Alessandro Palazzo
La sapientia nel De summo bono
di Ulrico di Strasburgo
La sapientia gioca un ruolo determinante nell’architettura del De summo bono:
si tratta di un concetto carico di significati perché su di esso convergono grandi
tradizioni di pensiero, come la noetica di matrice araba, la teologia dionisiana,
la metafisica e l’etica di Aristotele, il tema ermetico dell’homo nexus Dei et mundi, la gnoseologia agostiniana e la tradizione biblica cristiana, componenti filtrate attraverso la lettura delle opere di Alberto, ma reinterpretate e armonizzate da Ulrico in maniera originale; esso implica inoltre questioni di rilevante interesse, quali le potenzialità della ragione naturale, il rapporto natura-grazia, il
rapporto filosofia-teologia, la perfezione dell’intelletto umano, la conoscenza
scientifica, la felicità mentale.
Intendere la concezione della sapientia proposta da Ulrico significa quindi
prendere coscienza di questo complesso di questioni ed è condizione necessaria per una valutazione storico-dottrinale del De summo bono nel suo complesso.
Non è casuale che il problema della conoscenza di Dio1 e, più in generale, la
noetica ulriciana abbiano suscitato a più riprese l’interesse della critica: agli
studi di Grabmann2, hanno fatto seguito in epoca più recente i contributi di de
Libera, de Libera e Mojsisch, Sturlese, Malovini e Trottmann3.
Secondo Ulrico, infatti, la sapienza più alta consiste nella conoscenza di Dio: cfr. ULRICUS ARGENDe summo bono, I, 2, 5, ed. B. Mojsisch, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1989 («Corpus Philosophorum Teutonicorum Medii Aevi» [=CPTMA], I/1), 39,5-9.
2 M. GRABMANN, Studien über Ulrich von Strassburg. Bilder wissenschaftlichen Lebens und Strebens aus
der Schule Alberts des Grossen, in M. GRABMANN (Hrsg.), Mittelalterliches Geistesleben. Abhandlungen zur
Geschichte und Mystik, I, Max Hueber Verlag, München 1926, 147-221, in particolare 196-202.
3 A. DE LIBERA, Introduction à la mystique rhénane d’Albert le Grand à Maître Eckhart, Editions
O.E.I.L., Paris 1984, in particolare 103-114. Lo studioso francese dà giusto risalto alla noetica di Ulrico vedendovi il punto di partenza delle elaborazioni di Teodorico di Freiberg e di Eckhart. Interpreta
inoltre l’intelletto divino come un dono noetico soprannaturale: 151-152, n. 51. B. MOJSISCH / A. DE LIBERA, Einleitung, in ULRICH VON STRASSBURG, De summo bono Liber I cit., XII-XXII, in particolare XVI-XVII,
pongono l’accento piuttosto sulla teologia mistica dionisiana che sulla noetica di matrice araba: nella
1
TORATENSIS,
«Quaestio», 5 (2005), 495-512
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In questo panorama mi pare di notare una lacuna: perlopiù tutti questi contributi rimangono schiacciati sul I libro del De summo bono, consacrato programmaticamente alla scienza del bene supremo. Lo schema tracciato da Ulrico in
questo libro è abbastanza tradizionale: la forma più alta di sapientia è la teologia rivelata, che rende noto Dio secondo le capacità dell’intelletto in via4. Anche alla metafisica, in quanto conoscenza di Dio, spetta il nome di sapientia, ma
la sapienza metafisica è ordinata alla vera sapienza, quella della teologia rivelata, come l’imperfetto al perfetto, come la natura alla grazia perfezionante5.
La struttura formale del libro I riproduce questo schema: il primo trattato è
infatti dedicato alle modalità naturali della conoscenza di Dio (l’istinto naturale, le tre teologie dionisiane, cioè la teologia simbolica, la denominativa e la mistica, e l’ascesa dell’intelletto fino allo stato di intelletto divino), il secondo invece alla scienza teologica.
Questa sistematizzazione, non peraltro priva di contraddizioni, può risultare
una cortina fumogena impedendo di cogliere appieno la portata di certe affermazioni. La dottrina dell’intelletto divino non può essere liquidata come il vertice di una sapienza imperfetta, destinata ad essere perfezionata dalla scienza
teologica, perché essa esprime in realtà l’adesione di Ulrico al progetto filosofico di Alberto, essa è in altri temini una tessera di un mosaico più ampio, le cui
altre tessere (la processione delle intelligenze, l’incohatio formae, l’ymarmene,
la felicità mentale, la conoscenza scientifica) è possibile trovare negli altri libri
del De summo bono. Solo se inserita in questo mosaico, la dottrina dell’intelletto divino può essere rettamente intesa e le implicazioni contenute in nuce nel
paragrafo ad essa dedicato (I, 1, 7) possono essere esplicitate.
Non si tratta di un’operazione facile perché essa pone davanti agli storici interrogativi complessi: perché Ulrico introduce all’interno di una somma teologica le dottrine filosofiche più caratteristiche dell’insegnamento albertino confondendo quanto Alberto ha programmaticamente distinto («Theologica autem non
prima, e quindi nella teologia, l’intelletto, se sostenuto dall’illuminazione divina, raggiunge l’unione con
Dio. L. STURLESE, Storia della filosofia tedesca. Il secolo XIII, Olschki, Firenze 1996 («Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”. “Studi”», 149), 168-179, sostiene (169) che Ulrico è l’assertore della «possibilità di una conoscenza intellettuale immediata di Dio, a prescindere dalla grazia,
dalla Rivelazione [...]». L. MALOVINI, Noetica e teologia dell’immagine nel «De summo bono» di Ulrico
di Strasburgo, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 90 (1998), 28-50, in particolare 45 e 41, considera
la noetica e non l’oscurità mistica dionisiana il cuore della teologia naturale ulriciana, giudicando la divinizzazione dell’intelletto il frutto della combinazione dell’illuminazione immanente dell’intelletto agente e della «Luce divina trascendente». C. TROTTMANN, La théologie des théologiens et celle des philosophes, «Revue Thomiste», 98 (1998), 531-561, in particolare 542-561, sottolinea (547-49) le ambiguità
del testo di Ulrico.
4 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 1, ed. Mojsisch, 29,53-55.
5 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 5, ed. Mojsisch, 41,74-76; e I, 1, 7, 20,47-49.
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conveniunt cum philosophicis»)6? Quali conseguenze produce su tali dottrine
l’inserimento all’interno di una cornice teologica? A chi era rivolta la sua somma? E, soprattutto, si può parlare di filosofia ulriciana, intesa come un complesso organico di dottrine? E in che misura queste dottrine, innegabilmente attinte alle opere di Alberto, recano il marchio dell’originalità?
