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Tratto da ‘CENITA FELICITER, L’epopea goto-romaico-longobarda nella Venetia tra VI e VIII sec. d.C., in attesa di pubblicazione. °°° Giorgio Arnosti LE DIOCESI BINATE E LA QUESTIONE ARIANA IN ETÀ LONGOBARDA. 1. Sulla duplicazione dei vescovadi. Già si è visto, quanto alla creazione di nuove diocesi nella Venetia, che nella seconda metà del VI secolo il patriarca tricapitolino Elia di Grado (la Nova Aquilegia in terra romaica), era riuscito a organizzare nuove Ecclesiae suffraganee anche in territori di antica romanizzazione e di recente stanziamento barbarico, posti sotto il controllo longobardo (così si prospettava per Asolo e per Belluno). La nuova fondazione di episcòpi, legati alla giurisdizione metropolitica di Grado bizantina, era potuta avvenire con l’ovvio consenso dei locali capi longobardi, al tempo ancora in accordi con l’Impero; e pure con i velati auspici della politica di Costantinopoli, benché la Chiesa Gradense, in quanto erede della tricapitolina Aquileia, fosse scismatica da Roma e si pretendesse autocefala. Quei vescovi però avevano firmato fedeltà alla Sancta Respublica all’atto della loro consacrazione, e tramite loro l’Impero poteva contare su fedeli comunità ecclesiali fra i barbari. Così affermavano i dieci presuli veneti residenti in terra longobarda, che nel 591 sottoscrissero una supplica all’imperatore Maurizio 1. Si è già detto anche del loro ventennale quanto mai opportuno attivismo politico nel complesso filo-romaico, e che verso la fine del VI secolo la loro lealtà verso l’Impero si era tuttavia incrinata. A quel fine secolo si può datare la diffusione delle missioni gradensi nel regno longobardo, col patrocinio dell’abate tricapitolino Secondo di Non, consigliere a corte, e col fervore della regina Teodolinda. Esse furono tanto efficaci da attirare allo scisma aquileiese anche tre diocesi della Liguria, tra queste è attestata quella di Brescia, sottraendole alla giurisdizione cattolico-romana del primate di Milano, profugo a Genova. Se ne doleva papa Gregorio Magno in due sue epistole del 593-94 inviate a Genova proprio al metropolita milanese Costanzo 2. Successivamente, ai primi anni del VII secolo, superati da tempo i confini delle Venetiae e l’ambito strettamente religioso, lo scisma tricapitolino si era intrecciato con la politica religiosa a sfumatura “nazionalista” del regno longobardo, ottenendone pieno sostegno. Si trova appunto evidenziato dalle fonti che per iniziativa di re Agilulfo e del duca forogiuliano Gisulfo si era giunti allora alla divisione della metropoli veneto-istriana 3, come reazione all’insipiente atto di forza del potere esarcale che aveva costretto alla comunione con Roma il patriarca di Grado e parte dei suoi vescovi suffraganei, segnatamente quelli altoadriatici in terra romaica. Una metropoli scismatica autocefala veniva subito (ri)costituita nominalmente in Aquileia “Vetere”, ma con residenza patriarcale in Cormones 4, finché non fu trasferita a Forumiuli nell’VIII 1 Dalla suggestio dei 10 vescovi a Maurizio: ‘tempore ordinationis nostrae unusquisque sacerdos in sancta sede Aquileiensi cautionem scriptis emittimus studiose de fide ordinatoris nostri, nos fidem integram sanctae rei publicae servaturos’; e poi ‘metropolitana Aquileiensis ecclesia sub vestro imperio constituta, per quam, Deo propizio, ecclesias in gentibus possidetis’ (CESSI, 1940, Doc., 8, p.18; supra). 2 GREG. MAGNO, Epist., IV, 2, PL 77, coll.669-70; e IV, 39, coll. 713-15. 3 P.D., IV, 33; e CESSI, 1940, Docum., n.12, p.23, che rinvia al doc. n.50, Atti del Sinodo Mantovano, p.86 (vedi supra). 4 P.D., VI, 51. 1 secolo. Essa aggregava alla sua giurisdizione tutte le diocesi suffraganee scismatiche in terra longobarda; e da allora ovviamente affrancate da ogni legame di fedeltà con l’Impero. L’impulso organizzativo e missionario del nuovo metropolita “aquileiese” Giovanni I inseriva anche a Como un suo vescovo suffraganeo, Agrippino, che si distinse per la sua indefessa azione di apostolato, a detta del suo encomio 5. L’iniziativa combinata tra politica e religione aveva dunque ripreso a favorire, ove possibile, la riorganizzazione o l’istituzione di Ecclesiae sismatiche concorrenziali; e si è argomentato più sopra che nella Venezia longobarda proprio in quel torno di tempo si sarebbe proceduto all’istituzione de novo di un episcopio a Ceneda su richiesta del suo duca, come farebbe intendere un brano del localmente famoso placito di Liutprando 6. La Chiesa scismatica aquileiese poi, a conclusione del decennio caratterizzato dal tentativo di pacificazione religiosa con Roma - iniziato da San Colombano e da Agilulfo, e proseguito con Teodolinda ed Adaloaldo - si era ritrovata ad avere assunto una notevole influenza nel mondo longobardo, tanto da cimentarsi nell’agone politico del regno. Con Arioaldo, quando era ancora coreggente o tutore (papa Onorio I lo tacciava però di tirannia), i vescovi tricapitolini ‘in transpadanis partibus’ si erano schierati attivamente dalla sua parte, sostenendolo contro il re cattolico e filo-romano Adaloaldo 7. Se la metropoli ecclesiastica aquileiese si era affermata nel regno con una sua fisionomia diciamo nazional-longobarda, nel primo trentennio del VII secolo la “religione di Stato” avrebbe contribuito a smorzare le diffidenze per una più o meno aperta socializzazione tra le varie etnie, anche al livello dei ceti non elitari. Un concreto sostegno da parte di Rotari ad una politica religiosa in favore della Chiesa “nazionale”, continuava perciò una linea di condotta che si era dimostrata proficua. Col suo Editto concedeva qualche privilegio o il riconoscimento di funzioni sociali alle chiese 8. Soprattutto con l’occasione di nuovi acquisti territoriali sosteneva l’aggregazione alle diocesi in terra longobarda di territori o di titoli delle civitates romaiche occupate, secondo quanto gli viene attribuito. Così nel testimoniale della sentenza liutprandina per Ceneda il patriarca aquileiese Callisto asseriva che “distrutta Oderzo, re Rotari aveva accordato quel territorio diocesano alla sua Chiesa”; e nel prologo si faceva risalire appunto all’occupazione longobarda di Oderzo la distribuzione delle sue terre diocesane fra le Ecclesiae contermini, appunto perché “il vescovo di Forumiuli, e quello di Treviso e Padova se ne erano divisa la diocesi fra loro” 9. Come si è visto più sopra però, il diritto sulla diocesi di Oderzo con parte della sua giurisdizione tra Piave e Livenza fu trasferito a Ceneda; il gius sulle terre alla sinistra del Livenza passò alla cormonense Aquileia; quelle già altinati sulla destra del Piave toccarono alla diocesi di Treviso; ed è diffusamente riconosciuto che sempre a Treviso fu accorpato il titolo di Padova in quella prima metà del VII secolo, mentre il relativo territorio diocesano sarebbe stato spartito tra Treviso e Vicenza. 5 TROYA, CDL, n.291, pp.579-80, epigr. in Sant’Eufemia d’Isola: ‘(…) Agrippinus praesul hoc fabricavit opus. / Hic patriam linquens propriam karosque pare(ntes) / pro sancta studuit pereger esse fide / hic pro dogma patrum tantos tullerat labores / noscitur ut nullus ore refferre queat. / (…) His Aquileia ducem illum distinavit in oris / ut gerat invictus praelia magna Dei / his caput est factus summus patriarcha Iohannes / qui praedicta tenet primus in urbe sedem. / Quis laudare valet clerum populumque Comensem / rectorem tantum qui petiere sibi / hi sinodos cuncti venerantur quatuor almas / concilium quintum postposuere malum. / Hi bellum ob ipsas multos gessere per annos / sed semper mansit insuperata fides’ (“Il vescovo Agrippino ha costruito quest’opera. / Questi, lasciata la propria patria e i cari genitori / si prodigò come pellegrino per la santa fede. / Si sa che costui ha sopportato grandi angustie per la dottrina dei padri / tali che nessuno è in grado di raccontare. / (…) / Costui Aquileia ha destinato come duce in queste terre / per combattere invitto le grandi battaglie di Dio. / Qui lo ha destinato capo il sommo patriarca Giovanni I / che per primo resse la sede nella predetta città (di Aquileia). / Chi è mai in grado di lodare il clero ed il popolo comensi / che hanno richiesto per sé un tanto grande rettore? / Questi tutti venerano i primi quattro sacri sinodi / ma trascurano il quinto concilio malvagio./ Per causa loro, essi sono stati per molti anni in conflitto / ma la loro fede rimase sempre indomita”.). 