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Riassunto - libro "La filosofia nel medioevo. Dalle origini
patristiche alla fine del xiv secolo" - Gilson
Istituzioni di storia della filosofia medievale (Università di Pisa)
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Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo
Introduzione:
La religione cristiana è entrata in contatto con la filosofia nel II sec. d. C., anche se si
potrebbero vedere concetti di origine filosofica nel Nuovo Testamento. A riguardo, e più in
generale approcciandosi alla filosofia del medioevo che spesso è il risultato di una
commistione tra dottrine teologiche e istanze filosofiche, BISOGNA SEMPRE distinguere
filosofia e religione che pur intrecciandosi mantengono ognuna la propria autonomia
rimanendo SEMPRE due entità distinte e tali devono essere considerate.
Gli scrittori sacri si sono serviti di termini e concetti filosofici cedendo ad una necessità
umana e soprattutto concettuale, ma all’antico significato filosofico ne hanno sostituito uno
religioso e questo è il significato che gli va attribuito quando occorrono nei testi cristiani.
Essenzialmente la religione cristiana si fondava sull’insegnamento dei Vangeli, in cui non vi
è una parola di filosofia. Il cristianesimo si rivolge all’uomo, è una dottrina della salvezza e
per questo è una religione. La religione si rivolge all’uomo e gli parla del suo destino.
La filosofia si rivolge all’intelligenza e le dice quel che le cose sono.
Le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofie della necessità, invece le
filosofie influenzate dalla religione cristiana sono filosofie della libertà.
Il momento criticò si porrà nel momento in cui, XIII secolo, il mondo occidentale dovrà
scegliere tra il necessitarismo greco di Averroè e una metafisica della libertà divina.
Il concetto greco di “λόγoς” è manifestamente di origine filosofica (soprattutto stoica),
utilizzato anche da Filone di Alessandria, c’è chi ha sostenuto che un concetto greco si
sostituisce al Dio cristiano imponendo così una deviazione al pensiero cristiano che questo
non sarà più in grado di correggere.
Ellenismo e cristianesimo sono dal allora in contatto: quale dei due ha assorbito l’altro?
Se avesse trionfato l’Ellenismo da ciò si avrebbe una filosofia del “λόγoς” che spiega la
creazione del mondo tramite questo intelligibile che vede anche come fonte di salvezza,
assimila a sé il Messia predicato da una setta religiosa ebraica e ne fa manifestazione del
Verbo: da quest’operazione sorgeranno le posizioni gnostiche con cui la religione cristiana
eviterà fermamente di confondersi.
Ciò che avverrà con il Vangelo di Giovanni è differente: “Come per tutto ciò che il
cristianesimo ha preso dall’Ellenismo, si tratta, fin da questo caso (Gv), che è il primo a
nostra conoscenza, dell’approssimazione di un concetto che servirà all’interpretazione
filosofica della fede, piuttosto che come elemento costitutivo della fede stessa.”, A. Puech.
San Paolo:
Ebreo di nascita, originario di Tarso aperta alle influenze greche, aveva certamente ascoltato
le diatribe stoiche. Conosceva l’esistenza della sapienza dei filosofi greci e la condanna in
nome di una nuova Sapienza, follia per i Greci e scandalo per gli Ebrei (I Cor 1, 22-25).
Questa sfida rivolta a i filosofi avrà grande eco nel Medioevo. Di Rm 1, 19-21 si avvarrà lo
stesso Descartes per legittimare la sua impresa metafisica.
La tesi di Paolo non è nuova (già trattata nel libro della Sapienza 13, 5-9), ma da lui esposta
pone il dovere ad ogni filosofo cristiano di ammettere che è possibile una conoscenza certa
di Dio. Riprende molto dallo stoicismo, per esempio la distinzione tra anima (ψυχή, anima)
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e spirito (πνεΰμα, spiritus) che sarà alla base di molte speculazioni psicologiche ispirate a Ts
5, 23.
I punti di contatto sussistono ma non hanno variato né toccato la sostanza della fede
cristiana.
Letteratura patristica: si chiamano così l’insieme delle opere cristiane che risalgono ai Padri
della Chiesa, ma non tutte li hanno come autori (non è una denominazione rigorosa).
Padri della Chieia: 1. Designa tutti gli antichi scrittori ecclesiastici morti nella fede
cristiana e in comunione con la chiesa; 2. In senso stretto dovrebbe avere quattro
caratteristiche: 1. Ortodossia dottrinale; 2. Santità di vita; 3. Riconoscimento da parte della
chiesa; 4. Relativa antichità (fino fine III sec. circa).
Dottore della chieia: se manca l’anzianità e ha rappresentato in maniera eminente la
dottrina della chiesa (i più anziani tra loro sono chiamati “Padri”, fino a Gregorio Magno, il
Medioevo li designa come sancti). Quando si distinguevano i sancti dai filosofi si intendeva
parlare dei Dottori.
Scrittori eccleiiaitici: al di sotto dei Dottori, la cui autorità dottrinale è molto inferiore e la
cui ortodossia dottrinale può non essere irreprensibile, ma sono importanti testimoni della
tradizione (Origene, Eusebio di Cesarea, ecc.).
Queste distinzioni sono moderne e il Medioevo non li distribuiva secondo una precisa
classificazione.
I. I Padri greci e la filoiofia:
La filosofia compare nella storia del cristianesimo nel momento in cui alcuni Cristiani
prendono posizione nei suoi riguardi. Da quest’epoca il termine “filosofia” è utilizzato con
il significato di “sapienza pagana”. XII, XIII secolo l’opposizione di “philosophi” e “sancti”
indicherà quella tra concezioni elaborate da uomini privi della luce di Dio e i Padri della
Chiesa.
Sin da subito il cristianesimo ha preso in considerazione le filosofie pagane nei cui confronti
i Cristiani colti dei primi secoli hanno avito atteggiamenti assai differenti.
1. I Padri apologiiti
Padri apologisti/Apologeti, compaiono dal II secolo, così chiamati perché le loro opere
principali sono apologie del cristianesimo.
Apologia= in senso tecnico un’arringa giuridica, nel qual caso in difesa del cristianesimo e
un tentativo di giustificarla politicamente in un impero pagano e dinanzi la filosofia greca.
Le due apologie più antiche risalgono al 125, di Quadrato, mai ritrovata, secondo le
testimonianze priva di prese di posizione nei confronti della filosofia e quella di Aristide, in
cui è presente qualche tesi di ispirazione filosofica.
Aristide: ogni movimento regolato che regna nell’universo risponde ad una necessità,
l’ordinatore di questo movimento è Dio. C’è un solo Dio.
La visione cristiana dell’universo dunque è fissata a grandi linee già dall’inizio del II secolo,
definibile come “giudeo-cristiana” dal momento che è ereditata dal Vecchio Testamento.
Pastore di Erma (140-145): vi si ritrova l’idea che Dio è UNO e ha creato tutto ex nihilo,
idea non innovativa, di origine biblica ( III Macc. 7, 28).
S. Giustino martire, di Neapolis/Nabulus: contemporaneo al Pastore di Erma. OPERE:
Apologia I (150) all’imperatore Adriano, in cui pone il problema: se la verità è stata
rivelata attraverso Cristo pare che chi è vissito prima non sia colpevole d’averla
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ignorata. Si propone di definire la natura della rivelazione cristiana e il suo posto nella
storia dell’umanità. Mutua una prima soluzione dal prologo di Gv, vi è una rivelazione del
Verbo divino anteriore all’incarnazione.
Apologia II a Marco Aurelio, in cui ripropone il tema della partecipazione al Verbo,
abbozzata in Apologia I, che definisce stoicamente come “ragione seminale”, di cui vi un
germe in goni uomo. Individua meriti e demeriti rispettivamente in coloro che hanno vissuto
secondo il Verbo/Cristo e coloro che hanno vissuto contro questo. La religione cristiana è
vista come punto culminante di una rivelazione divina antica quanto il genere umano.
“Tutto ciò che è stato detto di vero ci appartiene”, famoso passo si quest’opera. Considera
Eraclito, stoici, Socrate come non estranei al Verbo, piuttosto lo hanno conosciuto in parte
avendone un germe anche loro. Non intende esporre nella sua completezza la dottrina
cristiana, ne tocca i punti che vuole giustificare.
Dialogus cum Eryphone (160): espone le motivazione che aveva un pagano per convertirsi,
spesso la conversione era vista come il passaggio da una filosofia animata da uno spirito
religioso ad una religione capace di prospettive filosofiche. Filosofia per Giustino: “ciò che
ci conduce verso Dio e a lui ci riunisce”. Narra del suo cammino verso la conversione:
1. Stoici: dissero che non era necessario conoscere Dio;
2. Peripatetici: il maestro era più interessato alla retribuzione, dunque non era un
filosofo;
3. Pitagorici: il maestro pretendeva che prima imparasse musica, astronomia, geometria;
4. Discepoli di Platone: lì si istruì su ciò che voleva apprendere, pensò di essere sul
punto di “vedere Dio immediatamente; perché questo è il fine della filosofia di
Platone”. Cercava nella filosofia una religione naturale.
Ritiratosi per meditare incontrò un vegliardo che lo interrogò su Dio e sull’anima, gli
mostrò l’incoerenza del Eimeo e gli spiegò che se l’anima è viva non è perché è vita, ma
perché la riceve, come insegnano i Cristiani, quindi l’anima vive perché Dio lo vuole.
Questa risposta segna la linea di demarcazione tra cristianesimo e platonismo. Gli fu
detto che poteva leggerne nell’Antico e Nuovo testamento.
Questo testo ci fa rilevare storicamente come il cristianesimo abbia potuto assimilarsi un
dominio fino ad allora dei filosofi, perché offriva una nuova soluzione a dei problemi
posti dai filosofi stessi. Sembrava che i Cristiani potessero rivendicare il titolo di filosofi
in quanto Cristiani.
Il Verbo è il primogenito di Dio, costituito prima della creazione ma in vista di questa,
tentando di esplicare il suo rapporto con il Padre usa metafore quali quella del fuoco che ne
accende un altro senza diminuirsi. Comunque subordina esplicitamente il Verbo al Padre.
Lo Spirito è “Dio in terzo luogo”, pare non ne abbia definito chiaramente né la natura né il
ruolo.
Concezione tripartita della natura umana: corpo, anima, spirito/πνεΰμα, di origine paolina e
stoica. Non considera impossibile la morte dell'anima, dal momento che questa “dura tanto a
lungo quanto piace a Dio di conservarla”. Non dubita che l’anima debba essere premiata o
(aut) castigata nell’altra vita secondo meriti e demeriti; fonda sul libero arbitrio merito e
demerito, perché per questo l’uomo ha volontà libera e dunque è responsabile di sé.
Giustino si presenta come il primo di coloro che considerarono la rivelazione cristiana come
il punto culminante di una rivelazione cristiana.
Eaziano: educazione di un retore greco; ha molto viaggiato, si è iniziato a più discipline,
anche la filosofia e si è convertito per ragioni analoghe a quelle di Giustino. Recatosi a
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Roma divenne suo allievo, lo definisce maestro “mirabilissimo”. Nel 172 aderì alla gnosi di
Valentino, più tardi fondò/ restaurò la setta degli Encratiti che professava un assoluto
rigorismo morale.
Opere:
Oratio ad Graecos (tra 166 e 171): opera principale. Dichiarazione dei diritti dei barbari
contro gli Elleni e la loro cultura. I Greci hanno attinto dalla Bibbia molte delle loro idee
filosofiche (deduzione, si sa oggi, non giustificata; argomento usato anche da Filone e
Giustino) e ciò che non hanno attinto dalle Scritture è assurdo: Aristotele limita la
provvidenza all’ambito del necessario e insegnava una morale aristocratica, gli stoici
predicavano “l’eterno ritorno” come dire che, identificando la necessità assoluta degli esseri
con Dio che Questi è la malvagità dei cattivi. Non ha inventato l’argomento, ma per l’uso
abbondante che ne fece è tratto caratteristico della sua apologetica.
I Greci non hanno inventato nulla, tantomeno la filosofia. Mira a provare che la religione
cristiana (“la nostra filosofia”), è più antica della civiltà dei Greci.
Diatèssaron: risale all’ultimo periodo della sua vita. Una concordanza dei quattro vangeli
che ebbe notevole successo, particolarmente in Siria.
Argomento “delle contraddizioni dei filosofi”: è il primo a sviluppare l’argomento in tutta la
sua ampiezza.
Critiche alla religione pagana non originali: immoralità della mitologia greca, la magia è
opera dei demoni, le malattie vengono da cause naturali e i demoni convincono di poterle
guarire (non distingue magia e medicina), un vero cristiano risolve tutta tramite la fede in
Dio.
Critica la fatalità, il cristiano non vi è sottomesso perché padrone di sé e dei suoi desideri.
Teologia medesima a quella di Giustino, ma utilizza espressioni più nette, a volte sembra
abbia forzato il pensiero del maestro.
Dio di Taziano: unico, immateriale, non ha causa, ma è causa della materia che domina (non
le è causa immanente). Se c’è “uno spirito del mondo” è subordinato a Dio, ma non è Dio
(contro gli stoici). Si può conoscere il creatore partendo dalla creatura ( Rom 1,20). Per un
atto volontario di Dio esce da lui il Verbo e questo una volta proferito rimane e sussiste
come reale, dunque Dio proferisce il Verbo senza separarsi da lui. Accosta il Verbo al
“demiurgo” del Timeo, lo fa causa della materia come la proiettasse da sé, ma né la crea né
la “trova”. Taziano concepisce la creazione come una specie di insegnamento.
V cap. “Oratio”: argomento in favore della resurrezione dei corpi.
Angeli: prime creatura, non possiedono Bene per essenza lo compiono per volontà, quindi
meritano e demeritano. Defezione avvenuta perché il primo si allontanò dalla legge di Dio
per cui il Verbo lo escluse dal suo rapporto. La fatalità di cui parlano gli stoici è stata
insegnata dai demoni (angeli decaduti) agli uomini.
Anima in due elementi: ψυχή (lat. Anima), penetra la materia di tutto ciò che esiste,
materiale. Πνεΰμα (lat. Spiritus), parte superiore dell’anima, immateriale, vi risiede
l’immagine e la somiglianza con Dio.
La dottrina neoplatonica dell’anima non si è imposta come necessaria al pensiero dei primi
cristiani, gli importava stabilire non che l’anima (in sé è tenebra che ha ricevuto luce dal
Verbo) fosse immortale ma che se lo è dipende dalla volontà di Dio. Sforzo per
congiungersi con il suo principio, in ogni anima che vi riesce avviene una conversione
(μετάνοια). Tutta Oratio opera di un barbaro contro il naturalismo ellenico.
“Sulla perfezione secondo il Salvatore”: vi è esposta la sua ultima dottrina.
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Melitone di Sardi: vescovo di Sardi. Sarebbe il primo che abbia visto l’apparizione del
cristianesimo in seno all’impero come un disegno provvidenziale (Puech). Riteneva che la
fede cristiana dovesse divenire la filosofia dell’impero, poi lo sosterrà Agostino nel “De
civitate Dei” e diverrà realtà al tempo di Carlomagno. Forse avrebbe scelto lo stoicismo
come filosofia: Gennadio e Origene attestano che insegnava che Dio fosse corporeo.
OPERE:
Apologia: a Marco Aurelio, se ne sa poco: quattro citazioni di cui tre nella “Historia
Ecclesiastica” di Eusebio.
Atenagora: Atene 133, 190 circa.
Legatio pro Christianis: 177 circa. Come discorso consolare (πρεσβεία) a Marco Aurelio e
Commodo. I Cristiani erano perseguitati, in difesa della loro posizione/situazione contro
l’accusa di ateismo; si dichiaravano cittadini di un impero che non era questo mondo e
soggetti a un Dio che non era l’imperatore. Opera distante tanto dalla posizione di Giustino
che da quella di Taziano, costata che se un certo numero di punti vi è accordo tra i filosofi e
la rivelazione. Punti che non spiega, solo ne fa condizione per mostrare che è insensato che i
Cristiani condannino alcuni filosofi (quali Aristotele e gli stoici: monoteisti; Platone: ha in
travisto la verità).
Rapporto fede-ragione: definito nettamente. La salda conoscenza di Dio è in Dio stesso,
nella rivelazione su cui si può riflettere con la ragione.
VII capitolo: prima dimostrazione dell’unicità di Dio in relazione: se ci fossero stati più dei
non si sarebbero potuti trovare in un solo posto, essendo di natura diversa perché non
generati; se ognuno fosse creatore del mondo e occupasse un proprio posto non sarebbe
posto nel mondo in cui siamo; se esistessero più mondi, ognuno con un Dio, gli altri che non
esercitano potere sul nostro sarebbero limitati e dunque non dei; la potenza di Dio avvolge
tutto, non possono esserci altri mondi né può darsi che altri dei esistano senza far nulla, non
sarebbero tali= ATENAGORA NON RIESCE A PENSARE DIO SE NON IN
RELAZIONE ALLO SPAZIO (sua influenza in “De fide orthodoxa”, G. Damasceno).
Eeologia del verbo: insiste su eternità del Verbo nel Padre, non parla di lui come altro, lo
figura come raggio di sole, emanante dal Padre, a lui riveniente; si basa come gli altri su
Proverbi 8, 22.
De resurrectione mortuorum: stabilisce che non è impossibile, chi ha creato può restituirla.
Di ogni apologia: 1° momento, “in favore della verità”; 2° momento, “sulla verità” che in
questo caso tratta che avrà luogo la resurrezione (già dimostrata). Provato da tre argomenti:
1. Insiste sul fatto che abbia carattere razionale: uomo creato per partecipare della
Sapienza e contemplare le opere di Dio= la causa della sua nascita ne garantisce la
perpetuità.
2. Basato sul fatto che l’iomo è anima e corpo e così Dio lo ha creato per un certo fine:
devono avere di necessità lo stesso destino. Così formula un’idea fondamentale che
comporta il non cedere al platonismo (vs “Alcibiade”), sembra giustificare il finale
trionfo dell’aristotelismo.
3. Accettati 1 e 2 si deve ammettere con Dio provvidenza degli uomini e giusto allora si
dovrà ammettere anche un GIUDIZIO GIUSTO dato all’uomo nella sua interezza
perché l’UOMO possa essere premiato o punito.
Atenagora ha percepito i problemi principali da risolvere per il pensiero cristiano; due
momenti di ogni apologetica: 1. Prova della credibilità con confutazione degli argomenti
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che vogliono stabilire l’assurdità della fede e giustificazione razionale (per questo non
menziona resurrezione Cristo); 2. Distinzione tra prova razionale e appello alla fede.
Eeofilo di Antiochia: ?- 183/185. Consacrato vescovo nel 169; vescovo di Antiochia (Siria).
Ad Autolycum: apologia che si rivolge a un privato, Autolico; “un Taziano senza talento”:
suo argomento “Tu non credi che i morti debbano resuscitare? Quando la cosa accadrà sarai
ben obbligato a crederlo”. Pone Dio come incomprensibile all’intelletto umano; usa la
formula della creazione ex nihilo come Ermia e il libro dei Maccabei.
Due scritti anonimi del II secolo: 1. Oratio ad Graecos, attribuita erroneamente a Giustino,
stilisticamente vicina a Taziano per la condanna in blocco della cultura greca. 2. Exhortatio
ad Graecos, riprende il tema dei prestiti che i filosofi hanno preso dalla Bibbia.
Irrisio philosophorum: titolo con cui si indica l’opera di Ermia, ma più in generale anche il
tema apologetico molto usato dai pensatori cristiani: confusione e contrasto risposte della
ragione contro unità dottrine della fede.
Si è passati dall’universo greco a quello cristiano in maniera brusca, non continua, sembra
che l’universo greco sia crollato improvvisamente in uomini come Giustino, Taziano. Questi
sembrano non alla ricerca da una verità da scoprire, ma di formule per esprimere ciò che
avevano già scoperto. L’unico strumento che avevano era la filosofia greca, dunque gli
apologisti del II secolo hanno intrapreso il compito di esprimere l’universo mentale dei
Cristiani tramite il linguaggio della filosofia (concepito per esprimere l’universo mentale dei
Greci).
2. Lo gnoiticiioo del II iecolo e i iuoi avveriari:
II secolo: periodo di fermento religioso. Si cerca di raggiungere l’unione dell’anima con
Cristo, sapere che Dio esiste e conoscerlo filosoficamente non sembra più sufficiente= si
cerca la gnosi (γνϖσις), esperienza unificante che permetta un contatto personale.
Inquietudine religiosa: origini orientali, precedenti al cristianesimo, ha trovato alimento
nelle filosofie greche orientate verso la religione (es. platonismo e stoicismo si presentavano
adattabili a fini religiosi) = gnosticismo del II secolo è l’insieme di sincretismi di questo
tipo, che hanno tentato di inglobare in sé la religione cristiana.
Gnosticismo:
1. Termine generico, astratto. Non esistettero storicamente gnostici e gnosticismi, ma
uomini e dottrine che avendo peculiarità comuni permettono di dar loro uno stesso
nome.
2. Il nome ne indica la natura (“gnosi”: sapere che assicura la salvezza per la
liberazione da un errore originario). Dottrine che hanno avuto come scopo
trasformare la fede in una conoscenza (γνϖσις) capace di unirsi a Dio.
3. Origine nel dialogo tra fede religiosa (πίστις) e conoscenza intellettuale (γν ϖσις); si
tenta di instaurare una πίστις σοφία (fede come sapienza). “Ellenizzazione acuta del
cristianesimo” (Harnack).
4. Caratteristiche: (dello gnosticismo propriamente detto) concepire la conoscenza
accessibile al cristiano come sostituzione della fede; bisogno di appellarsi al
cristianesimo e impossibilità di accordarsi con esso. La perdita dei testi originali non
permette di ricostruire con certezza i particolari di tali dottrine.
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5. Crisi gnostica: Dialogus cum Tryphone (150/160), Giustino cita le sette di Marcione,
Basilide, Valentino e Saturnilo dicendo che ciascuna porta i nome del suo capo.
Marcione di Sinope: già scomunicato dal suo vescovo quando si recò a Roma per insegnarvi
la sua dottrina in ambienti cristiani, lì fonda una comunità nel 144.
Dottrina: la sua dottrina ci è nota attraverso le confutazioni dei suoi avversari cristiani.
Radicale rifiuto del giudaismo. AT e NT antitetici, non complementari: è una gnosi interna a
un problema prettamente cristiano, il rapporto dell’antica antica legge con la nuova.
AT: rivelazione del Dio adorato dagli Ebrei, ordinatore della materia che è il principio (non
creatore; spiega così anche il fallimento del demiurgo), imperfetto, l’unica cosa che è stato
in grado di fare alla defezione degli angeli e alla caduta dell’uomo è stato porre leggi
rigorose e sanzioni terribili.
NV: il Dio straniero (perché rimasto sconosciuto agli uomini e al demiurgo), al di là del
Dio degli Ebrei, rivelato da Gesù, è essenzialmente bontà. Gesù appare come Dio supremo
che HA VOLUTO soffrire per salvare gli uomini. Redenzione al centro della storia, opera
dell’amore divino che impone una morale liberata dal legalismo ebraico, ascetica poiché la
materia è per sé cattiva.
Basilide: originario della Siria, pare abbia cominciato a insegnare ad Alessandria verso il
130; la sua gnosi è una cosmogonia in cui abbondano creature immaginate.
Concezione dell’universo: Dio ingenerato, incomprensibile, innominabile al di sopra
dell’essere, un “Dio non-essere”. Ha di che produrre perché ha in sé le sementi da cui tutto
ha creato, il granaio di queste è la πανσπερμία, da qui all’ inizio del mondo Dio trae tre
“filiazioni”:
1. La prima scaturisce da lui e subito a lui ritorna, come un raggio riflesso;
2. La seconda, più pesante, resterebbe legata tra le sementi se uno Spirito Santo non le
desse le ali grazie a cui raggiunge Dio;
3. Resta legata alla πανσπερμία fino a che la purificazione di cui necessità non le
permetterà di elevarsi fino al suo principio.
Questo accade in un mondo superiore in cui Dio è isolato da tutto il resto dallo στερέομα
(sfera solida), separazione che è decisiva nella storia del mondo. Dal seno della πανσπερμία
Dio produce il “grande Arconte”, inferiore alle filiazioni, ma πανσπερμία potentissimo,
diverrà principio di tutto l’universo intermediario tra la sfera isolata e la sfera della Luna.
Questo genera un figlio Ogdoade e da questi due nascono il pensiero (νοΰς), il Verbo
(λόγος), la sapienza (σοφία), la Forza (δύναμις) che popolano il primo cielo di questo
mondo intermedio, questi generano altri che popolano i 365 cieli incastrati
concentricamente nello στερέομα; l’ultimo dei cieli è quello della Luna che noi vediamo e
dove sta il Dio degli Ebrei. Questo ha volito arricchirsi per questo ha forgiato dalla materia
caotica la terra e l’uomo, è un essere duplice per il corpo appartiene al mondo della materia
per la sua anima partecipa al mondo divino. In un universo così strutturato una caduta
morale era implicita nella sua struttura. Il grande Arconte isolato dallo στερέομα si
considera dio supremo, questo peccato d’orgoglio s’è ripercosso di cielo in cielo fino a
quello della Luna dove anche l’Arconte si è proclamato unico vero dio. Per riscattare questa
colpa è intervenuta la prima filiazione divina che è conoscenza perfetta (γνϖσις) la cui
ignoranza aveva provocato il disordine nel mondo. Con il nome di Vangelo si fa conoscere
dall’Arconte che ammette il suo errore e di essere una creatura del Dio supremo, rivelazione
che si trasmette da un cielo all’altro ristabilendosi l’ordine in tutti i cieli. Allora intervenne
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Gesù, nuovo essere divino (εόν), con la sua incarnazione in Maria e la predicazione del
Vangelo si è compiuta la redenzione dell’universo. La terza “filiazione” purificata del tutto
dimora in Dio. Chi riceverà la γνϖσις di Gesù sarà riscattato. Per mantenere la permanenza
dell’ordine Dio avvolgerà il mondo nell’oblio di questa rivelazione così che gli esseri divini
ignari del “Dio non-essere” non potranno invidiarlo e la loro ignoranza li proteggerà.
Valentino: insegnò ad Alessandria fino al 135, poi a Roma fino al 160, il più originale dal
punto di vista filosofico. All’origine di tutto “una entità non generata, immortale,
incomprensibile, impensabile), Padre/Abisso (che non amava la solitudine perché era
amore), principio maschile a cui bisogna aggiungerne uno femminile (σιγή: Silenzio),
dall’unione di questi due nacquero Intelletto (νοΰς) e Verità (αλήθεια), questi sono la prima
tetrade radice di tutto ciò che esiste. Intelletto e Verità generano il Verbo (λόγος) e la Vita
che generano a loro volta l’uomo e la chiesa. Costituita la prima Ogdoade, da Verbo e Vita
nacquero dieci Eoni, dodici da Uomo e chiesa. Ogdoade primitiva, Decade e Dodecade
formano il Pleroma, società di trenta esseri divini (ne sarà simbolizzato il mistero con i
trenta anni di Cristo). Gli ultimi due della Dodecade sono Volere (ϑελητός) e sapienza
(σοφία) che mossa da una curiosità ambiziosa cede al desiderio di scrutare il mistero di
Abisso (solo Intelletto ne è capace) e sarebbe caduta se il limite (όρος) che circonda il
Pleroma non l’avesse evitato. Sapienza fecondata dal desiderio provato concepisce un figlio
bastardo Concupiscenza (Achamoth), senza padre, materia informe che viene espulsa dal
Pleroma. Intelletto e Verità generano l’ultima coppia di eoni, maschio e femmina, Cristo e
lo Spirito Santo che insegnano agli Eoni del Pleroma ad amare e rispettare Abisso così è
ristabilito l’ordine nel Pleroma. Nasce Gesù, dal desiderio comune di tutti gli Eoni, che
purifica Concupiscenza dalle sue passioni (timore, tristezza, mancanza e bisogno) e ne fa
principi attivi per il futuro, così di Concupiscenza diviene materia adatta a concepire con cui
sarà l’universo dal Demiurgo. Questo rimane nella regione bassa, è ignaro del Pleroma per
l’όρος, ma a sua insaputa ne produce come un’immagine; come l’Arconte di Basilide si
crede un dio supremo e per questo nell’AT ha detto “Io sono Dio, e on c’è altro Dio
all’infuori di me”. Dalla sua opera nascono tre classi uomini: 1. i Materiali: classe inferiore,
destinati a dissolversi come la materia. 2. gli Psichici/pneumatici (πνεΰμα): classe nobile e
l’unica che abbia bisogno di essere riscattata per cui è stato concepito un Redentore
concepito dalla Vergine Maria. Non opera solo del Demiurgo, l’eone Gesù è venuto in lui al
momento del suo battesimo e lo ha lasciato solo all’inizio della sua passione. 3. Gli
Spirituali: salvi dal principio perché sono naturalmente spirito.
Quando il Demiurgo smetterà di produrre Concupiscenza entrerà nel Pleroma con tutti gli
Spirituali e occuperà il posto lasciato dall’ascensione di Concupiscenza con gli Psichici che
saranno riscattati. Il resto perirà con la materia in una conflagrazione generale che segnerà la
fine dei tempi.
Tutte le dottrine gnostiche si rifanno al cristianesimo per il ruolo che attribuiscono a Gesù,
di colui che trasmette la conoscenza che salva (il ruolo della sua passione e morte è
soppresso/ non considerato), e per un antigiudaismo che per altro è estraneo al
cristianesimo. Gli gnostici subordinano Jahvè a Dio tentando di risolvere il problema del
male: se il male è nella creazione non può essere il Dio supremo il creatore, che è invece
fonte prima della conoscenza redentrice di cui gratifica l’intera gerarchia degli esseri per
rimediare all’errore del demiurgo. Queste dottrine rappresentano la materia confusa di cui
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Plotino doveva essere il demiurgo, trasformandole in filosofia gli ha conferito forma e
intelligibilità.
Le ingegnose mitologie di cui trattano non sono inerenti l’insegnamento di Gesù; hanno
voluto mutuare a loro vantaggio con il maestro la chiesa e i fedeli. Contemporaneamente a
questi tentativi di assimilazione i primi apologisti greci li hanno nettamente disapprovati
(tranne Taziano).
Nella seconda metà del II secolo divenne necessario definire il cristianesimo autentico
restituendo purezza primitiva a concetti di importanza fondamentale per ogni filosofo
cristiano per evitare che si confondesse con le contraffazioni gnostiche.
Sant’Ireneo: nato a Smirne/ dintorni verso il 126 da una famiglia cristiana. Dalla giovinezza
frequentò Policarpo legato alla generazione che aveva conosciuto Cristo, aveva conosciuto
gli Apostoli e loro lo avevano posto in Asia come vescovo a Smirne; aveva come unica
ambizione di conservare fedelmente la tradizione. Ireneo torna col pensiero al maestro in
una lettere a Favorino, che Eusebio ci ha conservato (Hist. Eccl., V, 20-4). In una data
sconosciuta si spostò dall’Asia Minore alla Gallia, dove fu ordinato sacerdote e che era a
Lione alla morte da martire di Potino a cui successe come vescovo a Lione (177); dal III
secolo si perdono le sue tracce.
Adversus haereses: ne abbiamo estesi frammenti greci e una traduzione latina, tramite cui
conosciamo il suo pensiero. Titolo esteso: “Esposizione e confutazione della falsa
conoscenza (γνϖις)”, in cinque libri, il primo descrive le dottrine gnostiche, il secondo le
confuta, gli altri tre sono un’esposizione della dottrina cristiana. Si pone da subito sul piano
religioso opponendo al sapere degli avversari il vero sapere (γνϖσις αληϑής) che è
l’insegnamento degli Apostoli e la tradizione della chiesa, la verità su Dio si offre all’uomo
nel deposito impersonale della fede, partendo da ciò è possibile e legittimo uno sforzo per
conoscere Dio, SE condotto con sobrietà. Pretendere di sapere la risposta a determinate
questioni è disconoscere i limiti della ragione umana. Bisogna reservare Deo queste
questioni, si diventa cristiani per salvarsi, non per divenire sapienti (temi ripresi da Giovanni
di Salisbury).
C’è un unico Dio, nessun demiurgo, che può essere conosciuto tramite le sue opere e da sé
ha tratto e la forma e il modello di ogni cosa. Che si immagino intermediari e che questi di
moltiplicano non spiega nulla, il problema è spiegare l’esistenza del primo cielo.
La testimonianza di Ireneo esprime il sentimento che l’intelligenza era dalla parte della
fede, si riconosceva meno la ragione negli gnostici (sentimento forte tra i primi cristiani).
Pare la conseguenza più naturale credere dato il sorprendente accordo tra le Scritture e lo
spettacolo del mondo.
Ireneo ha riconosciuto i punti fondamentali dell’ambito in cui si svilupperà la filosofia del
Medioevo (Dio onnipotente che tutto ha fatto dal nulla, lo spettacolo del mondo attesta la
bontà del creatore), “ciò che le cose sono è testimonianza di ciò che è Dio, “est substantia
onium voluntas eius”.
L’uomo è creato da Dio, come ogni altra cosa, dunque buono ma non è perfetto nel senso
che è finito e esposto a decadere. Con “uomo” si intende l’unità di corpo e anima composta
di spiritus e πνεΰμα (S. Paolo), sopravvive e mantiene l’aspetto del corpo a segno che on
passa di corpo in corpo. Ireneo ha parlato delle anime come incorporee (V 71), ma vi è il
dubbio se si riferisse alla spiritualità propriamente detta o in rapporto ai corpi grossolani,
perché in un altro passo raffigura le anime come contraenti la forma dei loro corpi.
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Questo vale per lo spiritus, riguardo lo πνεΰμα la sua natura è descritta troppo
confusamente. Le facoltà fondamentali dell’anima sono l’intelletto e il libero arbitrio, Dio
ha fatto l’uomo a sua immagine: l’intelletto comincia a col guardare le cose, poi le esamina,
ne ricava un sapere sul quale ragiona, di cui discute dentro di sé e che esprime infine con la
parola (come il Padre dunque il nostro intelletto emette un verbo). Un essere intelligente è
un essere libero, anche il ibero arbitrio fa l’uomo simile a Dio.
A Ireneo è stato rimproverato un pelagianesimo ante litteram, eppure non ha mai
identificato libertà e libero arbitrio e per giustificare su questo punto la sua dottrina si rifà a
S. Paolo (Rm 2, 5-8). Ireneo vuole combattere l’idea che gli uomini si dividano in classi; è
vero che il peccato ha limitato la nostra libertà, ma non l’ha distrutto.
Sulla resurrezione si rifà ad Atenagora e Taziano. La sua escatologia è curiosa:
vede l’Anticristo, la Bestia, il cui numero è 666 (600 gli anni di Noè al tempo del diluvio, la
statua di Nabucodonosor aveva 60 cubiti di altezza e 6 di larghezza= 666), devasterà il
mondo. Regnerà nel Tempio per tre anni e tre mesi poi verrà il giudizio ultimo quando il
mondo avrà 6000 anni (creazione in 6 giorni, 1 giorno= 1000 anni) e in fine vi sarà un
ultimo periodo di 1000 anni (7° giorno) in Cristo regnerà a Gerusalemme rigenerata con i
giuiti. Alla fine il Figlio presenterà gli eletti al Padre che a quel punto resusciterà i cattivi e li
giudicherà.
Ippolito: il più celebre dei discepoli di Ireneo, nato forse a Roma, prete e poi vescovo di una
comunità scismatica della città, morì esiliato in Sardegna nel 236/237.
Contro i Greci e Platone – Universo: andate perdute.
Confutazione di tutte le eresie/ Philosophoumena: composta nel 230, parte più interessante
di ciò che ci rimane. Intenzione di dimostrare che le sette eretiche pur richiamandosi al
cristianesimo in realtà hanno la loro origine non in questo ma nelle dottrine filosofiche; lui
stesso sii ispira quasi ovunque ai suoi predecessori cristiani.
Contemporanea all’opera di Clemente Alessandrino, dalla comparazione delle due opere è
evidente come l’ambiente alessandrino fosse più aperto alle influenze filosofiche greche.
Differenza tra:
1. PADRI APOSTOLICI: prosecutori degli apostoli nelle prime comunità; danno una prima
impostazione dottrinale del cristianesimo;
2.PADRI APOLOGISTI: intellettuali pagani convertiti spesso al cristianesimo; giustificano
e difendono il cristianesimo anche con argomenti di implicazione filosofica.
3.La icuola di Aleiiandria:
Nel III secolo l’ellenizzazione del cristianesimo proseguiva e si sviluppava su un piano
ancora più teorico nell’ambiente di Alessandria d’Egitto, grande centro culturale
cosmopolita, in cui coesistevano giudaismo ellenizzato, cristianesimo e le forme più
avanzate di platonismo.
Clemente Alessandrino: nato in Grecia nel 151, si converte sotto la guida di Panteno (suo
maestro nella scuola alessandrina); 211 si rifugia in Cappadocia per fuggire alle
persecuzioni di Settimio Severo, lì muore nel 215. Ad Alessandria era a capo di una scuola
catechetica (che aveva lo scopo di educare i catecumeni= coloro che avrebbero dovuto
ricevere il battesimo).
Invita gli intellettuali pagani ad abbracciare la sapienza cristiana che presenta, sulle orme di
Giustino, come la piena realizzazione di ciò che era imperfettamente accennato nella
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sapienza antica (es.: il peccato può essere inteso, alla luce della psicologia tripartita di
Platone, come una ribellione delle parti inferiori dell’anima alla componente razionale).
Intende ribadire che il Cristianesimo è l’erede legittimo della migliore cultura greca e
romana.
Origene: nasce in Egitto nel 185 ad Alessandria. Si istruì presso Clemente Alessandrino e
forse studiò filosofia sotto Ammonio Sacca; insegna nel Didaskalèion, una scuola
catechetica cristiana; nel 250, al tempo delle persecuzioni di Decio, viene arrestato e non
volendo rinnegare la sua fede muore dopo le torture nel 253.
Unì la conoscenza profonda di tutta la filosofia greca quella delle tradizioni esegetiche
giudaiche e del pensiero di Filone. Fu il primo padre cristiano ad applicarsi con un metodo
organico all’interpretazione biblica (si vede in Omelie e Commentari, gli ultimi ci sono
giunti parzialmente). Distingue due livelli (non antitetici, ma complementari) nel testo
biblico: significato letterale e significato spirituale, che si articola in tre significati.
BIBBIA
Significato letterale
Significato spirituale
Metodo allegorico:
coglie da un’immagine
concreta il significato
concettuale che vi è nascosto.
tipologico:
gli eventi dell’AT
prefigurano quelli del NT.
morale:
gli eventi biblici
sono riferibili
anche alla lotte interiore
tra bene e male.
anagocigo:
permette all’anima
di elevarsi alla
contemplazione delle
realtà divine.
L’interpretazione allegorica ,tratto più caratteristico del metodo di Origene, è finalizzata a
individuare le verità morali e teologiche riposte sotto il livello letterale. Il compito del
teologo è quello di indagare queste verità ed essere capace di distinguerle da quelle
eterodosse.
Tra i suoi scritti si deve ricordare “Contra Celsum” e il trattato “De principiis” (in cui contro
la visione gnostica di un mondo malvagio in cui la salvezza è per pochi ribadisce, piuttosto,
che il mondo è intrinsecamente buono e la scelta tra bene e male dipende dalla libera
volontà di ogni singolo agente razionale, uomo e angelo) che si rivolge ai e cristiani e ai
filosofi e agli eretici, anche ai nemici dichiarati della fede. In maniera vagamente protrettica
si rivolge, comunque, principalmente ai fedeli perché pur avendo questi riconosciuto nella
parola di Dio la verità non sempre concordano sul significato da attribuirvi. Bisogna
poggiarsi su coloro che dallo Spirito Santo hanno ricevuto i doni di scienza e sapienza.
Così Origene separa gli uomini in classi, rivelando in questo modo una sorta di
aristocraticismo spirituale. Riguardo le ipostasi divine Origene considera il Verbo
subordinato al Padre nella creazione, in lui vi sono tutte le cose, egli produce da se stesso
altri verbi che sono spiriti e liberi. Essendo dotati di libertà se separarsi da Dio e con quale
intensità, tali sono gli angeli, mentre gli uomini sono spiriti imprigionati in corpi. L’anima
può tuttavia tendere a ritrovare il calore del suo stato primitivo; per Origene le anime non
sono altro che spiriti raffreddati. L’origine è per lui, come per Sant’Agostino, è misteriosa.
La libertà non è considerata puramente un male, come per gli gnostici.
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Il mondo non è stato creato da un demiurgo inferiore, ma dalla semplice e pura bontà di Dio
in cui il bene è la sua stessa essenza, invece le creature “possiedono” il bene in modo
accidentale e dunque possono anche abbandonarlo. La materia, dunque, è in sé buona ma è
cattivo per gli spiriti lasciarvisi rinchiudere. La “caduta” nasce da un peccato di orgoglio di
quelle creature che vogliono affermare la propria individualità allontanandosi dalla fonte
stessa del bene. Dunque descrive il male per negazione come “mancanza di bene”.
Una delle dottrine più interessanti di Origene nasce dalla ripresa del tema stoico dei cicli
cosmici: l’intera realtà una volta compiuto tutto il suo ciclo, di ridisporrebbe nelle
condizioni di partenza e ripartirebbe, però lasciando ai singoli individui la possibilità di fare
scelte diverse, il cui fine è la reintegrazione di tutte le cose in Dio.
Tutte le creature razionali (uomini, angeli, lo stesso Satana) ridurrebbero la loro distanza da
Dio espiando il loro peccato in una serie di vita in cicli successivi di realtà= dottrina
dell’apocatàstasi (tesi per cui il ciclo caduta-redenzione e l’incarnazione e il sacrificio di
Cristo si ripeta più volte) sarà condannato in concili ecclesiastici dei secoli seguenti, ma
continuerà ad esercitare la sua influenza a lungo.
4.Dai grandi di Cappadocia a Teodoreto:
Dal concilio di Nicea (325), riunitosi per sistemare la controversia trinitaria provocata da
Ario, la chiesa definisce la sua dottrina in un simbolo: il simbolo/credo niceano.
Dopo tale dichiarazione le speculazioni sul Verbo potevano consistere solamente nel
commentarla, per questo i teologi greci, dopo ciò, paiono inizialmente diffidenti riguardo la
speculazione filosofica. Tuttavia gli scrittori cristiani del IV secolo sono ancora in diretto
contatto con la cultura classica greca.
Scuola di Cesarea in Cappadocia, fondata da Origene dopo la sua fuga
Eusebio di Cesarea: nato verso il 265 a Cesarea, in Palestina, morto vescovo della città nel
339/340. Era uno storico più che un filosofo; opere storiche: Chronica, Historia
Ecclesiastica.
Preparatio Evangelica: considerevole opera apologetica.
Demonstratio Evangelica: giustificazioni della religione cristiana contro i pagani per
dimostrare ai pagani che un cristiano può saperne quanto loro. Attraverso l’erudizione viene
fuori l’idea di una reale parentela tra la verità cristiana e il meglio della filosofia greca,
soprattutto Platone. Ricorda su ogni punto che Platone ha guastato la sua verità con qualche
errore, ma che ha anche presentito il dogma della Trinità, insegnato l’immortalità
dell’anima, riconosciuto lo stesso Dio di Mosè e descritto la creazione pressappoco come
nella Bibbia.
Bisogna sottolineare che con Eusebio siamo giunti all’epoca in cui con Platone si intende
Plotino (muore 270), inoltre ci è nota la dottrina di Ammonio Sacca (maestro di Origene e
Plotino) tramite Orgene.
(Bisogna ricordare che non solo i Padri della Chiesa utilizzarono la filosofia per definire il
dogma, ma anche i loro “avversari” usarono la filosofia cristiana per nutrirne la loro
filosofia: l’eresia di Ario pare sorta dal desiderio di ricondurre la religione nei limiti della
ragione. Gregorio, Basilio avevano innanzi un atteggiamento analogo a quello dei deisti del
XVII secolo: una razionalizzazione del dogma cristiano fatta spontaneamente da spiriti
sensibili al valore esplicativo della fede, MA preoccupati di ridurre i misteri di questa alle
regole della conoscenza metafisica).
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La metafisica avrebbe assorbito il dogma o viceversa?
Gregorio aveva un degno avversario nell’ariano Eunomio (morto verso 395), per cui i
mondo dipendeva da un unico Dio concepito essenzialmente come essenza, sostanza o realtà
(ουσία), assolutamente semplice esclude ogni pluralità di attributi, si può dire solo che “è
assolutamente”. Caratterizzato dalla necessità di essere, come il dio di Ario e che aveva
definito l’ουσία platonica, è “non divenuto/generato” da cui deriva che il Verbo, che è il
Figlio che essendo generato è dissimile dal Padre e non a lui consustanziale. Questo Dio, di
Eunomio, ha potuto fare del Figlio un Dio per adozione (come il demiurgo del Timeo), ma
non realizzare la contraddizione di fare il generato della stessa sostanza dell’innascibile. Da
ciò si comprendono le costanti e il significato dell’opera di Gregorio di Nanziano.
Gregorio di Nanziano: 329-389, studiò prima presso la scuola di Cesarea poi ad Atene con
un condiscepolo, che poi sarebbe stato San Basilio. Si fermò ad Atene per insegnarvi e
ricevette il battesimo nel 367, tornato a Cesarea. Poi fu ordinato prima prete, poi elevato
all’episcopato. Spesso chiamato Gregorio il Teologo per un gruppo di cinque sermoni
(XXVII-XXXI), dei 45 suoi a noi giunti, chiamati:
“Discorsi teologici” (del 380): esposizione del dogma della Trinità, poi divenuta classica, e
della posizione intellettuale presa dai cristiani del tempo nei confronti di questa.
Eunomio cercava di ricondurre il mistero sul piano intelligibile, la sua colpa è stata quella di
svuotare il mistero in nome della logica; faceva del Demiurgo platonico il Padre del Verbo
cristiano.
Sermone XXXVI: intitolato Intorno a se stesso, spiegando perché gli ascoltatori di
Costantinopoli si affollassero attorno alla sua cattedra adduce a principale motivo il fatto
che in un tempo in cui la filosofia invade tutto lui ha attinto alle fonti della fede che pone
come vero rimedio. Ai filosofi/ sofisti manca la saggezza.
Sermone XXVII: apre la serie dei Theologica con pareri dello stesso tipo dei filosofi.
Rivolgendosi ai seguaci di Eunomio li scongiura di tornare alla semplicità della fede,
attenendosi alla meditazione della Scrittura, senza criticarla come i filosofi. Non è
necessario rinunciare a filosofare, lo stesso Gregorio non lo fa, è più che legittimo.
Sermone XXVIII: in fondo la Teologia non è altro che filosofare con moderazione, dopo
essersi istruiti sulla Scrittura per poi istruire gli altri su questa.
Poggiandosi sulla Scrittura e la ragione stabilisce, contro Epicuro, che Dio non è corpo, né
circoscritto da alcuno spazio. Poi, scusandosi di sembrare anche lui cedere al furore, espone
punto per punto la nozione cristiana di Dio, quale è concepibile alla luce di ciò che Dio
stesso ce ne insegna. Solo partendo da questo presupposto Gregorio consente di speculare.
Dunque l’esistenza di Dio può essere conosciuta attraverso l’ordine del mondo, di cui però
non si spiegano razionalmente con il caso l’esistenza e la disposizione, bisogna ammettere
un Logos per darne ragione.
Si può sapere che Dio esiste ma non cosa Egli sia, il che ha una duplice valenza: insegna
l’umiltà, incita alla ricerca. Non è possibile avere risultati, il corpo si interpone tra l’anima e
Dio.
Ciò che più può farci avvicinare ad una conoscenza esatta della natura divina è negare ciò
che è manifestamente impossibile attribuirle. Gli unici attributi che si avvicinano
maggiormente ad una conoscenza positiva di Dio sono quelli che lo determinano come
essere: l’infinità e l’eternità. Dio stesso ha detto a Mosè di essere l’essere e Gregorio di
Nanziano ha avuto il merito di dare positività a questa nozione.
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Gregorio paragona Dio a “un oceano di realtà (πέλαγος ουσίας) infinita e senza limiti,
completamente affrancato dalla natura e dal tempo”. Nozioni della teologia naturale
formulate qui per la prima volta da Gregorio, il quale comunque si arresta sempre alla soglia
del mistero, si serve di termini filosofici per descrivere il mistero ma non pensa di poterlo
chiarire. Accanirsi, come Eunomio, a ridurre il mistero alla logica, è dar prova di una certa
ingenuità.
E. Puech: “Gregorio è profondamente cristiano. Se certe idee neoplatoniche hanno
contribuito a sviluppare la sua teologia, se ciò che di più elevato vi fu nel cinismo e nello
stoicismo entra per una parte nel suo ideale ascetico, il suo pensiero e la sua vita sono stati
sempre guidati dalla fede”.
L’atteggiamento di Gregorio è quello dei tre grandi di Cappadocia (Gregorio di Nanziano,
Basilio il Grande, Gregorio di Nissa fratello di Basilio).
San Basilio/ Basilio il Grande: 330-379, nato a Cesarea in Cappadocia, fu condiscepolo di
Gregorio di Nanziano con cui studiò poi anche ad Atene; egli vi fece medicina. Battezzato
dal suo ritorno a Cesarea; visitò i più illustri asceti di Siria, Egitto e Palestina, fondò lui
stesso un centro di vita monastica e compose la cosiddetta Regola di San Basilio. Ordinato
prete succedette a Eusebio sul episcopale di Cesarea che occupò fino alla morte.
Ai giovani sul modo di trarre profitto dalle lettere elleniche: breve trattato in cui Basilio
risolve il problema di come istruire i giovani cristiani, essendo tutta la letteratura, morale,
filosofia in lingua greca opera di pagani. Dà egli stesso l’esempio di un’opera fiorita di
esempi e citazioni presi dall’antichità, ma animata da uno spirito integralmente cristiano.
Mette in guardia contro le insidie che possono essere nascoste negli scritti dei pagani, ma al
contempo invita anche ad essere imitatori degli esempi di virtù e buon gusto che danno.
Questo scritto diverrà il programma degli ellenisti cristiani del XIV e XV secolo.
La grandezza di Basilio consiste nella sua opera da teologo.
Adversus Eunomium: Basilio si fa beffe di lui che pur appellandosi alla tradizione dei Padri
e alla fede ritiene possa essere utile sillogizzare come Aristotele e Crisippo intorno l’essere
ingenerato di Dio. Basilio fa notare che Eunomio non giunge alla sua conclusione ma la crea
ad hoc sin dalla definizione che dà di Dio; sa che ogni cristiano ammetterà che Dio è una
sostanza ingenerata, il problema sta nel fatto che da ciò non ne consegue necessariamente
che “l’ingenerato” sia la sostanza stessa di Dio. Tale nome puramente privativo non può
designare adeguatamente la pienezza di Dio, pur ritenendo Eunomio che ogni nome che
diamo a Dio è sinonimo del suo essere ineffabile, Basilio si scaglia contro questa tesi
affermando che anche non potendo nessun nome designare sufficientemente Dio, ciascuno
di essi significa e che non è una certa cosa e ne è positivamente un’altra. Il nome che
conviene meglio a Dio è quello di ουσία e bisogna partire dall’essere che rende possibile la
comunità di essere (τò κοινόν της ουσίας) del Padre e del Figlio, non dal “l’innascibile”
come Eunomio.
Omelie sull’ Hexaemeron: di maggior interesse per la storia della filosofia. Un In
Hexaemeron è un commento dei capitoli della Genesi sulla creazione, in cui l’autore cogli
l’occasione del testo sacro per sviluppare le proprie vedute filosofiche (prototipo di una
famigli di scritti che si moltiplicheranno nel Medioevo).
Spesso, come in questo caso, non vi si trova una filosofia ma le conoscenze dell’autore e ciò
che per lui è una spiegazione razionale. La natura è l’opera di Dio, creandola ha creato il
tempo, l’ha creata nella sua interezza, compresa la materia. Per eliminare il concetto
platonico di una materia increata Basilio qui critica il concetto di materia prima affermando
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che non bisogna cercare qualcosa che preso in se stesso sarebbe senza natura e senza
proprietà. Tutto ciò che si può osservare in una cosa contribuisce a costruire la sua essenza,
se le togliamo ogni sua determinazione non resta più nulla che possa farle da substrato.
La struttura del mondo di Basilio è quella che il Medioevo continuerà ad assegnarli fin verso
la fine del XIV secolo: in principio i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) erano
mescolati, poi ciascuno ha raggiunto il suo luogo naturale. Il fuoco costituisce la sostanza
del cielo e si estende fino alle acque, sotto il firmamento ci sono l’aria e l’acqua che forma
le nubi, la luce fu creata dopo gli elementi e prima del sole creato per trasmetterla, appena
creata l’aria la ricevette per diffusione istantanea. Ogni elemento ha una qualità
caratteristica: il fuoco è caldo, l’acqua fredda, l’aria umida, la terra secca. Non si presentano
mai nella loro purezza originale, ciascuno di essi può mescolarsi con gli altri,
quest’armonia/concordia degli elementi rende possibile le loro combinazioni che
costituiscono la struttura stessa dell’ordine universale.
Nella sua opera vi sono nozioni su animali e piante prese spesso da Eliano, Oppiano,
Aristotele o da favole, ma è esente dalla tendenza più tardi troppo diffusa di vedere in
ciascun animale il tipo allegorico di qualche verità morale (di chi si rifà al Physiologus di un
ignoto autore originario di Alessandria, fonte di tutti i “bestiari moraleggianti”).
San Gregorio di Nissa: 335 circa- morto dopo il 394. Fratello di San Basilio si è formato
sotto la sua direzione, per avendo subito fortemente la sua influenza è un pensatore
fortemente originale e personale. I suoi tre scritti maggiormente significativi:
1. Sulla formazione dell’uomo, conosciuto nel Medioevo come De hominis opificio;
2. Commento sul Cantico dei Cantici e sulle otto Beatitudini (eserciterà una profonda
influenza sulla mistica medievale),
3. Dialogo con Macrina sull’anima e l’immortalità.
L’universo si divide in due zone, quella del mondo visibile a cui appartiene il corpo
dell’uomo e quella del mondo invisibile a cui appartiene l’anima. L’uomo occupa la
sommità del mondo visibile, sotto di lui gli animali, i vegetali e infine i corpi inanimati.
L’uomo contiene in sé tutti i gradi della vita: vegeta come le piante, si muove e percepisce
come gli animali e ragiona perché uomo. Non bisogna concepirlo con più anime, la sua
ragione contiene in sé la facoltà di vivere e di servire. La difficoltà è spiegare l’unione di
anima e corpo che Gregorio di Nissa sia risolvibile ma quantomeno chiarificabile.
Per definizione un’anima è il principio animatore di un corpo dunque è una sostanza creata,
vivente e dotata di ragione che per se stessa conferisce vita e sensibilità. Includendo
esplicitamente la ragione nell’anima Gregorio dà la stessa definizione che poi accetterà
Tommaso.
Gregorio respinge la preesistenza dell’anima nel corpo, tesi origeriana che porta alla
trasmigrazione delle anime, che è inaccettabile per un cristiano e contraria alla distinzione
evidente delle specie animali (che qualunque anima possa animare qualunque corpo). Inoltre
se l’anima non esiste prima del corpo non può essere creata dopo questo, se l’esistenza del
corpo come tale implica la presenza dell’anima, esso non può precederla. Bisogna che
anima corpo siano stati creati simultaneamente da Dio, dunque creare quest’unità
corrisponde a creare l’uomo. Si è spiegato chiaramente sullo sviluppo del genere umano: il
germe umano prodotto dal concepimento contiene già in sé, anche se non ancora visibile,
l’uomo nella sua interezza. L’anima, presente sin dall’origine, costruisce progressivamente
il suo corpo e dispiega le sue facoltà via via che gli si dà gli organi necessari al loro
esercizio. I filosofi hanno assegnato all’anima sedi differenti, ma bisogna ammettere che se
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il corpo è vivente in tutte le sue parti così l’anima gli è contemporaneamente presente
dappertutto, la sua presenza e la sua azione si ravvisano in tutte le parti del corpo che sono
organizzate. Gregorio, come poi sosterrà Leibniz, sostiene che legata al corpo l’anima non
se ne separa mai, neanche dopo la morte. Due idee cristiane sembrano aver condotto
Gregorio a questa conclusione:
1.L’uomo è un animale ragionevole perché ha un pensiero (νοΰς) che si esprime con la
parola (λόγος). L’esistenza di questo pensiero si rivela da come l’uomo crea l’ordine intorno
a sé. Per chi inferisce dalle operazioni del mondo un pensiero che lo dirige è naturale
inferire dallo spettacolo dell’universo l’esistenza di un pensiero che l’ha creato e lo dirige.
Si può indifferentemente dire che la prove dell’esistenza di Dio garantisce l’esistenza
dell’anima e che la prova dell’esistenza dell’anima garantisce l’esistenza di Dio.
2.Possediamo un verbo (λόγος) cioè un’espressione razionale del nostro pensiero (νοΰς).
Dio deve essere concepito come dapprima un pensiero supremo che si esprime tramite il
Verbo che genera. Verbo divino, non instabile, eternamente sussistente, dotato di volontà
che essendo divina è sia onnipotente che assolutamente buona. Come la nostra parola
mentale imita la generazione eterna del Verbo, come la sua inseparabilità dal nostro
pensiero indica l’inseparabilità del pensiero dal verbo così il fiato da noi emesso imita il
procedere dello Spirito Santo e come la respirazione procede dall’unità di anima e corpo
così lo Spirito Santo procede contemporaneamente dal Padre e dal Figlio. Dunque la ragione
rende testimonianza della verità del dogma trinitario e la sua superiorità (Ebrei: conoscono
l’unità della natura divina ma ignorano la distinzione delle persone; pagani: hanno
moltiplicato le persone senza conoscere l’unità di questa natura. Tale sforzo per ritrovare
dialetticamente le tre persone della Trinità è stato paragonato (B.Geyer) agli analoghi
tentativi di Sant’Anselmo (sembra comune alle due dottrine un certo platonismo
dell’essenza) e di Riccardo di san Vittore. (es.: Pietro, Paolo, Barnaba tre persone distinte,
ma l’essenza dell’uomo è una. Differenza: il linguaggio ci autorizza a dire che P., P., B.
sono tre uomini, mentre diciamo correttamente che del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo che sono un Dio.
Dio ha prodotto tutto dal nulla, con un atto libero della sua bontà, il fatto che le creature
siano tratte dal nulla le apparenta alla mutabilità. Così l’uomo, fornito del libero arbitrio, ha
scelto il male (o più correttamente “ha scelto male”), così facendosi egli stesso creatore del
male. La conseguenza immediata del peccato: l’immagine brillante di Dio nell’uomo si
coprì di una specie di ruggine (S. Bernardo). Fatti a somiglianza del creatore siamo divenuti
irriconoscibili e questa dissimiglianza dall’anima è ricaduta sul corpo. Dio prevedeva
l’errore, così per perpetrare il genere umano li ha creati uomo e donna, dunque la divisione
dei sessi risulta dalla previsione del peccato, anche se non da questo stesso; altrimenti gli
uomini si sarebbero moltiplicati in modo spirituale. La riproduzione animale è una delle
conseguenze del peccato che il ritorno di Dio cancellerà. Quando questo ritorno avverrà
includerà il corpo stesso. Bisogna comprendere che l’intelligibile è la sostanza stessa di cui
risulta l’apparenza sensibile. Ciò che racconta la Genesi è innanzitutto la creazione degli
intelligibili che sono il fondamento della realtà. Così si capisce che la salvezza deve essere
dell’uomo nella sua interezza. L’opera di salvezza si compirà tramite la grazia, l’uomo si
salva recuperando la somiglianza con Dio, che il peccato non ha distrutto, ma cancellato.
Venuto il male da uno smarrimento dell’amore umano il rimedio sta nel restaurare
quest’intima unione con Dio attraverso l’amore. Il primo momento di questa riunione con
Dio è la fede, poi accompagnata dalla carità che impegna il fedele ad uno sforzo di ascesi
morale il risultato è una purificazione dell’anima con conseguente riavvicinamento a Dio.
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Vi sono tre momenti della riunione dell'uomo con Dio:
1. la fede;
2. la carità, che impegna il fedele alla vita cristiana;
3.risultato dello sforzo: purificazione dell'anima e restaurazione della somiglianza divina.
Non rimane altro che seguire il consiglio socratico: “conosci te stesso, perché conoscersi
come immagine di Dio è conoscere Dio”; (l'essenziale di questa dottrina formerà l'armatura
della teologia mistica di S. Bernardo di Chiaravalle).
L'escatologia di Gregorio di Nissa, fortemente influenzata da Origene rimarrà la parte
caduta della sua opera, preoccupato di risolvere il problema del male ammette che il mondo
purificato ritroverà la sua prima perfezione, senza neanche escludere dannati e demoni (su
questo punto sarà seguito da Giovanni Scoto Eriugena).
Il Medioevo cadrà in molte confusioni scambiando i due Gregorio e/o le loro opere,
attribuendo a questi anche opere non loro, come nel caso del trattato De natura hominis.
Nemesio: vescovo di Emesa, di cui sappiamo solo che è l'autore del De natura hominis e che
forse lo scrisse nel 400. Dà alla scienza della natura umana e in particolare dell'anima un
posto centrale nel complesso dell'umano sapere. La chiama Πρέμνον φυσικόν: “tronco delle
scienze naturali”. La natura stessa dell'uomo spiega il posto centrale della scienza che lo
studia, egli è un microcosmo, è un caso particolare della continuità che si osserva tra
ovunque nella natura che è essa stessa prova dell'esistenza di Dio.
Il posto intermedio che l'uomo occupa definisce il problema del suo destino: diventerà
simile a Dio o si degraderà. Tutto dipende dall'idea che ci si fa di anima: vengono a
contrapporsi la dottrina di Platone per cui l'anima è una sostanza e quella di Aristotele e
Dinarco che negano che lo sia. Dal primo capitolo del suo trattato Nemesio prende il partito
di Platone, sostenendo che l'anima è sostanza incorporea completa in se stessa. Nel
Medioevo l'argomentazione di Nemesio, unita a quella di Macrobio e di Avicenna
(presentandosi sotto l'autorità di Gregorio di Nissa), incoraggerà il platonismo degli
agostiniani contro una concezione aristotelica.
Per chi sostiene che l'anima è forma è difficoltoso spiegare come questa possa sussistere
dopo la morte senza corpo, per chi sostiene che è sostanza il problema sta nello spiegare
come il composto di due sostanze, di cui una autosufficiente possa avere un'unità. Lo stesso
Nemesio si è posto il problema di come sia possibile l'unione dell'anima con il corpo se
questa è già completa (“l'abito non fa uno con chi lo porta”). Per risolverlo si è rifatto ad
Ammonio Sacca, dunque a Plotino stesso: gli intelligibili sono di tale natura che possono
unirsi a i corpi capaci di riceverla pur rimanendone distinti, senza alterarsi.
Si allontana da Aristotele sulla natura dell'anima, ma rimanda a lui per la descrizione del
corpo., accetta la teoria aristotelica dei quattro elementi (pur riportando Timeo a dottrina
stoici). Ritiene che la narrazione biblica non sia interessata a tali controversie, parla solo
della creazione ex nihilo e neanche vi è il termine “materia”.
L'anima possiede tre facoltà: 1.immaginazione, 2.intelletto e 3.la memoria.
1.è una facoltà irrazionale, mossa da qualche immaginabile che è ciò che cade sotto la presa
dell'immaginazione. Si possono produrre immagini alle quali non corrisponde nessun
oggetto (φάντασμα). Si mostra sicuro che strumenti dell'immaginazione sono i ventricoli
anteriori del cervello, gli spiriti animali che vi si trovano e i cinque sensi.
3. facoltà di ritenere e riprodurre i ricordi, la loro riproduzione dopo un periodo di oblio è la
reminiscenza.
Distingue l'anima in una parte razionale ed una irrazionale (con Aristotele). Nemesio si
attiene a Platone affermando che l'anima stessa è l'intelletto. Per lo stesso motivo bisogna
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considerare la parte irrazionale dell'anima semplicemente come una facoltà di questa e non
come un'anima separata. Questa stessa in sé ha due parti, quella che obbedisce alla ragione
che si distingue in appetitiva e irascibile, sede delle passioni (genericamente una passione è
un cambiamento imposto dall'esterno a ciò che lo subisce; le passioni appetitive
fondamentali sono i piaceri e le pene). Nemesio classifica i piaceri, seguendo Epicuro, in
naturali e necessari, naturali ma non necessari e né naturali né necessari. Al di sopra delle
passioni animali le gioie spirituali (piacere: Passione; gioia: è un'azione). Sotto le pene e le
affezioni si trova la parte irrazionale dell'anima che non obbedisce alla ragione.
Azioni (più difficili da definire delle passioni): volontarie il cui principio è interno all'agente
e si accompagna ad una conoscenza dettagliata delle circostanze dell'atto, involontarie il cui
principio è esterno all'agente e spesso si accompagna a ignoranza e alle circostanze. Ciò che
non è entrambi (es. digestione) faroma l acategoria del “non volontario”.
Apollinare: vescovo di Laodicea (morto verso il 392) per interpretare il testo di S. Paolo
(Tess. 5,23) ha ammesso la tripartizione platonica dell'uomo in corpo (σωμα), anima (ψυχή)
e intelletto (πνεΰμα).
L'influenza di Aristotele continua a farsi sentire nell'analisi dell'atto volontario, che
comprende tre momenti : 1 deliberazione della ragione (consilium), giudizio (judicium),
scelta (praeelectio). La stessa scelta è un atto misto nella cui determinazione entrano
contemporaneamente giudizio e desiderio (deliberazione che desidera/desiderio deliberato),
tale deliberazione poggia sugli sui mezzi per conseguire il desiderio, non sul desiderio in sé.
È la ragione che delibera, dunque essa è la radice della libertà. Dunque l'uomo sostiene la
responsabilità di una vita che dipende da lui. Nel Medioevo garantito dall'autorità di
Gregorio di Nissa il Πρέμνον φυσικόν e Nyssenus, cioè Nemesio fu frequentemente
ripreso (molto da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino); vi si vede il pensiero cristiano
mutuare una metafisica da Platone e una scienza da Aristotele.
V secolo: periodo di forte curiosità intellettuale e scambi tra culture diverse, in cui sono
prodotti scritti originali e molto diversi tra loro.
Omelie: raccolta di queste attribuita a Macario d'Egitto (morto nel 395), ma che oggi si
datano al 420, dunque non sue. Il suo autore era materialista, nessuna differenza tra angeli,
corpi, anime se non la sottigliezza di materia. Unica eccezione a ciò Dio, per il resto la sua
fisica era quella di uno stoico, eppure ha sviluppato una mistica della somiglianza divina
nell'anima.