Con questo contributo, in parte basato su testi da poco editi, cercherò di inquadrare la dottrina ulriciana dell’intelletto divino all’interno di quel mosaico e
tenterò quindi di dare una prima sommaria risposta alle domande appena formulate.
I. Concordismo e distinzione: una complessa strategia finalizzata
all’adozione del modello peripatetico-arabo
In questo viaggio all’interno del De summo bono parto anch’io dal libro I con il
proposito di mettere a nudo le contraddizioni della sistematizzazione in esso proposta, apparentemente lineare e conseguente: un esame più approfondito, infatti, rivela che i confini tra la conoscenza naturale e la conoscenza soprannaturale di Dio sono più labili di quanto si possa credere e che le due forme di sapere
talora si sovrappongono.
1) È problematico, innazi tutto, l’inquadramento delle tre teologie dionisiane
all’interno della conoscenza naturale di Dio, perché i testi su cui esse lavorano
sono talora quelli scritturali7 e il procedimento per affermazioni e negazioni loro caratteristico porta ad una teologia multa e minima8, due caratteristiche proprie della teologia rivelata9.
2) È difficile intendere la natura della teologia mistica. La ragione naturale
seguendo il metodo dell’eminenza può raggiungere al massimo uno stato confuso in cui sa che Dio esiste e lo sa eminente in tutte le perfezioni10. Solo se questa conoscenza “naturale” è sorretta dall’illuminazione divina, allora l’intelletto
può vedere la luce nella luce, ossia squarciare la caliginosità della luce divina
e farsi uno con Dio come uno sono l’intelletto e l’oggetto dell’intellezione. Non è
chiaro però di quale genere di illuminazione (della grazia gratuita, di quella gra-
6 ALBERTUS MAGNUS, Metaphysica, XI, 3, 7, ed. B. Geyer, Aschendorff, Münster i. W. 1960-64 («Alberti Magni Opera Omnia», 16/1-2), 542,25-26. Sul rapporto filosofia-teologia in Alberto cfr. É.-H. WÉBER, La relation de la philosophie et de la théologie selon Albert le Grand, «Archives de Philosophie», 43
(1980), 559-588; A. DE LIBERA, Albert le Grand et la Philosophie, Vrin, Paris, 1990, 40-43; STURLESE, Storia della filosofia cit., 76-90.
7 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 4, ed. Mojsisch, 13,20-22.
8 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 6, ed. Mojsisch, 17,37-49.
9 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 9, ed. Mojsisch, 51,66-67.
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tificante, del lume della gloria, o di cos’altro) né di quale genere di conoscenza
(conoscenza di natura filosofica, mistica, teologica) si tratti. Se Ulrico parla di
un genere di conoscenza e di illuminazione soprannaturale, perché subordinare
la teologia mistica all’ascesi intellettuale dell’intelletto umano? E come spiegare l’affinità di certe espressioni11 con quelle usate per descrivere la condizione
dell’intelletto divino?
3) Se da un lato la conoscenza di fede viene distinta da quella naturale perché è infusa da Dio ed è maggiore per quantità estensiva ed intensiva, dall’altro
il lume del verbo che è all’origine della conoscenza di fede, ossia della teologia
rivelata, viene definito con il passo di Giovanni 1,9 («illuminat omnem hominem») usato in precedenza per caratterizzare il lume divino di cui gode l’intelletto naturale divenuto divino:
«[...] haec [scil. scientia theologica] de Deo supernaturali cognitione et de aliarum supernaturalium rerum notitia determinat per principium supernaturale et divinum, scilicet per lumen verbi, quod “illuminat omnem hominem” etc., Ioann. 1 [...]»12.
«[...] et ex intellectu assimilativo fit intellectus divinus, scilicet cum in lumine intelligentiae recipimus lumen divinum, quia per lumen intelligentiae amplius cognoscentes divina et cognitione uniti Deo ab ipso illuminamur, et in hoc lumine cognoscimus Deum; nec dicimus hoc de lumine gratiae gratum facientis, sed de lumine, quo
Deus “illuminat omnem hominem”, Ioann. 1, et quo Deus illis, id est philosophis, revelavit [...]»13.
4) Alla scienza teologica, e non alla metafisica, vengono attribuite le qualità
proprie, secondo Aristotele (Metaph., I, 2, 982a4-983a23), della sapienza e,
quindi, della filosofia prima14. Colpisce il ricorso sistematico al commento alla
Metafisica di Alberto15: in altri termini Ulrico sovrappone la teologia rivelata alla teologia filosofica oggetto del discorso di Alberto.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 6, ed. Mojsisch, 16,27-17,34.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 6, ed. Mojsisch, 17,34-35: «inquantum vero haec cognitio
naturalis iuvatur divina illuminatione et “in lumine videmus lumen”» e 17,55-56 «[...] oportet intellectum uniri Deo, sicut intellectus et intellectum sunt unum».
12 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 4, ed. Mojsisch 36,27-29. Tale versetto ricorre in riferimento alla teologia rivelata un’altra volta: I, 2, 8, 49,30.
13 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch 19,16-22.
14 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 5-6, ed. Mojsisch, 39,1-46,97.
15 ALBERTUS MAGNUS, Metaphysica, I, 2, 1-9, ed. Geyer, 17,48-26,74. DE LIBERA, Albert le Grand cit.,
53-54, sostiene che Ulrico, anche se sembra allontanarsi da Alberto per il fatto di trasferire alla sola saggezza cristiana gli attributi aristotelici della saggezza filosofica e così venir meno al principio albertino
dell’autonomia della ricerca filosofica, in realtà adotta la stessa posizione filosofica del maestro. In questione non è l’interpretazione data dallo studioso francese di questa posizione, che consisterebbe nella
platonizzazione della Metafisica aristotelica per mezzo del De causis, interpretazione da me peraltro con10
11
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Anche se l’incompletezza del De summo bono, sprovvisto di una trattazione di
psicologia16 e degli ultimi due libri nonché di parte del VI, non agevola l’intelligenza di questi passi17, la ragione di queste ambiguità va cercata, a mio avviso, altrove: esse sono in realtà la manifestazione dell’attitudine concordistica che
pervade tutto il De summo bono18, di cui esempi caratteristici sono la convinzione che la dottrina cosmogonica del Timeo platonico derivi da Mosé19 e la convinzione che la concezione della causalità essenziale ed intellettuale del primo
principio sia stata accolta dagli apostoli Giacomo e Giovanni20.
La dottrina delle intelligenze-angeli è l’esempio più tipico di questa tendenza:
«Sunt ergo hic tres diversae rationes eiusdem rei, quae secundum suam naturam in se
intelligentia est et secundum proportionem eius ad mobile anima est, quae propter supra habitam elevationem sui super omne illud, quod est actus corporis, vocatur in libro De causis “anima nobilis”, et secundum comparationem sui ad formationem, qua,
ut dicit Augustinus I libro Super Genesim, formatur conversione ad creatorem, angelus est. In hoc ergo sensu intelligantur omnia, quae de his dicemus»21.
