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Le origini della diocesi di Ceneda. [in academia.edu, 2016]

Tratto da ‘CENITA FELICITER, L’epopea goto-romaico-longobarda nella Venetia tra VI e VIII sec. d.C., in attesa di pubblicazione. °°° Giorgio Arnosti LE ORIGINI DELLA DIOCESI DI CENEDA 1. 1. Il trafugamento di reliquie. Le reliquie di santi erano molto importanti nella tradizione delle Chiese aquileiese ed ambrosiana per la fondazione di nuove cattedrali, come viene documentato per Concordia e per Aquileia nel famoso sermone attribuito a San Cromazio 2. I santi patroni poi, sulla spinta della concezione barbarica, che trasfigurava quella romana, erano diventati ben presto titolari giuridici delle diocesi e dei beni ecclesiastici, “poiché secondo il concetto d’allora la proprietà delle cose della Chiesa risiedeva nei corpi dei santi” 3. Si consideri ad esempio il fatto che re Liutprando, nel 728, restituì Sutri al papato sotto forma di donatio agli apostoli Pietro e Paolo 4. Ed è illuminante per noi il trafugamento da Roma all’abbazia di Nonantola, nel 756, da parte dell’abate Anselmo - ritenuto già duca di Ceneda - delle spoglie di San Silvestro papa, titolare della famosa donazione di Costantino, proprio quando re Astolfo rivendicava al regno longobardo col possesso del Ravennate e della Pentapoli anche quello del Ducato Romano 5. In quello stesso anno, quando Astolfo fu costretto dal re franco Pipino a cedere i territori occupati nell’Esarcato, il re franco non li rese all’imperatore legittimo sovrano ma li concesse al papato. Lo fece sotto forma di donazione a San Pietro, e pure le chiavi delle città restituite furono poste con la carta di largizione ‘in confessione beati Petri’ 6. Nel contesto delle controversie per il primato tra le sedi metropolitiche della carolingia Aquileia e della “maritima” Grado bizantina, risulta ancora significativo il resoconto fatto al sinodo mantovano dell’827, “che al tempo in cui i Longobardi avevano invaso l’Italia, (…) a capo della città di Aquileia e della sua comunità c’era il patriarca Paolo; questi, temendo la barbarie e la ferocia dei Longobardi, dalla città di Aquileia e dalla propria sede si rifugiò nell’isola di Grado, 1 Ora Diocesi di Vittorio Veneto (TV). FEDALTO, 1978, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella “Venetia maritima”, p.285 e p.370. Sull'attribuzione a Cromazio, cfr. BILLANOVICH M.P., 1988, in Recensioni, 'Archivio Veneto', CXIX, p.124. 3 GAUDENZI A., 1901, Il monastero di Nonantola, il ducato di Persiceta e la Chiesa di Bologna, p.94, e alla nota 1 excerptum dalla Cost. I.2.15 'De sacrosanctis ecclesiis …' del Codex Iustiniani: ‘(Αυτοκράτωρ Ζήωων Α.) Εἴ τις δωρεὰν κινητῶν ἢ ἀκινήτων ἢ αὐτοκινήτων πραγμάτων ἢ οἱουδήποτε δικαίου ποιήσοιτο εἰς πρόσωπον οἱουδήποτε μάρτυρος ἢ ἀποστόλου ἢ προφήτου ἢ τῶν ἀγίων ἀγγέλων … , κτλ ’. E la versione latina dello stesso comma in Cod. Iust., I.2.15: ‘Imp. Zeno A. Si quis donationem rerum sive mobilium sive immobilium seu se moventium seu cuiuslibet iuris conferet in personam cuiusvis martyris vel apostoli vel propheti vel sanctorum angelorum oratorium aedificaturus in memoriam eius, cuius nomine donationem conscribit, eandem donationem, modo actorum confectionem secundum sacras constitutiones observarit (in quibus hoc videlicet necessarium est), valere et omnimodo exigi posse …’ (KRUEGER, p.14). 4 ANAST. BIBL., S.Gregorius II, PL 128, col 981: 'donationem beatissimis apostolis Petro et Paulo antefatus emittens Langobardorum rex restituit atque donavit' (186, rr.5-6). 5 GAUDENZI, 1901, Il monastero di Nonantola, pp.90-97. Alla donazione costantiniana accennava Adriano I in una lettera a Carlomagno, del 778 (Cod. Carolinus, ep.60); e nei codici nonantolani la vita di San Silvestro fu congiunta col privilegio di Costantino (GAUDENZI, pp.91-92, 95). 6 ANAST. BIBL., Stephanus II, PL 128, coll.1099-1100: 'De quibus omnibus receptis civitatibus donationem in scriptis a beato Petro atque a sancta Romana Ecclesia, vel omnibus in perpetuum pontificibus apostolicae sedis, misit possidendam, quae et usque hactenus in archivio sanctae nostrae Ecclesiae recondita tenetur' (253, rr.1-4). 'Et ipsas claves tam Ravennatium urbis quamque diversarum civitatum ipsius Ravennatium exarchatus una cum suprascripta donatione de eis a suo rege (Pippino) emissa in confessione beati Petri ponens, eidem apostolo et ejus vicario sanctissimo papae, atque omnibus ejus successoribus pontificibus perenniter possidendas atque disponendas tradidit' (254, rr.1-5). 2 1 una sua pieve; e portò con sé nella medesima isola tutto il tesoro e le cattedre dei santi Marco ed Ermagora” 7. Tuttavia la parte dell’antica Aquileia ricostituita ex novo in terraferma ci teneva accortamente a sminuire la portata di quel trasferimento: “non però per stabilirvi la sede della sua Chiesa o il primato della provincia ecclesiastica, ma solo per poter sfuggire alla ferocia dei barbari”. Anche le cronache venetiche, a proposito della fuga nelle lagune, evidenziavano che Paolo era riparato a Grado portando con sé le reliquie del martire Ermagora, tradizionalmente considerato il primo vescovo di Aquileia. E sebbene a posteriori - come argomentava il Tavano 8 - il fatto che Paolo avesse avuto cura di custodire quelle reliquie con ‘honore dignissimo’, avrebbe dato modo da allora al patriarca di Grado di chiamare la stessa città ‘Aquilegiam novam’ 9, sottintendendo non una filiazione ovviamente ma una traslazione de iure della sede episcopale e metropolitica. Poco prima del 628, le reliquie furono trafugate col tesoro gradense dal patriarca apostata Fortunato e trasferite in territorio longobardo ‘apud castrum Cormones’; e papa Onorio si fece carico di richiederne a re Arioaldo l’immediata restituzione 10. Per le cronache del diacono Giovanni l’esito della richiesta papale sarebbe stato negativo, per cui il successore di Fortunato, il patriarca cattolico Primogenio, “avvertito da una visione, recuperò i corpi del beato vescovo e martire Ermagora, dei santi Felice e Fortunato, sepolti al terzo miliario, li riportò nella città di Grado, e qui li depose con ogni cura e diligenza” 11. Sempre in questo frangente, e verosimilmente per ripristinare il prestigio o rafforzare la supremazia della Chiesa Gradense, l’imperatore Eraclio inviava la “cattedra di San Marco”, una reliquia portata da Alessandria d’Egitto, che solo dalla metà del VII secolo avrebbe quindi fatto parte del tesoro di Grado 12. Il possesso di quelle reliquie doveva essere un titolo importantissimo per una conclusione favorevole della controversia sulla supremazia, ma non fu decisivo. Infatti, mentre al sinodo di Mantova i diritti metropolitani gradensi venivano contestati dall’allora potente patriarca di Aquileia (con l’appoggio politico carolingio, e con quello altalenante del papato), i Venetici provvedevano alla traslazione del corpo del santo evangelista Marco da Alessandria. La presenza delle massime reliquie del “primo evangelizzatore” delle Venezie preludeva alla definitiva ratifica canonica della supremazia della cattedra di Grado, o della sua erede Venezia 13. E così appunto avvenne. 2. La traslazione di San Tiziano. Ancora nel contesto della contrapposizione politico-religiosa fra la metropoli scismatica aquileiese in terra longobarda e quella cattolica della Secunda Venetia, nella prima metà del VII 7 Da CESSI, 1940, Docum., n.50, p.85. TAVANO S., 1972, Il culto di San Marco a Grado, MI, p.203. 9 Da IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, col.877 C-D: “Questi, cioè Paolo, temendo la ferocia dei Longobardi, si rifugiò da Aquileia nell'isola di Grado, e portò con sé i corpi del beatissimo martire Ermagora e degli altri santi che vi erano stati deposti; quindi li collocò con grandissimo onore nella piazzaforte di Grado, e chiamò la medesima città Nuova Aquileia”. 10 IOAN. DIAC., Chron. Grad. Suppl., PL 139, col.951 B-C. HONORII PAPAE I, Epist., II, PL 80, col.469. 11 Da IOAN. DIAC., Chron. Grad. Suppl., col.951 C. 12 Da IOAN. DIAC., Chron. Grad. Suppl., coll.951-52 C: “Quindi il suddetto patriarca Primogenio inviava un suo apocrisario nella città regia al piissimo imperatore Giustiniano (Eraclio invece!) per informare su questa vicenda, come cioè le chiese battesimali fossero state spogliate, che i Longobardi volessero sottrarre i loro vescovi dalla sua circoscrizione, e che essi si trattenessero lo stesso tesoro. Allora infine lo stesso piissimo imperatore mandò oro e argento, più di quanto ne avevano perduto, inviando anche la cattedra del beatissimo Marco evangelista, che l'imperatore Eraclio aveva portato nella città regia da Alessandria”. E già nel Chron. Ven., PL 139, col.878 A: “Dopo ciò per rafforzarla (Grado), l'imperatore Eraclio, sorretto dall'amore dei santi, vi inviò la cattedra del beatissimo Marco, che Elena la madre di Costantino aveva riportato da Alessandria. E qui fino ai nostri giorni viene venerata assieme alla cattedra in cui si era seduto il beato martire Ermagora”. La “cattedra” viene identificata con la cattedrareliquiario in alabastro custodito nel tesoro di San Marco a Venezia, oppure con il seggio ora smembrato al quale sono attribuite le formelle eburnee con episodi della vita dell’evangelista, disperse fra vari musei, alcune al Castello Sforzesco di Milano (vedi TAVANO, 1972, Il culto di San Marco a Grado, fig. 3-6, e pagg.208 segg.). 13 FEDALTO G., 1978, Organizzazione ecclesiastica, p.406 segg. Cfr. TAVANO S., 1972, Il culto di San Marco, pp.201 e segg. Per la critica storica sulle origini del Cristianesimo nelle Venezie vedi PASCHINI P., 1975, pp.33-segg.; TRAMONTIN S., 1976, Origini cristiane, pp.102-23, e ID., 1983, cit., p.24. 