Sinesio: scolaro di Ipazia, con la quale rimase sempre in termini di amicizia, convertitosi al
cristianesimo dal neoplatonismo. Però quando Teofilo, patriarca di Alessandria, gli offrì nel
409 di divenire vescovo di Tolemaide rifiutò dicendo di non voler essere un vescovo
popolare e di essere un filosofo.
Inni – Lettere: dimostrano ch'era tale; si evince ch'era fortemente influenzato da Plotino.
Definisce Dio come la monade delle monadi, trascendente l'opposizione dei contrari, uno e
trino, da lui nascono gli spiriti e ognuno deve fare uno sforzo per liberarsi dalla materia,
dopo esservi disceso, e risalire verso Dio.
Teodoreto: 386-458, arcivescovo di Ciro.
Guarigione dalle malattie greche, o scoperta della verità evangelica partendo dalla filosofia
greca: composta tra 429-437, si rifece a Eusebio. Si tratta per gli uomini di cultura greca di
giustificarsi di credere nell'insegnamento dei Vangeli e dei Profeti. Opera in dodici libri, i
primi sei più interessanti dal punto di vista filosofico. Gli avversari della fede sono saccenti
che in realtà sanno ben poco di filosofia, Teodoreto tanta di guarirli con l'esempio dei veri
filosofi (Socrate, Platone, Porfirio). Sottolinea che gli scolari condivisero la fede nella
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dottrina dei loro maestri perché fede e sapere sono inseparabili, la credenza precede la
conoscenza e la conoscenza la accompagna. Mostra che dai migliori tra i filosofi son ostate
presentite molte delle verità cristiane. Il migliore è Platone che ha insegnato l'esistenza di un
solo Dio contro il politeismo del suo tempo. Numenio concorda con il detto di Eusebio: “
che cos'è Platone se non un Mosè che parla greco?”.
Tutto questo trattato mette costantemente a profitto gli “Stromata” di Clemente
Alessandrino e la “Preparazione evangelica” di Eusebio e chiude la serie di apologie scritte
da cristiani per convincere i pagani.
5.Da Dionigi a Giovanni Damasceno:
Corpus Areopagiticum: una delle fonti più importanti del pensiero medievale. Comprende
“Della gerarchia celeste”, “Della gerarchia ecclesiastica”, “Dei nomi divini”, “Teologia
mistica” e dieci Lettere. L'autore si presenta come discepolo di S. Paolo e fornisce
particolari che palesano la sua intenzione di presentarsi come discepolo degli Apostoli.
Portando il nome Dionigi lo si è identificato con un membro dell'Areopago convertitosi
dopo la predicazione di S. Paolo. Tali scritti compaiono dal 532 in appoggio alle tesi di
questi, rifiutati come apocrifi dai Cattolici.
Per com'è attualmente composto contiene frammenti presi da Proclo (411-485), dunque
deve essere stato composto tra fine IV secolo e inizio V; per sottolineare il suo carattere
apocrifo si è presa l'usanza di chiamare l'autore “Pseudo Dionigi”., ma non si sa neanche se
si chiamasse così. L'opera è priva di controversie. Gli interessava più esporre la verità
cristiana che confutare i Greci.
VII lettera: dice che per conto suo non ha mai discusso contro quelli che sono nell'errore,
persuaso che il solo modo per distruggerlo è stabilire la verità.
Dei nomi divini: il trattato più ricco di dati filosofici giuntoci sotto il suo nome.
Continuazione di “I fondamenti teologici” di cui parla più volte ma non ci sono pervenuti.
Un'opera essenzialmente teologica, partendo dal fatto che la Scrittura attribuisce nomi
multipli a Dio si chiede in che misura è legittimo attribuirglieli. Problema più volte ripreso
(da Tommaso, Alessandro di Hales). L'idea è quella di non dire né pensare altro che quello
contenuto nelle Sacre Scritture e da esse garantito, perché solo Dio si conosce. Decifrando
la creazione alla luce delle Scritture si conosce Dio come causa, si restaura in se stessi la
somiglianza divina cancellata. Per aiutarci in ciò le Scritture danno a Dio i nomi di cui fanno
uso, tuttavia non sono adatti alla nostra condizione e nascondono l'intelligibile sotto il
sensibile. Dio è assolutamente incomprensibile ai sensi della ragione (“I fondamenti
teologici”). I fedeli ne parlano secondo i nomi delle Scritture (teologia affermativa), ma gli
illuminati capaci di andare al di là della lettera parlano di Dio per negazione (teologia
negativa) che è la cosa più giusta. Questi possono conciliarsi in un terzo atteggiamento che
è quello di dire che Dio merita ciascuno di questi modi in un senso inconcepibile per la
ragione umana (teologia superlativa). Doveva agire sulla speculazione teologica e filosofica
per il suo porsi come intermedio. Dio vi si presenta prima come Bene e come tale Egli crea
(assomiglia all'idea del Bene descritta da Platone nella Repubblica; paragone alla luce/sole).
La luce divina e l'essere che essa costituisce si trasmettono attraverso una cascata di luce i
cui gradi sono descritti nei trattati: “Della gerarchia celeste” e “Della gerarchia
ecclesiastica”. Illuminazione che deve essere concepita come lo stesso essere delle creature.
La creazione è l' effetto di una rivelazione di Dio nelle sue opere. Il mondo è una “teofania”
che sola ci permette di conoscere il suo autore. Si dirà che Dio è Bene, poi lo si negherà, ma
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questa negazione diverrà a sua volta un'affermazione perché Dio è l'”iper-Bene”. Lo stesso
metodo si applica a tutti gli altri nomi divini.
Dionigi sente di dover giustificare il fatto di attribuire il nome di Amore a Dio, insiste sul
diritto di poterlo fare, designa il movimento di carità di Dio. Sotto questo aspetto
l'illuminazione universale appare più come un'immensa circolazione di amore. L'amore è la
forza che trae gli uomini fuori di sé così che possano tornare a Dio ( si esprime dicendo che
l'amore è ex-statico).La divinizzazioneè il suo effetto in questa vita e il fine nell'altra.
Il male è non essere, l'apparenza di realtà che dà è dovuta al fatto che offre un'apparenza di
bene. Dio non lo causa, ma lo tollera per non violentare la libertà.
Il giusto giudizio di Dio: scritto andato perduto in cui dimostrava che un Dio perfettamente
buono può punire i malvagi perché loro lo sono di loro spontanea volontà.
Il nome che meno male gli si addice è l'Essere, in tale senso si può dire che è l'essere di tutto
ciò che esiste. Tutte le forme di partecipazine considerate in Dio sono uno, come i raggi di
un cerchio nel loro centro. Questi modelli divni si dicono “tipi” o “esemplari”, sono il
prototipo di tutte le loro forma di partecipazione. Dionigi subordina le idee divine a Dio
(mentre Agostino, Anselmo, Bonaventure e Tommaso le identificano con Dio: Eriugena
invece vi cadrà). Dicendo che Dio è l'essere non dimentica che si tratta sempre solo di un
“nome divino”. È perché le idee stesse sono forme di partecipazione all'essere che tutto ciò
che partecipa delle idee comporta questa partecipazione all'essere come fondamento della
struttura ontologica. Dio produce l'essere come sua prima partecipazione dunque questo
partecipa dell'essere, ma non Dio dell'essere. Tornando alle idee di Plotino e Proclo Dionigi
chiama Dio come l'Uno dal momento che contiene tutto in sé in un'unità pura, il molteplice
non può esistere senza l'Uno, ma l'Uno può esistere senza il molteplice, dunque Dio essendo
Uno è perfetto. Quanto all'unità che è Dio e nella sua incomprensibile trinità essa è
prinicipio e fine di tutte le cose.
Eppure Dio non è la sola unità e nemmeno la sola trinità, Dio è senza nome. Bisogna avere
l'ignoranza mistica cioè essere consapevoli di ignorarciò che Lui è e che non è possibile
capirlo essendo Questo al di là di ogni determinazione (affermazione/negazione che sia). Il
pensiero di Dionigi eserciterà un forte fascino sul pensiero del Medioevo, sarà ripreso da
più , i primi dubbi a proposito furono sollevati da Lorenzo Valla e Erasmo, tradotto in latino
da Ilduino e poi Scoto Eriugena nel IX secolo, che lo seguiranno il più possibile mentre Ugo
di san Vittore, Grossatesta, Tommaso Gallo, d'Aquino e altri cercheranno di sfrondarlo e
interpretarlo nel senso di una giusta ortodossia.
Teologia mistica: breve trattato in cui ha dato esempio di teologia negativa. L'ultimo
capitolo è formato da una serie di negazioni e di negazioni di negazioni perché Dio è al di là
delle negazioni e delle affermazioni.
Massimo il Confessore/di Crispoli: 580-662, commentatore di Dionigi che l'alto Medioevo
non disgiungerà mai dall'opera di questo. Ci sono giunti scritti di esegesi, controversie
teologiche e di liturgia.
De Anima: breve trattato, contiene commenti teologici e un libro di commenti teologici la
cui importanza è relativa alla storia della filosofia medievale: “Intorno ad alcuni passi
particolarmente difficili di Dionigi e Gregorio di Nissa”, che il Medioevo conoscerà cn il
nome di “Ambigua” tradotto da Scoto Eriugena. Secondo questa Dio è la pura monade, non
unità numerica che per addizione genera i numeri, ma la fonte. La monade è il principio del
movimento , che non è psichico, ma quello della divinità che è la conoscenza con la quale il
suo essere e il come si manifestano. Il primo movimento della monade dà vita alla Diade
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con la generazione del Verbo che è la sua manifestazione totale, superata la Diade
producendo la Triade, con la processione dello Spirito Santo. Al primo movimento succede
il secondo che consiste nell'uscire di Dio fuori di sé in esseri che non sono Dio. Il Verbo
contiene eternamente in sé l'essenza, la realtà stessa di tutto ciò che esiste e deve esistere,
non vi è una decisione per ogni essere che appare ma è già tutto deciso, da prima contenuto
nella prescienza, volontà e potenza infinita di Dio. È una manifestazione finita, con la quale
Dio può rivelarsi. È la creazione, ciascuno al posto che gli assegna la propria perfezione, la
maggior parte degli esseri così prodotti non hanno altra storia che quella che gli viene
assegnatagli dalla loro essenza. Per bontà la triade emana queste espressioni che sono le
creature. Alcuni sono capaci di determinare in parte il posto che occuperanno nella
gerarchia, ma anche questo era giàstato determinato. A seconda di come si servono della
loro conoscenza e volontà si impegnano sulla via della virtù o del vizio.
L'uomo fa parte di questi esseri che tramite la loro libera volontà si volersi più o meno simili
a Dio possono esserlo, fatto di un corpo perituro e di un'anima immateriale. L'anima
razionale coesiste con il corpo sin dal momento in cui questo viene concepito come
embrione (dunque non si più d'accordo con Origene nel dire che l'anima esiste prima del
corpo). L'uomo creato di anima e corpo con la sua conoscenza avrebbe dovuto raccogliere il
molteplice nell'unità della sua conoscenza e di riunirlo a Dio. Ha fatto il contrario: a
disperso ciò che era uno volgendosi dalla conoscenza di Dio alla conoscenza delle cose,
dissolvendosi nel molteplice è quasi giunto a ricadere nel non-essere. In quel momento
Colui che è sempre immobile si è posto in movimento per ricreare la natura decaduta, s'è
fatto uom oenella persona di Cristo ha riparato la rottura ricongiungendo in lui le nature di
corpo e spirito. Infatti Cristo ha preso tutto dell'uomo, tranne il peccato, per liberarci dal
peccato. Il ricongiungimento della natura umana alla natura divina è la redenzione
dell'uomo. Il termine di ogni nostra agitazione deve essere l'immobilità di Dio. Il
movimento di uno spirito consiste ne conoscere, muoversi verso Dio è impegnarsi a
conoscerlo. Conoscendolo non può non amarlo e amndolo è tratto fuori di sé ed entra come
in estasi, come aria illuminata dalla totale presenza della luce. Muovendosi così verso Dioon
fa altro che risalire verso l'idea di se stesso che, come causa, non ha mai cessato di esistere
in Dio. Ogni uomo è veramente parte di Dio, nel senso che la sua essenza preesiste in lui..
l'estasi è un momento precorritore dell'eternità futura in cui si effettuerà la divinizzazione di
tutte le cose. Massimo prevede già il giorno in cui l'universo ritornerà così verso la sua
causa, infatti l'uomo è centro e nodo di tutte le creature create a causa del quale è avvenuta
la defezione. Scomparirà la distinzione tra i sessi, la terra subirà una metamorfosi.
La sintesi di ciò che il pensiero cristiano poteva conservare della dottrina di Origene diverrà
cornice della dottrina di Scoto Eriugena, traduttore di Massimo e Dionigi.
Queste vaste sintesi neoplatoniche sono i più originali monumenti della patristica greca.
Giovanni Filopono (Johannes Grammaticus): prima metà del Vi secolo, ebbe il carattere
originale all'epoca di essere contemporaneamente cristiano e commentatore di Aristotele. I
suoi commentari su diversi scritti di Aristotele saranno conosciuti nel Medioevo solo in
parte e tardivamente; Guglielmo di Moerbeke tradurrà le parti essenziali del commentario
sul De Anima libro III, nel 1268, cioè in tempo perché potesse consultarlo Tommaso
d'Aquino che vi troverà la conferma dell'interpretazione che lui stesso sosterrà contro
Averroè (questione dell'unità/molteplicità degli intelletti umani).
Per Filopono tutti gli interpreti concordano sul fatto che ogni uomo possiede un proprio
intelletto possibile, ma sono divisi a proposito dell'intelletto agente. Sono state proposte
quattro differenti soluzioni:
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1.l'intelletto agente è universale, essendo il divino creatore, l'intelletto umano non può
essere essenzialmente atto dal momento che a volte è anche potenza;
2.l'intelletto agente è un essere inferiore a Dio e superiore all'uomo (demiurgo) che ci
illumina proporzionalmente alla nostra natura;
3.il principio della conoscenza intellettiva è nell'anima stessa, Aristotele attribuisce due
intelletti ad ognuno, uno possibile sempre presente in ciascun anima, l'altro agente che vi si
introduce esternamente a intermittenza;
4. la vera interpretazione di Aristotele: ogni uomo possiede il proprio intelletto che è il
medesimo intelletto ora in atto ora in potenza; questa permette di sostenere l'immortalità
dell'anima razionale.
Filopono si distacca da Alessandro d'Afrodisia come i cristiani del XIII secolo si
distaccheranno da Averroè.
Nel commentario alla Fisica (517) si oppone alla dottrina di Aristotele secondo cui l'urto
trasmesso all'aria da chi lancia il proiettile conserva il movimento del proiettile dicendo che
chi lancia il proiettile trasmette una forza motrice a questo ed è quella che continua poi a
muoverlo.
Giovanni di Damasco/ Damasceno: ultimo grande nome della patristica greca, morto nel
749.
la fonte della conoscenza: la sua opera fondamentale. Contiene un'introduzione filosofica,
una breve storia delle eresie e una raccolta di testi presi dai predecessori, disposti in ordine
sistematico sulle verità fondamentali della rivelazione cristiana. Quest'ultima parte, tradotta
nel 1151 da Burgundio di Pisa (traduttore di Nemesio)sarà il modello per le Sentenze di Pier
Lombardo e nel XIII secolo spesso citata come “De fide orthodoxa”.
Ha costruito una raccolta di nozioni di filosofi che potevano essere utili per i teologi.
Dall'inizio afferma che non vi è un uomo in cui dall'inizio si è inserita la conoscenza che
Dio esiste, non innata ma testimoniata dalla creazione. Dal III capitolo comincia una
dimostrazione di Dio perché pur avendone conoscenza la malizia di satana l'ha tanto
oscurato da dar dire allo stolto che Dio non esiste.
1°:argomento: mette in pratica il principio paolino secondo cui Dio è conoscibile tramite le
creature: essendo mutevole tutto, tutto è stato creato dunque deve esistere un creatore.
2°: tratto dalla conservazione e dal governo delle cose;
3°: l'ordine e la distribuzione delle cose no possono risultare dal caso (contro Epicuro).
Che Dio esista è manifesto, ma cosa Egli sia è assolutamente inafferrabile e sconosciuto.
Tutto ciò che si può capire è che egli è infinito e dunque inconoscibile. Come il Bene di
Platone, il Dio di Damasceno è al di là della conoscenza perché è al di là dell'essenza.
Interpreta “Io sono colui che è (όών; Esodo 5,14) come “colui che possiede e raduna in sé la
totalità, infinito e illimitato”. Il De fide orthodoxa per il suo schema d'insieme che
comprende più argomenti ha un andamento scolastico. È uno dei più grandi intermediari tra
la cultura dei Padri greci e la cultura latina dei teologi occidentali del Medioevo: i capitoli
22-28 sulla volontà, distinzione tra volontario e non volontario, il libero arbitrio hanno
trasmesso molte nozioni al Medioevo.
La patristica greca, pur avendo accettato anche elementi di provenienza stoica e aristotelica,
sono stati principalmente e fortemente influenzati da Platone, tanto che si parla di
“platonismo dei Padri”. Il problema oltrepassa la stessa patristica greca, dal momento che si
pone anche per Agostino.bisogna sempre tenere presente che i Padri della Chiesa furono
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essenzialmente cristiani, per loro né il dogma, né la verità di fede dipendono in alcun modo
dalla filosofia.
La formula “platonismo dei Padri” resta legittima in un altro senso: in questo periodo
Platone raccolse tra tutti i filosofi i maggiori e più importanti suffragi perché la sua filosofia
era ispirata da un tale amore per la verità e la realtà divina che difficilmente
s'immaginerebbe una filosofia, che senza essere una religione, è così vicina ad esserlo. Nel
XII secolo Abelardo e molti della scuola di Chartres si applicheranno a sottolineare le
concordanze tra platonismo e cristianesimo. Sant'Agostino l'ha avvertito profondamente.
Durante questo lavoro di assimilazione si sono verificati degli errori, tanto più facilmente
perché lo stesso dogma cristiano stava allora formulandosi.
II.I Padri latini e la filosofia:
Soltanto verso la metà del III secolo, quando il latino sostituirà il greco come lingua
liturgica della comunità cristiana di Roma, si troverà instaurato definitivamente il suo uso
come lingua letteraria cristiana.
1.Dagli apologisti a sant'Ambrogio:
Tertulliano: nato a Cartagine verso il 160, lì si convertì al cristianesimo verso il 190, fu
ordinato sacerdote, combatte per la sua fede con parole e scritti ma infine si convertì al
montanismo nel 213, da allora si volse contro il cristianesimo. Insoddisfatto anche dal
montanismo costruì una dottrina fondata sulla sua persona, morì nel 240, la comunità che
portava il suo nome sopravvisse. I tertullianisti avevano una chiesa ancora ai tempi di
Agostino che ebbe la gioia di riconciliarli con il cattolicesimo. Apologeticum, De
praescriptione haereticum, trattato De Anima, le sue opere di maggior interesse per la storia
della filosofia.
Da giurista, più che da filosofo, in base al diritto di prescrizione del diritto romano “longae
praescriptionis possessio”, applicandolo alle Scritture regola il problema del diritto
esclusivo del cristianesimo di interpretarle. Ha ricondotto il problema sulla via della
tradizione. Prende il cristianesimo come un tutto che si impone agli individui come semplice
fede, a maggior ragione le interpretazioni metafisiche degli gnostici sono inaccetabili. Si è
cristiani per la fede nella parola di Cristo. Tertulliano si impegna in un atteggiamento di
opposizione radicale contro la filosofia, facendola colpevole del moltiplicarsi delle sette
gnostiche. Il più illetterato dei cristiani se possiede la fede ha già trovato Dio, invece lo
stesso Platone dichiara che no né facile scoprire l'artefice dell'universo. È vero che vi sono
dottrine filosofiche simili a quella cristiana, ma per caso, come marinai sbattuti dalla
tempesta trovano alla cieca un porto. L'antifilosofismo di Tertulliano trova le sue più celebri
formule svilupandosi in antirazionalismo: riprende S. Paolo ( I Cor. 1, 18-25) rafforzandone
l'idea: “che il figlio di Dio sia morto è veramente credibile perché assurdo. E che, sepolto,
sia risuscitato, è certo perché è impossibile” ( V capitolo del “ De carne Christi). I posteri
hanno sintetizzato il suo atteggiamento nella formula lapidari: “ Credo quia absurdum”, ma
non si sa se intenderlo come “bisogna crederlo perché la fede si appoggia
sull'incomprensibile” o “l'assurdità del dogma raccomanda l acredibilità della fede” alla
lettera.
La filosofia del Medioevo si definisce in contrapposizione al “credo quia absurdum”, e
viene a configurarsi sul/come “ CREDO UT INTELLIGAM, INTELLIGO UT CREDAM”.
Detestava la filosofia ed ogni volta che si è cimentato in questo campo l'ha usata
erratamente, almeno in quanto cristiano. Trattando della natura dell'anima si esprime come
un materialista e pensa come uno stoico, la considera un corpo tenue e sottilissimo con tre
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dimensioni. Si espande attraverso tutto il corpo di cui prende la forma, la trasmissione
dell'anima, dopo Adamo, avviene dai genitori ai figli al momento del concepimento, così si
è trasmesso il peccato originale sia la somiglianza a Dio (perciò si può dire che l'anima di
ogni uomo è naturalmente cristiana). L'anima è l'uomo interiore di cui parla S. Paolo, di cui
il corpo, uomo esteriore, è l'involucro.
De testimonio animae: trattato in cui cerca il “testimonium animae naturaliter christianae”
nel linguaggio naturale in cui gli appelli spontanei a Dio sembrano testimoniare la
conoscenza confusa che ogni anima ha della sua orgine.
Tutto ciò che esiste è corporeo, Dio esiste, dunque è corporeo, il corpo più tenue e
estremamente brillante tanto da essere invisibile; si sa che è uno, che è naturalmente ragione
e questa in lui fa tutt'uno con il bene. Nel momento di creare Dio generò da se stesso una
sostanza spirituale, il Verbo che sta a Dio come i raggi al sole, è Dio da Dio, Luce da Luce,
scaturisce dal Padre senza diminuirlo ma non è Lui, gli è inferiore (giustificando così il
Verbo crede di provare agli stoici che la loro dottrina del λόγος conferma la verità cristiana.
Lo Spirito Santo si aggiunge al Padre e al Verbo senza rompere l'unità di Dio, come il frutto
fa tutt'uno con il fusto e la radice. La generazione del Verbo non è esattamente eterna poiché
il Padre è vissuto prima e anche senza lui, eppure non si può neanche dire che abbia avuto
luogo nel tempo, è una relazione che non sappiamo esprimere.
Per il suo essere divenuto eretico e poi insoddisfatto di due chiese perché troppo indulgenti
con le esigenze del corpo Tertulliano assomiglia stranamente a Taziano.
Minucio Felice: vissuto tra II e III secolo. Octavius: dialogo di andamento ciceroniano, che
ricorda Giustino. Non si è potuto determinare se la sua opera sia anteriore o posteriore a
quella di Tertulliano, questione che deve la sua importanza al fatto che certamente una delle
due fu certamente fonte dell'altra. Forse Minucio deve alcune delle sue idee a Tertulliano,
ma certamente ha uno spirito completamente diverso (Tertulliano ha difeso vigorosamente
la libertà religiosa DEI CRISTIANI in uno stato pagano, ma forse non avrebbe posto lo
stesso vigore per difendere i pagani in uno stato cristiano). L' Octavius è interessante perché
il suo autore è l'unico tra gli apologisti del III secolo ad aver presentato entrambi gli aspetti
della questione. Fedele all'esempio ciceroniano riporta una conversazione immaginata che
avrebbe avuto luogo in sua presenza ad Ostia, tra il pagano Cecilio Natale e il cristiano
Ottavio. I due principali argomenti contro il cristianesimo sono quelli che avrebbe portato
Cicerone:
1. nel dogmatismo della fede cristiana vi era del fastidioso per un pagano colto, che anche
schiavi e facchini (comunque uomini non colti) avessero la risposta a molti problemi che i
massimi filosofi avevano considerato insolubili. Poi afferma che per un romano era cosa pia
e giusta attenersi al culto degli dei che avevano fato grande Roma.
1.1. a queste obiezioni Ottavio risponde con cortesia affermando che non vi era ragione per
cui la verità debba essere/restare patrimonio di pochi. Mostra che l'ordine del mondo
suppone un ordinatore e che quanto agli dei di Roma, se sono come li figura la mitologia
non possono aver fatto la grandezza dell'impero. Infine rispondendo alle accuse mosse ai
cristiani mostra quanto si a puro il loro culto e come molte loro credenze erano già state
presentite da molti filosofi e poeti pagani.
Allora Cecilio abbraccia la religione di Ottavio; “ci separammo felici […] io per la fede
dell'uno e per la vittoria dell'altro”.
Arnobio: Sicca Veneria 260-327 (attuale Tunisia). Ha insegnato retorica nella sua città
natale fino al 296 quando da avversario di Cristo si proclamò cristiano. Il vescovo di Sicca
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non voleva ammetterlo tra i catecumeni, così scrisse un'apologia della religione che
desiderava abbracciare.
Andversus nationes/Adversus gentes: bisogna tener presente che è principalmente la sua
personale apologia dinanzi al vescovo di Sicca e che in generale un'apologia non è atta a
esporre la fede cristiana. Vuole provare che la sua professione di fede è vera. Aiuta a vedere
cosa un pagano convertito accoglieva inizialmente della nuova religione. Considera Cristo
principalmente un maestro venuto a rivelare la verità sulla natura di Dio e il culto che gli è
dovuto. Il cristianesimo era innanzitutto rivelazione del monoteismo attraverso Cristo che
spiega all'uomo, insieme, la causa e la spiegazione ultima di tutto. Ciò che lo colpisce più di
questa è che è una lezione di umiltà.
In quest'opera si sono notate molte influenze di scetticismo/neo-accademismo, le quali si
spiegano con l'esperienza personale di Arnobio che non poteva dimenticare che si era
prostrato dinanzi ai dei pezzi di legno. Il favore supremo che Dio fa all'uomo è quello di
elevarli dalla falsa religione alla vera e di mostrarci come siamo realmente. L'uomo di
Arnobio non vede ciò che ha sotto gli occhi (poi ripreso da Montaigne, Charron, Pascal), si
tratta più che un'epistemologia di un'osservazione moralista. Arnobio ebbe il merito di
abbozzare i temi principali di un'apologia di questo tipo; il primo tema è sempre stato
l'enumerazione dei problemi per gli spiriti umani (elenco nel II libro dell'Adversus), di cui
però gli sfugge la soluzione. A questo tema segue il punto cruciale di tutta l'argomentazione:
se su questi argomenti non sappiamo nulla, e tuttavia crediamo qualunque cosa, che c'è di
straordinario e ridicolo in un atto di fede? La vita umana poggia su innumerevoli atti di fede
ripetuti, ogni attività degli uomini poggia sulla convinzione che molti avvenimenti non
mancheranno di verificarsi, anche se la ragione umana è incapace di dimostrarlo. Perché i
cristiani non dovrebbero credere in qualcosa? È l'eterna forza e debolezza dell'argomento:
prova che i cristiani non sono gli unici a credere in qualcosa; prova anche, come dimostrerà
Montaigne, che molte credenze umane non sono meno straordinarie meno di quelle dei
cristiani; inoltre è un argomento facile da ritorcere.
Un terzo tema (familiare a quelli a volte chiamati “scettici cristiani”) è quello della
svalutazione dell'uomo e il correlativo elogia degli animali; Arnobio ne fa grande uso.
È persistente l'esitazione dei cristiani ad accettare la definizione aristotelica dell'anima
perché esclude la conseguenza dell'immortalità, e molti saranno più propensi ad accettare la
definizione platonica che invece la implica. Ma tra i primi apologisti cristiani vi è chi ha
posto l'attenzione su un altro problema: in Platone l'immortalità dell'anima è solidale alla
sua preesistenza, così facendone una sostanza spirituale di pieno diritto immortale, un Dio.
Per questo Giustino e Taziano insistono sul fatto che l'anima non è immortale di per sé ma
in quanto lo vuole Dio. Arnobio va oltre: insiste sul fatto che gli uomini non sono anime, ma
animali. L'uomo ha saputo conquistare una certa conoscenza delle cose e dà prova di
ingegno, con grande sforzo e ciò non ha portato le loro anime al cielo.
Arnobio ricorre a una sorta di “esperimento mentale” che sarà ripreso dopo di lui:
immaginiamo un fanciullo allevato nella solitudine tanto quanto si vuole supporre fino
all'età adulta, non saprà nulla. Eppure se avesse ragione Platone (Menone) dovrebbe sapere
da sé ciò che sanno gli altri; non lo si potrà neanche interrogare poiché non sarà in grado di
comprendere. Ciò che si sa lo si sa perché lo si è imparato. (il sensismo francese del XVIII
secolo e il materialismo di La Mettrie gli si rifaranno). Arnobio fermamente convinto della
divinità di Cristo no sembra sappia un granché della Trinità; il Dio supremo di cui parla
sembra sovrintendere a molti altri dei. Di certo non è considerabile un Padre della Chiesa,
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ma la sua opera è altamente istruttiva, anche per le sue lacune, per comprendere quale fosse
la forza d'attrazione del cristianesimo alla fine del III secolo sugli spiriti colti.
Lattanzio: Africa 250- Gallie 317 seguì l'insegnamento di Arnobio a Sicca. Professore di
retorica a Nicomedia; convertito al cristianesimo nel 300, nel 316 incaricato da Costantino
di educare suo figlio. Opere: “Divinae Institutiones” (307-311) rivolta a Costantino, “De
opificio Dei” (305), due trattatti “De ira Dei”, “De mortibus persecutorum” (verso il 314)
stile: eleganza uniforme,che non esclude fermezza.
De mortibus persecutorum: spiega e commenta instancabilmente la verità che ama, con
candido e sempre rinnovato stupore per la fortuna di essere cristiano.
Divinae Institutiones: in sette libri. Contengono un capitolo memorabile sugli antipodi
(III,23) in cui critica coloro che errano, partendo dal falso, pur di argomentare prettamente
logicamente. Secondo cui, vedendo sempre immutato il ciclo sole-luna e alzandosi ogni
giorno, pensano di vivere in circolo dunque la terra sarà tonda e vi saranno uomini che
pendono con la testa in basso e dove la pioggia cade dal basso verso l'alto (antipodi). Questo
lo vede come un esempio della stupidità a cui gli uomini si condannano con la loro stessa
logica, partendo dal falso.
Lattanzio è un testimone della sorpresa che ebbero i pagani nel trovare nella fede cristiana
più razionalità che nella razionalità (per questo Giustino si era fatto cristiano e Ilario di
Poitiers abbraccerà il cristianesimo). Il messaggio di Lattanzio ai suoi contemporanei: cos'è
la felicità se non la conoscenza del vero? E lui la verità l'ha trovata nella fede cristiana.
Rivolgendosi ai pagani del suo tempo pensa ai pagani del passato, Cicerone, Seneca che
quando credono di aver trovato qualcosa si ingannano. Lattanzio cerca la causa di questi
errori: LA PIAGA DEL PENSIERO PAGANO FU IL DIVORZIO DELLA SAPIENZA E
DELLA RELIGIONE. I pagani accettano false religioni per mancanza di sapienza o falsa
sapienza per mancanza di religione. È un nuovo mondo in cui i sacerdoti sono anche filosofi
e e i filosofi si fanno filosofi. Lattanzio sente sia devoluto a lui il compiti di difendere tutta
la verità (compito tutto ciceroniano), ma in ogni questione tecnica e particolare intoppa.
Lattanzi sa che Dio è incomprensibile ed ineffabile, ma con Seneca pensa si sia fatto da sé,
gli attribuisce una figura e una forma e crede abbia proferito oralmente il suo Verbo,
generandolo dal suo pensiero tramite un'emissione di voce. Quanto all'uomo non dubita sia
immortale ma, con Tertulliano, ritiene che il vero uomo si nasconda, invisibile, nel corpo
visibile che lo avvolge con il suo spirito e la sua anima che inizialmente comincia a
descrivere separatamente, ma poi si domanda se siano distinti o meno. Egli stesso non lo sa,
ma si esprime come se li considerasse materiali.
Non ha insegnato in alcun modo il dualismo maniche, ma è stato incline al “ dualismo
subordinato”, cioè ha trovato il diavolo utile a Dio. Per Lattanzio Dio ama la diversità e per
questo ha posto un tormentatore del genere umano, poiché non vi sono vittoriesenza
combattimento, virtù senza ostacolo (ingegnosa, si collega alla definizione che da Faust).
L'apologetica latina ha sofferto di una certa carenza di cultura filosofica. Lattanzio ha potuto
ispirarsi a Platone e a una dottrina religiosa contenuta nell'insieme di trattati oggi chiamati
“Corpus Hermeticum” (una specie di enciclopedia, il cui carattere composito legittimava
anticipatamente l'attribuzione così frequente nel XII-XIIIsecolo dei trattati di alchimia,
magia, astrologia a Ermete Trismegisto. Lattanzio ne conosceva solo i trattati sulle dottrine
religiose, soprattutto quello che chiama λόγοςτέλειος (Discorso perfetto, Sermo perfectus,
verbum perfectum). Nel Medioevo sarà ritenuto opera di Apuleio e chiamato Asclepio.
Prima Lattanzio Arnobio aveva collegato l'insegnamento di Ermete a quelli di Pitagora e
Platone. Definisce la sua testimonianza quasi divina nel punto in cui chiama Dio Signore e
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Padre, come i cristiani. Lattanzio ritrova in Ermete, l'unicità, di Dio, il suo non essere
generato, l'immortalità dell'anima e dati sulla fine del mondo che gli paiono accettabili per i
cristiani.
Sant'Ilario di Poitiers: morto nel 368. Gallo di buona famiglia, di educazione pagana si è
convertito tardi al cristianesimo dopo riflessioni di cui informa nel suo De Trinitate (I, 110). Aspirava alla felicità e la cercava nella virtù ma non capiva come un Dio buono ci
avesse dato la felicità per poi privarcene, questo lo condusse a pensare che Dio doveva
essere di molto differente dalle divinità pagane. Ilario sarebbe arrivato al monoteismo
cercando di risolvere il problema della felicità, prima di prendere contato con le scritture. La
lettura dell'Esodo fu l'inizio della sua conversione, completata dalla lettura del Vangelo di S.
Giovanni: una dottrina in cui Dio s'è incarnato perché l'uomo potesse divenire a pieno titolo
Suo figlio e godere della vita eterna era ciò che cercava.
De Trinitate: composto durante il suo esilio in Frigia, 359-365. Come tutti gli apologisti
latini nota il contrasto tra le opinioni molteplici e contraddittorie degli autori pagani e l'unità
della dottrina cristiana. Riprende il testo dell'Esodo che l'aveva colpito intendendolo nel
senso che “niente più dell'essere è proprio di Dio”. Lega questa concezione di Dio
all'immutabilità: “quello stesso che è non potrebbe avere né inizio né fine” (preludendo a
una tesi fondamentale dell'agostinismo). L'essere puro è di assoluta sufficienza ontologica e
semplicità perfetta (San Tommaso ha messo a profitto tale sorta di deduzione degli attributi
di Dio partendo dalla nozione di “esse”). Ilario sapeva il greco, ma no nsi è lasciato tentare
dalla metafisica.
Sant'Ambrogio: 333-397. Sapeva il greco, aveva studiato a lungo Filone e Origene, ma non
ha mai fatto neanche un minimo approfondimento metafisico, è una delle fonti più
attendibili degli “anti-dialettici” per gli autori del XI e XII secolo; quanto si può ricavare di
nozioni filosofiche nei suoi scritti è comunque incastrato nella formula del dogma. Nel suo
“De fide” e “De incarnatione” si presagiscono le invettive di Pier Damiani contro la
dialettica. Carattere neoplatonico di alcune nozioni che prende in prestito.
Sul salmo 43: del 397. interpreta l' Ego sum qui sum come quia nihil tam proprium Deo
quam semper esse.
De Fide (III, 15): afferma che se “essentia” conviene a Dio è perché significa lo stesso di
“ουσία”, la cui etimologia sarebbe “ουσία αεί”= essere sempre ( nozione di essere che avrà
un importante ruolo nella storia della dottrina cristiana da Agostino.
Exaemeron: serie di nove sermoni sull'opera dei sei giorni fa interpretazioni allegoriche tali
che spesso si allontana dalle Scritture stesse ; si è ispirato a quello di San Basilio. Fiorisce
rigorosamente l'interpretazione morale degli anima in Ambrogio; predecessore Basilio.
Spiega che il serpente è l'immagine del piacere, la donna della sensualità e l'uomo
dell'intelletto (νους) che si fa ingannare dai sensi, il paradiso terrestre è la parte superiore e
direttiva della nostra anima e fiumi che lo bagnano sono la grazia di Dio e le virtù. Per lui,
come per Origene, il fuoco dell'inferno è la tristezza stessa che il peccato genera nell'anima
del colpevole. Nozioni che si ritroveranno nell'opera di Scoto Eriugena legate
all'immaterialismo di questo.
De officiis ministrorum: ispirato a quello di Cicerone si è sforzato di estrarre da questo le
nozioni utili per i chierici come anche per i semplici cristiani; riteneva gli toccasse
“saccheggiare Cicerone” dal momento che anche i filosofi pagani avevano attinto molto
dalle Scritture. Sapeva di trasformare profondamente la morale di Cicerone che era stata
scritta sui doveri dell'uomo nei confronti della città in una morale religiosa dei doveri verso
Dio. La metamorfosi cristiana della morale antica si è fatta sentire fino al XII secolo.
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2.Il platonismo latino del IV secolo:
IV secolo: commento di Macrobio (fine III e inizio IV) al “Somnium Scipionis” e quello di
Calcidio al
In Somnium Scipionis: Macrobio ha composto variazioni filosofiche su un tema trattato da
Cicerone nel IV libro del suo “De republica” in cui attribuisce a Scipione Emiliano il
racconto un sogno: gli appare in sogno il padre, Scipione l'Africano che gli mostra
Cartagine e gli predica la Vittoria e per incitarlo al bene gli rivela che le anime di coloro che
hanno ben servito la patria saranno ricompensate dal Dio supremo dopo la morte con una
vita felice dopo la morte, la via Lattea è la loro dimora. Questo Dio abita la più alta delle
nove sfere celesti la rivoluzione delle quali produce un'armonia che non percepiamo più
perché abituati a questa. L'Africano invita il figlio a volgersi alle cose celesti. La gloria,
anche secolare, non è nulla, il cielo non misura il tempo in anni, ma in “grandi anni” con la
rivoluzione dell'intero cielo. Non è ancora trascorsa la ventesima parte di tale anno, che
l'uomo ha già dimenticato. Bisogna vivere per il cielo: il corpo dell'uomo è mortale, ma la
sua anima ed è rispetto al corpo ciò che Dio è rispetto al mondo, vivrà tanto più felice
quanto più si avvicina all'eterno e si libera dal suo corpo.
Macrobio si richiama dall'inizio a Platone e Plotino, pone il Bene (Τʼαγαθόν), causa prima,
alla sommità della scala degli esseri. Poi viene l'Intelligenza (νους) nata da Dio che contiene
in sé tutte le idee, volgendo si al Bene resta perfettamente simile alla sua origine, volgendosi
verso se stessa produce l'anima, fino all'anima l'unità del primo principio è salva; quest'unità
non è numero ma origine e fonte di tutti i numeri che sono realtà intelligibili attraverso i
quali si spiegano le nature degli esseri. Così l'Uno in se stesso (monade) non è né maschile
né femminile, ma il dispari è maschile e il pari femminile.
Allo stesso modo che i numeri sono contenuti nell'Intelligenza le anime sono nell'Anima,
alcune non se ne distaccano mai, altre cadono facendosi imprigionare nei corpi per il
desiderio della vita terrestre. Potranno liberarsi solo progressivamente e la divisione
dall'unità primitiva diviene reale solo in ragione della ύλη. Durante la caduta per cui
precipiterà in un corpo l'anima attraversa in successione tutte le sfere celesti e così facendo
acquista in ciascuna di esse le facoltà che, una volta incarnata, eserciterà. L'operazione di
crescere e di nutrirsi, la più bassa per l'anima, la più alta di quelle corporali l'uomo la
esercita a costo di un a sorta di suicidio così chiudendosi in un corpo: σωμα: corpo, σημα:
tomba. Anche in un corpo l'anima non è del tutto separata dalla sua fonte grazie all'intelletto
per cui conserva una conoscenza innata del divino. Le virtù vengono all'anima ,dalla fonte
divina da cui è uscita, e si pongono in gerarchia dalle più umili alle più alte, in quattro
gruppi: le virtù politiche che regolano la vita attiva dell'uomo nella città (prudenza, forza,
temperanza, giustizia); le virtù che distaccano l'anima dall'azione e la volgono alla
contemplazione; le virtù di un pensiero già purificato e capace di contemplare; infine le
virtù esemplari che risiedono eternamente nell'intelligenza divina, come modelli e principi
delle nostre.
A questo testo si rifaranno gli agostiniani del XIII secolo per la formula tecnica
dell'”illuminazione delle virtù”, es. Bonaventura. La definizione dell'anima ammessa da
Macrobio è importante perché gli consente di aprirla alle influenze divine. Le due formule
sulle quali si può esitare sono quella di Platone, perché se l'anima è semovente non si vede
perché debba cessare di esistere, e quella di Aristotele, per cui l'anima è atto di un corpo ben
organizzato da cui non consegue necessariamente che debba essere interamente e
eternamente in movimento: la scelta è importante perché decide dell'immortalità dell'anima.
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Timeo di Calcidio: traduzione frammentaria, tramite cui il Medioevo ha conosciuto
quest'opera platonica, oltre che attraverso un frammento della traduzione di Cicerone. Il
commento è ispirato a quello di Posidonio. Fu sicuramente cristiano, afferma che Mosè e il
suo libero della Genesi siano stati ispirati da Dio, fa una precisa allusione alla Natività di
Cristo. Una sua citazione a Origene (morto nel 254), fa datare la sua opera a fine III secolo,
inzio IV.
Calcidio distingue tre primi principi (initia): Dio, la materia e l'idea (Deus et silva et
exemplum). Il Dio Supremo è il Bene Sovrano, al di là di ogni sostanza, incomprensibile,
perfetto, autosufficiente e oggetto di un desiderio universale. Dopo questo viene la
provvidenza , instancabilmente rivolta al bene, che i Greci chiamano Intelletto, da lei
dipende il Destino (fatum), legge divina dalla quale sono retti tutti gli esseri. Questo destino
è doppiamente cristianizzato, prima retto dalla provvidenza e poi rispetta le nature e le
volontà. Natura, Fortuna, Caso e Angeli sono subordinati alla provvidenza e suoi ministri, al
di sopra hanno l'Anima del mondo/ Seconda Intelligenza che vivifica e organizza l'anima
dell'universo. “Al primo posto il Dio supremo origine di tutte le cose, al secondo la
provvidenza legislatore dell'una e dell'altra vita, al terzo la sostanza che si chiama “secondo
pensiero” e “Intelligenza” custode della vita eterna. Le anime razionali che obbediscono alla
legge sono loro sottomesse e hanno come ministri Natura, Fortuna, Caso e demoni. Così Dio
comanda, il secondo fissa l'ordine, il terzo ingiunge e le anime agiscono secondo la legge (a
questa sintesi di Calcidio si rifaranno Bernardo Silvestre in “De mundi universitatae”, e
Giovanni di Meun nel “Roman de la Rose”.
Il mondo è opera di Dio, ma l'uno è nel tempo l'altro al di fuori, il mondo è eterno nelle sue
cause, Dio è eterno nell'aevum (tempo) di cui il tempo non è che un'immagine fuggevole.
Esistono due tipi di esseri, i modelli e le copie. Il mondo dei modelli (exempla) è il mondo
intelligibile; quello delle copie, o immagini (simulacra) è il mondo sensibile (mundus
sensibilis), prodotto a somiglianza del suo modello. Calcidio non esamina quante siano le
idee, risolve, invece, li problema della loro origine: sono le opere proprie di Dio che le
produce comprendendole. Le opere di Dio sono intellezioni, idee per i Greci; il mondo
sensibile è eterno, cioè Dio pensa eternamente le idee di cui il mondo sensibile riproduce
perpetuamente l'immagine nel tempo. Dunque le idee sono tutt'uno con Dio, principi si
riducono a due: Dio e la materia. L'esistenza della materia si può dimostrare per analisi
(resolutio), risalire dai fatti ai loro principi. Noi abbiamo due modi distinti di conoscere: i
sensi e l'intelletto, anche i loro oggetti devono essere distinti in sensibili e intelligibili, gli
ultimi sono anteriori ai primi per natura, i secondi sono più facilmente accessibili. Il metodo
analitico risale dal sensibile alle sue condizioni, è più adatto a dimostrare l'esistenza della
materia.
Oppure si può dimostrare per analisi, ricomponendo progressivamente ciò che abbiamo
separato, rimettendole insieme con l'ordine, l'armonia che hanno nella realtà, saremo
condotti a spiegare questi con la provvidenza la quale non può esserci senza intelletto che
non può esserci senza pensiero. Dunque il pensiero di Dio ha modellato e abbellito tutto ciò
che forma i corpi, le intellezioni del pensiero divino sono le idee, la materia è semplice
senza qualità, per questo è un principio ed è indissolubile. La materia è passiva e
indeterminata nel senso che è possibilità pura. Tra la materia, puro ricettacolo, e le idee, la
forma, vi è il mondo delle cose generato nella materia dalle idee. Queste cose hanno le loro
proprie forme che nascono con i corpi, chiamate “species nativae”/ fomae nativae (da quelli
della scuola di Chartres). L'idea esiste sotto due aspetti: in sé (come forma prima, primaria
species), e nelle cose (secunda species) come forma nata dall'idea eterna. Poi viene la
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materia che ha il suo essere dalla sua forma propria. A questi tre gradi dell'essere
corrispondono tre gradi della conoscenza: comprensibile con l'intelletto, l'idea è oggetto di
scienza; di natura sensibile, la forma nativa è oggetto di opinione; la materia, né intelligibile
né sensibile, non può essere né conosciuta né percepita. Calcidio rifiuta la definizione
aristotelica dell'anima come forma del corpo perché equivarrebbe a farne una forma nativa,
quindi un semplice accidente del corpo, peritura. La vera natura dell'anima è quella di essere
una sostanza spirituale dotata di ragione.
Mario Vittorino: nato nell'Africa proconsolare verso il 300, andò a insegnare retorica a
Roma verso il 340, vi condusse un'attività polemica anticristiana. 355 si convertì, morto
verso il 363, chiamato l'Africano per distinguerlo dai suoi omonimi. Ci resta una piccola
parte delle sue numerose opere. Ci sono pervenuti i suoi commenti alle lettere ai Galati, ai
Filippesi, agli Efesini e i suoi trattati teologici “Sulla generazione del Verbo” e “Contro
Ario” (in 4 libri). Prima della conversione aveva tradotto le Enneadi di Plotino in cui
Agostino doveva scoprire il Neoplatonismo. Diede un contributo alla controversia contro gli
Ariani. Avversario l'ariano Candido gli aveva dedicato “Sulla generazione divina” in cui
sono dedotte tutte le controversie che un vero filosofo incontra nel mistero della generazione
di un Dio da parte di un Dio per l'incompatibilità tra l'essere generato e l'essere essere: se il
Verbo è generato non è l'essere quindi non è Dio (stessa posizione di Eunomio). Ogni
generazione è un cambiamento, ma Dio è immutabile. Dio è sostanza, non la riceve come
non riceve né l'attitudine all'esistenza, né l'esistenza, ma esiste e basta, per la stessa ragione
non deve essere concepito come ciò che riceve l'essere né l'entità. Pone Dio come assoluta
semplicità dell'essere e escludendo ogni possibilità di divenire e generazione. Gesù Cristo,
che è il Verbo, non è generato ma è effetto di un'operazione divina, la prima e principale
opera di Dio. Candido ha configurato un cristianesimo senza misteri, una contraddizione in
termini, permanente tentazione del deismo.
Sulla generazione del Verbo divino: risposta di Mario Vittorino a Candido, oscura e
impacciata. Il suo merito sta nel fatto che ha perseguito quanto poteva la formulazione
filosofica del dogma rispettando questo nettamente. Identifica prima Dio con l’essere, poi
con l’Uno, causa di ogni essere è anteriore all’essere stesso come la causa all’effetto. Da
Dio tutto viene concepito sia per generazione che per produzione. Vittorino distingue tra: 1.
Ciò che è veramente (intellectibilia) ; 2. Ciò che è (intellectualia/ intellettibilie realtà
sopracelesti: intelletto, anima, le virtù, il λόγος; al di sopra esistenzialità, vitalità,
intelligenzialità e al disopra di tutto l’essere soltanto e l’uno che è soltanto essere); 3. Ciò
che non è veramente non essere; 4. Ciò che non è (ultime due concepibili in relazione alle
prime due). Il νοῦς illumina l’anima e fa nascere in lei l’intelligenza; l’anima è sostanza
perché sta sotto il νοῦς e lo Spirito Santo che l’illumina. Ogni essere ha un volto e una
figura nell’esistenza, o la qualità; il senza-figura, senza-volto è il non essere (Vittorino
concepisce non essere= privo di forma), dunque questo a suo modo esiste. Per avere
l’assoluto non-essere bisogna distinguere “ciò che non è veramente” da “ciò che veramente
non è” (aggiungendo così una quita classe). Dio sta al di là delle quattro classi, al di sopra di
tutto è non-essere, ma non puro, che in parte è essere: non essere che per la sua potenza si è
manifestato nell’essere. Dio, manifestazione di ciò che è nascosto, causa delle cose che
sono. Nel “preessere” si nascondeva l’essere generato che il Logos, Gesù Cristo l’essere
anteriore tramite il quale esiste tutto ciò che è. Vittorino oppone a Candido il concetto di un
Verbo, l’essere e manifestazione di questo in Dio Figlio e nascosta in Dio Padre,
eternamente generato dal Padre, il preessere, in tal senso si può dire che Dio è causa in
primo luogo di se stesso, oltre che delle altre cose. Comprendere come il Figlio sia nel Padre
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e il Padre nel Figlio non è possibile, qui subentra la fede. La frattura tra cristianesimo e
Arianesimo: la speculazione che si rinchiude nella fede e quella che rifiuta il mistero.
Traduttore di Plotino ispira alla metafisica di questo la sua teologia configurando Dio come
praeintelligentia, praeexistentia, praeexistens (teoria che fa presagire quelle di Dionigi
l’Areopagita, Massimo il Confessore, Scoto Eriugena e coloro che ritroveranno il pensiero
di Plotino negli scritti di Proclo nel XIVsecolo).
Sant’Agostino: VITA, nato a Tagaste nel 354 (morte: 430), lì fece i suoi primi studi, poi si
recò a Madaura, poi a Cartagine dove studiò lettere e retorica e poi ve le insegnò. La madre
gli aveva insegnato l’amore per Cristo, ma egli non era battezzato e conosceva male la
dottrina cristiana. 373 lesse l’ Hortensius di Cicerone che lo infiammo di un amore per la
sapienza, lo stesso anno si imbatté in dei manichei che si vantavano di dare una spiegazione
puramente razionale del mondo dunque credette di potervi trovare la sapienza che cercava.
Come manicheo tornò a Tagaste, poi a Cartagine, lì compose il suo primo trattato “ De
pulchro et apto”, andato perduto. Uscì dalla setta, andò a Roma nel 383 per insegnarvi
retorica, l’anno dopo grazie al prefetto Simmaco ottenne la cattedra municipale a Milano, l’
seguì le prediche del vescovo Ambrogio che lo colpirono, ma era inizialmente comunque
dubbioso a riguardo. In questo periodo lesse scritti neoplatonici (Ennadi di Vittorino), così
liberato dal materialismo dei Mani aveva, però, ancora difficoltà a confrontarsi con le sue
passioni, a ciò trovò una risposta nelle Epistole di San Paolo. Si baserà sul capitale
neoplatonico raccolto dal 385-386, non lo amplierà mai ma vi attingerà sempre e sempre
meno invecchiando. Basandosi sul fatto che vi dev’essere un lavoro della ragione che
precede l’assenso alle verità di fede, egli stesso fa precedere un intervento della ragione alla
fede per poi poggiarsi su questa: le verità di fede non sono dimostrabili, ma si può
dimostrare che c’è un motivo per crederle.
Si basa su una traduzione, scorretta, che i Settanta avevano fatto di Isaia affermando che:
bisogna accettare le verità rivelate per fede per poi poterne avere, dopo, qualche intelligenza
intellige ut credas, crede ut intelligas (fides quearens intellectum, Sant’Anselmo).
OPERE:
Le prime hanno carattere maggiormente filosofico, quand’ancora era solo catecumeno.
Contra Academicos, De beata vita, De ordine (386); Soliloquia, De immortalitate animae
(387), De musica (387-391).
Si battezzò nel 387, le opere più ricordate del 387-391 quand’è ordinato sacerdote sono:
De quantitate animae (387-388), De Genesi contra Manichaeos (388-390), De libero arbitrio
(388-395), De Magistro (389), De vera religione (389-391), De diversis quaestionibus 83
(389-396).
Divenuto sacerdote:
De utilitate credendi (391-392), De Genesi ad litteram, liber imperfectus (393-394), De
doctrina Christiana (397), Confessioni (400), De Trinitate (400-416), De genesi ad litteram
(fonte principale per lo studio della cosmologia), De Civitate Dei (413-426, teologia della
storia).
Opere essenzialmente religiose:
Enarrationes in Psalmos (391-fine carriera), In Joannis Evangelium (416-417), De anima et
eius origine (419-420), Rittrattazioni (426-427). Vi sono altre opere che sono andate
perdute.
Parte filosofica dell’opera agostiniana: sforzo di una fede che tenta di spingere il più avanti
possibile i cui elementi principali sono ripresi dal neoplatonismo (es. “l’uomo è un’anima
che si serve di un corpo” definizione platonica giustificata nell’”Alcibiade” poi ripresa da
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Plotino). Da cristiano ricorda che l’uomo è unità di anima e corpo, ma quando fa filosofia
ricade nella definizione platonica con le conseguenze logiche che comporta tra cui la
trascendenza gerarchica dell’anima sul corpo. L’anima è unita al corpo tramite l’azione che
utilizza per vivificarlo ma superiore a questo non ne subisce l’influenza (l’inferiore non può
agire sul superiore); le sensazioni sono azioni che l’anima compie, non passioni che subisce,
alcune ci informano sui bisogni del corpo altre sugli oggetti che lo circondano il cui
carattere distintivo è l’instabilità che tradisce una vera mancanza di essere e li esclude da
ogni conoscenza propriamente detta. Infatti conoscere significa apprendere col pensiero un
oggetto che non cambia. L’anima incontra in sé conoscenze di questo tipo che si
apprendono come verità= è la scoperta di una regola da parte del pensiero che vi si
sottomette perché non può essere altrimenti; necessità carattere fondamentale delle verità
puramente intelligibili. La verità delle cose dipende dal loro possedere l’essere. Eppure in
un certo senso tutte le nostre conoscenze derivano dalle sensazioni che non sono stabili, né
necessarie. Dunque non sono gli oggetti sensibili la fonte delle mie conoscenze vere, né
posso essere io altrettanto mutevole e contingente; la verità è, nella ragione, al di sopra della
ragione. C’è nell’uomo qualcosa che supera l’uomo, Dio, vita della nostra vita più interiore
a noi stessi di noi: per questo tute le vie agostiniane verso Dio seguono vie dall’esterno
all’interno e viceversa. Così il Dio di Agostino si presenta come verità contemporaneamente
intima al pensiero e trascendente questo. Tra tutti i nomi (impropri) che gli si possono dare
il più consono è quello di essere, Egli è essere stesso, realtà piena e totale, pienamente
l’esistenza è propria solo a lui dal momento che ogni cosa che cambia non esiste veramente
perché ogni cambiamento comporta una mescolanza di essere e non-essere (essere
veramente= essere sempre nello stesso modo).
De Civitate Dei (VIII II): gli pare che “Colui che è” dell’Esodo corrisponda evidentemente
al “Colui che è immutabile” che Platone chiama l’Essere che è tentato di pensare che il
filosofo abbia conosciuto almeno in parte il AT. Concetto di Dio essentia eserciterà
influenza su sant’Anselmo, Alessandro di Hales e san Bonaventura. Dottrina che fonda la
vera conoscenza sull’illuminazione dell’intelletto da parte del Verbo sarà carattere distintivo
dell’agostinismo medievale.
Agostino aveva una predilezione per l’analisi dei dati della vita interiore e nelle Confessioni
oltre a esprimere questa si vede la sua originalità che sta nella sua formulazione della
Trinità, spiegandola concepisce la natura divina prima delle persone: una sola natura divina
sussiste in tre persone (i Greci avevano fatto il procedimento inverso considerando tre
persone con la stessa natura), Deus non è direttamente il Padre, ma Dio-Trinità, la divinità
che fiorisce senza successione di tempo e di natura, ma con ordine di origine in Padre,
Figlio e Spirito Santo.
De Trinitate: si sforza di concepire la natura di Dio per analogia con l’immagine che il
creatore ha lasciato di sé nelle sue opere, soprattutto nell’anima umana, che è come il Padre
e dal suo essere genera l’intelligenza di se stessa come il Padre il Figlio/Verbo, il rapporto di
questo essere con la sua intelligenza è una vita, come lo Spirito Santo. Essere analogo alla
Trinità significa sì essere somigliante a Dio quanto esserne testimonianza vivente. C’è
qualcosa nell’uomo più profondo dell’uomo, ciò che rimane nel suo pensiero non è che il
segreto inesauribile di Dio stesso (ripr. Da Guglielmo di san Teodorico, Teodorico de
Vrieberg, Maestro Eckhart). La dottrina agostiniana implica l’idea di una creazione che Dio
non ha dispiegato nel tempo, ma non ha avuto che da dirlo e dicendolo lo ha voluto e fatto,
in un istante senza successione di tempo. Il racconto dell’opera dei sei giorni deve essere
letto in modo allegorico, tutti gli essere futuri sono stati prodotti dall’origine con la stessa
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natura ma sotto forma di germi (rationes seminales). Agostino ha concepito la storia del
mondo come uno sviluppo perpetuo che era fin dall’origine e si dispiega nel tempo. Le più
nobili creature di Dio sono angeli, non si sa se questi abbiano corpo; l’uomo, che viene
dopo, composto di corpo e anima per cui il corpo ha forma ed è organizzato. Anche se
influenzato dal neoplatonismo Agostino non ha mai ammesso che la materia sia cattiva, né
che l’anima sia unita al corpo come castigo, piuttosto sottolinea che i rapporti che vi
dovrebbero essere tra anima e corpo sono cambiati per effetto del peccati originale.
Il bene è proporzionale all’essere, dunque il male non può essere considerato come
appartenente all’essere; il male non potrebbe esistere senza la natura decaduta, che in quanto
natura è un bene, su cui si poggia e che non è male in se e per sé, ma a causa del peccato:
principio che spiega il male in un mondo creato da un Dio buono. Quanto al senso morale, il
male vi è solo negli atti delle creature razionali= le colpe morali derivano dal cattivo uso che
l’uomo fa del suo libero arbitrio. La responsabilità è dell’uomo, non di Dio che pur l’ha
creato ma senza il quale l’uomo non potrebbe raggiungere la beatitudine dal momento che è
lui stesso che deve decidere di volgersi al Bene. Il peccato originale, che è trasgressione
della legge divina, ha fatto sì che piuttosto che essere l’anima a reggere il corpo, ciò per cui
è stata creata, è il contrario. Nello stato di decadenza in cui è l’anima non può salvarsi da
sola, il libero arbitrio ha fatto cadere l’uomo, ma non gli basta per rialzarsi, necessità la
grazia. Vi insistette sempre, ancor più con inizio controversie antipelagiane nel 412. La
posizione di Agostino è chiara e stabile: la grazia è necessaria al libero arbitrio dell’uomo
per lottare efficacemente contro la concupiscenza sregolata dal peccato; senza la grazia non
si può conoscere la Legge; la grazia nasce dalla fede, ma la stessa fede è una grazia come un
aiuto concesso da Dio al libero arbitrio. Il potere di usare il bene del libero arbitrio possibile
tramite la grazie è la libertà. Il potere di fare il male è inseparabile dal libero arbitrio
(liberum arbitrium), ma poter non farlo è contrassegno della libertà (libertas). L’uomo
completamente dominato dalla grazia, al punto da non poter più fare il male, è il più libero.
La libertà plenaria è raggiungibile dopo la morte, in vita possiamo avvicinarci a questa; la
caduta è stata un movimento di cupidigia, il ritorno a Dio sarà un movimento di carità che è
amore per colui che merita di essere amato. In termini di conoscenza: lo sforzo della ragione
per volgersi dal sensibile all’intelligibile, dalla scienza (a cui si dedica una “ragione
inferiore”) alla sapienza. Tutti i cristiani possiedono il vero Bene; gli uomini che amano Dio
sono uniti a Lui dall’amore che Gli portano e tra loro per l’amore comune che hanno per
Lui.
De Civitate Dei: Un popolo, una società, è l’insieme degli uomini riuniti nella ricerca e
nell’amore di uno stesso bene, così come vi sono popoli temporali riuniti alla ricerca di beni
temporali e vi sono TUTTI i cristiani, di ogni epoca, ogni luogo, di tutte le lingue uniti dal
loro amore per Dio che formano la “Cittadinanza di Dio” che è mescolata con quella del
mondo/ dei pagani, ma nel giorno del giudizio queste saranno separate. Oggetto dell’opera è
questa teologia della storia, in cui ogni evento significativo nella storia universale
corrisponde ad altrettanti momenti della realizzazione del piano di Dio. Storia attraversata
dal mistero della carità divina la cui espressione è la predestinazione del popolo eletto e dei
giusti; la nostra ragione non capisce perché alcuni saranno salvati e altri no, ma Dio non
condanna senza equità. Opera sintetizzata da San Tommaso d’Aquino in uno sforzo di
“seguire i platonici quanto più la fede cristiana lo consentiva”.
3.Da Boezio a Gregorio Magno:
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio: nato a Roma verso il 470 e morto verso il 525 a
Pavia, studiò prima a Roma e poi ad Atene. Legato al re goto Teodorico, prima console poi
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magister palatii, accusato di cospirazione gli furono confiscati tutti i beni e fu imprigionato e
poi giustiziato e siccome la condanna fu attribuita a motivi religiosi fu considerato martire e
il suo culto confermato nel 1883. La critica moderna aveva messo in dubbio l’autenticità
degli opuscoli teologici che gli sono attribuiti, suoi unici scritti sul cristianesimo, Holder
scoprì nel 1877 un frammento di Cassiodoro che attribuisce a Boezio un “librum de sancta
Trinitate et capta quaedam dogmatica”.
Ogni parte del suo pensiero ha influenzato il Medioevo, in particolare la logica, e la sua
opera è multiforme. OPERE: primo commento all’Isagoge di Porfirio (alle categorie
aristoteliche) tradotta da Vittorino e un secondo alla stessa opera però in sua traduzione;
traduzione e commento alle Categorie di Aristotele; traduzione e due commenti al De
interpretatione, uno per principianti, l’altro per progrediti; traduzioni dei Primi analitici,
Secondi analitici, Argomenti sofistici e Topici; trattati di logica: Introduzione ai sillogismi
categorici, Sul sillogismo categorico, Sul sillogismo ipotetico, De divisione, De differentiis
topicis; un commento ai Topici di Cicerone che ci è giunto incompleto. Boezio fu il maestro
di logica del Medioevo fino a quando non nel XIII secolo l’Organon di Aristotele completo
non fu tradotto e commentato. Da Alcuino alla metà del XII secolo si troverà il gruppo di
scritti che poi sarà chiamato logica vetus. L’opera logica di Abelardo sarà principalmente un
insieme di commenti ai commenti di Boezio. Metà del XII secolo a questi si aggiungono i
Secondi Analitici venendo a formare il nuovo gruppo di opere conosciute con il nome di
logica nova.
Boezio stesso si era assegnato il ruolo di intermediario tra la filosofia greca e il mondo
latino, il suo primo intento era di tradurre tutti i trattati aristotelici, tutti i dialoghi platonici e
di dimostrarne la concordanza; non ha tradotto tutto, ma il messaggio è arrivato.
De consolatione philosophiae: descrive allegoricamente la filosofia definendola e
classificandola in base alle scienze che domina. La filosofia è amore per la sapienza, con cui
si deve intendere una realtà, la sapienza è un pensiero sempre vivente, causa di tutte le cose
che sussiste in se stessa e illumina il pensiero dell’uomo attirandolo a sé. La filosofia come
ricerca della sapienza può essere considerata ricerca di Dio o amore di Dio. Presa come
genere di divide in due specie: teoretica/speculativa (divisa in tante scienze quante sono le
classi degli esseri da studiare) e pratica/attiva. Tre tipi di essere sono oggetto di conoscenza
vera: intellettibili (usato e forgiato da Vittorino; Boezio intende esistono fuori dalla materia,
Dio, gli angeli, forse le anime separate dai corpi) la cui scienza è la teologia, intelligibili
(esseri concepibili dal puro pensiero ma caduti nei corpi)per cui non propone una scienza e i
naturali la cui scienza è la fisiologia/fisica. Quadrivium (quadruplice via per la sapienza):
gruppo di quattro scienze che copre lo studio della natura, aritmetica, geometria, astronomia
e musica. La filosofia pratica a seconda degli oggetti che deve conoscere, quella pratica a
seconda secondo gli atti che si devono compiere e ha tre parti: 1. Che insegna a comportarsi
da soli mediante l’acquisizione delle virtù; 2. Che consiste a far regnare nello stato queste
virtù di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; 3. Presiede all’amministrazione della
società domestica.
Trivium: grammatica, retorica, logica. Per esprimere la conoscenza, non tanto per acquisirla.
Boezio si pone un problema per la logica che considera un’arte per cui non sa se
classificarla come parte della filosofia o come strumento il che gli sembrano conciliabili dal
momento che avendo come oggetto il discernimento del falso e del verosimile ha un suo
oggetto al contempo proprio per il suo oggetto è utile a tutte le altre parti della filosofia
(come la mano che è al contempo parte del corpo e aiuto per tutto il corpo).