L’identificazione degli angeli con le intelligenze nasce da un postulato fideistico e non da una argomentazione razionale:
divisa. Il problema mi pare sia un altro: perché Ulrico, che pure è in sintonia con il sistema filosofico e
con le scelte di fondo di Alberto, attribuisce alla teologia i caratteri che, per Aristotele e per Alberto, spettano alla sapienza filosofica? Perché aggira con disinvoltura il principio albertino dell’autonomia della ricerca filosofica, trattando di filosofia in una somma teologica?
16 La critica è ormai concorde nell’attribuire in gran parte a Giovanni di Malines il trattato De homine contenuto nel codice di Leuven (olim, Bibliotheek der Katholieke Universiteit, D 320), conservato oggi solo in microfilm: cfr. A. PATTIN, Le Tractatus de homine de Jean de Malines. Contribution à l’histoire de
l’Albertisme à l’université de Cologne, «Tijdschrift voor Filosofie», 39 (1977), 436-437; R. WIELOCKX,
«Bulletin de théologie ancienne et médiévale», 13 (1982), n. 683, 306-311.
17 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 19,22-23: «[...] de istis tamen plenius dicemus, cum de intellectus perfectione erit sermo», dichiarazione posta subito dopo la descrizione dell’intelletto divino.
18 Un esempio eclatante di questa attitudine anche nello studio delle dottrine filosofiche è la questione della Causa prima efficiente: cfr. in proposito B. FAES DE MOTTONI, La distinzione tra causa agente
e causa motrice nella «Summa de summo bono» di Ulrico di Strasburgo, «Studi Medievali», 20 (1979),
313-355; DE LIBERA, Albert le Grand cit., 76-78; STURLESE, Storia della filosofia cit., 165-167.
19 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 2, ed. Mojsisch, 8,57-59.
20 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 1, 3, 2, ed. S. Pieperhoff, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1987
(CPTMA, I/4 [1]), 17,18-25.
21 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 1, 20, ed. A. Palazzo, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2005
(CPTMA, I/4 [4]), 13,282-288. La dottrina delle intelligenze-angeli è aspramente criticata da Bertoldo di
Moosburg, che enumera una lunga serie di impossibilia derivanti da essa: cfr. BERTHOLDUS DE MOOSBURG,
Expositio super Elementationem theologicam Procli. Propositiones 184-211 De animabus, 185B, ed. L.
Sturlese, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1974 («Temi e testi», 18), 25,109-27,181. Fondamentalmente tale dottrina è inaccettabile perché ignora la duplicità delle provvidenze, volontaria e naturale, e,
conseguentemente, la totale eterogeneità degli angeli rispetto ai corpi celesti: 22,12-19.
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«Inter haec autem nos firmiter asserimus vel intelligentias non esse in rerum natura
vel ipsas esse angelos, quia oppositum est fidei contrarium»22.
Ma una volta ammesso quel postulato l’accordo va ricercato adeguando la fede alla dottrina filosofica che si giudica fondata su ragionamenti “insolubili”:
«In hac autem concordia philosophiae cum fidei veritate ideo sollicite laboravimus, ut
ipsam fidem rationabilem et acceptabilem faceremus his, qui in philosophia nutriti
sciunt insolubilibus rationibus esse demonstratum caelum ab aliquo intellectu sibi intrinseco moveri»23.
Ulrico insomma ha a cuore la dottrina peripatetico-araba delle intelligenze e
non vuole rinunciarvi, ma per evitare che questa dottrina collida con la teologia
cristiana identifica gli angeli cristiani con le intelligenze.
Insomma la coerenza dello schema del libro I ad un esame più attento, fondato
anche su passi provenienti da altre parti del De summo bono, si dissolve: un pericoloso concordismo s’insinua nella sistematizzazione che subalterna la conoscenza filosofica a quella teologica e alle frequenti distinzioni tra filosofia e teologia e alle reiterate dichiarazioni di incompetenza del sapere filosofico su questioni di pertinenza della teologia fanno da contrappeso veri e propri arzigogoli
concettuali, come la dottrina delle intelligenze-angeli.
Per quanto ciò possa sembrare paradossale, distinzioni e subalternazione da
un lato e concordismo dall’altro rispondono alla medesima strategia: Ulrico sa
di compiere un’operazione ardita importando nel contesto di una somma teologica la concezione della realtà proposta dal modello filosofico costituito dal corpus di Aristotele, dai suoi commentatori arabi e dal De causis. Tale concezione,
descrivendo la realtà come flusso intellettuale dalla Causa prima e l’uomo come
partecipe di questo flusso in virtù del suo intelletto, propone una metafisica, una
cosmologia, un’antropologia, un’etica di fatto alternative a quelle cristiane. Ulrico è consapevole di questa dicotomia, che sarà all’origine della condanna del
1277, e da questa consapevolezza scaturisce la sua complessa strategia: da un
lato le dichiarazioni di inferiorità del sapere filosofico rispetto a quello teologico garantiscono lo spazio per un autonomo discorso filosofico depotenziandone
la portata eversiva, dall’altro il concordismo, sfumando i confini, attenua le frizioni tra i due modelli di spiegazione della realtà.
Pertanto il ricorso sistematico agli scritti filosofici (Metaphysica, De intellectu et intelligibili e De causis et processu universitatis) e ai commenti dionisiani
22
23
ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 1, 6, ed. Palazzo, 6,22-93.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 1, 21, ed. Palazzo, 13,289-14,292.
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del maestro, è del tutto deliberato e testimonia l’adesione ad un progetto culturale e la convinzione dell’irrinunciabilità del modello “neoplatonico” nella forma trasmessa dallo Pseudo-Dionigi, dal De causis e da Avicenna24.
II. La sapienza filosofica
a. La sapienza nello stato di innocenza come prototipo della
sapienza filosofica
Avvio l’esame della dottrina della sapienza filosofica partendo dal libro VI, ove
Ulrico tratta della sapienza concessa all’uomo nello stato di innocenza precedente il peccato originale. All’interno del contesto teologico relativo alla questione della scienza di Adamo, trattata dai teologi professionisti nel commento
alla distinzione 23 del II libro delle Sentenze, egli sviluppa in realtà un discorso squisitamente filosofico25.
In questo stato viene concessa al genere umano la gratia primae innocentiae,
che è una gratia gratis collata. Essa consiste in un’illuminazione divina capace
di illustrare la parte scientifica dell’anima umana perfezionandola con il duplice abito della sapienza divina e delle scienze delle cose create.
