedimento di prefabbricazione che prevede la realizzazione, su stampi formati in cantiere, delle forme a conchiglia in conglomerato armato delle nervature, poste su armature metalliche diffuse. Le forme poi sono accostate le une alle altre sul piano orizzontale dell’ armatura Gresleri Glauco, Bologna Incontri, op. cit.. Il “coperchio” di Nervi convive con l’anello di base che dal punto di vista strutturale si presenta come un altro elemento di estremo interesse. Questa struttura in cemento con sbalzo di oltre cinque metri verso l’ interno era, dal punto di vista del calcolo, la parte più difficoltosa. Dall’anello perimetrale appoggiato a terra solo per punti così da aumentare ulteriormente la leggerezza dell’edifico – tanto che dall’interno sembra sospeso in aria – si staccano 16 spicchi pari a settori corrispondenti della corona circolare e aggettanti a mensola verso il vuoto della chiesa, sino a chiudersi sotto il tamburo che da questo anello sale, dilatandosi in leggero tronco di cono rovesciato. Questi spicchi, isolati da sottili tagli vetrati, sono tra loro appoggiati tramite un cordolo perimetrale che lega le teste delle mensole. Sempre Gresleri testimonia il grande impegno realizzativo che tale struttura ha comportato, rendendo onore alle competenze dell’impresa edile dei Fratelli Donati e del capocantiere Goliardo Tubertini, veri artefici materiali della costruzione. La cosa forse davvero più singolare è apprendere che nella prima idea di Vaccaro tale struttura doveva essere un muro perimetrale costruito in mattoni, come testimonia uno dei documenti allegati! Tra gli altri collaboratori di Vaccaro va senza dubbio citato anche Sergio Musumeci, responsabile dei calcoli statici. La pavimentazione, leggermente concava, era prevista inizialmente in gomma rigata. Poi, per problemi economici, per lungo tempo rimase solo la gettata in cemento grezzo, senza alcun rivestimento e solo con l’arrivo del monsignore Ernesto Vecchi, che sostituì Don Dante Zani morto nel 1965 senza nemmeno riuscire a vedere la sua chiesa finita, si procedette alla pavimentazione in cotto che vediamo oggi, calda ma di sicuro poco in linea al gusto del disegno originario. Diversa oggi appare anche la zona del coro, rivoluzionata nella disposizione, così come il tamburo, le cui vetrate, trasparenti all’origine, sono state oggi sostituite da altre colorate e decorate con motivi semi-astratti. Di originario pare ci sia rimasto il bel crocifisso di classica fattura. La chiesa in costruzione. Si vedano i punti d’appoggio a terra Il taglio che divide l’anello perimetrale in 16 spicchi Il tamburo vetrato con le nuove finestre vivacemente decorate e colorate L’impressione che si ricava oggi entrando in chiesa ha probabilmente poco da spartire con quella immaginata da Vaccaro mezzo secolo fa, causa soprattutto di alcuni paramenti religiosi senz’ombra di dubbio stridenti rispetto all’essenzialità, al rigore, al senso di eterea sospensione creato da un ambiente volutamente ridotto ai minimi termini. Il ciborio lamellare in plexiglas verde, il battistero in marmo bianco di Carrara, la via crucis di classica figurazione appesa alle pareti, la scritta a lettere cubitali che campeggia sul fondo, sono tutte progressive corruzioni (inclini al kitsch) delle suggestioni e dello spirito perseguiti da Vaccaro. Ciborio e fonte battesimale, nuove creazioni di un artista locale. La Chiesa del Sacro Cuore Immacolato, il cui progetto fu premiato con la medaglia d’oro alla Biennale di Salisburgo nel 1961, rappresenta, nonostante le ridotte dimensioni, uno dei più alti esempi dello stile maturo dell’architetto bolognese, durante il quale egli giunge a contrapporre, alla vana ricerca di leggi “per uso universale”, come volevano la modulazione di Le Corbusier, “l’astrazione geometrica nella sua forma più semplice” come interlocutrice della particolarità irriducibile del luogo. Il disco sospeso segnato dalle forze isostatiche, la perfetta piante centrale, l’essenziale perimetro anulare, suonano come un manifesto di tale dichiarazione di intenti. Allo stesso tempo con l’uso del cemento armato e del vetro Vaccaro sembra ribadire la propria stretta appartenenza al Movimento Moderno, all’interno del quale però l’idea formale non deve mai essere aprioristica, ma tendere sempre a qualificarsi come l’essenza dei dati di un problema. Egli nel famoso articolo Convincimenti scriveva di essere fermamente convinto che fosse destino dell’architettura moderna quello di eliminare la finzione e realizzare il risultato artistico col solo mezzo dei valori emotivi delle forme costruite per gli scopi reali ed intrinseci della costruzione stessa. Geometria, proporzione e minimalismo sono gli ingredienti alla base dei suoi ultimi lavori in cui egli sancisce una volta per tutte, come scrive