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La logica di Boezio è un commento a quella di Aristotele, in cui spesso traspare il desiderio
di interpretarla secondo la filosofia di Platone, spiegato dal fatto che Boezio segue un
commento di Porfirio che spiega le opinioni contrarie che nel XII secolo si affronteranno
sull’oggetto della dottrina di Aristotele. Problema cruciale: natura delle idee
generali/universali; si è parlato molto della filosofia medievale come se si fosse fondata
maggiormente su questo, Cousin ha lanciato questa tesi nella sua Introduzione a Ouvrages
inédits d’Abelard avendo successo. La storia della filosofia scolastica di Hauréau ne ha
subito l’influenza. La controversia ha come punto di partenza un passaggio dell’Isagoge di
Porfirio in cui questo dopo aver detto che tratterà dei generi e delle specie dice che
rimanderà la questione se queste sono sussistenti in sé o solo concezioni della mente,
supponendo che siano realtà si rifiuta momentaneamente di dire se sono corporee o
incorporee e infine supponendo che siano incorporee non esamina se esistono separate dalle
entità sensibili o solo unite a queste (lo fa, da professore, per evitare di porre problemi di
alta metafisica rivolgendosi a principianti). I medievali volevano capire in base a cosa
scegliere Platone o Aristotele ma non li avevano a disposizione fino al XIII secolo.
Due commenti all’Introduzione alle Categorie: Boezio non ha discrezione di Porfirio e in
questa sua opera prevale la risposta di Aristotele. Prima dimostra l’impossibilità che le idee
generali siano sostanze: es. genere animale, specie animale, generi e specie sono per
definizione comuni a gruppi di individui, ciò che è comune a parecchi individui non può
essere esso stesso un individuo; né può il genere appartenere interamente alla specie se
essendo un essere il genere dovrebbe dividersi tra le sue diverse partecipazioni. Se si
suppone, invece, che generi e specie rappresentati dalle nostre idee generali/universali non
sono altro che nozioni della mente cioè supponiamo che niente nella realtà corrisponda alle
idee che noi abbiamo dunque pensandole la nostra mente non pansa nulla: non è possibile,
un pensiero senza oggetto non è un pensiero. Se ogni pensiero ha un oggetto bisogna che gli
universali siano pensieri di qualcosa: così si pone il problema della loro natura. Boezio
mutua la risposta da Alessandro d’Afrodisia: i sensi ci danno le cose in stato di confusione/
composizione, il nostro spirito (animus)capace di separare e ricomporre tali dati estrapola
dai corpi proprietà che si trovano i essi in stato di mescolanza, tra questi i generi e le specie.
O lo spirito li trova in essere incorporei, cioè li trova completamente astratti, o li trova in
esseri corporei ed estrae da questi ciò che hanno di incorporeo. È ciò che noi facciamo
traendo da individui concreti dati nell’esperienza le nozioni astratte di uomo e animale. Non
è pensare ciò che non è, non c’è errore a pensare separato ciò che nella realtà è unito.
L’errore sta nel pensare congiunte cose che non lo sono nella realtà (Aristotele, Metafisica,
libro gamma?/categorie?). Nulla impedisce di considerare separati generi e specie,
sussistono in unione con le cose sensibili, ma li si conosce separatamente dai corpi.
Boezio pone la questione in chiave aristotelica, ma ricordando anche la posizione di Platone,
non risolve il problema (la teoria aristotelica dell’intelletto agente, che dà pieno significato
alla nozione di astrazione spiegando come si possa pensare separatamente ciò che
separatamente non esiste manca nel testo di Boezio). Dice solo che lo spirito preleva dal
sensibile l’intelligibile senza spiegare la natura e la condizione di quest’operazione.
V libro, De consolatione philosophiae: dottrina differente; un essere qualunque, es. l’uomo,
è conosciuto in modi diversi, con i sensi, l’immaginazione, la ragione e l’intelligenza. Il
senso vede una figura nella materia, l’immaginazione si rappresenta la figura senza materia,
la ragione trascende la figura e coglie in generale la specie degli individui, l’intelligenza
vede oltre contemplando la forma semplice in se stessa, in una pura veduta del pensiero.
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Per Boezio la realtà che corrisponde agli universali è quella dell’idea; per lui, come per
Agostino, la sensazione è l’atto attraverso il quale l’anima giudica le passioni subite dal suo
corpo, le impressioni sensibili ci invitano a volgerci verso le idee. Certamente Boezio era
platonico, ma per lui la scienza più alta non è quella dell’intelligibile ma dell’ intellettibile
oggetto del pensiero puro, l’intellettibile per eccellenza è Dio. Di Dio abbiamo una
conoscenza innata come di bene supremo, un essere tale che non si può concepire nulla di
migliore (lo riprenderà S. Anselmo nel suo Monologion). Boezio si basa su questo principio
per stabilirne l’esistenza: l’imperfetto non può essere che una diminuzione dell’imperfetto
dunque per esistere presuppone che esista anche il perfetto, e che l’esistenza di esseri
imperfetti è manifesta dunque non si può dubitare dell’esistenza del perfetto cioè un bene
fonte di tutti i beni. Si potrebbe evitare di dimostrare che il perfetto è Dio, perché se non lo
fosse allora si dovrebbe ammettere un perfetto principio di Dio e a lui anteriore e ammettere
un regresso all’infinito che è assurdo. Dio è il Bene e la beatitudine, in una formula: lo stato
di perfezione che consiste nel possedere tutti i beni. Gli uomini non possono divenire beati
se non partecipando di Dio, causa prima dell’universo Dio sfugge alle determinazioni del
nostro pensiero. Assolutamente perfetto e assolutamente uno il Padre è Dio, il Figlio è Dio e
lo Spirito Santo è Dio, la ragione della loro unità sta nella loro non-differenza (lo userà
Guglielmo di Champeaux per spiegare come l’universale possa essere uno e comune a tutti).
Boezio poi aggiunge che se è perfettamente uno sfugge a tutte le categorie (tesi sviluppata
da Eriugena). Ciò che si può dire di Dio concerne il come amministra il mondo, non tanto
lui, così si parlerà di lui come di colui che esercita su tutto la sua provvidenza, anche
dicendo tutto ciò che di lui può dire comunque l’uomo non l’ha raggiunto. Queste nozioni
teologiche, nel De consolatione philosophiae, si presentano senza l’appoggio delle Scritture
perché è la filosofia che parla. Vi è solo un caso in cui parla del Bene supremo, lib. III pr. 12
in cui cita il Libro della Sapienza VIII 1, che aveva citato anche Agostino a cui Boezio si
rifà anche nel preambolo del suo De Trinitate.
Dopo l’intellettibile che è Dio vi è l’intelligibile che è l’anima; nel commento su Porfirio
dice che le anime sono state unite agli angeli per cui sarebbero dovute preesistere ai corpi.
Stessa dottrina è abbozzata in De cons. ph. Lib. III met. II pr.12 e collegata a quella della
reminiscenza platonica; più tardi Alberto Magno nel De anima lo annovererà tra i sostenitori
della preesistenza dell’anima.
Boezio ha abbozzato la gerarchia delle attività conoscitive senza poi sviluppare
l’argomento, invece ha sviluppato le sue vedute sulla volontà: (nel De consolatione)
sviluppa l’allegoria della Ruota della Fortuna. Gli esseri naturali tendono naturalmente
verso i luoghi naturali dove si preserverà la loro integrità, gli uomini devono farlo con la
volontà, che è sinonimo di libertà. La volontà è libera solo in quanto Dio ha dotato l’uomo
di ragione e della capacità di scegliere, meglio si fa uso della ragione più si è liberi. Dio e le
sostanze intellettibili hanno una conoscenza perfetta, dunque il loro giudizio è infallibile: la
loro libertà quindi è perfetta. Nell’uomo l’anima è più libera quanto più si regola sul
pensiero divino, meno se si volge alla conoscenza delle cose sensibili, è schiava se vuole ciò
che il corpo desidera. La felicità più alta è colere ciò che vuole Dio, amare ciò che ama Dio.
Come conciliare la libertà umana con la previsione dei nostri atti da parte di Dio? Se le
previsioni di Dio sono infallibili o la nostra volontà non può decidere diversamente da come
ha previsto e non sarà libera, o è difettosa l’infallibilità della provvidenza divina: problema
dei futuri contingenti, questione di logica in Aristotele che non insegnava la previsione
divina degli atti umani e poneva un problema ai cristiani. Boezio risponde separando i due
problemi: Dio prevede infallibilmente gli atti e li prevede come liberi, il fatto che siano
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previsti non implica che siano necessitati. Inoltre lo stesso problema è un’illusione poiché
Dio è eterno e come tale vive in un perpetuo presente e ha una conoscenza del mondo
immediata, presente, mentre il mondo dura nel tempo e in questo vi è un prima e un poi.
Egli non prevede, ma provvede, vede eternamente il necessario come necessario e il libero
come libero.
Boezio interpreta in senso morale la mitologia del Fedro e ritiene che fin da questa vita
l’uomo paghi e muti negativamente per le sue colpe. Dopo la psicologia viene la fisiologia/
scienza della natura, nel lib. III del De consolatione: è un riassunto del Timeo commentato
da Calcidio: Dio cedendo alla generosità della sua idea di bene orna di forma ad immagine
delle idee una materia caotica. Scenario cosmologico che non ha nulla di originale, Boezio
ne approfondisce due punti: il rapporto della provvidenza con il destino e la struttura
metafisica degli esseri. Subordina alla provvidenza quello che chiama destino, d’accordo
con Calcidio. L’ordine delle cose considerato nel pensiero ordinatore di Dio è la
provvidenza, considerato come la legge interiore che regola dall’interno il corso delle cose è
il destino. L’una sussiste eternamente, l’altra si svolge con le cosse nel tempo essendo legge
di queste, il destino serve la provvidenza senza derogare la libertà umana. In una serie di
cerchi concentrici in movimento il centro resta immobile e libero.
Riguardo il secondo problema: identifica l’essere con il bene, il non-essere con il male (in
accordo con Platone e S. Agostino). Per ogni cosa che è esiste è la medesima cosa l’essere e
l’essere buono; le cose che sono sostanzialmente buone differiscono dal bene in sé, Boezio
risponde con una formula (diversum est esse et id quod est) il cui significato è che nel
composto c’è diversità tra l’essere è ciò che è, per il fatto di che ogni essere individuale è un
gruppo di accidenti irriducibile ad ogni altro. Formato da questo insieme di determinazioni
collegate “è ciò che è” (id quod est) il quale risulta dalle parti che lo compongono ma non è
queste prese singolarmente; come luogo è anima e corpo non uno solo dei due, così in ogni
parte non è ciò che è. In Dio, per la sua perfetta semplicità, sono tutt’uno il suo essere e ciò
che egli è.
Esse: l’essere è ciò che lega le parti di un composto in un tutto, è l’elemento costitutivo del
tutto. Ogni composto è fatto di elementi determinati da un determinante. L’essere di una
sostanza composta è la forma per cui questa è ciò che essa è.
Ultimo determinato è materia, ultimo determinante è forma: l’uomo si compone di una
materia organizzata in corpo e di un’anima che organizza questa materia in corpo. L’anima
è ciò per cui l’uomo è ciò che è, il suo essere che non è sostanza totale, ma solo una parte
che separatamente non esiste, dunque ciò che è proprio della sostanza composto, il suo esse,
non è/ è solo un “quo est”.
Boezio ha posto il problema del rapporto della sostanza con principio del suo essere
sostanziale (non del rapporto tra essenza e esistenza). Da qui le formule su cui si
soffermeranno molti filosofi nel Medioevo (es.: diversum est esse et id quod est).
Il mondo dei corpi naturali: è un insieme di partecipazioni alle idee divine, ordinate dalla
provvidenza, forme pure e immateriali che non possono unirsi alla materia ma da cui ne
sono venute altre che sono nella materia e formano i corpi. Non forme ma immagini delle
forme propriamente dette che sono le idee di Dio (De Trinitate, cap.II), queste formeimmagini sono quei principi attivi che si dicono nature e che sono le cause interne dei
movimenti dei corpi e delle loro operazioni.
INFLUENZA DI BOEZIO:
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De insitutione musica, De insitutione arithmetica, De geometria (che riproduce quella
di Euclide): manuali scolastici che rappresenteranno a lungo quasi tutto ciò che il
Medioevo saprà su questi argomenti.
- I suoi trattati scientifici hanno alimentato l’insegnamento del Quadrivium.
- Le sue opere di logica hanno tenuto il posto di quelle di Aristotele per secoli.
- Opuscoli: hanno dato l’esempio di una teologia che si costituirebbe come scienza e si
dedurrebbe secondo regole.
- De consolatione philosophiae: presente e operante in tutte le epoche. La sua
composizione letteraria, in parte in versi in parte in prosa, contribuirà al successo del
genere “cantafavole”.
C’è molto di neoplatonismo del pensiero di Boezio, “tutta la sua dottrina è un esempio
classico dell’applicazione dal precetto da egli stesso formulato la fede si può congiungere
alla ragione” (Geyer), anche in ciò Boezio poteva richiamarsi a S. Agostino.
Tradurre, commentare, conciliare e trasmettere era la prima intenzione di Boezio.
Cassiodoro: nato tra il 477 e il 481 e morto verso il 570. Contende con Boezio il titolo di
“ultimo dei romani”. Dopo la carriera politica fondò il monastero di Vivarium in Calabria e
vi si ritirò, lì morì, lì scrisse il suo De anima e le Institutiones divinarum et secularium
litterarum (544).
De anima: ispirato ai trattati di Agostino sullo stesso argomento e al De statu animae
composto da Claudiano Mamerto verso il 468. Se il pensiero cristiano all’origine aveva
scarsa ripugnanza per il materialismo stoico questa tendenza scompare dove vi è l’influenza
di Agostino. Claudiano aveva ammesso che come ogni essere creato l’anima dovesse
rientrare sotto una o più categorie, l’aveva esclusa, però, dalla categoria di quantità, non
concedendole altra grandezza che quella della conoscenza e della virtù. Ugualmente
Cassiodoro afferma la spiritualità dell’anima, sostanza finita perché mutevole e creata,
presenta interamente nel corpo ma immateriale perché capace di conoscere, immortale
perché spirituale e semplice. Questo testo sarà più volte citato, e plagiato.
Institutiones: lib. II spesso utilizzato come manuale nelle scuole monastiche, da solo
costituisce una sorta di enciclopedia di ciò che deve sapere un monaco sulle arti liberali per
studiare e insegnare con profitto le Scritture.
Isidoro di Siviglia: morto nel 636. Opere: Origines, Etymologiae che formano
un’enciclopedia in 20 libri. Isidoro è persuaso che la natura primitiva e l’essenza stessa delle
cose si riconoscono dall’etimologia dei nomi che le designano, se non la si conosce se ne
può inventare una ad propositum, per la necessità della causa. Altre sue opere permettevano
di completare le informazioni sommarie fornite da parecchie parti della sua enciclopedia;
manuali di teologia, una cosmologia, una cosmografia, una meteorologia, una storia
universale e una storia moderna. Studi utili per capire come si è costituito il residuo di
conoscenze generali preso dalla cultura classica latina.
Martino di Bracara: morto nel 580, vescovo moralista che amava Seneca e a lui si ispirò
senza copiarlo, per esempio nei suo De quattuor virtutibus De ira e De paupertate.
L’importanza di queste sta nel fatto che hanno salvato dall’oblio molte nozioni sulla dignità
della vita morale e sul valore assoluto della virtù. Questi modesti scritti conservarono nel
Medioevo il sentimento di un a comunità di cultura che collegava i cristiani a ciò che di
meglio aveva prodotto l’antichità classica.
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Gregorio Magno/ papa Gregorio I: 540-604.ultimo rappresentante dei Padri latini nel VI
secolo, nato da una famiglia patrizia di Roma. Il successo dei suoi scritti è dovuto al perfetto
adattamento ai bisogni della chiesa. Riformatore della liturgia e del canto della chiesa
scrisse un Liber regulae pastoralissui doveri di un pastore cristiano. Dialoghi: 4 libri di
leggende agiografiche; Moralia in Job: commento allegorico alle Scritture dove dominano
problemi di stampo morale; entrambe opere molto lette, citate e usate nel Medioevo.
Gregorio , pur molto influenzati dagli antichi, non si deve immaginare come un umanista:
quando seppe che l’ arcivescovo di Vienna Didiero si era messo a insegnare per il
progredire dell’ignoranza si adirò. Era convinto che lo studio delle arti liberali fosse
indispensabile per comprendere le Scritture ma che non bisognasse studiarle per altro (nel
suo commento a I libro dei Re 5, 30.
Prefazione Moralia in Job: pone il problema di quale sia la regola dell’uso del latino per un
cristiano, spesso dibattuto nel Medioevo, se quella degli scrittori classici o quella che
impone il testo latino della Bibbia, e opta per la seconda.
Il latino cristiano tendeva naturalmente a succedere al latino classico.
4.Chiesa e società:
Il progresso del cristianesimo e lo sviluppo della teologia cristiana in Occidente hanno
provocato nel pensiero degli scrittori cristiano l’elaborazione di dottrine relative alla natura
di questa nuova società che era la chiesa cattolica. La teologia cristiana ha influenzato il
pensiero metafisico su cui ha lasciato un segno l’AT, la chiesa cristiana ha influenzato la
filosofia politica soprattutto il Vangelo e le Epistole si S. Paolo. Il cristianesimo è sorto nel
popolo ebraico nel periodo in cui questo faceva parte dell’impero romano.
Il popolo ebraico: organismo complesso la cui unità non data solo dal legame di sangue
(promessa di Jahvè ad Abramo, pare evidente che la sua posterità sarebbe stato questo
popolo; Gen 17, 3-6) ma anche dalla circoncisione che rappresenta la suggellazione
dell’alleanza di questo con Jahvè. Si riconosce che questo può anche sostituire e dispensare
il legame di sangue. Fin dall’origine il popolo di Dio appare come una società religiosa che
è il risultato di un patto di cui il Signore ha liberamente preso iniziativa.
La promessa fatta ad Abramo e rinnovata ad Isacco per l’obbedienza e la fede del padre
finisce in un vero trattato in cui i diritti e i doveri delle parti contraenti sono accuratamente
specificati. Diritti e doveri che Jahvè aveva riassunto a Mosè di un patto a due da cui sono
esclusi tutti gli altri popoli e tutti gli altri dei. L’unico nome che si adatta a questo tipo di
società, “popolo di sacerdoti” che Dio governa e protegge, è teocrazia.
La storia del popolo d’Israele, fino al tempo dei Profeti, fu quella di un popolo adottato da
Dio, da lui benedetto finché si mostrava fedele, maledetto dal momento in cui si fosse
mostrato infedele; le nazioni nemiche sono state sottomesse e Israele non dovevastringere
con queste alleanza e a ciò tenne fede.
Deuteronomio 26, 18-19: si vede non un Dio scegliere un popolo, ma l’unico vero Dio fare
ciò e formare da questo una società da cui tutti gli altri saranno esclusi. Il primo
atteggiamento del popolo ebraico è stato quello di conquistare gli altri popoli, i Profeti
d’Israele hanno invece predicato una religione più larga e comprensiva, pur non avendola
mai fatta trionfare, il loro ideale indica un progresso sulla via dell’universalismo religioso.
La difficoltà per gli Ebrei consisteva nel concepire una società religiosa in cui il solo legame
sarebbe stato la comune adorazione del vero Dio di cui sarebbero stati chiamati a far parte
tutti gli adoratori di Jahvè a qualunque nazione appartenessero.
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Ciò che caratterizza il pensiero religioso del popolo ebraico, finché fu fedele al culto di
Jahvè, è la sua irriducibile opposizione a qualunque forma di sincretismo.
Via via che veniva più chiaramente concepito il solo vero Dio, perché egli è tale unico
creatore del cielo e della terra, doveva necessariamente ampliare il suo culto a tutti gli
uomini, non solo agli Ebrei. Da ciò nasce il dramma dei Profeti e la loro relativa professione
che il Dio da cui Israele aveva ricevuto una rivelazione esclusiva non era solo Dio degli
Ebrei ma di tutti gli uomini.
Il Dio che ha creato cielo e terra non è un Dio tra gli altri, ma l’unico vero Dio come ha ben
reso Isaia in Isaia 65, 20-23: Israele non perde di vista la sua missione di popolo eletto, in
lui e attraverso di lui che si opererà la salvezza del mondo. Dal libro di Isaia (dice che Egitto
e Assiria conosceranno Dio, lo adoreranno e si uniranno a Israele) è chiaro che la salvezza
voluta da Jahvè è quella di tutte le nazioni; questo è il significato della storia del profeta
Giona e più testimonianze dai Salmi avvalorano questa interpretazione.
Perché l’ideale universalistico non ha subito rimpiazzato il nazionalismo religioso
dell’antica Israele? Perché di fatto l’aspirazione verso una società religiosa universale non
ha escluso la convinzione che questa società dovesse formarsi attorno al popolo ebraico per
le ragioni che Jahvè si era rivelato per rimo a loro, tra loro aveva stabilito la sua dimora, a
lui rivelato la sua legge. In Israele aveva compiuto le meraviglie della sua potenza, niente di
più naturale il concepire Gerusalemme come il centro del culto futuro e in lei tutti i popoli
radunati. Isaia è il profeta che meglio rende il duplice carattere di questa società.
Il popolo ebraico con la sua storia e la sua esistenza stessa è testimone vivente del fatto
religioso che esiste un unico vero Dio e che non ve ne sono altri e che mai vi saranno, così
tutti i popoli che collaborano con Israele si trovano associati all’opera di Dio come
strumenti della volontà di Dio. Dall’apparire della figure del “Servo di Jahvè” la missione
propria di Israele diviene quella di estendere all’intero universo la salvezza di Dio, in cui il
cristianesimo vedrà l’annuncio del Messia diversamente dal “Servo” stesso che se la figura
come la salvezza di Israele in una nuova Gerusalemme che Agostino immagina come la
Città di Dio (non ha perduto i legami temporali con l’AT). Anche nel secondo ciclo di Isaia
il suo universalismo rimane essenzialmente un giudaismo; allargandosi in un imperialismo
religioso il nazionalismo del popolo ebraico si esasperava piuttosto che cambiare natura.
Vi era conflitto tra l’universalismo del fine cui si tendeva e il particolarismo dei mezzi
impiegati per raggiungerlo. La visione suprema dei Profeti è quella di un mondo in cui
regna la pace, ma comunque legata al trionfo temporale di una città su altre.
L’imperialismo d’Israele è differente da tutti gli imperialismi antichi né per il mezzo, né per
la natura religiosa dei motivi che l’ispiravano, ma per la natura particolare che distingue
questi motivi religiosi da tutti gli altri motivi di questo genere.
Il germe dell’universalismo ebraico è il monoteismo ebraico, ma Israele ha confuso la
missione di cui era incaricato, come popolo di sacerdoti, di preparare il regno di Dio, per
Dio, di divenire egli stesso regno di Dio. Il popolo di Israele avrebbe potuto universalizzarsi
solo se fosse rimasto, come alle origini un popolo di sacerdoti.
Conferendo alla tribù di Levi il privilegio del sacerdozio le altre tribù persero il diritto di
identificare la storia temporale del loro popolo con quella della società spirituale degli
adoratori del vero Dio.
Le due sole forme di universalismo che si possono scoprire al di fuori del popolo ebraico
sono quelle di Alessandro Magno e degli stoici, comunque entrambe specificamente
differenti dall’universalismo cristiano. L’universo stoico non è che per metafora un città
perché esso è il un fatto fisico, il tutto stesso le cui parte sono legate necessariamente dalla
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legge contemporaneamente naturale e divina, armonia che dell’universo una sola città ma la
nostra volontà non c’entra nulla. Alessandro Magno non avrebbe fatto altro che appropriarsi
di quest’idea stoica a vantaggio del suo imperialismo militare ( se si leggono Plutarco e
Strabone) dividendo gli uomini in buoni e cattivi piuttosto che in barbari e greci, come il suo
maestro. Bisogna distinguere queste imprese di unire il mondo con la forza dall’ideale di
una società vera e veramente universale fondata sul libero accordo delle intelligenze e delle
volontà.
La discussione che sorgerà tra Pietro e Paolo, tra la chiesa della Sinagoga e la chiesa dei
Gentili mostrano con chiarezza quanto lo spirito ebraico abbia faticato ad accettare
quest’improvviso allargamento di prospettiva. La dottrina cristiana fissa una società che non
è nazionale, né internazionale, né tantomeno sovranazionale, prescinde dalle nazioni, in
conformità con l’insegnamento del Vangelo il regno non è di questo mondo, ma nei cieli.
Gli stoici erano cosmopoliti, i cristiani “uranopoliti”.
L’impero romano aveva assorbito troppo sommariamente troppi popoli diversi per aver
avuto il tempo di assimilarli, i legami, già lenti, si disfecero quando molti di quelli che
vivevano nell’impero fattisi cristiani si videro esclusi da questo e perseguitati. Il Discorso
vero di Celso sottolineò con forza che l’intemporalismo dei cristiani minacciasse l’integrità
dell’impero accusandoli di non interessarsi agli affari pubblici. L’autore ignoto della Lettera
a Diogneto, datata II secolo poco dopo l’opera di Giustino, esprime già l’idea d’un regno dei
cieli interno alla patria terrena e che dall’interno la vivifica, non la sopprime.
Posta dall’origine in un impero che la respingeva la chiesa s’è trincerata nella sua
spiritualità essenziale non rivendicando altro che le funzioni di un’anima che vivificherebbe
il corpo dello Stato. Dal momento della conversione di Costantino la posizione dei cristiani
nell’impero divenne diversa: legato l’impero alla chiesa si è confusa la fedeltà all’uno con la
fedeltà all’altra (es.: S. Ambrogio parla della chiesa come capo del mondo romano e
afferma che l’eresia rompendo la fede verso Dio ha infranto anche la fede verso l’impero;
Epistolae XI 4). Ciò ebbe il termine, nel 410 i Goti alla guida di Alarico invasero Roma e la
saccheggiarono, catastrofe di immane portata tanto per l’impero quanto per la chiesa, fatto
che rappresentava un trionfo per la tesi pagana. Per far fronte alle tesi anti-cristiane
Agostino nel 413 cominciò a scrivere il De Civitate Dei: parla di una città, definita
chiaramente dall’inizio dell’opera, si cui Dio è fondatore, vive quaggiù per la fede, in
pellegrinaggio tra gli empi, la fine del suo pellegrinaggio è il cielo. La Civitas Dei è
provvisoriamente confusa con quella terrena, i cristiani fanno parte di entrambe e per amore
verso Dio si comportano da cittadini irreprensibili, per motivi diversi dai soli cittadini della
città terrestre ma questo non impedisce l’accordo di fatto, nella pratica, delle virtù sociali. I
pagani hanno avuto una certa probità morale, questo aveva fatto la grandezza di Roma, non
c’è ragione per cui le due città non debbano accordarsi. La Città di Dio deve condurre a
quella felicità che tutti cercano e che la città terrestre è incapace di dare, incapacità
testimoniata dai suoi stessi dottori, i filosofi che hanno condotto la loro ricerca con l’aiuto
della sola ragione. Ciò che di vero hanno detto i filosofi lo dicono i profeti ma scevro di
ogni errore. Ciò che nella città terrena non è che una libera opinione nella Città di Dio
diviene rottura del legame dottrinale che costituisce la sua unità. La contrapposizione delle
essenze delle due città non ne esclude né la coabitazione né la collaborazione, sottolinea
Agostino pur distinguendole. Le disgrazie di Roma significano solamente che la felicità non
è di questo mondo. Agostino incita l’imperatore ad adoperarsi per l’espansione della chiesa,
ma non si appoggia più, come Prudenzio, all’impero per il trionfo della chiesa.
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L’espressione “agostinismo politico” può designare tre diversi oggetti:
1. Principio stesso si una società soprannaturale distinta essenzialmente dallo stato ma
con esso compatibile;
2. Conseguenze pratiche tratte poi dallo stesso Agostino da questi stessi principi dopo il
sacco di Roma;
3. Conseguenze pratiche tratte da questi stessi principi da altri pensatori cristiani in
differenti circostanze politiche.
Agostino per parte sua si figura la politica dei cristiani in modo simi le a ciò che descriveva
la Lettera a Diogneto. Agostino chiese ad un sacerdote spagnolo Paolo Orosio di scrivere di
tutte le sventure di cui avevano sofferto in passato i popoli pagani, in questa teologia della
storia afferma che ogni potenza viene da Dio, in primo luogo quella dei re e tanta di
dimostrare che l’impero abbia tratto vantaggio dal divenire cristiano. Ritiene che Dio abbia
destinato l’impero a preparare la pace del mondo e metterla a disposizione di Cristo, con
Prudenzio, ma ritiene anche che l’impero sia stato punito per i suoi errori, con Agostino. Le
Historiae di Orosio arrivano fin quasi il 418, questo quadro della successione
provvidenziale degli imperi resterà sotto gli occhi degli storici del Medioevo; il Bousset sarà
il continuatore di Orosio, più che di Agostino.
Gelasio I: papa dal 492 al 496; fa osservare che l’imperatore è figlio della chiesa, non suo
capo. Comunque ritiene distinti potere temporale e spirituale. Il re è sottomesso al vescovo
nell’ordine spirituale, il vescovo sottomesso al re nell’ordine temporale. Il dualismo che
sostiene Gelasio è collegato alla dottrina che sosterrà Dante nel suo De Monarchia: i due
poteri sono coordinati allo stesso ultimo fine. Quando la Città di Dio viene a confondersi
con la chiesa questa può rivendicare i suoi diritti sul temporale. Nulla fa pensare che
Agostino avesse previsto quest’evoluzione, ma questa senza la sua nuova nozione di corpo
sociale non sarebbe stata possibile.
I Padri della chiesa ripresero da Seneca e da Cicerone certe nozioni relative all’origine dello
Stato, alla sua natura e all’universalità del diritto, ma non hanno avuto una concezione
cristiana dell’origine della società.
5.La cultura patristica latina:
La differenza tra la patristica latina e quella greca è espressione di quella tra le due culture.
Nella letteratura latina la metafisica non è mai stata altro che un argomento di importazione,
ma Roma ha prodotto notevoli moralisti: fatto importante perché dalla letteratura latina ha
origine la cultura dell’alto Medioevo. Questa si era comunque ampiamente dischiusa alle
influenza greca. La più chiara espressione dell’ideale che domina questa cultura si trova
nelle opere di Cicerone. Lui ritiene l’uomo distinto dagli animali per il linguaggio: è un
animale parlante. Chi coltiva l’eloquenza coltiva la propria umanità. Però sia nel De
inventione rhetorica che nel De oratore ha denunciato l’errore di chi pensa di acquisire
l’eloquenza imparando la retorica. Sedotti dal fascino della sapienza gli uomini poi
decideranno di dedicarsi solo a questa, Socrate patriarca di questi disertori e responsabile
del divorzio tra sapienza ed eloquenza. Bisogna reinsegnare ai filosofi ad essere eloquenti e
agli oratori a pensare: il modello deve essere quello del doctus orator, poiché si può essere
filosofi senza essere eloquenti ma non eloquenti senza essere filosofi. Deve essere istruito in
quelle che poi saranno le sette arti liberali del Medioevo: grammatica, retorica,
filosofia/dialettica (trivio) e le matematiche (aritmetica, geometria, musica, astronomia;
quadrivio). A queste ha aggiunto tutte le conoscenze che convengono ad un avvocato e ad
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un oratore politico, i quali devono parlare un po’ di tutto, dunque si richiede all’oratore una
cultura generale che deve andare ad aggiungersi alla conoscenza delle sette arti liberali.
Dopo il trionfo di Giulio Cesare, sotto una dittatura militare, l’eloquenza si trova nelle sue
opere filosofiche. Anche Quintiliano, nella sua Institutio oratoria 93-95, reclama l’alleanza
tra eloquenza e filosofia ma per altri fini, formare un uomo dabbene che sapesse esprimersi
con proprietà. Filosofia: per Cicerone fonte dell’eloquenza; per Quintiliano faceva tutt’uno
con la lettura dei moralisti ed era una questione di educazione più che di insegnamento.
È di grande rilievo il fatto che tutti i Padri della chiesa latina, la cui autorità dominerà il
pensiero del Medioevo, abbiano dapprima subito la formazione intellettuale preconizzata da
Cicerone e codificata da Quintiliano.
Per Agostino la tecnica della cultura classica era ancora buona (Enarrationes in Psalmos; gli
stessi salmi sono poesie), bisognava solo modificarne lo spirito. Il cristiano posto dinanzi al
testo della Scrittura, come il grammatico dinanzi Omero e Virgilio, doveva comprenderlo
per poterlo spiegare e per comprendere il testo si richiedevano tutte le risorse delle arti
liberali. Agostino cita Cicerone esplicitamente descrivendo il tipo di eloquenza e stile che
conviene al cristiano (De doctrina christiana). L’appello di Agostino fu ascoltato: rifare
l’opera di Varrone ad uso dei cristiani sarà l’ambizione dopo che di Isidoro di Siviglia di
Beda, di Rabano Mauro e altri.
Il tipo di cultura trasmessa dai Padri latini al Medioevo era una specie di eloquentia
christiana, eloquenza in senso ciceroniano dove la sapienza cristiana rimpiazza quella dei
filosofi. Questa sopravviverà fino alla metà del XIII secolo, quando si presenteranno
variazioni saranno dovute alle irruzioni di qualche influenza metafisica greca.
III. Dalla rinascenza carolingia al X secolo:
Le origini del movimento filosofico medievale sono legate allo sforzo di Carlomagno per
migliorare la situazione intellettuale e morale dei popoli che governa; l’impero carolingio
amava considerarsi un prolungamento nel tempo dell’antico impero romano. L’impero
romano è morto ma la chiesa cattolica salverà la sua cultura dal disastro imponendola ai
popoli d’Occidente.
1.La trasmissione della cultura latina:
Roma aveva inviato missionari in Gran Bretagna già prima dell’invasione degli
Anglosassoni. I Bretoni furono negligenti nell’insegnare la fede ai Sassoni, di cui Beda
gliene fa una colpa.
Cronaca anglosassone nota nel 596: “Quest’anno il papa Gregorio inviò Agostino in
Bretagna con molti monaci, per predicare agli inglesi la parola di Dio”; Beda racconta il
successo che ebbe dall’inizio: questi sono gli inizi della storia della cultura intellettuale
dell’Europa medievale.
Si imponeva di reclutare un clero indigeno: dal 644 un prete inglese divenne vescovo di East
Anglia, anche il suo successore sarà un anglosassone. Nel 655 un sassone succedette ad
Agostino a Canterbury. Per prima cosa fu necessario insegnare la lingua della chiesa: così
ha avuto inizio l’importazione di un rudimento di cultura latina presso in Inghilterra.
Metà VIII secolo: Roma riteneva utile inviare in Inghilterra dei missionari che fossero anche
delle persone colte. Alla morte del successore di Agostino fu inviato Teodoro, monaco
greco, con l’abate africano Adriano a cui affidò il monastero di Canterbury. I due
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insegnavano oltre alle Scritture anche il greco; la conoscenza del greco cominciò a
diffondersi in Inghilterra, ma non era una conoscenza profonda di questo.
Il monachesimo irlandese ha esercitato un’influenza profonda nell’assetto della vita
religiosa e delle arti sacre.
Adelmo di Malmesbury: 639-709. La sua formazione testimonia che vi era differenza di
impostazione degli studi tra Malmesbury e Canterbury, avendo studiato nella prima arrivato
nella seconda si rese conto di dover ancora imparare tutto. Nella seconda era insegnato il
Diritto Romano, metrica, prosodia, figure retoriche secondo il concetto ciceroniano, quasi
fosse dovuto divenire doctus orator.
Lo spirito che animava questa cultura: Adelmo in una lettera scrive che lo studio delle
lettere profane deve servire da mezzo per comprendere meglio le Sacre Scritture.
Vinfrith: giovane sassone dell’ovest. Studiò a Nursling che lasciò prima per andare in Frisia,
poi a Roma per poi andare in Germania ad evangelizzare, ebbe talmente tanto successo che
papa Gregorio II lo richiamò a Roma nel 722 e lo consacrò primo vescovo dei popoli
germanici. Poi divenne vescovo di Magonza e morì martirizzato nel 758. Nella storia della
chiesa è chiamato “san Bonifacio, apostolo della Germania”.
742 Carlomagno (che nel 747 abdicherà per farsi religioso) lo invitò a riorganizzare la
chiesa nel suo ducato di Austrasia, lui accettò. A riguardo scrisse una lettere all’amico
Zaccaria lamentando che la religione si era persa, vi erano sacerdoti che non sapevano più
battezzare, altri che abitavano con concubine e chi, comunque, non aveva affatto variato il
proprio stile di vita, ma piuttosto aveva continuato a ubriacarsi e uccidere, indifferentemente
pagani o cristiani.
Benedetto Biscop: ministro del re Oswy, quando decise a 25 anni di divenire ministro di
Dio. A Roma conclude i suo studi a tempo del papa Vitaliano. Completa i suoi studi a
Roma; sta due anni nel monastero di Lerins, in cui consegue l’ordine di S. Benedetto.
Accompagnò Teodoro e Adriano a Canterbury, assunse la direzione del monastero di San
Pietro che poi lasciò ad Adriano. Tornò a Roma per la quarta volta, portando con sé molti
libri di cultura religiosa. A Vienna prende altri libri radunati per lui che porta nel
Northumberland dove riceve un terreno dal re Egfrido nelle vicinanze del fiume Were, da
cui il nome del monastero che vi fonda: san Pietro di Wearmouth. Dopo un anno si reca in
Gallia con muratori e vetrai perché possano costruirvi una chiesa. Poi tornò a Roma per la
quinta volta, di lì porta con sé un maestro di canto liturgico e innumerevoli libri d’ogni
specie. Poi ottenne dal re Egfrido altri terreni in cui fondò un altro monastero dedicato a san
Paolo. I due monasteri per lui dovevano costituire un’unica fondazione religiosa.
Tornò a Roma per la sesta volta per portarne indietro paramenti liturgici, reliquie e libri per
il monastero di S. Paolo: questa fu l’origine di Jarrow nella cui biblioteca, formata da
Biscop, si stava per formare l’opera di Beda.
Beda: egli stesso ci garantisce che dobbiamo quest’opera agli sforzi di Biscop. Nato nel
673, morto nel 753. Scrisse un’ampia storia ecclesiastica del popolo anglosassone in latino;
una delle sue fonti è “Storia dei Bretoni” di Gildas che l’aveva scritta nel 547 per raccontare
la conquista e distruzione dei popoli Bretoni da parte dei loro invasori anglosassoni.
Di Beda abbiamo molte altre sue opere, su svariati argomenti (es.: un’enciclopedia analoga
a quella di Isidoro, un computo ecclesiastico, ecc.) oltre la sua storia ecclesiastica.
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In un impero che esisteva solo nominalmente, un’Europa devastata dai Longobardi un
anglosassone non avrebbe dovuto conoscere il latino. La fede di alcuni missionari, la chiesa
ha conquistato l’Inghilterra alla cultura di un impero che non esisteva più.
Il latino si è introdotto in Inghilterra come lingua letteraria e senza distruggere i dialetti
locali, piuttosto aiutandoli a divenire una lingua letteraria scritta.
Il re Alfredo, nel IX secolo, ha dato i primi modelli di una prosa anglosassone traducendo la
Cura pastoralis di Gregorio Magno, la Historia di Paolo Orosio e il De consolatione
philosophiae di Boezio.
L’esistenza di questa cultura anglosassone di origine latina ha la sua importanza dal
momento che la restaurazione delle lettere nell’Europa continentale ha origine da qui.
Alla scuola cattedrale di York, sotto la direzione dell’arcivescovo Egberto, che Alcuino
(730-804) ricevette l’educazione morale e intellettuale che poi porterà in Francia. Da
Alcuino sappiamo che Aelbert, che assistette nell’insegnamento Egberto, insegnava il
Trivium e il Quadrivium. Alcuino gli succedette come maestro nel 778; Carlomagno riuscì a
legarlo a sé, prima provvisoriamente, poi definitivamente dal 793 alla sua morte.
Lo slancio intellettuale dell’Occidente verso la fine del VIII secolo è nato da un pensiero
politico nutrito di preoccupazioni spirituali. Carlomagno riteneva di aver ricevuto da Dio la
sua autorità e di essere da Lui incaricato di condurre il suo popolo sulle vie del Signore.
La condizione morale e intellettuale dell’Occidente al tempo di Carlomagno: la Gallia era
stata incorporata e nell’impero e romanizzata da tempo. La storia della letteratura latina
conosce nomi di molti autori, in vari ambiti, di origine barbarica ma di cultura romana.
Tuttavia la tradizione classica ha subito un tale decadimento durante il V secolo che nel VI
era quasi scomparsa. Le scuole romane sono scomparse, lo testimonia Gregorio di Tours
(580) come anche Fortunato vescovo di Poitiers (530-609), quanto alle scuole cristiane non
vi è né un testo né un fatto su cui si può supporre che abbiano insegnato a quel tempo. Nel
VII secolo la situazione è quasi la medesima, con l’eccezione che Beda testimonia nella sua
storia che il re Sigberto fondò una scuola per istruire la gioventù alle lettera; con scarsissimi
risultati.
Nell’VIII secolo Carlomagno si lamenta che le lettere dei suoi corrispondenti facciano più
onore ai loro sentimenti che al loro stile. Per rimediare a questo stato di cose nel 789 ordinò
di aprire in ogni vescovado e in ogni monastero delle scuole in cui venissero accolti scolari
di condizione e libera e servile in cui gli si insegnasse il salterio, il solfeggio, il canto, il
computo ecclesiastico ( che poteva essere ampliato e comprendere anche tutte le belle lettere
e l’astronomia) e la grammatica. È importante lo spirito della riforma, non tanto il
programma: “ per essere graditi a Dio non bisogna solo vivere bene ma anche parlare bene”.
Pietro di Pisa, che insegnava a Pavia del 767, insegnò il latino a Carlomagno e alla scuola
Palatina dal 777 al 787.
Agobardo, nato nel 768-769, andò a Lione nel 792, 804 ordinato sacerdote, 816
arcivescovo, fu uno dei luminari della chiesa carolingia.
Teodolfo d’Orlèans (morto nell’821): rappresenta il perfetto tipo di letterato dell’epoca
carolingia, anche un uomo di spirito e un poeta latino superiore alla maggior parte dei suoi
contemporanei; ad Alcuino per esempio.
Il ruolo personale di Carlomagno fu decisivo, dalla sua volontà di civilizzare i suoi popoli
cristianizzandoli è partito tutto questo movimento di riforma .
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Alcuino: morì il 19 maggio dell’806 a Tours, anche se sarebbe voluto morire a York. Fu un
missionario e un apostolo, un missionario della cultura latina di York e Jarrow nella Francia
carolingia dove questa cultura è andata perduta. È errato attribuire ad Alcuino un genio di
cui non vi è traccia nelle sue opere, esegeta e teologo di second’ordine, poeta mediocre, non
ci ha lasciato che contributi assai modesti allo studio delle arti liberali. Nel suo unico scritto
di carattere filosofico tratta della natura dell’anima, usando come fonte Agostino ma in
realtà si distanzia da questo, no si rende conto della portata filosofica di ciò che riprende
(che l’uomo è un’anima che si serve di un corpo). La grandezza di Alcuino sta nella sua
personalità e nella sua opera di civilizzatrice, piuttosto che nella sua opera. L’ostacolo
principale alla sua opera di missionario era la mancanza di libri, di cui scrive anche a
Carlomagno in una lettera. L’ambizione di Alcuino è stata quella di edificare in Francia una
nuova Atene nobilitata rispetto quell’antica dall’insegnamento di Cristo nostro Signore.
Il Medioevo non l’ha mai dimenticato, il grammatico che ha riportato in Turenna la fiaccola
della cultura antica. Ha posto le fondamenta della futura Università di Parigi.
Frequentemente riapparirà nel Medioevo il tema di Alcuino come il più sapiente dei letterati
il cui insegnamento ha fatti dei Galli/Francesi pari agli antichi di Roma e Atene.
Bisogna ricollegare la cultura medievale a quella di Roma per mezzo degli anglosassoni.
Partendo da Alcuino fino alla fine del XII secolo si vede propagarsi di scuola in scuola una
cultura letterario a base patristica e scritturale, di cui la grammatica del basso impero
romano costituiva il fondamento. Bisognò moltiplicare le opere classiche della letteratura
latina per far fronte ai bisogni di questo insegnamento; la maggior parte di queste opere
nell’età moderna provengono dallo scriptorium di qualche abbazia benedettina dei secoli
XI-XII. Diventato maestro Alcuino proibirà la lettura di Virgilio seppure lui stesso non se
n’era privato da giovane.
Fredegisio: morto nel 834, discepolo di Alcuino. Sostenne che il nulla e le tenebre sono
qualcosa, non solo l’assenza di qualcosa.
Rabano Mauro: discepolo di Alcuino; nato a Magonza verso il 784. Tramite lui l’influenza
civilizzatrice del maestro, mentre perdurava in Francia, si estendeva in Germania. Ha avuto
una grande importanza nello sviluppo della cultura germanica. Ha scritto più opere, tra cui
dei commenti biblici un opuscolo De anima e altri. Scrisse una specie di trattato degli studi
ecclesiastici ad uso dei chierici tedeschi del IX secolo, il programma proposto segue il
modello delle arti liberali. Alla sua influenza si ricollega il breve trattato di un monaco
tedesco che tratta della Trinità nell’anima e sulle condizioni d’applicabilità delle categorie a
Dio; nell’ultimo paragrafo vi è il riassunto di un frammento dialogato che espone la prima
prova dell’esistenza di Dio. Questa è basata nel riconoscersi dell’uomo, pur al vertice della
gerarchia per il suo intelletto, non onnipotente perché non può tutto ciò che vuole dunque
non piò essere causa di sé, dovrà esistere un Dio. Nell’universo che descrive si trovano
schemi di origine agostiniana, ma svuotati della loro sostanza metafisica, come nel De
anima di Alcuino.
Le scuole monastiche comprendevano, solitamente, la scuola interna/claustrale riservata ai
religiosi del monastero e la scuola esterna alla quale erano ammessi i sacerdoti secolari. In
origine quasi tutte queste scuole erano collegate a monasteri benedettini. Le scuole cattedrali
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si sono organizzate presto attorno a chiese cattedrali sotto la direzione del vescovo; le
università si svilupperanno più tardi intorno a scuole di questo tipo.
Lo slancio impresso da Carlomagno al movimento di studi che ebbe inizio sotto di lui fu
duraturo.
2.Giovanni Scoto Eriugena:
La personalità storica
Attraverso S. Agostino, Giovanni Scoto si ricollega al più genuino spirito della ricerca
filosofica, quale era apparso nell'età classica della Grecia. Egli è consapevole delle esigenze
sovrane della ricerca e le afferma recisamente. Quando si urta davanti alla realtà
incomprensibile di Dio o dell'essenza delle cose non ripiega le sue armi dialettiche né
prescrive l'abbandono alla fede, ma ricomprende la stessa incomprensibilità nell'ambito
della ricerca, la dialettizza e ne fa un elemento di chiarezza.
L'opera di Giovanni Scoto ha avuto un'importanza decisiva per l'ulteriore corso della
scolastica. Le sue fonti principali sono le opere di S. Agostino, dello Pseudo-Dionigi (che
Giovanni stesso tradusse dal greco che è impossibile che imparò in Irlanda, più
probabilmente a Parigi dove vi soggiornavano molti monaci greci in quest’epoca; e dove
tradusse quest’opera), e dei Padri della Chiesa, specialmente di S. Gregorio e di S. Massimo.
Nella speculazione posteriore non c'è filosofo della scolastica che non si ricolleghi a lui o
direttamente o polemicamente. Il papa Onorio III, con una bolla del 23 gennaio 1225,
condannava il suo capolavoro: De divisione naturae. Molti dottori scolastici, prima e dopo la
condanna, polemizzano contro le sue affermazioni, ma la sua speculazione segna su tutti i
punti una pietra miliare della scolastica.
La vita e le opere
GIOVANNI SCOTO è detto ERIUGENA dalla sua regione nativa, l'Irlanda (Eriu = Erin,
Irlanda). La sua data di nascita deve cadere intorno all'810. Non si sa con precisione l'anno
in cui si recò in Francia alla corte di Carlo il Calvo, ma dovette essere nei primi anni del
regno di questo re, prima dell’847. Egli partecipò, infatti, alla controversia teologica
suscitata dalle tesi del monaco Gotescalco intorno alla predestinazione; ora la condanna di
Gotescalco avvenne nell'853, dopo lunghi e solenni dibattiti. Da Carlo il Calvo, Giovanni fu
posto a capo dell'Accademia di Palazzo o Schola Palatina, a Parigi; per invito dello stesso re
tradusse le opere di Dionigi l'Areopagita di cui l'imperatore bizantino Michele Balbo aveva
fatto dono a Ludovico il Pio nell'827. Il papa Nicolò I si lamentò presso il re che Giovanni
non avesse sottoposto questa traduzione alla censura ecclesiastica prima di pubblicarla e
volle istituire un processo contro le eresie in essa contenute. Dopo la morte del re Carlo
nell'877 non si hanno più notizie sicure di Giovanni. Secondo alcuni, egli è morto in Francia
quell'anno stesso, secondo altri tornato in Inghilterra dopo la morte di Carlo il Calvo, a
insegnare all’Abbazia di Malmesbury, lì sarebbe stato assassinato dai suoi scolari.
L'attività filosofica di Scoto si può distinguere in due periodi. In un primo periodo si è
ispirato soprattutto ai Padri latini, cioè a Gregorio Magno, a Isidoro e specialmente a S.
Agostino. A tale periodo appartiene lo scritto contro il monaco Gotescalco: De
praedestinatione (851). In un secondo periodo, Giovanni ha subito l'influsso dei teologi e
filosofi greci. Nell'858 egli tradusse gli scritti dello Pseudo-Dionigi l'Areopagita, nell'864 gli
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Ambigua di Massimo Confessore e lo scritto De hominis opificio di Gregorio di Nissa.
Questi studi lo guidarono nella elaborazione del capolavoro, il De divisione naturae, in 5
libri. Quest'opera, scritta in forma di dialogo fra maestro e scolaro, è il primo grande scritto
speculativo del Medio Evo.
Essa mostra già in atto il carattere della ricerca scolastica: il metodo aprioristico o deduttivo,
che l'autore maneggia con grande maestria. Le glosse di Giovanni agli Opuscula theologica
di Boezio, sono il più antico commentario degli scritti teologici di Boezio. Molto conosciute
nel Medio Evo ma mai stampate, devono essere state composte negli ultimi anni, intorno
all'870, e stanno alla Divisio naturae nello stesso rapporto in cui le Retractationes stanno
alle altre opere di S. Agostino.
La cultura e la capacità speculativa di Giovanni Scoto lo pongono molto al disopra del
livello dei suoi contemporanei. Non solo egli conosce il greco e traduce da questa lingua,
ma desume dagli scrittori e dallo spirito greco una grande libertà di ricerca e di indirizzo
speculativo.
Fede e ragione
Il presupposto della ricerca di Giovanni Scoto è l'accordo intrinseco tra ragione e fede, tra la
verità cui giunge la ricerca libera e quella rivelata all'uomo dall'autorità degli scritti sacri e
degli scrittori ispirati: «Non vi è salvezza per le anime dei fedeli se non nel credere a ciò che
si dice con verità intorno all'unico principio delle cose e nell'intendere ciò che con verità si
crede» (De div. nat., II, 20). L'autorità delle Sacre Scritture è indubbiamente indispensabile
all'uomo perché esse sole possono condurlo ai recessi segreti in cui abita la verità (I, 64).
Ma il peso dell'autorità non deve in nessun modo distoglierlo da ciò di cui lo persuade la
retta ragione: «La vera autorità non ostacola la retta ragione né la retta ragione ostacola
l'autorità. Non c'è dubbio che entrambe emanano da una unica fonte, cioè dalla sapienza
divina». Ma la dignità maggiore e la priorità di natura spettano alla ragione, non all'autorità.
La ragione è nata all'inizio dei tempi insieme con la natura: l'autorità è nata dopo.
L'autorità deve essere approvata dalla ragione, altrimenti appare malferma; la ragione non
ha bisogno di essere appoggiata o corroborata da alcuna autorità. Infine l'autorità stessa
nasce dalla ragione, giacché la vera autorità non è altro che la verità trovata per virtù di
ragione dai santi Padri e da essi tramandata in iscritto per il vantaggio dei posteri. E
Giovanni fa pronunciare dal Maestro, che è l'interlocutore principale del dialogo, un
energico invito alla libera ricerca: «Noi dobbiamo seguire la ragione che cerca la verità e
non è oppressa da alcuna autorità e in alcun modo impedisce che sia pubblicamente diffuso
ed esposto ciò che i filosofi assiduamente cercano e laboriosamente giungono a trovare».
Questa decisa affermazione della libertà della ricerca, che fa di Giovanni Scoto un superstite
antesignano dello spirito filosofico dei Greci, non implica in lui nessuna limitazione o
negazione della religione. Giacché la religione non si identifica con l'autorità, ma con la
ricerca. Religione e filosofia sono tutt'uno: «Che significa trattare di filosofia se non esporre
le regole della vera religione per cui la somma e principale causa di tutte le cose, cioè Dio, è
umilmente adorata e razionalmente investigata?». Giovanni è, qui, vicinissimo allo spirito
della ricerca agostiniana, per il quale la fede è un punto d'arrivo più che un punto di
partenza, è al termine della lunga e laboriosa via della ricerca, anziché all'inizio ed è
piuttosto la direzione e la guida della ricerca anziché un limite e un impaccio. E difatti il
presupposto agostiniano della Verità suprema, che si rivela e si afferma nella ricerca umana,
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ritorna in Giovanni. La natura umana per sé considerata è una sostanza tenebrosa, capace
però di partecipare della luce della sapienza.
Quando l'aria partecipa del raggio solare non è luminosa di per sé, ma per lo splendore del
sole che appare in essa; così la parte razionale della nostra natura, quando partecipa del
Verbo, cioè della Verità divina, non intende di per sé le cose intellegibili e Dio, ma solo le
conosce per il lume divino che è in essa.
Nella ricerca umana chi trova non è l'uomo che cerca, ma la luce divina che nell'uomo cerca.
La parola di Gesù secondo S. Giovanni: «Non siete voi che parlate, ma Dio che parla in
voi,» è intesa da Scoto come se dicesse: «Non siete voi che intendete me, ma io che intendo
me stesso in voi attraverso lo spirito mio».
Le quattro nature
Il titolo dell'opera principale di Giovanni Scoto: La divisione della natura, è di schietta
origine platonica. La «divisione», cui esso allude è l'operazione fondamentale della
dialettica platonica, operazione che l'Eriugena ritiene costituisca la struttura stessa della
natura; e la «natura», è, secondo gli insegnamenti del Parmenide e del Sofista, l'insieme
dell'essere e del non essere. Prendendo lo spunto da un luogo di S. Agostino (De civ. Dei, V,
9) Eriugena divide la natura in quattro parti.
La prima natura crea e non è creata; ed è la causa di tutto ciò che è e non è. La seconda è
creata e crea; ed è l'insieme delle cause primordiali. La terza è creata e non crea ed è
l'insieme di tutto ciò che si genera nello spazio e nel tempo. La quarta non crea e non è
creata ed è Dio stesso come fine ultimo della creazione.
Fa parte di queste quattro nature non solo tutto ciò che è, ma anche tutto ciò che non è. Per
non-essere non s'intende il nulla, ma soltanto la negazione delle varie determinazioni
possibili dell'essere. Così si può dire che non sono le cose che sfuggono ai sensi e
all'intelletto; o le cose inferiori, nei confronti delle cose superiori e celesti, o le cose future
che non ancora sono; o quelle che nascono e muoiono; o infine quelle che trascendono
l'intelletto e la ragione. Tutte le cose di questo genere in qualche modo non sono: non si
identificano però col nulla e rientrano nella realtà universale, che Scoto chiama natura.
Le quattro nature costituiscono il circolo vitale dell'essere divino: «In primo luogo Dio
discende dalla superessenzialità della sua natura, nella quale deve dirsi che egli non è, e da
se stesso creato nelle cause primordiali diventa il principio di ogni essenza, di ogni vita, di
ogni intelligenza e di tutto ciò che la teoria gnostica considera come cause primordiali. In
secondo luogo, egli discende alle cause primordiali che stanno in mezzo fra Dio e la
creatura, fra l'ineffabile superessenzialità di Dio che trascende ogni intelletto e la natura che
si manifesta a coloro che hanno lo spirito puro; diviene negli effetti delle cause primordiali e
si manifesta apertamente nelle sue teofanie. In terzo luogo, procede attraverso le forme
molteplici di tali effetti sino all'ultimo ordine dell'intera natura che contiene i corpi. Così
ordinatamente giungendo in tutte le cose, crea tutte le cose e diventa tutto in tutto; e ritorna
in se stesso, richiamando in sé tutto e, mentre diviene in tutto, non cessa di essere al di sopra
di tutto».
Questa circolarità, per la quale la vita divina procede a costituirsi costituendo le cose e con
esse ritornando a se stessa, è il pensiero fondamentale di Giovanni Scoto. In esso è implicita
la determinazione del rapporto fra Dio e il mondo. Il mondo è Dio stesso, in quanto teofania
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o manifestazione di Dio; ma Dio non è il mondo perché creandosi e divenendo col mondo,
rimane al di sopra di esso.
La prima natura: Dio
La prima natura è Dio in quanto è privo di principio, ed è la causa principale di tutto ciò che
da esso e per esso è creato e il fine unico di tutto ciò che da lui discende. Dio è infatti il
principio, il mezzo e il fine: è principio in quanto da lui derivano tutte le cose che
partecipano della sua essenza; è il mezzo, in quanto in lui e per lui sussistono e si muovono
tutte le cose; è il fine, in quanto tutte le cose si muovono verso di lui, in cerca della quiete
del suo movimento e della stabilità della sua perfezione. Come principio, mezzo e fine, la
natura divina non solo crea, ma anche è creata. È creata da se stessa nelle cose che essa
stessa crea, al modo in cui il nostro intelletto crea se stesso nei pensieri che formula e nelle
immagini che riceve dai sensi. Dio è increato nel senso che non è creato da altro e come tale
è al disopra di tutti gli esseri e non può essere né compreso né definito adeguatamente. Esso
è unità, ma unità ineffabile che non si chiude sterilmente nella sua singolarità ma si articola
in tre sostanze: la sostanza ingenita o Padre, la sostanza genita o Figlio, la sostanza
procedente dall'ingenita e dalla genita o Spirito Santo. Giovanni desume dallo PseudoDionigi la distinzione delle due teologie, la positiva e la negativa. La prima afferma di Dio
tutti gli attributi che gli competono. L'altra nega che la sostanza divina possa essere
determinata con i caratteri delle cose che sono, cioè che possa comunque essere compresa
od espressa. Ma gli stessi caratteri che la teologia positiva attribuisce a Dio assumono in
questo riferimento un valore diverso da quello che hanno quando sono riferiti alle cose
create. Dio non è propriamente essenza, ma superessenza: non è verità ma superverità: e lo
stesso si dica di tutti i caratteri positivi che si possono predicare di Dio. Sicché anche la
teologia positiva è in realtà negativa, a meno che non si voglia dire positiva e negativa
insieme; giacché dire che Dio è superessenza equivale ad affermare e negare nello stesso
tempo che egli sia essenza. Certo è che a Dio non si può attribuire nessuna delle categorie
aristoteliche, le quali riferite a lui acquistano un significato diverso. Se Dio cadesse
nell'ambito di qualcuna delle categorie, egli sarebbe un genere (come, ad es., animale)
mentre egli non è né genere né specie né accidente e così nessuna categoria può
propriamente qualificarlo. La conclusione è che tutto ciò che la ragione umana può fare nei
confronti di Dio è di dimostrare che nulla si può propriamente affermare di lui. «Egli supera
ogni intelletto e ogni significato sensibile e intellegibile, talché lo si conosce ignorandolo e
l'ignoranza di Lui è la vera sapienza». Ma se Dio è inaccessibile come natura
superessenziale, si rivela da sé nella creazione, che è una continua manifestazione di lui o
teofania. La divina essenza, di per sé incomprensibile, appare nelle creature intellettuali ed è
possibile conoscerla in esse. Teofania è il processo che da Dio discende all'uomo attraverso
la grazia per ritornare attraverso l'uomo a Dio con l'amore. Teofania è anche ogni opera
della creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa visibile in essa e
attraverso di essa.
Ognuna delle persone divine ha la sua propria funzione nel processo della teofania. Il Padre
è il creatore di tutto; il Figlio crea le cause primordiali delle cose che sussistono in lui
universalmente e semplicemente; lo Spirito moltiplica queste cause primordiali nei loro
effetti, cioè le distribuisce nei generi e nelle specie, nei numeri e nelle differenze, sia delle
cose celesti sia delle cose sensibili.
La seconda natura: il Verbo
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La seconda natura, quella che è creata e crea, corrisponde alla seconda persona della Trinità.
In essa sono le idee o forme delle cose ed essa è quindi il Verbo divino attraverso il quale
tutte le cose sono state create. Scoto si domanda che valore causale abbiano le forme
sussistenti nel Verbo divino, se i corpi del mondo sono formati da elementi che furono creati
dal nulla. Se il nulla fu veramente l'origine di tali corpi, ne sarà stata anche la causa. E allora
il nulla sarà migliore delle cose stesse di cui fu causa, giacché la causa è sempre superiore ai
suoi effetti. Scoto risolve la difficoltà ritenendo che gli elementi che compongono il mondo
non sono stati creati dal nulla, ma dalle cause primordiali. E ripropone il problema a
proposito di queste ultime. Sono state esse stesse create dal nulla Scoto risponde che neppur
esse sono state create dal nulla; che sempre sono state nel Verbo divino perché gli sono
coessenziali. La creazione dal nulla non riguarda le cause primordiali e neppure le cose che
da esse dipendono. Il nulla non trova posto né fuori né dentro Dio. Che le cose siano create
dal nulla significa solo che vi è un senso in cui non sono; difatti hanno avuto inizio nel
tempo attraverso la generazione e prima di questa non apparivano nelle forme e nelle specie
del mondo sensibile. Ma in un altro senso esse sono sempre: giacché sussistono come cause
primordiali nel Verbo divino, nel quale non cominciano né cessano mai di essere. La
teofania divina comincia nelle cause primordiali sussistenti nel Verbo. Per esse il Creatore
stesso è creato da se stesso e da sé si crea cioè comincia ad apparire nelle sue teofanie, ad
emergere dai nascosti recessi della sua natura e a discendere nei principi e nelle cose
cominciando così ad essere insieme con esse. Giovanni Scoto insiste, lungo tutta la sua
opera, sulla identità essenziale delle creature col Creatore, sulla permanenza della creatura
nell'essenza stessa del Creatore, sulla presenza sostanziale di questo a quelle. Il mondo è
Dio stesso nella sua autorivelazione. Tale è il principio che domina l'intera speculazione
dello Eriugena. Dio non può certo sussistere prima del mondo. Dio precede il mondo non
nel tempo, ma solo razionalmente in quanto causa di esso. Ma egli non comincia a un certo
punto ad essere causa perché è causa essenzialmente: e poiché non sarebbe causa se non
creasse il mondo, la sua creazione deve essere eterna, coeterna con lui. «Dio non era prima
di creare tutte le cose» dice Scoto.
La terza natura: il mondo
La terza natura, creata e non creante, è il mondo stesso, l'universalità delle cose sensibili e
non sensibili che derivano dalle cause primordiali per l'azione distributiva e moltiplicatrice
dello Spirito Santo. Scoto ritiene che tutti i corpi del mondo sono costituiti di forma e
materia. La materia, essendo priva di forma e di colore, è invisibile e incorporea ed è perciò
l'oggetto non dei sensi, ma della ragione. Essa risulta dall'insieme delle varie qualità, di per
se stesse incorporee, che la costituiscono, riunendosi insieme; e si trasforma nei vari corpi a
misura che le si aggiungono le forme e i colori.
Neppure la terza natura, cioè il mondo, si distingue in realtà dal Verbo divino. La ragione ci
costringe, afferma energicamente Giovanni, a riconoscere che nel Verbo sussistono non solo
le cause primordiali, ma anche i loro effetti; e così in lui sono anche i luoghi e i tempi, le
sostanze, i generi e le specie, fino alle specie specialissime rappresentate dagli individui,
con tutte le loro qualità naturali. In una parola, sussiste nel Verbo tutto ciò che è raccolto
nell'universo delle cose create, sia ciò che è compreso dal senso o dall'intelletto umano od
angelico, sia ciò che trascende il senso e la mente stessa. Il mondo è certamente creato: lo
afferma la Sacra Scrittura. Il mondo è certamente eterno, perché sussiste nel Verbo: lo
afferma la ragione. In che modo si concilino creazione ed eternità è problema che la mente
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umana non può risolvere. Ma in realtà, forse, è problema più apparente che reale. Giacché le
cose che sussistono nello spazio e nel tempo e sono distribuite nei generi e nelle forme del
mondo sensibile non sono in realtà diverse dalle cause primordiali che sussistono in Dio e
sono Dio stesso. Non si tratta di due sostanze diverse, ma di due diversi modi di intendere le
stesse sostanze: nell'eternità del Verbo divino o nella vita del tempo. Così non ci sono due
sostanze «uomo», una come causa primordiale, l'altra individuata nel mondo; ma una sola
sostanza che può essere intesa in due modi, o nella sua causa intellettuale o nei suoi effetti
creati. Intesa nel primo modo è libera da ogni mutevolezza, nel secondo modo è soggetta
alla mutevolezza; nel primo modo, è sciolta da tutte le sue qualità accidentali e sfugge alla
conoscenza; nel secondo modo risulta composta di qualità e quantità diverse ed è
suscettibile di essere conosciuta dalla mente.
Si è visto che Dio non è soltanto il principio, ma anche il fine delle cose. A lui dunque
ritorneranno le cose che da lui sono partite e in lui si muovono e stanno. La Sacra Scrittura
insegna chiaramente la fine del mondo ed è d'altronde evidente che tutto ciò che comincia
ad essere ciò che prima non era, cesserà anche di essere ciò che è. Ora se i principi del
mondo sono le cause dalle quali esso è sorto, queste stesse cause saranno il termine ultimo
del suo ritorno. Esso non sarà ridotto al nulla, ma alle sue cause primordiali; e terminato il
suo movimento sarà conservato perpetuamente in riposo. Ora le cause primordiali del
mondo sono lo stesso Verbo divino; al Verbo divino dunque ritornerà il mondo al suo
termine. Ricongiuntosi a Dio, al quale tende nel suo movimento, il mondo non avrà un fine
ulteriore al quale tendere e necessariamente riposerà. Perciò il principio e il fine del mondo
sussistono nel Verbo di Dio e sono lo stesso Verbo. Se la tesi tipica del panteismo è che Dio
è la sostanza o l'essenza del mondo, non c'è dubbio che la dottrina di Scoto sia un rigoroso
panteismo. «Dio è sopra tutte le cose e in tutte, egli dice; Egli solo è l'essenza di tutte le cose
perché egli solo è; e, pur essendo tutto in tutte, non cessa di essere tutto al di fuori di tutte.