8 2 secolo, s’inserisce la leggenda della miracolosa traslazione a Ceneda delle spoglie di San Tiziano, vescovo opitergino. Di questo nostro Santo non si conosce granché, e nel martirologio di Usuardo, del IX secolo, si ha di lui solo una laconica citazione. Poco si apprende anche dalla sua biografia, niente più che una leggendaria e stereotipa Vita medievale, compilata probabilmente attorno al XII secolo. Qualche interessante riferimento di valore storico lo si ritrova nella sua carica di oeconomus 14 della Chiesa Opitergina, e nei passaggi relativi alla traslazione delle reliquie, questi ultimi peraltro non scevri da luoghi comuni. Nulla più si può ricavare dall’antico Officium, poiché esso sembra dipendere proprio dal testo della Vita 15. L’esistenza di ‘San Tiziano Confessore’ è però incontestabile, e la presenza delle sue venerate reliquie in Ceneda è evidenziata in tre diplomi regi o imperiali concessi alla Chiesa Cenedese tra l’VIII ed il X secolo 16, oltre che nel controverso placito di Liutprando, datato al 743, che definiva una controversia tra Ceneda ed Aquileia. In quest’ultimo documento, importantissimo per la ricerca sulle origini della diocesi di Ceneda, sul quale ci si intratterrà più avanti, il ratto ed il trasferimento in terra longobarda delle spoglie di San Tiziano sono assegnati al tempo della conquista di Oderzo ad opera di Rotari, circa del 638 17. Nel testimoniale della sentenza liutprandina non viene chiarito come fosse avvenuta la traslazione, ma al riguardo ci può soccorrere, per quanto poco, la leggendaria Vita. I poteri taumaturgici del santo vescovo spingevano i suoi congiunti e compatrioti di Eracliana a trafugarne il venerato corpo. Il rapido accorrere degli Opitergini bloccava il tentativo dei rapitori e accendeva una vivace contesa. Un provvidenziale intervento soprannaturale risolveva infine la crisi, e ripetuti contributi miracolosi facevano dirigere le spoglie a Ceneda. Forti erano le motivazioni religiose che muovevano Eracleani ed Opitergini, però al di là della leggenda sicuramente più risolute furono le ragioni politico-religiose del terzo incomodo. Verosimilmente, con l’occasione della presa di Oderzo, i Cenedesi tricapitolini rapirono le reliquie prima che gli Opitergini potessero metterle al sicuro nella cattolica Cittanova Eracliana, dove si stava ricostituendo la sede della diocesi assieme a quella del governo provinciale bizantino. “Quindi, dopo che la città di Oderzo fu presa da Rotari, il vescovo di quella città, con l’autorizzazione di papa Severino, volle portarsi ad Eracliana e qui stabilire la sua sede”, racconta Giovanni Diacono 18; e a Cittanova nel 639, giusta l’epigrafe trasportata poi a Torcello in anni non determinati, fu consacrata la nuova cattedrale. Quanto alla motivazione del ratto delle reliquie è certo, e non dovrebbero esserci dubbi al riguardo, che proprio a San Tiziano si riconoscessero personalità giuridica e la titolarità sui benefizi e sulla diocesi di Oderzo. Tanto più che in questi termini si esprime una testimonianza nel placito liutprandino, per cui i Cenedesi, avendo ottenuto le preziose spoglie del Santo, poterono vantare il diritto di accorpare a Ceneda quella sede episcopale. Veniamo ora agli illuminanti passaggi annotati nel placito di Liutprando. 14 Sulle competenze dell’oeconomus o vicedominus vedi Observationes ad vitam Mauri schismatici (in AGNELL. RAV., PL 106, p.674. 15 Ampiamente in MASCHIETTO A., 1959, San Tiziano vescovo. La più recente critica storica in TRAMONTIN S., 1986, I Santi Patroni, in “Il Cristianesimo tra Piave e Livenza”, pp.9-23. 16 La citazione della presenza del corpo del santo in Ceneda si ritrova nell'arenga dell'atto carolino del 793 (794): ' circa ecclesiam Sancti Titiani Confessoris Christi, que est constructa sub oppido Cenetensium castro, ubi ipsemet pretiosus Sanctus corpore requiescit' (VERCI, MT, I, 1, p.1). Ancora nel doc. del 5 Aug., 908 (o 906), col quale Berengario concede al vescovo Ricpaldo di Ceneda il porto di Settimo e la selva di Gaio e Girano: 'ob precationem Bersilie dilecte conjugis et consortis Regni nostri, concedimus Sancte Cenetensi Ecclesie, ubi corpus sancti Titiani Confessoris humatum quiescit' (VERCI, MT, I, 2, p.2; LOTTI C., Series Episc. Cenet., doc. IV). E anche nella carta originale del 962, di Ottone I per il vescovo cenedese Sicardo (VERCI, MT, I, 5, p.7): 'concederemus aliquantam terram adjacentem in castro Cenite, ubi venerabile corpus sancti Titiani quiescit'. 17 CESSI, 1940, Docum., n.27, pp.41-44. Il ratto delle reliquie sarebbe avvenuto attorno al 650 per il MASCHIETTO A., 1959, S.Tiziano, p.89; tra il 640 e il 667 per BELLIS E., 1978, Oderzo Romana, p.168. 18 Da IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, coll.878 D; e nel Chron. Grad., col.949 B, cit. anche più sopra: “Quanto all'episcopato di Cittanova, che fu detta Eracliana, viene attestato che provenisse dalla città di Oderzo. Fuggendo di qui il duca e gran parte dei nobili della stessa città, nella suddetta Eracliana stabilirono il detto vescovado”. 3 Nel primo dibattimento di fronte al re longobardo (e ci riferiamo agli eventi dell’VIII secolo), il patriarca aquileiese Callisto contestava al presule cenedese Valentiniano la sua assunzione al vescovado poiché, quando vi fu consacrato, il titolare opitergino era ancora vivo nelle isole della laguna (e per l’anno 680 è sicuramente attestato Benenato): “Se tu sei stato consacrato vescovo nella sede opitergina - diceva Callisto - non solo devi essere privato di questa diocesi, ma giustamente devi essere deposto perfino dall’ordine sacerdotale. Infatti il vescovo di Oderzo, dopo la distruzione della sede, era ancora vivo nascosto in qualche isola, quando tu hai assunto l’onore dell’episcopato”. Innanzitutto è opportuno evidenziare che gli avvenimenti così raccontati, cioè la distruzione di Oderzo, la fuga del vescovo titolare e la consacrazione a Ceneda di un presule suo succedaneo, appaiono come consequenziali ed in stretta relazione di tempo. Dall’argomentazione esibita da Callisto si può desumere poi che l’ordinazione del presule cenedese e l’usurpazione del titolo opitergino erano avvenute senza che ci fosse stata alcuna contestazione o rivendicazione. Ciò realisticamente s’era potuto realizzare solo nel secondo trentennio del VII secolo, in presenza di due fattori propizi e concomitanti, a parte la conquista di Oderzo: completo dissidio politico-religioso fra le due metropoli ecclesiastiche venete, e pieno appoggio del regno longobardo per il patriarcato scismatico e per le Chiese sue suffraganee in terra longobarda. Tornando alla controversia tra Aquileia e Ceneda, essa veniva in qualche modo composta dal vescovo ticinese Pietro, delegatovi da Liutprando, tuttavia il contenzioso si riaccendeva qualche tempo dopo ancora di fronte al re. Quanto alla perorazione del vescovo cenedese Massimo, successore di Valentiniano, che non intendeva riconoscere alcuna restrizione alla sua giurisdizione sulla terraferma già della cattedra di Oderzo, sempre il patriarca forogiuliano Callisto asseriva che le terre contestate fossero invece di sua esclusiva e indiscutibile competenza: “Questo territorio diocesano che tu richiedi deve appartenere a Forumiuli poiché, distrutta Oderzo, re Rotari lo accordò alla nostra Chiesa” 19. Al che Fausto, il messo del duca cenedese Aginualdo, confutando l’attestazione di Callisto, rendeva innanzi tutto manifesto che la stessa era nel complesso approssimativa e lacunosa. E noi diremmo che alla metà dell’VIII secolo, cioè ai tempi della vertenza raccontati nel placito, per quanto ne sapevano il metropolita aquileiese e la cancelleria pavese con lui, i fatti sull’origine della diocesi di Ceneda e la loro veridicità non erano più documentabili a memoria d’uomo. Ad ogni buon conto, nonostante il buio documentario del VII secolo, perfino le dichiarazioni di Callisto rendono palese che le vicende col trasferimento della sede diocesana dovevano ragionevolmente risalire a circa cent’anni avanti, e che in tutta la questione l’evento cruciale era stata la presa di Oderzo da parte di Rotari (notevole è da evidenziare che in tutto questo documento non si fa il minimo cenno alla posteriore distruzione della città e della divisione del suo territorio ad opera di Grimoaldo, circa del 668, raccontate invece da Paolo Diacono 20). La replica del legato del duca fu infatti chiara e categorica e, rintuzzando le pretese di Callisto, spiegava quando effettivamente fosse avvenuto il conferimento a Ceneda della diocesi opitergina, ossia sempre ai tempi di Rotari; e soprattutto ribadiva quale ne fosse l’indiscutibile principio di ordine giuridico: 19 Le obiezioni di Callisto: 'Si tu in sede Opitergina episcopus es consecratus, non solum hac parrochia carere debes, verum etiam a sacerdotali ordine merito es deponendus. Quoniam episcopus Opitergine civitatis, sede destructa, in quadam insula latitans vivus erat, quando tu presulatus honorem sumpsisti'; (...) 'Parrochia ista, quam nunc queris, ad Forumiulii pertinere debet, quia, Opitergio destructo, Rothari rex ipsam parrochiam nostrae ecclesiae concessit'. Il termine parrochia/paroichìa, usato promiscuamente con dioecesis, ha indicato a lungo la diocesi ed il territorio della città episcopale. Così a partire dall'imperatore Graziano del IV secolo (decreto caus. XIII, q.I, c.1); e fino a Gregorio IX del XIII secolo (Lib.III, tit.XXIX, de parochis et alienis parochianis). 20 P.D., V, 28. 4 ‘non è così come asserisci – argomentava Fausto - ma, distrutto Oderzo i Cenedesi ottennero il corpo di San Tiziano, e con decoro lo seppellirono, e per questa ragione a buon diritto la sede della santa Chiesa Opitergina risulta qui trasferita” 21. Consideriamo però che questa dichiarazione attesti solamente dell’accorpamento a Ceneda dell’eredità diocesana di Oderzo, poiché sempre nel placito di Liutprando così com’è, ci sarebbe nondimeno la testimonianza di una consacrazione episcopale a Ceneda in epoca ben precedente alla traslazione del nostro Santo Patrono (se ne è già accennato più sopra e lo vedremo meglio in prosieguo). 3. La questione sulle origini della diocesi. Tradizionalmente l’origine dell’episcopato a Ceneda viene fatta risalire ai primi anni di regno di Liutprando, con il coinvolgimento dello stesso re, e precisamente all’anno 713, o giù di lì, in cui sarebbe stato consacrato il primo vescovo Valentiniano. Questa datazione è sostenuta da valenti studiosi proprio in base all’ormai citatissima sentenza liutprandina 22. Così impostava l’analisi sull’origine diocesana il Botteon 23, dal quale più o meno dipendono tutti gli studiosi propensi ad assegnarne la fondazione agli inizi dell’VIII secolo: “Ceneda sentì il bisogno di avere una sede vescovile, e perciò … si addoperò vigorosamente per averla, fino da quando prodigiosamente accolse nella sua Chiesa principale il glorioso corpo di San Tiziano. Ma le difficoltà che impedirono ai cenedesi cattolici l’attuazione del progetto … furono tali, che le trattative con efficace risultato poterono iniziarsi soltanto al tempo … di Liutprando, … ; perché da molti anni era cessato lo scisma dei tre capitoli; perché si era spento il vescovado di Oderzo ad Eraclea”. A questa proposta il Paschini 24 obiettava categoricamente che se l’istituzione della diocesi cenedese fosse avvenuta sotto Liutprando se ne avrebbe più sicura notizia. Riformando ora completamente le “incredibili” impostazioni del Botteon, immaginiamoci se ai tempi di Liutprando, una dozzina d’anni dopo la chiusura dello scisma aquileiese e con entrambe le metropoli, Aquileia e Grado, in comunione con Roma, un papa avrebbe mai permesso o accettato la costituzione di una nuova sede episcopale, che ledeva i diritti e intaccava gli interessi patrimoniali di una preesistente giurisdizione diocesana, in pratica di Eracliana-Oderzo. E nel placito liutprandino ovviamente non c’è traccia dell’auctoritas papale! 