Alessandro Anselmi con suggestiva efficacia, l’autonomia del segno, trasformando persiane in rettangoli, balconi in superfici, masse edilizie in volumi Anselmi Alessandro, Architettuta senza ideologia, in : Giuseppe Vaccaro, p. 37 op. cit.. Un funzionalismo che sia davvero funzionale dunque, e non il contrario come ha sostenuto sagacemente Tom Wolfe nel suo celebre libro “Maledetti architetti” (la cosa più importante nel funzionale non è la funzione bensì, come tutti sanno, quel non so che di spirituale noto come “nonborghese”): ecco il cosiddetto “inganno funzionalista” per cui il “sembrare” è più importante dell’ “essere”. Per Vaccaro invece il valore dell’architettura va cercato nelle sue forme proprie, nella perizia tecnica e nella sapienza costruttiva, espresso in un linguaggio non già dato ma ricercato volta per volta. In tal senso il suo Razionalismo va inteso come aderenza allo stile del tempo, come spontaneità dell’attività creativa non costretta in schemi predefiniti. Razionalismo dunque inteso come stile della ragione inteso come stile del nostro tempo. Concentrato sul fare, sui metodi costruttivi, calmo e meticoloso, lontano dai toni propagandistici, da manifesti declamatori, da polemiche e sensazionalismi tesi ad “abbagliare l’opinione pubblica” – come scrisse in Per una nuova architettura, su “Il Tevere” 6 maggio 1931 – forse proprio per questo Vaccaro è stato per lungo tempo dimenticato dalla critica storiografica. Quella critica che solo ora si sta accorgendo di lui e che solo ora sta attribuendogli quel ruolo di primo piano che merita. La copertura com’è nel progetto di Nervi, con le curve isostatiche, e come avrebbe dovuto essere nella prima stesura di Vaccaro, in lamelle di metallo di rame Pianta originale della chiesa Spaccato della chiesa nel progetto originario La chiesa del Cuore Immacolato di Maria vista oggi Veduta del soffitto oggi La base esterna “rialzata” da terra Interno con veduta della copertura, del tamburo vetrato e del taglio nel perimetro anulare Alcuni articoli tratti dal “Giornale dell’Emilia” sulla questione dell’assegnazione degli alloggi: 18 Marzo 1953, p. 4, Cronaca di Bologna 7 settembre 1953, Cronaca di Bologna 16 settembre 1953, Cronaca di Bologna “Giornale dell’Emilia”, 3 agosto 1952 Foto d’epoca con il quartiere già interamente costruito e lo spazio previsto per la chiesa DOCUMENTI conservati presso l’ ”Ufficio Nuove Chiese” della Diocesi di Bologna BIBLIOGRAFIA Mulazzani Marco (a cura di), Giuseppe Vaccaro, Electa, Milano 2002 Paola Di Biagi, La grande ricostruzione – il piano Ina-Casa degli anni ’50, Donzelli Editore, Roma 2001 Gabriele Basilico, Giuseppe Vaccaro moderno e contemporaneo, Peliti Associati, Bologna, 2000 Silvio Cassarà, Giuseppe Vaccaro e l’ora del moderno, p.p. 239-250, in: Giuliano Gresleri, Pier Giorgio Massaretti (a cura di), Norma e arbitrio, Marsilio, Venezia, 2000 Mazzotti Davide, Giuseppe Vaccaro Architetto, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2000 Mario Gerardo Murolo, Giuseppe Vaccaro nel movimento moderno, in: Strenna Storica Bolognese, 1995 Borgo Panigale nella storia, Banca Popolare dell’Emilia, Bologna, 1990 Borgo Panigale da villaggio mesolitico a quartiere cittadino, Cassa Rurale ed Artigiana di Borgo Panigale, Bologna, 1990 Luigi Vignali, Ricordo di Giuseppe Vaccaro, in: Strenna Storica Bolognese, 1990 Paolo Giordano, Vaccaro e Bologna, in: Domus, n. 693, Aprile 1988 Bernabei, Gresleri, Zagnoni, Bologna Moderna 1860-1980, Patron, Bologna, 1984 Glauco Gresleri, Illustrando nelle varie fasi un grande lavoro di ingegneria, si racconta come Piewr Luigi Nervi, chiamato alla collaborazione da Giuseppe Vaccaro, mettesse un “coperchio” alla chiesa nuova di Borgo Panigale, che doveva distinguersi dalle case intorno come una pausa nel tessuto edilizio più alto, p.p. 21-23, in: Bologna Incontri n. 4, 1979 Bruna Zacchini (a cura di), 10 anni di decentramento a Bologna, Luigi Parma, Bologna, 1976 Emilio Stefanelli, Bologna fuori porta Stiera, Richelmy Editore, Bologna 1975 Giorgio Trebbi, Un’opera di Vaccaro e Nervi a Bologna, in: Ingegneri architetti costruttori, p.p. 15-30, Bologna, 1965 Bologna, Quartiere Borgo Panigale, in: Architettura Cantiere, n. 16, 1958 Pier Luigi Nervi, Soluzione tecnico costruttiva della copertura per la chiesa dell’architetto Vaccaro a Borgo Panigale, in: Quaderni di Chiesa e Quartiere, n. 4, 1957 A.A.V.V., 10 anni di architettura sacra in Italia, Bologna, 1956 Adalberto Libera, Chiesa Parrocchiale a Bologna, in: L’Architettura, cronache e storia, n. 3 settembre-ottobre 1955 Atti del V Congresso Nazionale di Urbanistica, in: Urbanistica n. 17, ottobre 1954 Italo Bianco, Al quartiere del villaggio Ina-Casa in Bologna Borgo Panigale, in: Aedilis n. 34, 1952. 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