Egli è tutto nel mondo, tutto intorno al mondo, tutto nella creatura sensibile, tutto nella
creatura intelligibile; è tutto nel creare l'universo, diviene tutto nell'universo, è tutto in tutto
l'universo, è tutto nelle parti di esso, perché egli stesso è tutto e parte e non è né tutto né
parte». Costantemente il panteismo, sia nella filosofia medievale che in quella moderna, ha
assunto come suo principio la tesi, qui così energicamente espressa, che Dio è la sostanza
del mondo. Dall'altro lato si può capire come l'altrettanto risoluta affermazione di Scoto che
Dio è al di fuori di tutto l'universo e che non è né il tutto né parte di esso possa essere stata
assunta come prova del carattere non panteistico della sua dottrina.
La conoscenza umana
L'uomo interiore è una immagine della Trinità divina. Giovanni riprende e sviluppa a suo
modo questo pensiero di S. Agostino. Le tre persone divine stanno tra di loro come l'essenza
(ousìa), la potenza (dynamis) e l'atto (energheia). Nell'anima umana l'essenza è l'intelletto o
nous che è la più alta parte della nostra natura e intende Dio e la creatura nelle sue cause
primordiali. La ragione o logos corrisponde alla virtus o dynamis e concerne i principi delle
cose che vengono subito dopo Dio. Il senso inferiore o dianoia corrisponde all'atto o
energheia e concerne gli effetti, sia visibili sia invisibili, delle cause primordiali. Tale senso
interiore è coessenziale alla ragione e all'intelletto, mentre il senso esteriore, che si avvale
dei cinque organi e risiede nel cuore, appartiene al corpo più che all'anima, sicché perisce
con la dissoluzione del corpo. A queste tre parti dell'anima corrispondono tre movimenti
diversi: secondo l'anima, secondo la ragione, secondo il senso. Il primo movimento è quello
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per il quale l'anima muove verso l'Iddio incognito, al di là di se stessa e di ogni creatura. Per
questo primo movimento Dio appare all'anima come trascendente tutto ciò che è e come
assolutamente indefinibile. Il secondo movimento è quello per il quale l'anima definisce il
Dio incognito come causa di tutte le cose, perché in esso sono le cause primordiali. Il terzo
movimento è quello che concerne le ragioni delle cose singole. Esso parte dalle immagini
raccolte dai sensi esterni e da tali immagini si solleva alle ragioni ultime delle cose di cui
esse sono immagini. Attraverso questo movimento l'immagine sensibile stessa si trasfigura.
Da immagine impressa negli organi di senso si trasforma in immagine che l'anima sente in
sé come propria; e appunto da tale immagine spiritualizzata l'anima parte per ascendere alle
ragioni eterne delle cose. La corrispondenza tra l'anima e Dio si estende anche a ciò che
riguarda la conoscenza che l'anima ha di se stessa. Come Dio è conoscibile attraverso le sue
creature ma incomprensibile di per se stesso, giacché né egli stesso né altri può intendere
che cosa sia, non avendo egli un quid, un'essenza determinata da intendere; così l'anima
umana sa che è, ma in nessun modo può conoscere che cosa è. Né questo è un limite o una
imperfezione della mente stessa. Come il miglior modo per avvicinarsi a Dio non è
l'affermazione ma la negazione, non la conoscenza ma l'ignoranza, perché Dio, essendo
privo di limiti, non si può definire e restringere in un'essenza determinata; così, se fosse
possibile per l'anima conoscere la sua propria essenza, ciò significherebbe la possibilità di
circoscriverla e implicherebbe la sua difformità dal Creatore.
Divinità dell'uomo
Circola in tutta l'opera di Giovanni Scoto il senso del valore superiore e divino dell'uomo. Il
pessimismo proprio degli scrittori cristiani e dello stesso Agostino intorno alla natura e ai
destini dell'uomo si attenua in lui sino a trasformarsi nell'esaltazione dell'uomo, delle sue
capacità e della sua ultima riuscita. «Non immeritatamente, egli dice, l'uomo è stato
chiamato l'officina di tutte le creature: difatti tutte le creature si contengono in lui. Egli
intende come l'angelo, ragiona come uomo, sente come l'animale irragionevole, vive come il
germe, consiste di anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata». In un certo senso
l'uomo è superiore all'angelo stesso il quale, privo come è di corpo, manca di sensibilità e di
movimento vitale. Molto significative sono le considerazioni che Scoto svolge con visibile
compiacenza intorno al tema ,«se l'uomo non peccasse...». Se l'uomo non peccasse, sarebbe
certo onnipotente come Dio. Nulla infatti lo dividerebbe da Dio ed egli, che di Dio è
immagine, parteciperebbe in pieno alla perfezione del suo originale. Per Io stesso motivo,
sarebbe onnisciente perché, come Dio, conoscerebbe nelle loro cause primordiali tutte le
cose create. Se il primo uomo non avesse peccato, la somiglianza tra la natura angelica e la
natura umana si sarebbe trasformata in identità e l'uomo e l'angelo sarebbero diventati la
stessa cosa. E ciò si spiega, giacché la stessa identità si stabilisce tra uomo e uomo quando
reciprocamente si intendono. «Se, dice Scoto, io intendo ciò che tu intendi, divento lo stesso
tuo intelletto e in qualche modo ineffabile divento te stesso. E quando tu intendi ciò che io
intendo, tu diventi il mio intelletto e di due intelletti se ne fa uno, costituito da ciò che
entrambi sinceramente e compiutamente intendiamo. Giacché l'uomo è veramente il suo
intelletto, il quale è reso specifico e individuato dalla contemplazione della verità» . La
perfezione dell'uomo è tale che neppure il peccato originale basta a distruggerla. Con esso
l'uomo non perdette la sua natura che, in quanto immagine di Dio, è necessariamente
incorruttibile: perdette solo la felicità alla quale sarebbe stato destinato se non avesse
disprezzato il comando divino. «Bisogna dire, afferma Giovanni, che la natura umana, che è
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fatta ad immagine di Dio, non perdette mai la forza della sua bellezza e l'integrità della sua
essenza e mai può perderli. Una forma divina, come è l'anima, rimane sempre incorruttibile;
al più, diventa capace di sopportare la pena del peccato». Con lo stesso ottimismo Giovanni
considera il destino ultimo dell'uomo. La morte è per l'uomo il principio di una ascesa che lo
porta a identificarsi con Dio. Non c'è morte per l'uomo, ma ritorno ad uno stato antico, che
egli aveva perduto peccando. La prima fase di questo ritorno a Dio si ha quando il corpo si
dissolve nei quattro elementi dai quali è composto. La seconda fase è la risurrezione, con la
quale ognuno riceverà di nuovo il suo corpo per la riunione dei quattro elementi. Nella terza
fase, il corpo si trasformerà in spirito. Nella quarta, l'intera natura umana ritornerà alle sue
cause primordiali che sussistono immutabilmente in Dio. Nella quinta fase, la natura umana,
insieme con le sue cause si muoverà in Dio «come l'aria si muove nella luce». Questo
trionfo finale della natura umana non sarà dunque l'annullamento in Dio. L'annegamento
mistico e panteistico dell'uomo in Dio è escluso da Giovanni Scoto. Il destino della natura
umana non è quello di perdersi nell'essere divino, ma di rimanere nella sua vera sostanza, di
integrarla nelle sue cause primordiali e di sussistere nella sua compiutezza nell'ambito
dell'essere divino, come l'aria nella luce. Il misticismo neoplatonico viene qui corretto dal
senso del carattere irreducibile della natura umana, carattere per il quale essa conserva
anche di fronte a Dio, e in virtù di Dio, la sua autonomia sostanziale.
Il male e la libertà umana
Questo stesso atteggiamento conduce Giovanni a modificare la dottrina agostiniana della
libertà umana. Da S. Agostino egli prende lo spunto per la sua dottrina del male. Che il male
non sia realtà, ma negazione di realtà, è per Giovanni un presupposto evidente. Da questo
presupposto egli trae la conclusione che Dio non conosce il male. La conoscenza divina è
infatti immediatamente creatrice: Dio non conosce le cose che sono, perché sono: ma le cose
sono, perché Dio le conosce. La causa della loro essenza è la scienza divina. Tutto ciò che è,
è pensiero divino. L'uomo è definito da Scoto come «una nozione intellettuale eternamente
creata nella mente divina»; e la stessa definizione si applica a tutto ciò che esiste. Da ciò si
vede che, se Dio conoscesse il male, se il male fosse un pensiero divino, esso sarebbe reale
nel mondo. Ma il male non è reale. Esso non è nulla di sostanziale e le stesse apparenze
seducenti di cui si riveste di fronte agli uomini malvagi non sono cattive di per se stesse. Un
oggetto bello e prezioso che ispira cupidigia nell'avaro ispira invece ammirazione
disinteressata al saggio. Non è dunque la bella apparenza che fa peccare ed è male in se
stessa, ma la cattiva disposizione di chi la considera. Del male, che non è realtà, non c'è
dunque prescienza in Dio; e neppure predestinazione. La pena cui va incontro colui che
pecca non è predestinata da Dio: giacché anch'essa è dolore e mancanza, non realtà positiva.
La pena è la conseguenza del peccato e lo segue come se gli fosse legata da una catena; ma
né pena né peccato sussistono nella mente divina, nella quale trovano posto soltanto l'essere
e il bene. Quando le sacre scritture parlano di predestinazione o di prescienza divina del
male, bisogna intendere queste espressioni nel senso in cui noi diciamo di sapere che, dopo
il tramonto del sole, vengono le tenebre, che il silenzio viene dopo l'acclamazione e la
tristezza dopo la gioia. Ma le tenebre, il silenzio, la tristezza, non sono altro che nozioni
negative e indicano solo l'assenza delle realtà positive corrispondenti. Per Scoto, come per
S. Agostino, il male si riduce dunque al peccato, a deficienza o assenza di volontà. Ma
mentre per S. Agostino la volontà libera è soltanto la volontà del bene, per Giovanni Scoto
la volontà libera è il libero arbitrio capace di decidersi sia per il bene sia per il male.
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Certamente la causa del peccato è la mutevolezza della volontà. Questa mutevolezza, che è
causa del male, è certamente essa stessa un male. Ma senza di essa l'uomo non sarebbe
veramente e pienamente libero. Se Dio avesse dato all'uomo soltanto la capacità di volere il
bene e di vivere secondo giustizia, in modo che l'uomo potesse muoversi solo in un modo,
l'uomo non sarebbe assolutamente libero, ma libero solo in parte ed in parte non libero. Ora
una libertà parziale non è possibile. Se anche in minima parte l'uomo non è libero, è
assolutamente non-libero. Un libero arbitrio che zoppica, non sta in piedi. Se si risponde che
non sarebbe nociuto all'uomo avere un libero arbitrio claudicante, bisogna ribattere che
senza un vero e totale libero arbitrio la giustizia divina non avrebbe potuto esplicarsi.
Giacché la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo e, da parte di Dio, nel riconoscere a
ciascun uomo il merito di avere obbedito ai suoi comandi. Ma quale significato avrebbero
questi comandi per un uomo che non potesse fare altro che il bene? Dio dunque dovette dare
all'uomo un libero arbitrio per il quale potesse peccare o non peccare. Soltanto un libero
arbitrio siffatto mette l'uomo in grado di usufruire liberamente dell'aiuto offertogli dalla
grazia divina. La libertà dell'uomo è dunque possibilità di peccare o non peccare, perché
solo tale possibilità rende l'uomo suscettibile di essere premiato o punito secondo il
giudizio. E poiché soltanto la volontà dotata di libero arbitrio è responsabile del peccato,
soltanto la volontà è punita da Dio. Anche i giudici umani, se non sono mossi da sete di
vendetta, hanno in vista la correzione dei rei e puniscono, non la loro natura, ma solo il loro
delitto. Allo stesso modo la punizione divina del peccato si rivolge soltanto alla volontà che
ha commesso il peccato, ma lascia integra e salva la natura del peccatore, che rimane capace
di ritornare a Dio nel trionfo finale. A questo trionfo l'uomo è aiutato insieme dalla sua
natura e dalla grazia divina. Alla propria natura l'uomo deve essere tratto dal nulla e il
durare, alla grazia deve la sua deificatio, per la quale ritorna alla sostanza divina. La natura è
data, la grazia è un dono gratuito, concesso dalla divina bontà senza merito da parte
dell'uomo.
La logica
Conformemente all'indirizzo platonizzante del sistema, la logica di Scoto Eriugena è
realistica: presuppone la realtà oggettiva di tutte le determinazioni logiche universali, di tutti
i concetti di genere e di specie. E nello spirito di tale logica che quanto più un concetto è
universale, tanto maggiore è la sua realtà oggettiva; così i concetti dei generi generalissimi
sono più reali di quelli dei generi meno estesi; e i concetti di genere sono più reali dei
concetti di specie in cui ogni genere si suddivide; infine le specie specialissime, cioè gli
individui, hanno minore realtà delle specie superiori o più estese. Commentando un passo
biblico, Scoto afferma che Dio creò prima il genere, perché in esso sono contenute e stanno
insieme tutte le specie; il genere poi si divide e si moltiplica nelle forme generali e nelle
specie specialissime. Da ciò egli trae una considerazione fondamentale sul valore oggettivo
della dialettica: «Quell'arte che divide i generi nelle specie e risolve le specie e i generi, la
dialettica, non è stata creata da accorgimenti umani, ma è fondata nella natura stessa, è stata
creata dall'Autore di tutte le arti che sono veramente arti, scoperta dai sapienti ed usata per il
vantaggio di ogni solerte indagine sulle cose». E così la tavola logica dei concetti disposti
secondo l'ordine della loro universalità, si identifica, secondo Scoto, con l'ordine metafisico
delle determinazioni dell'essere. La più universale determinazione logica, quindi la più reale
determinazione oggettiva, è l'essenza (ousìa) che è incorporea, semplice ed indivisibile.
L'essenza esiste nei generi e nelle specie, ma non si divide in essi, bensì rimane
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immoltiplicata, pur moltiplicandosi nei generi, nelle specie e negli individui. «L'essenza
sussiste tutta insieme, è eternamente e immutabilmente nelle sue suddivisioni e tutte le sue
suddivisioni costituiscono simultaneamente e sempre, in essa, un'unità inseparabile». Perciò
l'essenza di tutte le cose è in realtà una sola, ed è Dio stesso. Essa è inconoscibile e
incomprensibile come Dio stesso; ciò che si percepisce coi sensi o si comprende con
l'intelletto in ogni creatura è solo qualche accidente dell'incomprensibile essenza.
La logica di Scoto, nata due secoli prima che la disputa sugli universali diventasse il
problema fondamentale della dialettica, presenta in anticipo la soluzione tipicamente
realistica di tale problema ed è la fonte di tutte le soluzioni dello stesso tipo che furono
adottate in seguito. Essa rappresenta anche il termine di confronto polemico per le scuole
antirealistiche.
3.Da Eirico d’Auxerre a Gerberto d’Aurillac:
Centri di cultura latina furono nei monasteri di Saint-Martin di Tours, Fulda, San Gallo,
Ferrières e Corbie. A questi aggiungiamo la scuola benedettina di Auxerre.
Eirico d’Auxerre: 841-876. Monaco dell’abbazia benedettina di Saint-Germain studiò poi a
Auxerre, poi a Ferrières sotto Servato Lupo, poi a Laon dove ebbe per maestro l’irlandese
Elia.
Eirico era un poeta latina al quale dobbiamo una raccolta di estratti di autori classici e
parecchi commenti grammaticali. Come maestro di dialettica ha lasciato delle glosse
dell’apocrifo Agostino; considerava le Categoriae decem non un trattazione letterale ma un
libero adattamento di Sant’Agostino. Dalle sue glosse si riconosce l’influenza di Scoto
Eriugena. Eirico adotta la nozione eriugeniana di natura che connota tutto ciò che è e ciò che
non è e Dio stesso. Definisce essere: ogni essenza semplice e immutabile creata da Dio
come Animale (nel senso di “genere animale”) e gli elementi semplici; al contrario ciò che è
composto dai quattro elementi si dissolve, perisce e i suoi elementi si risolvono nel tutto da
cui provengono.
Rifiuta esplicitamente il realismo dei generi e delle specie (ha dovuto indovinare Aristotele
dai commenti di Boezio), per lui ciò che costituisce la realtà concreta è la sostanza
particolare, gli individui sono gli unici esseri sostanziali, generi e specie non indicano delle
sostanza distinte. Come questo empirismo si concilia nel suo pensiero con il suo
eriugenismo?
Eirico interpreta gli universali come dei nomi che permettono al pensiero, ingombrato dalla
moltitudine degli individui, di riassumerli sotto termini la cui comprensione è sempre più
ristretta e l’estensione sempre più larga: cavallo specie, animale genere e essere che, infine,
contiene tutto.
Suo allievo che prenderà la sua cattedra ad Auxerre è Remigio d’Auxerre, anch’egli
prepotentemente influenzato da Eriugene, legge Boezio alla luce del platonismo cristiano di
Eriugena, il che gli è criticato anche dal suo storico più recente Courcelle.
Abbone di Cluny: morto nel 1004, dirige la scuola claustrale di Fleury-sur-Loire, abiente di
cultura letteraria, filosofica e teologica più fiorente in questo periodo. Vi insegnava oltre alla
dottrina dei Padri la grammatica, la dialettica e l’aritmetica.
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Il suo insegnamento ha segnato un progresso nello studio della logica.
Il X secolo conosceva Aristotele ancora solo attraverso la traduzione latina delle Categorie e
del De interpretatione, ignorava i Primi analitica e i Secondi analitici. Pare che queste due
opere fossero state conosciute nel Medioevo attraverso i trattati dedicati da Boezio a questi.
Il più antico manoscritto che li contiene risale alla seconda metà del X secolo ed è attribuito
ad Abbone come anche un trattato sui Sillogismi categorici.
Da questo periodo si vede ricostituirsi il corpus quasi completo della logica di Aristotele
nella seguente forma:
1.i trattati conosciuti fin dal IX secolo (logica vetus), cioè le Categorie e il De
interpretatione;
2.i trattati di Boezio sui Primi e Secondi analitici (logica nova), che gli originali di
Aristotele sostituiranno solo nel XII secolo.
Gerberto d’Aurillac:
Le condizioni politiche del X secolo, soprattutto la dissoluzione dell'impero carolingio,
arrestarono quasi interamente la ripresa intellettuale dell'Occidente. Ristabilita l'unità
dell'impero con Ottone il Grande, il movimento della cultura riprende.
In questo periodo compare una grande figura di erudito e di maestro, GERBERT0. Gerberto
si formò nella scuola di Aurillac. Dal 972 fu maestro nella scuola di Reims, nel 982 divenne
abate di Bobbio; nel 991 arcivescovo di Reims; nel 998 arcivescovo di Ravenna; nel 999
papa col nome di Silvestro II. Morì nel 1003. Gerberto si occupò di tutte le scienze, ma
soprattutto eccelse nella meccanica e nella matematica. Gli si attribuisce l'invenzione di un
orologio e di una specie di sirena a vapor d'acqua. Per spiegare la sua straordinaria
erudizione un antico cronista, Vincenzo de Beauvais (Speculum historiale, XXIV, 98),
racconta che egli fece un lungo soggiorno in Spagna, paese dei negromanti. Qui avrebbe
amato la figlia di uno di questi dottori diabolici e avrebbe in seguito rubato i suoi libri. Il
negromante, avvertito dalle costellazioni celesti, si sarebbe messo all'inseguimento del
ladro; ma questi, profittando dei ragguagli che gli astri stessi gli comunicavano, avrebbe
potuto sottrarsi ad ogni ricerca nascondendosi durante una notte sotto la volta di un ponte
crollato. Il diavolo in persona sarebbe poi venuto a cercarlo e lo avrebbe trasportato al di
sopra del mare, affinché un giorno uno dei suoi adepti potesse salire la cattedra del principe
degli apostoli. Probabilmente questo racconto favoloso cela la realtà di un viaggio di
Gerberto in Spagna e della derivazione araba di una buona parte della sua cultura.
Gerberto ha scritto commenti alla Isagoge di Porfirio, alle Categorie e al De interpretatione
di Aristotele e ai Commentari logici di Boezio. Il suo scritto De rationali et ratione uti, una
questione che egli disputò a Ravenna con OTRICO alla presenza di Ottone II, si propone di
vedere che cosa significhi «fare uso della ragione». La questione si presenta a prima vista di
natura logico-grammaticale; ma la soluzione di Gerberto la porta su di un piano metafisico.
È regola fondamentale della logica aristotelica che il predicato sia più universale del
soggetto: per esempio nella proposizione «Socrate è mortale», il predicato «mortale» è più
universale del soggetto, perché può riferirsi a molti altri esseri, oltre Socrate. Ma
nell'espressione che ricorre in S. Agostino (De ord., II, 12, 35): rationale, id est quod ratione
utitur, il predicato «ratione utitur» è più ristretto del soggetto «rationale» perché non sempre
chi è razionale si serve effettivamente della ragione. Tale è la difficoltà dalla quale prende lo
spunto la questione. Per risolverla, Gerberto distingue le sostanze necessarie ed eterne e
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quelle mutevoli e caduche. Le prime sono soprassensibili, conoscibili solo con la ragione e
sempre in atto. Le altre sono sensibili e naturali, soggette al mutamento e quindi alla
generazione e alla corruzione. Ora poiché le sostanze del primo tipo sono sempre in atto,
l'essere razionale e il servirsi della ragione coincidono in esse completamente; giacché sono
razionali proprio nel senso che la loro ragione è sempre in atto, cioè che sempre se ne
servono. Diversa è la cosa per le sostanze del secondo tipo. Nell'anima, che è unita al corpo,
la razionalità non è in atto ma in potenza e passa dalla potenza all'atto proprio quando si
dice che l'anima «si serve della ragione». Da ciò segue che per l'anima il servirsi della
ragione non è un predicato necessario, come per le sostanze soprasensibili che sono ragione
in atto; ma un attributo accidentale, che può seguire o non seguire alla razionalità potenziale
dell'anima stessa. Gerberto utilizzava così i concetti aristotelici di potenza e di atto per
giungere ad una distinzione tra sostanze razionali pure e sostanze razionali sensibili che è di
grande interesse per l'ulteriore sviluppo della metafisica scolastica.
IV. La filosofia nel secolo XI:
1.Dialettici e teologi:
La seconda metà del secolo XI ed il secolo XII sono in Occidente un periodo di fioritura
intellettuale. La cultura cessa di essere il patrimonio delle abazie e l'insegnamento tende a
organizzarsi nella forma che prenderà nel secolo XIII con le Università. Questo periodo
rappresenta la prima vera età della Scolastica che giunge alla consapevolezza del suo
problema fondamentale: intendere e giustificare le credenze della fede. Alcuni credono di
trovare la soluzione del problema affidandosi alla ragione e alla scienza che sembra più
propria di essa, la dialettica; altri diffidano della dialettica e si appellano all'autorità dei santi
e dei profeti, limitando il compito della ricerca filosofica alla difesa delle dottrine rivelate.
Di qui la polemica tra dialettici e teologi, che occupa l'XI secolo. In realtà anche i più ostili
alla dialettica, anche gli assertori più rigorosi della superiorità della fede, non tralasciano la
ricerca, propriamente scolastica, della via migliore per condurre l'uomo all'intelligenza della
verità rivelata.
Fra i dialettici spicca la figura di BERENGARIO DI TOURS. Formatosi nel chiostro di
Saint-Martin, Berengario fu in seguito alla scuola di Chartres, che era diretta da
FULBERTO, di cui fu scolaro. Sdegnando le altre arti liberali si dedicò alla dialettica e ben
presto si divertì a raccogliere negli scritti dei filosofi argomenti contro la fede dei semplici.
Si racconta che Fulberto sul letto di morte abbia detto che Berengario era un diavolo inviato
dagli abissi per sedurre e corrompere i popoli. Il suo successo di maestro tuttavia fu grande.
Nel 1040 divenne arcidiacono di Angers. Morì nel 1088. Berengario pone la ragione al di
sopra dell'autorità ed esalta la dialettica al di sopra di tutte le scienze. Fondandosi su S.
Agostino, considera la dialettica l'arte delle arti, la scienza delle scienze. Ricorrere alla
dialettica significa ricorrere alla ragione; e chi non ricorre alla ragione, per la quale l'uomo è
immagine di Dio, abbandona la sua dignità e non rinnova in sé di giorno in giorno
l'immagine divina (De sacra coena, ed. Vischer, p. 100). La più famosa delle polemiche di
Berengario è quella intorno all'Eucaristia che egli sostenne con Lanfranco e alla quale è
dedicato il suo scritto De sacra coena adversus Lanfrancum.
Berengario tiene fermo il principio aristotelico che gli accidenti o qualità di una cosa non
possono sussistere senza la sostanza della cosa stessa. Ora nel sacramento dell'Eucaristia gli
accidenti del pane e del vino rimangono: la sostanza non può essere quindi andata distrutta e
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il pane e il vino devono rimanere tali anche dopo la consacrazione. Questa aggiunge alla
sostanza del pane e del vino un corpo intellegibile, che è il corpo di Cristo. Tale dottrina
veniva a impugnare la definizione dogmatica dell'Eucaristia, la quale afferma la
trasformazione della sostanza del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo; e suscitò
violente polemiche. La dottrina di Berengario fu condannata dalla Chiesa.
Il più notevole avversario di Berengario fu LANFRANCO di Pavia, nato nel 1010, allievo
della scuola di Bologna, giù allora fiorente. Lanfranco, dotato di spirito avventuroso ed
entusiastico, percorse la Borgogna e la Francia e si fermò in Normandia. Lì divenne monaco
nell'abbazia di Bec, che per suo merito divenne famosa. Nel 1070, divenne arcivescovo di
Canterhury; morì nel 1089. Lanfranco è un avversario della dialettica la quale è, a suo modo
di vedere, completamente incapace di portare l'uomo alla comprensione dei misteri divini.
Egli dichiara energicamente che preferisce sentir discutere intorno ai misteri della fede con
sacre autorità piuttosto che con ragioni dialettiche (De corp. et sang. Dom., 7). «Chi vive
della fede, egli dice, non cerca di scrutarla con l'argomentazione e di concepirla con la
ragione; preferisce prestar fede ai misteri celesti piuttosto che affaticarsi vanamente,
mettendo in disparte la fede, a comprendere ciò che non può essere compreso». Ma
nonostante queste affermazioni, Lanfranco fu egli stesso un dialettico. Se la dialettica,
abbandonata a sé, fallisce nel campo dei misteri della fede, guidata e sorretta dalla fede può
rendere utili servigi alla fede stessa. In questo spirito egli commentò le lettere di S. Paolo
come ci è testimoniato da Sigberto di Gembloux (De script. eccles., c. 155, in Patr. Lat.,
160°, 582 c.): «Lanfranco, dialettico e arcivescovo di Canterbury, espose le lettere
dell'apostolo Paolo: ed ovunque se ne presentò l'opportunità presentò le sue tesi, i suoi
argomenti e le sue conclusioni secondo le regole della dialettica». Si può dire che nel
rapporto tra la ragione e la fede, Lanfranco abbia assunto lo stesso atteggiamento che fu poi
proprio del suo grande discepolo, Anselmo d'Aosta.
Contro i dialettici polemizza PIER DAMIANI, nato nel 1007 a Ravenna. Nel 1035 si ritirò
in eremitaggio a Fonte Avellana e di lì fu chiamato nel 1057 per essere consacrato vescovo
cardinale di Aosta. Morì a Faenza nel 1072. La maggior parte dell'opera di Pier Damiani è
dedicata all'ascesi monastica e a questioni ecclesiastiche. Il suo atteggiamento di fronte alla
dialettica e alle scienze mondane è fissato nello scritto composto nel 1067, De divina
omnipotentia. «Spesso, egli dice, la divina virtù distrugge i sillogismi armati dei dialettici e
le loro sottigliezze e confonde gli argomenti che sono stati dai filosofi giudicati necessari e
inevitabili» (De div. omnip., 10). Perciò la dialettica, e in generale ogni arte o perizia
umana, non deve assumersi arrogantemente il compito principale ma deve seguire
l'insegnamento delle Sacre Scritture «come una serva la sua padrona, con il debito
ossequio» (velut ancilla dominae quodam famulatus ossequio.).
La tesi tipica di Pier Damiani è l'assoluta superiorità dell'onnipotenza divina nei confronti
della natura e della storia. Poiché le leggi sono date alla natura da Dio, le cose naturali
obbediscono alle loro leggi finché Dio lo vuole; ma, quando egli non vuole, dimenticano la
loro natura ed obbediscono a lui. L'onnipotenza divina non trova un limite neppure nel
passato: giacché Dio può fare che le cose accadute non siano accadute: per quanto il può (al
tempo presente) si riferisce alla volontà di Dio che è eterna quindi fuori del tempo; e noi
dovremmo piuttosto dire che poteva non farle accadere.
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A molti degli stessi Scolastici considerazioni simili sembrarono implicare la tesi della
superiorità dell'onnipotenza divina rispetto allo stesso principio di contraddizione: quella
tesi si può esprimere infatti dicendo che Dio può fare che non siano accadute le cose
accadute. Comunque, Pier Damiani si serviva della tesi dell'onnipotenza divina per togliere
validità autonoma all'intero mondo della natura e dell'uomo; ed anche nel campo politico
(come ci testimoniano le considerazioni svolte nella sua Disceptatio sinodalis) la sua
preoccupazione dominante era quella di togliere all'imperatore ogni dignità di potenza
autonoma e di considerarlo come un semplice delegato del papa.
2.Roscellino e il nominalismo:
Nato a Compiègne verso il 1050, studiò nella provincia ecclesiastica in cui era nato. Ebbe
per maestro un tale Giovanni il Sofista, insegnò come canonico a Compiègne fu accusato
davanti al concilio di Soissons di insegnare che ci sono tre dei, abiurò quest’errore e poi
riprese l’insegnamento a Tours, a Loches dove abbe Abelardo come discepolo. Dovette
morire verso il 1120.
Si è soliti considerarlo instauratore del nominalismo, che nel secolo XI apportò una nuova
soluzione al problema degli universali. Bisogna comunque notare che anche nell’epoca
precedente in cui dominava nettamente il realismo si incontrano filosofi che ricordavano che
la logica di Porfirio, Boezio e Aristotele verte sulle parole (voces), e non sulle cose (res). La
concezione di Eirico d’Auxerre vi si avvicina; lo Pseudo Rabano afferma che Porfirio nel
suo Isagoge parla di 5 termini, non di 5 cose; ma questi non hanno posto il problema degli
universali con sufficiente coscienza della sua complessità.
È difficile stabilire con esattezza la sua posizione filosofica considerando che di lui abbiamo
poche opere distinguendo ciò che ha insegnato da ciò che gli avversari lo accusarono di
insegnare. L’unico punto indubbio: Roscellino rimane per i suoi contemporanei e i posteri
rappresentante di un gruppo di filosofi che confondevano l’idea generale con la parola con
cui la si designa.
Per i filosofi che facevano dell’idea generale una realtà la specie stessa costituiva
necessariamente una realtà, invece se l’idea generale non è che un nome la vera realtà si
trova negli individui che costituiscono la specie.
Per un realista l’umanità è una realtà, mentre per un nominalista di reale non ci sono che gli
individui umani. Roscellino aderisce alla seconda, per lui il termine “uomo” non designa
alcuna realtà che sarebbe quella della specie umana. “Uomo” corrisponde a due realtà
concrete, quella fisica del termine stesso come emissione di fiato; dall’altro ci sono gli
individui umani che questo termine ha il compito di significare. Non vi è nient’altro dietro
ai termini di cui ci serviamo.
Non applicò il suo nominalismo alla dialettica, piuttosto alla teologia, più celebra
applicazione a questa riguarda la sua interpretazione triteista del dogma della Erinità. Non
aveva intenzione di affermare che esistono tre dei piuttosto che in Dio, come nelle cose
create, sono gli individui ad essere reali, le tre persone che costituiscono Dio. Scrive ad
Abelardo che dire che “il Figlio è il Padre, e il Padre è il Figlio” vuol dire confondere in una
singola cosa entità che invece sono ognuna unica e distinta, comunque la Trinità ha una sola
potenza e una sola volontà. Ha comunque intenzione di attenersi al dogma, egli ebbe
semplicemente l’imprudenza di andare contro la terminologia acquisita chiamando
“sostanza” ciò che era chiamato “persone”.
3.Anselmo di Canterbury:
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Anselmo d'Aosta rappresenta la prima grande affermazione della ricerca nel Medio Evo.
Ma la ricerca ha in lui un valore religioso e trascendente, più che umano. Con accenti
agostiniani, egli ne abbandona a Dio l'iniziativa e la guida; e non vede nello sforzo di
accedere alla verità rivelata se non la progressiva azione illuminatrice della verità stessa.
«Insegnami a cercarti, – egli dice – e mostrati a me che ti cerco. lo non posso cercarti, se tu
non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti, che ri desideri
cercandoti, che ti trovi amandoti, e che ti ami trovandoti. lo ti riconosco, Signore, e ti
ringrazio di aver creato in me questa tua immagine affinché di te sia memore, ti pensi e ti
ami; ma essa è così consunta dal logorio dei vizi, così offuscata dal cumulo dei peccati, che
non può far quello per cui fu fatta, se tu non la rinnovi e non la ricostituisci. Non tento, o
Signore, di penetrare la tua altezza perché non paragono affatto ad essa il mio intelletto, ma
desidero in qualche modo di intendere la tua volontà, che il mio cuore crede ed ama. Né
cerco di intendere per credere; ma credo per intendere. E anche questo credo: che se prima
non crederò, non potrò intendere».
La priorità della fede sull'intendere esprime chiaramente il carattere religioso della ricerca di
Anselmo, come la priorità dell'intendere sulla fede esprimerà il carattere filosofico della
ricerca di Abelardo.
Questa religiosità trova la sua migliore espressione nel punto culminante della speculazione
di Anselmo, la prova ontologica dell'esistenza di Dio. Come Anselmo stesso riconosce nella
sua risposta a Gaunilone, il presupposto della prova è la fede. La fede sola trasforma in
affermazione indubitabile la possibilità di pensare l'essere maggiore di tutti. Se si può
pensare quest'essere, si deve pensarlo esistente; ma si può veramente pensarlo soltanto nella
fede. La prova ontologica è la fede stessa che si chiarisce nel suo principio e diventa
certezza intellettuale.
Vita e scritti
ANSELMO nacque nel 1033 ad Aosta. Entrò nel monastero di Bec in Normandia e ne
divenne priore nel 1063, abate nel 1078. La maggior parte delle sue opere sono il risultato
delle discussioni che dirigeva nel monastero. Dal 1093 sino al 1109, anno della morte, fu
arcivescovo di Canterbury.
Abbiamo dal suo segretario Eadmer un dettagliato racconto della sua vita. Di natura mite e
contemplativa, Anselmo fu spinto alla vita del chiostro dal bisogno di raccoglimento e di
meditazione. La sua fama di santo gli attribuì ben presto poteri soprannaturali. Guarì e portò
alla penitenza un vecchio monaco, di cui previde la morte che si verificò al tempo e nel
modo che egli aveva predetto. Spense l'incendio d'una casa vicina al chiostro, facendo il
segno della croce rivolto alle fiamme. E una volta che era nella cella a meditare sul dono
della profezia, vide attraverso i muri i frati preparare nella chiesa l'ufficio di mezzanotte.
Tolto contro sua volontà alla vita contemplativa, dovette occuparsi di affari e di politica,
dapprima come abate di Bec, poi come arcivescovo di Canterbury. Per quest'ultima qualità
si trovò coinvolto nelle vicende agitate della Chiesa inglese, all'epoca del re Guglielmo il
Rosso, che pretendeva subordinare ai suoi voleri il clero inglese e sottrarsi all'autorità
papale. Anselmo si recò a Roma a cercar appoggio e conforto presso Urbano II. Ritornato in
Inghilterra, venne in contrasto anche col nuovo re Enrico I, che voleva conservare il diritto
di investire i vescovi con la croce e l'anello. Si venne a un compromesso, per il quale il re
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rinunciava a conferire l'investitura, e i vescovi gli facevano omaggio (1106). Qualche anno
dopo Anselmo, che non aveva mai trascurato le sue meditazioni, moriva mentre cercava di
concludere le sue ricerche sull'origine dell'anima.
Tra il 1070 e il 1078 Anselmo compose il Monologion, il cui primo titolo era Exemplum
meditandi de ratione fidei: poi il Proslogion che dapprima si intitolava Fides quaerens
intellectum e la sua appendice polemica Liber apologeticus contra Gaunilonem; in seguito
compose i quattro dialoghi De veritate, De libero arbitrio, De casu diabuli, De gramatico.
Negli ultimi anni della vita scrisse il Cur Deus homo e la sua appendice De concepiti
virginali. Altre sue opere sono: De fide trinitatis, De concordia praescientiae et
praedestinationis, Meditationes; ed inoltre, omelie, orazioni e lettere.
Fede e ragione
Il motto che esprime l'atteggiamento di Anselmo sul problema scolastico è: credo ut
intelligam. La fede è il punto di partenza della ricerca filosofica. Non si può intendere nulla,
se non si ha fede; ma la fede sola non basta, occorre confermarla e dimostrarla. Questa
conferma è possibile. «Ciò che crediamo per fede intorno alla natura divina e alle persone di
essa, all'infuori dell'incarnazione, può essere dimostrato con ragioni necessarie, senza
ricorrere all'autorità delle scritture». E poiché è possibile è doverosa: «È negligenza non
cercare di intendere ciò che si crede, dopo che ci si è confermati nella fede». L'incarnazione
stessa è presentata da Anselmo, nello scritto che ha dedicato all'argomento, come una verità
cui la ragione può giungere da sola: non c'è dubbio infatti che gli uomini non avrebbero
potuto salvarsi, se Dio stesso non si fosse incarnato e non fosse morto per essi. Così
Anselmo ritiene l'accordo tra ragione e fede intrinseco ed essenziale. Certo, se un contrasto
apparisse, non bisognerebbe ammettere la verità del ragionamento, anche se questo
sembrasse imbattibile: ma Anselmo è intimamente sicuro che non può esserci un vero
contrasto, perché l'intelletto e illuminato dalla luce divina, esattamente come la fede. Ciò
non implica d'altronde che la verità sia interamente a portata dell'uomo. «Checché l'uomo
possa dire o sapere, dice Anselmo, le ragioni più alte dei misteri della fede gli rimingono
sempre nascoste. A chi indaga una realtà incomprensibile, come è la Trinità, basti di
giungere col ragionamento a conoscere che essa ci sia, anche se non intende in che modo
essa sia. Anselmo ha così affermato in limiti estesi il valore della ricerca.
Egli distingue la verità della conoscenza, la verità del volere e la verità della cosa. La verità
della conoscenza consiste nella conformità della conoscenza con la cosa e si ha quando si
conosce la cosa come essa è. Questa verità viene definita da Anselmo come rectitudo
cognitionis. La verità della volontà è, analogamente, rectitudo voluntatis. Agire secondo la
verità, significa fare il bene, far quello che si deve fare. Ma anche qui il criterio è obiettivo;
la misura è nell'oggetto, cioè nella cosa. Il fondamento di ogni verità è la verità della cosa, la
rectitudo rei. Ma questa verità a sua volta è fondata nella verità eterna, che è Dio: le cose
sono veramente quelle che sono nella mente di Dio, nella quale sussistono le loro idee o
esemplari. Dio stesso è dunque l'assoluta verità, che è norma e condizione di ogni altra
verità. Anselmo segue qui le orme della speculazione di S. Agostino nel De vera religione.
Nell'ambito del pensiero platonico-agostiniano si muovono pure le sue ricerche intorno
all'esistenza di Dio.
L'esistenza di Dio
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Il Monologion è un insieme di riflessioni sull'essenza divina che conducono ad una
dimostrazione dell'esistenza di Dio. Anselmo parte dal presupposto che il bene, la verità, e
in genere tutto ciò che e universale, sussiste indipendentemente dalle cose singole e non
soltanto in esse. Vi sono molte cose buone, sia come mezzi, cioè per la loro utilità, sia come
fini, cioè per la loro bontà o bellezza intrinseca. Ma tutte sono buone più o meno, non
assolutamente; presuppongono dunque un bene asoluto, che sia la loro misura e dal quale
esse traggano il grado di bontà o di verità che posseggono. Questo sommo bene è Dio. Allo
stesso modo, tutto ciò che è perfetto e in generale tutto ciò che esiste, esiste per
partecipazione ad un Essere unico e sommo. Il sommo bene, il sommo essere, il sommo
grado, tutto ciò che nel mondo ha verità e valore, coincidono in Dio.
Il Monologion sviluppa così un'argomentazione cosmologica che va dal particolare
all'universale e dall'universale a Dio. Il Proslogion sviluppa invece un'argomentazione
ontologica che muove dal semplice concetto di Dio per giungere a dimostrare la sua
esistenza. Esso è diretto contro la negazione risoluta dell'esistenza di Dio: contro Io sciocco
del XIII Salmo «che disse in cuor suo: Dio non c'è».
Evidentemente anche il negatore dell'esistenza di Dio deve possedere il concetto di Dio,
essendo impossibile negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure; la prova che
muove dal concetto alla realtà è dunque quella che non può essere in nessun modo negata.
Ora il concetto di Dio è quello di un Essere di cui non si può pensare nulla di maggiore (quo
maius cogitari nequit). Anche lo sciocco deve ammettere che l'essere di cui non si può
pensare nulla di maggiore sia nell'intelletto, pur se non c'è in realtà. Altro è infatti essere
nell'intelletto, altro nella realtà; l'immagine che il pittore vuol dipingere non è ancora in
realtà, ma è certo nel suo intelletto.
Ciò posto, la prova di Anselmo è la seguente: «Certamente, ciò di cui non si può pensare
nulla di maggiore non può essere nel solo intelletto. Giacché se fosse nel solo intelletto si
potrebbe pensare che fosse anche in realtà e cioè che fosse maggiore.
Se dunque ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore è nel solo intelletto, ciò di cui non
si può pensare nulla di maggiore è, invece, ciò di cui si può pensare alcunché di maggiore.
Ma certamente questo è impossibile. Dunque non c'è dubbio che ciò di cui non si può
pensare nulla di maggiore esiste sia nell'intelletto sia nella realtà».
L'argomento si fonda su due punti: 1° che ciò che esiste in realtà sia «maggiore» o più
perfetto di ciò che esiste solo nell'intelletto; 2° che negare che ciò di cui non si può pensare
nulla di maggiore esista in realtà, significa contraddirsi, perché significa ammettere nello
stesso tempo che si può pensare maggiore, cioè esistente in realtà.
All'obiezione che allora non si vede come sia possibile pensare che Dio non è, Anselmo
risponde che la parola pensare ha due significati: si può pensare la parola che indica la cosa
e si può pensare la cosa stessa. Nel primo senso si può pensare che Dio non c'è, come si può
pensare, per esempio, che il fuoco è acqua: nel secondo modo, non è possibile pensare che
Dio non c'è.
All'argomento ontologico il monaco GAUNILONE, del monastero di Marmontier, nel suo
Liber pro insipiente oppose che, in primo luogo, un risoluto negatore dell'esistenza di Dio
comincerebbe col negare di averne perfino il concetto (che è il punto di partenza
dell'argomento ontologico); e in secondo luogo, anche ammesso che si abbia il concetto di
Dio come di un essere perfettissimo, da questo concetto non può dedursi l'esistenza di Dio,
più che non possa dedursi dal concetto di un'isola perfettissima la realtà di quest'isola.
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Anselmo replicò col Liber apologeticus . È impossibile negare che si possa pensare Dio:
basta, a dimostrare questa possibilità, la fede stessa di cui Anselmo e Gaunilone sono dotati;
e se si può pensare Dio, si deve riconoscerlo come esistente, essendo impossibile negare
l'esistenza a ciò che si può pensare come la maggiore di tutte le cose. Di un'isola fantastica,
anche se concepita perfetta, non può dirsi che sia ciò di cui non si può pensare nulla di più
perfetto. Dalla possibilità di pensarla non segue la sua realtà, come invece segue dalla
semplice possibilità di pensare Dio come l'essere più perfetto di tutti.
L'argomento ontologico è stato già nella Scolastica a volta a volta criticato e difeso e questa
sua vicenda è continuata nel pensiero moderno. In realtà l'argomento ontologico non è una
prova, ma un principio. Non è una prova perché l'esistenza che si pretende dedurre è già
implicita nella definizione di Dio come l'essere di cui non si può pensare nulla di maggiore e
perciò nel semplice pensiero di Dio: come prova essa è un circolo vizioso. Come principio,
essa esprime l'identità di possibilità e realtà nel concetto di Dio. Se si può pensare Dio, si
deve pensarlo come esistente: il pensiero di Dio è il pensiero stesso di questa identità di
possibilità e di esistenza, identità che, come Anselmo dice nel Liber apologeticus, è
realizzata dalla fede. La fede consiste appunto nell'ammettere come necessariamente reale la
perfezione possibile: l'argomento ontologico che deduce da questa perfezione quell'esistenza
non è quindi altro che l'esplicazione della fede nella sua espressione razionale o nel suo
principio. Ancora una volta si tratta della fides quaerens intellectum, del credo ut intelligam:
del processo attraverso il quale l'atto della fede diventa atto di ragione e l'illuminazione
divina, ricerca filosofica.
L'essenza di Dio
Dalle prove stesse che dimostrano l'esistenza di Dio, risulta che Dio solo è l'assoluto e
perfetto essere e che le altre cose quasi non sono o sono solo a stento. Soggetto al divenire
ed al tempo, l'essere delle cose finite comincia e cessa continuamente e continuamente
muta; è perciò un essere approssimativo e stentato, che non può confrontarsi con l'essere
immutabile di Dio. AI quale S. Anselmo riconosce quella necessità, il cui concetto era stato
elaborato dalla scolastica araba, a partire da Avicenna. La natura di Dio è tale, che non può
derivare né da sé né da altro; né essa dà a se stessa una materia da cui venir fuori, né altro
può darle tale materia. Essa è dunque originaria e necessaria. Conseguentemente, le
proprietà che si affermano della natura divina devono essere predicate di essa
quidditativamente, non qualitivamente: cioè come parti o aspetti integranti dell'essenza
divina, per nulla diverse da questa essenza. Dio non può essere giusto o saggio, se non per
sè e da sè; non certo per partecipazione ad una giustizia o saggezza diversa da Lui. Meglio è
quindi dire, non che Dio è giusto, ma che è la giustizia; non che ha vita, ma che è la vita; e
analogamente che è la verità, il bene, la grandezza, la bellezza, la beatitudine, l'eternità, la
potenza, lìimmutabilità, l'unità e in generale tutte le qualità che implicano eccellenza e
perfezione in chi le possiede. D'altronde tutte queste qualità non possono sussistere
nell'essenza divina come un molteplice numerico. La natura divina esclude ogni
composizione e non può consistere di parti o di aspetti diversi. Le qualità diverse che le si
attribuiscono, in quanto identiche ad essa, sono identiche fra loro; e così la giustizia o la
saggezza e ogni altra qualità è la stessa essenza divina e chi dice una di quelle, dice questa.
Di qui deriva che l'essenza divina non è sostanza, nel senso di essere il soggetto o sostegno
delle sue qualità o accidenti. E' sostanza nel senso che sussiste per sé ed in sé; ma in questo
senso non può essere compresa sorto la categoria universale della sostanza, ma è fuori e
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sopra di ogni concerto generico. L'unica determinazione che si può attribuire all'essenza
divina come sostanza è la spiritualità; l'essere spirituale è difatti più eccellente dell'essere
corporeo e perciò l'unico che sia proprio di Dio. Una tale sostanza è assolutamente al di
sopra delle vicende temporali. Nella vita divina, non c'è successione, ma tutto è presente in
un unico atto indivisibile. Essa è compiuta una volta per sempre nella sua totalità e non può
subire accrescimenti o diminuzioni. La sua immutabilità esclude infine che in essa esistano
caratteri accidentali, che come tali implicherebbero mutevolezza. Possono in Dio sussistere
tali caratteri, ma non analogamente a ciò che è, per esempio il colore in un corpo; bensì solo
come rapporti determinati, puramente esteriori, come quando si dice che essa è maggiore di
tutte le altre mature. Solo in questi limiti la categoria dell'accidentale non contraddice alla
natura divina.
La creazione
Poiché Dio e l'essere e le cose sono solo per partecipazione all'essere, ogni cosa deriva il suo
essere da Dio. Tale derivazione è una creazione dal nulla. E difatti, le cose create non
possono derivare da una materia. Questa a sua volto dovrebbe derivare da sé, il che è
impossibile, o dalla nitura divina. In questo caso, la natura divina sarebbe la materia delle
cose mutevoli e soggiacerebbe alla mutevolezza e alla corruzione di esse. Essa, che è il
Sommo Bene, andrebbe in esse soggetta a mutevolezza e o corruzione; ma il Bene Sommo
non può cessare di essere tale. La materia delle cose create non può essere né da sé né da
Dio; non c'è dunque una materia delle cose create. Non resta allora che ammettere che esse
sono create dal nulla.
Contro l'interpretazione (che si trova, per esempio, in Eriugena) che il «nulla» da cui le cose
derivano sia alcunché di positivo, per esempio una causa materiale o una realtà potenziale,
Anselmo ha cura di aggiungere che esso non è né una materia né altra cosa reale; e che
l'espressione «creazione dal nulla» significa soltanto che il mondo prima non c'era ed ora
c'e. L'espressione «creazione dal nulla,» è identica a quella che si adopera dicendo che , «si
è fatto dal nulla» un uomo che ora e ricco e potente e prima non lo era. Essa indica il salto
dal nulla a qualche cosa. Il mondo è stato, tuttavia, razionalmente prodotto e niente può
essere prodotto in tal modo senza supporre nella ragione di chi produce un esemplare della
cosa da prodursi, cioè una forma, similitudine o regola di essa. Deve cioè esserci, nella
mente divina, il modello o l'idea della cosa prodotta, come nella mente dell'artefice umano
c'è il concetto dell'opera da prodursi: con la differenza che l'artefice ha bisogno di una
materia esterna per effettuare la sua opera e Dio no, e che il primo deve ricavare dalle cose
esterne il concetto stesso dell'opera; mentre Dio crea da sé l'idea esemplare. Nell'uno e
nell'altro caso, però, l'idea dell'opera è una specie di parola interiore; Dio si esprime nelle
idee, come l'artefice nel suo concetto: né l'espressione è una parola esterna, una voce; è la
cosa stessa, alla quale si rivolge l'acume della mente creatrice.
La creazione dal nulla è appunto questa articolazione interiore della parola divina. Senza
l'attività creatrice di Dio, nulla è e nulla dura; Dio non solo porta all'essere le cose, ma le
conserva e le fa durare continuando la sua azione creatrice. La creazione è continua. Da ciò
segue che Dio è e deve essere dappertutto; dove egli non è, nulla è e nulla sta in piedi.
Questo non vuol dire, certo, che egli sia condizionato dallo spazio e dal tempo. In lui non c'è
un alto né un basso, né un prima, né un dopo; ma Egli è tutto in tutte le cose esistenti e in
ciascuna di esse e vive di una vita interminabile che è tutta insieme (totum simut) presente e
perfetta.
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La Trinità
La parola interiore di Dio non è suono di voce, ma essenza creatrice. Questo è il punto di
partenza della speculazione trinitaria di S. Anselmo. Quella parola interiore è la divina
Sapienza, il Verbo di Dio: per esso tutto è stato detto e tutto è stato fatto. Il Verbo da un lato
è identico con l'essenza di Dio, dall'altro identico con l'essenza della creatura. E identico con
l'essenza di Dio, perché non è creatura ma principio della creatura e perché è in Dio, in cui
non sussiste diversità né molteplicità. Dall'altro lato, è l'essenza stessa delle cose create:
giacché di che cosa sarebbe Verbo se non fosse verbo di esse? Ogni verbo è verbo di
qualche cosa. Bisogna forse intendere allora che non ci sarebbe il Verbo, se non ci fossero le
creature? La cosa è inconcepibile, perché il Verbo è necessario ed eterno come Dio stesso.
Ma d'altronde, se le creature non ci fossero, come potrebbe, esso, esser verbo di ciò che non
è? La soluzione è che il Verbo è in primo luogo l'intelligenza che Dio ha di sé.
Come la mente umana conosce e intende se stessa, così Dio: il Verbo è dunque coeterno con
Dio perché è l'eterna intelligenza che Dio ha di sé. Ma nello stesso tempo è anche il verbo
delle cose create. «Con un solo e medesimo Verbo il Sommo Spirito dice se stesso e tutte le
cose create,». Se tali cose in se stesse sono mutevoli, sono tuttavia immutabili nella loro
essenza e nel loro fondamento, che è nel Verbo divino; ed esistono tanto più veramente
quanto più sono simili a tale fondamento. Dal suo canto, il Verbo, pur nella sua identità col
Sommo Spirito, si distingue da esso: essi sono due sebbene non possa esprimersi in che
modo lo sono. Essi sono distinti dalla reciproca relazione, in quanto l'uno è il Padre, l'altro il
Figlio; e sono invece identici nella sostanza, in quanto c'è nel Padre l'essenza del Figlio e nel
Figlio l'essenza del Padre. Unica e indivisibile è infatti l'essenza di entrambi. Ora se il
Sommo Spirito si riconosce e si intende nel Figlio, deve anche amarsi; inutile sarebbe infatti
l'intelligenza senza l'amore. L'amore dipende dunque dall'intelligenza che il Sommo Spirito
ha di sé: cioè dipende insieme dal Padre e dal Figlio. Questa dipendenza non è generazione:
l'amore non è figlio. E' tuttavia una dipendenza che implica partecipazione alla loro comune
natura; e poiché tale natura è spirito, l'amore si chiama Spirito. Ognuna delle tre persone
divine, partecipando dell'intera natura divina, ricorda, intende e ama, senza bisogno
dell'altra. Benché sia proprio del Padre la memoria, del Figlio l'intelligenza, dello Spirito
l'amore, ognuno di essi è essenzialmente memoria, intelligenza ed amore. Né dalla memoria,
dall'intelligenza e dall'amore di ciascuno di essi derivano altri figli e :litri spiriti: in ciò è il
mistero inesplicabile della Trinità divina.
S. Anselmo ha cercato di chiarire con un'immagine questo mistero. Consideriamo, egli dice
una sorgente il fiume che nasce da essa e il lago in cui le sue acque si raccolgono: noi diamo
all'insieme di queste tre cose il nome di Nilo. Si tratta di tre cose distinte l'una dall'altra:
eppure noi chiamiamo Nilo la sorgente, Nilo il fiume, Nilo il lago e Nilo infine tutto
l'insieme. Non parliamo di tre Nili, per quanto siano tre cose tra loro distinte. Sono tre, la
sorgente, il fiume e il lago; eppure è sempre l'unico e stesso Nilo, un solo flusso, una sola
acqua, una sola natura. C'è qui una trinità in uno e un'unità in tre, che è l'immagine della
Trinità divina.
La libertà
La ricerca istituita da Anselmo nel Monologion e nel Proslogion mira a comprendere Dio
nella sua esistenza e nella sua essen:a. Anselmo tenta di tradurre con essa la certezza della
fede in verità filosofica; e con ciò di offrire una via di accesso alla verità rivelata, tale che
l'uomo possa giungerle il più vicino possibile. Ma parallelamente a questa ricerca, Anselmo
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ne conduce un'altra, indirizzata all'uomo questa, e alle sue possibilità di innalzarsi a Dio. Il
tema di questa ricerca è la libertà. Ad essa Anselmo ha dedicato due opere; il De libero
arbitrio e il De concordici praescentiae et praedestinationis nec non et gratiae Dei cum
libero arbitrio, composta, quest'ultima, nel 1109, dopo il suo ritorno in Inghilterra. La libertà
suppone, in primo luogo, due condizioni negative: che la volontà sia libera dalla costrizione
di ogni causa esterna e che sia libera dalla necessità naturale interna, quale è l'istinto negli
animali. La libertà è essenzialmente libertà di scelta e la scelta manca dove c'è costrizione e
necessità. Posto ciò Anselmo esclude che la libertà possa definirsi (come aveva fatto
l'Eriugena) quale possibilità di scegliere tra il peccare e il non peccare. Se così fosse, né Dio
né gli angeli, che non possono peccare, sarebbero liberi. In ogni caso poi è più libero chi
non può perdere ciò che gli giova, di chi lo può perdere; ed è così più libero chi non può
allontanarsi dalla rettitudine del non peccare, di chi può farlo. La capacità di peccare non
aumenta, ma diminuisce la libertà; perciò non è parte o elemento della libertà. Il primo
uomo ha ricevuto da Dio originariamente la rettitudine della volontà, cioè la giustizia.
Avrebbe potuto e dovuto conservarla; ed a questo fine appunto gli tu data la libertà. La
quale dunque non e arbitrio di indifferenza, cioè volontà che si decide indifferentemente tra
il bene e il male; è la capacità positiva di conservare la giustizia originaria e di conservarla
per la stessa giustizia, e non in vista di un motivo estraneo. Questo potere in cui consiste la
libertà non viene perduto dall'uomo in nessun caso, e neppure con il peccato. Come chi non
vede più un oggetto, conserva la capacità di vederlo perché il non vederlo dipende dalla
lontananza dell'oggetto e non dalla perdita della vista; così la capacità di conservare la
rettitudine della volontà permane nell'uomo anche attraverso il peccato ed entra in azione
appena Dio restituisce la rettitudine della volontà all'uomo che l'ha perduta. Ora l'uomo può
perderla solo per un atto della sua volontà e mai per cause esterne. Dio stesso non può
toglierla all'uomo. Poiché essa consiste nel volere ciò che Dio vuole che si voglia, se Dio la
togliesse all'uomo, non vorrebbe che l'uomo volesse quello che Egli vuole che voglia.
Poiché questo è impensabile, Dio non può togliere all'uomo la volontà giusta; l'uomo solo
può perderla. Niente è dunque più libero della volontà. A ciò non contraddice il detto biblico
che l'uomo che pecca diventa «schiavo del peccato». Che diventi schiavo del peccato
significa solo che perde la rettitudine della volontà e che non ha la capacità di riacquistarla,
se non per dono gratuito di Dio. La servitù del peccato è l'impotentia non pecccandi: l'uomo
che ha perduto la rettitudine della volontà non può non peccare, ma con ciò rimane libero,
perché conserva la possibilità di conservare quella rettitudine, se essa gli viene ridata. Già
risulta da questo che Anselmo, come S. Agostino, pone uno stretto rapporto tra la libertà
umana e la grazia divina. Non c'è dubbio che la volontà vuole rettamente soltanto perché è
retta. Ma come la vista non è buona perché vede bene, ma vede bene perché è buona, così la
volontà non è retta perché vuole rettamente, ma vuole rettamente perché è retta. Ciò vuol
dire che la volontà riceve la sua rettitudine, non da se stessa (dal momento che ogni suo
singolo atto retto la presuppone) ma dalla grazia divina. L'ultima condizione della libertà
umana è dunque la grazia divina. Come capacità di conservare la giustizia originaria, la
libertà umana è condizionata dal possesso di questa giustizia; e tale possesso può venirle
solo da Dio.
Prescienza e predestinazione
Come la libertà umana non si oppone per nulla alla grazia divina, così nessun limite o
restrizione apportano alla libertà stessa la prescienza e la predeterminazione divina.
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Certamente Dio prevede tutte le azioni future degli uomini; ma questa previsione non
impedisce che le azioni siano effettuate liberamente. Dio infatti prevede le azioni degli
uomini nella libertà, che ne è l'attributo fondamentale. Non bisogna dire, dice S. Anselmo,
«Dio prevede che io peccherò o che io non peccherò» ma bisogna aggiungere che egli
prevede che io peccherò o non peccherò senza necessità; e così, sia che io pecchi, sia che io
non pecchi, l'una e l'altra cosa sarà libera, perché Dio stesso prevede che ciò avverrà senza
necessità. Vi è una necessità duplice; l'una che precede l'effetto, l'altra che segue alla
realizzazione di una cosa. La prima è veramente determinante, la seconda non lo è. La prima
è, per esempio, implicita nell'affermazione «I cieli necessariamente girano», la seconda è
implicita nell'affermazione «Tu parlerai». Difatti la necessità naturale costringe i cieli a
muoversi, mentre non c'e necessità che costringa un uomo a parlare. Anche in questo caso la
previsione si verificherà ed è quindi certa; la sua certezza però non annulla né diminuisce la
libertà del fatto previsto. Indubbiamente ciò che è, è impossibile che non sia. Un'azione
libera, una volta verificatasi, ha quindi una necessità di fatto, che costringe a riconoscerla
per quella che è. Ma questa necessità di fatto non ne annulla la libertà, sebbene la renda
prevedibile con assoluta certezza da parte di Dio. Considerazioni analoghe valgono per la
predestinazione. Dio predestina alla salvezza gli eletti, e quelli che non predestina sono
dannati. Si può dunque parlare di una predestinazione anche dei dannati, in quanto Dio
permette la loro dannazione: sebbene la predestinazione sia positiva ed effettiva soltanto per
gli eletti. La predestinazione tiene conto della libertà. Dio non predestina nessuno facendo
violenza alla sua volontà, ma lascia sempre la salvezza in potere del predestinato. Come la
prescienza, che non si inganna mai, sa in anticipo tutto ciò che avverrà, sia che avvenga
necessariamente sia che avvenga liberamente, così la predestinazione, che non muta mai,
non predestina se non in virtù ed in conformità della prescienza. Sono predestinati alla
salvezza solo coloro di cui Dio conosce in anticipo la buona volontà.
Il male
A concetti agostiniani si riporta la trattazione di Anselmo del problema del male. Come ci
sono due specie fondamentali di bene, la giustizia e l'utile, così ci sono due specie
fondamentali di male: l'ingiustizia (malum injustitiae) e il danno (malum incommodi). Il
male vero e proprio è soltanto l'ingiustizia. L'ingiustizia è sempre alcunché di negativo; essa
è la pura e semplice negazione di ciò che deve essere, cioè della giustizia. E poiché il bene e
veramente solo la giustizia, il male non ha in nessun case realtà positiva: è una pura
negazione e può a buon diritto essere chiamato il nulla. Quanto al danno, cioè al male fisico,
anche esso e, nella sua essenza, negazione; ma qualche volta gli si accompagna una qualche
azione positiva, alla quale in realtà si pensa quando lo si chiami male. Così non c'e dubbio
che la cecità, per esempio, è semplice privazione della vista; ma ad essa si accompagnano
tristezza e dolore, che sono realtà positive e costituiscono l'aspetto pauroso del male.
Tuttavia la tristezza, il dolore e l'orrore che queste cose determinano nell'anima seguono alla
privazione del bene, che è il vero fondamento di ogni male. Il vero e unico bene è la
giustizia per la quale sono buoni, cioè giusti, gli angeli e gli uomini e per la quale la volontà
stessa e buona e giusta. Ora la giustizia consiste nella conformità della volontà umana con la
volontà divina. La volontà della creatura razionale deve essere soggetta alla volontà divina e
chi non rende a Dio questo debito onore toglie a Dio ciò che e suo e in ciò pecca. A Dio
soltanto spetta avere unsi volontà propria, cioè tale che non è soggetta a nessuno. Chiunque
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si avvale di una volontà propria si sforza di rendersi simile a Dio per rapinam e di privare
Dio, per quanto è in lui, della sua dignità e della sua singolare eccellenza.
Il tratto caratteristico di queste formulazioni di Anselmo è la riduzione di ogni valore morale
alla volontà, nella quale soltanto risiede la giustizia o l'ingiustizia. Gli appetiti sensibili, per
loro conto, non sono né buoni né cattivi. L'uomo è giusto o ingiusto, non perché li senta o
meno, ma solo perché vi consente o meno con la volontà. Non il sentirli, ma il consentire ad
essi è peccato.
La sola origine del male è la volontà stessa. La volontà può perdere la sua rettitudine in
quanto vuole ciò che non deve volere; ma questo poterla perdere non è fondamento del
male; giacché essa non la perde in realtà perché può perderla, ma soltanto perché vuole
perderla. Il male non ha altra causa positiva. Né esso può risalire a Dio giacché non si può
dire che egli dia agli uomini una volontà cattiva, se non nel senso che egli non impedisce,
pur potendolo, una tale volontà. Dio invece è causa diretta della volontà giusta. Tutto ciò
che di bene c'è nella volontà e nelle azioni degli uomini deriva dalla sua grazia: il male
deriva solo dall'uomo. E come la volontà è il solo soggetto delle valutazioni morali, così
essa soltanto è imputabile e punibile. Non c'è pena che non sia diretta contro la volontà e
niente può subire pena che non sia dotato di volontà. Come è la volontà che agisce nelle
membra e nei sensi, così è la volontà che nelle membra e nei sensi viene punita o dilettata.
In un solo caso il peccato non dipende dalla volontà ed è il caso del peccato originale.
Adamo peccò di propria volontà; i suoi discendenti peccano per necessità naturale. Ma in
Adamo era presente l'intera natura umana; in lui dunque hanno peccato tutti gli uomini, non
personalmente, ma nella loro origine e nella loro natura comune.
L'anima
La dottrina di Anselmo sull'anima segue le orme di quella agostiniana, con qualche sviluppo
notevole per ciò che riguarda la dimostrazione dell'immortalità. L'uomo risulta composto di
due nature, l'anima e il corpo; la parte più alta, perché più vicina alla somma essenza, è
l'anima e precisamente l'intelletto. E difatti solo attraverso l'intelletto si può conoscere e
cercare Dio e si può avvicinarsi a lui. L'anima è come uno specchio in cui si mira
l'immagine della Somma essenza, che non è possibile vedere faccia a faccia. Anselmo segue
qui S. Agostino: l'anima ricorda, intende ed ama se stessa; e in ciò riproduce la Trinità
divina che è appunto Memoria, Intelligenza ed Amore. Dalla natura dell'anima risulta
segnato il suo destino. L'anima deve tendere ad esprimere con atti di volontà l'immagine
della Trinità divina che è segnata in essa naturalmente: deve quindi impegnare tutta la sua
volontà, nel ricordare, intendere ed amare il Sommo bene; tale è il fine della sua esistenza.
Da questo destino, deriva la sua immortalità. Se l'anima è destinata ad amare senza fine la
somma essenza bisogna che essa viva sempre e che la morte non interrompa a un certo
punto, senza suo demerito, l'amore che deve a Dio, Né Dio potrebbe ridurre al nulla una
creatura che egli ha creata perché lo amasse o permettere che sia tolta alla creatura che l'ama
la vita che egli le ha dato, quando essa non ancora lo amava, affinché potesse amarlo: tanto
più che il Creatore ama ogni creatura che veramente lo ama. E' poi evidente che una vita
spesa nell'amore di Dio non può essere che beata. All'anima dunque è assicurata, dal suo
destino, una vita eterna e beata. Ma l'immortalità non riguarda soltanto l'anima che ama Dio.