21 Da CESSI, 1940, Documenti, n.27, pp.41 segg.: 'Cui e contra Faustus, missus Aginualdi ducis, ita respondebat: “non est ita, ut asseris, sed, Opitergio destructo, Cenitenses corpus sancti Ticiani habuerunt, et illud honorifice ibi sepelierunt, et ob hoc ibi sedes sanctae Opitergine ecclesiae merito mutata est'. Il “placito” di Liutprando ha fondamenti storici secondo il Cessi, mentre viene viene osteggiato dal Paschini. Qualche secolo più tardi, pure i Trevigiani trafugarono il corpo di San Tiziano, durante la tragica occupazione di Ceneda del 1199; essi probabilmente intendevano a loro volta, distrutta la cattedrale, assorbirne de iure la diocesi, ma papa Innocenzo III respinse il loro tentativo, e con un breve minatorio inviato 'sine salutatione', impose l'immediata restituzione delle reliquie. Sul breve di papa Innocenzo III del 27 Marzo del 1200, vedi FASSETTA C., 1917, Storia popolare di Ceneda, Vitt.Ven., p.112; dal PILONI G., Historia, III, p.179: 'Potestati et Populo Tarvisii sine salutatione. (...) Et cum Feltrensem, Bellunensem ac Cenetensem diocaeses fere penitus vastasseris: (...). Vos autem ex hoc deteriore effecti, et in Ecclesiam resurgentes Episcopatum Bellunensem et Cenetensem manu intrastis armata et multipliciter afflixistis. (...). Nuper etiam cum Vicentinis et Veronensibus coniurantes et cum multo exercitu irruentes in diocesim Cenetensem (licet servare firmam Treguam eidem Episcopo iurassetis) Ecclesiam tam matricem, quam alias diruistis, sanctorum reliquias asportantes; (...). (...) universitati vestrae per Apostolica scripta mandamus, et sub obtestatione divini iudicij districte praecipimus, quatenus super praedictis omnibus Deo et Ecclesiae Romanae, quam principaliter offendistis, satisfacere procuretis, ablata omnia restituentes Ecclesijs antedictis'. Alla devastazione trevigiana si dovrebbe imputare la sottrazione e quindi la drastica penuria di carte e di privilegi imperiali per la Chiesa di Ceneda anteriori al XII secolo. La successiva depauperazione documentaria viene comunemente attribuita ai saccheggi degli Ungari di parte imperiale del 1411. 22 BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso riguardo alle origini del vescovado di Ceneda, pp.100-102. Vedi CESSI, 1951, La crisi ecclesiastica, p.72, nota 1. Anche CANELLA G., Ricerche su Ceneda nell'alto medio evo (sec.VI-IX), tesi di laurea, rel. MOR C.G., a.a.1970-71, PD; e CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche, pp.98-99. Cfr. MASCHIETTO A., 1959, San Tiziano vescovo, patrono della città e diocesi di Vittorio Veneto; e TRAMONTIN S., 1983, Le origini del cristianesimo nel Veneto e gli inizi della Diocesi di Ceneda. 23 BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso, p.96. 24 PASCHINI P., 1946, Le origini della Chiesa di Ceneda, p.15. 5 Quanto fosse delicato l’argomento su nuove costituzioni episcopali e sulla modifica di confini diocesani ce lo ricordano le fonti con i ripetuti interventi da parte del papato al riguardo. Ce lo conferma, per rimanere nell’ambito veneto, la prudenza dimostrata da Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, sull’opportunità di concedere al primate Mariniano di Ravenna la facoltà di consacrare un nuovo vescovo nell’insula Capritana, seppur sollecitato dalla popolazione, e benché fosse forte l’intenzione di contrastare un presule scismatico e ostile al papato. Con la chiusura definitiva dello scisma aquileiese (circa del 698, come più avanti si vedrà), per quel che si constata, da parte di Roma si era opportunamente accettato lo stato di fatto circa la divisione dei territori veneti e delle diocesi suffraganee fra le due metropoli di Grado e di Aquileia. Il papato però si era sicuramente impegnato a salvaguardare l’integrità delle rispettive giurisdizioni. Lo dimostrerebbero ripetuti e risoluti interventi in difesa dei diritti e delle prerogative del patriarcato gradense, pressato da tentativi di usurpazione da parte dagli arcivescovi in terra longobarda. Quelli inoltre erano anni in cui i papi osteggiavano risolutamente qualsiasi turbamento degli equilibri geopolitici. Ottenevano tra l’altro dai re longobardi di farsi restituire o riconfermare alcune terre indebitamente occupate. Circa nel 705, papa Giovanni VII recuperava da re Ariberto II il patrimonio della Chiesa nelle Alpi Cozie occupato sulla riviera ligure fin dai tempi di Rotari; la restituzione veniva riconfermata da Liutprando nei suoi primi anni di regno. Questo re veniva successivamente indotto a riconsegnare il castello di Sutri alla cattedra di San Pietro 25. Nella Venezia, su insistente sollecitazione di re Liutprando, papa Gregorio II aveva inviato, nel 715, il pallio arcivescovile all’aquileiese Sereno (verosimilmente eletto qualche anno prima 26), con l’avvertimento di non tentare di invadere o di usurpare altrui diritti e giurisdizioni, e con l’esplicito monito a non superare i confini del regno longobardo. Lo stesso papa dovette nondimeno intervenire pesantemente presso Sereno, nel 723, piegandolo al rilascio di territori gradensi indebitamente occupati, a scanso di inevitabili e pesanti sanzioni canoniche 27. Un altro intervento del papa nella Venezia si registrava nel 725, quando Gregorio II costrinse a rientrare nella sua diocesi il vescovo di Pola, che aveva indebitamente occupato la sede vacante del patriarcato di Grado. Circa nel 730, sempre Gregorio II inviò il pallio al metropolita Callisto, con gli stessi ammonimenti fatti al suo predecessore Sereno. Anche questa volta rimasero inascoltati, e il nuovo pontefice Gregorio III 28, nel 734, dovette ancora minacciare pesanti sanzioni all’antistite forogiuliano per rintuzzarne gli ennesimi tentativi di usurpazione 29. Ora, ad accreditare, come appare ragionevole, questa risoluta opposizione dei papi ai tentativi di mutare gli equilibri delle giurisdizioni ecclesiastiche nelle Venezie, l’ipotesi di fondazione di una nuova diocesi a Ceneda succedanea di Oderzo nei primi decenni dell’VIII secolo ci sembra assolutamente improponibile. L’istituzione sarebbe stata oltretutto nulla o annullabile in base ai canoni e, guarda caso, Callisto con questa impugnabilità minacciava il vescovo Valentiniano nella sua testimonianza di fronte a Liutprando. Si è già citato il passaggio, ma vale la pena richiamarlo: “Se tu sei stato consacrato vescovo nella sede opitergina, non solo devi essere privato di questa diocesi, ma giustamente devi essere deposto perfino dall’ordine sacerdotale”, appunto perché, ‘autoritatem canonicam diligentissime inspicientes’, il titolare opitergino era ancora vivo e attivo in “qualche” isola della laguna. 25 P.D., VI, 28 e 43 (cfr. RONCORONI, 1974, p.202, note 65-67). ANAST. BIBL., S.Gregorius II, PL 128, coll.975-76 (179 rr.1-3); e coll.981-82 (186 rr.1-6). 26 Il BOTTEON, 1907, p.100, erra sulle cronologie di Sereno e di Callisto. 27 Da IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, col.895 B (lo stesso in Chronici Gradensis suppl., PL 139, col.953 B; e CESSI, 1940, Docum., n.16 del 723, p.26): “Ordunque, per assecondare le preghiere del re, esimio filio nostro ... , ti abbiamo inviato il pallio, vietandoti e proibendoti tra l'altro, di invadere in alcun modo i diritti altrui o di usurpare temerariamente le altrui giurisdizioni, e imponendoti di restare contento di quello che già possedevi. (...) e che tu non presuma assolutamente di passare oltre i confini esistenti del popolo longobardo”. Le usurpazioni riguardavano terre gradensi e comunicazione della lettera minatoria a Sereno, venne inviata ai vescovi della Venetia et Hystria (e al patriarca Donato di Grado) suggerendo loro di stare accorti e, nel caso, di reagire ai soprusi (IOAN. DIAC., Chron. Grad. suppl., col.954 B. Cfr. CESSI, Doc., n.17; infra). 28 Gregorio II papa morì l’11 Febbraio del 731 e Gregorio III fu consacrato il 29 Novembre 731.**** 29 Su Pietro di Pola: CESSI, 1940, Docum., n.18, p.28; su Callisto: CESSI, Doc., n.23, p.38 [infra]. 6 Che le disposizioni canoniche fossero esplicite al riguardo, ne troviamo traccia anche nella Vita di San Tiziano. Quando questi da coepiscopo ebbe notizia che il titolare della cattedra opitergina Floriano era ancora vivo, recatosi da lui in terra di missione lo esortava a ritornare in sede, perché lui vivo nessuno poteva ottenerne l’incarico episcopale: ‘quia te vivente ibi nemo preesse potest’ 30. Sull’istituzione diocesana a Ceneda nell’VIII secolo insistevano però il Botteon, e pure il Tramontin, anche se meno decisamente, argomentando che proprio l’estinzione (sic!) del vescovado di Oderzo-Eracliana avrebbe fornito la giustificazione per un’incontrastata traslazione della sede episcopale in terra longobarda. La cessazione del vescovado di Eracliana sarebbe provata, per il Tramontin, dall’interruzione della lista episcopale e dall’abbandono della città 31. Tuttavia Eracliana, civitas bizantina e innegabilmente un tutt’uno inscindibile con la sua Ecclesia e col suo vescovo, rimase capitale della Venetiarum provintia, nonché centro di gravitazione e nucleo propulsore del Veneciae ducatus, quantomeno fino al 755, secondo le fonti più antiche ed accreditate 32. Ancora in quegli anni, poco prima del 750, proprio coi Civitatini novi (e Cittanova-Eracliana era tutt’altro che in declino!) ebbe a che fare il longobardo Astolfo; questi confermava loro la confinazione tra Piave e Livenza già stabilita qualche lustro avanti col trattato dei tempi di re Liutprando, come si legge espressamente nell’art. 26 del pactum Lotharii 33. Eracliana, sempre secondo il Chronicon Venetum, sarebbe stata ripetutamente “distrutta” e bruciata solo a partire dai primi anni del IX secolo, ai tempi dei duchi associati Obelerio e Beato 34. La civitas, malgrado ciò e non incredibilmente, continuò per qualche secolo ad esistere col suo episcopato 35. Se cadono dunque tutti i presupposti per l’ipotesi di una costituzione diocesana a Ceneda all’inizio dell’VIII secolo, ecco di seguito un indizio che porterebbe ad anticipare nel tempo il campo d’indagine sulle origini del nostro vescovado (ove non sia da confinare tra le altre evidenti contraddizioni cronologiche del placito liutprandino). Nella narrazione della sentenza viene riferito che l’iniziativa longobarda di un nuovo episcopio a Ceneda aveva avuto il sostegno del patriarca Giovanni, che al tempo di Liutprando era già “di buona memoria” 36. Identificando questo metropolita col tricapitolino Giovanni I, come più sopra si diceva, poiché il suo zelo col favore di Teodolinda e di Agilulfo aveva già inserito a Como il vescovo Agrippino, ciò darebbe consistenza all’ipotesi che anticipa l’istituzione della diocesi a Ceneda ai primi decenni del VII secolo. 30 In MASCHIETTO, 1959, San Tiziano vescovo, patrono della città e diocesi di Vittorio Veneto, pp.125-134. Da Legendae de Tempore et de Sanctis di Pietro Calò da Chioggia, testo sempre in MASCHIETTO, cit., pp.29-33 [traduzione infra; e testo in Append. A, Fonti]. 31 BOTTEON, 1907, Un documento prezioso, p.102; TRAMONTIN S., 1983, Origini, p.35. 32 Nel Chronicon Venetum, la fonte più antica (ed. Pertz, curata in base al Cod. Urbin. Vatic. n.440 dell’XI sec., integrato nelle lacune dal cod. Vatic. n.5269 della metà del XIII sec.; precedenti quindi alla Chronica del Dandolo), sia il contestato 'Paulitio dux', che i più realistici 'Marcellus dux' (727-739) e 'Ursus dux' (739-750) venivano tutti assunti in carica 'apud Civitatem novam' (IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, coll.892-894). Dopo l'intermezzo quinquennale dei magistri militum, nel 755, venne eletto a duca Deusdedit, figlio di Orso Ypato, 'in Metamaucense insula' (Chron. Ven., col.895 D), ed a Malamocco si trasferì da allora il governo della provintia. 