6 In CESSI R., 1940, Docum., n.27. 7 HONORII PAPAE I, Epistolae, I, PL 80, col.469. 8 ROTH. 35 (BLUH., pp.18-19): ‘De scandalum. Si quis in ecclesia scandalum penetrauerit, quadragenta solidos ipsius uenerabilis loci sit culpauelis, (…)’ . ROTH. 272 (BLUH., p.55): ‘De ecclesia. (…) sit culpabilis ecclesiae ipsius solidos 40, (…) et in sagrum altarium, ubi iniura facta est, ponantur’. ROTH. 343 (BLUH., p.63): ‘Si quis caballum alienum (…) ducat eum ad iudicem, qui in loco ordinatus est, aut certe ante ecclesia in conuento (…)’. 9 In CESSI, 1940, Docum., n.27. 2 Per altro verso nei territori lagunari dell’impero, subito dopo la divisione del patriarcato, la resistenza cattolica allo scisma tricapitolino - ‘non ferens Langobardorum insaniam’ - e in stretta correlazione con la difesa degli antichi diritti sulle aree di terraferma, si era manifestata e continuava a procedere con la sanzione canonica del trasferimento dei titoli antichi e delle sedi episcopali nelle isole. Le traslazioni venivano appunto sancite dall’autorità dei papi, espressamente evidenziata per quegli anni dalle fonti venetiche. Si voglia o meno prestarvi fede, è tuttavia difficile contestare la verosimiglianza delle notizie in Giovanni Diacono: la traslazione della diocesi di Padova a Malamocco sarebbe avvenuta “per autorità apostolica” (ai primi del VII secolo); da Concordia a Caorle su autorizzazione di papa Deusdedit (attorno al 615); da Oderzo ad Eracliana ‘auctoritate Severiani papae’ (nel 639); da Altino a Torcello (pure del 639) sempre per concessione di papa Severino; la nuova costituzione diocesana a Iesolo, senza indicazioni cronologiche, era avvenuta invece ‘auctoritate divina’ 10. Tanto più che dopo la fuga in territorio longobardo del patriarca apostata Fortunato di Grado, nel 628, papa Onorio I estese il suo controllo sui vescovadi della provincia lagunare e istriana inviando come metropolita Primogenio, un esponente della sede romana 11. E più sopra si accennava agli sviluppi della vicenda. Sicché all’interno di alcune delle originarie circoscrizioni diocesane della Venezia, si vennero a formare due nuovi poli ecclesiastici, entrambi eredi della medesima antica civitas, o come tali essi si proponevano: uno nelle terre longobarde e l’altro nelle isole delle lagune sotto controllo imperiale. Alla metà del VII secolo la situazione delle diocesi binate doveva apparire ormai consolidata e una tale considerazione troverebbe conferma nella singolare notizia, riportata da Paolo Diacono, che ai tempi di Rotari in quasi tutte le civitates del regno ci fossero due vescovi, uno cattolico e l’altro “ariano” 12. Se in realtà di vescovi ariani ce n’erano ben pochi (il Diacono riesce a ricordarne uno a malapena, quello di Pavia; mentre un vago accenno su Spoleto per i tempi di Autari si trova in Gregorio Magno 13), si avanza l’ipotesi che nel brano citato i vescovi “ariani” eretici andrebbero piuttosto intesi come “scismatici”, ossia identificati con i presuli tricapitolini. Anche in questo caso, si vogliano o meno accreditare le informazioni di Paolo Diacono (pur esagerate in qualità ed in estensione; e chissà quali erano le sue fonti), non si può tuttavia negare che egli abbia fatto un quadro realistico della situazione religiosa nelle antiche civitates delle Venezie alla metà del VII secolo. Divise politicamente fra Impero e Longobardi, molte terre venete erano pure spartite fra due vescovadi omologhi, rispettivamente uno cattolico in comunione con Roma e l’altro pure cattolico ma tricapitolino e scismatico. 2. La questione ariana. Effettivamente nell’Italia transpadana, sempre ai tempi di Rotari, a circa settant’anni dall’ingresso di Alboino, la cooptazione delle superstiti burocrazie latino-ostrogote, la documentata confidenza con gli autoctoni, il dinamismo delle missioni aquileiesi (prima di Grado e poi di Cormons-Aquileia), il ventennale favore della regina Teodolinda col consiglio di Secondo di Non, il non meno determinante sostegno politico di re Agilulfo, tutto questo avrebbe eventualmente influenzato in senso tricapitolino le convinzioni religiose dei Longobardi. A ciò si aggiunga, l’impegno missionario di San Colombano e dei monaci di Bobbio (inizialmente conquistati dalla 10 IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, coll. 878, 879, 889; ID, Chron. Grad., coll. 948-49). Sulla problematica BOGNETTI, 1960, La continuità delle sedi episcopali, pp.441-453. 11 Da HONORII PAPAE I, Epistolae, II, col.469: “E così abbiamo inviato alla Chiesa episcopale di Grado, per esservi consacrato, Primogenio, suddiacono e regionario della nostra sede, con la benedizione del pallio. Sarà quindi opportuno che la vostra fraternità disponga ogni cosa in base alla legge ecclesiastica, e che al vostro antistite porga una sincera obbedienza”. 12 P.D., IV, 42. 13 BOGNETTI, 1960, Rinascita, p.21; su Spoleto GREG. MAGNO, Dialog., III, 29, PL 77, col.285. 3 dottrina scismatica aquileiese 14), sempre col supporto di Agilulfo e di Teodolinda. E si badi bene che il fervore politico-religioso della regina, e il suo ascendente sui sudditi, erano durati complessivamente ben trentacinque anni! Le lettere di Gregorio Magno dirette a Teodolinda, o che la riguardano, mostrano una costante attenzione del papa per lo zelo religioso della regina, anche se Gregorio ne lamenta la tenace adesione alle suggestioni degli scismatici. Il carteggio pone soprattutto in evidenza che all’interno del regno, e Gregorio si riferiva alle macro regioni dell’Austria e della Neustria, la controversia religiosa si poneva sostanzialmente tra Cattolici tricapitolini aquileiesi e Cattolici romani 15. Ferma restando la comune venerazione per i primi quattro concili, il nodo da sciogliere riguardava insistentemente le divergenti valutazioni sui deliberati del quinto concilio ecumenico di Costantinopoli. Difatti, avvertito dal vescovo Costanzo di Milano che Teodolinda non voleva assolutamente sentir parlare del quinto concilio 16, Gregorio Magno modificò una sua prima epistola non inoltrata; e così rassicurava la regina, nel 594, contro le suggestioni degli scismatici: “Questi, dato che non leggono, né credono a quelli che leggono, rimangono nello stesso errore che essi stessi si sono inventati su di noi. Noi infatti veneriamo i quattro santi concili: quello di Nicea, di Costantinopoli e il primo di Efeso in cui furono condannati rispettivamente Ario, Macedonio e Nestorio; e il concilio di Calcedonia in cui furono condannati Eutiche e Dioscoro” 17. Del quinto concilio il papa ne avrebbe però accennato a Teodolinda dieci anni dopo, nel 603, poco prima di morire. Gregorio prometteva che non appena fosse guarito avrebbe risposto minuziosamente ai dubbi di Secondo di Non sul discusso quinto concilio; intanto ne inviava gli atti, dai quali Secondo si potesse accertare che erano false le accuse che aveva udito contro la Chiesa romana 18. Ed il papa proseguiva: ‘Lungi da noi quindi l’accogliere il pensiero di qualunque eretico, o il deviare in qualcosa dal Tomo del nostro predecessore Leone, di santa memoria: difatti accettiamo tutto quello che è stato definito dai quattro santi concili; e condanniamo tutto ciò che è stato rifiutato’. Se poi nell’attivismo religioso di Gregorio numerosissimi sono i suoi contatti epistolari, una quarantina circa di lettere ci dimostrano la sua solerzia per il riscatto degli scismatici aquileiesi, sia di quelli in terra longobarda che in terra imperiale 19; qualche sua epistola attesta l’impegno per la 14 Vedi più avanti, sempre in questo cap., l’epist. di San Colombano a papa Bonifacio IV. Ed è noto anche il caso del monaco colombiano della Gallia, Agrestio, che ebbe simpatia per lo scisma; da JONAS ABBAS, Vita S.Eustasii, cap.7, PL 87, col.1049 C: “Quindi si recò ad Aquileia; e gli Aquileiesi dissentono dalla comunione con la Sede Apostolica (...) a causa del dissenso sui Tre Capitoli, che a lungo diffuse l’accrescersi della discordia, ma ciò non è il caso di inserire in quest'opera. E così (Agrestio) giunto ad Aquileia, si associò subito allo scisma, staccato quindi dalla comunione con la Sede Romana e separato dalla comunione universale: colui che invece era in unione con la sede romana, biasimava che l'isola di Aquileia non osservasse la fede ortodossa. Istruito quindi in tale scisma, inviò una lettera velenosa e piena di biasimo al beato Attala (il successore ortodosso di Colombano) per il tramite di Aurelio segretario del re dei Longobardi Adaloaldo”. 