Se per l'anima che ama Dio, l'immortalità è, da parte di Dio, un dono d'amore, per l'anima
che disprezza Dio, l'immortalità è, da parte di Dio, un atto di giustizia. Sarebbe infatti
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ingiusto che l'anima che disprezza Dio fosse punita con la perdita della vita e dello stesso
suo essere, e con ciò non avesse altra pena che il ritorno allo stato in cui si trovava prima di
ogni colpa, cioè prima di esistere. Anche l'anima ingiusta deve essere quindi immortale per
subire l'eterna pena, così come è immortale l'anima giusta per godere l'eterno premio. Tutte
le anime sono dunque immortali, sia le giuste sia le ingiuste: anche quelle che non sono
capaci né di una cosa né dell'altra, come le anime dei bambini, devono esserlo perché
devono avere la stessa natura
.
Sappiamo, dal biografo Eadmer, che Anselmo morì mentre cercava ansiosamente di chiarire
la natura e l'origine dell'anima. Poco infatti ci dicono intorno a questo problema le opere che
egli ci ha lasciate. La speculazione di Anselmo iniziatasi con Dio si concludeva con l'anima
umana. Veramente Anselmo aveva fatte sue le parole di S. Agostino: «Desidero conoscere
Dio e l'anima; e null'altro»
4.Cristianità e società:
I secoli IX e X non hanno lasciato opere importanti sul problema dei rapporti tra la chiesa e
gli Stati, ma è in quest’epoca che è precisata la situazione di fatto sulla quale doveva
esercitarsi la riflessione dei futuri teorici. In questo processo l’impero carolingio ha avuto un
ruolo decisivo. Nelle sue lettere a Carlomagno il papa Adriano I (772-795) mette avanti
incessantemente l’alleanza di fatto che unisce il re al papa. Si rivolge a Carlo come al
grande re istituito da Dio per la salvezza della chiesa; i destini del regno sono così
inseparabili da quelli della chiesa. Esprimendosi così Adriano parla contemporaneamente
come capo della chiesa universale e come sovrano temporale di Roma.
L’incoronazione dell’imperatore Carlo nell’800 da parte di Leone III non fu che la
consacrazione ufficiale della posizione di “difensore della chiesa” che Adriano I gli aveva
già attribuito. Crollato l’impero carolingio un’altra idea, più antica, prese piede: la Civitas
Dei. Questa concepita da Agostino come terrena e mistica. Coincideva nell’ordine
temporale con la chiesa e si presentava sotto una formula concreta e visibile.
Per il fatto che si appellano alla stessa fede i cristiani formano una sola società spirituale, i
costumi che la fede imponeva loro dovevano stabilire Tra loro dei legami sociali in cui
l’ordine temporale era direttamente interessato. Idea che Agostino esprime bene nel De
opere monachorum.
Come i principi chiedono ai loro sudditi di porre dinanzi ai suoi affari privati l’interesse
comune così tanto più lo si richiedeva al cittadino della città eterna, la Gerusalemme celeste.
Così tutti i monasteri devono sempre tenere a portata di mano dei fratelli indigenti il
prodotto delle loro mani, perché c’è una sola repubblica di tutti i cristiani.
Christianitas: il significato più antico è quello di “cristianesimo”. Si trova, anche, utilizzato
come formula onoraria applicata ai sovrani cristiani.
Appare per la prima volta con il significato di “Cristianità” in una lettera indirizzata
all’imperatore Michele dal papa Nicolò I (858-867).
Questa nozione è giunta a piena consapevolezza di sé con il papa Giovanni VIII (872-882)
che ha avuto un ruolo decisivo nella formazione di questa idea di una “comunità politica di
cristiani in quanto tali”, che ha avuto molta importanza nel Medioevo. Spesso nelle sue
lettere con il termine “Cristianità” designa una società comparabile a quella dell’impero.
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Giovanni VIII definisce la chiesa di Roma quella che “ha l’autorità su tutti i popoli”,
collegare così Roma non solo alle altre chiese, ma anche ai popoli e alle nazioni era formare
la Cristianità.
La povertà speculativa del X e XI secolo, in cui però si risveglia una ricchezza in ambito
politico.
Gregorio VII: fondatore di quello che gli storici chiamano “teocrazia pontificia”, di cui i
predecessori avevano gettato le basi. Attorno a lui diversi personaggi che si definiscono
“pregregoriani” se ne hanno preparato l’opera o “gregoriani” (così classificati dalla storia
della politica corrispondono agli “antidialettici” per la storia delle idee) se ne hanno dato
una giustificazione dottrinale.
“per un pensatore del Medioevo, lo Stato sta alla chiesa come la filosofia alla teologia e
come la natura sta alla grazia”, le dottrine medievali tendono a riassorbire lo Stato nella
chiesa, a distinguerlo, a separarlo o ad opporlo ad essa, allo stesso modo e con le stesse
sfumature ch’esse tendono a riassorbire la filosofia nella teologia e la natura nella
sopranatura, a distinguerle, separarle o ad opporle.
L’imperatore è come un figlio amatissimo nelle braccia del padre, ma è il papa ad avere la
dignità e l’autorità paterna.
Pier Damiani non si è mai chiesto come la fede potrebbe entrare in rapporto con la ragione,
perché per lui la ragione non aveva diritto ad uno statuto separato dalla fede.
Non si conoscono scritti specificamente dedicati a dare un fondamento dottrinale alla
nozione di “Cristianità”, ma Gregorio VII ne fa liberamente uso come faranno anche i suoi
successori.
In un primo luogo la Cristianità si presenta come la società formata da tutti i cristiani sparsi
nel mondo (così sembra non differire dalla chiesa) la determinazione che la caratterizza è il
fatto che i cristiani formano una società religiosa di essenza soprannaturale, ma per il solo
fatto di che sono esseri umani viventi nello spazio e nel tempo formano una società
temporale e di conseguenza un popolo che non si confonde con nessuno dei corpi politici
esistenti e questo stesso non è un corpo politico.
Così definita la Cristianità non poteva confondersi con l’impero, poiché includeva tutti i
cristiani, e c’erano dei cristiani al di fuori dell’impero.
V. La filosofia nel secolo XII:
1.La scuola di Chartres:
Il naturalismo chartrense
Il problema degli universali, fin dalle sue prime impostazioni, costituisce il segno di un
nuovo interesse per l'uomo e in particolare per i suoi poteri conoscitivi; e il risultato
immediato di quest'interesse è una più estesa autonomia riconosciuta a tali poteri. Ma il
secolo XII ci offre anche, in taluni indirizzi filosofici, l'esempio di un nuovo interesse per il
mondo della natura; ed anche in questo caso il risultato di questo interesse è il
riconoscimento di una più estesa autonomia della natura nei confronti del suo stesso
creatore. Questo secondo aspetto della Scolastica del XII secolo costituisce l'indirizzo
seguito dai filosofi che insegnarono alla Scuola cattedrale di Chartres, che era stata fondata,
alla fine del secolo X, da FULBERTO (morto nel 1028). Ma accanto all'interesse
naturalistico, la scuola di Chartres coltivò pure l'interesse per gli studi letterari e
grammaticali e per la logica: sicché essa ci offre la migliore documentazione della svolta
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che la filosofia scolastica subì nel secolo XII: una svolta per la quale l'intero mondo
dell'uomo viene scrutato e guardato con rinnovato interesse, pur nel posto subordinato che
esso conserva di fronte alle forze trascendenti che lo reggono.
I temi di filosofia naturale, che i filosofi di Chartres preferirono, sono molto semplici e tutti
si riconnettono col tentativo di Abelardo di inserire il Timeo platonico sul tronco della
teologia cristiana. Abelardo aveva identificato la platonica Anima del mondo con lo Spirito
Santo. Quest'identificazione viene mantenuta dai filosofi di Chartres, ma essi identificano
pure l'Anima del mondo con la Natura. Con ciò, la natura diventa la forza motrice,
ordinatrice e vivificatrice del mondo; e in questa azione acquista una dignità ed una potenza
autonoma. La natura è detta la forza universale (vigor universalis) che non solo fa essere
ogni singola cosa ma la fa essere quella che in particolare essa è.
E nelle composizioni letterarie che esprimono immaginosamente e secondo i modelli
classici questi stessi concetti, viene personificata ed esaltata come la figlia di Dio, la
genitrice di tutte le cose, l'ordine, lo splendore e l'armonia del mondo. Ma l'importante è
che, riconosciuta alla natura questa dignità, si rende possibile riconoscerle anche una certa
autonomia: si rende cioè possibile spiegare la natura con la natura; e i filosofi di Chartres,
utilizzando le fonti classiche e patristiche (e specialmente Cicerone), ricorrono volentieri a
dottrine epicuree e stoiche per le loro spiegazioni cosmologiche. Ovviamente, l'utilizzazione
di dottrine così eterogenee –platonismo, epicureismo, stoicismo, mescolate insieme nella
storta della teologia abelardiana – dà luogo a costruzioni concettuali eterogenee e confuse
che hanno scarso valore scientifico e filosofico.
Ma l'importanza di questi tentativi non è nei loro risultati, bensì piuttosto nell'indirizzo
filosofico che delineano: un indirizzo deciso a fare un conto sempre maggiore della natura e
dell'uomo, anche se la natura e l'uomo vengono concepiti, non in opposizione al
trascendente, ma come manifestazioni del trascendente medesimo.
L'indirizzo che trova nella scuola di Chartres la sua più ricca espressione filosofica era stato
preparato, sin dal secolo precedente, da una certa ripresa delle conoscenze scientifiche
dovuta soprattutto ai contatti con gli Arabi. Fin verso la metà dell'XI secolo, per ciò che
riguarda la scienza naturale e la medicina, la cultura medievale era rimasta ferma all'opera di
Gerberto di Aurillac. Verso la metà di quel secolo, il medico COSTANTINO AFRICANO
porta a conoscenza del mondo occidentale, con numerose traduzioni, la scienza e la
medicina greco-araba. Costantino era nato a Cartagine e aveva viaggiato in Oriente e in
Egitto. Nel 1060 si fermò a Salerno dove fioriva una grande scuola di medicina. Più tardi
divenne monaco nel chiostro di Montecassino. Egli tradusse dall'arabo due libri di medicina
intitolati Pantegni e Viaticum che furono in seguito attribuiti anche al medico ebreo Isacco e
stampati sotto il suo nome (Lugduni, 1515). In seguito Costantino tradusse opere mediche
dello stesso Isacco e dei grandi medici greci Ippocrate e Galeno. Egli richiamò inoltre
l'attenzione sulla teoria atomica.
Continuò l'opera di Costantino l'inglese ADELARDO DI BATH (nato verso il 1090) che
insegnò per qualche anno a Laon, alla scuola di Anselmo, e viaggiò nell'Italia meridionale,
in Spagna e nell'Asia minore, per ritornare dopo sette anni in Inghilterra a far conoscere ciò
che aveva appreso dagli Arabi. Tradusse allora gli Elementi di Euclide e scritti arabi di
aritmetica e di astronomia; e compose due libri di cui uno, Quaestiones naturales, è un'opera
di fisica; l'altro, De eodem et diverso, ha la forma di una lettera ad un nipote ed è
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un'allegoria nella quale la filosofia e la filocosmia si disputano il giovane Adelardo
vantando ognuna i propri meriti.
Nelle Quaestiones naturales Adelardo esplicitamente contrappone la ragione all'autorità per
quel che riguarda l'indagine del mondo naturale. In questa indagine, egli afferma, ciò che
bisogna afferrare e conoscere è la ragione delle cose (Quaest. nat., 6). Né questo
procedimento toglie nulla alla potenza di Dio; perché Dio fa tutto, ma non fa nulla senza
ragione: ed è appunto a conoscere tale ragione che deve tendere la scienza umana. Nella
ricerca di questa ragione Adelardo fa spesso ricorso alla teoria atomica che probabilmente
desumeva da Costantino Africano e che in questo periodo viene spesso invocata, sebbene
sia conosciuta, più che attraverso Lucrezio, attraverso gli accenni di scrittori patristici:
Calcidio (In Tim., 279), Ambrogio (In Hexam., 1, 2), S. Agostino (Ep., 118, 4, 28) e Isidoro
(Etim., 13, 2, 1 sgg.). Inoltre egli ha per la prima volta introdotta nell'Occidente latino la
prova aristotelica dell'esistenza di Dio, dedotta dal movimento (Quaest. nat., 60).
Da questo può forse desumersi che aveva conosciuto presso gli Arabi la Fisica di Aristotele,
che era ancora inaccessibile ai filosofi dell'Occidente, ed egli cita in un punto. Quanto al
problemi degli universali, Abelardo fa sua la soluzione d'Abelardo esprimendola solo in
modo diverso. I nomi «genere», «specie», «individuo» sono imposti alla stessa sostanza ma
da un diverso punto di vista. Così il nome di genere «animale» designa un soggetto dotato di
sensibilità e di anima; il nome di specie «uomo» designa questo stesso soggetto con in più la
ragionevolezza e la mortalità; il nome individuale «Socrate» designa tutte le cose precedenti
con in più una distinzione numerica dovuta a caratteri accidentali. Adelardo conclude che
aveva ragione Aristotele nel dire che i generi e le specie esistono solo nelle cose sensibili;
ma aggiunge che aveva anche ragione Platone a dire che essi esistono nella loro purezza,
come forme senza materia, nella mente divina.
Tutti questi temi e motivi passano nella scuola di Chartres il cui primo rappresentante
importante fu BERNARDO, dal 1114 al 1119 maestro nella scuola cattedrale e dal 1119 al
1124 cancelliere del Chiostro. Di lui non possediamo scritti ma conosciamo la sua dottrina
dalle testimonianze di Giovanni di Salisbury che nel suo Metalogicus (IV, 35) lo chiama «il
più perfetto tra i platonici del suo secolo». Ciò che sappiamo delle sue dottrine appare
desunto dal Timeo platonico, visto attraverso Abelardo. Bernardo identificò i generi e le
specie con le idee platoniche e ritenne che, come le idee, essi sono eterni. Non sono tuttavia
coeterni con Dio nel senso in cui sono coeterne tra loro le persone della Trinità. Le idee, in
quanto sussistenti nella mente divina sono prive di materia e non sono soggette al
movimento: nella materia ci sono soltanto, impresse da Dio, le immagini di queste forme
ideali, immagini che Bernardo chiama forme native e che ritiene seguano il destino delle
cose singole. Ma Bernardo fu soprattutto (a quanto ne sappiamo) un grammatico e un
letterato,
entusiasta ammiratore degli autori antichi: egli diceva che noi siamo, rispetto agli antichi,
come nani sulle spalle dei giganti: possiamo vedere più in là di essi solo perché possiamo
sollevarci alla loro altezza.
Il fratello minore di Bernardo, TEODORICO DI CHARTRES, fu verso il 1121 insegnante a
Chartres; verso il 1140 insegnava a Parigi dove Giovanni di Salisbury fu suo scolaro e nel
1141 fu cancelliere di Chartres e nello stesso tempo arcidiacono di Dreux. Morì verso il
1150. Teodorico è autore di un Heptateucon o manuale delle sette arti liberali di cui si servi
per il suo insegnamento e che è un documento del materiale di studio di cui si servivano le
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scuole nella prima metà del XII secolo; di un commentario alla genesi Hexaemeron o De
septem diebus e di un commentario al De Trinitate di Boezio.
E' sensibile, nella speculazione di Teodorico, l'influsso dell'opera di Scoto Eriugena. Come
quest'ultimo, Teodorico distingue quattro cause che sono poi quattro fasi del processo di
autorealizzazione di Dio nel mondo: la causa efficiente, che è Dio padre; la causa formale
che è la Sapienza o il Figlio di Dio, che ordina la materia; la causa finale che è lo
Spirito Santo che anima e vivifica la materia già formata e disposta; e infine la causa
materiale che sono i quattro elementi che Dio stesso creò dal nulla in principio. Come si
vede Teodorico identifica, con Abelardo, lo Spirito Santo con l'Anima del mondo e nella sua
opera ritorna frequente l'insistenza neoplatonica (desunta da Scoto Eriugena) sul primato
ontologico dell'Unità, che è Dio stesso. Anzi Teodorico insiste tanto sulla nozione di unità
da considerare Dio, nel suo commento al De Trinitate di Boezio, come l'unica forma
dell'essere (forma essendi) di cui partecipano tutte le cose esistenti, come dell'unica materia
partecipano tutte le cose materiali.
E probabile che questa dottrina non avesse, per Teodorico, il significato panteistico che essa
a prima vista presenta; ma a tale significato poteva essere tratta e fu tratta da alcuni
scolastici. E' poi caratteristica di Teodorico (come di tutti i filosofi di Chartres) la tesi che
l'opera miracolosamente creativa di Dio si esaurisce con la produzione dei quattro elementi;
creati i quattro elementi, l'azione naturale delle capacità loro proprie produce l'ordinamento
del mondo e la disposizione delle sue parti: in quest'azione ha gran parte il fuoco con il suo
potere illuminante e riscaldante. Si tratta della vecchia dottrina stoica, desunta dalla
tradizione neoplatonica.
Scolaro di Bernardo fu GUGLIELMO DI CONCHES, di cui sappiamo pochissimo. Nacque,
forse, verso il 1090, era ancora vivo nel 1154 e fu insegnante di grammatica a Chartres.
Scrisse una Philosophia che è la sua prima opera sistematica; un Dragmaticon, composto tra
il 1144 e il 1149 che può ritenersi la sua opera più matura. Estratti dal Dragmaticon sono il
De secunda e il De tertia philosophia. Scrisse anche Glosse a Boezio, Glosse al Timeo, e un
trattato di etica Moralium dogma philosophorum che è una raccolta di massime morali tratte
da autori pagani e ordinate sistematicamente. A Guglielmo viene pure talvolta attribuito un
Compendium philosophiae in sei libri che viene anche dall'altro lato attribuito a Ugo di S.
Vittore, ma che è probabilmente l'opera di un compilatore anonimo. In tutti questi scritti si
ritrovano, pur con qualche oscillazione o pentimento, le dottrine tipiche della scuola di
Chartres. Nelle Glosse al Timeo che si ritengono anteriori alla Philosophia e che sono state
pubblicate recentemente, Guglielmo dice: «L'anima del mondo è il vigore naturale per il
quale soltanto alcune cose hanno il movimento, altre la crescita, altre il sentire, altre il
discernere. E a me sembra che questo vigore naturale è lo Spirito Santo cioè la divina e
benigna concordia la quale è ciò da cui tutte le cose hanno l'essere, il muoversi, il crescere,
il sentire, il vivere e il discernere», Con più incertezza questa dottrina viene ripetuta nella
Philosophia, mentre scompare dal Dragmaticon, forse per effetto delle condanne che, nella
persona di Abelardo, essa aveva nel frattempo subito. Più caratteristicamente, Guglielmo
insiste sulla composizione atomica dei quattro elementi. Secondo Guglielmo l'acqua, l'aria,
la terra e il fuoco non sono veramente elementi perché sono divisibili: i veri elementi sono
indivisibili perché semplicissimi. Guglielmo pertanto chiama elementata o elementi del
mondo l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco e riserva il nome di elementa soltanto agli atomi ai
quali attribuisce le qualità fondamentali opposte: caldo e freddo, secco e umido
(Philosophia, 1, 21).
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Tutti i temi della scuola di Chartres trovano una espressione immaginosa nell'opera di
BERNARDO SILVESTRE autore di un poema intitolato De mundi universitate sive
Megacosmus et Microcosmus scritto intorno al 1150 e dedicato a Teodorico di Chartres.
L'opera è redatta in versi e in prosa secondo l'esempio del De consolatione di Boezio e del
De nuptiis di Marciano Capella ed è una specie di cosmogonia ispirata al Timeo di Platone.
Bernardo personifica le entità teologiche e metafisiche della scuola di Chartres: la Materia o
Hyle, concepita come assolutamente informe, viene ricondotta all'ordine e all'armonia
dall'Intelletto o Noys, per il tramite della Natura o Physis; e al culmine di quest'ordine è
posto l'uomo, il Microcosmo. L'opposizione tra il carattere informe, pauroso e maligno della
Hyle e l'ordine razionale che la Physis cerca d'imporre dà colorito drammatico allo scritto.
Nel quale, gli attributi stessi delle persone della Trinità diventano puramente cosmologici,
cioè relativi alle funzioni che le persone compiono rispetto al mondo e caratterizzati quindi
come Potenza, Sapienza e Bontà, secondo uno schema che si ritrova frequentemente nei
maestri di Chartres e che deriva da Abelardo.
Gilberto de la Porrée
Il più notevole rappresentante della scuola di Chartres è GILBERTO PORRETANO. Nato a
Poitiers, fu scolaro di Bernardo di Chartres e di Anselmo e Radulfo di Laon. Insegnò a
Chartres e a Parigi con grande successo e fu vescovo di Poitiers (1142-54). Gilberto fu
autore di numerosi scritti, quasi tutti rimasti inediti. I più noti sono il Commentario agli
opuscoli teologici di Boezio e una trattazione delle ultime sei categorie di Aristotele che
porta il titolo De sex principiis; si è dubitato dell'autenticità di questo scritto, ma senza
sufficienti ragioni. Si tratta, in ogni caso, di uno scritto che contiene tesi tipiche di Gilberto e
che divenne ben presto famoso; fu usato come testo di insegnamento delle Università di
Parigi e commentato da diversi autori: l'ultima volta, dall'umanista Ermolao Barbaro che lo
pubblicò nella sua edizione delle opere di Aristotele.
Gilberto definisce la fede come la «percezione, accompagnata dall'assenso, della verità di
una cosa», e ritiene che la fede preceda la ragione nel dominio teologico, ma la segua nel
dominio filosofico. Le cose create non hanno necessità vera e propria: giacché in esse tutto è
mutevole, quindi anche ciò che comunemente si ritiene necessario. La necessità c'è solo
nelle cose divine e qui la fede precede la ragione. In esse non crediamo in quanto sappiamo,
ma sappiamo in quanto crediamo (non cognoscentes credimus sed credentes cognoscimus).
La fede, prescindendo completamente dai principi della ragione, giunge a comprendere non
solo ciò cui la ragione umana non può giungere, ma anche ciò cui essa può giungere con i
propri principi. Giustamente quindi la fede cattolica è considerata l'esordio non solo delle
conoscenze teologiche ma di tutte le altre; essa è priva di qualsiasi incertezza ed è il
fondamento fermissimo e certo anche delle conoscenze naturali. In base a questo
presupposto Gilberto sostiene la stretta unione tra la ragione e la fede in tutta la ricerca
filosofica. «Unisci, egli dice, la fede e la ragione affinché per prima cosa la fede conferisca
autorità alla ragione e poi la ragione conferisca assenso alla fede».
Secondo una testimonianza di Giovanni di Salisbury (Metal., II, 17), Gilberto distingueva
l'universale in re dall'universale ante rem. Egli chiamava l'universale in re, forma nativa o
specie e lo considerava inerente alle cose create. La forma nativa sarebbe la copia
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dell'esemplare esistente nella mente divina, come la specie immanente negli individui è,
secondo Platone, la copia dell'idea. L'intelletto umano astrae l'universale dalle cose
individuali per meglio considerarne la natura e comprenderne le proprietà. L'universale non
è una realtà a sé, numericamente una, ma la semplice collezione delle cose singole, unificate
secondo le loro proprietà comuni. In altri termini, Gilberto condivide qui il punto di vista di
Abelardo: il fondamento oggettivo dell'universalità del concetto, quel fondamento che
garantisce al concetto la sua verità, è la somiglianza che le cose singole hanno tra loro, la
loro uniformità collettiva. L'universale era già stato definito come collezione di cose singole
da Joscellino o Gausleno nel trattato De generibus et speciebus. Ma Gilberto aggiunge qui
una precisazione sua propria. Egli distingue due significati della parola sostanza. In un
primo senso, più .generale, è sostanza ciò che per sussistere non ha bisogno di qualità
accidentali. In questo senso, la sostanza è subsistentia cioè l'essenza ed esprime il quo est
della cosa. In un secondo senso, che è il proprio, la parola sostanza significa ciò che
sussiste, la realtà esistente o subsistens, il quod est (In Boeth. de trin., in P.L., 64°, 1281).
Nel primo senso, i generi e le specie, cioè gli universali, sussistono in quanto sono
subsistentiae o essenze determinate, che non hanno bisogno di accidenti per essere nel modo
che è loro proprio. Ma nel secondo senso soltanto gli individui sono sostanze perché essi
soli in realtà esistono. Gli individui quindi non solo sussistono, subsistunt, ma anche
esistono, substant, perché sono dotati delle differenze proprie e specifiche e costituiscono i
soggetti reali degli accidenti, in quanto sono le loro cause e i loro principi. Quando
l'individuo sussistente ha anche l'attributo della razionalità, prende il nome di persona.
Sulla distinzione tra sussistenza e sussistente, Gilberto fonda quella tra forma e materia. La
forma è ciò che determina una cosa nel suo essere specifico; la materia è il soggetto
determinabile della forma. Perciò, possono dirsi materia anche le essenze in quanto sono i
soggetti dei lori caratteri e sono determinate o concretate da tali caratteri. Esiste una forma
semplice che è «l'essere dell'Artefice» cioè di Dio come esiste una materia semplice che è la
materia prima o informe, la hyle di Platone. Tra questi due estremi, stanno le realtà
composte o concrete, che sono forma e materia insieme nel senso suddetto. La loro
creazione e una concrezione: è cioè l'aggiunta successiva, ad un soggetto indeterminato ma
determinabile, di essenze o sussistenze che lo determinano. In questo senso, la funzione
creatrice di Dio è una funzione formatrice e Dio è la forma originaria di tutto (In Boeth. de
trin., Ib., 1266). Se si volesse esprimere questa dottrina nei termini di quello che in seguito
si chiamerà il problema dell'individuazione, bisognerebbe dire che, per Gilberto, il principio
d'individuazione è la forma. Gli enti singoli sono determinati e individuati dalle essenze di
cui sono investiti: l'essere, la corporeità, la sensibilità, l'intelligenza, ecc. Penino due enti
che si distinguono solo numericamente, per esempio due uomini, si distinguono tra loro per
le proprietà formali che li costituiscono; e anche se tali proprietà mancassero si
distinguerebbero per la loro differenza di luogo che è anch'essa una differenza qualitativa o
formale.
Se da un lato Gilberto considera intimamente unite la fede e la ragione, dall'altro lato
intende distinguere nettamente il dominio delle discipline singole e in primo luogo quello
della teologia da quello della filosofia. Questa distinzione non deve essere fondata su una
diversità di attività o di atteggiamenti spirituali, ma soltanto su una diversità di principi
oggettivi. Ogni scienza deve partire da fondamenti propri, da principi che sono specifici
della scienza e inerenti al suo oggetto. Gilberto si vanta di aver fatto per la teologia ciò che è
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stato fatto per le matematiche, cioè di aver determinato i concetti e i principi fondamentali
della scienza teologica.
Nelle discipline teologiche bisogna dunque servirsi di principi che sono diversi da quelli
adoperati nella considerazione delle cose naturali. E difatti l'oggetto della teologia è
completamente diverso dall'oggetto della scienza naturale. Le cose naturali sono dotate di
materia e di movimento, Dio invece è privo di materia e di movimento. Per tale motivo non
sono a Dio applicabili le categorie e i concetti che servono ad intendere le cose naturali. La
stessa categoria di sostanza è impropria riferita a Dio, perché designa ciò che sostiene le
qualità accidentali; e in Dio non vi sono qualità accidentali. Più propriamente Dio si può
dire essenza; ma veramente né la sua realtà sussistente, il quod est, nè la sua sussistenza, il
quo est, si lasciano afferrare dalla ragione. Di lui non si può dire se non che la singolarità e
semplicità della sua essenza impediscono ogni altra attribuzione. Dio dunque è intelligibile,
ma non comprensibile.
Sulla distinzione tra essenza e sostanza, tra sussistenza e sussistente, è fondata la dottrina di
Gilberto sulla Trinità. Gilberto distingue tra deità e Dio. Deità e l'unica essenza divina della
quale partecipano le tre persone diverse del Padre, del Figlio e dello Spinto Santo. Le tre
persone sono tre realtà singole, numericamente distinte: la loro unità è la forma comune
della deità, di cui tutte partecipano. In virtù della forma di deità ognuna di esse è ciò che è, e
ognuna di esse è Dio. La formula di Gilberto è: «Dio è il Padre, il Figliuolo e lo Spirito
Santo». L'essenza divina che costituisce la loro unità e veramente reale soltanto nelle tre
persone distinte.
Questa dottrina trinitaria si attirò la condanna della Chiesa. Dopo la chiusura del Concilio di
Sens, due arcidiaconi di Poitiers si recarono dal papa Eugenio III e gli denunciarono il loro
vescovo come fautore di novità teologiche ereticali. In seguito si recarono a Chiaravalle e
interessarono S. Bernardo della questione. Il risultato fu che nel Concilio di Parigi del 1147
e in quello di Reims del 1148 l'interpreta:ione trinitaria di Gilberto fu condannata. S.
Bernardo combattè la distinzione tra deitas e deus; e il suo segretario Gautredo scrisse
contro Gilberto il suo Libellus contra capitula Gilberti Porretani. L'accusa principale di
Gautredo contro Gilberto è che la sua dottrina equivale ad ammettere non più una trinità, ma
una quaternità divina. Da un lato ci sarebbe la forma della deità, dall'altro le tre persone di
Dio. Queste tre persone sarebbero distinte l'una dall'altra dalle loro redazioni diverse, per le
quali l'una è il Padre, l'altra il Figlio, la terza il comune Spirito santificante; ma queste
relazioni sarebbero estranee all'unica essenza divina che quindi rimarrebbe come una quarta
realtà, aggiunta alla trinità delle persone.
Gilberto spiegava il dogma dell'incarnazione ritenendo che solo la persona divina, cioè
Cristo, ma non la natura divina, cioè la forma della deità, ha assunto la natura umana.
Questa dottrina era conseguenza naturale della distinzione tra la deità e Dio. La stessa
distinzione si trova nella dottrina antropologica di Gilberto. L'essere dell'anima e l'essere del
corpo costituiscono nella loro unità la sussistenza, il quo est, dell'uomo; mentre l'uomo
stesso come un tutto è il quod est, la sostanza esistente come tale. Perciò l'uomo non è
veramente né l'anima né il corpo, per sé considerati. Con la morte, l'uomo come tale cessa di
esistere, anche se la sua parte fondamentale, l'anima, non perde la sua esistenza. L'anima è
infatti non una forma priva di sostanza o entelechia, ma piuttosto una sussistenza reale, una
essenza sussistente. Tuttavia l'anima come tale non è persona; la personalità appartiene
soltanto all'uomo come un tutto. Gilberto faceva così valere con logica rigorosa, in tutte le
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parti del suo sistema, la distinzione tra sussistenza e sussistente, essenza e sostanza. E'
evidente come nella sua ricerca la soluzione del problema degli universali influisca su quella
di tutti gli altri problemi. Gilberto è soprattutto un logico e nell'intero corso del suo pensiero
obbedisce ai principi e alle esigenze della sua dottrina logica. E proprio le sue ricerche
logiche hanno esercitato sulla scolastica posteriore la maggiore influenza. Il suo scritto De
sex principiis si fonda sulla pretesa differenza fra le prime quattro e le altre sei categorie
aristoteliche. Le prime quattro (sostanza, qualità, quantità, relazione) designerebbero, oltre
la sostanza, ciò che è assolutamente inerente alla sostanza, e sarebbero quindi forme
inerenti. Le ultime sei designerebbero invece modalità esterne, che interverrebbero a
cambiare la condizione della sostanza senza tuttavia unirsi ad essa e sarebbero perciò forme
assistenti. Appunto di queste forme assistenti (azione, passione, dove, quando, giacere,
avere) si occupa lo scritto di Gilberto.
Giovanni di Salisbury
Alla scuola di Chartres GIOVANNI DI SALISRURY si collega non solo per i rapporti che
ebbe con alcuni maestri di quella scuola ma anche per l'entusiasmo verso gli studi
umanistici e per l'indipendenza di pensiero che condivise con essi. Non ebbe invece con essi
in comune le dottrine teologiche e cosmologiche: le quali furono al di là dei suoi interessi
perché ritenute da lui al di là dei limiti della capacità umana.
Giovanni nacque nella vecchia Salisbury in Inghilterra tra il 1115 e il 1120. Si recò in
Francia assai giovane, verso il 1136 e vi rimase fino al 1148: la sua educazione filosofica si
compì qui, tra Parigi, dove insegnava Abelardo, e Chartres, dove fu discepolo di Guglielmo
di Conches e Gilberto de la Porrée. Nel 1151 tornò in Inghilterra e divenne cappellano del
primate di Canterbury, Teobaldo; dopo la morte di costui, fu segretario del suo successore
Tommaso Becket, con il quale era da tempo in amicizia. In seguito, fu nominato vescovo di
Chartres (1176) e in questa città visse sino alla morte (1180).
L'interesse umanistico di Giovanni è evidente nel suo Entheticus sive de dogmate
philosophorum (1155), un poema in distici, che è un manuale di insegnamento la cui prima
parte è costituita da una storia della filosofia greco-romana. Giovanni scrisse pure numerose
Epistolae, una Historia pontificalis, di cui abbiamo un frammento, una Vita di Anselmo di
Canterbury e una Vita di Tommaso Becket. Verso il 1159, cioè più di vent'anni dopo l'inizio
dei suoi studi, compose le sue opere principali: il Policraticus, che è la prima opera
medievale di teoria politica e il Metalogicus che si presenta come una difesa del valore e
dell'utilità della logica contro un tale che egli designa con il nome fittizio di Cornificio.
In Cornificio è stato talora veduto, da interpreti moderni, colui (o coloro) che avversava gli
studi umanistici in favore della fisica; o che proponeva un'estensione dell'indagine logica
dalle parole alle cose. Ma, stando alle dichiarazioni di Giovanni, Cornificio era un sofista
che derideva il sapere autentico e le tecniche delle arti per darsi a esercitazioni confutatorie
e alla discussione di questioni come questa: «Se il porco condotto al mercato sia tenuto
dall'uomo o dalla corda» (Metal., I, 3).
L'intera dottrina di Giovanni è animata da uno spirito autenticamente critico: il suo scopo è
quello di stabilire chiaramente i limiti e i fondamenti delle possibilità conoscitive umane.
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Giovanni si proclama accademico e ritiene che la ricerca si debba contentare, il più delle
volte, del probabile: «Come accademico, in tutte le cose che possono essere per il filosofo
oggetto di dubbio, non giuro affatto che è vero ciò che dico: ma, vero o falso che sia, mi
contento della sola probabilità». E ancora: «Preferisco dubitare con gli Accademici intorno
alle cose singole, piuttosto che definire temerariamente, con consapevole e perniciosa
simulazione, quello che rimane ignoto e nascosto»
Questo prudente atteggiamento viene giustificato da Giovanni con la limitazione propria
della scienza umana, alla quale si sottraggono le cose future. «So con certezza che la pietra
o la saetta che lancio verso le nuvole dovrà ricadere a terra, perché così esige la sua natura;
ma tuttavia non so se essa possa soltanto ricadere in terra e perché: potrebbe infatti sia
ricadere, sia no. Anche l'altra alternativa è vera, sebbene non necessariamente, come è vera
quella che so che si verificherà... Di ciò che non è ancora, non c'è scienza, ma soltanto
opinione» (Policrat., II, 21). Da ciò deriva che tutte le affermazioni che implicitamente ed
esplicitamente concernono il futuro hanno valore probabile, non necessario: la loro
probabilità è fondata sulla indeterminazione del loro oggetto ed è perciò ineliminabile. Si
deve intatti chiamare probabile ciò che accade frequentissimamente: ciò che non accade mai
altrimenti è ancora più probabile: ciò che si crede non possa accadere altrimenti assume il
nome di necessario (Metal., 111, 9). Dove si vede che il «necessario» secondo Giovanni è
limitato alla «credenza»; mentre il «probabile» esprime l'uniformità oggettiva degli eventi
ed è fondato sulla frequenza del loro accadimento. Giovanni trae tutte le conseguenze
implicite in questo punto di vista. La dialettica, come logica del probabile, è lo strumento
indispensabile di tutte le discipline (Metal., Il, 13). La pretesa dell'astronomia divinatoria di
predire infallibilmente il futuro è assurda perché il futuro non è necessariamente
determinato ed è quindi imprevedibile (Policrat., II, 19). L'infallibile prescienza che Dio ha
delle cose future non implica minimamente la loro necessità (Ib., II, 21).
Tuttavia se la conoscenza umana rimanesse chiusa nel cerchio del probabile sembrerebbe a
Giovanni abbandonata al dubbio radicale dello scetticismo. Qualche punto fermo ci deve
essere, sul quale possa poggiare l'edificio delle sue limitate certezze. I sensi, la ragione e la
fede forniscono qualche punto fermo di questa natura. Dice Giovanni: «Ci sono alcune cose
che l'autorità del senso, della ragione e della religione persuade ad ammettere; e il dubbio
intorno ad esse ha il carattere della malattia, dell'errore o del crimine. Chiedere se il sole
splenda, se la neve sia bianca, se il fuoco riscaldi, è proprio dell'uomo privo di sensibilità.
Chiedere se il tre sia maggiore del due, se il tutto contenga la metà, se il quadruplo sia il
doppio del doppio, è proprio di chi non ha discernimento o la cui ragione è oziosa o manca
del tutto. Chi pone in questione se Dio ci sia e se sia potente, sapiente e buono è non
soltanto irreligioso ma perfido e meritevole di una pena che lo corregga» (Policrat., VII, 7).
I primi principi delle scienze sono tra queste cose indubitabili; e tra le scienze, la
matematica è la sola che attinge la necessità per il suo carattere dimostrativo (Metal., II, 13).
Per ciò che riguarda la religione, Giovanni ritiene che è così impossibile dimostrare
l'esistenza di Dio come negarla. Egli riconosce tuttavia il valore della prova cosmologica
che risale di causa in causa fino alla causa prima (Policrat., III, 8); e ritiene inoltre che
l'ordine finalistico del mondo riveli chiaramente la saggezza e la bontà del creatore (Metal.,
IV, 41). Che Dio sia potente, sapiente, buono, venerabile e amabile è il principio unico di
tutte le religioni, principio che ognuno ammette gratuitamente, senza prova, per puro spirito
di religiosità (Policrat., VII, 7). Ma altre determinazioni sono irraggiungibili. La stessa
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Trinità divina è per la ragione umana un mistero impenetrabile (Ib., II, 26). Si può
riconoscere tuttavia che Dio è il fondamento dell'ordine del mondo; ma non si può concepire
quest'ordine come un latro ineluttabile, secondo la concezione dccli Stoici, perché esso non
esclude la mobilità delle cose e la libertà della volontà umana. Giovinni insiste sul carattere
pratico e impegnativo della fede religiosa. Come l'anima è la vita del corpo,così Dio è la vita
dell'anima. Come il corpo muore se l'anima lo lascia così anche l'anima perde la sua vera
vita se Dio l'abbandona. Perciò il destino dell'anima e la sua felicità consistono nell'aprirsi
all'azione della grazia di Dio (Policrat., III, 1).
Come si vede, Giovanni ha introdotto drastiche limitazioni alla speculazione teologica e
cosmologica o per dir meglio ne ha impugnato in linea di principio la possibilità e
l'efficacia. Rimangono tre campi in cui la ricerca umana può applicarsi con una certa
possibilità di successo: la matematica, la logica, la politica. Di questi tre campi, le opere
principali di Giovanni hanno coperto gli ultimi due. Il Metalogicus è il documento
dell'interesse che Giovanni portava ai problemi logici del suo tempo: fra l'altro, per la prima
volta in quest'opera, vengono utilizzati i libri Topici di Aristotele. Rispetto al problema
degli universali, Giovanni in primo luogo ci dà notizia delle soluzioni più importanti e in tal
modo ci dà ragguagli utilissimi sulle scuole logiche del tempo. La sua posizione personale
di fronte a questo problema è eclettica, ma inclina verso la dottrina di Abelardo. Considera
gli universali come forme o qualità comuni immanenti nelle cose, forme che l'intelletto
astrae dalle cose stesse. Gli universali (generi e specie) non sono sostanze che esistano in
natura; in realtà esistono solo le sostanze singole, che Aristotele chiamò sostanze prime, e
che sono oggetto della conoscenza sensibile. I generi e le specie sono prodotti
dall'astrazione, figmenta rationis, che la ragione crea per procedere meglio nella ricerca
intorno alle cose naturali (Metal., II, 20). Essi tuttavia non sono privi di verità oggettiva,
perché corrispondono ad una conformità effettiva delle cose singole tra loro; e perciò
Aristotele li chiamò sostanze seconde, volendo indicare che, per quanto insussistenti come
realtà singole, sono tuttavia alcunché di reale. Agli universali l'intelletto umano può
sollevarsi soltanto per via di induzione, partendo dalle cose sensibili. Giovanni si rifà qui
alla dottrina aristotelica, di cui evidentemente accetta il risultato: «I concetti comuni hanno
origine per induzione dalle cose singole. E' impossibile infatti giungere alla considerazione
degli universali se non attraverso l'induzione, giacché solo attraverso induzioni ci divengono
note tutte le nozioni astratte. Ma è impossibile indurre a chi è sprovvisto di sensibilità. Il
senso infatti è la conoscenza delle cose singole e non è possibile avere scienza delle cose
singole se non attraverso gli universali raggiunti per induzione; né è possibile l'induzione
senza la sensibilità. Dal senso infatti deriva la memoria, dalla memoria frequentemente
ripetuta l'esperimento, dagli esperimenti il principio della scienza o dell'arte... E così il senso
corporeo, che è la prima forza e il primo esercizio dell'anima, getta i fondamenti di tutte le
arti e forma la conoscenza preesistente, che non solo apre la via ai primi principi, ma anche
li genera». Si tratta, come è evidente, delle stesse considerazioni che chiudono i Secondi
Analitici di Aristotele, considerazione di cui Giovanni sottolinea il significato empiristico.
Il Policraticus è l'unico libro di filosofia politica medievale anteriore alla riscoperta della
Politica di Aristotele. Le fonti delle teorie che vi sono esposte sono Cicerone, Seneca e i
testi patristici e la base della teoria è il concetto stoico della legge di natura come norma
universale e perpetua alla quale tutti sono tenuti, anche i re. Questa norma è l'immagine del
volere divino, la custode della sicurezza, l'unità del popolo, la regola del dovere, lo
sterminio dei cattivi, la punizione della violenza e di ogni trasgressione (Policrat., IV, 2).
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Essa è la base del rapporto tra il suddito ed il re; e la differenza tra un principe e un tiranno
sta appunto nel fatto che il primo non solo non contravviene alla legge ma non si propone
altro compito che quello di farla valere e rispettare. Giovanni va tant'oltre in questa strada da
giustificare il tirannicidio. Per tutto il resto la sua dottrina si ispira ai principi del
teocraticismo medievale.
Il panteismo:
Amalrico di Bène e Davide di Dinant
Alcune delle più importanti e più ripetute tesi della scuola di Chartres hanno uno schietto
sapore panteistico.
Il panteismo consiste infatti nel ritenere che il rapporto Dio-mondo sia necessario nei
confronti di Dio: cioè che il mondo derivi da Dio con necessità o sia una sua manifestazione
o un suo aspetto necessario, sicché senza il mondo Dio non sarebbe Dio. Questa tesi è
ovviamente implicita in tutte le speculazioni teologiche che definiscono l'essere di Dio o
quello delle persone della Trinità nei termini del loro rapporto con il mondo: per esempio,
nella tesi che lo Spirito Santo è l'Anima del mondo e che l'Anima del mondo è la stessa
Natura; o nella tesi che Dio stesso è la forma essendi o l'essenza di tutte le cose. L'ultima
tesi è senza dubbio quella più esplicitamente panteistica: intesa nel senso che Dio contiene
le essenze (le forme, le idee, i modelli di tutte le cose) essa porta a considerare Dio come
l'essenza delle cose e le cose, nella loro essenza, come elementi necessari dell'essenza
divina. Senza dubbio queste conclusioni vengono solitamente, dai maestri di Chartres,
attenuate o sfumate con vari accorgimenti che tendono a ripristinare in qualche modo la
differenza tra l'essere delle creature e l'essere di Dio. Ma, nel periodo di cui ci occupiamo,
cioè nella seconda metà del secolo XII, esse vennero anche presentate in tutta la loro
crudezza panteistica da pensatori che non esitarono a trarre da esse anche le conclusioni più
paradossali. Abbiamo qualche notizia di due di questi pensatori. Amalrico di Bène e Davide
di Dinant; e sappiamo che le loro idee furono seguite da gruppi numerosi contro i quali si
accanirono le condanne ecclesiastiche.
E non si tratta in realtà di tesi che appartengano esclusivamente alla sfera della discussione
teoretica: dall'unica opera polemica che abbiamo contro la sètta di Amalrico, uno scritto
anonimo composto intorno al 1210 e che reca il titolo Contra Amaurianos, sappiamo che
dalla tesi della presenza di Dio in tutti gli esseri, quindi anche in tutti gli uomini, i seguaci di
Amalrico derivavano la possibilità per tutti gli uomini di salvarsi mediante la sola
conoscenza di questa presenza divina, senza il ricorso ai doni carismatici di cui negavano
l'efficacia; con ciò negando ogni funzione all'organizzazione ecclesiastica che è
l'amministratrice di questi doni. Questi tratti collegano strettamente il panteismo di
Amalrico alle sètte ereticali che fiorivano nel secolo XII e che sono tutte accomunate dalla
lotta contro il privilegio, che la Chiesa rivendica alle sue gerarchie, di amministrare la
salvezza.
Valdesi, Catari, Amalriciani ritengono tutti che l'uomo si salvi attraverso un rapporto diretto
con Dio o che Dio stesso lo elegga manifestandosi a lui o in lui: il panteismo di Amalrico o
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di Davide è perciò anche e soprattutto l'espressione metafisica di una insurrezione contro le
gerarchie ecclesiastiche, che, d'altronde, come è ormai accertato, aveva radici economicosociali.
Di AMALRICO nato a BE'NE (nel distretto di Chartres) sappiamo soltanto che è morto a
Parigi, come maestro di teologia, nel 1206 o 1207. Da notizie tramandate da vari cronisti si
sa che insegnava che Dio è l'essenza di tutte le creature e l'essere di tutto e che il creatore e
la creatura s'identificano. Probabilmente queste tesi, che somigliano a quelle sostenute da
molti maestri di Chartres, erano assunte da Amalrico nel significato più vicino a quello di
Scoto Eriugena; difatti egli affermava che le idee, che sono nella mente divina, creano e
nello stesso tempo sono create e che Dio è il fine di tutte le cose che ritornano a lui e nella
sua Unità indivisibile e immutabile permangono e stanno (GERSON, Concordia
metaphysicae cum logica, in Opera, IV, 825).
Ma l'intento di Amalrico si vede meglio dalle conseguenze che egli traeva dalla tesi stessa:
Dio s'identifica con tutte le cose, disseminate come sono nello spazio e nel tempo,
s'identifica anche con il tempo stesso e con lo spazio come s'identifica con tutti gli uomini
che quindi si unificano in lui. Proprio da questa presenza di Dio negli uomini, Amalrico
traeva la negazione, di cui si è detto, della validità dei sacramenti e del magistero
ecclesiastico. Tutte queste dottrine furono condannate nel Sinodo di Parigi del 1210 e, per
opera di Innocenzo III, nel IV Concilio Laterano del 1215.
Dell'altro rappresentante del panteismo, DAVIDE DI DINANT (in Belgio), non sappiamo
nulla. Gli si attribuiscono due scritti: De tomis hoc est de divisionibus che riproduce il titolo
dell'opera principale di Scoto Eriugena: e Quaterni o Quaternuli, nome col quale furono
indicati gli scritti condannati ad essere bruciati (DENIFLE, Chart . Univers. Paris., I, 70).
Ma forse questo secondo non è un titolo, ma soltanto il nome generico degli opuscoli di
Davide. Tommaso d'Aquino ci dà la seguente esposizione della dottrina di Davide: «Egli
divise la realtà in tre parti: corpi, anime e sostanze separate. Il principio indivisibile dal
quale sono costituiti i corpi chiamò hyle (materia); il principio indivisibile dal quale sono
costituite le anime chiamò noun o mente; e chiamò Dio il principio indivisibile delle
sostanze eterne. Egli affermò che questi tre principi sono un'unica e identica cosa, dal che
segue che tutte le cose sono per loro essenza una sola» (In Sent., II, d. 17, q. 1, a. 1).
Secondo S. Tommaso, la differenza tra la dottrina di Amalrico e quella di Davide è in ciò,
che per Amalrico, Dio è essenza o forma di tutte le cose, per Davide è la materia. Le stesse
caratterizzazioni della dottrina di Davide ci dà Alberto Magno (Summa theol., I, tract. IV, q.
20). Come essere originario, Dio è l'essere puramente potenziale. Davide ha probabilmente
svolto le implicanze positive della teologia negativa propria della sua epoca. Dio è fuori di
tutte le categorie, le quali costituiscono l'essere in atto; ma, al di fuori delle categorie, non vi
è che l'essere in potenza, che è la prima condizione per la costituzione di tutte le cose.
Davide identificò l'essere in potenza con Dio e poiché l'essere in potenza è la materia prima,
identificò la materia prima con Dio.
Gioacchino da Fiore
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Le sètte ereticali del secolo XII condividono tutte la credenza di un imminente e finale
rinnovamento del mondo che essi designano come l'avvento del regno dello Spirito Santo.
Sappiamo che anche gli Amalriciani condividevano questa credenza e ritenevano che dopo
l'epoca del Padre e quella del Figlio, l'epoca dello Spirito Santo avrebbe portato
all'abolizione di tutte le forme legali e sacramentali che avevano caratterizzata l'epoca
precedente.
Questa partizione delle epoche storiche, nonché la speranza escatologica che su di essa si
fonda, sono suggerite da quelle speculazioni trinitarie che Abelardo aveva iniziato e che
fiorivano nella scuola di Chartres. Alla quale pertanto si collega anche l'opera del più
famoso e popolare profeta del secolo XII, l'abate Gioacchino.
GIOACCHINO DA FIORE nacque nel 1145 a Dorfe Ceico presso Cosenza. Dal 1191 tu
abate del chiostro da lui fondato in San Giovanni in Fiore in Calabria e qui morì nel 1202.
La leggenda si è impadronita di questo abate profetico, i cui dati storici sono scarsissimi.
Secondo la biografia tessuta da un monaco del Seicento, Giacomo Greco, che attinse le sue
notizie dalle carte del vecchio cenobio di Fiore, ma certamente le modificò e trasfigurò,
Gioacchino fece un pellegrinaggio in Terra Santa e passò per Costantinopoli; sfuggito qui
miracolosamente ad una epidemia, si convertì all'ascetismo. Ritornato in patria, entrò nel
cenobio cistercense di Sambucina e poi in quello di Corazzo, di cui divenne abate. Nel 1191
Gioacchino si ritirò a far vita di anacoreta e fondò allora il cenobio di S. Giovanni in Fiore.
Egli avrebbe anche in qualche modo partecipato alle agitate vicende storiche del tempo. Si
sarebbe recato fino a Napoli a minacciare per le sue crudeltà Enrico VI che assediava la
città; e avrebbe costretto l'imperatrice Costanza a prostrarsi ai suoi piedi per ottenere il
perdono delle sue colpe.
Gioacchino ha scritto tre grandi opere che si completano a vicenda: Concordici Novi et
Veteris Testamenti, Expositio in Apocalypsim, Psalterium decem cordarum.. Oltre queste,
compose uno scritto teologico polemico contro Pietro Lombardo De unitate seu essentia
Trinitatis, andato perduto; uno scritto contro gli ebrei, Adversus Judaeos; un'esposizione
sommaria della fede cattolica, De articulis fidei; i Tractatus super quattuor Evangelia. Sulla
autenticità di un Testamento spirituale sussiste qualche dubbio.
L'interesse fondamentale dell'opera di Gioacchino è nel suo messaggio profetico. Dalla sua
visione della storia egli trae l'annunzio di un rinnovamento imminente: L'avvento del regno
dello Spirito Santo. Ma la sua visione della storia è fondata su un concetto della Trinità
cristiana; le sue speculazioni trinitarie si saldano così al suo messaggio profetico.
Tali speculazioni presentano una certa affinità con quelle di Gilberto Porretano: per quanto
non possa, forse, parlarsi di vera derivazione, data anche la diversità di temperamento
spirituale tra il teologo Gilberto e il profetico abate calabrese. La teologia di Gioacchino è
elaborata in vista della sua filosofia della storia: insiste sulla distinzione e l'autonomia delle
persone divine, per fondare la distinzione delle tre grandi epoche storiche e per dare il
necessario rilievo alla terza, che è quella futura, il regno dello Spirito. «Poiché anche lo
Spirito in se stesso è Dio vero, come il Padre e il Figlio, occorre che anch'egli compia
qualcosa a immagine e somiglianza propria, a norma di quello che ha operato il Padre e di
quel che ha operato il Figlio» (Concordia, IV, 35). Il salterio da cui si intitola una delle
opere di Gioacchino, è appunto l'immagine della Trinità, nella distinzione delle Persone e
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nell'unità che le lega. «Un altissimo posto occupa il salterio dalle dieci corde fra le opere di
Dio che suggeriscono il mistero della Trinità. E' infatti uno strumento musicale unitario. Può
essere diviso in parti perché fatto di materia, ma non può esserlo rimanendo salterio. Come
strumento è uno; ma è triangolare ed è mirabilmente collegato nei suoi tre lati. L'unità
indivisa vincola i tre lati così strettamente che essi sembrano uno solo e ognuno si rifrange
nei tre» (Psalt., fol. 230). L'unità di Dio non deve essere dunque intesa in modo che annulli
la diversità delle persone: non si comprenderebbe, in questo caso, la diversità delle opere e
delle epoche storiche e mancherebbe ogni fondamento alla speranza di un'epoca di giustizia
e di salvezza (Conc., fol. 8 sgg.).
Alle tre persone della Trinità corrispondono le tre grandi epoche della storia. Il primo dei tre
stati è quello che si svolse sotto il dominio della legge, quando il popolo del Signore, ancora
per un po' infante, serviva sotto gli elementi di questo mondo, incapace di raggiungere
quella libertà dello Spirito, destinata a sfolgorare quando fosse apparso Colui che disse: «Se
il Figlio vi avrà liberati, sarete veramente liberi».
Il secondo dei tre stati è quello iniziatosi col Vangelo, e tuttora perdurante, in libertà senza
dubbio, se si confronta con lo stato precedente, ma non in libertà se si pensa all'avvenire.
«Perciò dice l'Apostolo (S. Paolo, I Cor., XIII, 12) "conosciamo ora solo in parte e solo in
parte profetiamo: ma quando sia venuta la perfezione, tutto quello che è parziale sarà
annullato". Il terzo stato si inizierà verso la fine del secolo, non più sotto il velo opaco della
lettera, bensì nella piena libertà dello spirito...
Come la lettera del primo Testamento in virtù di una certa analogia sembra appartenere al
Padre, e la lettera del Nuovo al Figlio, così l'intelligenza spirituale, che procede dall'uno e
dall'altro, appartiene allo Spirito Santo. E come l'ordine dei coniugati, in virtù di un'analogia
evidente, appartiene al padre e l'ordine dei predicatori al Figlio, così l'ordine dei monaci, al
quale sono stati assegnati i grandi tempi finali, appartiene allo Spirito Santo» (Expositio, fol.
5 sgg.). Il terzo stato a venire sarà dunque caratterizzato da una intelligenza della parola
divina, non più letterale, ma spirituale; gli uomini conosceranno veramente il suo significato
reale.
C'è un vangelo eterno che è la stessa parola di Dio, al di sotto della lettera delle espressioni
evangeliche. Gli stessi sacramenti sono simboli provvisori (ma non perciò meno necessari)
di quella realtà con cui, nel terzo stato, l'uomo entrerà direttamente in comunicazione (Super
quattuor evang., p. 8, 6). «Il primo stato visse di conoscenza: il secondo si svolse nel potere
della sapienza; il terzo si effonderà nella pienezza dell'intelligenza. Nel primo regnò il
servaggio; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato
trascorse nei flagelli; il secondo nell'azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il
primo visse nell'atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella
verità» (Cons., V, 84, 112). Nel terzo stato, non solo le anime, ma i corpi saranno
trasfigurati; il cielo e la terra avranno una nuova bellezza e la morte e il dolore
scompariranno.
2.Pietro Abelardo e i suoi avversari:
La figura storica
Abelardo è la prima grande affermazione medievale del valore umano della ricerca. Questa
figura che neppure la tradizione medievale ha potuto ridurre allo schema stereotipato del
sapiente o del santo; quest'uomo che ha peccato e sofferto ed ha posto l'intero significato
della sua vita nella ricerca; questo maestro geniale, che ha fatto nei secoli la fortuna e la
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fama dell'Università di Parigi, incarna, per la prima volta nel Medio Evo, la filosofia nella
sua libertà e nel suo significato umano. Dotato di grande prestanza fisica (Eloisa ci
testimonia, che quando si recava alle lezioni o ne ritornava, con lo sguardo fiero e la testa
alta, riscuoteva l'ammirazione di tutti), di una eloquenza precisa e tagliente, di una
straordinaria potenza dialettica che lo rendeva invincibile nelle dispute, era destinato al
successo, che gli arrise difatti, portandogli invidia, persecuzioni e condanne. Ma il centro
della sua personalità è l'esigenza della ricerca: la necessità di risolvere in motivi razionali
ogni verità che sia o voglia essere tale per l'uomo, di affrontare con le armi della dialettica
tutti i problemi per portarli sul piano di una comprensione umana effettiva. Per Abelardo, la
fede in ciò che non si può intendere è una fede puramente verbale, priva di sostanza
spirituale ed umana. La fede che è atto di vita, è intelligenza di ciò che si crede: all'intendere
devono dunque essere protese tutte le forze dell'uomo. In questa convinzione, è la forza
della sua speculazione e il suo fascino di maestro. In lui diventa chiaro il significato,
altrimenti incerto e malfermo, della ratio medievale. La ragione è per l'uomo la sola guida
possibile; e l'esercizio della ragione, che è proprio della filosofia, e l'attività più alta
dell'uomo.
Pertanto, se la fede non è un impegno cieco che può dirigersi anche pregiudizi e a errori,
dev'essere essa stessa sottoposta al vaglio della ragione. Da questo punto di vista, non
sussiste una differenza radicale tra filosofi pagani e filosofi cristiani; se il cristianesimo
costituisce la perfezione dell'uomo, anche i filosofi pagani, in quanto filosofi, sono stati
cristiani nella vita e nelle dottrine.
Vita e scritti
Le movimentate vicende della vita di Abelardo sono narrate da lui stesso in una lettera che
porta il titolo Historia calamitarum. PIETRO ABELARDO era nato presso Nantes nel 1079
e aveva studiato dialettica con Guglielmo di Champeaux, di cui divenne ben presto
contraddittore ed emulo. Insegnò dapprima dialettica in varie località della Francia, poi, dal
1113, teologia presso la scuola cattedrale di Parigi. Il suo insegnamento si svolse tra dispute
clamorose e polemiche violente suscitate dalla sua intemperanza dialettica e dall'invidia che
il suo successo provocava.
A Parigi si innamorò di Eloisa, la nipote di un tal canonico Fulberto, che era bella e
coltissima, ed ebbe da lei un figlio, Astrolabio. Sposatala per placare le ire dello zio, volle
tenere nascosto il matrimonio, temendo che nuocesse alla sua fama e alla sua carriera di
maestro, e mandò Eloisa nel convento di Argenteuil, presso Parigi, dove ella era stata
educata da bambina. Ma lo zio e i parenti della moglie, credendo che egli volesse
sbarazzarsi di lei, si vendicarono facendolo evirare nel sonno. Vergognoso per l'oltraggio
subito, Abelardo entrò in un convento; e i due sposi si consacrarono insieme a Dio:
Abelardo nell'abbazia di S. Dionigi presso Parigi, Eloisa nel monastero di Argenteuil.
Nell'epistolario di Abelardo sono conservate alcune lettere di Eloisa, riboccanti di affetto e
di forza rassegnata.
Dopo l'infortunio, Abelardo riprese, con rinnovato entusiasmo, il suo insegnamento, in un
luogo isolato a Nogent-sur-Seine, dove i discepoli lo seguirono e gli costruirono un oratorio
che egli intitolò allo Spirito Santo o Paracleto. Nel 1136 riapparve a Parigi, e riprese le sue
lezioni sulla montagna di S. Genoveffa, dove aveva avuto i suoi primi successi di maestro.
Esaltato dai discepoli per la sua eloquenza e per l'ardore della sua dialettica, invidiato dagli
altri maestri, Abelardo prestò spesso il fianco alle accuse di eresia. Il Concilio di Soissons
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condannò la sua dottrina trinitaria e lo costrinse a bruciare di sua mano il libro De unitate et
trinitate divina (1121). Negli ultimi anni della vita fu in polemica con S. Bernardo, il quale
provocò contro di lui una condanna nel Sinodo di Sens (1140).
Abelardo si appellò al papa e voleva recarsi a Roma a sostenere la sua causa, ma l'abate
Pietro di Cluny lo convinse a rimanere a Cluny e a riconciliarsi con la Chiesa, con il papa e
con S. Bernardo. Abelardo compose in questa occasione una Apologia e passò gli ultimi
giorni della vita nell'abbazia di St.-Marcel. Qui morì il 20 aprile del 1142, a 63 anni. La sua
salma fu sepolta al Paracleto e lì fu portata e messa accanto, 21 anni dopo, quella di Eloisa
(1164).
Abelardo è autore di una Dialectica, composta verso il 1121 e di numerose opere logiche
costituite da commenti (Glossae) agli scritti logici di Porfirio e Boezio. Il Sic et non è la
tipica espressione del suo metodo. Egli ha scritto, inoltre, tre opere sul problema trinitario:
Tractatus de unìtate et trinitate divina, Introductio ad theologiam, Theologia christiana. I
riferimenti contenuti in queste opere permettono di congetturare che la Theologia christiana
è stata composta posteriormente al De unitate, e probabilmente fra il 1123-24, e che
l'Introductio non è che la prima parte della Theologia, condannata al Concilio di Sens. In
seguito egli compose un Commentario sulla Epistola ai Romani e l'Etica o Scito te ipsum.
Posteriori ancora sono le Lettere ad Eloisa, i Sermoni, gli Inni, i Problemata, l'Expositio in
Exameron. La lettera che porta il titolo Historia calamitatum fu scritta fra il 1133 e il 1136.
Agli ultimi anni, trascorsi a Cluny, appartengono il Carmen ad Astrolabium e il Dialogus
inter iudaeum, philosophum et christianum (1141-42).
Il metodo
Abelardo ha esercitato sullo sviluppo della filosofia medievale un'influenza potentissima.
Questa influenza è dovuta in primo luogo al suo fascino di maestro. Egli è stato, se non il
fondatore, almeno il precursore dell'Università di Parigi. Il suo prestigio di professore, la
superiorità del suo metodo, consacrarono la celebrità della scuola di Parigi e prepararono la
formazione dell'Università. L'opera nella quale ha meglio chiarito e messo in pratica il suo
metodo di ricerca è il Sic et non. Si tratta di una raccolta di opinioni (sententiae) di Padri
della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come risposte
positive o negative del problema proposto (donde il titolo, che suona sì e no).
Il procedimento minacciava di gettare il discredito sulla unità della tradizione ecclesiastica,
facendone vedere i contrasti in modo lampante; ma lo scopo di Abelardo era quello di porre
nettamente i problemi per mostrare la necessità di risolverli. A questo scopo egli dà nel
prologo dell'opera un certo numero di regole. Comincia con il distinguere i testi del Vecchio
e Nuovo Testamento e i testi patristici.
I primi vanno letti con l'obbligo di credere, gli altri con libertà di giudizio. Se si trova nei
primi qualcosa di assurdo, bisogna ritenere, non che l'autore sbagli, ma che il codice è
mendace o che ha sbagliato l'interprete o che noi non riusciamo a intendere. Ma per ciò che
riguarda gli altri testi, molto di ciò che contengono è stato scritto secondo opinione, più che
secondo verità. Quando in essi si trovano opinioni diverse ed opposte intorno allo stesso
argomento, bisogna rendersi conto del fine, in vista del quale l'autore ha parlato; e bisogna
distinguere i tempi in cui la cosa è stata detta, perché ciò che è concesso in un tempo è
proibito in un altro e ciò che viene rigorosamente prescritto il più delle volte, è poi qualche
volta temperato dalla dispensa. Infine, ed è la regola fondamentale, molte controversie si
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possono facilmente risolvere, se si tiene presente che le stesse parole hanno significati
diversi nei diversi autori.
C'è dunque tutta una ricerca da istituire per risolvere il contrasto tra i testi che fanno autorità
in filosofia. E se si considera che la disciplina, la quale studia e prescrive l'uso delle parole e
il loro significato è la logica, si vede che la logica avrà, nella ricerca scolastica, come la
istituisce Abelardo, un posto predominante. La logica: cioè la ragione umana. La ricerca di
Abelardo è una ricerca razionalistica che opera sui testi tradizionali per cercare in essi
liberamente le verità che contengono. Questa ricerca è intesa come una interrogazione
incessante (assidua seu frequens interrogatio). Essa muove dal dubbio perché soltanto il
dubbio promuove la ricerca e solo la ricerca conduce alla verità (dubitando enim ad
inquisitionem venimus; inquirendo veritatem percipimus). Qui è senza dubbio il motivo del
fascino che la personalità di Abelardo ha esercitato sui suoi contemporanei e dell'efficacia
del suo insegnamento sulla scolastica. L'aver Abelardo incarnato lo spirito della ricerca
razionale in una epoca di risveglio filosofico lo ha condotto ad essere il fondatore del
metodo scolastico.
Questo metodo si fissò ben presto, dopo di lui, in uno schema che fu universalmente
seguito, lo schema della quaestio, che consiste nel partire da testi che danno soluzioni
opposte dello stesso problema per giungere a delucidare in via puramente logica il problema
stesso. Dapprima tenuto in sospetto e avversato, questo metodo prevalse poi nell'intera
scolastica.
Ragione e autorità
Il prevalere della ricerca nella speculazione di Abelardo conferisce naturalmente alla
ragione la preminenza sull'autorità. Abelardo non nega la funzione dell'autorità nella ricerca:
«Finché la ragione rimane nascosta, egli dice, basti l'autorità, e sia rispettato, intorno al
valore dell'autorità, quel notissimo e fondamentale principio tramandato dai filosofi; non
bisogna contraddire a ciò che sembra vero a tutti gli uomini o ai più o ai dotti». All'autorità
bisogna dunque affidarsi solo finché la ragione rimane nascosta (dum ratio latet). Ma essa
diventa inutile quando la ragione ha modo di accertare da sé la verità: «Tutti sappiamo che
in ciò che può essere discusso con la ragione, non è necessario il giudizio dell'autorità».