33 CESSI, 1940, Docum., n.55, p.107: 'De finibus autem Civitatis Novae statuimus ut, sicut a tempore Liuthprandi regis terminatio facta est (...), ita permanere debeat, secundum quod Aistulfus ad vos Civitatinos novos largitus est' (vedi più avanti). 34 Sulla distruzione di Eracliana (~ aa.803-806): 'Tunc hisdem Obelierius audacter Veneciam intravit; (...) Hac etiam tempestate Civitas nova, quae vocatur Eracliana, a Veneticis destructa est' (Chron. Ven., col.897 C-D). E più avanti, a col.898 C-D: 'Eodem quoque tempore civitas Eracliana a Veneticis iterum devastata et igne combusta est'. 35 Il I Maggio del 995 pure Ottone III confermava la convenzione fra Longobardi e Venetici, dei tempi di Liutprando, sui confini settentrionali di Eraclea; e concedeva all'episcopio di Cittanova le decime sui territori compresi entro quei confini. Il doc. è contenuto nella sentenza del 25 Marzo 996 (in PELLEGRINI F., 1870, Appendice a Ricerche sulle condizioni politiche, doc.II, pp.47-8; e infra): 'Confirmamus etiam, ut ab hoc termino predicto usque ad mare episcopatus civitatis Heracliane totam decimam in integrum habeat'. 36 Da CESSI, 1940, Docum., n.27, p.42: 'Nos vero canonicae auctoritatis reminiscentes, quia, ubi plebs crescit, episcopum ordinandi licentia est, adhortavimus eum ut accederet ad patrem nostrum bone memorie Iohanem scilicet patriarcham, ut de hac causa juxta sacros canones ordinaretur. Qui, dum insimul inde collocutiones habuissent, in jamdicto Cenetense castro episcopum, Valentinianum nomine, consecravit patriarcha'. 7 Alcuni passaggi nel testimoniale del documento liutprandino, così com’è, sembrerebbero tuttavia escludere una tale impostazione cronologica. In particolare dove il forogiuliano Callisto sostiene - e l’argomento viene presentato come risaputo ed incontestabile - che il vescovo Valentiniano solo “dopo la distruzione di Oderzo, aveva assunto l’onore dell’episcopato”. Vedremo poi come si abbia modo di superare questa testimonianza, pur mantenendone alterato sia il valore che i riferimenti cronologici. Ipotizzato allora che il patriarca consacrante Giovanni potesse essere un secondo con tale nome, anche il suo coinvolgimento farebbe ascendere in buona sostanza la costituzione della diocesi cenedese circa alla metà del VII secolo. E pure il Tramontin non ne escludeva un’anticipazione al patriarca Giovanni II. Lo stesso studioso avrebbe pensato, in alternativa, anche ad un ipotetico Giovanni III, portando quindi la data d’inizio della nostra diocesi agli anni 680-685; e si sarebbe così in qualche modo allineato col suggerimento del Paschini 37 che associava la fondazione diocesana in Ceneda alla seconda (dubbia) distruzione di Oderzo perpetrata da re Grimoaldo, quindi attorno al 668. Alcuni altri studiosi, fra questi il Botteon, argomentavano che il primate consacrante potesse essere addirittura un quarto di nome Giovanni, non altrimenti documentato che in tardi e contestati cataloghi cividalesi che, con un giro vizioso, dipenderebbero per la notizia dallo stesso placito liutprandino. L’appoggio poi su questo fantomatico Giovanni IV, faceva combinare i tempi e concorreva ad accreditare l’ipotesi della fondazione diocesana in Ceneda ai primi anni di Liutprando 38. Si deve però far rilevare con forza che l’intrusione nella cronotassi aquileiese di questo presunto Giovanni IV tra i presuli Pietro e Sereno, ha la pretesa di far accantonare la testimonianza di Paolo Diacono, che pone questi due metropoliti in diretta successione fra loro. Malgrado tutti gli errori e le inesattezze dimostrate nella Historia Langobardorum, è estremamente improbabile che proprio in questo caso il diacono cividalese, conterraneo e quasi contemporaneo agli eventi, avesse sbagliato 39. Seriamente inficiata quindi la proposta sull’istituzione del nostro episcopato ad opera di Liutprando, per un convincente inquadramento nel tempo dell’origine diocesana, dobbiamo necessariamente ricadere nel secolo precedente, nel VII; e ancora una volta, ricercarne la genesi nel contesto dello scontro fra gli scismatici delle terre longobarde e i cattolici delle province imperiali. Ecco ora la sequenza dei metropoliti aquileiesi, documentati, supposti o arbitrariamente interpolati, a partire dai tempi della duplicazione del patriarcato. Tabella: Metropoliti aquileiesi in terra longobarda. Metropoliti Giovanni I (607- ?) [Marciano] [608 ?!] Fortunato (- 628 -) Felice (?) Giovanni II (?) FONTI e COMMENTI Eletto alla morte di Severo (P.D, IV, 33). Scrisse nel 607 una petizione ad Agilulfo (Cessi, 1940, Doc., 12; in doc.50). Inserì il vescovo Agrippino a Como (Troya, CDL, I, p.579). Per il Paschini (1975, Friuli, p.117) si tratterebbe eventualmente di un patriarca gradense (lo elenca Giovanni Diacono, Chron. Ven., col.951; probabilmente congetturato in base all’epigrafe in Sant’Eufemia). Apostata e transfuga in terra longob., ricordato nella lettera di papa Onorio I del 628 (Cessi, Doc., n.13); e in Giovanni Diac., Suppl., col.951. Il Paschini (1975, Friuli, p.128, nota 27; e pp.128-131) sospetta che questi nomi - e quello di Giovanni IV - siano stati inseriti 37 TRAMONTIN S., 1983, Origini, p.35. PASCHINI P., 1946, Le origini della Chiesa di Ceneda. I già citt. BOTTEON, 1907, Un documento prezioso. CESSI, 1951, La crisi ecclesiastica. CANELLA G., 1970-71, Ricerche su Ceneda; CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche. 39 E’ la fonte più antica e più attendibile perché quasi contemporanea ai due metropoliti Pietro e Sereno: Paolo Diacono nasce difatti a Forumiuli tra il 720 ed il 724 (RONCORONI, 1974, Introduzione, p.V); o, per le due tesi estreme, tra il 714 ed il 730 (BARTOLINI, 1982, I Barbari, p.869). 38 8 Giovanni III (?) (~580-585 ?) “come riempitura del catalogo episcopale rimasto interrotto”. Di parere contrario il Cessi (1951, La crisi ecclesiast., p.72, n.1). Probabilmente in carica fin dalla chiusura dello scisma tricapitolino, Pietro muore (intorno al 715 per Paschini, 1975, Pietro (~ dal 687 al 711-715). p.131; Roncoroni, 1974, p.204, nota 81; Brozzi, 1981, p.44) circa al tempo del decesso dell’imp. Giustiniano II Rinotmeto (del 711), e gli succede Sereno (P.D., VI, 33). Contestato anche dal De Rubeis. Vedi Paschini, 1975, p.128-131. [Giovanni IV] Inserito in alcuni tardi cataloghi solo in base alla generica citazione nel nostro placito di Liutprando del 743. P.D, VI, 33 e 45. Nel 715 riceve il pallio dal neo-eletto papa Sereno (~ dal 711-715 al ~730). Gregorio II, su pressante sollecitazione del re; e nel 723 una lettera di biasimo dallo stesso Gregorio II (Cessi, Doc., n.16). P.D., VI, 45 e 51. Riceve il pallio da Gregorio II; e nel 734 una minatoria da Gregorio III (Cessi, Doc., n.23); è in conflitto col Callisto (~ dal 730 al ~756) vescovo cenedese (vedi placito del 743; Cessi, Doc., n.27). 4. Il placito di Liutprando. E’ tempo che si proponga il testo della controversa sentenza. Essa, pervenutaci in una stesura del IX-XI secolo, è datata al 6 Giugno 743 40. Sulla sua autenticità si è dubitato, nella sostanza viene tuttavia ritenuta storicamente valida 41. Qui è riprodotta nella traduzione Botteon Faldon, con qualche lieve aggiustamento 42: “Nel nome del Signore Dio eterno. Liutprando, Re per bontà della Provvidenza celeste. 1. E’ cosa ben conosciuta e si può anche provare che in passato, prima che la città di Oderzo fosse presa dai Longobardi vi sia stata in quel luogo, fino dai tempi antichi, una sede vescovile. Ma dopo che la medesima città fu occupata dai Longobardi, e il vescovo di Forumiuli e quello di Treviso e Padova si divisero tra loro la diocesi, la sede opitergina si fece quasi vuota e senza patrimonio. 2. Al tempo nostro si presentò a noi il nostro duca Teudemar, supplicando umilmente la nostra maestà perché avessimo a costituire una sede vescovile nella nostra città-forte di Ceneda. E che permettessimo di consacrare ivi un vescovo. Memori quindi che la legge canonica dà licenza di ordinare un vescovo là dove numerosa è la popolazione, lo abbiamo sollecitato a presentarsi al nostro padre Giovanni, di santa memoria, cioè al patriarca, perché regolasse questa faccenda in conformità ai sacri canoni. Questi, dopo aver insieme dialogato e discusso, consacrò vescovo, nella già accennata città-forte di Ceneda, Valentiniano. 3. Avvenuto questo, il medesimo Valentiniano venne alla nostra presenza, supplicandoci umilmente che ci degnassimo di assegnare e confermare a lui le pievi e la diocesi che già appartennero alla sede di Oderzo. Ciò noi così abbiamo fatto. 4. In seguito però, il patriarca Callisto e lo stesso Valentiniano ebbero tra loro una vertenza circa la diocesi e vennero così alla nostra presenza. Diceva il predetto vescovo Valentiniano: “Io sono stato consacrato vescovo nella sede opitergina, per questo devo avere e possedere anche quelle parrocchie che ad essa spettavano e che tanto voi, quanto il vescovo di Treviso e Padova occupate”. Rispondevagli di contro il patriarca Callisto: 40 Testo latino in MINOTTO A.S., 1871, Documenta, p.2 segg.; CESSI, 1940, Docum., n.27, pp.41-44; CANELLA G., Ricerche su Ceneda, p.72 e segg. 41 Sulla validità storica del placito BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso riguardo alle origini del vescovado di Ceneda. Pure il CESSI, 1951, La crisi ecclesiastica veneziana, V, 3, pp.67-79. Sul placito e sugli autori che ne hanno discusso vedi ampiamente in MASCHIETTO A., 1959, San Tiziano vescovo, pp.87-120. 42 BOTTEON V., 1907, Un documento prezioso, pp.95-112; pure nei risvolti di copertina degli atti del convegno su Le origini del cristianesimo tra Piave e Livenza, Vitt.Veneto, 1983, Quad.5 de “L’Azione”. FALDON N., (a cura di-), 1993, Diocesi di Vittorio Veneto, Noventa Padovana, pp.45-48. 9 “Se tu sei stato consacrato vescovo nella sede opitergina, non solo devi essere privato di questa diocesi, ma giustamente devi essere deposto perfino dall’ordine sacerdotale. Infatti il vescovo di Oderzo, dopo la distruzione della sede, era ancora vivo nascosto in qualche isola, quando tu hai assunto l’onore dell’episcopato”. E finché discutevano tra loro non abbiamo voluto definire la questione, così li abbiamo indirizzati a Pietro vescovo della Chiesa di Pavia, di santa memoria. 5. Alla fine si stabilì fra loro che il vescovo Valentiniano lasciasse al patriarca Callisto quattro pievi, poste lungo la via come luoghi di riposo e di ristoro, di modo che, ogni qualvolta Callisto andasse da Forumiuli alla reggia di Pavia e ne ritornasse, ivi potesse trovare sollecita accoglienza. Con questa clausola però, che dopo la morte di Valentiniano quelle stesse pievi ritornassero al vescovado di Ceneda e quindi ai di lui successori. 6. Morto Valentiniano, venne consacrato vescovo, dal sopraddetto patriarca, Massimo. Prima però di consacrarlo gli fece promettere e scrivere di proprio pugno che mai, in seguito, avrebbe fatto ricorso al riguardo delle quattro pievi, né avrebbe mai mosso querela, né mai avrebbe ardito agire contro la promessa fatta per iscritto. Conosciuta la cosa, il duca Aulmo non volle che passasse sotto silenzio. Ma appena avviata la vertenza, egli si ammalò e venne tolto da questo mondo. 