15 Riguardano Teodolinda e lo scisma le epp. degli aa.593-94: GREG. MAGNO, Epist., IV, 2, PL 77, col.669-70; IV, 4 (non inviata), col.671; IV, 38, col.712; IV, 39, col.713. Infine quella del 603, ind.VII, XIV, 12, coll.1314 segg. A parte quella di ringraziamento per la pace del 598 in P.D., IV, 9 (da Registr. Epist., IX, 43 = Epist., IX, 43, PL 77, col.975). 16 GREG. MAGNO, Epist., IV, 39, PL 77, col.713-15. 17 GREG. MAGNO, Epist., IV, 38, PL 77, coll.712-13; ma in nota b: ‘in qua Nestorius et Dioscorus, Chalcedonensem in qua Eutyches damnatus est’. 18 Da GREG. MAGNO, Epist., XIV, 12, ind.VII (in TROYA, CDL, n.277, pp.553-54): “Quanto a quello che la vostra eccellenza scrisse, che al dilettissimo filio nostro l'abate Secondo su quanto egli espresse, noi dovessimo schiettamente rispondere (...). Ma se per volontà di Dio onnipotente, guarirò (dalla podagra) risponderò adeguatamente a tutto quello che mi scrisse, Tuttavia (gli atti di) quel concilio, che fu tenuto al tempo di Giustiniano, di pia memoria, ho inviato per tramite dei latori della presente, in modo che il suddetto (Secondo) dilettissimo figlio mio leggendoli, si renda conto che sono false tutte quelle cose che contro la Sede Apostolica e la Chiesa cattolica aveva udito”. 19 Che trattano della questione religiosa 'in Istriae partibus', o che la ricordano: al patriarca Severo nel 590-91 (CESSI, 1940, Docum., n.7, p.14 = PL 77, I, 16, col.461); nel 591-92, a Giovanni di Ravenna (GREG. MAGNO, Epist., II, 46, ind.X, PL 77, col. 584); nel 595, ai presuli Pietro e Providenzio (in PASCHINI P., 1975, p.110; da Registr. Epist., V, 56 = Epist., V, 51, PL 77, col.779). Negli anni 59899: all’esarca Callinico (GREG. MAGNO, Epist., IX, 9, PL 77, col. 948); a Mariniano di Ravenna (Epist., IX, 10, col.950); al magister militum Gulfari (IX, 93, col.1019); al defensor Romano (IX, 94, col.1020); ancora all’esarca Callinico (IX, 95, col.1020); ancora a Mariniano di Ravenna (IX, 96, col.1021); agli abitanti dell’insula Caprae (IX, 97, col.1021). Nel 599 le epistole a Basilio, a Mastalone e ad Anatolio diacono (PASCHINI P., 1975, p.110-11, da Regist. Epist., IX, rispettivamente epp.153, 161 e 201). Del 602, a Firmino di Trieste (PASCHINI, p.112, da Regist. Epist., XII, 13; = Epist., XII, 33, PL 77, col.1243). Del 603, all’esarca Smaragdo (Epist., XIII, 33, PL 77, col.1283 = in CESSI, 1940, doc. 11, p.22, ex registro, XIII, 36). 4 conversione dei pagani 20; una missiva al vescovo di Narni sollecita la conversione dei pagani e degli eretici, sia Longobardi che Latini ivi residenti 21. Solo cinque epistole riguardano l’eresia ariana: in una Gregorio parla dell’esaugurazione di una chiesa già ariana a Roma 22; in tre il papa si rivolge a destinatari ispanici per rallegrarsi della conversione di re Reccaredo e dei suoi Visigoti, o per chiarimenti sul battesimo degli eretici convertiti 23. Una sola unica lettera, per quanto ho potuto riscontrare, riguarda espressamente la conversione degli Ariani del regno longobardo 24. Il che desta ovviamente non poca meraviglia! Lo scritto stimmatizzava il divieto imposto da re Autari ai Longobardi, nel 590, che i loro figli fossero battezzati ‘in fide catholica’. Il papa esortava quindi i vescovi cattolici presso i Longobardi a rintuzzare con eloquenti argomenti l’imposizione regia: “Gregorio a tutti i vescovi d’Italia. Il nefandissimo Autari, nella solennità pasquale che si è da poco conclusa, ha proibito che i figli dei Longobardi siano battezzati nella fede cattolica, per questa sua colpa la divina Maestà lo ha fatto morire, in modo che non vedesse la solennità di un’altra Pasqua. Poiché dovunque incombe una grave mortalità, alla vostra fraternità spetta di ammonire tutti i Longobardi delle vostre zone, che concilino con la fede cattolica gli stessi loro figli battezzati nell’eresia ariana, così da placare l’ira del Signore onnipotente su di essi. (…)”. Anche la drasticità del precetto di Autari, dopo che sostanzialmente si era lasciata libertà di culto e di movimento ai presuli, è di ardua comprensione. Una zoppicante ipotesi metterebbe in evidenza che se la conversione dei Longobardi al cattolicesimo avesse assunto in quegli anni una dimensione tutt’altro che trascurabile, essa era forse un motivo di preoccupazione per la politica del regno. Il re non volle rimanere passivo di fronte ad un fenomeno di conversioni forse in massa del popolo, paragonabile a quello accennato qualche anno più tardi da un re ispanico, il visigoto Sisebuto (612-621), nella sua lettera per re Adaloaldo e Teodolinda 25. Quale ne fosse la vera causa, e con quale motivazione rimane comunque oscuro; resta solo una mezza idea che la manovra del re mirasse ad allontanare dal suo popolo l’influenza di Roma. Si affaccia però timidamente un’altra ipotesi al riguardo: se i Longobardi in Pannonia si dichiaravano cattolici e tali li considerava Nicezio di Treviri, alla luce soprattutto di quell’unica esortazione epistolare di Gregorio Magno, non è che il loro arianesimo fosse un’imposizione di data recente iniziata proprio dal tardo Autari; questi, col proposito di cui sopra, sarebbe stato magari influenzato dalle superstiti gerarchie ostrogote, cui accennava il Troya riferendosi alla missiva di Sisebuto 26. Ad ogni modo per sovvenire alle ipotetiche intenzioni di Autari sarebbero giunte a proposito le missioni aquileiesi (se ne è già detto). E veniamo agli ultimi anni di Agilulfo, quando, circa nel 614, la supplica di San Colombano a papa Bonifacio IV 27 evidenziava che “lo scisma del popolo” rattristava lo stesso re, suo figlio Adaloaldo e la regina. Il santo monaco constatava anche che “proprio i re che in queste terre hanno 20 GREG. MAGNO, Epist., IX, 34, PL 77, coll.969-70: sull’elezione di presbiteri e diaconi nella città tenuta dal glorioso Aldione, magister militum, perché sollecitino il popolo che vi abita ad allontanarsi dal paganesimo, a gentilium cultu; in VIII,18, col.921, esorta il vescovo di Terracina a punire coloro che praticano il culto degli alberi. Non è esplicita l’etnia dei pagani, che vengono tuttavia riferiti a contingenti longobardi al soldo dei Bizantini (cfr. BOGNETTI, 1952, Loca sanctorum, p.175, nota 10). 21 Da GREG. MAGNO, Epist., II, 2, PL 77, coll.539-40: “Ci è giunta notizia che nella vostra città di Narni infuria una forte epidemia mortale. Vi sollecitiamo perciò a non voler tralasciare per nessuna ragione di ammonire e di esortare i Longobardi ed i Romani che abitano nello stesso luogo, e specialmente i pagani e gli eretici, perché si convertano alla vera e retta fede cattolica”. 22 GREG. MAGNO, Epist., III, 19, Ad Pietrum subdiaconum, PL 77, coll.618-19: ‘quam superstitio diu Ariana detinuit’. 23 GREG. MAGNO, Epist., I, 43, Ad Leandrum episcopum hispalensem. (…) Laetatur de Recharedi regis conversione, coll.496-98,; IX, 122, Ad Recharedum Visigothorum regem. Regem laudat de conversa ad fidem Gothorum gente, coll.1052-56; XI, 67, Eos qui in heresi (…), coll.1204-08. 24 GREG. MAGNO, Epist., I, 17, Ut filii Langobardorum in haeresi Ariana baptizati, ad fidem catholicam concilientur, PL 77, coll.462-63. 25 In TROYA, CDL, n.289, p.573: 'homines agrestes, scilicet minus ratione capaces, quotidie cernimus aethereis militare per matrem Ecclesiam castris'. 26 TROYA, CDL, n.289, p.572, nota 2 (infra). 