Se diamo uno sguardo al lessico usato da Ulrico, intravvediamo facilmente
gli elementi caratteristici del discorso filosofico già comparsi nel libro I, allorché era in esame la conoscenza naturale di Dio: ritorna il passo di Giovanni (la
luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo) a definire l’illuminazione divina26; la parte scientifica dell’anima umana è l’intelletto possibile in cui
l’illuminazione divina è immessa non direttamente ma dopo essere stata aggiunta al lume dell’intelletto agente27; lo sguardo ancipite dell’intelletto, verso
l’alto e verso il basso, è evocato con il celebre filosofema ermetico dell’homo nexus Dei et mundi28; l’abito della sapienza perfezionante l’intelletto, dice Ulrico,
24 Dissento pertanto da TROTTMANN, La théologie cit., 559-560, che giustifica tale ricorso con l’inadeguatezza della preparazione di Ulrico come lector Sententiarum.
25 Che l’interesse dello Strasburghese sia di natura filosofica è reso manifesto dal confronto con le
trattazioni dei suoi contemporanei: per un’analisi comparata cfr. W. BREUNING, Erhebung und Fall des
Menschen nach Ulrich von Strassburg, Paulinus-Verlag, Trier 1959 («Trierer theologische Studien», 10),
15-25. Lo studioso tedesco ha il merito di cogliere il legame con la trattazione della sapienza contenuta
nel libro I (29-32), ma è STURLESE, Storia della filosofia cit., 171-72, a fornire un’interpretazione radicalmente filosofica di De summo bono, VI, 1, 2.
26 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. W. Breuning, in W. BREUNING, Erhebung und Fall
des Menschen cit., 222,24-25.
27 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 222,27-30.
28 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 222,26.
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è lo stesso in cui anche la sapienza filosofica, ossia la metafisica di Aristotele e
di Avicenna, trova la perfezione29.
A diradare ogni dubbio residuo sul carattere filosofico del discorso sono sufficienti queste parole:
«Nec dicimus hanc lucem fuisse lucem gratiae propriae dictae, sed lucem, quam Deus
secundum providentiam generalem, qua naturas administrat, intellectui adepto et assimilato infundit. Quam etiam philosophi cognoverunt et ad eius perceptionem ordinaverunt preces et similia»30.
Insomma il discorso verte su una sapienza non dissimile da quella che l’uomo può conseguire per via naturale, ma, mentre quest’ultima può essere acquisita solo «per consuetudinem et studium», la sapienza dello stato di innocenza
è gratuita. L’uomo in questo stato non deve mendicare la perfezione del suo intelletto dai sensi e dalla fantasia, ma può conoscere Dio addirittura «illo modo,
quo in libro De causis dicitur de intelligentia, quod ipsa scit quod est supra se,
per hoc quod recipit ab eo, scilicet praedictam illuminationem»31.
Questa perfezione consiste nella conoscenza di Dio e delle cose divine: è innegabile il carattere teologico di questa formula, tuttavia il riferimento ai filosofi e la conclamata affinità di questo tipo di conoscenza alla metafisica di Aristotele ed Avicenna fanno dubitare che la sapientia dello stato di innocenza si esaurisca nella conoscenza del Dio rivelato. Piuttosto essa consiste nella perfezione
tipica dello stato di acquisizione dell’intelletto: l’uomo conoscendo Dio, Intelletto puro, conosce le sostanze separate mediatrici dell’illuminazione divina, ossia le intelligenze-angeli32; si autoconosce secondo la sua natura più vera, cioè
in quanto è intelletto33; acquisisce una scienza universale34; attinge la felicità
contemplativa propria del sapiente, il quale è «[...] Deo simillimum et divinissimum et Deo amantissimum, ut dicitur in X Ethicorum»35; acquisisce l’abito perfettivo della parte opinativa e deliberativa dell’anima, cioè l’abito della pruden-
ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 223,39-42.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning 223,46-49. Espressioni analoghe sono nel
De intellectu di Alberto, il che conferma il carattere filosofico del discorso di Ulrico: cfr. ALBERTUS MAGNUS, De intellectu et intelligibili, II, 9, ed. A. Borgnet, Paris 1890 («Alberti Magni Opera Omnia», IX,
477-521), 516b: «Et haec est irradiatio de qua multum locuti sunt Philosophi, et ordinaverunt propter illam supplicationes et orationes».
31 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 224,71-73.
32 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 226,171-173.
33 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 226,175-176.
34 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 226,179-227, 182.
35 ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 224,76-78.
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za, che lo perfeziona in tutte le virtù naturali, che saranno acquisite nello stato
corrotto per consuetudine36.
Ulrico sta esponendo, insomma, la dottrina filosofica dell’intelletto acquisito: conoscenza delle intelligenze, autocoscienza, sapere scientifico, felicità mentale, perfezione morale, tutto questo racchiude in sé la conoscenza di Dio, causa del tutto, tutto questo significa sapientia originaria.
Se la sapienza acquisita naturalmente dopo il peccato originale, per quanto
meno perfetta, è comunque della stessa natura di quella originaria, non è arbitrario interpretare in questi termini anche l’ascesa intellettuale descritta nel I libro e vedere nello stato dell’intellectus divinus più della conoscenza naturale,
perfettibile, di Dio.
b. Lo stato della natura corrotto: dallo stato bestiale all’intelletto
acquisito
Se nello stato dell’innocenza l’uomo è già cosciente della sua natura intellettuale in virtù dell’illuminazione gratuita sopra descritta, nello stato della natura corrotta la continuità naturale dell’intelletto umano con la luce divina è stata rotta.
All’uomo non rimane che una similitudine della luce divina: si tratta della luce
dell’intelletto agente naturalmente inserita nell’intelletto possibile.
L’uomo, in quanto anima razionale, possiede l’intelletto, ma non è intelletto:
pertanto è chiamato a diventare intelletto, riacquisendo faticosamente la consapevolezza della sua natura intellettuale e riscoprendo così la divinità racchiusa
in se stesso37.
Il punto di partenza di questa risalita è lo stato bestiale caratterizzato dal prevalere delle passioni sensibili, che, osserva Ulrico, è una condizione diffusa:
«[...] plures sunt, qui passionibus deducuntur»38. In questo stato l’uomo vive di
sensazioni istantanee e disordinate, come trascinato da esse e senza che questo
fluire disordinato di rappresentazioni divenga oggetto di intellezione.
Dell’uomo è proprio però essere razionale e non bestiale: la prima tappa della risalita sarà pertanto la riattivazione della facoltà conoscitiva. In questa fase
l’intelletto possibile viene per la prima volta attualizzato dall’intelletto agente e
si tramuta in intelletto formale39.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, VI, 1, 2, ed. Breuning, 228,233-239.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 1, ed. Mojsisch, 28,39-41: «[...] qui per studium virtutum et
scientiae hoc divinum ab omnibus humanis depuraverunt et ipsum suo connaturali lumine perfecerunt».