7. Al suo posto abbiamo ordinato duca, in nome di Dio, Aginualdo. Questi pure non volle che la questione fosse messa a tacere. Ritornato da noi il patriarca Callisto, il duca Aginualdo ci inviò un suo messo di nome Fausto, con l’incarico di trattare la questione nel sacro palazzo, in nostra presenza, con lo stesso Patriarca, con Tiziano vescovo di Treviso e Padova. Diceva Fausto, il messo del duca Aginualdo, avviando la perorazione della vertenza: “O padre Callisto patriarca, ti prego per amore di Dio onnipotente che, rimesso ogni pretesto, tu abbia a restituire subito a Massimo, nostro vescovo, il territorio diocesano del vescovado di Ceneda che tu, ingiustamente e con la forza, detieni contro ogni diritto. Accontentati dei tuoi; non voler godere di quelli degli altri. La Chiesa di Massimo infatti, senza quel medesimo territorio diocesano, ad essa molto vicino, non può stare bene”. A ciò il patriarca Callisto rispondeva. “Questo territorio diocesano che tu richiedi deve appartenere a Forumiuli poiché, distrutta Oderzo, re Rotari lo accordò alla nostra Chiesa”. Fausto, l’inviato del duca Aginualdo, replicava: “Non è così come tu dici. Dopo la distruzione di Oderzo i Cenedesi ebbero il corpo di san Tiziano e lo seppellirono con onore. Fu per questo che là a buon diritto venne trasferita la sede opitergina. La sede di Ceneda una volta soggetta a Oderzo, cambiata la sorte, deve, con l’aiuto di Dio, avere legalmente e possedere doverosamente e per sempre l’intera diocesi, tutte le parrocchie e le chiese che in antico furono sotto il vescovo opitergino”. 8. Alla fine dunque interrogarono sia il patriarca Callisto sia Tiziano vescovo di Treviso e Padova, sia Fausto il messo del duca Aginualdo, per sapere se anticamente vi fosse stata nella città-forte di Ceneda una sede vescovile, oppure no. Fu chiarito con molte prove che Massimo era il secondo vescovo e che un tempo, quando nella città di Oderzo era in vigore la sede vescovile, le chiese cenedesi erano soggette a quella. Ci parve allora cosa giusta e conforme ai sacri canoni, d’accordo con gli stessi padri, cioè Callisto e il vescovo di Treviso e Padova, che il vescovado di Ceneda avesse e possedesse tutto il territorio della diocesi che un tempo era stato della Chiesa Opitergina. Allora i predetti padri, Callisto patriarca, Tiziano vescovo di Treviso e Padova, furono d’accordo di cedere integralmente, e realmente cedettero, all’attuale vescovo Massimo e ai suoi successori, il territorio che risultava possedere, in antico la sede di Oderzo, dopo aver esaminato accuratamente le disposizioni dei sacri canoni. E cosi ebbe termine la vertenza. 9. Pertanto, ora e in perpetuo, vogliamo e ordiniamo con fermezza che tutte le parti rispettino questa definitiva deliberazione; dando precipuamente questi ordini a tutti i patriarchi, vescovi, duchi (, marchesi), conti e a tutti i nostri sudditi. Nessuno, in alcun tempo, abbia l’ardire di insorgere contro questa nostra deliberazione e decisione legittima. Ma sempre, e più che mai nel 10 periodo degli anni felicissimi del nostro Regno, si rimanga pacificamente nei termini di questa deliberazione. 10. Per ordine del detto Sovrano e Re, io Atto notaio scrissi quale vice del notaio Walchis. Dato nel palazzo ticinese, il giorno sei del mese di Giugno dell’anno trigesimo primo del nostro felicissimo Regno, nell’indizione undecima. Felicemente”. In calce al documento vengono elencate le seguenti località: '... in Viconovo, in onore di San Vigilio, avendo soggette queste ville di San Floriano sotto il colle, villa Auriliga, villa Adolaria, villa Cornaria, villa Balnanica, villa Calbonaca, villa Cappraria, villa Mucinica, villa Amiriana, villa Avivaria, villa Carpinica di supra, villa Carpiniella, villa Ancillarola, villa Ballanica'. Vediamo ora se e come è possibile mettere dei punti fermi sull’origine dell’episcopio cenedese, ricapitolando i dati salienti ricavabili da alcuni passaggi del placito, alla luce di altre fonti e degli avvenimenti storici. Qui si delineano subito chiaramente tre stadi in sequenza sull’origine e sull’evoluzione della diocesi. A - Istituzione in Ceneda di un episcopio originario. B - Accorpamento a Ceneda dei diritti sulla diocesi opitergina. C - Rivendicazione sui territori opitergini. 5. Istituzione della diocesi come originaria. “Il duca cenedese Teudemar si presentò al re e chiese la costituzione di una sede vescovile nel castrum di Ceneda. Il re pro tempore, memore che la legge canonica permette di ordinare un nuovo vescovo là dove la popolazione è numerosa, rinviava la questione al patriarca Giovanni, che in conformità ai sacri canoni, consacrò vescovo Valentiniano” 43. Questo è innegabilmente l’atto di nascita dell’episcopio cenedese, che, quanto a fondazione, “perché la popolazione vi era numerosa”, si configura in base ai sacri canoni come originario 44, nel senso che il suo ordinamento non deriva titolo e legittimità da nessun’altra precedente sede diocesana. Il fatto accessorio e non secondario che nella sua petizione al re il duca cenedese non accenni alla presenza a Ceneda delle reliquie di San Tiziano, e al conseguente diritto al titolo e alla diocesi opitergina (come si è ragionato più sopra), darebbe corpo alla considerazione che quando la supplica fu avanzata, Oderzo era ancora ben salda nella sua funzione militare e dirigenziale, ed erano di là da venire i tempi della conquista rotariana. Queste due argomentazioni, rilevabili dalla sentenza, cioè originarietà della diocesi cenedese e concomitante indisponibilità di quella opitergina, farebbero spostare ampiamente indietro nel tempo il momento dell’istituzione della nostra Chiesa. Si esclude vieppiù sull’origine il riferimento a Liutprando, sul quale si è ampiamente detto; e si considerano quindi interpolate le annotazioni cronologiche che nel brano considerato a lui si riferiscono, come quella ‘tempore autem nostro’. 43 Dal placito liutprandino: '(Tempore autem nostro) accessit ad nos Teudemar, dux noster, nostram humiliter postulans celsitudinem, quatenus in Cenetense castro nostro episcopalem sedem faceremus episcopatumque ibi consecrare permitteremus. Nos vero canonicae auctoritatis reminiscentes, quia, ubi plebs crescit, episcopum ordinandi licentia est, adhortavimus eum ut accederet ad patrem nostrum bone memorie Iohanem scilicet patriarcham, ut de hac causa juxta sacros canones ordinaretur. Qui, dum insimul inde collucutiones habuissent, in jamdicto Cenetense castro episcopum, Valentinianum nomine, consecravit patriarcha'. 44 La nuova istituzione ottemperava espressamente al canone VI, 5 del concilio di Sardica (Sofia), del 347, che permetteva di creare nuovi vescovi in centri popolosi: ‘Si autem inveniatur urbs aliqua, qua adeo populosa evadat, ut ipsa episcopatu digna judicetur, accipiat’ (MANSI J.D., 1759, t.3, Concilium Sardicense (a.347), can.VI, 5, coll.11). 11 Se si ammette poi che il ratto di San Tiziano non era ancora avvenuto, l’istituzione originaria della diocesi di Ceneda si può ragionevolmente inquadrare nel clima politico-religioso della prima metà del VII secolo. Si è già illustrato che con la duplicazione del patriarcato, circa nel 607, si ruppe il fronte scismatico unitario nella Venezia. Anche l’antica unità della diocesi opitergina dalle Prealpi al mare fu spezzata, e le popolazioni cattoliche-tricapitoline delle terre pedemontane del ducato longobardo si separarono dalla comunità opitergina di osservanza cattolico-romana. Essendo rimasti nullius dioeceseos, non ci furono impedimenti a che i Cenedesi si potessero organizzare in una nuova comunità ecclesiale e, col pieno appoggio delle stesse gerarchie longobarde, si mossero in tal senso. Si potrà poi dibattere se la fondazione originaria della nostra diocesi sia da assegnare all’attivismo del metropolita scismatico Giovanni I (come appare probabile), col favore di Teodolinda e di Agilulfo. Potrebbe essere attribuita, senza alcun appiglio logico, anche ai tempi di “Giovanni II”, ma ciò sposterebbe di poco gli ambiti cronologici; purché la costituzione sia intesa negli anni precedenti la distruzione rotariana di Oderzo e il concomitante ratto delle spoglie di San Tiziano, che rappresenterebbero il terminus ante quem. La primitiva diocesi di Ceneda doveva estendere la sua giurisdizione sul castrum, sulle farae, sugli autoctoni e sulle altre gentes delle terre pedemontane tra Piave e Meduna, dalle Prealpi alla linea delle risorgive, circa fino alla Postoima - Ungarica. Si insinuava con ogni probabilità nelle Prealpi lungo la via militare del Praderadego, con un’ampia fascia di contrade tra il torrente Limana ad Est ed il Rimonta ad Ovest, fino alla sinistra-Piave in Valbelluna. Questi confini pedemontani e prealpini sono documentati in un privilegio carolino dell’VIII secolo per la Chiesa Cenedese 45, e pressoché tali si sono conservati fino ai nostri giorni, con l’esclusione attualmente di gran parte delle comunità religiose tra il Livenza ed il Meduna. 6. Accorpamento dei diritti sulla diocesi opitergina. “Valentiniano si recò in seguito dal re chiedendo che gli venissero assegnate e confermate le pievi e la diocesi che già appartenevano alla sede di Oderzo. E così fu fatto” 46. I Longobardi, dopo la conquista rotariana del capoluogo romaico, avevano opportunamente trafugate le spoglie di San Tiziano, e ciò forniva il fondamento giuridico per accorpare a Ceneda i diritti sulla diocesi opitergina e, in quei frangenti, solo sui territori occupati. Così il messo Fausto nel testimoniale della sentenza: “Dopo la distruzione di Oderzo i Cenedesi ebbero il corpo di san Tiziano e lo seppellirono con onore. Fu per questo che là a buon diritto venne trasferita la sede opitergina”. Quanto alla data dell’assegnazione a Ceneda, è improbabile che essa fosse avvenuta a decenni di distanza dalla presa di Oderzo 47, benché nel prologo alla sentenza il cancelliere anticipi e integri una versione dei fatti espressa invece nel testimoniale, “che dopo l'occupazione longobarda di Oderzo il vescovo forogiuliano e quello di Treviso e Padova, com'era notorio, si erano divisi la diocesi, rimanendo la sede opitergina quasi vacua et sine omni patrimonio”. Quest’esposizione è in chiaro contrasto con quanto dichiarato qualche riga più sotto nell’antefatto, cioè che quegli stessi territori, di recente conquista, erano stati concessi senza indugio al vescovo cenedese che li richiedeva: 'Quod nos ita fecimus', attestava lo stesso re (pro tempore). 45 MGH, Dipl. Karol., I, doc.177, p.238 (infra). 'Post hoc autem factum idem Valentinianus nostram presentiam adiit, humiliter nos obsecrans ut ei confirmare et corroborare plebes et parrochiam, quae Opitergine sedi pertinuerunt, dignaremur, quod nos ita fecimus' (dal placito). 47 Sempre ai tempi di Rotari le fonti venetiche asseriscono della traslazione episcopale da Oderzo a Cittanova, e da Altino a Torcello. Così IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, su Cittanova: 'Postquam autem Opiter(g)ine civitas a Rhotari rege capta est, episcopus illius civitatis auctoritate Severiani papae hanc Eraclianam petere ibique suam sedem confirmare voluit' (col.878 D); e su Torcello: 'cuius tempore Maurus Altinensis episcopus, non ferens Langobardorum insaniam, Severini papae auctoritate ad Torcellensem insulam venit, ibique suam sedem corroborare et pro futuro manere decrevit' (col.889 C). 