Certamente la ragione umana non è misura sufficiente per intendere le cose divine. A
proposito della Trinità, per esempio, Abelardo afferma esplicitamente che non si ripromette
su questo argomento di insegnare la verità, alla quale né lui né alcun uomo può giungere,
ma solo di proporre una soluzione verosimile o vicina alla ragione umana e nello stesso
tempo non contraria alla fede. Ma ciò non implica che la fede non si debba raggiungere e
difendere con la ragione. Se non bisogna discutere nemmeno su ciò che si deve o non si
deve credere, che rimane se non prestar fede ugualmente sia a quelli che dicono il vero, sia a
quelli che dicono il falso?.
Non si crede a una cosa perché Dio l'ha detta; ma si ammette che egli l'abbia detta, perché ci
si convince che la cosa è vera. Una fede cieca, prestata con leggerezza, non ha nessuna
stabilità ed è incauta e priva di discernimento: bisogna in ogni caso almeno discutere
preliminarmente se bisogna prestar fede o meno. L'ultima convinzione di Abelardo è
espressa nell'Historia calamitatum (cap. 9°). Qui egli dice che scrisse il libro sull'Unità e
Trinità divina per i suoi discepoli, i quali anche nel campo teologico cercavano argomenti
umani e filosofici, e volevano più ragionamenti che parole. E' stolto pronunciare parole di
cui non si intende il significato, giacché non si può credere se non a ciò che si intende, ed è
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ridicolo predicare ad altri ciò che né chi predica né chi ascolta riesce a capire. Non si può
credere se non ciò che si intende. Qui è la vera molla della ricerca di Abelardo. Anche la
verità rivelata non è verità, per l'uomo, se non fa appello alla sua razionalità, se non si lascia
intendere e far propria da lui.
L'universale come discorso
Nella disputa sugli universali la posizione di Abelardo è tipica e doveva influenzare
potentemente lo sviluppo posteriore del problema. E difatti Abelardo per primo fonda la sua
soluzione non già sulla vera o presunta realtà metafisica del concetto, ma unicamente sulla
sua funzione, che è quella di significare le cose.
Egli parte dalla definizione dell'universale data da Aristotele (De interpr., 1,6): «universale è
ciò che è nato per essere predicato di più cose». In virtù di questa definizione, accentua il
carattere logico e puramente funzionale dell'universale e da un lato nega che esso possa a
qualsiasi titolo considerarsi come una realtà, o res, dall'altro che possa considerarsi come un
puro nome. Non può essere considerato una realtà, perché nessuna realtà può essere
predicata di un'altra. Rem de repraedicari monstrum dicunt, riferisce di Abelardo e dei suoi
seguaci Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon (II, 17). Dall'altro lato non può essere
una pura voce, perché anche la voce come tale è una res, una particolare realtà che non può
essere predicata di un'altra. Alla formula di Roscellino: universale est vox, Abelardo
sostituisce la formula universale est sermo: a differenza della vox il sermo implica il
significato, il riferimento ad una realtà significata, ciò che la posteriore scolastica chiamerà
l'intenzionalità.
Questo punto di vista, che trova la sua espressione più chiara nelle Glosse a Boezio, ha il
grande merito di avere messo in luce la natura puramente logica e funzionale del concetto. E
una scoperta che lo sviluppo ulteriore della logica medievale non dimenticherà. Per essa,
Abelardo è in grado di giustificare la validità oggettiva dell'universale senza ricorrere alle
ipostasi metafisiche del realismo. Certamente, non esiste l'universale fuori delle cose
singole. Quando i filosofi dicono che la specie è creata dal genere non per ciò
presuppongono che il genere preceda le sue specie nel tempo o esista prima di esse. Il
genere non è in alcun modo prima della specie, né potette mai esserci animale che non fosse
né ragionevole né irragionevole: il genere non può esistere che con la specie come questa
non può esistere che con quello.
Ma che l'universale non esista in realtà come tale, non significa che esso sia nulla. Le cose
singole, nella loro proprietà o nella loro natura, sono uniformi o simili, sebbene questa
uniformità o simiglianza non costituisca a sua volta una cosa singola. Tutte le cose discrete,
come Socrate e Platone, sono opposte di numero ma convengono in qualche cosa, ad
esempio nell'esser uomini. E questa loro convenienza o uniformità è reale: essa è definita da
Abelardo come uno status che non è né una res né un nihilum. Quando si dice che tutti gli
uomini convengono nell'essere uomini (in statu hominis) non s'intende altro se non che sono
tutti uomini e che in ciò non differiscono affatto (Philosophische Schriften, ed. Geyer, pp.
19-20). Queste tesi divennero tipiche del nominalismo medievale; e la logica nominalistica
li integrerà più tardi con la dottrina della suppositio: mediante la quale si espresse la
funzione propria del concetto (come segno) di stare in luogo, nelle proposizioni e nei
ragionamenti in cui è adoperato, di un insieme di oggetti tra loro simili.
L'accordo tra filosofia e rivelazione
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Il valore che la ricerca razionale come tale assume dinanzi agli occhi di Abelardo, lo
conduce naturalmente a riconoscere il valore di tutti coloro nei quali la ricerca stessa si
attua, anche all'infuori del cristianesimo. Abelardo riconosce che la verità ha parlato negli
stessi filosofi pagani i quali hanno potuto riconoscere la natura trinitaria di Dio. La
distinzione tra filosofi pagani e cristiani perde per lui di valore: essi sono accomunati dalla
ragione. Sia la vita sia la dottrina dei filosofi, egli dice, incarnano al più alto grado la
perfezione evangelica o apostolica e poco o niente essi si allontanano dalla religione
cristiana.
L'intento fondamentale di Abelardo nelle sue speculazioni teologiche è appunto quello di
mostrare l'accordo sostanziale tra la dottrina cristiana e la filosofia pagana. Egli è
consapevole di forzare in questo tentativo il senso letterale delle espressioni dei filosofi a
cui si riferisce, ma si difende ricordando che gli stessi profeti, quando attraverso di essi parla
lo Spirito, non intendono che solo in parte il significato delle loro parole: le quali spesso
vengono chiarite e interpretate da altri.
Conformemente a questi presupposti, la trattazione razionale del dogma trinitario è da
Abelardo condotta col mostrare l'accordo sostanziale dei filosofi, e in particolare di Platone
e dei neoplatonici, con la rivelazione cristiana.
Anche i filosofi pagani hanno, intatti, secondo Abelardo, conosciuta la Trinità. Essi hanno
ammesso che l'Intelletto divino o Nous è nato da Dio ed è coeterno con lui; ed hanno inoltre
considerato l'Anima del mondo come una terza persona, che procede da Dio ed è la vita e la
salvezza del mondo. «Platone, dice Abelardo, riconobbe esplicitamente lo Spirito Santo
come l'Anima del mondo e quasi la vita del tutto. Giacché nella bontà divina tutto in
qualche modo vive; ed ogni cosa è viva e nessuna è morta in Dio; il che vuol dire che nulla
è inutile, neppure i mali, i quali sono disposti nel modo migliore per la bontà dell'insieme».
Se Platone dice che l'Anima del mondo è in parte indivisibile e immutabile, in parte
divisibile e mutevole, in quanto si divide e moltiplica nei vari corpi, ciò va inteso nel senso
che lo Spirito Santo rimane in se stesso indivisibile ma, in quanto moltiplica i suoi doni,
appare in qualche modo diviso nella sua azione vivificatrice.
Quando Platone dice che l'Anima è stata situata da Dio nel mezzo del mondo e che di lì essa
si distende ugualmente per tutto il globo dell'orbe, intende indicare bellamente che la grazia
di Dio è offerta ugualmente a tutti e che in questa sua casa o tempio, che è il mondo, essa
dispone tutto in modo salutevole e giusto. La dottrina platonica coincide così
sostanzialmente con la fede nella Trinità; e se Platone dice che la Mente e l'Anima del
mondo sono state create, è questa una espressione impropria per indicare il generarsi o il
procedere delle due persone divine dal Padre.
La Trinità divina
Queste analogie guidano Abelardo nelle sue interpretazioni trinitarie. La distinzione delle
tre persone è fondata sulla distinzione degli attributi. Con il nome del Padre si indica la
potenza della maestà divina per la quale essa può fare tutto ciò che vuole.
Con il nome del Figlio o Verbo si designa la sapienza di Dio, per la quale egli può
conoscere tutto e in nessun modo essere ingannato. Con il nome di Spirito Santo si esprime
la carità o benignità divina, per la quale Dio vuole che tutto sia disposto nel modo migliore e
indirizzato al miglior fine. Questi tre momenti della Trinità garantiscono la perfezione
divina, giacché non è perfetto in tutto chi è impotente in qualche cosa, né è perfettamente
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beato chi in qualche cosa può ingannarsi, né perfettamente benigno chi non vuole che tutto
sia disposto nel modo migliore.
I tre attributi di Dio, espressi dalle tre persone della Trinità, si presuppongono e si
richiamano l'un l'altro. Sicché per quanto la sapienza spetti al Figlio e la carità allo Spirito
Santo, tuttavia tanto il Padre quanto lo Spirito Santo sono l'intera sapienza; e similmente
tanto il Padre quanto il Figlio sono carità. Proprio per questa unità degli attributi divini, le
varie persone derivano l'una dall'altra. Il Padre, che è la potenza, genera da sé la sua
sapienza, che è il Figlio, in quanto la stessa sapienza divina è una potenza cioè un potere di
Dio: il potere di discernere il modo di evitare ogni inganno od errore, sì che nulla si
nasconda alla conoscenza di Dio. Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, in quanto
la bontà che è propria dello Spirito, in tanto ha modo di produrre i suoi effetti, in quanto
deriva dalla potenza e dalla sapienza di Dio: giacché se non derivasse dalla potenza sarebbe
priva di efficacia e se non derivasse dalla sapienza non conoscerebbe il modo migliore di
esplicarsi e di produrre i suoi effetti. Ora lo Spirito Santo designa appunto il procedere di
Dio da sé verso le creature, che hanno bisogno dei benefici della grazia divina, procedere
che è dettato dall'amore di Dio. Il Figlio e lo Spirito Santo differiscono tuttavia nella loro
derivazione da Dio Padre: il Figlio è generato dal Padre, ed è della stessa sostanza del Padre
perché la sapienza è una determinata potenza; lo Spirito invece non è della stessa sostanza
del Padre e del Figlio perché la carità, che ne è l'attributo, non è né potenza né sapienza,
sebbene sia condizionata nella sua efficacia dall'una e dall'altra. Si parla dunque di
generazione del Figlio dal Padre, ma di processione dello Spirito Santo dal Padre e dal
Figlio.
La relazione tra le persone divine e la loro generazione o processione è illustrata da
Abelardo con un paragone. La divina Sapienza è un aspetto determinato della divina
Potenza al modo in cui un sigillo di bronzo è una determinata parte di bronzo. La divina
Sapienza riceve il suo essere dalla divina Potenza come il sigillo di bronzo riceve il suo
essere dal bronzo di cui è formato. Affinché ci sia un sigillo di bronzo, è necessario che ci
sia il bronzo; così la divina Sapienza, che è la potenza di conoscere, esige necessariamente
che ci sia la divina Potenza, di cui è formata. E come il bronzo si chiama la sostanza del
sigillo, così la divina Potenza è la sostanza della divina Sapienza. In questa similitudine, lo
Spirito Santo è colui che si serve del sigillo e che quindi presuppone l'essere del sigillo
stesso e del bronzo che lo costituisce.
Come colui che sigilla, in quanto sigilla, si serve di qualche cosa di molle su cui imprimere
l'immagine che è nella sostanza del sigillo, così lo Spirito Santo, con la distribuzione dei
suoi doni, ricostituisce in noi l'immagine distrutta di Dio, affinché di nuovo siamo resi
conformi all'immagine del Figlio di Dio, cioè di Cristo. Infine come il bronzo, il sigillo e
l'atto del sigillare sono una sola cosa nella loro essenza, eppure sono tre cose distinte l'una
dall'altra; così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una unica essenza, ma sono distinti
l'uno dall'altro dai loro tributi personali, così che nessuna persona può essere sostituita
dall'altra. Il bronzo come materia non è la forma del sigillo e reciprocamente. Così il Padre
non è il Figlio, e la Potenza divina non è la divina Sapienza; e reciprocamente.
Queste speculazioni trinitarie di Abelardo suscitarono le critiche di S. Bernardo che
interpretò gli attributi con cui Abelardo caratterizza le tre persone divine come se fossero
onnipotenza, semipotenza, nessuna potenza. E in realtà esse sono teologicamente improprie,
perché non salvano la sostanzalità delle persone divine che sono ridotte, secondo lo schema
di Scoto Eriugena, a tre momenti della vita divina (modalismo).
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Ma d'altronde la speculazione di Abelardo ha un'intenzionalità cosmologica più che
teologica. Lo scopo di essa è di chiarire la struttura e la costituzione del mondo e il rapporto
tra il mondo e Dio, più che quello di chiarire la natura di Dio. E in questa sua intenzionalità
cosmologica fu intesa e utilizzata dai filosofi posteriori, specialmente dalla scuola di
Chartres.
L'unità divina
Per ciò che riguarda la natura di Dio in se stessa, Abelardo ripete la speculazione negativa di
Scoto Eriugena. Non è possibile definire l'essenza di Dio, perché Dio è inesprimibile. Dio è
al di fuori del novero delle cose perché non è nessuna di esse. Ogni cosa appartiene o alla
categoria della sostanza o a qualche altra categoria. Ma ciò che non è sostanza non può
sussistere in sé. Ora Dio è il principio e il fondamento di tutto, dunque non può appartenere
al novero di quelle cose che non sono sostanza. Ma non può neppure essere annoverato fra
le sostanze. Difatti il proprio della sostanza è di rimanere numericamente una ed identica,
pur potendo ricevere in sé determinazioni diverse ed opposte. Ma Dio non può ricevere
nessuna di tali determinazioni, perché in lui non vi è nulla di accidentale e di mutevole.
Perciò, meglio che sostanza, si deve chiamarlo essenza, dato che in lui l'essere e il sussistere
sono assolutamente identici. Nessun nome, nessuna parola riferita a Dio conserva il
significato nel quale è riferita alle cose create. La natura divina si può esprimere solo con
parabole o metafore.
Noi distinguiamo, per esempio, nella sostanza dell'uomo la vita animale, la ragione, la
mortalità, ecc., sebbene l'essenza dell'uomo rimanga numericamente una ed identica. Allo
stesso modo possiamo supporre che nella divina Sostanza si possano distinguere attributi
diversi, costitutivi di tre persone diverse, pur rimanendo quella sostanza una ed identica.
Ad intendere l'unità delle persone divine giova un'altra immagine che Abelardo desume
dalla grammatica. La grammatica distingue tre persone: quella che parla, quella alla quale si
parla e quella di cui si parla; ma riconosce che queste tre persone possono essere attribuite a
uno stesso soggetto. Giacché una persona può parlare a sé di se stessa; in questo caso allo
stesso soggetto si riferiscono tutte e tre le persone della grammatica. Inoltre la prima
persona è il fondamento delle altre, giacché dove non c'è nessuno che parla, non vi è
neppure nessuno al quale si parla e nessuno di cui si parla. Infine la terza persona dipende
da entrambe le precedenti poiché soltanto tra due persone che parlano si può parlare di una
terza persona. In tutto ciò, c'è l'immagine dell'unità divina: anche in essa infatti la seconda
persona presuppone la prima e la terza le altre due. E come un solo e stesso uomo può essere
prima, seconda e terza persona grammaticale, senza che queste tre persone si confondano e
si annullino; così in Dio la stessa essenza può essere le tre persone, senza che le tre persone
si identifichino l'una con l'altra.
Dio e il mondo
I rapporti tra Dio e il mondo sono chiariti da Abelardo sul fondamento degli attributi divini
e in primo luogo dell'onnipotenza, che è l'attributo proprio del Padre. La conclusione a cui
Abelardo giunge proposito di questo attributo è che Dio non può fare né più né meno di ciò
che fa e che perciò la sua azione è necessaria.
Dio può fare soltanto il bene. Dio fa quello che vuole, ma vuole quello che è bene. Il
principio della sua azione non è il sic volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas: egli vuole che
accada solo ciò che è bene che accada. È chiaro quindi che di tutto ciò che Dio fa o tralascia
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di fare, c'è una giusta causa. Tutto ciò che egli fa, deve farlo, perché se è giusto che qualcosa
accada, è ingiusto che essa sia tralasciata. Né si può dire che, se Dio avesse fatto alcunché di
diverso da quello che ha fatto, questo alcunché sarebbe altrettanto buono, in quanto fatto da
lui; giacché se ciò che non ha fatto fosse buono come ciò che fa, non vi sarebbe fondamento
per la sua scelta né motivo di operare quello e di tralasciare questo. Se ciò che fa è soltanto
il bene, egli può fare soltanto ciò che fa. Aveva dunque ragione Platone di dire che Dio non
poteva creare un mondo migliore di quello che ha creato. In Dio, possibilità e volontà fanno
tutto uno: è vero che egli può tutto ciò che vuole, ma è vero pure che non può, se non ciò
che vuole. Questa dottrina di Abelardo implica la necessità della creazione del mondo e
l'ottimismo metafisico. Il mondo è stato necessariamente voluto e creato da Dio. Tutto ciò
che Dio vuole lo vuole necessariamente, né la sua volontà può rimanere inefficace;
necessariamente dunque egli conduce a termine tutto ciò che vuole.
La necessita del mondo non implica l'assenza della libertà in Dio. La libertà non consiste
nello scegliere indifferentemente di fare una cosa o l'altra, ma piuttosto nell'eseguire senza
costrizione e con piena indipendenza ciò che si è deciso consapevolmente e
ragionevolmente. Questa libertà appartiene anche a Dio: poiché tutto ciò che egli fa, lo fa
soltanto di sua volontà, e quindi senza essere necessitato da alcuna costrizione (Intr. ad
theol., III, 5).
All'uomo, Dio ha concesso la possibilità di peccare e di fare il male affinché, a confronto
della nostra debolezza, appaia a noi nella sua gloria, egli che assolutamente non può
peccare; e affinché, quando ci allontaniamo dal peccato, non attribuiamo ciò alla nostra
natura, ma all'aiuto della sua grazia che dispone per la sua gloria non solo i beni ma anche i
mali.
La necessità che è propria di Dio si riflette nell'azione di Dio nel mondo. Dio prevede tutto:
e sebbene la sua previsione non sia necessariamente determinante rispetto ai singoli
avvenimenti, non può tuttavia essere smentita ed essi debbono rientrare nell'ordine della sua
previsione. In questo ordine rientra anche la predeterminazione. Dio predestina gli eletti alla
salvezza, ma anche quelli che egli non predestina e che perciò sono dannati rientrano
nell'ordine provvidenziale del mondo. L'azione di Dio non è mai senza motivo anche se il
motivo rimane nascosto agli uomini. Anche il tradimento di Giuda rientra nell'ordine
provvidenziale, perché senza di esso non sarebbe stata possibile la redenzione dell'umanità.
E come il tradimento di Giuda, tutti i mali che possono accadere o accadono, sono ordinati
dalla Provvidenza divina al meglio, ed hanno un loro motivo e un loro risultato inevitabile,
anche se all'uomo è impossibile rendersene conto.
L'uomo
L'anima umana è, secondo Abelardo, una essenza semplice e distinta dal corpo. C'è un senso
in cui si può dire che anche le creature intellettuali, come l'anima o l'angelo, sono corporee,
in quanto sono limitate dallo spazio; ma è un senso improprio, che deriva da un concetto
fallace della corporeità. L'anima è tutta presente in tutte le parti del corpo ed è il principio
della vita corporea. Il corpo solo attraverso l'anima è quello che è. Come natura spirituale
l'anima porta in sé l'immagine della Trinità divina. Ciò che nell'anima è la sostanza, è nella
Trinità la persona del Padre; ciò che nell'anima è virtù e sapienza è nella Trinità il Figlio,
che è la Virtù e la Sapienza di Dio; ciò che nell'anima è la proprietà di vivificare è nella
Trinità lo Spirito Santo, al quale spetta il compito di dare vita al mondo.
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L'anima umana è dotata di libero arbitrio. «Per libero arbitrio, dice Abelardo, i filosofi
intendono il libero giudizio sulla volontà. L'arbitrio è infatti la deliberazione o il giudizio
dell'anima, per il quale uno si propone di fare o di tralasciare qualcosa. Questo giudizio è
libero quando nessuna necessità di natura costringe ad eseguire ciò che si è deciso e rimane
in proprio potere sia il fare che il tralasciare». Gli animali non hanno libero arbitrio perché
non hanno giudizio e anche noi siamo privi di libero arbitrio quando vogliamo ciò che non è
in nostro potere o quando qualcosa accade senza la nostra decisione.
Come capacità di compiere volontariamente e senza coazione l'azione che si è decisa in
seguito a un giudizio razionale, il libero arbitrio appartiene sia agli uomini sia a Dio e in
generale a tutti quelli che non sono privi della facoltà di volere. Esso appartiene anche, e in
grado eminente, a coloro che non possono peccare. Chi non può peccare non può certo
allontanarsi dal bene; ma ciò non implica che sia costretto a farlo per una necessità di
coazione. Quella impossibilità non è da confondersi con una costrizione che impedisca o
vincoli il giudizio razionale sulla volontà. Si può dire anzi che la libertà di scelta è
nell'ambito del bene più ampia, quando chi sceglie è libero dalla servitù del peccato.
L'etica
Il punto centrale dell'etica di Abelardo è la distinzione tra vizio e peccato e tra peccato e
azione cattiva. Il vizio è un'inclinazione naturale dell'anima al peccato. Ma se tale
inclinazione viene combattuta e vinta, non solo non dà origine al peccato, ma rende più
meritoria la virtù. Peccato è invece il consenso dato a questa inclinazione ed è un atto di
disprezzo e di oftesa a Dio. Esso consiste nel non compiere il volere di Dio, nel
contravvenire a un suo divieto.
E quindi un non-fare o non-tralasciare; un non-essere, una deficienza, una assenza di realtà:
quindi non ha sostanza (Scito te ipsum, 3). L'azione cattiva può essere commessa anche
senza il consenso della volontà, quindi senza peccato: come accade quando per difesa si
uccide un inseguitore furibondo. Il male dell'anima è dunque veramente solo il peccato, il
consenso dato all'inclinazione viziosa. La vita umana è una continua lotta contro il peccato.
«In questo mondo, noi siamo sempre impegnati in un combattimento interiore per ricevere
nell'altro mondo la corona dei vincitori. Ma affinché ci sia battaglia, è necessario che ci sia
un nemico che resista e che non venga meno del tutto. Questo nemico è la nostra volontà
cattiva, sulla quale dobbiamo trionfare soggiogandola al volere di Dio; ma non riusciremo
mai a eliminarla del tutto perché dobbiamo avere un nemico contro cui combattere».
Abelardo è in grado di insistere, in base a queste premesse, sulla pura interiorità delle
valutazioni morali. Nulla l'azione peccaminosa aggiunge veramente al peccato che è l'atto
con cui l'uomo disprezza il volere divino. Dove manca il consenso della volontà non c'è
peccato, anche se l'azione è in se stessa cattiva (come nel caso di chi uccide costrettovi), e
dove c'è il consenso della volontà all'inclinazione viziosa, il seguire dell'azione cattiva non
aggiunge nulla alla colpa. Si deve chiamare trasgressore non colui che fa ciò che è proibito,
ma solo chi consente a ciò che gli risulta proibito da Dio: e così anche la proibizione deve
intendersi riferita non all'azione, ma al consenso. «Dio tiene conto non delle cose che si
fanno, ma dell'animo con cui si fanno; e il merito e il valore di colui che agisce non consiste
nell'azione ma nell'intenzione». Una stessa azione può essere buona o cattiva; e, per
esempio, impiccare un uomo può essere sia atto di giustizia, sia malvagità.
Non sempre il giudizio umano può adeguarsi a questa esigenza della valutazione morale.
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Ma ciò accade perché gli uomini non tengono conto della colpevolezza interiore quanto
dell'atto peccaminoso esterno, che è effetto della colpa. Solamente Dio che guarda non alle
azioni, ma allo spirito con cui si fanno, può valutare secondo verità il valore dell'intenzione
umana e giudicare esattamente la colpa.
Il giudizio umano si allontana quindi necessariamente dal giudizio divino. Il primo colpisce
l'azione più dell'intenzione, perché segue più un criterio di opportunità che un dovere di
giustizia e ha di mira prevalentemente l'utilità comune; il secondo colpisce invece
esclusivamente l'intenzione e si ispira alla più perfetta giustizia, senza tener conto delle
risonanze sociali della colpa. Ma per quanto il giudizio umano si conformi a necessari criteri
di opportunità, esso non è giustificabile sul fondamento della realtà morale dell'uomo. In
questa realtà non è l'azione, ma l'intenzione che conta, e l'azione stessa è buona soltanto
quando procede da una buona intenzione. Vero è che la bontà dell'intenzione deve essere
reale, non apparente: è necessario che l'uomo non s'inganni nel credere che il fine a cui
tende sia gradito a Dio.
Abelardo procede coerentemente in questa etica dell'intenzione e non si arresta di fronte alle
conseguenze teologicamente pericolose di essa. Se il peccato è solo nell'intenzione, come si
giustifica il peccato originale? Abelardo risponde che il peccato originale non è un peccato,
ma la pena di un peccato. «Quando si dice che i bambini nascono con il peccato originale e
che noi tutti, secondo l'Apostolo, abbiamo peccato in Adamo, è come si dicesse che dal
peccato di Adamo è derivata la nostra pena, cioè la sentenza della nostra condanna».
Ugualmente improprio è chiamare peccato l'ignoranza in cui sono gli infedeli della verità
cristiana e le conseguenze che scaturiscono da tale ignoranza. «Non costituisce peccato
l'essere infedeli, sebbene ciò impedisca l'adito alla vita eterna a coloro che sono giunti
all'uso della ragione. Per essere condannati è sufficiente non credere al Vangelo, ignorare
Cristo, non accostarsi ai Sacramenti della Chiesa, anche se ciò si faccia, non per malizia, ma
per ignoranza».
Non si può far colpa di non credere al Vangelo e a Cristo a coloro che non ne hanno mai
sentito parlare. Affermare che si può peccare per ignoranza significa intendere il peccato in
senso largo e improprio, giacché peccato è veramente l'ignoranza solo quando è effetto di
consapevole negligenza.
3.La mistica speculativa:
Bernardo da Chiaravalle (1091-1153) fondò il monastero di Clairvaux, che ben presto
divenne il maggiore centro cisterciense. Dalla sua Schola Christi, fondata nel 1115, si
oppose strenuamente contro i due mali che imperavano nella "nuova Babilonia", Parigi: la
vendita della scienza nelle scuole, e i tentativi di "rendere certa la fede". In questi attacchi
ebbe la collaborazione di Guglielmo di Saint Thierry, in prima fila nel concilio di Sens, che
fornì all'abate di Chiaravalle una attenta e ampia disamina delle dottrine abelardiane
incriminate; e quella di Ildegarda di Bingen, che in una delle sue epistole lo definisce
"aquila che guarda verso il sole". La sua opposizione alla cultura delle scuole non era
tuttavia quella di un uomo alieno dalle problematiche del suo secolo, né tanto meno quella
di un incolto. L'eleganza del suo eloquio gli meritò da parte di Giovanni di Salisbury la
definizione di doctor mellifluus (le cui parole sono come miele): definizione che fra l'altro
richiama un motivo spesso presente nell'agiografia patristica e altomedievale, dell'uomo
santo sulla cui bocca le api fabbricano il miele (il motivo ricorre ad esempio nella biografia
di sant'Ambrogio). Oltre che nei Sermoni, scritti dal 1115 all'anno della morte, Bernardo
espose le sue idee in opere come il De diligendo deo, il De gratia et libero arbitrio, il De
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gradibus humilitatis et superbiae e il De baptismo. Personaggio di grande rilievo nella vita
culturale ed ecclesiastica del suo tempo, dedicò alcuni dei suoi scritti a Guglielmo di SaintThierry, l'autore della Lettera d'oro ai fratelli di Mont-Dieu (un trattato sulla vita monastica
e sull'esperienza mistica) e ad Ugo di San Vittore. Fra i suoi avversari, oltre ad Abelardo e
Gilberto de la Porrée, spicca la figura di Arnaldo da Brescia, che ci permette di sottolineare
come l'impegno di Bernardo non si limitasse al campo della cultura, ma comprendesse
anche un intervento sulla politica del suo tempo. La convinzione centrale di Bernardo da
Chiaravalle è di tipo nettamente integralista; la Chiesa deve mantenere e rafforzare il suo
primato nella vita del mondo, sia continuando ad affermare i valori teocratici, sia ampliando
i confini della cristianità.
Bernardo predicò la seconda crociata del 1146 e scrisse una Epistula in laudem novae
militiae, a sostegno dell' ordine dei Templari. Un'immagine alla quale ricorrono spesso i
pensatori politici dell' epoca è quella delle due spade affidate da Cristo a Pietro apostolo,
che rappresentano il potere spirituale e temporale: per Bernardo entrambe debbono essere
gestite dalla Chiesa, la prima impugnata direttamente, la seconda "a sua difesa e per ordine
del sacerdote".
Della grazia e del libero arbitrio.
Trattato teologico di san Bernardo di Chiaravalle (1091-1153).
L'operetta fu indirizzata a Guglielmo, abate di san Teodorico, che viene invitato a leggerlo
per giudicare l'opportunità di renderla pubblica. L'autore sostiene che, perchè l'uomo possa
agire correttamente, devono concorrere due elementi indispensabili: la grazia e il libero
arbitrio. La grazia è donata da Dio, ma il libero arbitrio l'aiuta, consentendo a essa. L'uomo è
infatti dotato di una libera volontà, che può consentire agli istinti animali, ma può anche non
consentirvi: è in questa libera volontà il libero arbitrio. La volontà è sempre accompagnata
dalla ragione, che sola può garantire la libertà. Quest'ultima si realizza in triplice modo:
libertà di natura, che lo è dal peccato, libertà della grazia, che lo è dalla miseria, libertà di
vita, che lo è dalla necessità. In questo terzo grado si attua la beatitudine: "Passeremo in
libertà della gloria del Figliuolo di Dio, con la quale libertà ci libererà Cristo, quando egli ci
darà reame a Dio e al Padre". La grazia è però indispensabile a volere il bene. Per il libero
arbitrio l'uomo vuole, teme e ama, ma solo per l'intervento della grazia vuole bene, teme e
ama Dio. Infatti perchè la volontà sia perfetta occorrono una vera sapienza e un perfetto
potere, che non ci possono venire altro che dalla grazia. L'uomo è stato creato a immagine e
similitudine di Dio, proprio in quanto è stato dotato della libertà, che però è stata traviata dal
peccato fin quando la redenzione dell'umanità operata da Cristo non ha ricostruito nell'uomo
la somiglianza con la divina immagine. Il merito dell'uomo sta tutto dunque nell'aiuto che la
volontà dà alla grazia divina, che è a sua volta l'aiuto indispensabile all'agire bene: "Dio
aiuta il merito, e congiunge la volontà all'opera e l'opera alla volontà ... Se quelli che noi
chiamiamo meriti sono chiamati propriamente, devono essere detti piuttosto semi di
speranza, accendimenti di carità ... Alla fine io ti dico che egli non trova nessun uomo
giusto; ma fagli giusti: chè Iddio ha magnificati coloro, che egli ha fatto giusti e non coloro
che egli ha trovati".
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La conoscenza mistica
La difficoltà esperita nell'affrontare la dottrina trinitaria fece sì che Bernardo si rivolgesse
per consiglio a Riccardo di San Vittore, il quale nella sua risposta si appellò alla
impossibilità di parlare di Dio con il linguaggio degli uomini (argomento che ha la sua fonte
originaria nello pseudo-Dionigi). Questo tipo di soluzione era congeniale all'inclinazione
mistica di Bernardo. Il fine della scienza, la salvezza, è quello che definisce limiti e validità
del sapere, che in se stesso non è che vana e superba curiosità. Nei sermoni sul Cantico dei
cantici la conoscenza è definita come l'insieme dei luoghi che l' anima può occupare nella
camera dello sposo: la conoscenza di Dio come autore del mondo creato, il timore di Dio
come giudice, la contemplazione mistica di Dio. Sapientia viene da sapor: dal gusto provato
nel momento in cui l' anima è in contatto (afficitur) con il divino. La riflessione teologica di
Bernardo non può dunque che partire dall' amore, fonte di verità e di certezza, e attingere il
suo frutto più alto nell' esperienza mistica. L’amore basta a se stesso ed è disinteressato (De
diligendo Deo). Il cammino d’amore, quale appunto si delinea nel De diligendo Deo è
scandito in quattro gradi: il primo è quando l’uomo ama se stesso per se stesso (amore
carnale); il secondo è quando l’uomo ama Dio per sé; il terzo è quando Dio è amato per se
stesso; il quarto grado è esperito solo dai martiri e ai santi, e per un attimo, ed è quel
momento della vita spirituale in cui l’uomo giunge di nuovo ad amare se stesso ma solo per
Dio. La ricerca mistica non è per Bernardo un modo per ritrarsi dal mondo; così come non
lo è per Guglielmo di Saint-Thierry, che pure nella Lettera d' oro ci ha lasciato una delle più
ampie descrizione dei gradi di introduzione a tale esperienza. Bernardo e Guglielmo
costituiscono infatti le due figure più rilevanti di quella "filosofia monastica" che,
profondamente avversa all'evoluzione verso le speculazioni razionali astratte delle scuole, si
impegnò sia in una battaglia contro il sapere come vana curiositas, sia in una elaborazione
dell'esperienza monastica, in cui sapienza e pratiche di vita erano strettamente legate.
Altri aspetti della spiritualità e della mistica bernardina
Oltre al tema del sapor, della conoscenza mistica, la riflessione di Bernardo è incentrata
anche su altri temi. In primo luogo la centralità della figura del Cristo, vero tramite
dell’incontro fra l’uomo e Dio. Nel Sermone 74 sul Cantico dei Cantici Bernardo sviluppa,
sebbene non in forma sistematica, una complessa riflessione cristologia, in cui riveste
particolare importanza la funzione mediatrice del Figlio di Dio, che costituisce l’unica via
che può condurre al Padre. Non è di poco conto, inoltre, sottolineare il debito della mistica
bernardina nei confronti dello Pseudo-Dionigi e soprattutto di Massimo il Confessore, dal
quale mutua il termine excessus nel senso di estasi.
GUGLIELMO DI SAN TEODORICO:
morto nel 1148, per lungo tempo oscurato dalla gloria di Bernardo, suo contemporaneo, le
dottrine dei due sono in intimo accordo ma non per questo bisogna confonderle.
Opere: “Epistola aurea” opera più celebre, “De contemplando Deo”, “De natura et dignitate
amoris”.
La sua dottrina, come quella si S. Bernardo si sviluppa interamente nel quadro della vita
monastica; è una dottrina che vuole insegnare l’amore divino, contro l’amore profano
insegnato secondo l’ Ars amatoria di Ovidio. Differisce da quella di S. Bernardo per il ruolo
più importante che vi gioca la dottrina agostiniana della memoria.
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L’amore di Dio è stato da lui naturalmente inserito nel cuore della sua creatura, dunque
l’amore umano dovrebbe altrettanto naturalmente tendere verso Dio, ma il peccato originale
lo distoglie da ciò. Scopo della vita monastica è ricondurre l’amore dell’uomo verso il suo
creatore.
Metodo da seguire: 1. Uno sforzo per conoscere se stesso. 2. L’anima conosce se stessa
conoscendosi come fatta a immagine di Dio nel suo pensiero (mens). 3. Nello stesso
pensiero si trova l’impronta che Dio vi ha lasciato perché possiamo ricordarci di lui.
Sant’Agostino chiama “memoria” questo recesso profondissimo del pensiero.
La “memoria” segreta genera la ragione e la volontà procede dall’una all’altra. Trinità creata
che rappresenta la trinità creatrice in noi: memoria= Padre, ragione= Figlio/Verbo, volontà=
Spirito Santo. Ragione e volontà generate dalla memoria che è l’impronta di Dio sull’uomo;
l’effetto della grazia divina è quello di raddrizzare le facoltà dell’anima guastate dal
peccato. Più l’anima recupera la somiglianza con Dio meglio lo conosce conoscendo se
stessa: la somiglianza dell’anima con Dio costituisce la sua conoscenza di Dio.
Dopo S. Bernardo e Guglielmo di san Teodorico la grande spinta mistica cistercense perde
il suo vigore e i suoi continuatori si orientano piuttosto verso il moralismo religioso.
Isacco/ Isacco Stella: abate del monastero circense della Stella dal 1147 al 1169, le cui
opere sono l’espressione di una speculazione orientata verso la mistica.
Ci ha lasciato una serie di Sermoni sul Cantico dei cantici, ma cerca Dio meno attraverso
l’estasi che attraverso la metafisica.
Otto sermoni (XIX-XXVI): eleva il pensiero fino a Dio con un’analisi dialettica ad un
tempo solida e sottile della nozione di sostanza. Tipo perfetto di una teologia fondata sulla
nozione di Dio come pura essenza. (Influenze: Anselmo, Dionigi, Boezio, Gilberto della
Porrée). Queste pagine sono testimonianza della diffusione, metà XII secolo, di una specie
di platonismo astratto , per il quale la manipolazione dialettica delle essenze costituiva la
spiegazione razionale tipo della realtà.
Epistola ad quemdam familiarem suum de anima: opera più celebre e influente di Isacco,
scritta su richiesta di Alchiero di Chiaravalle. È un trattato sull’anima.
Vi sono tre realtà: corpo, anima, Dio. Non conosciamo l’essenza di nessuna di queste realtà.
Anima, fatta da Dio, “similitudo omnium”, e posta tra Dio e il corpo conviene in qualcosa
con l’uno e con l’altro e per la sua posizione intermedia ha una parte bassa (immaginazione
imparentata con la parte più elevata del corpo, la sensibilità), un centro e una sommità. La
parte più elevata dell’anima è l’intelligenza ed è imparentata con Dio. Tra queste due facoltà
estreme si dispongono tutte le altre in ordine; la ragione è quella facoltà dell’anima che
percepisce le forme incorporee delle cose corporee.
Non considerava gli universali né come cose né come nomi.
Per intellectus intende la facoltà dell’anima che percepisce le cose veramente incorporee,
per intelligentia la facoltà di conoscere il solo supremo e incorporeo che è Dio. Tutti i temi
neoplatonici convergono in questo punto della sua dottrina; “intelligentia” da Boezio,
attraverso Agostino eredita da Plotino la sua attitudine a ricevere l’illuminazione, attraverso
Eriugena eredita da Massimo e da Gregorio le “teofanie” che discendono in lei da Dio.
Il secondo focolare della mistica speculativa nel XII secolo è l’abbazia parigina dei canonici
agostiniani di san Vittore.
UGO DI SAN VITTORE:
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Vita e opere:
Ugo di San Vittore, nato nel 1096 ad Hartingam in Sassonia, formatosi nel chiostro di
Hamersleben presso Halberstadt, fu nel chiostro di San Vittore a Parigi dal 1115 di cui
divenne priore verso il 1135, fino all’anno della sua morte, il 1141. Tra gli scritti riguardanti
l’insegnamento della filosofia possiamo annoverare il Didascalicon o Eruditionis
didascalicae libri VII; Epitome in philosophiam; De unione corporis et spiritus. Fra gli
scritti di contenuto mistico il De arca Noe morali; De arca Noe mystica; Soliloquium de
arrha animae; De vanitate mundi. Ugo è inoltre autore della prima grande summa teologica
medievale, la Summa de sacramentis, e di un commento al De coelesti hyerarchia dello
pseudo-Dionigi.
Le scienze:
Per il vittorino il valore delle scienze è rapportato al ruolo limitato del sapere umano nella
comprensione di Dio: ma in questo ambito tutte le conoscenze dell'uomo presentano una
loro validità. Nel Didascalicon il compito della filosofia non è di ordine esclusivamente
razionale-teoretico, perché essa deve fungere da supporto nella conquista della sapienza.
L’atteggiamento di Ugo è molto diverso rispetto a quello di Bernardo: nulla di inutile è
presente nel sapere. Invece di contrapporre la scienza profana e la scienza sacra, la fede
mistica e la ricerca razionale, il vittorino cerca di stabilire fra loro un equilibrio armonico e
di coordinarle in un unico sistema. L'origine della filosofia sta in una "scintilla" del fuoco
eterno, che è la sorgente luminosa che la mente umana deve sforzarsi di ritrovare. Non si
tratta di un compito facile, avvolto com'è nelle tenebre dell'ignoranza l'uomo erede del
peccato originale.
La conoscenza:
Ugo classificò gli oggetti della conoscenza in quattro categorie: le cose che derivano dalla
ragione sono necessarie, quelle conformi alla ragione probabili, quelle al disopra della
ragione mirabili e quelle contrarie alla ragione impossibili. Le prime e le ultime escludono
la fede. A questa classificazione degli oggetti della conoscenza corrispondono quattro
atteggiamenti: la negazione, l’opinione, la fede, la scienza. La scienza è la sola conoscenza
necessaria (Didascalicon). Nella "conoscenza delle cose" non trovano dunque il loro posto
soltanto le arti liberali, ma anche le attività che nel Medioevo venivano definite
"meccaniche", cioè adulterine secondo l'etimologia greca della parola. Accanto all'opera di
Dio e della natura, si riconosce con ciò un valore proprio all'opera dell'uomo; e la
tripartizione di origine platonica della filosofia in logica, etica e teorica, che era stata
enunciata fra gli altri da Guglielmo di Conches e Teodorico di Chartres, viene rimpiazzata
nell'opera di Ugo da una quadripartizione, in cui accanto alle tre parti indicate si colloca la
"meccanica".
Le due teologie:
Nelle opere teologiche Ugo elabora una sistemazione razionale di temi tradizionali e
un'analisi dell' esperienza mistica, indicando nella rivelazione la fonte della certezza, della
beatitudine e della comprensione della realtà. La lettura simbolica del mondo, e dunque la
possibilità di accedere dalla natura a Dio, è permessa dalla fonte luminosa contenuta nella
rivelazione, che unifica i due livelli della natura e della grazia. Per Ugo si prospettano quasi
due teologie, la “mondana” e la “divina”. L’unità del sapere sacro e profano si articola nei
modi paralleli della illuminazione e della rivelazione, che provengono da Dio, e
dell’investigazione rivolta all’anima e alle cose esterne, affidata all’uomo. Come è già stato
detto, la fede ha per oggetto il “mirabile”, quindi ciò che trascende la ragione senza negarla.
Da qui anche la doppia dimostrazione dell’esistenza di Dio: dalla certezza agostiniana
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dell’anima che si scopre finita ed esige una causa creatrice esterna a sé, e dalla certezza
delle cose esterne che, nella loro caducità, esigono a loro volta un Creatore.
L’immaginazione:
La ricerca antropologica di Ugo, in particolare in scritti come il De unione corporis et
spiritus, è mossa dall’esigenza di trovare un termine intermedio tra l’anima e il corpo, tra
l’intelletto e la sensibilità e che permetta di comprendere l’unione delle due nature opposte
dell’uomo e il loro concorso nell’atto della conoscenza. Questo temine intermedio è per Ugo
l’immaginazione, il grado inferiore dello spirito e il vertice superiore del senso. L’anima è
tenuta agostinianamente a scoprire il valore della propria esistenza.
Il misticismo:
La visione diretta di Dio è permessa da una via mistica scandita in tre momenti: pensiero e
scienza (cogitatio), determinato dalla presenza nell’anima di una cosa in immagine,
proveniente dai sensi o suscitata dalla memoria; la meditazione (meditatio), una sorta di
penetrazione razionale del mistero, lo sforzo di penetrare ciò che è nascosto; la
contemplazione (contemplatio), che può rivolgersi alle creature o al Creatore ed è il libero e
perspicace intuito dell’anima che si diffonde su tutte le cose esaminate. Quest’ultimo grado
è concepito agostinianamente come uno sprofondarsi nell’abisso interiore dell’anima e
garantisce una visione manifesta e compiuta. La contemplazione del Creatore è la
contemplazione mistica in cui l’ascesa a Dio coincide con la chiusura nell’intimità spirituale
(De vanitate mundi).
RICCARDO DI SAN VITTORE:
Vita e opere:
Riccardo, scozzese di nascita, andò presto a Parigi ed entrò a San Vittore, di cui divenne
priore nel 1162 fino al 1173, anno della sua morte. Fra le opere scolastiche del vittorino un
trattato in tre libri, il De trinitate e uno scritto De verbo incarnato. Fra le opere teologiche e
mistiche: Quomodo Spiritus Sanctus est amor Patris et Filii; De Verbo incarnato; De
praeparatione animi ad contemplationem (o Beniamin minor); De gratia contemplationis (o
Beniamin maior); De statu interioris hominis; De exterminatione mali.
Dimostrazioni dall’esperienza:
Partendo dal presupposto agostiniano della fede, Riccardo tentò di spiegare il processo della
conoscenza, che ricondusse a tre fonti: esperienza, ragione e rivelazione. L’uomo conosce le
cose temporali attraverso l’esperienza; le cose eterne in parte con la ragione e in parte con la
rivelazione. Riccardo ritiene utile apposggiare le verità derivanti dalla rivelazione sulle
verità derivanti dalla ragione. In particolare, relativamente all’esistenza di Dio,
l’argomentazione consiste nel risalire dalle cose finite, che non hanno l’essere da sé, a un
principio che ha l’essere da sé ed è eterno. Se questo principio non esistesse le cose che non
hanno l’essere non potrebbero mai riceverlo da nulla. La dimostrazione della Trinità parte
ugualmente dall’esperienza: come è possibile che la natura divina, che ha donato la
possibilità di generare a tutte le cose, sia rimasta sterile in se stessa e non abbia generato
nulla? Contro la solitudine e la sterilità e per garantire la possibilità della communicatio
divina, è necessaria una dualità delle persone divine. Ma la dualità non basta: la
comunicazione non è perfetta se non si può estendere ad una terza persona, coeguale.
Misticismo:
Riccardo crede che la natura umana sia unitaria e semplice. L’anima e lo spirito non sono
nell’uomo due sostanze diverse, ma costituiscono un’essenza sola: lo spirito è la facoltà
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superiore dell’anima, ma non si distingue sostanzialmente da essa. I poteri dell’anima si
dividono in tre facoltà: immaginazione, ragione e intelligenza. La funzione
dell’immaginazione è quella di raccogliere e conservare le percezioni sensibili. La ragione è
la capacità del pensiero discorsivo. L’intelligenza è l’occhio spirituale che vede le cose
invisibili nella loro presenza reale (Beniamin maior). Queste tre facoltà segnano la via
mistica a Dio. Ad esse corrispondono infatti la cogitatio, la meditatio e la contemplatio,
ultimo stadio della via mistica e subordinata a due condizioni: la purezza di cuore e la
conoscenza di sé. La contemplazione è scandita in sei gradi: in imaginatione et secundum
imaginationem; in imaginatione et secundum rationem; in ratione et secundum
imaginationem; in ratione et secundum rationem; supra rationem et non preaeter rationem;
supra rationem et praeter rationem. I sei gradi rappresentano il percorso dell’anima dalla
contemplazione alla visione della divinità. La visione della divinità comporta un’estasi
(excessus mentis) conseguibile solo ex gratia (per intervento della grazia). Riccardo
simboleggia i gradi della via mistica attraverso i figli che Giacobbe ebbe da Lia e da
Rachele. Lia rappresenta la volontà umana, che fecondata dallo spirito di Dio, genera sei
figli (le virtù nell’anima). Rachele è invece paragonata alla ragione, e l’unione con lei
genera la conoscenza più alta, Beniamino, cioè il simbolo di quello sprofondarsi dell’anima
nella conoscenza di sé.
I gradi dell’ascesa dell’anima a Dio sono distinti anche per altre qualità: alcuni implicano la
dilatatio della mente (cioè l’espandersi e l’acuirsi delle sue capacità) senza trascendere i
limiti umani; altri la sublevatio della mente (l’irradiazione della luce divina che spinge la
mente a trascendere i limiti umani); l’alienatio della mente da essa stessa, con il conseguente
abbandono della memoria di tutte le cose presenti e il raggiungimento di uno stato che non
ha più niente di umano. La prima qualità implica la sola attività umana, la terza la sola
grazia divina, la seconda entrambe. Nell’alienatio, in cui si verifica l’excessus mentis,
l’essere umano contempla il lume della sapienza divina direttamente, non per speculum et
enigmate.
4.Alano di Lilla e Nicola di Amiens:
Alano di Lilla:
All'indirizzo seguito dalla scuola di Chartres si connette strettamente l'opera di ALANO DI
LILLA (ab Insulis, Lilla o Ryssel in Fiandra), detto Doctor Universalis, morto a Citeaux nel
1203, che fu maestro a Parigi. Tra le sue opere sono: un Anticlaudiano che è una specie di
enciclopedia del sapere corrente; il De planctu naturae composto di versi e prose in cui
reminisceme mitologiche, allegorie e insegnamenti morali si mescolano con una filosofia
della natura desunta dalla scuola chartrense; un Ars praedicandi che è un manuale di
predicazione; i Sermones: le Distinctiones dictionum theologicarum che è una specie di
lessico delle espressioni bibliche; il Contra haereticos e le Regulae de sacra theologia che
sono le sue opere teologiche. Più recentemente ad Alano è stata anche riconosciuta la
paternità di un Tractatus de virtutibus et vitiis e di una Summa che comincia con le parole
Quoniam homines. La figura di Alano poeta, cosmologo e teologo riproduce fedelmente il
cliché dei maestri di Chartres dai quali egli desume, con uguale fedeltà, tutte le sue dottrine.
Come i maestri di Chartres, egli è anche debitore verso Ahelardo del quale, nel Tractatus de
virtutibus, riproduce alla lettera le dottrine morali. La sola caratteristica originale dell'opera
di Alano è la forma sistematica che ha voluto dare alle sue speculazioni teologiche, anche e
soprattutto in vista del compito che esse si proponevano: quello di difendere contro
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miscredenti ed eretici (Maomettani, Giudei, Valdesi) la validità della fede cristiana. In vista
di questo compito, Alano ha dato anche una chiara definizione dei limiti tra ragione e fede.
Nel prologo del Contra haereticos, così egli delinea il compito che si è proposto: «Ho
ordinato diligentemente quelle ragioni probabili della nostra fede alle quali un ingegno
perspicace difficilmente può resistere, affinché quelli che disdegnano di prestar fede alla
profezia e all'Evangelo siano almeno convinti da ragioni umane. Tuttavia se queste ragioni
possono indurre gli uomini a credere, non bastano a procurare una fede piena: non avrebbe
merito quella fede alla quale la ragione umana prestasse un pieno appoggio. La gloria nostra
sarà questa, di comprendere in patria [cioè in cielo] ciò che ora possiamo contemplare solo
in uno specchio e per enigmi» (Contra haeret., prol.).
Comincia qui la distinzione tra il dominio della ragione e il dominio della fede che riceverà
la sua più chiara formulazione in S. Tommaso. La pretesa d'intendere le verità di fede nella
loro necessità, di dimostrarle come se fossero verità di ragione, pretesa che appare, per
esempio, in S. Anselmo, è qui abbandonata. Ciò che è oggetto di fede non può essere
compreso e quindi non è oggetto di scienza. «Niente si può conoscere, che non si possa
intendere, ma noi non apprendiamo Dio con l'intelletto, dunque non vi è scienza di Dio.
Siamo bensì indotti dalla ragione a presumere che c'è Dio, ma non lo sappiamo con
certezza, bensì lo crediamo soltanto. Questa è la fede; una presunzione che nasce da ragioni
certe, ma non sufficienti a costituire scienza. Come tale, la fede è al disopra dell'opinione,
ma al disotto della scienza». La distinzione tra la scienza e la fede si è qui fatta chiarissima.
La fede deve conservare il suo merito di conoscenza certa ma non dimostrativamente
necessaria, quindi diversa dalla scienza.
Tuttavia Alano ha cercato di organizzare scientificamente la teologia proprio sul modello
della scienza più rigorosa, la matematica. Nello scritto intitolato Regulae o Maximae
theologicae ha formulato i principi della teologia, partendo dal presupposto che «ogni
scienza si fonda sui suoi principi come sui propri fondamenti»; e ha quindi fissato le regole
fondamentali della scienza teologica raccogliendo e sistemando i risultati della speculazione
teologica precedente.
Di queste regole, la prima è l'affermazione energica dell'unità di Dio: «La monade è ciò per
cui ogni ente è uno»: affermazione che ovviamente è nient'altro che il luogo comune
neoplatonico ma che assume un particolare rilievo negli scritti di Alano, dato lo
schieramento polemico cui questi scritti obbediscono. Tale schieramento è diretto infatti in
primo luogo contro le sette ereticali cosiddette dei Catari, da cui dottrina fondamentale
consisteva nel riconoscimento di un dualismo fondamentale di principi: uno ottimo e
creatore dell'ordine e della perfezione dei mondo, l'altro pessimo e creatore del disordine,
della lotta e del male. Di questo secondo principio la Hyle, di cui parlano i poemi chartrensi,
informe, caotica e maligna, e una buona espressione: per quanto, in quei poemi, la Hyle non
abbia la forza di contrapporsi a Dio ma è da Dio stesso creata, e soggiogata e portata
all'ordine dell'Anima del mondo-Natura.
Contro questo dualismo (che poi implicava anche quello di dannazione e salvezza,
considerate come due stati non mediabili tra loro neppure con i mezzi carismatici della
Chiesa) l'affermazione fatta da Alano dell'unità di Dio come monade prima e assoluta, pur
nel suo carattere filosofico trito, acquista un valore di novità polemica. E non è del tutto un
caso che Alano utilizzi e citi (con il titolo di Aphorismi de essentia summae bonitatis,
Contra haeret., I,30,31) il Liber de causisi il testo di Proclo che è rigorosamente imperniato
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intorno al concetto di Dio come assoluta unità doveva apparire ad Alano come il migliore
antidoto contro ogni concezione dualistica. Alano infatti afferma che la causa prima, in
quanto assolutamente semplice, è assoluta unità, è, anzi, la stessa unità assoluta; e che
riferiti a tale unità gli attributi diversi esprimono sempre la stessa essenza semplicissima
(Reg. theol., 11). Come Abelardo e molti dei maestri di Chartres, Alano è anche convinto
che già i filosofi pagani conoscevano questa verità e che, per esempio, la conoscevano
Aristotele ed Ermete Trismegisto (Contra haeret., III, 3; Reg. theol., 3).
Nicola di Amiens: autore del “De arte catholicae fidei”; prima erroneamente attribuita ad
Alano di Lilla. Sa che gli eretici non tengono conto degli argomenti fondati sull’autorità e
che le testimonianze delle Sacre Scritture li lasciano completamente indifferenti. Bisogna
fare appello alla ragione con avversari di questo tipo. Per questo ha ordinato delle ragioni
probabili in favore della fede, pur non essendo convinto che queste siano capaci di penetrare
a fondo e di illuminare completamente il contenuto della fede. Le presenta sotto forma di
definizioni, distinzioni e proposizioni concatenate secondo un ordine intenzionale. Il piano
generale dell’opera è quello che Scoto Eriugena e Anselmo di Laon avevano già seguito, a
grandi linee: Dio, il mondo, la creazione degli angeli e degli uomini, il Redentore, i
sacramenti e la resurrezione. Tutta la sua opera si fonda su definizioni, postulati e assiomi.
Le definizioni stabiliscono il significato dei termini, i postulati sono delle verità
indimostrabili, gli assiomi proposizionali tali che non si può sentirli enunciare senza
ammetterli. Il vantaggio incontestabile di questo metodo è che evita inutili sviluppi. La
teologia di Nicola è suddivisa in cinque brevi capitoli in cui pone in seguito tre postulati e
sette assiomi con cui costruisce la serie dei suoi teoremi secondo le regole ordinarie della
geometria.
Questa ambizione di costruire una Arte della dimostrazione cristiana valida per tutti gli
uomini e capace di allargare la chiesa alle dimensioni del mondo senza usare la forza
ispirerà l’ Ars magna di Raimondo Lullo.
VI. Le filosofia orientali:
Alcune filosofie arabe ed ebraiche hanno influenzato direttamente le grandi dottrine
occidentali del XII secolo. Alcuni intellettuali musulmani dell’epoca si sono appropriati
della cultura greca divenendone i più avanzati continuatori (dal IX al XII).
Il fenomeno deve essere inquadrato nell’espansione del dominio musulmano verso quei
territori dove era ancora viva la tradizione culturale greca. La religione musulmana era
ancora giovanissima ( il profeta Muhammad era morto nel 632) quando gli arabi del VII
secolo Siria, Palestina ed Egitto. Anche in Persia, conquistata dagli arabi, era diffusa la
filosofia greca, introdotta dai neoplatonici Simplicio e Damascio emigrati dopo il 529.
Dunque vi erano molte zone di incontro tra fede coranica e sapere greco.
Passaggio decisivo nel 749 quando il califfato passa agli Abbàsidi, questi spostano la
capitale da Damasco a Baghdad e favoriscono un organico processo di acculturazione del
mondo musulmano, promuovendo la traduzione in arabo di buona parte dei testi greci di
filosofia, medicina e scientifici.
Sotto il califfo al-Mamun conosce il massimo splendore la biblioteca califfale di Baghdad,
chiamata “Casa della Sapienza”.
Il progetto abbàside si iscrive in un più ampio progetto politico: porre la civiltà araba come
la vera continuatrice della civiltà greca.
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Fàlsafa: versione arabizzata della filosofia greca; trasformò notevolmente la cultura araba.
Quando il Medioevo latino riscoprirà, tra fine XII secolo e metà del XIII, la filosofia greca
(soprattutto Aristotele) lo farà attraverso le traduzioni dall’arabo.
1.La filosofia araba:
529 d. C., chiusura delle scuole filosofiche di Atene, decretata da Giustiniano.
In Mesopotamia e Siria la speculazione ellenica beneficò della diffusione della religione
cristiana.
Mesopotamia: scuola di Edessa importante.
La filosofia nell’Islam ha avuto due grandi poli di irradiazione: quello “orientale” di
Baghdad i cui massimi esponenti sono al-Kindī, al-Fārābī e Avicenna, e quello
“occidentale” della Spagna musulmana (l’Andalusia), figura di spicco Averroè.
La filosofia nel mondo islamico si pone in linea di continuità con la filosofia greca
tardoantica, della quale adotta la tendenza a ricollocare le dottrine aristoteliche antro un
quadro di riferimento platonico (come avevano fatto i neoplatonici, soprattutto quelli anche
commentatori di Aristotele). Da queste differenti matrici filosofiche deriva una visione in
cui si coniuga la prospettiva metafisica, sulla struttura intelligibile della realtà, con quella
cosmologica, che riguarda la gerarchia del cosmo. Al vertice Dio, causa prima della realtà, a
cui si attribuiscono tratti al contempo aristotelici e neoplatonici. Vi sono inseriti anche
aspetti prettamente religiosi, tipici delle tradizioni monoteiste (creazione, Provvidenza).
Nel clima di conciliazione aristotelico-platonica della cultura araba circolano opere di
contenuto neoplatonico sotto una falsa attribuzione ad Aristotele, esempi più importanti:
Eeologia di Aristotele (parafrasi araba delle ultime tre Enneadi di Plotino); Liber de causis
(compilazione di estratti dagli “Elementi di teologia” di Proclo e da Plotino).
Al-Kindī: nato a Bassora, nell’attuale Iraq, nell’800 e morto nell’873; contemporaneo di
Scoto Eriugena. Con lui prende avvio il ripensamento arabo della filosofia aristotelica.
Scrive un breve trattato Sull’intelletto con cui iniziano i tentativi islamici di mettere in
ordine nella dottrina aristotelica del nous come testimoniano le opere di al-Fārābī, Avicenna
e Averroè. È in anzitutto un enciclopedista i cui scritti coprono tutti i campi del sapere
greco.
De intellectu/ Sull’intelletto: ispirato a una sezione del De anima di Alessandro d’Afrodisia,
isolata dal suo contesto e considerata un’opera a parte, che il Medioevo conoscerà come il
De intellectu et intellecto.
Il De intellectu ha lo scopo di chiarire la distinzione fatta da Aristotele tra intelletto possibile
e intelletto agente. Distingue l’intelletto sempre in atto, l’intelletto in potenza, l’intelletto
che passa dalla potenza all’atto e l’intelletto che si chiama dimostrativo. Considera
“l’intelletto sempre in atto” come un’intelligenza, cioè una sostanza spirituale distinta
dall’anima e ad essa superiore e che su di essa agisce per da intelligente in potenza
intelligente in atto.
Il pensiero arabo ha ammesso dalle origini, sotto l’influenza di Alessandro d’Afrodisia, che
vi è una sola intelligenza agente per tutti gli uomini; ogni individuo ha un intelletto in
potenza che è mutato in atto dall’intelligenza agente che è unica per tutti gli uomini.
al- Fārābī: 870-950. Studiò e insegnò a Baghdad, nel X secolo in cui si era formato un
circolo di intellettuali musulmani e cristiani impegnati nello studio di Aristotele e della
filosofia greca. La successiva tradizione filosofica arabo-islamica lo onorerà come “maestro
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secondo solo ad Aristotele”; l’Occidente latino lo conoscerà come “Abumaser” dalle prime
parole del suo nome islamico, “ abu Nasr”.
Opere maggiori: “L’armonia tra le opinioni di Platone e Aristotele”, “Epistola
sull’Intelletto”, “La città virtuosa”; ha scritto anche opuscoli su vari temi filosofici e
introduzioni e commenti a trattati aristotelici e dialoghi platonici.
Struttura gerarchica della realtà: come Porfirio e Boezio, anche al- Fārābī è convinto della
compatibilità tra tradizione platonica e aristotelica; tenta una sintesi tra cosmologia
aristotelica e emanazionismo neoplatonico. Interpreta il rapporto di Dio e creature nei
termini neoplatonici di una relazione tra Principio Primo/ Essere Primo/ Causa Prima e
gerarchia discendente dei gradi della sua emanazione; dà al Principio Primo alcuni tratti del
motore immobile di Aristotele, come la perfetta e continua autocontemplazione, cioè il
pensiero di pensiero.
Dal principio primo agli intelletti e alle realtà terrestri: dall’autocontemplazione del Primo
comincia un processo di emanazione che, neoplatonicamente, non avviene per un atto di
volontà, ma in modo necessario, in virtù della sovrabbondanza dell’essere. Così dal Primo
emana un secondo grado di realtà (il Primo Intelletto) che per l’atto di contemplare il Primo
genera un terzo grado di realtà (il Secondo Intelletto), ma per l’atto di auotocontemplazione
genera la sfera del primo cielo. Con processi dello stesso tipo , atti di pensiero che generano
livelli di realtà, vengono prodotti i successivi Intelletti, a ciascuno dei quali corrisponde una
sfera celeste. La Luna, nono intelletto, ne emana un decimo che è l’Intelletto attivo detto
“datore di forme” per il suo duplice ruolo di 1. Attivare il nostro processo conoscitivo e 2.
Dare le forme a tutti gli enti sublunari.
Erasformazione dei capisaldi della fede coranica: questo sistema della realtà apporta
profonde trasformazioni ad alcuni capisaldi della fede coranica: la creazione dal nulla è
reinterpretata in termini di emanazione neoplatonica; Dio non agisce direttamente, ma lo fa
attraverso il digradare dei livelli di emanazione, cosicché nel mondo sublunare il ruolo
attivo è riservato al “datore di forme”/10°intelletto. L’intero processo di emanazione non
nasce dalla libera volontà di Dio, ma necessariamente.
La ripresa della teoria della conoscenza aristotelica: “Epistola sull’Intelletto”, e in altre
opere, cerca di riorganizzare le parti della dottrina dell’Intelletto in Aristotele (Aristotele
aveva introdotto le nozioni di intelletto attivo e intelletto passivo per esprimere il passaggio
dalla capacità puramente potenziale di conoscere gli intellegibili (forme presenti nelle cose)
a una conoscenza attuale.
Per al-Fārābī l’Intelletto attivo (o agente, dal latino agens) è separato e unico per tutti gli
uomini, la sua funzione è quella di illuminare l’intelletto passivo/potenziale/possibile, che è
individuale. Con l’illuminazione si compie il processo conoscitivo: le forme delle cose che
l’intelletto in potenza aveva ottenuto mediante la percezione sono così portate all’attualità.
Se il nostro intelletto divien intelletto in atto rispetto a tutti gli intelligibili (condizione di
pochi) allora diviene “intelletto acquisito” e si autocontempla, ovvero con un solo atto
contempla tutti gli intelligibili in atto, se stesso e tutte le forme pure (intelligenze motrici dei
pianeti) fino ad arrivare al Principio Primo.
La comunità politica ideale: “La città virtuosa” è una sorta di “Repubblica” platonica
ripensata per la comunità islamica, regolata dalla legge religiosa. Nella figura del
governante ideale (raìs) si integrano ai tratti del filosofo-re platonico e del sapiente
aristotelico quelli dell’ imàm (la guida della comunità religiosa islamica).
Come in un corpo sano ogni membra deve svolgere la propria funzione in una struttura
piramidale che culmina nel così detto “organo dominante” (il cuore, secondo la fisiologia
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del tempo), così nella città virtuosa ogni tipo umano esercita la propria arte e il proprio
mestiere in una struttura piramidale che conduce al governante.
Il governante tra contemplazione e rivelazione: il governante non è sottoposto ad alcuno e
racchiude in sé tutte le virtù platoniche e aristoteliche del “buon governante”, tra cui buone
doti fisiche ed intellettuali, la disposizione innata al ruolo di guida e il disinteresse per i
vantaggi materiali. Superiore agli altri per aver raggiunto l’intelletto acquisito che gli
permette, contemplando se stesso, di contemplare la struttura profonda della realtà a partire
dal Principio Primo da cui questa deriva. L’unione con l’Intelletto agente gli consente di
ricevere direttamente la rivelazione religiosa e di essere allo stesso tempo pienamente
filosofo e pienamente imàm e profeta e governante, in grado di stabilire con verità i compiti
delle diverse classi di cittadini, realizzando così la propria felicità e quella della comunità.
Avicenna: nato nel 980 a Bukhara (vicino Samarcanda), medico e filosofo persiano ibn Sīnā,
latinizzato in Avicenna, fu il maggior pensatore dell’Islam orientale. Proseguì e perfezionò
l’integrazione di aristotelismo e neoplatonismo già sviluppata da al-Fārābī.
A 20 anni cominciò a il suo viaggio per le principali sedi culturali e le corti dell’Islam
orientale, divenendo una figura di spicco come medico e intellettuale.