27 COLUMB., Epist., V, PL 80, coll.274 segg. 5 imposto a lungo l’infamia ariana, opprimendo la fede cattolica, ora invece richiedono che la nostra fede venga rafforzata”. E poco più avanti, sempre rivolto a Bonifacio: “Ti prega quindi il re, ti prega la regina, ti pregano tutti: che il più celermente possibile si giunga all’unione”. Tant’è che Colombano era stato espressamente incaricato da Agilulfo di scrivere al papa perorando la convocazione di un concilio, che eliminasse la nebbia del sospetto sulla cattedra di San Pietro 28. Effettivamente fra i vescovi ed il popolo delle terre transpadane, che si ritenevano ormai gli ultimi difensori dell’ortodossia cattolica, circolavano ancora dubbi e sospetti su papa Vigilio, che a Costantinopoli aveva sconfessato la sua Encyclica del 552 da Calcedonia, e sull’operato da allora della Chiesa di Roma. Nessun risultato avevano dunque conseguito, alla metà degli anni ottanta, le epistole di papa Pelagio II al patriarca Elia, con le quali quest’ultimo veniva avvertito tra l’altro che la resipiscenza di papa Vigilio e la sua accettazione dei canoni del V concilio con la condanna dei Tre Capitoli non era attribuibile alla violenta imposizione da parte del potere imperiale, ma al lungo travaglio del papa alla ricerca della verità 29. Pelagio criticava quindi la caparbietà degli Aquileiesi, soprattutto la loro ignoranza degli atti conciliari, ‘nescientes neque de quibus dicent neque de quibus affirmant’; e imputava loro di essere fuorviati da un “nemico molto maligno” 30. Le resistenze degli scismatici dovevano essere molto diffuse e forti se anche Colombano, appena arrivato in Italia, fu raggiunto dal libello di un presule tricapitolino (e qualcuno avanza il nome di Agrippino di Como), col quale il monaco veniva esortato a diffidare della Chiesa di Roma, in quanto caduta nell’eresia di Nestorio (sic!) 31. E addirittura su papa Vigilio, incolpato appunto di aver accolto la dottrina nestoriana, veniva riversata l’accusa di eresia. 28 Da COLUMB., Epist., V, PL 80, coll.274-282 (brani in TROYA, CDL, n.284, pp.563-66): “Il re mi prega che parola per parola suggerisca alle tue pie orecchie il motivo del suo dolore: il suo dolore riguarda lo scisma del popolo, da parte della regina, del figlio e pure da parte sua. Avrebbe pure detto, da quanto si dice, che se avesse conoscenza certa (della fede), lui pure crederebbe” ( col.278 B); “e ciò che è più importante, che sia tolta la nebbia del sospetto dalla cattedra di S.Pietro ('ut caligo suspicionis tollatur de cathedra S.Petri'). Perciò raduna un'assemblea, in modo tale da emendare quanto vi viene rimproverato” ('Inde conventum coge, ut ea quae vobis objiciuntur, purgetis; col.278 D). “Quindi, riguardo al motivo di questo scritto, c'è un ordine del re Agilulfo: la cui richiesta mi ha molto stupito e turbato perché non senza miracolo ritengo sia avvenuto ciò a cui assisto: proprio i re che in questa regione hanno imposto a lungo l'infamia ariana, opprimendo la fede cattolica, ora invece richiedono che la nostra fede venga rafforzata.(...) Ti prega quindi il re, ti prega la regina, ti pregano tutti: che il più celermente possibile si giunga all'unione ('fiant omnia unum'); che si ottenga la pace di un'unica patria, che si giunga presto alla pace della fede, che quindi tutti un unico gregge di Cristo, Re dei Re, e che tu Pietro, tutta l'Italia ti segua” (coll.282-83). Cfr. BERTOLINI O, 1958, Riflessi politici, pp.749-752, e note 43-44; pure BOGNETTI, 1968, Continuità, in EL IV, p.336. 29 Da PELAG. PAP. II, Epist. et decr., V (olim VII), cap.VII, PL 72, col.722: “Di nuovo dichiarate con la vostra lettera che voi, istruiti dalla sede apostolica e rassicurati dagli archivi della santa Chiesa (a cui per opera di Dio sono ora a capo), non vi sentite di acconsentire alle decisioni prese sotto l'imperatore Giustiniano di pia memoria. E questo aggiungete a supporto della vostra scusa, dicendo che all'inizio della questione anche la sede apostolica con papa Vigilio, e tutti i principi delle province latine si opposero fortemente alla condanna dei tre capitoli. Su queste parole abbiamo meditato, poiché proprio quelle cose che vi avrebbero dovuto spingere al consenso, ora vi staccano dal consenso. In effetti i Latini, ignari di cose greche, dato che non conoscono quella lingua, tardi si accorsero dell'errore; e tanto più velocemente si sarebbe dovuto credere loro, in quanto la loro costanza non cessò di lottare, finché non conobbero la verità. La vostra Fraternità sicuramente disprezzerebbe il loro consenso se con precipitoso ardore avessero consentito, prima di aver conosciuto il vero: e dopo che a lungo hanno faticato, e che per lungo tempo hanno lottato fino a subire violenze, da questo giudichi la vostra Fraternità, perché mai non abbandonerebbero di colpo tante fatiche, se non avessero riconosciuto che quella era la verità”. 30 Da PELAG. PAP. II, Epist. et decr., IV (olim VI), coll.711, B-C: “Si è rinnovato il dolore del nostro cuore, (...). soprattutto perché, convinti con l’inganno da uomini malvagi, ci avete inviato degli scritti infetti da diversi contagi; sia poiché tentaste di inserire nella lettera alcuni argomenti dei Padri non solo incongrui, ma anche non pertinenti alla questione, (...). Da qui evidentemente si evince che ben vi si adatta il detto apostolico: Non sanno né di cosa parlano, né ciò che sostengono. Ma crediamo che ciò non sia imputabile alla vostra malizia o astuzia, ma lo riconosciamo ricavato dal veleno di un nemico molto maligno, che non cessa di seminare discordia nella Chiesa di Dio. Da ciò abbiamo compreso come la vostra Fraternità non avesse letto le lettere, che portavate come prova”. 31 Da COLUMB., Epist., V, PL 80, col.282 C: “poiché più per necessità che per vanità, sono spinto a scrivere, dal momento che, appena arrivato entro i confini di queste regioni, qualcuno mi ha colto con una sua lettera con la quale mi esortava a diffidare di voi, in quanto caduti nell'eresia di Nestorio”. 6 Colombano, che doveva essere ben informato sulla versione scismatica della polemica, riportava appunto queste accuse nella sua missiva a papa Bonifacio IV 32. Quanto però queste assurde accuse non corrispondessero alle effettive critiche dei Tricapitolini, ci sembrerebbe di recepire dalle numerose missive della controparte, cioè di papa Pelagio II e di Gregorio Magno. Che poi Colombano fosse così malaccorto e sprovveduto sul dissidio religioso non ci sembra assolutamente di intendere da altri brani della sua lettera. Ci prende a questo punto il forte sospetto che, persino in epoca posteriore alla chiusura consensuale dello scisma, le fonti siano state più o meno ampiamente manipolate, attribuendo ai Tricapitolini rozze insinuazioni per accrescerne il discredito, anche se a posteriori. Ad ogni modo dalle imputazioni degli scismatici aveva già inteso affrancarsi Gregorio Magno in una sua lettera a Teodolinda del 594 (in parte riportata sopra), che forse volutamente non era stata recepita a corte 33. Tanto più che anche il papa aveva in qualche modo forzato la verità, laddove affermava: ‘Dichiariamo quindi che chiunque intenda in modo diverso da questi quattro concili, è contrario alla verità di fede. Condanniamo infatti chiunque essi condannino e assolviamo chiunque assolvano; e minacciamo di colpire di anatema chiunque presuma aggiungere o togliere alcunché alla fede degli stessi quattro concili, soprattutto del Calcedonense, sul quale ad opera di alcuni incompetenti si è creato motivo di dubbio e di superstizione‘. Gregorio aveva così rimosso accuratamente il dato di fatto che gli scritti dei vescovi Teodoreto e Iba di Edessa, condannati definitivamente a Costantinopoli nel 553, nel 451 invece al concilio di Calcedonia erano stati in qualche modo assolti 34! Il santo monaco di Bobbio suggeriva nondimeno, con cognizione di causa, che una volta dissipati i dubbi e le accuse, la caligo suspicionis contro la Chiesa di Roma al riguardo della condanna dei Tre Capitoli, non ci sarebbero stati altri ostacoli a che la pace religiosa si estendesse su tutta quanta l’Italia, sia bizantina che longobarda: ‘fiat ut patriae pax, pax fiat mox fidei’. E Colombano così chiudeva la sua perorazione: “e che quindi tutti un unico gregge di Cristo, Re dei Re, e che tu Pietro, tutta l’Italia ti segua”. Era solo un abbaglio o una vanteria del santo monaco? La proposta di Agilulfo per un concilio pacificatore era allora un subdolo suggerimento per calcolo politico, perché il re si sarebbe atteso dalla Roma dei papi un valido sostegno all’unificazione d’Italia, nell’imminenza di una possibile conquista avaro-persiana di Costantinopoli? Comunque alla luce della lunga epistola ebobiense, a cosa si riduce