38 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 5, ed. Palazzo, 123,101-102.
39 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 18,3-4.
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Gli stadi successivi (intelletto dei principi e intelletto in effetto40) segnano
l’inizio della conoscenza scientifica: riscoperti i principi delle filosofia teorica
coessenziali all’intelletto41, ossia i principi della fisica e della matematica, «gradus» e «manuductiones ad speculationem divinam»42, l’uomo può finalmente
trarre scienza dalle esperienze sensibili43, cioé elaborare le prime leggi capaci
di governare le rappresentazioni offerte dai sensi. Questa è la fase dell’astrazione tipica dell’anima razionale, della quale è proprio conoscere «cum continuo et
tempore» e, perciò, conoscere le «species abstractas» dai singolari44.
In quanto l’anima razionale è una luce intellettuale, essa può produrre scienza anche a prescindere dal contatto diretto (fisica) o indiretto (matematica45) con
l’esperienza, cioè può riorganizzare le species astratte dai singolari sussumendole sotto species universali astratte46, che sono le prime leggi generali dell’universo.
La conoscenza scientifica fino a questo livello resta incompleta perché è disarticolata in una serie di singoli atti conoscitivi sufficienti a cogliere le regoralità dell’universo, ma insufficienti a inquadrare tale leggi in un sistema organico. Solo dopo che l’intelletto possibile «investigatione omnium scibilium» avrà
acquisito il suo proprio atto, in modo che l’intelletto agente gli si congiunga come forma, solo allora la conoscenza scientifica culminerà in una visione totalizzante della realtà: questo è l’intelletto acquisito47.
Non tragga in inganno l’espressione «investigatione omnium scibilium»: Ulrico, sulla scorta dell’insegnamento del maestro, non ritiene che l’acquisizione
dell’intelletto abbia luogo per ampliamento quantitativo delle conoscenze. Piuttosto questa acquisizione va intesa come l’approssimarsi progressivo alla formula più semplice e onnicomprensiva di spiegazione del reale: così si spiega il
passaggio da una conoscenza legata all’esperienza ad una conoscenza delle species universali astratte fino ad arrivare alla species più universale, ossia all’intelletto agente, in virtù del quale l’uomo è definito «minor mundus»48.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 18,4-7.
ALBERTUS MAGNUS, De intellectu et intelligibili, II, 7, ed. Borgnet, 514a.
42 ALBERTUS MAGNUS, Metaphysica, I, 1, 1, ed. Geyer, 1,57-58.
43 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 1, ed. Mojsisch, 27,18-19.
44 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 8, ed. Mojsisch, 25,108-109.
45 ALBERTUS MAGNUS, Physica, I, 1, 1, ed. P. Hoßfeld, Aschendorff, Münster i. W. 1987 («Alberti Magni Opera Omnia», 4/1), 1,56-58: «[...] mathematica, quae quidem concipitur cum motu et materia sensibili secundum esse, sed non secundum rationem».
46 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 8, ed. Mojsisch, 25,105-107: «[...] et vocatur ratio, quae ex
hoc, quod est lux intellectualis, cognoscit species universales abstractas [...]».
47 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 18,7-10.
48 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 5, ed. Mojsisch, 14,10-13 e De summo bono, V, 1, 6, ed. I.
Backes, in I. BACKES, Die Christologie, Soteriologie und Mariologie des Ulrich von Straßburg. Ein Beitrag
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La sapientia nel De summo bono di Ulrico di Strasburgo
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c. L’intelletto assimilato
Con l’acquisizione dell’intelletto l’uomo riscopre la sua natura più genuina: l’intellettualità. Ma questo non è adesso più sufficiente: una volta risvegliata, la natura intellettuale desidera la sua perfezione, cioè la «reductio eius in similitudinem primae causae; haec enim est ultima prosperitas animae rationalis [...]»49.
Fuor di metafora l’intelletto umano, dopo essersi scoperto forma del mondo, ambisce, in quanto intelletto, ad una forma del mondo ancora più semplice: da questo sforzo scaturiscono gli ultimi gradi dell’ascesa: l’intelletto assimilato e l’intelletto divino. L’intelletto santo50, cui Ulrico allude, non è infatti un nuovo grado dell’ascesa, perché esso, per usare le parole di Alberto, «[...] non addit novum genus perfectionis et intellectus, sed modum quendam puritatis dicit circa
intellectum»51.
Per intendere questi ultimi due gradi bisogna capire il senso dei terminichiave substantiae separatae e Deus. Interpretare questi concetti in chiave teologico-cristiana, come se si trattasse degli angeli e del Dio rivelato, è inadeguato al carattere filosofico-scientifico del contesto fin qui tracciato.
Le substantiae separatae in questione sono le intelligenze della tradizione peripatetico-araba che fa capo al De causis e alla Metaphysica di Avicenna. Ulrico, riprendendo letteralmente passi tratti dal De causis di Alberto52 e rifacendosi ad Avicenna (Metaphysica, IX), concepisce la produzione della realtà nei termini dell’emanazione dalla Causa prima. Questa, in quanto Intelletto universalmente agente, costituisce la realtà «active intelligendo, idest intelligentias emittendo»: pensando se stesso costituisce la prima intelligenza, che sola deriva immediatamente dalla Causa prima, perché «ab uno simplici immediate secundum
ordinem naturae non est nisi unum»53. Nella prima intelligenza l’assoluta semplicità del primo Intelletto si complica in una triplicità di relazioni, ossia con il
primo Intelletto, con se stessa secondo ciò che è e con la sua potenzialità in
zur Geistesgeschichte des 13. Jahrhunderts I, Paulinus-Verlag, Trier 1975, 51,27-28. Questa interpretazione dell’acquisizione dell’intelletto è stata proposta da Sturlese a proposito del De intellectu et intelligibili di Alberto, che è la fonte del discorso di Ulrico: cfr. L. STURLESE, “Intelletto acquisito e divino”. La dottrina filosofica di Alberto il Grande sulla perfezione della ragione umana, «Giornale critico della filosofia
italiana», 82 [84] (2003), 161-189, in particolare 178-181.
49 ULRICUS ARGEN., De summo bono, II, 3, 1, 3, ed. A. de Libera, Felix Meiner Verlag, Hamburg
(CPTMA, I/2 [1]), 43,57-58. Subito dopo compare ancora una volta il verso giovanneo: 43,58-61.
50 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 18,10-11.