46 12 Ed è importante far notare, per quanto narrato, che non ci fu allora nessuna contestazione, almeno finché la questione non fu rievocata ai tempi del patriarca Callisto (che ricevette il pallio da papa Gregorio II nel 730). La faccenda nel VII secolo era evidentemente congeniale alla politica del regno longobardo, e da questo punto di vista la traslazione in terra longobarda dei diritti e dei benefici del vescovado opitergino assumeva un grande valore. Non secondario, a ben vedere, che essa avrebbe dato motivo ai Longobardi di accampare pretese e farsi promotori in prosieguo di rivendicazioni anche su tutti i superstiti territori della provintia romaica già opitergina, Eracliana compresa. Non dimentichiamo che Opitergium era il capoluogo della Secunda Venetia, e la debellatio della piazzaforte fu completata con l'annichilimento della comunità civile-religiosa. L'identità civile-militare della città ebbe infatti le mura distrutte dalle fondamenta e la popolazione fatta prigioniera o dispersa. Sotto l'aspetto ecclesiastico fu nondimeno mortificata, e con il ratto delle reliquie di San Tiziano ne fu trafugato il titolo giuridico alla sede episcopale, l’altro pilastro costitutivo della civitas bizantina. La vicenda ebbe grande risonanza e l’eco giunse fino in Gallia, dove Fredegario spiegava appunto, con cognizione di causa e con qualche dettaglio tecnico, che ai tempi di Rotari la civitas di Ubitergium era stata ridotta al rango di vicus 48. 7. Rivendicazione sui territori opitergini. “In seguito il patriarca Callisto e il vescovo Valentiniano ebbero tra loro una vertenza davanti al re Liutprando sui territori della diocesi opitergina, spartiti fra la Chiesa Aquileiese e la diocesi di Treviso e Padova. La questione fu demandata al presule Pietro di Pavia e fu definita con la concessione di quattro pievi al patriarca 49. L’episcopio e le autorità laiche cenedesi rivendicavano però quelle pievi, e la lite, agitata ancora di fronte al re, fu risolta con una sentenza regia che decretava il completo reintegro della giurisdizione cenedese su tutte le pertinenze della diocesi già opitergina”. Per quanto si apprende da Paolo Diacono, le terre sottratte alla provincia romaica già opitergina furono spartite ad opera di Grimoaldo, circa nel 668, tra i ducati di Ceneda di Forumiuli e di Treviso. Anche nel prologo del placito liutprandino si fa riferimento alla spartizione, e pure nella testimonianza di Callisto inserita nella sentenza, il quale nondimeno attribuiva a Rotari l’assegnazione dei diritti alla sua Chiesa. Se abbiamo qualche sospetto, e se ne è detto sopra, su una seconda conquista e distruzione di Opitergium ad opera di Grimoaldo, non c’è però dubbio che le terre opitergine allora incorporate nelle prouinciae longobarde venissero aggregate alle rispettive diocesi episcopali, poiché era ormai lunga prassi che le giurisdizioni ecclesiastiche si adattassero alle confinazioni civili. Quando il presule cenedese, presentatosi successivamente come erede della sede opitergina, pretese la ricongiunzione di tutti quei territori provinciali, di qui presumibilmente la lite (che possiamo anche riferire ai tempi di Liutprando, benché questa attribuzione non sia perfettamente congrua), la sua richiesta era obbiettivamente inaccettabile, salvo pretendere di rettificare i confini di tre distrettuazioni del regno. Fausto, il messo del duca cenedese così perorava con fiducia: “La sede di Ceneda una volta soggetta a Oderzo, cambiata la sorte, deve, con l’aiuto di Dio, avere legalmente e possedere doverosamente e per sempre l’intera diocesi, tutte le parrocchie e le chiese che in antico furono sotto il vescovo opitergino”. 48 FREDEGAR., Chron., LXXI, PL 71, col.651: 'Chrotharius cum exercitu ..., Ubitergium, et ... civitates littoris maris de imperio auferens vastat, rumpit, incendio concremans, populum diripit, spoliat et captivitate condemnat; murosque earum usque ad fundamentum destruens, vicos has civitates nominare praecepit'. Uno dei tratti distintivi della città era proprio la cinta muraria: ‘Nam urbs ipsa moenia sunt’ (ISID. HISP., Etym., XV, 2, 1, PL 82, col.536 C). 49 'Et dum hec inter se agerent, hanc, rationem inter eos diffinire noluimus, sed direximus eos in presentiam beate memorie Petri, Ticinensis ecclesiae episcopi. Tunc demum stetit inter eos, ut laxaret isdem Valentinianus episcopo Calisto patriarche quattuor plebes' (dal placito). 13 Se fu accolta la sua richiesta, lo fu solo in parte, con qualche aggiustamento; fermo restando che i territori a Est del basso Livenza (in precedenza dell’episcopio concordiense), furono confermati alla Chiesa Forogiuliana; quelli a Ovest del basso Piave (un tempo di Altino) passarono definitivamente alla Chiesa Tarvisiana. Restava accorpata alla diocesi di Ceneda quella parte della giurisdizione ecclesiastica già opitergina compresa tra Piave e Livenza, dalla laguna eracleana e su fino all’area delle risorgive e delle paludi. Stranamente nel dispositivo della sentenza non viene ricordato che nelle terre bizantine esisteva un’altra Chiesa legittima erede di Oderzo, quella di Cittanova Eracliana. Questa, nel 743, era ancora la capitale del Veneciae ducatus, e avrebbe potuto trovare sostegno nei sacri canoni per rivendicare i suoi diritti diocesani e la giurisdizione sui territori perduti. Non viene neppure accennato che qualche anno prima, circa nel 736, tra il duca di Ceneda, Paulizione, ed il magister militum di Cittanova, Marcello, c’era stato un accomodamento confinario su quelle stesse contrade, la “terminatio liutprandina”. Questa importantissima composizione confinaria (infra), annotata in tutte le antiche cronache venetiche, poiché dichiaratamente chiudeva annose dispute territoriali fra i Longobardi del Cenedese e la provintia imperiale di Eracliana, avrebbe dovuto essere almeno accennata, o influenzare in qualche modo la stesura del placito. Questa lacuna porterebbe credito all’ipotesi che una prima manipolazione o compilazione della sentenza liutprandina sia avvenuta circa agli inizi dell’XI secolo, quando nelle cronache lagunari si erano ormai travisati sia il senso originale del patto di confinazione, che la figura dei protagonisti. Resta tuttavia il fondato sospetto che il nucleo originario della sentenza sia comunque attribuibile ad un qualche anno avanti l’accordo confinario. Per ipotesi, se elaborato in base a fonti storicamente attendibili, il documento datato al 743 darebbe l’idea di essere stato redatto avendo come ordito un arbitrato del vescovo pavese Pietro (morto nel 736), delegato dal re alla questione cenedese. L’ignoto compilatore avrebbe poi utilizzato per la trama tradizioni, cronache o testimonianze, che però assemblava liberamente sconvolgendone la collocazione cronologica. La sequenza “autentica” degli avvenimenti tuttavia, benché adattata nel placito, pare saltare chiaramente agli occhi ove si utilizzi la mascherina di decrittazione qui proposta. L’aspetto più enigmatico e spurio del documento sembrerebbe quindi il conflitto sul possesso delle quattro pievi temporaneamente assegnate al patriarca. Nondimeno, ai fini dell’indagine sulle origini diocesane, la questione delle pievi, che poteva essere il vero cruccio dell’ignoto manipolatore, si presenterebbe semplicemente pleonastica. Per completare l’argomento, stranamente le quattro pievi contestate non sono elencate nel placito liutprandino. Che poi il contenzioso non si fosse chiuso con questa sentenza, se ne avrebbe indicazione più di trecento anni dopo in una confessio et rinunciatio del 1074. Con quest’atto il vescovo cenedese Giovanni rinunciava, in favore del patriarca Sigeardo e del patrimonio aquileiese, di far valere i suoi diritti sulle pievi di San Cassiano del Meschio, di San Fior e di San Polo di Piave, nonché sulla villa di Rai (presso San Polo), poste lungo la Postoima-Ungarica, e su quella di San Remedio (nei pressi di San Dona’ di Piave e di Cittanova Eracliana) 50. E qui sorge un forte sospetto che quest’atto di rinuncia, o un suo corollario, sia stato il motivo scatenante per la manipolazione dell’originale sentenza liutprandina. Un ultimo impegno infine per valutare se si possano accettare i nomi dei vescovi e dei duchi citati nel placito, ovviamente con la cronologia aggiustata alle scansioni qui proposte. 50 MASCHIETTO, 1959, San Tiziano vescovo, p.91, nota 7. La pieve di San Fior, di dipendenza aquileiese, venne successivamente attribuita al patriarcato di Grado: con l'atto dato a Venezia il 24 luglio del 1180, Vadolrico II di Aquileia e Enrico patriarca di Grado, addivenivano ad una transazione per cui veniva messa come pegno la pieve di San Fior con le sue cappelle (Rationes decimarum Italiae, V, 1941, Città del Vaticano, p.xiv. BORTOLAMI S., 1986, Le Pievi, in Il Cristianesimo tra Piave e Livenza, p.50). Nel 14951501 solo le Pievi di San Cassiano del Meschio, di San Polo, ma anche quella di Roganzuolo, sono Domini Patriarchae (Rationes decimarum Italiae, 1941, V, XXVI (XXX).), cioè di quello aquileiese. Saranno tutte restituite alla diocesi cenedese con la ristrutturazione ecclesiastica attuata con il breve del 1818 di Pio VII ‘De salute Dominici gregis’. Al dire del Mor (ID., 1983, Da Roma a Carlo Magno, p.20, nota 19), Musestre sarebbe una delle 4 pievi assegnate al patriarca; essa però non compare nelle trascrizioni del doc. in MASCHIETTO A., né in CANELLA G., citt.; viene però così ricordata nel testamento del marchese Everardo dell'863-4: 'in comitato Tarvisano, in corte nostra Musiestro'. 14 Per quel che riguarda il vescovo cenedese Valentiniano, la sua storicità è quasi pacifica, poiché di lui avremmo lo schizzo settecentesco del suo sarcofago, sfortunatamente perduto, con l’epigrafe 51: Riproduzione grafica del sarcofago e dell’epigrafe del vescovo Valentiniano (dal LOTTI C., 1785, Series Episcoporum Cenetensium, ms., Bibl. Seminario, Vitt.V.). Purtroppo il disegno del manufatto realizzato abbastanza sommariamente dal Lotti, e quella seppure più accurata dell’epigrafe (che presenta le S e le N capovolte), non darebbero modo di esprimere una facile datazione 52. Un piccolo indizio lo potrebbero fornire il trattamento piatto della grande croce con ampi spazi vuoti delle superfici; e il probabile motivo dei ceri sulle braccia della croce che sembra richiamare gli analoghi motivi scolpiti sul pluteo opistografo cenedese con cervi, colombe e leoni, datato appunto anche al VII secolo. Per le altre personalità citate nella sentenza potremmo anche accettarle a integrazione del catalogo, fermo restando che da altre fonti si può rilevare, con migliore credibilità, l’esistenza attorno al 736-37 di un duca cenedese di nome Paulizione (infra). 