Libro della guarigione: imponente opera filosofica-scientifica. Quattro sezioni ( logica,
filosofia della natura, matematica e metafisica) in ognuna delle quali espone i contenuti
delle singole opere di Aristotele dandone una versione aggiornata che tiene conto dei
progressi del sapere. “Parafrasi avicenniana”, espressione con cui viene indicata questa
tecnica di riscrittura aggiornata; distinta dal commento letterale, come sarà quello di
Averroè.
Essenza ed esistenza: dal punto di vista metafisico formula importanti dottrine, tra cui
quella della distinzione di essenza ed esistenza in tutti gli enti, tranne Dio che Avicenna
ritiene l’unico “esistente necessario”, cioè l’unico ente in cui l’esistenza non si aggiunge
all’essenza, ma si identifica in essa. In tutti gli altri enti l’essenza non comporta
necessariamente l’esistenza, sono “esistenti possibili/contingenti”, che ricevono la causa del
proprio essere da altro, da Dio che è l’ente necessario.
Il rapporto tra Dio e i diversi gradi della realtà creata lo spiega con una sintesi di
emanazionismo neoplatonico e cosmologia aristotelica (simile in questo ad al- al-Fārābī),
che rischia di far intendere l’intera realtà in chiave deterministica, come un dispiegarsi
necessario di tutti i gradi successivi al Primo Principio.
L’anima è una sostanza: Avicenna, aristotelicamente, concepisce l’anima come la forma del
corpo, con un’importante novità: essa è in sé una vera e propria sostanza, indipendente dal
corpo. Concezione che è il risultato di una lettura in chiave platonizzante della posizione
aristotelica (per Platone l’anima è una sostanza immortale, al pari degli intelligibili, le idee).
La prova dell’ “uomo volante”: Avicenna conduce un esperimento mentale come prova
della natura sostanziale dell’anima. Immaginiamo che un uomo sia creato immediatamente,
già pienamente formato, e si trovi sospeso nel vuoto, nell’impossibilità di attingere ad
alcuna sensazione sensibile, nemmeno proveniente dal suo stesso corpo: non vede, né
percepisce nulla con gli altri sensi, e nemmeno ha la possibilità di cogliere segni di esistenza
del suo cuore, o di altri organi interni. Non ha alcuna idea circa la propria conformazione
fisica; tuttavia è nella condizione di sperimentare una nuda attività del pensiero che gli
conferisce un’intuizione diretta della propria anima, indipendentemente dal suo sostrato
fisico, il corpo. Il risultato è, in pieno accordo con la fede religiosa, che l’anima è una
sostanza indipendente dal corpo, destinata all’immortalità. Dio la crea insieme al corpo, e in
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questo modo essa acquisisce un’individualità che le rimarrà anche una volta separata dal
corpo.
Revisione della teoria della conoscenza aristotelica: novità con cui dovrà confrontarsi la
tradizione occidentale successiva.
Prima novità: rielaborazione del modello percettivo. Sulla base degli sviluppi più recenti
della ricerca filosofica e medica conduce un’accurata analisi dei sensi interni, destinati a
rielaborare le impressioni ricevute dai sensi esterni e perciò intermedi tra percezione
sensibile e pensiero. Operando sui dati dei 5 sensi esterni i 5 sensi interni (senso comune,
ricettacolo delle immagini, facoltà immaginativa, facoltà estimativa e memoria)
costruiscono e conservano le immagini permettendo al soggetto (uomo o animale) di
svolgere operazioni immediate, senza il ricorso all’intelletto e all’astrazione concettuale
(es.: è grazie all’estimativa se la pecora fugge appena vede un lupo).
Seconda novità: riguarda il processo intellettivo vero e propri, che è scandito in quattro
momenti:
1. Il primo è l’intelletto materiale, di pura potenzialità (“materiale” perché del tutto
passivo come la materia stessa);
2. Il secondo è quello in cui l’intelletto è dotato dei primi principi logici e delle prime
nozioni fondamentali (intelletto “in disposizione”);
3. Il terzo è l’intelletto “relativamente in atto”, cha ha acquisito altri intelligibili, benché
non li stia pensando;
4. L’ultimo livello è quello in cui l’intelletto si congiunge con l’intelletto agente
universale (come in al- Fārābī corrisponde al decimo Intelletto celeste) e pensa in atto
gli intelligibili (intelletto “acquisito”).
al-Ghazzālī: morto nel 1111, pubblica molte opere celebri: “Restaurazione delle conoscenze
religiose”, “Distruzione dei filosofi”; non furono conosciute dal mondo latino Medioevale.
“Le intenzioni dei filosofi”: in sui espone le dottrine di al-Fārābī e Avicenna, proponendosi
poi di confutarli altrove. Quest’opera fu tradotta in latino, e dal momento che si ignoravano
le sue altre opere, al- Ghazzālī passò in Occidente come sostenitore di quelle tesi che voleva
distruggere.
I teologi del XIII secolo lo consideravano, per questo, un discepolo di Avicenna.
Invece egli professa uno scetticismo filosofico di cui propone di farne beneficiaria la
religione; comincia esponendo le dottrine e tendenze filosofiche solo per confutarle. Il suo
grande avversario è Aristotele (spesso ingloba nei suoi attacchi anche al- Fārābī e
Avicenna). Salva dalla sua critica solo ciò che rientra nella dimostrazione matematica e nel
dominio della scienza pura. Per le sue esigenze in materia di prove, la sua rigorosa
distinzione tra filosofia e scienza gli hanno fatto eliminare tutte le dottrine filosofiche che
potevano preoccupare la fede. Le sue critiche vertono su 20 punti e di metafisica e di fisica.
I filosofi sbagliano affermano l’immortalità della materia, non possono dimostrare che esista
un demiurgo, né stabilire che Dio è uno e incorporeo, che conosce le cose fuori di lui, che
l’anima umana è immortale e indipendente dal corpo; sbagliano negando la resurrezione dei
corpi e l’esistenza dell’inferno e del paradiso. Alcune critiche sono piuttosto penetranti e
ben costruite,; per provare il torto nel negare la possibilità di un miracolo traccia una vera
critica filosofica della nozione di causa naturale.
Critica che non arresterà lo sviluppo della filosofia in ambiente musulmano, ma farà
emigrare la filosofia mussulmana verso Occidente, in Spagna (Avempace, Ibn Tufail,
Averroè).
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L’Islam occidentale- la Spagna musulmana:
Dal 711 la Spagna era stata tolta ai visigoti da arabi di etnia berbera. Poi si sono succeduti,
con capitale a Cordova, un califfato umàyyade (X secolo), poi la dinastia degli Almoravidi
(fine XI secolo), poi gli Almohadi (XII secolo) che erano riusciti a riunire tutti i territori
dell’Islam occidentale in un vasto impero. Il califfo illuminato Abu Yaqub Yusuf (11631184) ha dato un particolare impulso alle arti, alle scienze e alla filosofia.
Avempace: (Ibn-Bāggiah) morto nel 1138, un arabo di Spagna, versato e nelle scienze e
nella filosofia. Ha scritto trattati di logica, un libro “Sull’anima”, la “Guida del solitario” e
uno scritto “Sul legame dell’intelletto con l’uomo” (citato da Alberto come “Continuatio
intellectus cum homine”). Problema principale allora: stabilire il contatto tra l’individuo
razionale e l’Intelletto agente separato da cui egli trae la sua beatitudine.
“La guida del solitario”: itinerario dell’anima verso l’Intelletto agente per il quale l’uomo si
unisce al mondo divino. Dottrina che sosteneva che per l’uomo fosse possibile elevarsi
progressivamente dalla conoscenza delle cose a quella di una sostanza separata da ogni
materia.
Riteneva che lo studio di ogni scienza ha come fine conoscere le essenze degli oggetti sui
quali verte (molto aristotelico). Per evitare il regresso all’infinito non si può pensare che
dalle essenze delle cose si possano astrarre infinitamente altre essenze, dunque vi iarà
un’eiienza che non ha in ié un’altra eiienza ed è l’eiienza della ioitanza ieparata da
cui dipende la noitra coicienza. La conoscenza di un intelligibile qualunque raggiunge di
colpo una sostanza separata; l’uomo è capace di farlo poiché lo fa.
Queste ragioni che assimilano la conoscenza di un’essenza astratta del sensibile a quella di
una sostanza intelligibile sembrano frivole a S. Tommaso; ne parlerà in “Contra Gentiles”
affermando che è un problema.
Ibn Eufail e il romanzo filosofico: si incontra in Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e altri
come “Abubacer”, nato a Cadice nel 1100 e morto in Marocco nel 1185. Medico e filosofo
dal sapere enciclopedico, autore di un romanzo filosofico intitolato “Il vivente figlio del
desto”. Immagina un bambino che nasce per generazione spontanea dall’argilla di un’isola e
lì impara da sé, solo con l’immaginazione e la ragione, a conoscere il mondo che lo circonda
e poi a innalzarsi alla contemplazione delle realtà metafisiche fino ad arrivare, ormai
cinquantenne, alla congiunzione mistica con l’intelletto divino. Quando un giorno un saggio
gli fa visita e gli parla dei contenuti della religione insegnata da un profeta (cioè l’Islam),
quest’uomo solitario si rende conto del profondo accordo tra filosofia e fede islamica.
L’opera verrà poi tradotta in varie lingue europee e probabilmente suggerirà a Daniel Defoe
il personaggio di Robinson Crusoe.
Averroè: maggior pensatore arabo-andaluso del XII secolo, nato a Cordova nel 1126, nome
arabo Ibn Rushd. Filosofo, medico e giurista, noto per i suoi commenti alle opere di
Aristotele che, tradotti in latino, saranno utilizzati in tutte le università europee per i 4 secoli
successivi; per questo ricordato come il “Commentatore”, anche da Dante “Averoìs, che ‘l
gran comento feo” (Inferno, 4, 144). Tra i suoi scritti: trattato di medicina “Colliget”, trattati
filosofico-teologici “ La distruzione della distruzione”, “Trattato decisivo sull’accordo della
Legge rivelata con la filosofia”.
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Liberare Aristotele dal neoplatonismo: carattere distintivo del peripatetismo islamico
orientale era la fusione si aristotelismo e neoplatonismo (al- Fārābī e Avicenna). Al
contrario Averroè propone di interpretare l’autentico pensiero aristotelico liberandolo da
ogni elemento neoplatonico. Lo fa nei suoi commenti; sono di tre tipi: 1. Commenti brevi
(sommari); 2. Commenti medi; 3.commenti grandi. (2 e 3 il commento letterale si
accompagna all’approfondimento teorico). Ci sono pervenuti quasi tutti i suoi commenti in
entrambi i formati.
Unicità dell’intelletto passivo e attivo: nel commento grande al De anima di Aristotele
affronta la teoria dell’intelletto e avanza la sua tesi più famosa: Intelletto agente e Intelletto
passivo entrambi UNICI E SOVRASENSIBILI. Per comprenderla bisogna ripensare alla
dottrina della conoscenza in Aristotele: avvenuta la percezione nell’immaginazione si
costituisce una copia mentale dell’oggetto sensibile. Immagine mentale che non è ancora
universale, perché ancora radicata nell’individualità del soggetto conoscente; ognuno ha le
sue immagini mentali delle cose. Il processo intellettivo prevede la presenza di un Intelletto
attivo e di un Intelletto passivo, sulla cui natura (uno?molteplice?) Aristotele non si
pronuncia chiaramente.
Per al- Fārābī e Avicenna è una facoltà sovrumana unica ed eterna da identificare con Dio:
Averroè, invece, propone l’ipotesi che anche l’Intelletto passivo sia unico ed eterno e
dunque una sostanza sovraindividuale. In quest’interazione super-individuale tra Intelletto
attivo unico e Intelletto passivo unico, il nostro ruolo umano p di offrire le immagini mentali
ricavate dall’esperienza. Queste sono intelligibili in potenza e passano all’atto per opera
dell’Intelletto attivo e così vengono recepite dall’Intelletto passivo.
Conoscenza come attualizzazione dell’Intelletto unico: ruolo delle facoltà sensibili e
dell’immaginazione importante perché collegano pensiero e realtà.
Piena realizzazione intellettuale, per Averroè: non avviene nei singoli, ma
nell’attualizzazione dell’Intelletto unico, separato ed eterno, al quale ognuno partecipa
occasionalmente e accidentalmente =ciò che rimane eternamente è il pensiero
sovraindividuale, mentre il mio o il tuo contributo è limitato alle nostre immagini mentali,
legate al corpo e che con esso periscono.
La mortalità dell’anima: la teoria appena esposta la presenta come perfezionabile, non
come definitiva, e indebolisce molto il ruolo dell’anima umana individuale e sembra negare
la sua immortalità (vanificando sistema di premi e pene eterni). Nel pensiero latino del XII
secolo questa tesi troverà sostenitori, Sigeri di Brabante, e avversari come Tommado
d’Aquino.
Fede e ragione: fraintendendo il pensiero di Averroè la cultura latina dei secoli successivi
gli attribuirà la “dottrina della doppia verità” (la tesi, cioè, che la verità della fede e quella
della ragione siano diverse e inconciliabili). In realtà la posizione del filosofo andaluso è
alltra, ben esposta nel “Trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia” (che la
cultura occidentale non conoscerà): in essa tenta di definire il rapporto tra attività dei
filosofi e collettività sociale. Aristotele insegna che ci sono tre tipi di discorso: scientifico
(risponde alle regole della dimostrazione sillogistica), dialettico (in cui si parte da premesse
solo probabili), retorico (ricorre al linguaggio figurato, ha come fine la persuasione).
Analogamente vi sono tre tipi umani e tre approcci alla realtà: i filosofi, che conoscono la
vera struttura della realtà e l’articolano scientificamente nel discorso dimostrativo; i teologi
delle varie scuole che girano a vuoto nel confronto di opinioni egualmente probabili e non
sanno cogliere la verità della Scrittura dietro il velo allegorico; il popolo, che dalla
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comprensione del livello letterale del Corano riceve un’istruzione adeguata al proprio livello
cognitivo.
Una sola verità, sue approcci adeguati: esiste una sola verità che Dio, in modo
provvidenziale ha comunicato a tutti gli uomini attraverso il Corano. Dianzi quest’unica
verità si danno due approcci, entrambi adeguati: 1. Della massa, si attiene al registro
persuasivo del livello letterale del testo sacro, 2. Dei filosofi, che sanno riformulare con
rigore scientifico le profonde verità presenti nel Corano, in forma allegorica. L’approccio
inadeguato, inconcludente è quello dei teologi, perché non hanno un metodo rigoroso per
dirimere le questioni.
Al-Mansur e l’eclissi dell’opera di Averroè nel mondo musulmano: negli ultimi anni di vita
di Averroè il nuovo califfo al-Mansur si avvicina ai teologi tradizionalisti e
antifilosofici=eclissi dell’opera di Averroè nel mondo musulmano insieme al venir meno
del progetto almohade che l’aveva ispirata. Essa piuttosto da lì a poco grande rinonanza
nella cultura universitaria latina, in cui accompagnerà la ricezione di Aristotele fino al pieno
Rinascimento, suscitando adesioni e avversioni.
2. La filosofia ebraica:
Il giudaismo medievale, diffuso in molte zone del Mediterraneo, ha avuto molti pensatori di
rilievo, a partire da Isaac Israeli (IX-X secolo), fautore di una sintesi tra neoplatonismo e
aristotelismo che richiama l’impostazione di al-Kindi.
Ishaq Isrāīli: 865-955, esercitò la medicina alla corte dei califfi di Kairun. Lo si può
considerare un compilatore, severi giudizi di Maimonide su di lui, alcuni giustificati. Suoi
meriti: grande medico e aver dato primo impulso agli studi filosofici ebraici.
“Libro delle definizioni”, “Il libro degli elementi”, “Il libro dello spirito e dell’anima”:
mescolanza di speculazioni mediche, filosofiche, fisiche. In lui preponderanti influenze
neoplatoniche, nella sua concezione emanatistica dell’origine e la sua dottrina dell’anima.
Non si è preoccupato di mettere d’accordo la sua dottrina con quella della Bibbia,
leggendolo ci si rende conto a malapena che è ebreo.
Sa’adyāh ben Yōsēf di Fayum: 892-942. Opere essenziali: “Commento del libro di Egire”,
“Libro delle credenze e opinioni”.
Si propone di costruire una filosofia propriamente ebraica sulla base di un accordo tra i dati
della scienza e quelli della tradizione religiosa. Esempio dei filosofi arabi nel cui ambiente
vive a suggerirgli questo disegno.
Per provare l’esistenza di Dio: bisogna prima provare che il mondo no è eterno, ma ha avuto
inizio nel tempo. È così perché l’universo è finito, composto si sostanza e accidenti=
incompatibili con l’eternità; l’idea di un infinito tempo passato ora trascorso è
contraddittoria;= il mondo ha avuto inizio nel tempo.
Stabilisce la creazione ex nihilo e combatte la teoria neoplatonica dell’emanazione.
Dio incorporeo, dotato di attributi, i 3 principali Vita, Potenza e Sapienza che ha senza che
la sua unità sia alterata. È un’unità che non esclude attributi metafisici, ma la trinità
cristiana.
Riguardo l’anima: combatte la dottrina platonica della sua preesistenza; la considera creata
da Dio insieme al corpo al quale è unita naturalmente, si addormenta dopo la morte, l’ultimo
giorno resusciterà con il corpo per essere giudicata.
Dottrina giudaica, ma molto vicina alla scolastica cristiana del XIII secolo.
ibn Gĕbīrōl: ebreo andaluso (XI secolo, 1021-1058), noto ai latini come “Avicebron”.
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“La fonte di vita”: sua opera maggiore; un trattato di metafisico e cosmologia composto in
arabo, che ha circolato a lungo tradotto in varie lingue. Sostiene la dottrina dell’ilemorfismo
universale, cioè la convinzione che, a parte Dio, tutti i livelli della realtà sono composti di
materia e forma (hyle, morphè). Qui “materia” non è sinonimo di “corpo”, ma va inteso nel
senso più ampio di principio di pura passività, che insieme alla forma dà vita ai enti che
occupano ogni livello del reale, da quelli corporei a quelli incorporei. Tutti gli enti fatti da
forma e materia, ma quest’ultima è di diversa natura a seconda della loro nobiltà.
La teoria dell’ilemorfismo universale gli permette di distinguere con chiarezza la semplicità
della causa prima dalla natura composta (di materia, in senso ampio, e forma) di tutti i gradi
di realtà successivi a essa.
XIII secolo, ilemorfismo: avversato da S. Tommaso, ripreso dai pensatori francescani, come
Bonaventura; da Guglielmo d’Auvergne e da Raimondo Lullo. È legittimo considerare la
usa opera elemento integrante dell’ “agostinismo medievale”.
Nel XII secolo: vengono elaborate da ogni pensatore di questo periodo una serie di prove a
favore dell’esistenza di Dio. Ibn Pākūdā dimostra questa tesi partendo dal fatto che il mondo
è composto; Ibn Cadiq di Cordova dimostra nel suo “Microcosmo” l’esistenza di Dio con la
contingenza del mondo; Ibn Dāwūd di Toledo la dimostra fondandosi sulla necessità di un
primo motore e sulla distinzione tra il possibile e il necessario.
Jeudah Hallēvī: promotore di una reazione teologica e nazionalista, contro questo
movimento che tende a un’interpretazione razionale della tradizione religiosa. Il suo celebre
libro “ha-Khazarī” preconizza un’apologetica puramente ebraica e il meno possibile
filosofica.
Mosè Maimonide: nato a Cordova nel 1138, trascorse la sua vita adulta tra Marocco,
Palestina ed Egitto; dagli interessi enciclopedici, ha scritto opere filosofiche, giuridiche,
mediche e di esegesi biblica.
La “Guida dei perplessi” e il disvelamento delle verità metafisiche della Bibbia: opera più
importante “Guida dei perplessi”, redatta originariamente in lingua araba, in cui la filosofia
di Aristotele (e dei suoi commentatori tardoantichi) viene utilizzata per chiarire le profonde
verità metafisiche celate dalla Bibbia dietro il velo dell’allegoria. I “perplessi” sono gli ebrei
colti che conoscono anche la filosofia e le scienze, ma non riescono a conciliarle con il
messaggio biblico.
Una sapienza unificata in soccorso alla fede: attraverso la discussione sistematica delle
posizioni dei filosofi e un’esegesi razionalizzante di passi della Bibbia (e della traduzione
rabbinica), aspira ad una sapienza unificata, che permetta di essere allo stesso tempo
profondamente ebreo e profondamente filosofo. Per esempio se la filosofia non viene in
aiuto alla fede attraverso un’analisi concettuale delle nozioni di “unità”, “semplicità”
divina, si corre il rischio di formulare solo verbalmente delle credenze alle quali non
corrisponde alcun pensiero degno di questo nome o di cadere in credenze erronee, come
ritenere che Dio abbia una molteplicità di attributi, che infangherebbero la sua unità.
VII. L’inflienza greco-araba nel XIII secolo a la fondazione delle Università:
La densità dei fenomeni culturali dell’Occidente latino nel XIII secolo non sembra avere
eguali con altri periodi del Medioevo: incremento demografico, sviluppo della vita politica
ed economica urbana, al movimento di uomini e merci corrispondono novità sul piano
culturale. Fenomeno delle traduzioni: vengono tradotti dal greco al latino i testi
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dell’antichità classica ( soprattutto gran parte delle opere di Aristotele) e opere filosofiche
arabe ed ebraiche, e nasce l’università. I de fenomeni si influenzano reciprocamente,
determinando nuove condizioni entro cui fare cultura, lo stesso stile filosofico del pensiero
ne risente. In questo clima si formano personalità del calibro di Tommaso d’Aquino,
Bonaventura, Ruggero Bacone e Sigieri di Brabante.
I nuovi ordini religiosi, francescani e domenicani: molti intellettuali del XIIIsecolo
appartengono ai nuovi ordini religiosi “mendicanti” (chiamati così per l’obbligo di non
possedere nulla e vivere di carità): francescani/ frati minori, i domenicani/frati predicatori.
A differenza dei tradizionali ordini monastici, che erano espressione di un mondo
ruralizzato e feudale (il monastero si trovava nella maggior parte dei casi in aperta
campagna, al centro di un’isola di produzione agricola), mentre i nuovi ordini mendicanti
nascono nella realtà urbana in cui esercitano il loro apostolato. Il loro centro è il convento,
in città (dal latino “conventus”, da cum-venio= luogo di incontro; monastero dal greco
“monastèrion”= luogo in cui si sta da soli). I frati degli ordini mendicanti rivolgono la loro
azione pastorale specificamente ai nuovi ceti urbani, nella forma della predicazione; presto
acquistano prestigio anche nel capo dell’istruzione superiore, dell’università.
1.L’influenza greco-araba: centri multiculturali e plurilinguismo favoriscono le traduzioni.
Dal XII secolo la grande mobilità di uomini e beni (per i commerci e le imprese militari)
aveva creato le condizioni per l’acquisizione e trasmissione di nuovi libri che arricchiranno
le biblioteche dell’Occidente latino. In centri multiculturali e plurilinguistici come Toledo,
arabo-ispanica, e la Sicilia ,arabo-greco-normanna e sveva, convivevano cristiani,
musulmani ed ebrei. Qui si crea un movimento di traduzioni che permettono la riscoperta
nel mondo latino di gran parte delle opere di Aristotele, di filosofi neoplatonici, matematici,
medici e teologi greci; si acquisiscono nuovi trattati arabi di ottica, geometria, astronomia,
medicina e filosofia.
Le opere riscoperte e tradotte dal greco e dall’arabo: XII secolo, grazie all’operato di
Domenico Gundisalvi vengono tradotte dall’arabo le opere di Avicenna e Avicebron;
dall’arabo, parte delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori sono rese accessibili ai
latini da Gerardo da Cremona, che traduce anche il neoplatonico “Liber de causis”,
ritenendolo erroneamente un libro di Aristotele.
Nello stesso secolo vengono tradotte, dall’originale greco per opera di Giacomo Veneto
molte opere aristoteliche (Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche, fisica,
Sull’anima, Metafisica).
Nella prima metà del XIII secolo vengono compaiono molti commenti di Averroè, tradotti
dall’arabo da Michele Scoto, che dopo lunghi viaggi si trasferisce alla corte di Federico II.
Il punto più alto delle traduzioni viene raggiunto intorno alla metà del secolo quando si
realizzano importanti traduzioni direttamente dal greco di opere di Aristotele e dei suoi
commentatori greci, svincolate dalla mediazione araba, di trattati di Archimede, Erone,
Tolomeo, Galeno, Proclo, di scritti teologici di Giovanni Damasceno e dello pseudo-Dionigi
Aeropagita. Roberto Grossatesta e Guglielmo di Moerbeke sono i principali traduttori di
questo patrimonio di conoscenze.
TRADUTTORI
PERIODO DI
ATTIVIT À
AREA DI
TRADUZIONE
LINGUA
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PRINCIPALI
AUTORI
TRADOTTI
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DOMENICO
GUNDISALVI
GERARDO DA
CREMONA
XII secolo
Toledo (Spagna)
Dall’arabo
XII secolo
Toledo
Dall’arabo
GIACOMO
VENETO
XII secolo
Area bizantina
Dal greco
MICHELE
SCOTO
XIII secolo
Toledo e Sicilia
Dall’arabo
ROBERTO
GROSSATESTA
XIII secolo
Inghilterra
Dal greco
GUGLIELMO DI
MOERBEKE
XIII secolo (di
più seconda metà)
Grecia, Viterbo
Dal greco
Avicenna;
Avicebron
Aristotele e
commentatori;
pseudoaristotelico
De causis
Aristotele
Aristotele con
commenti di
Averroè
Aristotele:
pseudo-Dionigi
Aristotele e
commentatori
greci; Proclo,
Archimede;
Eudosso;
Tolomeo; Galeno.
2.La fondazione delle Università:
Università, corporazione di maestri e studenti: grande novità della cultura urbana del XIII
secolo è la nascita dell’università, fenomeno senza precedenti nell’età classica o paralleli nel
mondo bizantino o islamico. Di fatto era una corporazione di maestri e studenti che
mediante statuti regolava obblighi reciproci e fissava programmi di insegnamento.
Facoltà universitarie e i percorsi di studio: le università medievali si articolavano in 4
facoltà: Arti (discipline filosofiche); Diritto; Medicina; Teologia. Per ciascuno era fissato un
percorso di studio, centrato sull’analisi sistematica di testi classici (es: Aristotele per
filosofia; Galeno per medicina) e sulla discussione dei nodi teorici e problematici che ne
emergevano. A differenza di quanto accadeva con le scuole cittadine del XII secolo, gli
statuti universitari fissavano la durata dei corsi e la tipologia delle prove di esame; inoltre i
titoli rilasciati erano giuridicamente riconosciuti dalle autorità civili ed ecclesiastiche in
Italia e in tutta Europa.
Le sedi, Francia, Italia, Inghilterra: impossibile fissare una data precisa di fondazione delle
singole università, molte di esse si sviluppano gradualmente, estendendo le attività di scuole
già esistenti. Le prime nascono sul finire del XII secolo in Italia (Bologna e Salerno), in
Francia (Montpellier, Tolosa e Parigi) e in Inghilterra (Oxford). Altre importanti sorgeranno
in seguito all’allontanamento di alcuni maestri che, in seguito ad attriti con le autorità civili,
fondano una propria scuola altrove. Così nel 1209 nasce l’università di Cambridge, e quella
di Padova nel 1222 da maestri che avevano lasciato Bologna.
Molte sedi universitarie si distinguevano per l’eccellenza dei in una particolare disciplina:
Salerno e Montpellier erano rinomate per la medicina, bologna per lo studio del diritto,
Parigi e Oxford per gli studi filosofici e teologici. Ogni sede aveva carattere internazionale
con maestri e studenti di ogni nazionalità europea, uniti dall’uso tecnico della latino, lingua
culturale sovranazionale, impiegata ad ogni livello dell’attività didattica, amministrativa e
giuridica.
Composizione sociale degli universitari e i salari dei professori: gli studenti provenivano da
diverse realtà sociali, piccola nobiltà, borghesia, artigianato, alcuni anche della piccola
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nobiltà rurale per cui l’università rappresentava una possibile promozione sociale ed
economica.
Gli studenti più poveri (numerosi soprattutto nelle facoltà delle Arti e di Teologia) erano
dispensati dalle tasse universitarie. La Sorbona era in origine un collegio per studenti di
teologia poveri; nonostante ciò per molti l’indigenza continuava, costava molto studiare
(libri, onorario dei professori), c’era chi doveva mettersi al servizio di uno studente o di un
professore. La situazione salariale media dei docenti era paragonabile a quella di un operaio,
anche se il corpo universitario godeva del privilegio dell’esenzione fiscale. Situazione più
delicata quella dei maestri delle Arti, mentre i giuristi e i medici avevano una situazione
privilegiata perché godevano anche degli introiti che gli venivano dall’attività professionale
extraunivesitaria.
La condizione clericale della popolazione universitaria: tratto distintivo della popolazione
universitaria era la condizione clericale. Nel Medioevo “clero” non è sinonimo di “insieme
di sacerdoti”, piuttosto indica coloro che hanno ricevuto la tonsura clericale, cioè un taglio
rituale di 5 ciocche con cui si diviene da laici chierici. Premessa per l’accesso agli ordini
religiosi, ma di per sé non comportava particolari obblighi. Piuttosto era un privilegio: i
chierici non erano soggetti alla giustizia civile, solo in parte a quella episcopale (potevano
appellarsi al papa). Una minoranza dei chierici accedeva al sacerdozio, la maggior parte
vivevano da laici, senza rinunciare neanche al matrimonio. La differenza principale tra
chierici e laici, i primi avevano accesso a una formazione culturale, erano “litterati”; pda qui
l’identificazione che nel XIII secolo vedeva accomunare le figure del “chierico” e dell’
“intellettuale”.
Irruzione di Aristotele nel sistema universitario: nel sistema universitario medievale non
esisteva una facoltà di filosofia, questa era insegnata nella facoltà delle Arti, dove presto
viene integrato il sistema tradizionale delle arti liberali e poi soppiantato dall’irruzione delle
opere di Aristotele, che saranno adottate come libri di testo nei vari settori.
Le ragioni del successo delle opere di Aristotele nelle università medievali (anche con le
difficoltà dell’essere opere “esoteriche”): sono trattati nati dall’insegnamento, riguardano
quasi tutti gli ambiti del sapere (logico, fisico, metafisico ed etico-politico), mostrano tra
loro collegamenti metodologici e nel linguaggio (si pensi all’impiego pervasivo delle coppie
concettuali materia/forma, potenza/atto, sostanza/accidente).
Insegnare filosofia significava commentare i testi di Aristotele, considerato il Filosofo per
antonomasia. Non vi era un rapporto servile e ripetitivo nei suoi confronti, i commentatori
potevano prendersi la libertà di esprimere il proprio dissenso. Molte delle dottrine più
interessanti del XIII secolo comportano revisioni profonde, se non superamenti, del pensiero
di Aristotele, da cui tutti partivano.
Il metodo: letteratura filosofica del XIII (e dei tre secoli successivi) secolo influenzata dalle
tecniche di insegnamento da cui deriva. L’università medievale perfeziona forme altamente
strutturate di analisi testuale (lectio) e di discussione teorica (disputatio), da cui derivano
rispettivamente i generi letterali del commento e della quaestio.
Lectio: è l’analisi sistematica di un testo fondamentale secondo tre livelli di
approfondimento progressivo: 1. Spiegazione letterale (littera); 2. Prima parafrasi del suo
significato (sensus); 3.approfondimento della posizione teorica dell’autore (sententia). La
spiegazione letterale era un momento cruciale dal momento che si avevano dinanzi
traduzione estremamente letterali che rendevano necessari chiarimenti grammaticali e
lessicali.
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La disputa e la quaestio: altra pratica intellettuale tipica dell’università medievale è la
disputa. In ogni facoltà si tenevano si tenevano dispute accuratamente strutturate intorno ai
temi più rilevanti e problematici di ogni area disciplinare.
Si partiva da un quesito del maestro formulato come interrogativa disgiuntiva (es. :”l’umiltà
è una virtù o no?”). poi entravano in gioco due gruppi di studenti divisi nel “gruppo del no”
e nel “gruppo del si” che dovevano formulare i diversi argomenti rispettivamente contro e a
favore. A questo punto il maestro offriva la propria soluzione, replicando anche gli
argomenti contrari avanzati nel dibattito. Sul modello orale delle dispute nasce la quaestio
(anche se non tutte quelle che ci sono giunte sono nate da discussione realmente avvenute).
La svolta tra XII e XIII secolo: Severino Boezio aveva lasciato all’Alto Medioevo le
traduzioni commentate di alcuni scritti logici di Aristotele (Categorie; De interpretatione).
Grazie al suo lavoro dal VI all’XI secolo l’Occidente latino conosce un Aristotele
essenzialmente logico, collegabile alle discipline del trivio (grammatica, dialettica, retorica).
Le cose cambiano tra XII e XIII secolo in cui i traduttori latinizzano il resto dell’Organon e
opere fisiche e metafisiche (oltre agli scritti filosofici-scientifici arabi in cui si fa ricorso alla
produzione aristotelica).
Avicenna e l’interpretazione platonizzante di Aristotele: nei primi tentavi di interpretazione
di questa nuova filosofia si verifica un fenomeno di “precomprensione” nel senso che prima
di ciò che aveva effettivamente detto Aristotele ci si poggi sulle informazioni “di parte” date
da Avicenna . a causa di tale precomprensione inizialmente le novità aristoteliche sembrano
più facilmente armonizzabili con il bagaglio culturale neoplatonico-agostiniano della
tradizione cristiana occidentale.
Inconciliabilità di alcune teorie aristoteliche con il cristianesimo: chiarendosi, però, la
portata di alcune teorie aristoteliche (come quella dell’eternità dell’universo) risultò
evidente la loro inconciliabilità con alcuni capisaldi della fede cristiana. L’insieme delle
opere aristoteliche aveva mostrato un intero sistema della realtà coerente e del tutto
indipendente dai contenuti della rivelazione religiosa.
Censura della Metafisica, dei libri naturali di Aristotele e dei relativi commenti: ai conflitti
tra ragione e fede, avvertiti particolarmente nell’università di Parigi, si risponde
diversamente: l’autorità ecclesiastica (che aveva ancora il controllo dei programmi di studi)
risponde con la censura; gli statuti dell’università di Parigi, redatti nel 1215,vietano l’uso
didattico della Metafisica, dei libri naturali di Aristotele ( Fisica, il Cielo, De anima, e gli
altri) e dei loro commenti arabi.
Il conflitto parigino tra vescovo e maestri: dopo il divieto si manifesta il conflitto tra
autorità episcopale e maestri. Per evitare le conseguenze del malcontento di maestri e
studenti (molti lasciano Parigi per Tolosa, dove Aristotele si poteva leggere più liberamente)
intervine papa Gregorio IX nel 1231 con la bolla “Parens scientiarum” (madre delle scienze,
riferito a Parigi). Con questa consente di insegnare i “libri naturali” dei filosofi , prima però
esaminati e purificati dagli errori da una commissione, che in realtà non hai mai concluso i
propri lavori superata degli eventi.
Liberalizzazione dello studio di Aristotele: statuti del 1255 della facoltà delle Arti di Parigi
prevedono lo studio sistematico dell’intera opera aristotelica che così viene a coincidere con
il percorso di formazione filosofica. Corrispone al periodo di massima produttività di
maestri di teologia, i domenicano Alberto e Tommaso e dei maestri di Arti come Sigieri di
Brabante e Boezio di Dacia.
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VIII. La filosofia nel secolo XIII:
1.Da Guglielmo d’Auvergne a Enrico di Gand:
Studi filosofici da parte dei teologi del XIII secolo, anche dopo l’ammonimento di Gregorio
IX ai teologi di Parigi (di insegnare teologia scevra da ogni influenza del secolo, 7/06/1228):
- Primi sforzi, fine XII secolo: “Glosse”, “Commento alle sentenze” di Pietro di
Poitiers, ha insegnato a Parigi dal 1167 al 1205, fa allusione alla Metafisica; “Summa
teologica” di Simone di Tournai che conosce già la Fisica; acora opere quasi solo
teologiche;
- “Summa aurea” di Guglielmo d’Auxerre, morto nel 1231, tratto originalmente il
libero arbitrio, le virtù, il diritto naturale;
- “Summa de Bono” di Filippo il Cancelliere, morto nel 1236, scrisse il primo trattato
sulle proprietà trascendentali dell’essere: l’uno, il vero, il bene. L’uso che fa di
Aristotele e dei filosofi arabi è prova del fatto che i teologi cristiani non possono più
sfuggire al confronto.
Guglielmo d’Auvergne: nato nel 1180 ad Aurillac, professore di teologia a Parigi,
consacrato vescovo di Parigi nel 1228 da Gregorio IX, muore nel 1249.
Scritti più interessanti per la storia della filosofia: “De primo principio” 1228, De anima
1230, De universo tra 1231 e 1236. Non scrive in funzione dell’insegnamento. La sua è la
riflessione critica di un teologo della vecchia scuola sulle filosofie arabe che si erano appena
scoperte. Vide chiaramente che non si possono combattere le idee che non si conoscono e
che si può trionfare della filosofia solo da filosofi (come faranno Alberto e Tommaso).
Critica gli intellettuali cristiani che discutono delle nuove teorie senza
conoscerle/conoscendole male. Ha visto l’importanza di Avicenna e l’interesse per un
teologo cristiano nella sua distinzione tra essenza ed esistenza.
Esse, due significati: 1°, essenza/sostanza in se stessa priva dei suoi accidenti, cioè l’essere
che la definizione significa; 2°, ciò che il verbo est designa quando lo si predica di una qual
cosa, in questo non significa esse né significa l’essenza che la definizione esprime, gli è
estraneo.
Distingue anch’egli essenza ed esistenza, come da al-Fārābī ad Avicenna e poi d’Aquino, e
ne fa la base delle sue prove dell’esistenza di Dio. Ogni essere è tale che nelle sua essenza
sia inclusa l’esistenza o meno, dunque ogni essere è tale che esista per se stesso o per altro,
ma non possono esistere solo esseri che esistono per altro, chi è “l’altro” che ne causa
l’esistenza? Ci sono tre possibilità: o ammettere che vi è una serie infinita di esseri che
esistono per altro, il che non è possibile né risolutivo; ammettere una serie circolari di esseri
che si causano l’un l’altro, ma sarebbe come a dire che si causano da se stessi; ammettere
l’esistenza di un essere che esiste per sé, che possiede l’esistenza per essenza che è Dio.
Guglielmo così supera il piano ontologico di S. Anselmo, “su suggerimento di Avicenna” in
questo senso si può dire che ha preparato le vie per S. Tommaso. Dio è assolutamente
semplice per come lo concepisce. Guglielmo spiega che l’esse delle cose è una
partecipazione dell’esse divino, in questo si distingua da Avicenna per cui l’esistenza delle
cose è partecipazione a qualche essere precedentemente emanato.
“Dio è l’essere per cui tutte le cose sono, e non ciò che esse sono”, Guglielmo paragona il
rapporto che vi è tra anima e corpo a quello che vi è tra esse divino con le essenza create.;
formula la cui completa portata apparirà solo in Alberto Magno e in Eckhart. L’esistenza
vale e più dell’accidente e più della sostanza poiché perdendola si perde tutto.
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Nella dottrina di Guglielmo Dio presta l’esistenza alla creatura piuttosto che darla, questa
povertà della creatura intacca la sua cosmogonia e cosmologia. Si oppone alla tesi
avicenniana dell’eterna emanazione dei possibili retta dalla necessità dell’intelletto divino.
La volontà di Dio è eterna, ma libera, eterne le sue decisioni, ma non per questo lo sono
anche le conseguenze di queste.
L’esistenza o meno del mondo, che è stato creato liberamente ed eternamente da Dio dal
nulla nel e col tempo, non cambia nulla in Dio che l’ah creato ma non perché già esisteva
(Avicenna) piuttosto perché
2.Da Alessandro di Hales a Raimondo Lullo:
Maestro francescano all'Università di Parigi, ove insegnò teologia, Alessandro (1170 circa1245) entrò tardivamente, nel 1236, nell'ordine dei Minori, inaugurando così la prima
cattedra francescana di teologia a Parigi.
Forse allievo, sicuramente amico, di Roberto Grossatesta, Alessandro è rimasto famoso per
la vasta Summa theologica, della cui paternità peraltro già Ruggero Bacone dubitava.
La Summa costituì un testo di riferimento importante per il pensiero teologico francescano,
essendo prevalentemente una compilazione ispirata al pensiero di Agostino e dei Vittorini.
Poiché è forgiata sulla base di varie fonti, è difficile estrapolare dalla Summa il pensiero
genuino di Alessandro. Egli è tuttavia autore di un commento alle Sentenze del Lombardo,
opera profondamente influenzata dall'agostinismo e solo a tratti dall'aristotelismo.
La scelta di insegnare teologia attraverso un commento e non più direttamente sulla Bibbia
accese una dura polemica ad Oxford, i cui maestri seguirono infine l'esempio di Alessandro,
contrariamente alle direttrici del vescovo Roberto Grossatesta.
Alessandro seguì in alcuni aspetti la cosiddetta metafisica della luce. Fra i suoi allievi più
famosi si ricordano Giovanni della Rochelle e Bonaventura da Bagnoregio, che ebbe nei
confronti del suo maestro una sincera e profonda venerazione.
Nato verso il 1232 a Palma di Maiorca da una famiglia aristocratica, Lullo ricevette una
educazione di tipo cortese adatta alla vita di corte cui era destinato. Già in età adulta, però,
ebbe un’esperienza visionaria, che narra nella Vita (1311) come una visione del Cristo
crocifisso, dalla quale fu spinto a dedicare da quel momento tutte le sue energie alla
elaborazione di un metodo per la conversione degli ‘infedeli’ (in primo luogo i seguaci
dell’Islam). Dopo un periodo di studio nell’università di Montpellier ebbe una seconda
esperienza di carattere intuitivo, in cui gli fu ‘rivelato’ il metodo che avrebbe permesso la
realizzazione del suo progetto: l’arte combinatoria. Da allora (1274 ca.) la sua vita fu
caratterizzata dal continuo intreccio fra la scrittura di numerosissime opere (257, alcune
delle quali molto ampie) ed i viaggi a Parigi (sede dell’università più prestigiosa), a Roma
(sede della curia papale) ed in tutti i principali centri del Mediterraneo. Nella sua attività di
propaganda, svolta con molta attenzione alle circostanze e agli atteggiamenti dei suoi
interlocutori, Lullo mantenne sempre fermo l’obiettivo fondamentale, proponendo fra l’altro
la creazione di collegi di lingue per formare missionari in grado di convertire i non-cristiani
sulla base di argomentazioni razionali, da lui definite con il termine – già usato da Anselmo
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d’Aosta - di ‘ragioni necessarie’ (rationes necessariae). La sua morte, avvenuta nel 1316 di
ritorno da un viaggio a Bugia in Tunisia, dove aveva per l’ultima volta tentato la sua opera
di conversione mediante la predicazione, è leggendariamente attribuita alla lapidazione che
avrebbe subito come conseguenza di ciò. Altre leggende fiorirono attorno alla figura di
Lullo, le cui opere furono apprezzate da molti pensatori del Rinascimento, ed a cui vennero
attribuite anche numerose e importanti opere di alchimia.
I correlativi e l’arte combinatoria
Negli anni ’30 del XIII secolo il re catalano, Giacomo II, aveva appena concluso la sua
opera di riconquista, e nel suo regno convivevano a stretto contatto musulmani, ebrei e
cristiani; la cultura islamica tradizionale, e in minor misura anche quella ebraica, lasciarono
tracce importanti nella filosofia lulliana, a partire da una concezione della logica che
derivava dal filosofo Al-Ghazali. In essa la struttura fondamentale, derivata da una
caratteristica della grammatica araba, era quella dei cosiddetti ‘correlativi’, in cui ogni ente
logico si strutturava non nella forma binaria di potenza/atto, ma in una forma ternaria che ne
esprimeva la dinamicità: bonum (il bene), ad esempio, si esplicava in bonificativum o
bonificans (che esprime l'attività del concetto: ciò che produce il bene), bonificabile o
bonificatum (che esprime la passività: ciò che diventa buono), e bonificare (che esprime il
legame, il medio, la relazione fra attività e passività) (Lohr). La Logica del Gatzel o
Compendium logicae Algazalis (1271-2) è forse la prima delle opere scritte da Lullo.
Al 1274 risale invece la cosiddetta ‘illuminazione sul Monte Randa’, il cui frutto fu
l'invenzione di una tecnica combinatoria, la celebre ars lulliana.
Mediante l’uso di dispositivi grafici basati sulla rotazione di figure geometriche (cerchi
concentrici o con triangoli o quadrati inscritti) si mettono in relazione fra loro le strutture
fondamentali della realtà, identificate con gli attributi divini e con i ‘soggetti’ reali da essi
derivati (il mondo angelico; i cieli; l’uomo con le sue facoltà – intelletto, memoria, volontà;
le realtà del mondo terreno dagli animali agli elementi). Le realtà appartenenti ad ogni
livello sono indicate da lettere dell’alfabeto, distribuite nei cerchi in settori uguali, che
possono venir messe in relazione secondo tutte le combinazioni possibili; si ottengono così
‘tavole combinatorie’ (matrici a due o a tre lettere) che permettono di costruire con la
sicurezza di un calcolo tutti i discorsi possibili attorno alla realtà. Quest' arte combinatoria
venne esposta per la prima volta in un testo dal titolo Art abreujada d' atrobar veritad, o nella versione latina - Ars compendiosa inveniendi veritatem (1274). Fino all’Ars
Demonstrativa (1283) Lullo utilizza sedici lettere dell'alfabeto organizzate in figure che
rappresentano le dignitates o attributi divini, le facoltà dell'anima intellettiva, i principi della
logica, le virtù e i vizi, i concetti della teologia, quelli della filosofia e quelli del diritto.
A partire dal 1290 riduce le lettere dell'alfabeto (e di conseguenza i principi nelle varie
figure) a nove, in modo da ottenere un più facile raccordo con la struttura ternaria che
svolge un ruolo fondamentale nel suo pensiero, sia dal punto di vista della logica (con i
correlativi), sia dal punto di vista della teologia, perché facilita la ‘dimostrazione’ del
mistero trinitario, massimo punto di divergenza fra la teologia cristiana e quella musulmana.
Le più importanti esposizioni dell'ars sono degli anni 1305-1308, e si intitolano
rispettivamente Ars brevis e Ars generalis ultima.
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Esse furono lette e commentate durante il Rinascimento da quanti cercavano in esse un
sistema di mnemotecnica che fosse anche un modello per la costruzione del sapere
universale: da Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim a Giordano Bruno, al teorico della
pansofia Jan Komenskj (Comenius); ancora Leibniz si interessò a fondo alla combinatoria
lulliana. Attraverso l'uso dell'arte Lullo riteneva di aver fondato un nuovo tipo di
dimostrazione (demonstratio per aequiparantiam), riformando alla radice la logica.
La filosofia in volgare
Lullo fece uso della lingua catalana (uno degli idiomi romanzi) per scrivere le sue prime
opere di filosofia; manterrà quest' uso per tutta la vita, talvolta redigendo i suoi testi in
catalano e volgendoli poi (personalmente o ad opera di collaboratori) in latino, talvolta
redigendoli prima in latino e poi dandone una versione catalana. Alcuni testi dei primissimi
anni sembra fossero addirittura scritti in arabo - lingua che Lullo si era proposto di imparare
per poter meglio convertire i musulmani, secondo lo scopo che si era prefisso. Nella Vita si
narra che, per apprendere l'arabo, si era procurato un servitore-insegnante, col quale tuttavia
sorse un conflitto così grave che questi tentò addirittura di uccidere il filosofo.
L'apprendimento delle lingue per poter meglio svolgere l'opera missionaria (che nei primi
tempi Lullo concepiva unicamente come legata alla persuasione mediante la predicazione e
l'argomentazione filosofica) fu dall'inizio alla fine della sua attività uno degli obiettivi più
tenacemente perseguiti; nel 1276 aveva ottenuto da Giacomo II la fondazione di un collegio
di lingue per missionari a Miramar; nel 1311, al Concilio di Vienne, presenterà ancora una
petizione in tal senso al papa. Come si ricorderà, il tema dell'apprendimento delle lingue
occupa un posto importante anche nel programma di riforma del sapere di Ruggero Bacone.
Pur nella sostanziale diversità, in effetti, Bacone e Lullo presentano alcuni tratti comuni:
non ultima l'adesione al francescanesimo (Lullo divenne terziario francescano dopo una
gravissima crisi psicologica nel 1292); ma soprattutto il progetto di una riforma del sapere,
che per Lullo doveva incentrarsi su una ristrutturazione dell'enciclopedia delle scienze
mediante la sua arte.
Esemplarismo elementare
La struttura del mondo che stava dietro alle figure combinatorie era un emanatismo
fortemente imbevuto di elementi neoplatonici, paradigma comune alla maggior parte dei
pensatori cristiani, musulmani ed ebrei del tempo. Su tale base Lullo innestò il suo metodo
apologetico basandosi sul cosiddetto ‘esemplarismo elementare’ (Yates): le proprietà degli
elementi del cosmo venivano ‘dimostrate’ mediante alfabeto e figure, e poi si trasponeva per
ogni lettera il significato da quello relativo agli elementi a quello relativo ad argomenti
teologici, ‘dimostrando’ così verità come l'Incarnazione di Cristo o la Trinità ‘mediante
ragioni necessarie’. Sembra che questa intuizione costituisse il contenuto dell'illuminazione
sul Monte Randa: di fatto appare già nella prima opera enciclopedica di Lullo, il Liber
Contemplationis, scritto verso il 1274, che non si vale ancora della combinatoria.
L’enciclopedia e gli ‘alberi’ lulliani
Altre opere a carattere enciclopedico sono l'Arbor Scientiae (1295-96), e i due romanzi
filosofici scritti in volgare: il Blaquerna (1283; al suo interno spicca il piccolo gioiello
mistico di Lullo, il Liber de amico et amato, che riprende la simbologia nuziale del Cantico
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dei Cantici per descrivere l'esperienza di unione dell'anima con Dio), e il Felix o Libre de
les meravilles del mon (1288-89; contiene al suo interno un bestiario moraleggiante, il Libre
de les besties). Alle singole scienze, in particolare la medicina, l'astronomia, la geometria e
il diritto, Lullo dedicò diverse opere. In alcune di esse la struttura di ciascuna disciplina è
‘rinnovata’ organizzandone i contenuti mediante le figure combinatorie e mediante la figura
dell'albero. La struttura ad albero, presente già in alcuni dei primi testi lulliani, viene usata
sistematicamente nell'Arbor Scientiae per organizzare il quadro generale del sapere
(enciclopedia) da cui gli stessi dispositivi combinatori attingono la loro base dottrinale. I
contenuti di tutto il sapere sono ripartiti nei singoli ambiti del reale (elementi, mondo
vegetale, animale, umano; cielo, mondo angelico, mondo divino; chiesa, società, mondo
morale) e in ciascuno di essi sono messi in relazione sistematica come radici, tronco, rami,
foglie, fiori e frutti. In verità Lullo non introdusse alcuna novità di contenuto nelle scienze:
del tutto opposto in questo a Ruggero Bacone, il suo approccio alle scienze è teso ad una
risistemazione dei contenuti tradizionali, non ad un loro rinnovamento sulla base
dell'esperienza.
Dal dialogo fra le religioni alla crociata e all’antiaverroismo
A partire dal 1275-76, la vita di Lullo è scandita da una serie di viaggi nei paesi del
Mediterraneo; le sue mete più frequenti furono Montpellier, nella cui università medica
completò la sua formazione; Roma, dove cercò di convincere i pontefici ad adottare la sua
arte come strumento di rinnovamento del sapere e di persuasione degli infedeli; Parigi, dove
tentò di fare lo stesso con i magistri dell'università - ottenendo complessivamente scarso
successo - e con la corte di Filippo il Bello, per cui scrisse una breve esposizione della sua
filosofia nella forma di una "sacra rappresentazione" del Natale (Liber Natalis pueri parvuli
Christi Jesu, 1311); Tunisi, dove personalmente provò a utilizzare il suo metodo di
discussione coi sapienti musulmani, convinto che, se avesse persuaso i dotti, la conversione
del popolo sarebbe venuta di conseguenza. Nel Liber de Gentili et tribus sapientibus (127476) Lullo aveva messo in scena una disputa fra i seguaci delle tre grandi religioni
monoteistiche del Mediterraneo, un ebreo, un musulmano e un cristiano, i quali
sottopongono al giudizio di un filosofo pagano le loro credenze religiose. La preghiera del
Gentile, che chiude il libro, è uno splendido esempio di religione filosofica, e non a caso a
questo testo si ispirerà Nicola Cusano per la sua opera sulla tolleranza.
Ma la convinzione pacifista di Lullo venne meno dopo la battaglia di Acri (1291), e nel
Liber de fine (1305) non esitò a sostenere la crociata armata, anche se consigliando ai
crociati di inserire nel loro equipaggiamento una ventina di suoi libri (elencati titolo per
titolo), i quali avrebbero permesso loro di predicare alle folle sottomesse, per convertirle.
Nell’ultimo periodo della sua vita, infine, rivolse la sua attenzione a quei filosofi scolastici
che riprendevano l’interpretazione di Aristotele data da Averroè, formulando dottrine
incompatibili con l’ortodossia cristiana e perciò oggetto di polemiche filosofiche
(sull’unicità dell’intelletto possibile si ricordino i trattati di Alberto Magno e di Tommaso
d’Aquino; sull’eternità del mondo lo scritto dello stesso Tommaso e le pagine di
Bonaventura da Bagnoregio) e di condanne negli anni ’70. La prima chiara presa di
posizione in questo senso emerge nella Declaratio per modum dialogi edita (1298), in cui
Lullo riprende gli articoli della condanna emessa dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier,
nel 1277, per opporre alle dottrine averroistiche le proprie dimostrazioni in accordo con le
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verità di fede. Numerose altre opere antiaverroistiche, per lo più molto brevi, furono scritte
durante l’ultimo soggiorno parigino (1309-1311): in esse l'esposizione secondo il metodo
combinatorio è abbandonata a favore del metodo sillogistico, ma non cambia il contenuto
dottrinale, come se Lullo avesse identificato nell'Averroismo l'espressione intellettuale della
religione musulmana nella cittadella cristiana. Negli ultimi anni (1312-1313) Lullo, deluso
da tutti coloro presso i quali aveva cercato appoggio per il suo progetto missionario, rivolse
la sua attenzione all’ambiente dei francescani spirituali, ricercando contatti con il sovrano
che li proteggeva, Federico III di Sicilia, e con il medico e profeta catalano Arnaldo da
Villanova; anche nelle opere scritte in questo contesto, sermoni per lo più, le sue dottrine
sono messe al servizio della dimostrazione della fede, cui dedicò anche l’ultimo viaggio in
Tunisia e l’ultimo tentativo, fallito come gli altri, di convertire i seguaci dell’Islam alla fede
cristiana.
3.Da Roberto Grossatesta e Giovanni Peckham:
La metafisica della luce
Roberto Grossatesta nacque verso il 1168 nel Suffolk e studiò ad Oxford . Dopo un
soggiorno a Hereford , presso il vescovo William de Vere , sino alla morte di quest' ultimo
nel 1198 , tornò probabilmente ad Oxford . Qui , fra il 1209 e il 1214 , scoppiarono disordini
tra studenti e cittadini , e i maestri , incluso forse Roberto , si recarono a Parigi . Nel 1214
egli é di nuovo ad Oxford come magister regens in teologia e successivamente cancelliere
dell' università .
Grossatesta ha scritto un gran numero di opere giovanili in latino e in francese quando era
un clericus; tra queste una intitolata Chasteua d'amour, un poema allegorico sulla creazione
del mondo e sulla redenzione cristiana, nonché parecchi altri poemi e testi in prosa
sull'economia domestica e sull'etichetta cortese. Egli inoltre ha scritto un notevole numero
di opere teologiche, tra le quali l'importante Hexaëmeron, negli anni 1230.
Grossatesta tuttavia viene considerato un pensatore originale soprattutto per merito delle sue
opere concernenti questioni scientifiche e riguardanti il metodo scientifico. Nel periodo che
va, grosso modo, dal 1220 al 1235 ha scritto una lunga serie di trattati scientifici, tra i quali:
De sphera, un lungo testo su vari argomenti. De accessione et recessione maris. sulle maree.
De lineis, angulis et figuris, sulle argomentazioni matematiche nelle scienze naturali. De
iride, sul fenomeno dell'arcobaleno. Grossatesta ha scritto anche svariati commenti su
Aristotele; tra questi il primo commento occidentale sull'Analytica Posteriora e uno sulla
Fisica.
Nei suoi lavori degli anni 1220-1235, in particolare i commentari aristotelici, Grossatesta
delineò l'intelaiatura del corretto metodo scientifico. Anche se non seguì sempre i suoi stessi
consigli nel corso delle sue ricerche, le sue opere sono considerate strumentali nella storia
dello sviluppo della tradizione scientifica occidentale. Grossatesta fu il primo degli
scolastici a comprendere pienamente la visione aristotelica del percorso duale del
ragionamento scientifico, riassumendo particolari osservazioni in una legge universale e
quindi ricavando da leggi universali la previsione dei particolari. Grossatesta chiamò questo
processo "risoluzione e composizione". Quindi ad esempio, guardando ai particolari della
Luna è possibile arrivare a leggi universali sulla natura. Al contrario, una volta che queste
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leggi universali sono comprese, è possibile fare previsioni e osservazioni su altri oggetti
oltre la Luna. Inoltre, Grossatesta disse che entrambi i percorsi devono essere verificati
attraverso la sperimentazione allo scopo di verificarne i principi. Queste idee fondarono una
tradizione che giunse fino a Padova e a Galileo Galilei nel XVII secolo.
Nonostante l'importanza che la "risoluzione e composizione" avrebbe acquisito per il futuro
della tradizione scientifica occidentale, più importante per il suo tempo fu l'idea della
subordinazione delle scienze. Ad esempio, guardando geometria e ottica, l'ottica è
subordinata alla geometria perché l'ottica dipende dalla geometria. Quindi Grossatesta
concluse che la matematica era la principale tra tutte le scienze e la base per tutte le altre,
poiché ogni scienza naturale dipende in ultima analisi dalla matematica. Egli sostenne
questa conclusione guardando la luce, che egli credeva essere la "prima forma" di tutte le
cose, fonte di tutta la generazione e il moto (approssimativamente ciò che oggi conosciamo
come biologia e fisica). Quindi, poiché la luce poteva essere ridotta a linee e punti, e perciò
completamente spiegata nell'ambito della matematica, la matematica costituiva per lui
l'ordine più alto delle scienze.
Ricevette la sua formazione a Oxford dove divenne esperto in legge, medicina e scienze
naturali. Giraldo Cambrense, del quale aveva fatto conoscenza, lo presentò, prima del 1199,
a William de Vere, vescovo di Hereford. Grossatesta aspirava ad un posto nella casa del
vescovo, ma essendo stato deceduto il suo sostenitore, intraprese da sè lo studio della
teologia. È possibile che abbia visitato Parigi a questo scopo, ma alla fine si stabilì a Oxford
come professore e come capo dei francescani. Il suo successivo avanzamento di grado fu la
cancelleria dell'università. Egli si distinse notevolmente come lettore, e fu il primo rettore
della scuola che i francescani fondarono a Oxford attorno al 1224. La cultura di Grossatesta
venne altamente lodata da Ruggero Bacone, che era un critico severo. Secondo Bacone, egli
conosceva poco il greco o l'ebraico e prestava poca attenzione alle opere di Aristotele, ma
prevaleva tra i suoi contemporanei per la sua conoscenza delle scienze naturali. Tra il 1214
e il 1231 Grossatesta resse in successione gli arcidiaconati di Chester, Northampton e
Leicester. Nel 1232, dopo una grave malattia, rinunciò a tutti i suoi benefici e le promozioni,
ad eccezione di una prebenda che deteneva a Lincoln. La sua intenzione era di passare il
resto della vita in contemplativa religiosità, ma mantenne l'incarico di cancelliere e nel 1235
accettò il vescovato di Lincoln. Egli intraprese senza indugio la riforma della morale e della
disciplina clericale in tutta la sua vasta diocesi. Questo schema lo mise in conflitto con più
di una corporazione privilegiata, ma in particolare con il suo stesso ordine, che contestò
vigorosamente la sua pretesa di esercitare il diritto di ispezione nelle sue comunità. La
disputa si surriscaldò dal 1239 al 1245. Venne condotta da ambo le parti con indecorosa
violenza, e quelli che più avevano approvato lo scopo principale di Grossatesta, ritennero
necessario avvertirlo dell'errore commesso nell'essere troppo zelante. Nel 1245, grazie ad
una visita personale alla corte papale di Lione, si assicurò un verdetto favorevole. In politica
ecclesiastica il vescovo apparteneva alla scuola di Becket. Il suo zelo per la riforma lo portò
ad avanzare, per conto delle corti, pretese cristiane che era impossibile venissero ammesse
dal potere secolare. Egli incorse due volte nel rimprovero di Enrico III su questo argomento,
anche se poi toccò a Edoardo I sistemare la questione di principio in favore dello stato.
La devozione di Grossatesta alle teorie gerarchiche del suo tempo sono attestate dalla
corrispondenza con il suo ordine e col re. Contro il primo confermò le prerogative dei
vescovi e contro il secondo asserì che era impossibile per un vescovo non considerare gli
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ordini della Santa Sede. Dove le libertà della chiesa nazionale entravano in conflitto con le
intenzioni di Roma, egli stava dalla parte dei suoi compatrioti. Così nel 1238 chiese che il re
rilasciasse alcuni studiosi di Oxford che avevano assalito il legato Otho. Ma almeno fino al
1247 si sottomise pazientemente alle interferenze papali, accontentandosi della protezione
(per via di uno speciale privilegio papale) della sua diocesi da chierici stranieri. Era più
impaziente con le esazioni reali; e dopo il ritiro dell'Arcivescovo Sant'Edmondo si costitui
come portavoce dello stato clericale nel gran Consiglio. Nel 1244 sedette nel comitato
incaricato di considerare una domanda di sussidio. Il comitato rigettò la richiesta, e
Grossatesta impedì un tentativo del re di separare il clero dal baronaggio. "È scritto", disse il
vescovo, "che uniti restiamo in piedi e divisi cadiamo". Fu comunque ben presto chiaro che
il re e il papa erano alleati per annullare l'indipendenza del clero inglese, e dal 1250 in
avanti Grossatesta criticò apertamente i nuovi espedienti finanziari a cui papa Innocenzo IV
era stato costretto dal suo disperato conflitto con l'impero. Nel corso di una visita fatta ad
Innocenzo in quell'anno, il vescovo presentò a papa e cardinali un memoriale scritto, nel
quale attribuiva tutti i mali della chiesa all'influenza maligna della Curia. La cosa non
produsse effetti, anche se i cardinali ritennero che Grossatesta fosse troppo influente per
essere punito per la sua audacia. Grandemente scoraggiato dal suo fallimento, il vescovo
pensò di ritirarsi. Alla fine comunque, decise di continaure la lotta impari. Nel 1251 protestò
contro un mandato papale che invitava il clero inglese a versare a Enrico III un decimo delle
proprie entrate per finanziare una crociata e attirò l'attenzione sul fatto che, col sistema della
raccolta di fondi, una somma di 70.000 marchi veniva sottratta annualmente all'Inghilterra
dagli incaricati di Roma. Nel 1253, essedogli stato ordinato di offrire la sua diocesi a un
nipote del papa, scrisse una lettera di rimostranza e rifiuto, non al papa in persona, ma ad un
suo commissario, Maestro Innocenzo, attraverso il quale aveva ricevuto il mandato. Il testo
della rimostranza, come riportato dagli annali di Burton e da Matthew Paris, è stato forse
alterato da un falsario che aveva meno rispetto per il papato di quanto ne avesse Grossatesta.
Il linguaggio è più violento di quello impiegato altrove dal vescovo, ma la questione
generale, che il papato può chiedere obbedienza solo se i suoi ordini sono consoni
all'insegnamento di Cristo e degli apostoli, è quello che ci si attende da un riformatore
ecclesiastico dell'epoca di Grossatesta. Ci sono più motivi di sospettare della lettera
indirizzata "ai nobili d'Inghilterra, ai cittadini di Londra, e alla comunità dell'intero reame,"
nella quale Grossatesta viene rappresentato mentre denuncia senza mezzi termini la finanza
papale in tutti i suoi rami. Ma anche in questo caso si deve avere una certa tolleranza per la
differenza tra gli standard di decoro moderni e medioevali. Grossatesta figurò tra gli amici
più intimi del professore francescano Adam Marsh. Tramite Adam giunse ad una stretta
relazione con Simon de Montfort. Dalle lettere del francescano emerge che il conte aveva
studiato un trattato politico di Grossatesta sulle differenze tra la monarchia e la tirannia, e
che aveva abbracciato con entusiasmo il progetto di riforma ecclesiasitca del vescovo. La
loro alleanza iniziò già nel 1239, quando Grossatesta si sforzò di portare la riconciliazione
tra il re e il conte. Ma non c'è motivo di supporre che le idee politiche di Montfort siano
maturate prima della morte di Grossatesta, ne tantomeno che quest'ultimo si sia troppo
occupato della politica secolare, eccetto quando questa toccava gli interessi della Chiesa.
Grossatesta capì che il malgoverno di Enrico III ed il suo patto senza principi con il papato
rendevano ampiamente conto della degenerazione della gerarchia inglese e del lassismo
nella disciplina ecclesiastica, ma difficilmente può essere definito un costituzionalista. Era
già un uomo anziano, con una salda reputazione, quando divenne vescovo. Come statista
ecclesiasitco mostrò lo stesso zelo impetuoso e la stessa versatilità di cui aveva dato prova
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nella sua carriera accademica, ma la tendenza generale degli autori moderni e stata quella di
esagerare le sue funzioni politiche ed ecclesiastiche e di ignorare la sua attività come
scienziato e studioso. L'opinione del suo tempo, così come viene espressa da Matthew Paris
e Ruggero Bacone, fu molto differente.
I suoi contemporanei, pur ammettendo l'eccellenza delle sue intenzioni come statista,
evidenziano i suoi difetti di carattere e discrezione, ma vedono in lui il pioniere di un
movimento scientifico e letterario. Non solamente un grande ecclesiastico che patrocinò lo
studio nel suo tempo libero, ma anche il primo matematico e fisico del suo tempo. È
certamente vero che anticipò in questi campi del pensiero alcune delle idee più brillanti alle
quali Ruggero Bacone diede successivamente più ampia risonanza.