l’insistente imputazione di arianesimo tra i Longobardi tramandata da altre fonti? Non escludendo sostanzialmente la loro tenacia in superstizioni e riti pagani (non ne erano immuni nemmeno i Latini in generale), dal punto di vista formale sembra piuttosto una questione di esagerazione terminologica (per ignoranza o dolosamente usata sempre a scopo denigratorio?). L’arianesimo, pur “ufficialmente” esistente con Autari e già imposto con decreto regio, semmai era stato un problema, doveva essere allora ben poca cosa agli inizi del VII secolo, molto marginale e facilmente risolvibile a livello istituzionale. E quanto rapidamente in Pannonia i Longobardi erano passati dal cattolicesimo all’arianesimo nell’imminenza della loro partenza per l’Italia, come ammette gran parte degli epigoni di qualche grave studioso, così altrettanto 32 Alcuni brani significativi dalla lettera del 614; da COLUMB., Epist., V, PL 80: “Perché dunque lo straniero cristiano dovrebbe tacere quelle cose che il vicino ariano già da tempo proclama a gran voce?” (col.274 D); “Vigila, perché Vigilio, che costoro indicano come origine dello scandalo, non vigilò abbastanza, perché a voi addossano la colpa” (col.276 C). Lascia però perplessi il seguente passaggio di Colombano: “Da quanto sento dire, vi viene imputato un accoglimento degli eretici, ... Dicono quindi che Eutiche, Nestorio e Dioscoro, antichi eretici come sappiamo, siano stati accettati da Vigilio, in non so quale sinodo, probabilmente nel quinto. Ecco, come dicono, la causa di ogni scandalo; e nel caso anche voi così ammettiate, come si dice, o anche nel caso riconosciate che lo stesso Vigilio sia morto con tale contagio, perché lo proponete pur contro coscienza?” (col.279 A). 33 GREG. MAGNO, Epist., IV, 38, ind.XII, coll.712-13. 34 FEDALTO G., 1978, Organizzazione ecclesiastica e vita religiosa nella “Venetia maritima”, pp.306-308. Si è già visto più sopra il chiaro brano al riguardo del vescovo africano tricapitolino VICT. TUNUN., Chron., PL 68, coll.956-57. 7 velocemente poteva avvenire l’esatto percorso inverso [ripetiamo però che appena qui sopra si sospettava che l’arianesimo fosse una “nuova invenzione” di Autari]. Lo stesso Agilulfo, un decennio avanti l’arrivo di Colombano, contravvenendo allo stesso precetto di Autari e probabilmente cavalcando l’ormai inarrestabile consenso del popolo longobardo al cattolicesimo aquileiese, aveva fatto battezzare suo figlio Adaloaldo dal monaco Secondo di Non, con “rito cattolico” dichiara Gregorio Magno, ma ovviamente da intendere come cattolico tricapitolino aquileiese 35. La dipartita (tra il 615 e il 616) di Colombano, di Agilulfo e di papa Bonifacio IV, se lasciava in sospeso l’idea del concilio pacificatore, non raffreddava l’impegno di Teodolinda e delle missioni di Bobbio per guidare verso la comunione con Roma. Non si giunse tuttavia in quegli anni alla soluzione definitiva della controversia religiosa; ed il cattolico re ispanico Sisebuto, circa nel 620, scriveva a re Adaloaldo e a Teodolinda perché perseverassero nell’opera di conversione degli “ariani”, preoccupato che l’eresia in Italia contagiasse e si ridiffondesse anche fra i suoi Visigoti 36. Così, ad accettare un’osservazione del Troya, Sisebuto sarebbe stato particolarmente allarmato non dalle concezioni religiose dei Longobardi ma piuttosto dall’arianesimo di sacerdoti e di consiglieri ostrogoti accolti alla corte di Milano, o ancora dispersi nel regno italico, che potevano contribuire a rivitalizzare l’eresia nella penisola ispanica 37. Se resta comunque dubbia anche la testimonianza del re visigoto quanto all’arianesimo in terra longobarda, qualche anno dopo papa Onorio nel suo epitaffio si faceva vanto dell’estinzione dello scisma tricapitolino nelle terre veneto-istriane, e dovremmo intendere anche nei territori controllati dai Longobardi: “L’Istria, occupata dalle armi nemiche, si sa che rimase nello scisma pestifero per 70 anni. (…) Ma per le tue esortazioni ritornò agli statuti dei padri“ 38. Allora alla corte longobarda emissari o consulenti ravennati o romani si muovevano e brigavano con disinvoltura, come il legato imperiale Eusebio 39. Però proprio ai tempi di papa Onorio la pacificazione religiosa nelle terre a Nord del Po ebbe una brusca fase di regresso. E si riportava più sopra al riguardo dei vescovi transpadani che, dopo un loro forse improbabile recupero all’ortodossia e alla comunione con Roma, avevano preferito riprendere la via dello scisma e non sorprendentemente avevano intrigato in appoggio di re Arioaldo. Appunto attorno al 628 lo stesso papa Onorio recriminava sulla ‘abnegata concordiae unitas’, in seguito all’apostasia del patriarca Fortunato di Grado, transfuga in terra longobarda 40. Le testimonianze delle fonti sono ovviamente quelle che sono, talvolta discordanti o antitetiche e, in questo caso, disperse in un discreto arco di tempo. Con esse dobbiamo misurarci per cercare di comprendere il dispiegarsi degli indirizzi politici e religiosi o di seguire il filo degli eventi: ed esse fortunatamente ci danno spazio per possibili ancorché irriverenti interpretazioni. Quanto ad Arioaldo, anch’egli tacciato da Giona di “arianesimo”, si sa che aveva sposato la cattolica Gundeberga, figlia di Teodolinda. Benché da duca avesse avuto qualche ruvido contrasto con i monaci di Bobbio 41 - pur’ essi inizialmente con chiare simpatie per il cattolicesimo aquileiese 35 GREG. MAGNO, XIV, 12, ad Theodelindam Lang. Reg., PL 77, coll.1314: ‘(…) et filium vobis donatum, et, quod valde excelentiae vestrae est laudabile, catholicae eum fidei novimus sociatum’. P.D., IV, 27: ‘Tunc etiam baptizatus est praenominatus puer Adaloald, filius Agilulfi regis, in Sancto Iohanne in Modicia, et susceptus de fonte est a Secundo servo Christi de Tridento, cuius saepe fecimus mentionem’. 36 In TROYA, CDL, n.289, pp.571-77. Cfr. BOGNETTI, 1960, Rinascita, p.20; FASOLI G., 1965, Longobardi, p.99. 37 TROYA, CDL, n.289, p.572, nota 2: “Ma francamente affermerò, che qui si contiene un gran fatto per la Storia d’Italia; quello, cioè, del dolore, che il Re Visigoto Sisebuto scrive di sentire per l’Arianesimo de’ Goti d’Italia. (…) I Goti adunque Ariani erano i Sacerdoti, erano i Consiglieri de’ Longobardi, tuttoché Adaloaldo Re con la madre Teodolinda fosser Cattolici: e questo, giova ripeterlo, è il fatto che finora non s’è studiato nella Storia dell’Italia Longobarda”. 38 Dall'epitaffio in TROYA, CDL, n.299. 39 FREDEGAR., Chronicum, cap.XLIX, PL 71, col.637 C (se ne è detto più sopra). 40 HONORII PAPAE I, Epistolae, II, PL 80, col.469 (supra). 41 JONAS ABBAS, Vita S.Bertulfi, 'De ultione monachi ab Arrianis', capp.12-15, PL 87, coll.1065-66: ‘Cum quodam tempore Blidulfus presbyter, cuius superius memoriam fecimus, a beato Attala ad urbem Ticinum directus fuisset, ibique pervenisset, viaque mediae civitatis ambulans obvium habuit Ariowaldum ducem Longobardorum, genere hominem nobilissimum, generum Agilulfi, cognatum Adalwaldi, sectae Arianae credulum, qui post Adalwaldi obitum regnum Longobardorum regendum suscepit. Is ergo cum Blidulfum 8 - da re invece li degnò del suo favore. Risulta sempre in Giona, che Arioaldo non volle immischiarsi nella controversia per la giurisdizione sul monastero ebobiense pretesa dal vescovo di Tortona, dichiarando che non spettava al re giudicare sulle questioni del clero ma ad una ‘synodalis examinatio’. Accondiscese quindi che una legazione di quei monaci si recasse a Roma per definire le loro questioni, e addirittura concesse loro per il viaggio una sovvenzione a carico dell’erario, un supplementum publicum 42. La conseguenza della legazione fu che con un atto pontificio del 628 papa Onorio sancì la dipendenza diretta del monastero di Bobbio dalla Chiesa di Roma 43. Nello stesso anno il papa non esitò ad inviare un’ambasceria ad Arioaldo per chiedere perentoriamente - injunximus, riferisce Onorio ai vescovi venetici - la restituzione a Grado del tesoro di quella Chiesa sottratto dal suo metropolita Fortunato, che si era unito agli scismatici in terra longobarda; e ad esigere la cattura dello stesso patriarca transfuga 44. Ovviamente non abbiamo preconcetti sulle credenze religiose di Arioaldo, ed il suo matrimonio con la cattolica Gundeberga costruttrice di chiese, poi gli intrighi in suo favore da parte degli scismatici transpadani, infine la sua politica religiosa in qualche modo – anche se opportunamente - in linea coi propositi del pontefice Onorio, ci fanno sorgere qualche dubbio sul valore dell’epiteto “ariano” che gli veniva attribuito, e sulla validità delle testimonianze al riguardo. Lo stesso dicasi di re Rotari, benché il Diacono creda di saperlo “macchiato dalla perfidia dell’eresia ariana” 45. Infatti quando con la moglie Gundeperga, vedova di Arioaldo, il re inviò a Roma una petizione a papa Teodoro I perché confermasse al monastero di Bobbio il privilegio di papa Onorio I, il pontefice in risposta omaggiava entrambi i regnanti come “indubbi per pia e religiosa devozione”! E lo stesso appellativo ‘filius noster’, col quale Teodoro I si rivolgeva a Rotari, suonerebbe stonato nel caso il papa avesse inteso riferirsi ad un conclamato eretico ariano, piuttosto che ad un cattolico anche se di una Chiesa separata 46. 