8. La leggendaria vita di San Tiziano. Ecco ora il racconto delle vicende del nostro Santo Patrono, assemblando la traduzione di Mons. Angelo Maschietto dal testo di Pietro Calò da Chioggia 53: “Tiziano nacque a Cittanova Eracliana da nobile famiglia; era istruito nelle lettere e totalmente dedito al servizio di Dio. Essendo Floriano vescovo di Oderzo, Tiziano, attratto dalla santa vita di quel vescovo si portò colà per farsi suo alunno. Floriano lo accolse paternamente, lo tenne presso di sé e, avendo conosciuto le sue belle doti, la sua virtù e la sua dottrina, lo costituì suo economo; lo propose dunque all’amministrazione della sua Chiesa, perché avesse soprattutto cura dei poveri, ufficio che Tiziano esercitò con la più grande sollecitudine e con la più effusa carità. In seguito avvenne che Floriano dovette recarsi per l’utilità della sua Chiesa al palazzo regio. Prima di partire da Oderzo il vescovo convocò il clero ed il popolo della sua comunità e li informò del suo viaggio, avvertendoli pure che se non fosse ritornato entro un anno lo dovevano considerare come morto e trasmigrato a Dio. Non ritornò infatti perché desideroso di ottenere la palma del martirio se ne andò in terra di missione. 51 In LOTTI C., Series episc. cenetensium: fu portato alla luce nel 1780, e se ne sono poi perse le tracce. CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche, p.98. 53 Traduzione con esegesi in MASCHIETTO, 1959, San Tiziano vescovo, patrono della città e diocesi di Vittorio Veneto, pp.125-134. Da Legendae de Tempore et de Sanctis di Pietro Calò da Chioggia, testo sempre in MASCHIETTO, cit., pp.29-33 (e qui in Append. A, Fonti). 52 15 Il clero ed il popolo opitergino aspettarono il suo ritorno, ma quando si resero conto che non sarebbe più ritornato, scelsero come suo successore Tiziano ed il popolo a gran voce lo acclamò vescovo, e tale fu ordinato per divina provvidenza. Qualche tempo dopo Tiziano venne a sapere che Floriano era ancora vivo, e felice di restituire la dignità episcopale si recò dal suo predecessore per invitarlo a rientrare nella sua diocesi. Floriano non volle acconsentire al pressante invito del suo discepolo, anzi lo rimproverava benevolmente chiedendogli come mai lo avesse raggiunto, lasciando il gregge che gli era stato affidato. Tiziano inginocchiato ai piedi del suo predecessore, implorava Floriano perché non abbandonasse il suo popolo e perché si affrettasse a ritornare in sede, dato che lui vivente nessuno poteva ottenere l’incarico nel suo episcopato - ‘quia te vivente ibi nemo preesse potest’ - Floriano però non si lasciò convincere dalle preghiere di Tiziano, anzi lo ammonì e gli ordinò in nome di Dio di ritornare al suo episcopio. E Tiziano rientrò in Oderzo dove la gente lo stava aspettando con ansia. Infine, poco prima di rendere l’anima al Signore, ordinò che il suo corpo fosse sepolto in una tomba presso la chiesa. Alla sua morte la folla lo piangeva desolata, e cosparso il suo corpo con balsami, fu deposto in un sarcofago di pietra. Qui i fedeli si recavano a pregare e molti miracoli avvenivano presso quel sepolcro: ciechi ottenevano la vista, sordi udivano, paralitici si alzavano, lebbrosi guarivano e ossessi venivano liberati dai demoni; nessuna infermità corporale resisteva alle virtù del santo tumulo. Nel frattempo i suoi parenti ed amici, saputo che Tiziano era morto e che il suo corpo favoriva i miracoli, subito si recarono ad Oderzo per piangere il defunto come suoi parenti, ma effettivamente con l’intenzione celata di rapirne il santo corpo. Venuti a consiglio, trovarono una barca e tenutala nascosta, aspettavano il momento opportuno. Difatti una certa notte, mentre tutti i custodi dormivano, rapirono il venerabile corpo, lo nascosero nella navicella e velocemente si misero in viaggio. Appena spuntò l’aurora, svegliatisi i custodi si accorsero che il corpo era stato rubato, e subito informarono il clero ed il popolo in lutto. Udito ciò una gran turba di popolo, triste per la perdita del loro santo pastore, si diedero ad inseguire i rapitori. Li trovarono alla confluenza di due corsi d’acqua, in località detta ‘Conflent’; e tosto si misero a litigare per il corpo del santo. Gli Opitergini dicevano che ad essi toccava custodire il corpo del loro pastore. I rapitori replicavano che più giustamente loro spettasse, in quanto parenti e compatrioti. E mentre stavano così litigando si avvicinò un vecchio che li pregò di ascoltare e di seguire i suoi consigli. Invece di venire alle mani e magari di versare sangue, consigliava di lasciare ingovernata la barchetta con il santo corpo e tutti in ginocchio in nome del Signore di pregare la sua clemenza che mostrasse dove il venerabile corpo trasportato dalla barchetta volesse dirigersi. L’una e l’altra parte in conflitto accettarono il consiglio; scesero tutti dalla barchetta, alla confluenza dei due corsi d’acqua, nel luogo succitato detto ‘Conflent’; e qui tutti piangevano e cantavano le lodi di Dio. La navicella col corpo rimase sola al centro del fiume, detto Livenza, e cominciò piano piano a muoversi contro corrente, e col controllo di Cristo, giunse nella località di Settimo. Tutti intanto seguivano la barca spostandosi lungo le rive del fiume, e glorificavano Dio e il beatissimo Tiziano. Gli abitanti del luogo, sentendo del miracolo, si recarono sul posto, trassero a riva la barca, e custodirono con ogni cura il sacro corpo del beato Tiziano, finché giunsero tutti i suoi compatrioti. Costoro, riunitisi a consiglio, unanimemente valutarono di riportare il corpo del santo pastore nella sede opitergina. Quindi lo tolsero dalla barca e lo collocarono su un veicolo che avevano all’uopo preparato, ma malgrado il gran numero di giumenti aggiogati, non riuscirono a farlo smuovere dall’isola. E tutti si meravigliarono e si chiedevano perché mai il sacro corpo non volesse ritornare alla sua sede. E non conoscendo le occulte decisioni divine, cioè che quella città in cui c’era la sede episcopale sarebbe stata poco dopo distrutta, si dolevano fortemente. 16 Allora il vecchio, che già prima era intervenuto col suo consiglio, suggerì loro di custodire il venerabile corpo con sorveglianza continua, di ritornare tutti a casa e di praticare un digiuno di tre giorni; invitava quindi a fare penitenza indossando il cilicio con il capo cosparso di cenere, e pregare Dio che volesse rivelare a qualcuno dei suoi servi dove il santo volesse far riposare il suo sacro corpo. Tutti digiunarono e pregarono per tre giorni, finché il Signore rivelò ad una vedova di aggiogare al carro una giumenta col vitello e di portarsi subito col suo unico figlio nell’isola dove giaceva il corpo del santo, di collocarlo sul carro, e prima di giorno di dirigersi a Ceneda. La donna però esitava chiedendo come mai sarebbe riuscita ad attuare in un tempo così breve ciò che non erano riusciti a portare a termine un gran numero di uomini, e in tanto tempo. Le fu risposto di farsi animo, di non temere e di portare a termine velocemente quanto le era stato ordinato. La donna obbedì eseguendo ciò che era stato stabilito. C’era in Ceneda un nobiluomo che aveva una figlia indemoniata da lungo tempo e che ogni giorno pregava e faceva elemosine, implorando la misericordia di Dio per la sua unica figlia. Mentre il corpo del beato Tiziano si avvicinava a Ceneda, il demonio per bocca di colei che aveva invaso cominciò a gridare che si stava avvicinando colui che lo avrebbe scacciato. A questa voce il padre della ragazza si alzò e legatala con catene, la condusse a incontrare le reliquie del santo; quivi giunto e prostratosi in lacrime, prometteva, se sua figlia fosse stata liberata, che avrebbe donato un campo che possedeva presso la basilica di Santa Maria. Appena ebbe pronunciate queste parole il demonio uscì dicendo che non avrebbe più potuto dimorare colà e portare a termine nessuna delle sue opere, perché era stato scacciato dal beato Tiziano. Il padre della ragazza, comprendendo che era stata liberata dal demonio, cominciò a rendere grazie a Dio e a San Tiziano. Ritornato quindi velocemente in città raccontò a tutti quanto gli era miracolosamente capitato. Udito ciò i Cenedesi si raccolsero tutti per accogliere festosamente il venerabile corpo del santo, e lo tumularono con grande decoro. La chiesa fu dedicata in suo onore, e dopo la distruzione di Oderzo fu trasformata in sede episcopale, e tale rimane fino ai nostri giorni”. 9. La cattedrale di Ceneda. Se dunque il racconto miracoloso della traslazione di San Tiziano nasconde un fondo di verità storica, quando le reliquie furono portate a Ceneda, la loro deposizione presso la chiesa dedicata a Santa Maria, ‘iuxta basilicam Beate Marie’, ci informa della preesistenza in loco di un edificio per il culto 54. Ne abbiamo conferma da un lotto di frammenti in pietra o marmo di plutei, di pilastrini e di pochi altri arredi liturgici tardo-antichi, raccolti sia nell’area della attuale cattedrale cenedese sia sul colle di San Rocco. Essi, datati al primo ed al pieno VI secolo, testimoniano che al tempo della traslazione del corpo del Santo, diciamo attorno al 639, almeno da un secolo prestigiosi edifici cultuali esistevano in Ceneda 55. Difatti una basilica di fine V – inizi VI secolo, di età ostrogota, è stata documentata archeologicamente sul poggio di San Rocco dai recenti scavi delle Università di Padova e di Trento; gli alzati di quest’edificio furono successivamente demoliti per far spazio ad un’altra struttura ecclesiale di età longobarda 56. 54 MASCHIETTO, 1959, San Tiziano vescovo, p.22. Vedi TAGLIAFERRI A., 1982, Testimonianze di scultura altomedievale nel Museo del Cenedese, pp.99-106. Due frammenti di lastre con croci vengono datate tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, cit., p.101, fig.1,2. CUSCITO G. 1983, Testimonianze archeologiche monumentali del Cristianesimo antico fino al secolo IX, pp.79-107. GABERSCEK C., 1984, Recenti studi e ricerche sulla scultura altomedioevale nell'Italia nord-orientale, in 'Forum Iulii', VIII, UD, pp.43-57. Repertorio in MORET A., 1982, Ritrovamenti archeologici nell'Antico Cenedese, dal sec.IV all'XI, UD. 56 POSSENTI E., 2015, Prime tracce di cristianesimo nel territorio cenedese. Il contributo dell’archeologia, in ‘Da Oderzo a Ceneda: le origini della Diocesi Vittoriese’, Atti Convegno, pp.65-82. Dalle risultanze degli scavi (di imminente pubblicazione; dati preliminari furono illustrati a Ceneda il 25.11.2005, e al Museo del Cenedese a Serravalle il 7.06.2013 dalla dott. E. POSSENTI dell’Università di Trento) non sono finora emersi indizi quanto all’origine della diocesi cenedese. 