4.Da Alberto Magno a Teodorico di Vriberg:
Il primo grande personaggio che si rese pienamente conto dell'inevitabile processo di
identificazione della ricerca filosofica con lo studio del pensiero di Aristotele fu il
domenicano Alberto di Böllstadt, detto Alberto Magno (1206-1280). Di nobile famiglia,
studiò a Padova, poi a Colonia e a Parigi, dove a partire dal 1240 compose le principali
opere di carattere teologico, ovvero il Commento alle Sentenze e la Summa de bono, oltre
alla Summa de creaturis; nel 1248 tornò a Colonia, accompagnato da Tommaso d’Aquino,
suo allievo, per fondarvi lo Studio generale, che divenne un centro culturale di primaria
importanza, dove rimase fino al 1254. Fu provinciale dell'Ordine domenicano per la
Germania dal 1254 al 1257 e vescovo di Ratisbona dal 1260 al 1262; insegnò di nuovo a
Colonia (1257-1260); si recò a Roma nella prima metà degli anni '60; nell'anno della
condanna di Tempier, il 1277, si trovava probabilmente a Parigi. Si ritiene che la maggior
parte dei commenti sia comunque da ricondurre agli anni 1256-1270. Una delle esplicite
finalità della sua opera fu quello di "rendere intelligibile ai latini" la nuova filosofia
aristotelica: i suoi commenti, in forma parafrastica, seguono il modello adottato da
Avicenna, e concernono il corpus degli scritti di Aristotele (dalla Fisica, al De anima, alla
Metafisica, all’Etica Nicomachea, fino allo pseudoaristotelico Liber de Causis). Alberto si
inoltrò poi in tutti i campi del sapere utilizzando i libri di Aristotele come guida, ma
ampliandone la discussione con continue digressioni, nelle quali utilizzò tutti i materiali che
poteva avere a disposizione: le aggiunte, non marginali, testimoniano della vastità degli
interessi di Alberto, che addirittura - osservando la mancanza di un'opera aristotelica sui
minerali - scrisse un libro De mineralibus nel quale riporta non solo il sapere trasmesso da
enciclopedie, lapidari, testi di alchimia, ma testimonianze raccolte di prima mano fra i
minatori, i fabbri e gli alchimisti. Oltre all’interesse schiettamente naturalistico, fu l’attività
pastorale nella regione di Colonia - particolarmente vivace spiritualmente, data la presenza
di numerosi beghinaggi e di forme di devozione popolare e femminile – ad animare la sua
ricerca, che si rifletté nella produzione di opere esegetiche e di sermoni e nell'ambito della
mistica, portandolo a commentare il De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi. La sua
opera costituì perciò il punto di partenza di diversi filoni di ricerca: quello più propriamente
filosofico, imperniato sulla distinzione fra filosofia e teologia e sulla metafisica aristotelica
interpretata in temini neoplatonizzanti, quello naturalistico, che dette origine anche a scritti
attribuiti ad Alberto Magno quali il De mirabilibus mundi (sulle proprietà occulte delle
cose) e il De secretis mulierum (sulla fisiologia femminile e la generazione umana), ed uno
di ricerca teologico-mistica che si sviluppò soprattutto nella regione tedesca del Reno.
Filosofia e teologia
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Alberto si preoccupò di distinguere nettamente fra l'ambito della filosofia e quello della
teologia: come afferma nella Metafisica, "le dottrine teologiche non si accordano con quelle
della filosofia, quanto ai principi, perché si fondano sulla rivelazione e sulla divina
ispirazione, e non sulla ragione; di esse dunque non possiamo discutere in filosofia". Sono i
"principi" di teologia e filosofia che sono diversi, e così gli ambiti di discussione da essi
definiti: la rivelazione costituisce infatti la fonte della riflessione teologica, mentre la natura
in tutte le sue articolazioni è la fonte e il campo di applicazione della filosofia.
La metafisica nella classificazione delle scienze
Nell'ambito filosofico la metafisica (la scienza delle sostanze separate) è - aristotelicamente
- la scienza prima, poiché "è quella che non trae nulla dalle altre scienze, ma da essa tutte
ricevono qualcosa [...] Questa scienza è più antica e precedente a ogni altra scienza che è al
suo servizio." Alla metafisica si subordinano tutte le altre scienze: quelle volte ad un fine
meno nobile, le opere, invece che al puro sapere - come ad esempio la medicina; quelle che
hanno un carattere puramente strumentale, come la logica; infine quelle che hanno oggetti
meno elevati dei "termini ultimi della conoscenza speculativa, in cui risiede la vera felicità".
L'ideale di una conoscenza astratta che si delinea in questa pagina della Metafisica albertina
è sostanzialmente quello che tutta la filosofia scolastica propugna: un sapere che si vuole
separato e puro, considerato il tramite fra l'esperienza della conoscenza umana legata ai
sensi e la contemplazione del divino.
La creazione come processo emanatistico
In ambito metafisico, la teoria albertina dell'essere è di carattere neoplatonico; nel De causis
et processu universitatis la creazione è considerata un processo di emanazione in cui le
parole-chiave sono quelle di fluxus e di processus. All'origine è Dio, "causa prima che è
pura luce, sopra cui non v'è altra luce: in essa l'essere si identifica con l'essenza", intelletto
universale, "causa di ogni essere, fonte e origine di tutte le forme". Dall'intellectus
universaliter agens procede l'intelligentia, ovvero il primo essere causato, e poi le
intelligenze separate (gli angeli), le anime, i cieli. Questi ultimi sono strumento della prima
causa, in quanto ne trasmettono la virtù nel medium opaco della materia, di cui la luce è la
prima, generalissima forma. Le cause seconde non sono negate, ma subordinate alla "virtù
di Dio che primariamente e universalmente opera in esse." Questa struttura del mondo dà ad
Alberto la possibilità di provare l'esistenza di Dio - poiché si può risalire alla prima causa
ripercorrendo il fluxus verso l'alto. Ma essa offre anche una salda base alla fiducia
nell'astrologia e nella magia: si rafforza infatti la concezione aristotelica della dipendenza
dei moti del mondo sublunare da quelli degli astri, poiché questi ultimi diventano, secondo
la concezione neoplatonica, i modulatori della virtù della causa prima. Il processo
emanatistico rischia però di porre come necessario il processo dall'Uno al molteplice,
mettendo fuori gioco la libertà della creazione; la considerazione di questa difficoltà porta
Alberto ad ammettere che "l'inizio del mondo per creazione non è dottrina fisica né può
essere provato con argomenti fisici".
Creatore e creature
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Alberto fa ricorso a formule diverse per spiegare la distinzione ontologica fra creatore e
creature: il primo è principio assolutamente semplice, a differenza delle seconde, che invece
sono caratterizzate dal fatto di presentare, nella loro essenza, una qualche forma di
composizione: la distinzione boeziana fra quo est e quod est, o quella avicenniana fra
essenza ed esistenza: come farà anche il suo allievo più celebre Tommaso d’Aquino, egli
rifiuta tuttavia l’introduzione della nozione di materia spiritualis di Avicebron per
differenziare le sostanze separate dal loro creatore. La materia non è intesa da Alberto in
senso aristotelico come privazione o passività totale: essa contiene "un qualcosa della
forma", che le permette di "tendere alla forma", un appetito o desiderio definito inchoatio
formae. L'agente trae le forme fuori dalla potenzialità della materia, in cui esse sono "per
essentiam confusam"; la composizione degli esseri materiali risulta per conseguenza da un
successivo determinarsi delle forme (ilemorfismo). La materia non è perciò principio di
individuazione in quanto tale, ma in quanto "primum subiectum eius quod est".
L’anima umana e l’intelletto
Alla dottrina della inchoatio formae si collega la dottrina dell'ingresso dell'anima umana
nell'embrione: nella materia è già presente, incoativamente, la forma vegetativa o vita, la
quale contiene a sua volta incoativamente la forma sensitiva o sensibilità; infine "l'inchoatio
dell'anima razionale è nella sensitiva". Il passaggio dalla forma incoativa della razionalità
alla sua attuazione avviene per intervento diretto di Dio, il quale completa e perfeziona il
processo iniziato dalle potenze naturali. Contro la dottrina della pluralità delle forme, che
conobbe ampia diffusione in ambiente francescano, Alberto sostiene che l’anima razionale,
concepita come perfezione dell'uomo, è unica nella sostanza, poiché racchiude in sé tutte le
facoltà naturali. L’opposizione del Doctor Universalis all’ averroismo latino, che promuove
una concezione secondo la quale l'intelletto possibile sarebbe unico e separato per tutti gli
uomini, è espressa nel suo trattato De Unitate intellectus contra Averroem: secondo Alberto,
in quanto intelletto speculativo, l'intelletto è unico; ma in quanto "appartiene a questo o a
quello", l'intelletto è molteplice. L’essere essenzialmente separato dal corpo non impedisce
dunque all’intelletto di comunicare con facoltà quali la fantasia, l'immaginazione e il senso,
che sono invece strettamente collegate al corpo. La progressiva acquisizione degli
intelligibili porta alla realizzazione della facoltà umana più elevata e alla congiunzione con
l'intelletto divino, cioè alla felicità; la posizione di Alberto, che può sembrare vicinissima a
quella di Sigieri di Brabante, è però sostanzialmente diversa da questa per il fatto di essere
inserita in una visione avicenniana e dionisiana del processo illuminativo, per cui l'intelletto
agente e possibile degli uomini non è di per sé capace di compiere il percorso fino agli
intelligibili, ma ha bisogno della luce di Dio e delle intelligenze.
Scienza astrologica e visione cristiana del mondo
Lo Speculum Astronomiae è un’operetta la cui attribuzione ad Alberto non è ancora certa,
sebbene altamente probabile, in cui si definisce l’astronomia come quella "scienza
intermedia fra la metafisica e la fisica", che permette di comprendere i legami che uniscono
il cosmo e le influenze mediante le quali il mondo celeste trasmette alle creature del mondo
sublunare la virtus della Prima Causa. Al problema del contrasto tra la scienza astrologica e
la visione cristiana del mondo (la teoria dei mutamenti religiosi in coincidenza con le
"grandi congiunzioni", ma soprattutto la possibilità di prevedere il futuro, che sembra
contrastare con la libera volontà dell'uomo) Alberto (o chiunque sia l'autore dello Speculum)
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offre una soluzione ipotizzando che la "significazione" del futuro contenuta negli astri altro
non sia che la Provvidenza divina, che secondo la tradizione cristiana è tutt'altro che
inconciliabile con la libertà dell'uomo. In questo modo il determinismo astrale di origine
araba riesce a convivere col principio fondamentale della responsabilità umana, mitigato
nella formula, che anche Tommaso adotterà, che "gli astri muovono, non costringono", e
addirittura esaltato come fonte di saggezza per l'agire dell'uomo perché, secondo il
Centiloquium di Tolomeo, "il sapiente dominerà gli astri" proprio conoscendone le leggi.
L'eredità del Doctor universalis
Sia a livello dell'utilizzazione dei materiali del sapere che sul piano dell'interpretazione la
figura di Alberto ci appare come quella di un aristotelico eclettico, aperto a molteplici
influenze e a sua volta all'origine di sviluppi anche molto diversi. Proprio questo carattere di
apertura favorì una diffusione delle sue opere e delle sue posizioni anche al di fuori
dell'ambito scolastico vero e proprio; il carattere enciclopedico delle sue opere, che
metabolizzavano l'immensa quantità di nuove conoscenze rendendole assimilabili alla
cultura dei "latini", ne permise lo sfruttamento in compilazioni a carattere soprattutto
naturalistico, come la Philosophia pauperum di Alberto di Orlamunde, che venne peraltro
attribuita ad Alberto Magno stesso e circolò ampiamente in ambienti non universitari. In
ambito scolastico, l'opera magistrale di Alberto lo aveva reso un'auctoritas in vita, contro
ogni usanza tradizionale: fatto che suscitò anche una violenta polemica da parte di Ruggero
Bacone. Il suo discepolo più celebre è, naturalmente, Tommaso d'Aquino; ma anche Dante
mostra in vari luoghi della Commedia una forte influenza del pensiero albertino; Teodorico
di Vriberg e Ulrico di Strasburgo portarono avanti soprattutto il versante neoplatonico della
sua ricerca filosofica, mentre Meister Eckhart e i mistici della regione renana testimoniano
l'influenza del commento allo pseudo-Dionigi; una fonte tardo-medievale asseriva che
Sigieri di Brabante fosse stato allievo di Alberto, come a mostrare nella sua massima
apertura il ventaglio di possibilità filosofiche che la sua ricerca aveva reso possibili.
Teodorico di Freiberg (in latino Vriberg), domenicano, fu studente a Parigi nel triennio
1275-1277, poi maestro a Saint-Jacques dal 1293 al 1296. Morì poco dopo il capitolo di
Piacenza, verso il 1310.
Teodorico si inserisce nella cosiddetta tradizione albertina.
Scritti logici: De origine praedicamentalium; De quidditate entium; De natura contrariorum;
De magis set minus. Scritti fisici: De tempore; De elementis; De luce; De coloribus; De
iride; De miscibilibus in mixto; De intelligentiis et motoribus coelorum; De corporibus
coelestibus. Scritti psicologici e gnoseologici: De intellectu et intelligibili; De habitibus.
Scritti di taglio metafisico: De esse et essentia; De accidentibus; De mensuris durationis
rerum; Quod substantia spiritualis non sit composita ex materia et forma; De animatione
coeli. Scritti teologici: Quaestio utrum in Deo sit aliqua vis superior intellectu; De
cognizione entium separatorum; De subiecto theologiae; Quaestiones de theologia
all’interno di Quaestiones de philosophia.
In quello che possiamo ritenere il suo primo scritto, il De origine rerum praedicamentalium,
risalente al 1284 circa, Teodorico discute il problema, per lui decisivo per la fondazione
della sua filosofia, della struttura ontologica dell’esistente, quale si coglie nel campo della
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definizione. Per il domenicano è di fondamentale importanza indagare quale sia il nesso e il
senso del rapporto che lega l’intelletto che definisce e l’ordine delle cose che sono
conosciute. La convinzione di Teodorico è che, affinché sia garantita la possibilità della
conoscenza, si debba verificare una delle seguenti condizioni: o il pensiero umano è definito
dalle cose e dalla loro natura oppure queste ultime sono determinate dal punto di vista
essenziale dall’intelletto. Nella quinta sezione del De origine Teodorico giunge a sostenere
la seconda eventualità sopra esposta, sebbene limitatamente ad alcuni enti rispetto ai quali
ha funzione di principio causale: l’oggetto dell’intelletto non è la cosa individuale in quanto
tale, ma la quiddità, espressa dalla definizione e «causata» dall’intelletto secondo la ragione
formale. La quiddità è da ritenersi distinta rispetto al phantasma, universale immaginativo,
prodotto dalla facoltà dell’immaginazione per determinare universali facilmente esperibili
nella realtà quotidiana. La ragione quidditativa della cosa ne è invece la definizione, che
l’intelletto obiettiva in modo spontaneo. L’intelletto umano fornisce dunque le strutture
quidditative per la definizione razionale del mondo: è possibile quindi affermare che è
proprio l’intelletto che costruisce il mondo e che ne garantisce la conoscenza razionale e
logicamente rigorosa. In tale modo, sotto il rispetto quidditativo, l’ontologia sembra
coincidere con la gnoseologia: potremmo cioè dire, con una certa radicalità che viene fornita
dall’originalissima speculazione di Teodorico intorno a questo punto e che non ha
precedenti, che essere è uguale a essere conosciuto.
Per questo motivo de Libera afferma che Teodorico è il padre della «metafisica dello
Spirito».
Per Teodorico, come si può desumere dal De visione beatifica, l’intelletto agente è mistico:
non ammette cioè mediazione estrinseca con il proprio fondamento divino. Anzi con
maggior forza il domenicano giunge ad affermare vigorosamente la perfetta coincidenza
dell’intelletto agente, principio intrinseco di vita e principio causale dell’anima (De visione
beatifica) con il principio divino.
Il vero atto dell’intellezione è opera dell’intelletto agente e va al di là della facoltà
immaginativa dell’uomo, che, come si è visto non procede oltre le intenzioni universali di
senso ed uso comune. Ci troviamo dunque di fronte ad una conoscenza che è esclusivamente
intuitiva e spontanea: non astrattiva o discorsiva.
La dottrina dell’intelletto agente, che coincide in ultima istanza con l’abditum mentis di
Agostino, il ricettacolo di tutte le verità eterne (rationes aeternae) è quindi legata alla
dottrina dell’illuminazione del vescovo di Ippona ed ha il proprio naturale compimento nella
dottrina della visione beatifica: la coincidenza dell’intelletto agente con il suo principio
divino garantisce una beatitudine che si esplica nell’unione con Dio nell’ambito della
contemplazione beatifica per essentiam; anzi Teodorico arriva addirittura ad affermare che
l'intellectus in actu per essentiam, è l’esplicazione creativa e spontanea della totalità, la
stessa che è già racchiusa negli intelletti in atto. Spostando quindi il problema della
possibilità della conoscenza razionale universale a quello sommamente teologico della
beatitudine nell’aldilà, Teodorico riesce ad investire l’essere umano di una nuova dignità e a
spingere alle estreme conseguenze filosofiche la tematica dell’unione intellettuale dell’uomo
con Dio. In questo modo spiega la creazione dell’uomo ad immagine di Dio dando un nuovo
fondamento speculativo delle possibilità insite nella dottrina dell’imago Dei, «protagonista»
delle riflessioni dei Cisterciensi.
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Si può parlare di una vera e propria scoperta della divinità e nobiltà dell’intelletto umano,
imago dell’intelletto divino. Sotto questo particolare rispetto la riflessione del magister
domenicano può essere accostata a quella di un suo illustre contemporaneo, Meister
Eckhart, che indica nell’uomo nobile, vero nuovo fondamento antropologico dell’umanità,
l’uomo del distacco, colui che si è appunto liberato da tutte le cose create e dai loro
fantasmi, approdando in tal modo nella regione dell’intelletto eterno. Accanto all’attività di
teologo Teodorico seppe sempre tenere viva la propria attività di uomo di scienza, scrivendo
anche opere di fondamentale importanza, come il De iride et de radialibus impressionibus.
Teodorico fornì una spiegazione scientifica valida del fenomeno dell’arcobaleno, che aveva
già attirato l’attenzione di Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Witelo. Il domenicano
tedesco riuscì effettivamente a spiegare che l’arcobaleno è il risultato della rifrazione della
luce nel suo spettro di colori. Nonostante Teodorico non fosse un fisico sperimentale e non
padroneggiasse le dimostrazioni scientifiche, la sua ricerca fu svolta con intenti scientifici,
inserendosi pienamente nell’ambito della tradizione albertina.
5.Da Tommaso d’Aquino a Egidio Romano:
Tommaso fu forse il pensatore più importante del Medioevo e la sua influenza, nell’ambito
della Chiesa cattolica, è tuttora fondamentale.
Per il suo carattere silenzioso lo chiamarono "il bue muto". Tutta la sua vita fu spesa
nell’attività intellettuale e la sua stessa vita mistica la sua ricerca instancabile di Dio. Fu
canonizzato nel 1323 .
Nato a Roccasecca (1225-26), oblato al monastero di Montecassino, studiò a Napoli.
Entrò nell'ordine domenicano nel 1244, contro la volontà della sua aristocratica famiglia.
Da Napoli si recò a Parigi per proseguirvi i suoi studi fino al 1248 sotto la guida di Alberto
Magno, che poi accompagnò nel suo ritorno a Colonia (1248-1252). Nel 1252, chiamato a
Parigi, vi iniziò il suo insegnamento come baccalaureus biblicus e poi sententiarius. Erano
gli anni della polemica contro i regolari, che si chiuse con l' intervento del papa Alessandro
VI, a cui sia Bonaventura che Tommaso dovettero l'insediamento nelle rispettive cattedre
parigine di teologia (1256-57).
A questo primo periodo di insegnamento risalgono il Commento alle Sentenze di Pietro
Lombardo (1254-56) e ad alcuni libri della Bibbia; un intervento nella disputa fra secolari e
regolari, il Contra impugnantes Dei cultum et religionem; le Quaestiones de veritate, il suo
primo trattato filosofico, il De ente et essentia; di poco posteriori sono i commenti al De
Trinitate e al De hebdomadibus di Boezio (1255-61). Tra il 1257 e il 1273 l’Aquinate
produsse la maggior parte delle sue opere.
Fatto ritorno nella provincia romana dell'ordine domenicano insegnò nello studio della
Curia Papale sotto il pontificato di Urbano IV (1261-1264). Trascorse gli anni italiani tra
Roma, Viterbo e Orvieto, le città in cui risiedeva la corte papale, luoghi ricchissimi di
fermenti intellettuali, dove si trovarono riuniti filosofi, scienziati, traduttori, tra i quali
Guglielmo di Moerbeke, il domenicano fiammingo celebre per aver ritradotto Aristotele dal
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greco e numerosi commenti tardoantichi alle opere dello Stagirita e per essergli stato
prezioso collaboratore.
In Italia Tommaso iniziò a commentare Aristotele (la Metafisica, la Fisica e l'Etica
Nicomachea); scrisse il commento al De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi, le
Quaestiones disputatae de potentia e le Quaestiones disputatae de spiritualibus creaturis, in
cui espose la dottrina delle sostanze separate (angelologia). Qui scrisse anche la Summa
contra Gentiles, su richiesta del generale dell'ordine domenicano Roberto di Peñafort.
Dagli anni italiani fino alla morte egli lavorò inoltre all’opera centrale della sua ricerca
filosofica, la Summa theologiae, rimasta incompiuto.
Il ritorno a Parigi, nel 1269, portò Tommaso nel cuore del dibattito universitario sugli
argomenti più controversi della filosofia aristotelica, ovvero la dottrina dell'unicità
dell'intelletto possibile e quella dell'eternità del mondo.
Del 1270 sono infatti i due trattati monografici, De unitate intellectus contra averroistas e
De aeternitate mundi; numerosi commenti alle opere aristoteliche (De anima, Analitici,
Politica - incompiuto e terminato da Pietro d' Alvernia; De sensu et sensato; De memoria et
reminiscentia), il commento al Liber de causis e un commento, perduto, al Timeo di Platone
occupano il periodo parigino, fino al ritorno a Napoli avvenuto nel 1272.
Qui insegnò teologia fino al 1273. Non sappiamo che cosa successe durante la messa
mattutina celebrata il 6 dicembre 1273, data che segna la cessazione definitiva dell’intensa
attività di scrittore di Tommaso.
Alle insistenze di Reginaldo da Piperno perché riprendesse a scrivere, l’Aquinate rispose:
"Reginaldo, non posso, perché tutto ciò che ho scritto è come paglia per me." Convocato a
Lione per partecipare alla commissione preparatoria del secondo concilio ecumenico, morì
il 7 marzo 1274, a Fossanova, durante il viaggio.
RAGIONE E FEDE
Per conoscere Dio, che supera la comprensione della ragione, non basta la sola ricerca
filosofica, ma occorre che Dio stesso intervenga e si riveli in un linguaggio accessibile
all’uomo. La Rivelazione – e dunque la fede cristiana – non annulla né rende inutile la
ragione. Inoltre le verità scoperte dalla ragione non possono venire in contrasto con le verità
rivelate giacché entrambe procedono da Dio, che è luce e verità somma. Qualora apparisse
un contrasto, è solo perché si tratta di conclusioni false o non necessarie o non si è indagato
a sufficienza. La ragione può essere d’aiuto alla fede in tre modi : 1) dimostrando i
preamboli della fede cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla fede stessa
(non si può credere in Dio se non si sa se esiste, se è uno o molti ecc., il che può essere fatto
dalla ragione); 2) chiarire mediante similitudini le verità della fede, ad es. illustrando in un
linguaggio accettabile i misteri della Trinità e dell’Incarnazione; 3) controbattere alle
obiezioni che si possono fare alla fede dimostrando che sono false.
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ESSENZA ED ESISTENZA, ANALOGICITA’ E PARTECIPAZIONE
Nel De ente et essentia Tommaso stabilisce il principio che, riformando la metafisica
aristotelica, la rende "adatta" al cristianesimo : la distinzione reale tra essenza ed esistenza.
Per Aristotele, potenza e atto corrispondevano a materia e forma. Secondo Tommaso invece
l’essenza e l’esistenza stanno tra loro rispettivamente nel rapporto di potenza e atto.
L’essenza (chiamata anche quiddità o natura) comprende sia la materia che la forma perché
comprende tutto ciò che è espresso nella definizione della cosa. Per es. l’essenza dell’uomo,
definito "animal rationale", comprende sia la materia (animal) che la forma (rationale).
Dall’essenza si deve distinguere l’esistenza perché si può comprendere che cosa sia un
uomo o l’unicorno o l’araba fenice ma non è ancora detto che quegli esseri esistono nella
realtà. Dunque l’essenza e l’esistenza sono distinte e stanno tra loro nel rapporto di potenza
e atto. L’essenza è in potenza rispetto all’esistenza, mentre l’esistenza è l’atto dell’essenza.
Ecco ora il punto fondamentale : l’unione dell’essenza con l’esistenza, ovvero il passaggio
dalla potenza all’atto, ovvero l’individuo reale richiede per Tommaso l’intervento diretto e
creativo di Dio. E’ solo Dio che può creare le cose facendole esistere; è solo Dio che può
realizzare il passaggio dalla potenza all’atto, ossia dalla essenza all’esistenza, e dare così
origine alle varie creature, siano angeli o uomini o animali o piante ecc. Vi sono perciò tre
modi in cui l’essenza è nei vari esseri. In primo luogo, in Dio l’essenza è uguale
all’esistenza. Solo in Dio essenza ed esistenza si identificano. In altre parole, l’essenza di
Dio è di esistere : Egli esiste necessariamente, è eterno, è l’unico essere necessario cioè non
può non esistere, mentre tutti gli altri esseri dipendono da lui. Negli angeli, che sono puri
spiriti e quindi dotati di sola forma e non di materia, l’essenza è diversa dall’esistenza in
quanto il loro essere è creato e finito e si identifica con la sola forma. Infine, negli uomini,
negli animali ecc., cioè nelle creature composte di materia e di forma, l’essenza è comunque
sempre distinta dall’esistenza ed esistono grazie all’intervento creativo di Dio. in sintesi,
potremmo dire che Dio è l’essere, mentre le creature hanno l’essere. Dunque il termine
"essere" non è lo stesso quando è riferito a Dio o alle creature. Tra l’essere di Dio e quello
delle creature non vi è né identità né assoluta opposizione bensì analogia. Le creature, in
quanto esistenti, sono simili a Dio ma Dio non è simile a loro : ecco il principio della
analogicità dell’essere (analogo = simile ma di proporzioni diverse). In più, le creature
hanno l’essere perché viene dato loro da Dio, il quale partecipa (=dona) loro l’esistenza.
Così le creature hanno l’essere per partecipazione, mentre Dio è l’essere per essenza. La
distinzione fra l’essere creato e l’essere eterno di Dio porta con sé due importanti
conseguenze. In primo luogo permette a Tommaso di salvaguardare l’assoluta trascendenza
(superiorità, diversità, alterità, soprannaturalità) di Dio nei confronti del creato e delle
creature e di evitare ogni forma di panteismo (che identifica Dio col mondo). In secondo
luogo, l’analogicità dell’essere rende impossibile un’unica scienza dell’essere : accanto alla
filosofia vi è adesso la scienza che riguarda l’essere necessario e cioè la teologia, la quale è
superiore in dignità a tutte le altre scienze, le quali, nei suoi confronti, diventano "ancelle
della teologia". Questo concezione porterà, fra l’altro, ad una graduale svalutazione dello
studio della natura, che verrà a fatica ripreso solo più tardi, nel Rinascimento e oltre.
LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO O LE "CINQUE VIE"
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Anche se Dio è il primo nell’ordine degli esseri, non è però primo nell’ordine delle
conoscenze umane, le quali iniziano dai sensi, mentre Dio è invisibile. E’ dunque
indispensabile dimostrare che Dio esiste pur essendo invisibile, partendo allora dagli effetti,
dalle creature, dal mondo visibile e mostrando come essi non siano spiegabili se non
rifacendosi a Dio. Le prove dell’esistenza di Dio devono essere perciò a posteriori cioè a
partire dalla nostra esperienza del mondo e non a priori ( che parte dal concetto di Dio per
dedurne l’esistenza, come l’argomento ontologico di S. Anselmo, che Tommaso rifiuta per
motivi che vedremo più avanti). Tommaso elabora così "cinque vie" per giungere a
dimostrare che Dio esiste. La prima via è quella del moto, ed è desunta da Aristotele. Essa
parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro. Ora, se tutto ciò che è mosso
a sua volta si muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra
ancora. Ma non è possibile andare all’infinito altrimenti non vi sarebbe un primo motore e
neppure gli altri muoverebbero : infatti il processo all’infinito sposta solo il problema e non
trova la ragione ultima del mutamento (in altri termini, il processo all’infinito spiegherebbe
la trasmissione del moto ma non la prima origine e causa del moto). E’ dunque necessario
arrivare ad un primo motore non mosso da altro, e "tutti riconoscono che esso è Dio". Da
notare che questo moto non è soltanto meccanico e fisico ma metafisico : dovunque c’è
moto e quindi divenire che non basta a se stesso, c’è imperfezione che non ha in sé la sua
spiegazione e richiede quindi l’intervento di Dio. La seconda via è quella causale. Nel
mondo vi è un ordine tra le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a qualcosa)
ma è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché altrimenti sarebbe
prima di se stessa, il che è assurdo. Anche in questo caso è impossibile un processo
all’infinito, dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente "che tutti chiamano Dio".
Rispetto alla prima via, qui si tratta della causalità efficiente, da cui dipende non solo il
divenire ma l’essere delle cose. Dunque Dio non è solo il principio del divenire ma anche la
causa, l’origine suprema di tutto ciò che esiste, che è da Lui conservato e creato,pur senza
eliminare l’azione delle cause secondarie. La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e
il necessario. Vi sono cose che possono essere e non essere : infatti alcune nascono e
finiscono, il che vuol dire appunto che sono possibili, possono essere e non essere. Ora, è
impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere
un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non essere, in un dato momento non
ci fu nulla nella realtà. Però, se questo fosse vero, anche ora non esisterebbe nulla, perché
ciò che non esiste non comincia ad esistere se non per qualcosa che già esiste. Dunque non è
vero che tutti gli esseri sono possibili ma bisogna ammettere che nella realtà vi sia anche un
essere necessario, "e questo tutti dicono Dio". La quarta via è quella dei gradi di perfezione.
Si trova nelle cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc. Vi sarà
dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e "questo chiamiamo Dio". In altri termini,
se gli enti hanno gradi diversi di perfezione, vuol dire che questi gradi non derivano dalle
loro essenze, e dunque significa che li hanno ricevuti da un essere che dà senza ricevere,
perché è la fonte di ogni perfezione, e cioè Dio. La quinta via è quella desunta dal governo
delle cose. I corpi fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal fatto che
operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non
a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di
intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente,
come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere sommamente intelligente
da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, "e questo essere chiamiamo Dio".
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LA TRINITA’, L’INCARNAZIONE E LA CREAZIONE DAL NULLA
Le verità fondamentali del cristianesimo – Trinità e Incarnazione – non sono dimostrabili
con la semplice ragione però la ragione può cercare di chiarire in misura sufficiente il loro
contenuto, mostrando che quello che rivela la fede non è impossibile. Per quanto riguarda il
dogma della Trinità, la difficoltà è capire come l’unità della sostanza divina si possa
conciliare con la trinità delle persone. Tommaso si serve a questo riguardo del concetto di
relazione. Le persone divine sono costituite dalla loro relazione di origine : il Padre dalla
paternità, cioè dalla relazione col Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal
rapporto col Padre; lo Spirito dall’amore, cioè dalla relazione reciproca tra Padre e Figlio.
Queste relazioni non sono accidentali in Dio (non vi può essere nulla di accidentale in Dio)
ma reali : sussistono realmente nella essenza divina. Proprio l’essenza divina, dunque, nella
sua unità, implicando le relazioni, implica la diversità delle tre Persone. Nell’Incarnazione,
la difficoltà sta nel comprendere la presenza, nell’unica Persona di Cristo, delle due nature,
divina ed umana. Ora, l’essenza o natura divina è identica con l’essere di Dio : Cristo ha
natura divina ed è appunto Dio, sussiste come Dio, come persona divina. Egli è quindi una
sola persona, quella divina. Data però la separabilità di essenza ed esistenza, Cristo, in
quanto Dio, ha potuto benissimo assumere la natura umana (cioè l’anima razionale ed il
corpo) senza essere "persona" umana. Si ricordi, a questo riguardo, il significato dei termini
"persona" e "natura". La "persona" indica una realtà distinta, che sussiste di per sé; la
"natura" o "sostanza" o "essenza" indica ciò che è in comune ad individui della stessa
specie, che quindi non esiste in sé ma solo nelle "persone" a cui è comune. Riguardo poi il
problema della creazione dal nulla, Tommaso ritiene che non si possa dimostrare né l’inizio
nel tempo né l’eternità del mondo e perciò lascia via libera per credere alla creazione nel
tempo. L’essere del mondo viene da Dio : il fiat divino ha dato origine alle cose ma non si
inserisce in una successione temporale. E’ un atto creativo che chiama le cose all’essere o,
meglio ancora, fa che l’essere sia.
IX. La filosofia nel XIV secolo:
1.Duns Scoto e i realisti del XIV secolo:
Giovanni Duns, detto Scoto perchè nato in Scozia, nacque probabilmente verso il 1265 o il
1266 e fu saprannominato dai suoi contemporanei doctor subtilis, per la sua abilità nel
formulare tutte le distinzioni e alternative possibili. Entrato giovane nell'ordine francescano,
studiò a Oxford e poi a Parigi, dove, secondo la consuetudine, commentò le Sentenze di
Pietro Lombardo. Nel 1303 fu costretto a lasciare Parigi, essendosi schierato tra i sostenitori
del papa Bonifacio XIII nel conflitto contro il re di Francia Filippo il Bello, ma già nel 1304
potè rientrare a Parigi ed essere nominato maestro. Nel 1305 tornò ad insegnare a Oxford ,
dove compose la sua opera più nota , intitolata Opus oxoniense, dedicata al commento alle
Sentenze di Pietro Lombardo. Nel 1307 venne chiamato a insegnare teologia nello studio
francescano di Colonia, da poco istituito, ma l'anno successivo perì. Altri scritti di Duns
Scoto sono il Tractatus de primo principio, le Quaestiones super libros Aristotelis de anima,
e i Reportata parisiensia, conservati in due redazioni, anch'essi dedicati al commento delle
Sentenze.
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Un modo di rendere accettabile la filosofia aristotelica in Occidente era consistito nel
renderla funzionale al discorso teologico e compatibile, almeno in una certa misura, con i
dati della rivelazione: tale era stata la via intrapresa da Tommaso d’Aquino . Con Duns
Scoto questa breve "luna di miele" (Gilson) tra fede e filosofia si interrompe.
Il termine teologia designa in Duns il sapere necessario all'uomo per raggiungere il suo fine
soprannaturale: per agire in vista di un fine occorre desiderarlo, ma per desiderarlo occorre
conoscerlo. Con i suoi soli mezzi naturali l'uomo non può, secondo Duns Scoto, pervenire
ad una conoscenza adeguata del suo fine. Tale fine, infatti, é stato voluto liberamente da Dio
e da lui assegnato all'uomo e non può pertanto essere dedotto e conosciuto partendo dalle
sole caratteristiche della natura umana.
La scienza é per Duns Scoto scienza dimostrativa: essa deduce da premesse le conseguenze
che ne derivano necessariamente, come aveva mostrato Aristotele. Ma di ciò che é deciso e
voluto liberamente da Dio e, quindi, non presenta alcuna traccia di necessità, l'uomo non
può avere scienza in questo senso. Duns Scoto non nega che i filosofi possano avere avuto
qualche conoscenza del vero fine dell'uomo, ma nega che questa conoscenza sia stata
sufficiente per garantire la salvezza.
La filosofia, infatti, non può scoprire da sola ciò che all'uomo é noto solo grazie alla
rivelazione contenuta nel Vangelo: in questo senso, il Dio del Vangelo non é l'oggetto della
filosofia e il Dio dei filosofi non si identifica con il Dio dei cristiani. La rivelazione é la
comunicazione proveniente da una fonte diversa dalle fonti naturali di conoscenza, di cui
l'uomo dispone dopo il peccato originale: essa é concessa liberamente e direttamente da Dio
e ci rende noto che il fine ultimo per l'uomo consiste nella visione diretta di Dio e nel godere
eternamente della sua beatitudine. Questa rivelazione del fine e dei mezzi per raggiungerlo é
contenuta nella Scrittura, che é quindi l'oggetto proprio della teologia. Il suo dominio é
quello delle verità accettate per fede. In quanto tale la teologia é un sapere pratico, la cui
finalità consiste nel conoscere le verità che Dio ha ritenuto utili per il conseguimento della
salvezza e nell'indirizzare l'uomo alla beatitudine. Essa si distingue dunque da ogni scienza,
in quanto ricava i propri principi dalla rivelazione e non dalle scienze alle quali l'uomo può
pervenire. Queste scienze, a loro volta, non ricevono i loro principi dalla teologia. I due
ambiti risultano quindi non solo autonomi, ma sostanzialmente privi di relazioni.
L'ambito della scienza comprende tutto ciò che é dimostrabile: tutto ciò che non può essere
dimostrato non può essere oggetto di scienza e cade, pertanto, fuori dai suoi limiti. Segno
rilevante della dimostrabilità o no di qualcosa é per Duns il fatto che i filosofi, in primo
luogo Aristotele, siano o no riusciti a dimostrare tale cosa. La tradizione filosofica
circoscrive in qualche modo i limiti entro i quali si può legittimamente muovere la ragione
umana. Al di là di essi si apre invece il terreno indipendente della teologia.
La scienza suprema é per Duns Scoto - come già per Aristotele - la metafisica: essa é
suprema in quanto ha per oggetto ciò che é conosciuto prima di qualsiasi altra cosa e a
partire dal quale sono conoscibili le altre cose. Tale oggetto, come si é visto, non é il Dio
cristiano della rivelazione, di cui si occupa la teologia.
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Era stato Tommaso a sostenere che due scienze distinte, la metafisica e la teologia, possono
riguardare entrambi Dio. Per Duns Scoto, invece, l'oggetto proprio della metafisica é l'essere
in quanto essere. La nozione di essere é la prima che l'uomo può conoscere, e per conoscere
qualcosa distintamente occorre conoscere tutto ciò che é incluso nella sua nozione, tenendo
conto che nella nozione di tutto ciò che é , é incluso l'essere. Non stupisce il fatto che
Heidegger ottenne la libera docenza con un saggio su La dottrina delle categorie e del
significato in Duns Scoto, vista la centralità della nozione di essere nel pensatore medievale.
Mentre gli altri concetti sono riconducibili a quello di essere, quest'ultimo non é riducibile
ad altri concetti che siano anteriori ad esso: in quanto tale esso é l'ens commune. Ma in
quanto comune a tutte le cose che sono, la nozione di essere in quanto essere é
indeterminata e antecedente a qualsiasi altra e pertanto predicabile di tutto ciò che é.
Proprietà del termine essere é, infatti, secondo Scoto, la sua univocità. Un termine é univoco
quando in tutti i suoi impieghi significa sempre e soltanto la stessa cosa. Quindi il termine
essere si dice in un solo senso di tutto ciò che é. Questa dottrina si differenzia nettamente
dalla concezione dell'analogicità dell'essere, sostenuta da Tommaso, o da quella della
biunivocità sostenuta da Platone a costo di un omicidio, quello simbolico ai danni di
Parmenide. Secondo Duns Scoto, un concetto analogo di essere sarebbe un altro concetto e
quindi il concetto di essere, riferito alle creature, non potrebbe più essere usato in relazione
a Dio. Il termine essere, invece, si predica univocamente, ossia nello stesso significato, sia
delle cose create e finite , sia dell'essere increato e infinito, cioè Dio. Ciò non significa che
l'essere sia il genere più ampio, includente al suo interno sia Dio sia le cose create: si tratta
invece solo della determinazione comune a tutto ciò che é.
L'essere é il primo oggetto dell'intelletto e tramite esso é possibile conoscere il resto.
L'oggetto di una scienza, infatti, contiene potenzialmente la conoscenza di tutte le verità alle
quali tale scienza può arrivare. Compito della metafisica sarà pertanto svolgere per via
deduttiva tutto ciò che é contenuto implicitamente nel concetto di essere. Avendo per
oggetto la nozione prima e comune di essere, la metafisica é la scienza suprema,
presupposto di tutte le altre scienze. La metafisica non ha per oggetto l'essenza di Dio , ma
può stabilire l'esistenza dell'essere che la teologia chiama Dio.
L'uomo non gode di conoscenza diretta dell'essenza di Dio e pertanto non basta asserire che
l'esistenza appartiene all'essenza divina per essere certi che Dio esiste. L'esistenza di Dio,
infatti, non é qualcosa di evidente come la nozione che il tutto é maggiore della parte .
Alla dimostrazione dell'esistenza di Dio si arriva, secondo Duns Scoto, attraverso la nozione
di essere infinito, ma per dimostrare che esiste un essere infinito occorre prima dimostrare
che esiste un essere primo e poi che tale essere primo é infinito. La dimostrazione
dell'esistenza di un essere primo avviene a posteriori, ossia a partire dall'esperienza, e non a
priori, come aveva preteso Anselmo da Aosta. Su questo aspetto, Duns si approssima alla
posizione di Tommaso (le cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio), ma il suo punto di
partenza non é la nozione di movimento, quanto piuttosto quella di essere e di causa. Noi
vediamo che possono esistere enti che non sono prodotti nè dal nulla nè da se stessi, bensì
da qualche altro ente, e poichè non é possibile risalire all'infinito nella serie delle cause,
perchè é impossibile un'infinità di cause ordinate, occorre dunque ammettere la possibilità
di un essere primo, causa di tutto il resto e a sua volta non causato da altro, quindi capace di
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esistere da sè poichè se non esistesse, esso non sarebbe più tale. Non dipendendo da nulla,
l'essere primo non é limitato da nulla e pertanto é infinito.
La nozione di infinito non é un attributo particolare di Dio, ma esprime un modo intrinseco
del suo essere, il grado massimo della perfezione. Sulla base di esso si può procedere a
riferire a Dio i vari attributi: così dire che Dio é bene equivale a dire che infinito é bene e
così via. Dalla nozione di essere infinito é possibile ricavare quella dell'unicità di tale essere,
dalla sua semplicità e immutabilità: tali attributi sono tra loro distinti formalmente, in
quanto sono definibili diversamente l'uno dall'altro, ma non realmente, in quanto nessuno di
essi é una entità numericamente distinguibile dagli altri.
Ciò che non é dimostrabile di Dio, secondo Duns, é la sua onnipotenza. Lo prova il fatto che
i filosofi non sono riusciti a dimostrarla: per i filosofi aristotelici, in particolare arabi (in
particolare Avicenna), anche Dio é incatenato dalla necessità, sicchè da lui il mondo
scaturisce necessariamente.
Il fatto che esista il primo essere non comporta necessariamente per Duns Scoto che esso sia
il primo motore, come aveva sostenuto Aristotele. Dio é primo motore soltanto perchè ha
creato il mondo, ma il fatto di creare il mondo é qualcosa di contingente rispetto all'essenza
di Dio, non é qualcosa che compete necessariamente alla sua essenza. Di conseguenza, il
mondo che risulta dalla creazione é anch'esso contingente. L'intelletto divino produce le
idee, che sono le verità e le ragioni eterne, gli esemplari o forme delle cose create. Dio ha
idee di tutto, anche delle cose individuali e dei loro accidenti, nonchè della materia stessa,
concepita non come privazione di forma, ma come ciò che riceve la forma. Rispetto a Dio,
essere infinito, ogni creatura é finita e quindi infinitamente distante da Dio. Che esistano
esseri contingenti, i quali possono essere o non essere, é verità evidente. In che modo
spiegare la loro contingenza? Essa non può essere spiegata in base a cause, le quali siano
causate necessariamente da altro, perchè in tal caso l'effetto non sarebbe contingente, ma
necessario. La contingenza delle cose può essere spiegata solo in base ad una causa che sia
prima, cioè non causata da altro, e che a sua volta causi il resto in maniera contingente, ossia
senza essere costretta o determinata da altro. Tale é solamente la volontà di Dio, la quale
non é vincolata da nulla e opera in maniera totalmente libera, ma proprio in quanto del tutto
libera, la volontà divina sfugge a ogni necessità e ad ogni possibilità di conoscerla
razionalmente , mediante scienza dimostrativa. L'onnipotenza assoluta di Dio é pertanto
articolo di fede: essa consiste nel potere di creare immediatamente, cioè senza agenti
intermediari (le cosiddette cause seconde) tutto ciò che é creabile.
Creare vuol dire causare liberamente degli esseri possibili, la cui esistenza non é necessaria.
Prima della creazione nulla esiste e ciò che esiste in virtù della creazione é contingente, può
essere come non essere.
Duns Scoto riprende dalla tradizione giuridica la distinzione tra ciò che é possibile secondo
la legge e ciò che é possibile di fatto: il primo definisce la potentia ordinata e il secondo la
potentia absoluta. Per potenza ordinata, i gravi cadono al suolo; per pitenza assoluta Dio può
far sì che ciò non accada. Sia in Dio, sia tra gli uomini, la potentia absoluta é più ampia di
quella ordinata, perchè riguarda un ambito più ampio di possibilità: un re, per esempio, può
anche graziare un individuo condannato in base alla legge. La legge ha una funzione
limitante riguardo al potere assoluto, ma Dio può anche stabilire un'altra legge che, in
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quanto stabilita da lui, é necessariamente buona. L'unico contrassegno della bontà di un
ordine é la sua dipendenza dalla volontà divina.
Qui é il nocciolo di quello che é stato definito volontarismo di Duns Scoto: Platone
rispondeva che le cose piacciono alla divinità perché sono belle; Scoto, viceversa, risponde
che le cose sono belle perché piacciono a Dio. In questa prospettiva, Dio appare come un
sovrano assoluto: nulla può limitarne l'azione, se non il principio di contraddizione, nel
senso che Dio non vuole contemporaneamente una cosa e la sua contraria; tutto ciò che egli
decide di fare ha valore di legge, ma in quanto proviene dalla sua volontà é il meglio.
Per Tommaso, invece, Dio trovava un vincolo nella propria perfezione: Dio può fare tante
cose, ma di fatto egli fa il meglio (è moralmente necessitato). Per Duns Scoto dunque
l'attuale ordine del mondo non é l'unico possibile. Le cose create da Dio sono entità
individuali, le quali tuttavia hanno una natura comune. Socrate, Platone e gli altri individui
hanno qualcosa che li distingue da un cavallo o da una pietra: esso é appunto la natura
comune, consistente nell'essere uomini. Ma, diversamente dalle posizioni realistiche, le
quali sostengono l'esistenza reale della natura comune, per Duns Scoto essa non é un essere
numericamente distinto dalle cose individuali e non é pertanto dotato di esistenza a parte da
queste cose, ma non é neppure una semplice entità mentale, come gli universali pensati
dall'intelletto. Essa non é di per sè nè universale nè singolare , ma indifferente sia
all'universalità sia alla singolarità. Da che cosa dipende allora l'individualità delle cose?
Ovviamente non può dipendere dalla forma, che coincide con la natura comune; e inoltre il
principio di individuazione non può essere dato neppure dalla materia.
Secondo Duns Scoto, che su questo punto si stacca dalla tradizione aristotelica, la materia,
infatti, non é pura passività, perchè altrimenti non si distinguerebbe dal nulla: quindi anche
la materia é dotata di individualità propria. L'ente individuale deve contenere in sè qualcosa
che non é contenuto nella nozione di natura comune e che dispone tale natura, la contrae in
modo da essere una cosa determinata nella sua individualità (ad esse hanc rem). Nei
Reportata parisiensia questa determinazione é detta haecceitas (da haec, che in latino
significa "questa cosa singola"). Anche essa non ha esistenza numericamente distinta dalla
cosa singola, ma non é neppure dotata di esistenza puramente mentale: essa appartiene a
ciascun ente nella sua individualità. La causa dell'individualità é dunque sempre una
differenza ultima, in base alla quale ciascuna cosa si distingue da ogni altra. In tal modo,
Duns Scoto riconosce a pieno titolo l'originalità e irriducibilità di ogni ente individuale. La
natura comune, che si individualizza nelle entità reali, si universalizza invece nell'intelletto.
Ciò avviene mediante le specie intelligibili, che sono gli oggetti della conoscenza
intellettuale. Mentre le immagini degli oggetti colti dai sensi presentano tali oggetti nella
loro singolarità, le specie intelligibili li presentano sotto l'aspetto dell'universalità.
La prima conoscenza distinta dell'intelletto é la specie più universale: essa, come si é visto,
é la nozione di essere, nella quale sono incluse tutte le nozioni più ristrette. Duns Scoto
distingue due forme di conoscenza: intuitiva e astrattiva. La conoscenza intuitiva coglie
l'oggetto in quanto é presente nella sua esistenza attuale, é l'analogo della visione diretta di
un oggetto: essa é propria non solo dei sensi, ma anche dell'intelletto; infatti anche la natura
comune, non solo le cose individuali, é oggetto di conoscenza intuitiva. La conoscenza
astrattiva, invece, prescinde dall'esistenza attuale degli oggetti conosciuti intuitivamente,
poichè in questi la natura comune, anzichè individualizzarsi, si universalizza. Solo in questo
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modo si può costituire la scienza, che é appunto conoscenza dell'universale. La scienza può
essere stabile e immutabile, soltanto se astrae dall'esistenza degli oggetti che essa considera;
in caso contrario resterebbe coinvolta anche essa nel nascere e perire dei suoi oggetti. Prima
della caduta nel peccato originale non era necessaria la conoscenza astrattiva, ma tutto era
colto intuitivamente in una visione diretta, anche Dio stesso, e così sarà in futuro nella
visione beatificata ultraterrena. Ma Duns Scoto ritiene che l'immortalità dell'anima non
possa essere dimostrata e sia soltanto verità di fede. L'anima intellettiva é la forma
sostanziale dell'uomo, in quanto il pensiero non dipende da organi corporei, ma il corpo é
dotato di una forma della corporeità che predispone il corpo alla sua unione con l'anima: in
tal modo, Duns Scoto fa propria la dottrina, tradizionalmente ammessa negli ambienti
francescani, della pluralità delle forme.
Ma l' uomo é anche dotato di volontà, la quale é superiore all'intelletto stesso: su questo
punto Duns si contrappone nettamente al primato dell'intelletto e della vita teoretica,
sostenuto da Tommaso e dalla tradizione aristotelica. L'intelletto, infatti, é determinato dai
suoi oggetti, dipende da essi, mentre la volontà é libera, non ha altra causa che se stessa e si
serve dell'intelletto come di uno strumento. L'assenso della volontà non é causato
necessariamente dalla bontà dell'oggetto; essa infatti é libera di sceglierlo come di rifiutarlo.
La volontà é buona quando vuole il bene, ma che cosa sia il bene dipende dall'onnipotenza
divina. Dio non vuole il bene perchè é bene, come sosteneva Platone; bene é invece ciò che
Dio vuole, in quanto lo vuole. La causa del bene é la volontà di Dio e pertanto il bene per
l'uomo consisterà nel conformarsi alla volontà di Dio.
Se volesse, Dio potrebbe stabilire per gli uomini una legge diversa da quella che ha stabilito;
in tal caso sarebbe buona quest'ultima. L'unica eccezione all'arbitrarietà del comando divino
é costituita dal fatto che in ogni caso l'uomo deve conformarsi a tale comando. Ciò darà
luogo ad un agire veramente buono quando sarà accompagnato dall'amore di Dio , dal quale
dipende l'amore per se stessi e per il prossimo: la virtù più alta é per Duns Scoto la carità.
Ad essa Dio risponde con la grazia, ossia con il suo amore e con il premio della beatitudine,
conferito liberamente per i meriti che gli sembrano degni di essere premiati.
3.Guglielmo d’Ockham:
Nato verso il 1280 nel Surrey, in Inghilterra, entrò nell’ordine francescano prima del 1306.
Nel 1318 era ancora studente di teologia ad Oxford, dove iniziò la carriera d’insegnamento
facendo lezione sulle Sentenze di Pietro Lombardo e sulla Sacra Scrittura come baccelliere
ed ottenendo un immediato successo. Negli anni oxoniensi, oltre al commento alle Sentenze
(conosciuto col titolo di Ordinatio per la prima parte, Reportatio per la seconda), aveva
scritto due trattati di logica (Expositio aurea, Summa totius logicae), commenti ad Aristotele
(alla Fisica e ad opere di logica), e sette questioni quodlibetali su argomenti di natura
filosofica e teologica. Ockham però non diventò mai magister perché nel 1323 il cancelliere
dell’università di Oxford, Giovanni Lutterell, accusò presso il pontefice la sua opera di
contenere falsità filosofiche, eresie religiose e aberrazioni morali. Nel 1324 il filosofo fu
convocato presso la curia papale ad Avignone e rinchiuso nel convento francescano, per
essere processato. Il processo però non arrivò mai alla conclusione, perché nel 1328
Guglielmo d' Ockham fuggì da Avignone a Pisa insieme a Michele da Cesena, il generale
dell'ordine francescano, anch’egli messo sotto processo perché favoriva il movimento degli
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Spirituali. I due si schierarono al fianco dell'imperatore Ludovico il Bavaro che, incoronato
a Roma all' inizio del 1328, aveva dichiarato deposto il papa Giovanni XXII (che Michele
considerava eretico) pochi mesi dopo. Fra il sostenitore della povertà evangelica e il
francescano inglese esisteva una convergenza di fondo, che si manifestò negli scritti di
Ockham successivi alla fuga da Avignone, opere teologico-politiche spesso fortemente
polemiche: l'Opus nonaginta dierum (1333-1334), sulla povertà francescana; il Dialogus de
imperio et pontificia potestate (1342); il Breviloquium de potestate papae e l' ultimo grande
scritto, De imperatorum et pontificum potestate, scritto nel 1347. Inoltre otto quaestiones
sulla distinzione fra il potere spirituale e il potere civile e, forse, le Allegationes de potestate
imperatoris (la cui attribuzione è dubbia). Ockham morì a Monaco, probabilmente nel 1347.
Con la sua vita e le sue opere aveva rappresentato un modello nuovo di intellettuale
cristiano, e la sua dottrina incontrò un successo notevole nelle scuole di filosofia, sia in
Inghilterra che in Francia.
Filosofia e fede
Ockham rifiuta ogni posizione concordista - che voglia cioè mostrare l'accordo fra la fede e
la filosofia d'impianto greco. Questo rifiuto, che risuona in tutte le sue dottrine, è stato
interpretato come una forma di scetticismo, in cui si sarebbe espressa la ‘crisi’ di un sistema
filosofico che aveva ormai raggiunto e superato il suo vertice più alto. In realtà, Ockham è
piuttosto l' iniziatore di un nuovo modo di pensare, che riprende dalla radice il problema
fondamentale della filosofia nel mondo cristiano: quello della creazione. A partire da una
ferma fede, che assume come proprio centro il dogma dell'onnipotenza divina espressa nel
Credo Niceno ("Credo in un solo Dio onnipotente creatore del cielo e della terra"), e da una
filosofia che vuole restare completamente fedele al pensiero di Aristotele, Ockham si
colloca al punto d'incontro tra interessi filosofici e interessi religiosi, e il suo pensiero si
mostra ai suoi contemporanei come “la dottrina d'un credente”.
Logica nominalista
Il nominalismo di Ockham è prima di tutto un nominalismo logico, che si sviluppa a partire
dalla tradizione delle Summulae logicales di Pietro Ispano. Secondo quanto afferma nella
Expositio aurea, la logica è un sapere pratico, poiché “verte sulle nostre proprie operazioni
… che sono perciò interamente nostre proprie attività”, e non deve essere considerata
altrimenti che come una scienza del linguaggio priva di implicazioni metafisiche. La logica
analizza e insegna le regole delle proposizioni, operazioni linguistiche mediante cui si
costruiscono le scienze: tanto le scienze reali (cioè che vertono su oggetti di realtà, come la
fisica) quanto quelle razionali, che vertono su oggetti mentali (come la matematica). Le
proposizioni possono essere mentali (in mente), enunciate (in voce) o scritte (in scripto). In
ogni caso, comunque, hanno carattere composito (complexa), e possono essere suddivise
nelle loro parti (termini): suoni, lettere dell'alfabeto e, nel caso delle proposizioni pensate,
concetti o intentiones animi. Nella definizione del concetto come intentio viene in primo
piano la sua funzione di segno, che ‘tende verso’, ovvero indica, le cose a cui si riferisce.
Anche gli universali sono concetti e dunque segni: ma di cosa? Per il logico non ha alcun
senso chiedersi se gli universali vertano sulla realtà, perché si tratta di un problema
metafisico. Il realismo è considerato assurdo, poiché deriva da un'inferenza che va oltre le
premesse: riconoscendo che la somiglianza fra individui che, oggi diremmo, appartengono a
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una certa classe (Socrate e Platone) è maggiore di quella fra individui che appartengono a
classi diverse (Socrate e un asino), i realisti concludono che i primi si assomigliano perché
hanno in comune una essenza reale o ‘natura comune’. Il loro errore sta dunque nel
postulare una terza realtà (la natura communis) che si interpone fra le due realtà singolari
(Socrate e Platone) che convengono fra loro in una somiglianza. Per Ockham invece, c’è
una maggiore ‘convenienza’ tra Socrate e Platone che tra Socrate e l'asino non in ragione di
qualcosa che si distingue da essi ma perché “convengono maggiormenti tra di loro per se
stessi”. La realtà è infatti composta esclusivamente di individui singolari; di conseguenza, il
filosofo deve però chiedersi come è possibile che qualcosa vi sia di comune e di universale;
la risposta chiama in causa la funzione significativa del linguaggio, e in particolare la
dottrina della suppositio.
La dottrina della suppositio
Il logico si interessa ai termini come segni non per determinare lo status ontologico di ciò
che essi significano, ma per analizzare la loro proprietà fondamentale in quanto segni, che è
il loro ‘stare al posto di’ (supponere pro) qualcos’altro. La supposizione (suppositio) è la
proprietà che i termini hanno di significare, e una proposizione è vera quando il soggetto e il
predicato ‘suppongono per’ la stessa cosa: nei casi in cui questo non avviene si danno gli
errori logici denominati fallacie. La suppositio permette inoltre di distinguere fra i diversi
tipi di discorso scientifico: si avrà infatti una scienza reale o razionale a seconda che i
termini stiano al posto di realtà concrete o mentali. Nella dottrina della suppositio troviamo
l'elemento di novità fondamentale della teoria logica di Ockham: la distinzione della
suppositio in tre livelli: suppositio materialis, che si ha quando un termine indica se stesso in
quanto termine ("uomo è un nome di due sillabe", "correre è un verbo" ecc.); suppositio
personalis, quando un termine indica una realtà individuale ("Un uomo corre"); suppositio
simplex, quando un termine indica un ‘universale’ ("uomo è una specie"), ovvero non una
realtà o essenza universale, ma un concetto mentale nella sua natura di concetto.
Metafisica nominalista e contingenza del reale
La metafisica di Ockham è indubbiamente coerente con l'impostazione logica, ma non deve
essere confusa con essa; il nominalismo metafisico fa pernio infatti su un postulato extralogico: la realtà è composta esclusivamente da individui (da cui il famoso aforisma noto
come ‘rasoio di Ockham’: “non si devono moltiplicare gli enti ponendone di non
necessari”). Tutto ciò che esiste realmente è un individuo; tradotta in termini astratti, questa
intuizione filosofica può essere così enunciata: ogni essere è indiviso in sé e diviso dagli
altri. Ockham sviluppa questa intuizione semplificando al massimo l'impalcatura
concettuale costruita sul tema dell'essere e dell'essenza dai suoi predecessori (Tommaso
d’Aquino e Duns Scoto). La considerazione della struttura metafisica della realtà cede così
il posto ad una centralità degli individui reali, un mondo di cose singole, in cui non si danno
mediazioni come quelle espresse tradizionalmente dai termini di ‘natura’ o ‘essenza’: le
realtà individuali esistono in quanto frutto immediato e assolutamente contingente della
volontà divina. A ciò si deve aggiungere il fatto che in Dio, che è assolutamente semplice, la
volontà si identifica con l’intelletto; non possiamo, di conseguenza, porre in Dio nessuna
distinzione, per esempio fra l’atto del conoscere e quello del produrre. Per questa ragione
non è possibile ricondurre l’ordine del mondo a un ordine precedente l'atto della creazione,
e cade pertanto un postulato fondamentale dell’aristotelismo scolastico: l'esistenza di un
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piano ideale o essenziale della creazione, comprensibile da parte della ragione umana;
diventa pertanto impossibile attingere razionalmente i ‘preamboli della fede’ a partire dalla
conoscenza delle cose (nozione centrale nella filosofia tomista).
L’opposizione di Ockham alla ‘teologia scientifica’ d’impianto tomista è nettissima. Se la
ragione umana non può neppure attingere alla dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio
(si può provare la necessità della trascendenza, ma ciò non significa conoscerla o dire
alcunché su essa), a maggior ragione gli articoli della fede cristiana non costituiscono una
scienza, perché “non sono principi della dimostrazione, né conclusioni, né possono essere
dimostrati”; solo l’assoluta dipendenza delle realtà dalla ‘causa prima’, cioè la contingenza
assoluta degli esseri, può essere affermata in ques’ambito. Questa ed analoghe affermazioni
di Ockham hanno indotto ad etichettare il suo pensiero come fideismo (se si sottolinea
l'autonomia del fondamento della fede) o scetticismo (se al contrario si sottolinea che la
scienza non può conferire tale fondamento). Tuttavia, proprio la fiducia nella conservazione
delle cose - nella regolarità del mondo- da parte della potenza di Dio, rende possibile ad
Ockham articolare in maniera nuova il discorso sull’onnipotenza divina, offrendo un inedito
fondamento alla conoscenza scientifica, cui la discussione sul linguaggio come sistema di
segni si connette senza smagliature.
Onnipotenza divina e conoscibilità del mondo
Ockham elabora infatti una posizione che gli permette di salvare la conoscibilità del mondo
senza dover ricadere in nessuna forma di determinismo; lo fa paragonando l'azione di Dio a
quella di un sovrano che promulga una legge che egli stesso s'impegna a rispettare: il mondo
creato è dunque di fatto un ordine, benché un ordine contingente; è l'ordine che Dio (il Dio
della Bibbia) ha decretato che fosse, con un patto cui si è autonomamente obbligato
(l'obbligazione cui il Dio sovrano si vincola non è infatti frutto di un contratto fra parti, ma
autonoma decisione del creatore nei confronti della creatura). In questo modo Ockham,
identificando la potentia ordinata con la realizzazione di fatto della potentia absoluta, riesce
a salvare la fiducia nella conoscibilità del mondo senza dover ricorrere ad un ordine
razionale che condizioni l'azione creatrice di Dio. Ma c’è un’altra conseguenza, di ordine
epistemologico: se il mondo non è la realizzazione dell'ordine ideale, la conoscenza del
mondo non può essere conoscenza di idee universali astratte: la conoscenza astratta o
deduttiva non può dirci infatti nulla su un mondo di individui, qual è il mondo reale. Non
viene con ciò negata la validità logica della conoscenza deduttiva, bensì la sua capacità di
dirci qualcosa sul reale (posizione analoga a quella di Ruggero Bacone). L’uomo, immerso
in un mondo contingente retto dalla volontà divina, può conoscere pertanto solo ciò che gli è
dato nell'esperienza: l'empirismo di Ockham ha dunque una radice schiettamente teologica
ed è perfettamente coerente con la sua metafisica. E' la conoscenza intuitiva-empirica che ci
dà l'evidenza della realtà e dell'esistenza di una cosa, o anche del suo contrario (si può
conoscere che una cosa non è: questa affermazione è una delle più problematiche, e darà
luogo ad una discussione fra gli stessi seguaci di Ockham); e che permette all’intelletto di
afferrare il singolare in quanto tale: “la conoscenza intuitiva di una cosa è una conoscenza in
virtù della quale si può conoscere se una cosa è o non è. Se è, immediatamente l'intelletto
giudica che è quello che è.” Di conseguenza viene rifiutata l'articolazione dell'atto
conoscitivo e le mediazioni fra la cosa e l'intelligibile (le species intelligibiles) che
caratterizzano la gnoseologia aristotelico-scolastica. Oltre a ribadire, sul piano della
conoscenza, il principio del ‘rasoio’ (“Si fa inutilmente con molti mezzi ciò che si può fare
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con pochi”), Ockham sostiene che non si deve considerare come ‘necessario in assoluto’ ciò
che appare necessario in relazione ad un determinato ordine di cose: la possibilità di
prevedere eventi di natura cambia così status, da dimostrazione necessaria ad anticipazione
probabile.
Su questa base egli elabora le sue teorie fisiche, che nelle grandi linee possono essere così
indicate: la riduzione della quantità alla sostanza; la negazione di una realtà del movimento
distinta dalla realtà del corpo che si muove; la negazione della realtà assoluta del tempo se
non nell'anima. Si può su questa base affermare, senza inconvenienti filosofici, che il mondo
è creato da Dio ab aeterno e che non è assurda l'esistenza di un infinito in atto.
Il pensiero politico
Anche nell’ambito politico la posizione di Ockham è originale e si distacca nettamente da
quella degli ‘averroisti politici’, Giovanni di Jandun e Marsilio da Padova, che pure erano
anch’essi schierati nel partito imperiale. La netta affermazione dell’indipendenza del potere
temporale da quello spirituale ha in Ockham una matrice schiettamente teologica, poiché
discende da una riaffermazione della priorità del primato apostolico e dalla constatazione
della relativa ininfluenza del potere civile, che riguarda i beni inferiori, dei quali si può
anche fare a meno pur vivendo rettamente in vista del fine supremo. Il primato del papa però
non è inteso da Ockham nel senso della teocrazia tradizionale: viene infatti definito da lui
non una signoria, ma un servizio (non dominativus, sed ministrativus) ed è limitato dai
diritti legittimi dei sovrani nonché dei semplici fedeli; anche in ambito spirituale infatti il
potere del pontefice si esercita nei confronti di uomini che rimangono, per definizione,
liberi. Applicando anche qui il suo ‘rasoio’ nominalista, Ockham dichiara con nettezza che
la chiesa è l’assemblea dei fedeli (Ecclesia est multitudo fidelium). Il papa non può pertanto
limitare la libertà dei cristiani, perché la Chiesa non è un' entità superiore all' assemblea dei
fedeli, e nessuna verità che non sia contenuta esplicitamente o implicitamente nella Sacra
Scrittura può essere imposta dal pontefice come verità di fede. Con queste affermazioni egli
dava un sostegno filosofico ai francescani spirituali, il cui ideale era la restaurazione della
simplicitas evangelica in tutta la Chiesa e l' abbattimento di ogni forma di possesso, perché l'
avanzare diritti sulle cose e sulle persone è fare violenza alla volontà di Dio.
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