3. Tricapitolini ed eresia. Ci si chiede ora da dove traesse origine questo equivoco nelle fonti al riguardo dell’identificazione degli scismatici (tricapitolini) con gli eretici (ariani). Per testare la veridicità delle stesse fonti storiche quanto all’accusa di arianesimo, constatiamo che ai tempi di Paolo Diacono, che scriveva verso la fine dell’VIII secolo, si era sicuramente perduta la percezione dei connotati originari del contrasto politico-religioso nelle Venezie. Lo stesso Paolo, accennando al vidisset, ait: Ex Columbani monachis iste est, qui nobis salutantibus denegant apta respondere. Cumque jam haud procul abesset, deridens salutem praemisit. Ad haec Blidulfus: Salutem, inquit, optabam (optarem) tuam, si tu non tuis seductoribus et veritate alienis faveres doctrinis, (etc.) ’. Cfr. FASOLI G., 1965, Longob., nota 1, p.102 e anche p.103. 42 Da JONAS ABBAS, Vita S.Bertulfi, 5-6, PL 87, coll.1062-63: “Egli (Bertulfo) inviò legati dal re per adire la causa, ma Arioaldo disse loro: «Non spetta a me giudicare sulle questioni del clero, che il giudizio di un sinodo deve mettere in chiaro». Essi allora cercano di sapere se sia fautore del progetto di quelli. Ma lui disse che in nessum modo avrebbe favorito coloro che volevano portare disturbo contro il servo di Dio. E quelli apprezzando che sebbene barbaro e seguace della setta ariana dicesse tali cose, chiedono di venir sostenuti con un aiuto pubblico perché potessero recarsi a Roma alla sede apostolica. Concesso pertanto il beneficio, per istruzione regia il suddetto abate, al cui seguito io sono stato, si recò a Roma da papa Onorio”. 43 BERTOLINI O., 1967, I papi e le missioni, p.352. 44 HONORII PAPAE I, Epistolae, II, PL 80, col.469 [supra]. 45 P.D., IV, 42. 46 THEODORI PAPAE I, Epist., VI, PL 87, col.99: ‘Dum igitur excellent(issimus) filius noster Rotharis rex, et gloriosissima filia nostra Gundiperga, regina gentis Langobardorum, pia et religiosa devotione prospicui (perspicui), nos scriptis postulasse noscuntur, ut apostolicae sedis privilegium monasterio …’ (anche in BERTOLINI O., 1967, I papi e le missioni, p.353, nota 71, da Cod. dipl. del monast. di S.Colombano di Bobbio, a cura di CIPOLLA C., 1918, in Fonti st. d’It., 52, doc.XIII, p.108). Il testo in PL aveva ‘prospicui’, che il Cipolla emendava in ‘perspicui’; il Bertolini, Op.cit., preferiva invece leggere ‘perspicua’, riferito alla sola regina cattolica, e nella nota spiegava perché “Rotari - ed il papa ben lo sapeva - era ariano”!. Gregorio Magno usava ‘filius meus’ nei confronti del tricapitolino Secondo di Non (GREG. MAGNO, Epist., XIV, 12, a Teodolinda, ind.VII (a.603); in TROYA, CDL, n.277, p.552-55); e papa Gregorio III con ‘filius noster’ alludeva all’esarca Eutichio, nella lettera al patriarca Antonino di Grado (IOAN. DIAC., Chron. Ven., PL 139, col.894 D). 9 patriarca Elia, affermava in modo grossolanamente erroneo che questi “non aveva voluto accettare i tre capitoli del concilio di Calcedonia” 47. Ancora, a proposito dello “scisma di Severo” del 590, faceva una gran confusione nello schierare i presuli cattolici scismatici ed i cattolici romani 48. Non ci si faccia quindi gran meraviglia che pure negli atti del sinodo di Mantova dell’827, il patriarca cattolico di Grado Candidiano (quello imposto da Smaragdo nel 606, quindi di stretta osservanza romana), venisse considerato addirittura come ‘haereticus’! 49. Un altro gravissimo fraintendimento lo ritroviamo ancora in Paolo Diacono, quando accenna al sinodo di Aquileia (quello attribuito al 698), in cui i presuli della metropoli scismatica, sollecitati dagli ammonimenti del santo papa Sergio, avevano deliberato di ritornare in comunione con Roma. Il Diacono riportava correttamente che “il quinto concilio ecumenico tenutosi a Costantinopoli, al tempo di papa Vigilio, sotto l’imperatore Giustiniano, si era pronunciato contro Teodoro e gli altri eretici i quali affermavano che la beata Maria aveva generato soltanto un uomo e non un vero Dio e un vero uomo” 50. Tuttavia avendo poco sopra precisato che gli Aquileiesi non volevano accettare i canoni di questo concilio, Paolo faceva di riflesso intendere che essi avessero accolto la formulazione erronea condannata a Costantinopoli su Maria christotòkos (in altre parole Maria intesa come Madre di Cristo-uomo). Effettivamente questa definizione di Nestorio rientra nel filone della cristologia eretica degli Ariani. Essa era già stata condannata ad Efeso, nel terzo concilio ecumenico (e poi a Costantinopoli, nel quinto, assieme agli scritti riassunti nei tria capitula). Ad Efeso era stata invece accreditata l’enunciazione di Maria theotòkos (Dei genetrix, Madre di Dio), meglio definita e approfondita a Calcedonia, nel quarto concilio, in cui era stata anche sancita l’unione ipostatica delle due nature, divina ed umana, in Cristo 51. Proprio alla dottrina dei primi quattro concili ecumenici, seppur controversi, erano tenacemente fedeli gli scismatici Aquileiesi; e ortodossa appare la loro professione di fede, che si rifà esattamente al Simbolo niceno e costantinopolitano primo, almeno da quanto si può ricavare dagli atti superstiti del sinodo di Grado 52. Ne troviamo ancora conferma in un passaggio della lettera di San Colombano per papa Bonifacio IV, in cui il santo monaco si addentra in questioni dottrinarie, e anche qui il credo degli Aquileiesi risulta sicuramente cattolico 53. Del resto papa Gregorio I aveva affermato, ed è una testimonianza qualificata e dirimente, che lo scisma tra Aquileia e Roma era basato su divergenze teologiche inesistenti: 'postquam talis scissura pro nulla re facta est' 54. 47 P.D., III, 20: ‘Hic Pelagius Heliae Aquileiensi episcopo, nolenti tria capitula Calchidonensis synodi suscipere, epistolam satis utilem misit, quam beatus Gregorius, cum esset adhuc diaconus, conscripsit’. Paolo avrebbe dovuto scrivere eventualmente che Elia “non aveva voluto accettare la condanna dei Tre Capitoli”. 48 P.D., III, 26. Vedi BARTOLINI E., 1982, I Barbari, nota 47, p.1212. Nemmeno ai tempi di Giovanni Diacono, che nel Chronicon Venetum ricopia tale e quale (con qualche imprecisione) da Paolo Diacono, si avevano migliori cognizioni sull'antico scisma nelle Venetiae (vedi Chron. Ven., PL 139, coll.883-884). 49 CESSI, 1940, Doc., n.50, p.85: 'In Gradus quoque ordinatus est haereticus Candidianus antistes'. 50 P.D., VI, 14; e così il Diacono prosegue: “In quel concilio fu universalmente stabilito che la beata sempre Vergine Maria fosse chiamata Madre di Dio (theotòkos) perché, secondo la fede cattolica, ha generato non solo un uomo, ma (Cristo) vero Dio e (vero) uomo” (ed.1982, Bartolini, pp.1142-43, e p.1232, nota 16). 51 Il terzo concilio ad Efeso, nel 431, aveva insegnato che in Cristo c'è solo una persona: Dio Figlio, consunstanziale al Padre dall'eternità, diventato uomo nel tempo. E che Maria, la madre di Gesù è perciò chiamata giustamente “Madre di Dio”, theotòkos in greco. Nel quarto concilio a Calcedonia, del 451, la chiarificazione dottrinale sanciva l'unione ipostatica della natura divina e di quella umana in Cristo, cioè che divinità e umanità sono unite indivisibilmente e inseparabilmente, ma anche senza confusione e senza mutamento, nell'unica persona (hypostasis) del Verbo, Figlio di Dio. 52 Acta Synodus Gradensis, in CESSI, 1940, Docum., n.6, p.11: 'Credimus in unum Deum Patrem onnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium, et in unum dominum Jhesum Christum, filium Dei unigenitum, qui natus est ex Patre ante omnia saecula, Deum verum de Deo vero genitum, non factum, consubstantialem Patri, (...)'