55 17 Ferme restando l’esistenza delle basiliche sul poggio di San Rocco, e verosimilmente poste all’interno del circuito del Castrum cenedese, non si esclude che una altrettanto antica basilica potesse esistere anche in piano sul sito dell’attuale cattedrale di origine longobarda. Anche l’edificio iniziale di questa chiesa potrebbe risalire alla fine del V o agli inizi del VI secolo, come farebbero intendere le datazioni di alcuni frammenti litici di arredi liturgici raccolti nelle vicinanze o nella demolizione dell’antica domus canonicorum 57. Si potrebbe anche identificare il suo pavimento in mosaico con quello posto in luce verso la fine del XVIII secolo durante i lavori dell’ultimo rifacimento della cattedrale, e descritto dall’abate Lotti nel suo Series Episcoporum Cenetensium: ‘musivo et artifitioso opere vetustissimo ex quadratis lapillis marmoreis’ 58. Purtroppo non abbiamo documentazioni o planimetrie delle varie fasi dell’edificio, o degli edifici, che nella ricostruzione settecentesca della cattedrale non sono stati purtroppo rilevati. Tuttavia dagli arredi liturgici in pietra scolpita dispersi fra il lapidario del Museo del Cenedese, numerosi altri incastonati in muri ed edifici della città, o presso collezioni private (con l’esclusione dei pezzi segnatamente provenienti dal San Rocco; se non derivano da altre aule cultuali della città), e per analogia con altri monumenti esistenti nelle Venezie, possiamo farci un’idea delle varie fasi di allestimento della basilica in piano, e successivamente della cattedrale di Ceneda. Un primo nucleo di pezzi tardo-antichi, per lo più frammentari, è riferibile ad arredi di recinzione presbiteriale, cioè a plutei o lastre decorate a croci patenti, a volte con motivi zoomorfi; a pilastrini con semplici modanature e campiture vuote; e a capitelli con motivi vegetali. Tali pezzi vengono appunto datati tra la fine del V ed il pieno VI secolo, e trovano puntuali riscontri in sculture delle chiese di Pola, Parenzo e Grado ad esempio; e proprio la struttura e l’arredo di queste basiliche potremmo prendere a illustrazione di quella cenedese di VI secolo. La nostra chiesa paleocristiana poteva essere così ad aula unica, presumibilmente con un’abside semicircolare e con il presbiterio separato da un setto o da una recinzione costituita da plutei, da lastre e da pilastrini. Su quest’edificio si sarebbe adattata, con poche modifiche e mantenendo la navata singola, la cattedrale primitiva (nel VII secolo). Questa conservava probabilmente la più antica pavimentazione a mosaico, di cui scriveva i Lotti; il tappeto musivo era con ogni verosimiglianza decorato a motivi geometrici o naturalistici, con riquadri aventi le diffuse dediche degli offerenti (purtroppo il Lotti non ne accenna, e non si esclude che la pavimentazione fosse parecchio sconvolta), non differentemente da quanto si riscontra nelle basiliche venete dell’epoca: a Vicenza, a Padova, ad Asolo, a Iesolo, per accennare ad alcune delle relativamente meno famose. La recinzione presbiteriale si era forse arricchita di nuovi arredi, mentre nell’abside semicircolare veniva appoggiato un semplice gradone con inserita al centro la cattedra episcopale soprelevata (come a Santa Maria delle Grazie a Grado?). Non sappiamo se il pluteo opistografo con cervi affrontati e leoni rampanti, con croce monogrammatica e colombe, appartenesse alla cattedrale o fosse piuttosto un significativo arredo di una delle basiliche sul San Rocco, come farebbe intendere la sua iniziale collocazione nei tempi moderni. A parere del Gaberschek, la suddetta lastra decorata presenta una notevole vivacità compositiva e un indubbio dinamismo in apparenza altomedievali, che ad un esame accurato dei vari elementi sembra confermare la sua appartenenza al gusto “paleocristiano” 59. Per il Cuscito i motivi stilistici ed iconografici porterebbero a collocare cronologicamente il nostro manufatto ad un periodo compreso tra la metà del VI secolo e la metà del VII (con qualche perplessità per il VII secolo) 60. 57 MORET A., 1982, Ritrovamenti, cit. Il pavimento in mosaico era posto in profondità sotto un’altro in marmo bianco, 'ex marmore albicante'. Le due antiche pavimentazioni erano venute alla luce nella cripta della cattedrale; cfr. LOTTI C., Series, paragr. III; e FASSETTA C., 1917, Storia popolare di Ceneda, p.47. 59 GABERSCEK C., 1984, Recenti studi e ricerche, p.47. 60 CUSCITO G., 1983, Testimonianze archeologiche, pp.100-101. 58 18 “Se la datazione del pluteo venisse confermata ai primi decenni del VII secolo, quell’arredo sarebbe straordinario”; così si esprimeva il Tagliaferri in un sua lezione a Ceneda nel 1981: “perché se avessimo un pezzo così al VII secolo dovremmo rivedere tutte le tesi ufficiali che esistono sul VII e sul VI secolo. Se fosse del VII sarebbe una meraviglia, sarebbe un recupero completo del VII secolo!” 61. Museo del Cenedese: pluteo opistografo di VI-VII secolo (ricostruzione digitale). 61 Ci piace qui allegare la trascrizione di parte dell’intervento inedito del prof. Amelio Tagliaferri, così come fu allora registrato su nastro, che darebbe un notevole avvincente contributo sulla problematica valutazione del manufatto: “Il pezzo lascia perplessi. Il prof. Cuscito ha dato una datazione verso la metà del secolo VII. L’articolo della Barbantini (BARBANTINI A., 1979, Un pluteo simbolico nel Museo del Cenedese, pp.73-79) dà una datazione tra la metà del VI e la metà del VII, dove c’è un’interpretazione simbolica che è stata rifiutata in parte dal Cuscito. La Barbantini mette in relazione le due parti, anche per l’interpretazione simbolica una parte è da mettere in relazione con l’altra. Può essere, anche se è arduo entrare in discussioni simbologiche; ma si deve osservare che il pezzo non può assolutamente essere della metà del VII secolo per ragioni generali. Potrebbe essere della metà del VI, come potrebbe anche essere della fine del V e principio del VI, come potrebbe essere anche dell’VIII secolo, o del principio del IX. Il pezzo ha una serie di indicazioni, di indizi scenografici e stilistici che sì possono derivare da qualsiasi epoca, però c’è qualcosa che prevale. Io dirò la mia opinione. I cervi per esempio sono sì stati messi in relazione col famoso cervo del Museo Paleocristiano di Aquileia, ma è tutta un’altra cosa. Il cervo di Aquileia della fine del V e primi del VI secolo è un cervo in pieno equilibrio; di una maturità classica ancora perfetta. Qui c’è molto movimento ma le forme non sono più quelle classiche; sono ormai degradate. Ci sono i due leoni che è un po’ impossibile trovare. Lo schema compositivo può adattarsi sì al VI secolo, però può adattarsi anche al V-VI secolo; anche le modanature esterne richiamano le modanature del V-VI secolo. Ma quando vedete questi due leoni non è possibile pensare né a un V-VI secolo, né a una metà del VII secolo, bisogna salire alla metà dell’VIII sec., o addirittura ai primi decenni del IX secolo. Ci sono molte indicazioni, uno schema classico, i cervi che assomigliano al grande cervo di Aquileia (cervo naturalistico con un incedere equilibrato del museo di Aquileia). Ci sono i due leoni che sono molto simili ad un leone del museo di Aquileia, ai leoni del museo cividalese, ma ha una mentalità non del VI o V secolo. Dall’altra parte è ancora peggio. Le due facce possono essere state fatte contemporaneamente, hanno un medesimo stile, non direi che sono state fatte in due tempi diversi. Sono arrivato fino al punto di pensare che sia un falso fatto nell’XI-XII-XIII secolo-epoca medioevale, non certamente nell’epoca umanistica rinascimentale, perché si aborriva, si odiava il medioevo. Se è stato fatto, è stato fatto nel basso medioevo, se è stato fatto il falso; ma è troppo preciso, richiama troppo vecchie tradizioni per essere stato fatto così perfettamente. E’ stato anche messo in relazione ad un pezzo del battistero di Grado, mi pare, del pluteo di Probino, ben datato col monogramma alla seconda metà del VI secolo. Ma certamente lo schema è ancora quello del VI secolo o del V; certamente la croce richiama le croci del V-VI secolo (ne vedremo due bellissimi esempi al Museo del Cenedese, che sono effettivamente del VI secolo); certamente le due rosette laterali centrali richiamano gli ornamenti classici tardo romani (ma si trovano anche nel battistero di Callisto a Cividale, si trovano in tanti altri pezzi altomedievali), però non si troveranno mai le colombe di quel tipo, anche se a Grado nel VI secolo ci sono colombe; ma ormai sono colombe piatte, di una plastica ormai molto denudata a larghe superfici; e non si trovano mai quei pendenti che non sono foglie ma sono delle rappresentazioni di grappoli [d’uva] pendenti, del cibo che le colombe cercano di bezzicare; ma non si trovano mai nel V e nel VI secolo grappoli di questo tipo (si trovano grappoli di tipo naturalistico, copiati dalla natura); stilizzati in questo modo si trovano soltanto dalla metà dell’VIII secolo ai primi decenni del nono. Questo è un elemento decisivo per la collocazione, per la datazione del pezzo; e soprattutto anche le colombe superiori che sì assomigliano certamente alle colombe del V-VI secolo, a tutti i plutei di Grado e Ravenna, ma sono fatte diversamente; sono fatte ad imitazione non di quelle di VI, ma direi piuttosto di quelle del V secolo. C’è una bella differenza fra i due. E’ una tradizione che si perpetua. C’è certamente un influsso dell’area bizantina ravennate, ma il pezzo non può essere stato fatto negli stessi momenti in cui sono stati prodotti i pezzi di Aquileia e soprattutto di Grado. Secondo me, escluderei completamente il VII secolo, o se si vuol porre, si deve porre nel VI (ma per questi motivi è molto difficile), altrimenti bisogna andare, nonostante i richiami classici e tardoantichi e paleocristiani, dalla seconda metà dell’VIII secolo ai primi del IX. Non c’è altro da fare. Certo è ancora dubbio! Ma chi vorrà porlo al VI o VII secolo dovrà dimostrarlo ampiamente. Escluderei assolutamente il VII perché se avessimo un pezzo così al VII secolo dovremmo rivedere tutte le tesi ufficiali che esistono sul VII e VI secolo. Se fosse del VII sarebbe una meraviglia, sarebbe un recupero completo del VII secolo”. 19 Un secondo gruppo più consistente e vario di frammenti lapidei, decorato da fregi a sequenze di “onde correnti”, da matasse fluenti con bottone, delimitate da nervature a forma di canna palustre o da cordoni che incorniciano campiture a motivi vegetali, girali di acanto e gigli stilizzati, viene datato all’VIII secolo e rientra nella logica dell’alacrità costruttiva che va sotto il nome di rinascenza liutprandina. Nella più suntuosa sistemazione dei tempi di Liutprando dunque, furono probabilmente aggiunte due navate laterali, scandite da colonne con capitelli cubici decorati da gigli stilizzati. Il recinto presbiteriale fu arricchito di nuove lastre decorate con croci di Sant’Andrea e motivi vegetali, di una pergula con archetto e trabeazione, su colonnine e pilastrini. L’altare fu adornato con un paliotto e ricoperto da un ciborio con coronamento ad archetti sostenuto da colonnine. Ipotesi della chiesa di VI secolo. Ipotesi della struttura al VII secolo. Ipotesi dell’edificio di VIII-IX secolo. Nel IX secolo, in età carolingia, la cattedrale subì un’ulteriore allestimento cui farebbe riferimento un terzo gruppo di monotone sculture a motivi geometrici, con prevalenza di intrecci senza fine di nastri a tre vimini. Queste decorazioni si ritrovano su grossi pilastri angolari, su pilastrini e capitelli; su lastre di recinzione presbiteriale e cornici di pergule; su archetti di cibori d’altare o teguri di battistero, e il loro numero ci testimonia la complessità degli spazi e degli arredi della fase edilizia dell’epoca. 20 21