51 ALBERTUS MAGNUS, De intellectu et intelligibili, II, 10, ed. Borgnet, 518a.
52 ALBERTUS MAGNUS, De causis et processu universitatis a prima causa, I, 4, 8, ed. W. Fauser, Aschendorff, Münster i. W. 1993 («Alberti Magni Opera Omnia», 17/2), 55,62-57,9.
53 Sull’origine e sull’attribuzione aristotelica di questo concetto, citato più volte da Ulrico, cfr. A. DE LIBERA, Ex uno non fit nisi unum. La Lettre sur le Principe de l’univers et les condamnations parisiennes de
1277, in B. MOJSISCH / O. PLUTA (Hrsg.), Historia Philosophiae Medii Aevi. Studien zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, Grüner, Amsterdam-Philadelphia 1991, 543-560, in particolare 547-556.
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Alessandro Palazzo
quanto è generata dal nulla. Riflettendo su sè secondo questa triplice relazione,
l’intelligenza genera a sua volta l’intelligenza del secondo ordine, l’anima del
primo cielo e il primo mobile e tale processo costitutivo si arresta con l’intelligenza della sfera lunare: infatti l’ultima intelligenza, il cosiddetto Dator formarum, causato dall’intelligenza della sfera lunare, è incapace di causare un’altra
intelligenza e può solo illuminare la sfera terrestre, illuminare e causare le anime umane, trasfondere la sua virtus nei semi degli esseri generabili54.
La struttura del reale si configura pertanto come un’unica emanazione intellettuale a partire dalla Causa prima e le costituzioni a opera delle intelligenze
sono in realtà determinazioni dell’Intelletto originario in cui è precontenuta in
forma semplicissima tutta la realtà: in altri termini l’opus naturae est opus intelligentiae55.
L’opera costitutiva delle intelligenze si esplica concretamente a livello cosmologico, ove esse svolgono la funzione di motori delle sfere celesti:
«lumen praedictum intelligentiae est actus et esse caeli, inquantum est organum intelligentiae. Et motus circularis consequitur formam illam, quia, sicut intellectus est
ubique et semper, sic etiam motus caeli est ubique sive ad omnem situm et est semper»56.
Attraverso il movimento celeste, di cui garantiscono la regolarità, le intelligenze influiscono forme intellettuali sui fenomeni terrestri e determinano il loro
sviluppo. Si tratta delle medesime forme che vengono poi astratte dall’intelletto
che si muove ancora al livello di scienza legata all’esperienza.
«[...] omne, quod fit in inferioribus, praeexistit sicut in naturali artifice in motore caelesti et explicatur per caelum et eius motum sicut per instrumentum huius artificis.
Species ergo eventus futuri, quae in intelligentia intellectualiter est et in caelo est corporaliter, imprimitur in inferioribus, scilicet elementis et compositis ex eis, et plus afficit ea quam actio qualitatis naturalis, quia elementa derelictis actionibus suarum naturalium qualitatum sequuntur formam huius impressionis, sicut patet in mixtione»57.
54 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 2, 9, ed. B. Faes de Mottoni, in B. FAES DE MOTTONI, La distinzione tra causa agente cit., 346,1-347,54.
55 Questo concetto compare spesso nel De summo bono: cfr. ad es. ULRICUS ARGEN., De summo bono, II,
3, 1, 3 e II, 3, 10, 1, ed. de Libera, 43,67-68 e 91,7-28; IV, 2, 7, 12, ed. Pieperhoff, 129,280-281. Su questo filosofema cfr. J.W. WEISHEIPL, The axiom ‘opus naturae est opus intelligentiae’ and its origin, in G. MEYER / A. ZIMMERMANN (Hrsg.), Albertus Magnus, Doctor universalis: 1280/1980, Grünewald, Mainz 1980,
441-463; STURLESE, Storia della filosofia cit., 100; L. HÖDL, “Opus naturae est opus intelligentiae”. Ein neuplatonisches Axiom im aristotelischen Verständnis des Albertus Magnus, in F. NIEWÖHNER / L. STURLESE
(Hrsg.), Averroismus im Mittelalter und in der Renaissance, Spur Verlag, Zürich 1994, 132-148.
56 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 1, 15, ed. Palazzo, 11,222-226.
57 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 5, ed. Palazzo, 122,79-123,86.
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La dottrina dell’incohatio formae58 s’incardina perfettamente in questa concezione del mondo, perché le formae incohatae nella materia sono l’ultimo riverbero del fascio di luce intellettuale diffuso dalle intelligenze mediante le sfere celesti sull’orbe terrestre.
Le influenze astrali agiscono anche sui corpi degli animali e di conseguenza
sull’anima sensitiva, che è congiunta al corpo.
«Imprimitur ergo haec species etiam corporibus animalium, et per hoc etiam imprimitur illi parti animae, quae corpori coniuncta est, scilicet parti sensitivae»59.
Pertanto la maggioranza degli uomini, che vivono in balia delle passioni e degli appetiti, è soggetta al fatum cosmico60, mentre il sapiente, che è stato capace di riattivare la propria facoltà conoscitiva e non è dominato dagli impulsi sensibili, domina gli astri61.
L’assimilazione dell’intelletto umano alle substantiae separatae va intesa,
pertanto, nei termini dell’acquisizione di formule sempre più onnicomprensive
e unitarie del reale: acquisita la consapevolezza di essere una forma mundi nello stato dell’intellectus adeptus, l’intelletto umano appaga la sua brama di universalità assimilandosi ai principi che garantiscono la regolarità dei processi
universali. Si tratta di un’assimilazione di tipo scientifico, il cui esito è l’acquisizione di capacità divinatorie62:
«[...] si corpus ex aequalitate complexionis sit bene conveniens cum corpore caelesti
et organa imaginationis et phantasiae sint bene disposita ad specierum receptionem
et conservationem et lumen intellectuale sua perfectione et actualitate multum assimilatur lumini intelligentiae moventis orbem, talis optime dispositus est ad divinationem et optime divinabit, nisi concupiscentiis et passionibus vel studiis scientiarum
materialium, scilicet legalium et similium scientiarum, obscuretur lumen intellectus,
vel nisi curis et occupationibus impediatur perceptio motus facti ab influentia formae
caelestis»63.
58 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 2, 7, 14, ed. Pieperhoff, 129,308-131,354. L’accoglimento di
questa dottrina di Alberto da parte di Ulrico era già stata evidenziata da B. NARDI, La dottrina d’Alberto
Magno sull’«inchoatio formae», in B. NARDI (a cura di), Studi di filosofia medievale, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 1960, 93-95.
59 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 5, ed. Palazzo, 123,86-88.
60 Ulrico considera il fatum-ymarmene l’esplicazione della providentia divina, ossia della ratio assolutamente semplice concepita da Dio nel proprio intelletto per provvedere al mondo: cfr. De summo bono,
II, 5, 16-18.