. 53 Da COLUMB., Epist., V, PL 80, col.281 B: “Ora se, come ho sentito dire, alcuni non credono che in Cristo ci siano due nature, eretici sono da ritenersi piuttosto che Cristiani: Cristo invero è nostro Salvatore e vero Dio, eterno senza tempo, e vero uomo senza peccato dall'origine; che quanto all'essenza divina è coeterno al Padre, quanto all'essenza umana è più giovane della madre. Che nato nella carne, non si è mai staccato dal cielo; che restando nella Trinità, visse nel mondo. E perciò se si legge nel V concilio, come qualcuno mi ha detto, che chi adora due nature debba tenere la sua preghiera separata, costui è escluso dai santi, ed è separato da Dio chi così ha scritto”. E qui Colombano contesta le correnti monofisite che avevano in parte influenzato il V concilio. 10 Lo stesso concetto era già stato espresso chiaramente da papa Pelagio II nella sua seconda epistola al patriarca Elia e agli altri vescovi della Venezia: “Ora se con diligente benevolenza, con timore del Signore, premurosamente e attentamente rileggerete ciò che noi scriviamo, vi accorgerete facilmente quanto grande sia il pericolo, a causa di questioni superflue, ma anche della difesa dei capitoli eretici, di essere segregati a lungo dalla Chiesa universale” 55. Papa Pelagio con la sua terza lunghissima lettera ad Elia, la quinta edita dal Migne - con la quale pure tentava di ricondurlo all’unità e di fargli accettare il primato di Roma - si sforzava ancora di persuadere il metropolita aquileiese del suo errore. Il papa, riproponendo numerosi passaggi dagli scritti di Teodoro di Mopsuestia, li tacciava appunto di essere blasfemi, e riportava alcune confutazioni dei Padri, da cui emerge gravissimo l’errore di Teodoro e la sua influenza su Nestorio 56. Purtroppo, e lo spiega espressamente Pelagio II nel passaggio riportato sopra, il pervicace rifiuto degli Aquileiesi di accogliere il quinto concilio con la condanna dei Tre Capitoli, inizialmente per lo più politico, comportava in qualche modo un’implicita accettazione da parte loro degli scritti incriminati. Di conseguenza, agli occhi dei cattolici romani, ciò rendeva i nostri dissidenti giustamente passibili dell’accusa di nestorianesimo, e quindi di eresia. Questa lettera di papa Pelagio era sicuramente nota a Paolo Diacono, dato che l’attribuisce a papa Gregorio Magno quando ancora era diacono 57, ed è plausibile che lo storico longobardo ne avesse tratto giusto il senso, ma pure le sue esagerate asserzioni sulla sfumatura eretica degli Aquileiesi. Ciò la dice lunga su quale potesse essere l’opinione sugli scismatici da parte di molti dotti, del cristiano medio e della gente semplice. Ed è impresa non da poco cimentarsi con le diverse definizioni sull’essenza di Cristo Figlio di Dio, cioè con l’espressione ortodossa nicena homooùsios (consustanziale al Padre), contrapposta alle distinzioni ariane homoioùsios (di natura simile), hòmoios (simile) o anòmoios (dissimile); e con le rispettive implicazioni quanto all’efficacia della missione di redenzione di Cristo. Per non dire di tutte le sfumature teologiche sul filo dell’ortodossia calcedoniana che agitavano le Chiese d’Oriente e d’Africa, nelle dispute tra le galassie dogmatiche dei monofisiti e dei difisiti. Col solo fraintendimento dottrinario, non si può comunque spiegare la rapida adesione del popolo longobardo, pagano o ariano che fosse, al Cristianesimo di tradizione aquileiese (e non dimentichiamo che già in Pannonia i Longobardi si dichiaravano cattolici!). Se combiniamo la spiccata connotazione anti-bizantina degli scismatici veneti col favore della monarchia longobarda per una Chiesa nazionale, possiamo anche affermare che l’opera di proselitismo aquileiese presso i Longobardi non trovò alcuna difficoltà. E sicuramente la facile eventuale conversione avvenne non per imposizione di Agilulfo o di Teodolinda, semmai per l’obsequium o per lo spirito di emulazione nei confronti dei capi o dei potenti 58. 54 In GREG. MAGNO, Epist., IV, 2, PL 77, col.670. Cfr. BOGNETTI, 1968, Continuità, EL IV, p.332. Da PELAG. PAP. II, Epist. et decr., IV (olim VI), PL 72, col.712 D: 'Nam si cum studio charitatis, quae a nobis scribuntur, cum timore Domini sollicite vigilanterque relegetis, facile sentietis quantum sit periculum pro superfluis quaestionibus, et haereticorum defensione capitulorum, tandiu ab universali Ecclesia segregari'. 56 PELAG. PAP. II, Epist. et decr., V (olim VII), PL 72, coll.715-738. Ecco un passaggio dall'epistola di Pelagio, fra i numerosi che il papa ricava dai santi Padri per dimostrare l'eresia di Teodoro, e che nella sostanza viene ripreso dal Diacono: “Ancora dell'errore di costui anche Giovanni, l'antistite della Chiesa d'Antiochia, dice: Ordunque Teodoro, perseverando per lungo tempo, convinse molti compreso Nestorio, che Cristo figlio di Dio vivo, che nacque dalla santa vergine Maria, non è colui che dal Padre fu generato Verbo Dio consunstanziale al Padre, ma uomo che assume compartecipazione dal Verbo Dio per natura della sua volontà” (cap.XI, col.728 C). Pelagio II poneva anche in risalto che per disposizione di Teodosio I e Valentiniano II, la dottrina degli empi Teodoro e Nestorio doveva essere condannata, e che i loro seguaci e coloro che consentivano alla loro empietà non potevano essere chiamati Cristiani ma Nestoriani; chiunque poi avesse contravvenuto alla legge era passibile di pena di morte. Nessuno poi poteva tenere, leggere o diffondere i libri di Nestorio o di Teodoro: chiunque avesse tali codici li doveva esibire e bruciare di fronte a tutti (Ep.V, olim VII, cap.XIV, col.730). Teodosio, nel 381, aveva convocato il primo concilio di Costantinopoli, in cui fu definito il simbolo niceno-costantinopolitano (ancora oggi professato nella liturgia); e accettato dagli scismatici aquileiesi (supra). 57 Paolo Diacono la ricorda in III, 20: 'epistolam satis utilem misit, quam beatus Gregorius cum adhuc esset diaconus, conscripsit'. Ne accenna nella sua ‘ad universos episcopos’; GREG. MAGNO, Epist., II, 51, PL 77, col.592: 'librum quem de hac re sanctae memoriae decessor meus Pelagius papa scripserat'. 58 Il principio ‘cujus regio, ejus et religio’, ampiamente imposto in età posteriori, può essere invocato perfino in questo nostro contesto temporale, escludendone in assoluto qualsiasi forma di coercizione. 55 11 Nell’imminenza della partenza dei Longobardi dalla Pannonia, per le suggestioni dei missionari goti, e col favore di Alboino, non si era appunto supposta in questi termini un’ampia e pronta adesione di popolo all’arianesimo (o anche allora al messaggio tricapitolino)?. Venendo infine ai vescovi cosiddetti ariani dei tempi di Rotari, a causa della generale rerum Italicarum confusio, si ipotizza che pure in questo caso Paolo, in base alle sue errate interpretazioni o su suggestione delle fonti erronee, abbia frainteso e identificato come eretici, ovvero “ariani”, i presuli scismatici dell’Austria longobarda dei tempi di Rotari. O anche lui s’uniformava al diffuso intento denigratorio delle fonti di parte? Faceva però nel contempo un realistico riferimento alla condizione delle antiche civitates venete, spaccate politicamente tra Austria longobarda e Secunda Venetia, e distribuite fra i rispettivi doppioni di diocesi. Entro gli antichi originari confini patriarcali ed episcopali figuravano effettivamente sia un presule tricapitolino scismatico (”eretico”), sia uno cattolico (“ortodosso”). Così, per quanto visto finora, dall’antica metropoli e provincia ecclesiastica di Aquileia s’erano formate un’Aquileia Vetere scismatica con sede a Cormons (poi a Cividale) e una Nova Aquileia cattolica in Grado; Opitergium, aveva avuto come eredi un vescovado scismatico a Ceneda ed uno cattolico in Cittanova Eracliana; entro il territorium di Altinum esistevano allora la diocesi Treviso e quella di Torcello; Patavium risultava divisa tra Treviso-Vicenza e Malamocco; e c’erano pure Concordia e Caorle, derivate verosimilmente dalla stessa Ecclesia. Tale situazione dei tempi di Rotari si presentava ancora immutata nell’VIII secolo, con le due metropoli e con tutti quei vescovadi riconciliati con Roma, eppure tra loro politicamente distanti e ai ferri corti per la supremazia. Al diacono Paolo, per le fonti che aveva, a cui presumibilmente avrebbe attinto anche Giovanni Diacono, fu facile collegare il quadro dell’VIII secolo con la situazione politico-religiosa dei tempi di Rotari (magari su suggestione del placito liutprandino per la Chiesa di Ceneda, visionato in originale a Pavia quando Paolo vi era stato accolto a corte). . DALLA LETTERA DI SAN COLOMBANO A PAPA BONIFACIO IV (circa del 612). COLUMBANI ABBATIS, Epistolae ad diversos, V, PL 80, coll.274-282. Giunto in Italia, Colombano fu raggiunto da una lettera che lo esortava a diffidare di Roma: '.. quia necessitate magis, quam cenodoxia scribere “… poiché più per necessità che per vanità, sono spinto a coactus sum, dum quidam litteris suis quibus me scrivere, dal momento che, appena arrivato entro i confini primo pene ingressu in hujus regionis terminos di queste regioni, qualcuno mi ha colto con una sua lettera arripuit, vos mihi cavendos, tanquam in Nestorii con la quale mi esortava a diffidare di voi, in quanto caduti nell'eresia di Nestorio”. sectam decidentes, significavit' (col.282 C). Quanto si imputava alla Chiesa di Roma da parte degli scismatici, al riguardo dei Tre Capitoli: 'Quid enim tacebit peregrinus Christianus, quod jam “Perché dunque lo straniero cristiano dovrebbe tacere diu declamat vicinus Arianus?' (col.274 D); quelle cose che il vicino ariano già da tempo proclama a gran voce?”. 'Vigilate, quia aqua jam intravit in Ecclesiae navem, et “Vigilate, perché l'acqua è già entrata nella nave della navis periclitatur' (col.275 B); Chiesa, e la nave è in pericolo”. 'vigila; quia forte non bene vigilavit Vigilius, quem “Vigila, perché Vigilio, che costoro indicano come origine caput scandali isti clamant, quia vobis culpam dello scandalo, non vigilò abbastanza, perché a voi inijciunt' (col.276 C); addossano la colpa”. 'Nolite itaque amplius dissimulare, nolite tacere; sed potius emittite vocem veri Pastoris, quam agnoscunt suae oves quae alienorum vocem non audiunt' (col.278 D); “Non vogliate quindi più a lungo dissimulare, non vogliate tacere; ma piuttosto fate sentire la voce del vero Pastore, che le sue pecore riconoscono, mentre non ascoltano voce estranea”. 'Haereticorum enim receptio, ut audio, vobis “Da quanto sento dire, vi viene imputato un accoglimento 12 reputatur, quod absit, credi verum fuisse, esse vel fore. Dicunt enim Eutychen, Nestorium, Dioscorum, antiquos, ut scimus, haereticos a Vigilio in synodo, nescio quam, in quinta receptos fuisse. Ecce causam totius, ut aiunt, scandali; si et vos sic recipitis, ut dicitur, aut si et ipsum Vigilium scitis sic infectum defunctum fuisse, quare illum contra conscientiam recitatis?'. (col.279 A); 'Quid vobis aliud defendere, praeter fidem catholicam, si veri Christiani estis utrique? Non enim ego possum scire, unde Christianus contra Christianum de fide possit contendere; sed quidquid dixerit orthodoxus Christianus, qui recte Dominum glorificat, respondebit alter Amen, quia et ille similiter amat et credit. Unum itaque omnes dicite, et unum sentite, ut utrique unum sitis toti Christiani. Nam si, ut audivi, aliqui in Christo duas substantias non credunt, haeretici potius quam Christiani credendi sunt: Christus enim Salvator noster verus Deus, aeternus sine tempore, et verus homo absque peccato ex tempore est; qui juxta divinitatem coaeternus est Patri, et juxta humanitatem junior est matre. Qui natus in carne, nequaquam deerat coelo: manens in Trinitate, vixit in mundo. Et ideo si scriptum est in V synodo, ut quidam mihi dixit, quod qui duas substantias adorat, orationem suam divisam habeat, ille divisus est a sanctis, et separatus est a Deo, qui scripsit' (col.281 B). degli eretici, e Dio ne scampi che sia stato creduto vero, che lo sia o lo possa essere. Dicono quindi che Eutiche, Nestorio e Dioscoro, antichi eretici come sappiamo, siano stati accettati da Vigilio, in non so quale sinodo, probabilmente nel quinto. Ecco, come dicono, la causa di ogni scandalo; e nel caso anche voi così ammettiate, come si dice, o anche nel caso riconosciate che lo stesso Vigilio sia morto con tale contagio, perché lo proponete pur contro coscienza?”. “Che altro poi vi resta da difendere, a parte la fede cattolica, se gli uni e gli altri siete veri Cristiani? Infatti io non riesco a comprendere, perché il Cristiano si possa opporre al Cristiano per motivo di fede. Peraltro qualunque cosa il Cristiano ortodosso abbia a dire per glorificare giustamente il Signore, l'altro risponderà: Così sia. Poiché anche quello allo stesso modo ama e crede in Lui. E così tutti affermate una cosa sola, e una sola cosa credete, per essere sia gli uni che gli altri una cosa sola tutti Cristiani. Ora se, come ho sentito dire, alcuni non credono che in Cristo ci siano due nature, eretici sono da ritenersi piuttosto che Cristiani: Cristo invero è nostro Salvatore e vero Dio, eterno senza tempo, e vero uomo senza peccato dall'origine; che quanto all'essenza divina è coeterno al Padre, quanto all'essenza umana è più giovane della madre. Che, nato nella carne, non si è mai staccato dal cielo; che restando nella Trinità, visse nel mondo. E perciò se si legge nel V concilio, come qualcuno mi ha detto, che chi adora due nature debba tenere la sua preghiera separata, quegli è escluso dai santi, ed è separato da Dio chi così ha scritto”. Colombano venne pregato da re Agilulfo di scrivere al papa per la composizione dello scisma: 'a rege (Agilulfo) rogor, ut singillatim suggeram tuis “Il re mi prega che parola per parola suggerisca alle tue piis auribus sui negotium doloris: dolor namque suus pie orecchie il motivo del suo dolore: il suo dolore riguarda est Scisma populi pro Regina, pro filio forte et pro lo scisma del popolo, da parte della regina, del figlio e pure ipso; fertur enim dixisse, si certum sciret, et ipse da parte sua. Avrebbe pure detto, da quanto si dice, che se avesse conoscenza certa (della fede), lui pure crederebbe”. crederet ...' (col.278 B); 'Ego instigo vos, meos patres ac proprios patronos, ad depellendam confusionem de facie filiorum vestrorum ac discipulorum, qui pro vobis confunduntur: et, quod his majus est, ut caligo suspicionis tollatur de cathedra S.Petri. Inde conventum coge, ut ea quae vobis objiciuntur, purgetis' (col.278 D); “Io vi sollecito, padri miei e miei protettori, a scacciare la confusione dalla vista dei vostri figli e discepoli, che per causa vostra si turbano; e ciò che è più importante, che sia tolta la nebbia del sospetto dalla cattedra di San Pietro. Perciò raduna un'assemblea, in modo tale da emendare quanto vi viene rimproverato”. 'Post hanc autem scribendi occasionem, insuper Regis insistit jussio Agilulfi: cujus postulatio me in stuporem ac sollicitudinem posuit multiplicem: quippe quia non sine miraculo reor esse quod video. Reges namque Arianam hanc labem in hac diu regione, calcando fidem Catholicam, firmarunt; nunc nostram rogant roborari fidem. ...' (col.282 D). “Quindi, al riguardo del motivo di questo scritto, c'è un ordine del re Agilulfo: la cui richiesta mi ha molto stupito e turbato perché non senza miracolo ritengo sia avvenuto ciò a cui assisto: proprio i re che in questa regione hanno imposto a lungo l'infamia ariana, opprimendo la fede cattolica, ora invece richiedono che la nostra fede venga rafforzata”. 'Rogat itaque Rex, rogatque Regina, rogant te toti, ut, quam celerrime possit fieri, fiant omnia unum, fiat ut patriae pax, pax fiat mox fidei, ut toti deinceps grex unus Christi, Rex (Regis) Regum, tu Petrum, te tota sequatur Italia' (coll.282-83). “Ti prega quindi il re, ti prega la regina, ti pregano tutti: che il più celermente possibile si giunga all'unione; che si ottenga la pace di un'unica patria, che si giunga presto alla pace della fede, che quindi tutti un unico gregge di Cristo, Re dei Re, e che tu Pietro, tutta l'Italia ti segua”. 13