61 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 5, ed. Palazzo, 123,104: «Et ideo dicit Ptolemaeus, quod
sapiens homo dominatur astris».
62 Il sapiente pertanto non solo non è soggetto al fatum, ma è in totale sintonia con esso.
63 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 6. Anche per Alberto gli individui capaci di assimilarsi
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Alessandro Palazzo
d. L’intelletto divino e la felicità contemplativa
L’ultima tappa dell’ascesa intellettuale è lo stato dell’Intelletto divino nel quale
l’intelletto umano finalmente ritorna all’origine della propria natura intellettuale, ossia a Dio, del quale l’intelletto agente è una immagine.
Dio è la Causa prima della metafisica neoplatonica, è un Intelletto sempre in
atto che riflettendo su sé causa la realtà, è un Intelletto universalmente agente
la cui scienza è causa dell’universo e del suo ordine.
Le espressioni usate da Ulrico per caratterizzare lo stato dell’intelletto divino («unirsi con Dio nella conoscenza», «conoscere Dio»64) non alludono ad una
forma di contemplazione mistica o di unione estatica, ma al raggiungimento della conoscenza delle conoscenze, della forma delle forme: l’Intelletto divino creatore, che è la forma più sintentica e unitaria dell’universo, la species omnium65.
Con la dottrina della divinizzazione dell’intelletto Ulrico si muove sul terreno
della conoscenza scientifica e lo testimoniano i modelli umani della scienza
creatrice del primo Principio da lui proposti: Aristotele e Ippocrate e altri «qui
veritates scientiarum primitus invenerunt» e i primi legislatori66.
L’idea che l’intelletto divino precontenga la realtà in forma semplice è più
volte espressa da Ulrico attraverso il paragone con l’artefice e la sua arte:
«[...] formas, quas prima causa habet in se ut primus fons et primum creans, sicut artificiata sunt in intellectu artificis, illas ipsa prima causa influit intelligentiae intellectualiter, id est secundum simplices quiditates suas, sicut formae artificiatorum sunt
in arte, et ulterius intelligentia influit eas animae nobili animaliter, id est ita, quod sint
in ipsa determinatae ad figuras et ad esse naturale diversum diversorum, sicut artificiata sunt in spiritu vehente formam artis in organa, et anima nobilis influit huiusmodi formas naturae universali, quae consistit in caelis et virtutibus caelorum, sicut spiritus informatus forma artis vehit ipsam in manum et instrumenta»67.
con le intelligenze celesti conseguono capacità predittive: cfr. ALBERTUS MAGNUS, De intellectu et intelligibili, II, 11, ed. Borgnet, 520a.
64 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 7, ed. Mojsisch, 19,19-20: «[...] et cognitione uniti Deo ab
ipso illuminamur, et in hoc lumine cognoscimus Deum».
65 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 1, 3, 5, ed. Pieperhoff, 20,116-117: «Per hoc enim omnia sunt
sibi praesentia in lumine suo, quod est species omnium»; IV, 1, 3, 6, ed. Pieperhoff, 21,150-151: «Species enim, quae est causa omnium, quae est obiectum scientiae primi principii [...]»; IV, 2, 5, 3, ed. Pieperhoff, 95,52-53: «[...] intellectus primae causae est prima forma omnium».
66 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 1, 3, 7, ed. Pieperhoff, 21,158-161. Il passo è tanto più significativo, in quanto l’analogo luogo del De causis albertino fa riferimento solo ai legislatori: cfr. ALBERTUS MAGNUS, De causis et processu universitatis a prima causa, I, 2, 7, ed. Fauser, 33,23. Sul valore paradigmatico
della figura di Ippocrate negli scritti di Alberto cfr. STURLESE, “Intelletto acquisito e divino” cit., 169-172.
67 ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 1, 28, ed. Palazzo, 18,422-430. Dietro a questo passo c’è
una pagina di Alberto: cfr. ALBERTUS MAGNUS, De causis et processu universitatis a prima causa, II, 2, 35,
ed. Fauser, 128,18-30.
La sapientia nel De summo bono di Ulrico di Strasburgo
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Proprio come nella condizione adamica originaria, l’acquisizione dell’intelletto ha una forte componente etica: il sapiente, infatti, è graditissimo e vicinissimo a Dio, perché conduce una vita intellettiva, che è la più felice delle condizioni umane:
«[...] inter homines Deo simillimus et amantissimus est sapiens, ut dicitur in X Ethicorum, et ideo est Deo propinquissimus»68.
L’esito dell’esercizio della sapienza filosofica è infatti la felicità contemplativa, che presuppone naturalmente anche la felicità civile:
«[...] et sic est felicitas contemplativa, quae, inquantum felicitas est, consistit in altissimo actu altissimae potentiae animae secundum nobilissimum habitum; et haec est
speculatio Dei et separatarum substantiarum per intellectum speculativum secundum
habitum sapientiae philosophicae, qui in metaphysica acquiritur; sed inquantum est
beatitudo, sic requirit etiam civilem felicitatem, quae per quietationem passionum ponit hominem in statuum optimae dispositionis ad contemplandum»69.
Essa si traduce ovviamente anche nella perfezione della condotta morale.
e. Pseudo-Dionigi, Ermete e Simonide
Il ricorso a passi tratti dallo Pseudo-Dionigi per descrivere la congiunzione dell’intelletto con Dio non deve ingannare, perché questi passi vengono reinterpretati in conformità alla concezione dell’intellectus divinus appena descritta:
«[...] non debemus divina intelligere secundum mentem nostram, id est rationem,
prout ipsa naturaliter cognitionem sumit a sensu, sed debemus divina intelligere, ut
dicit Dionysius, secundum virtutem illam, quam habet mens nostra ad inspiciendum
intelligibilia, quae est unitio, per quam coniungitur ad ea, quae sunt super ipsam, quae
excedit naturam mentis praedicto modo sumptam. Haec enim virtus est ultimum de
potentia nobilitatis animae, quae est id, quod divinum est in nobis, scilicet divina imago et similitudo, per quam tota anima coniuncta est intellectualibus per conformitatem naturae. Et ideo, cum omnis cognitio sit per similitudinem, sic cognoscit intellectualia et divina et cognoscendo unitur eis per subinhaesionem. Unde Dionysius 7
cap. De divinis nominibus: “Est rursus divinissima Dei cognitio, quae est per ignorantiam cognita secundum unitionem, quando mens ab aliis omnibus recedens, postea et
se ipsam dimittens, unita est supersplendentibus radiis non scrutabili profundo sapientiae illuminata”»70.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, IV, 3, 8, 4, ed. Palazzo, 122,64-65.
ULRICUS ARGEN., De summo bono, II, 3, 2, 6; ed. de Libera 48, 109-116.
70 ULRICUS ARGEN., De summo bono, II, 5, 2: il testo è frutto della collazione dei codici R = Roma, Bi-
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In questo passo è condensata tutta l’ascesa intellettuale: l’anima razionale,
che, in quanto tale, conosce attraverso i sensi, può conoscere i divina, ossia conseguire leggi unificanti del tutto, in virtù dell’intelletto agente, immagine dell’Intelletto divino e per questo minor mundus. Il contatto con leggi via via più
unitarie determina una progressiva semplificazione dell’intelletto umano, che ritrova se stesso abbandonandosi (dimittens), che cioè appaga la sua innata aspirazione di universalità nella conoscenza di Dio, della species omnium più onnicomprensiva.
Anche il passo che delinea gli esiti della teologia mistica dionisiana, più che
suggerire la rinuncia ascetica a sé come via regia verso Dio, traccia all’intelletto
il percorso per il ritorno all’origine: il trascendimento (dimittere) di determinazioni progressivamente meno determinate (species sensibili [materialia], intellettuali, intelletto [se ipsum]), fino al raggiungimento della species omnium (Dio):
«[...] oportet dimittere sensum et intellectum quantum ad omnia sibi in rebus creatis
nota et oportet trascendere omnia entia, non solum materialia, sed etiam intellectualia, et sic excedendo se ipsum oportet intellectum uniri Deo, sicut intellectus et intellectum sunt unum»71.
L’interpretazione in chiave scientifica dell’intellectus divinus conferisce
spessore filosofico-razionale anche a concetti evocativi come il detto di Simonide secondo il quale la sapientia è una possessio divina e il tema ermetico dell’homo nexus Dei et mundi:
«[...] Simonides poeta dicit, quod Deus invidit homini hanc sapientiam, loquens sub
poetica metaphora, quod de sua supereffluenti sapientia tam parum homini communicavit, ac si esset invidiosa communicatio. Sed non est, quia ipse totam sua sapientiam nobis communicat, sed nos non nisi parum capere possumus propter hoc, quod
idem poeta dicit, quod ipsa est solius Dei possessio. Hanc autem sapientiam non habet intellectus noster de proprio, id est inquantum humanus est [...] sed habet eam de
alieno, scilicet per id, quod divinum [...] in nobis est, id est lux simplicis intellectus,
quam a Deo participamus, per quam homo eius imago dicitur, quia homo est nexus dei
et mundi, ut dicit Hermes Trismegistus in libro De deo deorum»72.
Dietro a queste suggestive espressioni poetico-sapienziali sono adombrati gli
blioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1311, f. 17rb e E = Erlangen, Universitätsbibliothek, 530/1, f. 57v.
Ad eccezione di un paio di errori poco rilevanti, E presenta un testo identico a R.
71 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 1, 6, ed. Mojsisch, 17,53-56.
72 ULRICUS ARGEN., De summo bono, I, 2, 1, ed. Mojsisch, 27,9-28,24. Sul tema della sapienza vanno
segnalati altri due luoghi: De summo bono, II, 5, 2, 3, ove riappare l’accostamento tra Simonide e Ermete, e De summo bono, II, 5, 8, 1, ove Ulrico combina Ermete e la Metafisica di Aristotele, questa volta non
mimetizzata dietro alla figura del poeta Simonide.
La sapientia nel De summo bono di Ulrico di Strasburgo
511
elementi fondamentali della filosofia ulriciana: Dio come Causa prima intellettuale e l’intelletto umano come sua immagine. La formula sapientia est solius Dei
possessio esprime, infatti, in modo icastico la concezione di Dio come Intelletto
universalmente agente, capace di conoscersi e così di generare la realtà universale. La formula ermetica invece condensa in maniera pregnante l’intera antropologia ulriciana: la collocazione mediana tra il mondo e Dio testimonia la grandezza e la miseria della condizione dell’uomo, capace in virtù dell’intelletto
agente di assurgere all’Intelletto divino, scoprendolo come la forma più semplice dell’universo e riscoprendo in questa forma la sua più autentica natura.
III. Conclusioni
Conformemente all’ispirazione concordistica, lo Pseudo-Dionigi, Ermete e Simonide, vengono, al pari di Aristotele, Avicenna, Platone, il De causis, armonizzati nella concezione del mondo come flusso e dell’uomo come intelletto. In
questa armonizzazione di auctoritates filosofiche e di auctoritates sapienziali in
vista di una descrizione di un processo, quello dell’ascesa noetica dell’intelletto umano, di natura scientifica sta forse l’originalità della filosofia ulriciana. Far
proprio il sistema del maestro e attenuare le frizioni fra le auctoritates, che invece negli scritti del maestro sono portatori di una propria specificità, riducendole all’unisono: è questa l’operazione di Ulrico, cui non interessa la dossografia, ma interessa il sistema albertino nel suo complesso.
Ulrico vuole scrivere una somma dell’albertismo73, vuole riprodurre nella forma di un trattato organico un sistema concepito da Alberto lungo un’intera vita
di ricerca. Se questa è l’intenzione, allora diventa poco rilevante il fatto di confondere nella cornice di una somma teologica la filosofia e la teologia, perché
entrambe sono parti organiche del sistema albertino. Poco importa se alcune dottrine del maestro, come ad esempio quella delle intelligenze, sono snaturate nella nuova cornice, perché quello che conta non è il dettaglio, ma l’insieme.
In questa operazione sta l’originalità di Ulrico, che ad alcuni potrebbe apparire quella di un piatto imitatore, ma che, piaccia o no, è la prima interpretazione del sistema albertino che la storia ci ha consegnato, un’interpretazione tenuta in grande considerazione nel ‘400 dagli Albertisti e da Dionigi il Certosino, e
a cui per questo le ricostruzioni storiografiche contemporanee del pensiero di
Alberto dovrebbero dare più credito.
Rimane aperta la complessa questione dei destinatari del De summo bono.
73 DE
LIBERA, Introduction cit., 100.
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Allo stato non sono in grado di fornire risposte dettagliate, posso solo avanzare
l’ipotesi che tra le intenzioni di Ulrico ci fosse anche quella di disporre di uno
strumento più maneggevole e più adeguato alle necessità del suo magistero presso il convento di Strasburgo. La mole dei commenti filosofici e degli scritti teologici albertini era sproporzionata rispetto alle esigenze della formazione del ceto dei lettori provinciali. Se quest’ipotesi trovasse conferma, l’adozione da parte
di Ulrico del sistema albertino acquisirebbe uno spessore storico ancor più rilevante, perché non consisterebbe solo nell’adesione ad un progetto filosofico, ma
si concretizzerebbe anche nella promozione culturale, e quindi inevitabilmente
politico-sociale, di tale progetto, caratterizzato dalla celebrazione delle potenzialità naturali dell’intelletto umano.