Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche
1982 - 2002
. Numero speciale
dei Quaderni nel
XX anniversario del Circolo
DARIO Ot BASTlAN!
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche
1982· 2002
Numero speciale
dei Quaderni nel
XX Anniversario del Circolo
DARIO
•
DE BASTIANI
EDITORE
PRESENTAZIONE
" ... il tempo passa e l'uom non se n'avvede .... "
così dicono i poeti e, talvolta, è proprio vero, ci si guarda indietro e .. sono
passati vent'anni.
Nell'ottobre del 2002 il Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche ha festeggiato
il suo ventesimo anniversario e nell'occasione e per ricordare il raggiungimento di
questo traguardo si è deciso di stampare una edizione speciale del Quaderno, che
raccolga gli studi di alcuni soci .
Non tutti i soci sono presenti nel volume con un loro lavoro poiché non tutti
i 40 iscritti sono ricercatori o studiosi. Molti di essi sono solo amanti della cultura .
e sono quelli che spronano gli studiosi a cercare sempre nuove fonti e nuove notizie
dando così vitalità al Circolo.
Il nostro piccolo gruppo, certamente minimo al confronto di altre associazioni
che vantano centinaia di iscritti, ha sempre lavorato instancabilmente per produrre
cultura, per aggiungere sempre nuovi tasselli al quadro storico del Cenedese e ad
evidenziare capolavori artistici e letterari o semplicemente aggiornare vicende del
passato a volte cadute nel dimenticatoio dell'indifferenza.
Le immagini di quadri o altre opere d'arte pubblicate nei nostri testi assolvono
ad un duplice scopo, quello di far conoscere ad un sempre maggior pubblico i nostri
tesori e, non certamente secondario, quello di ufficializzarne l'esistenza impedendone, lo speriamo, la trafugazione e la vendita clandestina.
Il Circolo, nel suo ventennio di attività, ha organizzato, in proprio, 6 Convegni
storici, ha partecipato ali' organizzazione di 3 Convegni dell'Assessorato alla
Cultura di Vittorio Veneto e collabora alla pubblicazione della rivista "Il Flaminio".
5
I soci sono spesso impegnati come collaboratori di altre pubblicazioni di arte
e varia cultura .
Ogni anno il Circolo organizza due cicli di conferenze: quattro primaverili
(febbraio- giugno) e tre autunnali (ottobre-dicembre) che vengono successivamente edite nei Quaderni del Circolo.
A margine di detta attività l'Associazione è impegnata anche nella presentazione di libri, nell'indirizzare i giovani al reperimento di documenti e testi necessari
per la stesura delle tesi di laurea, collabora con i Comuni del circondario nella
compilazione di testi di storia locale, partecipa a convegni organizzati da altri Enti
o Associazioni e ... , ogni tanto, va in gita culturale.
Mi auguro che gli studi presentati in questo Quaderno speciale siano graditi
a tutti, a quanti seguono le attività del Circolo e a chi lo leggerà per la prima volta;
gli argomenti sono vari e spaziano dalle epoche più antiche sino alla seconda guerra
mondiale.
Il Presidente
Loredana Imperio
Le pubblica;i,onidel Circolo Vittoriesedi Ricerche Storichesono reperibilipresso:
Library of Congress, Washington, USA
Archivo de Religiosidad Popular, Valencia, Spagna
Department of History University, Melbourne
Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano
Dipartimento di Storia Medievale, Padova
Archivio di Stato di Milano
Fondazione Giorgio Cini, Venezia
Museo Comunale Bottacin, Padova
Biblioteca Comunale Taroni, Bagnacavallo (RA)
Biblioteca Civica di Belluno
Archivio di Stato di Forlì
Biblioteca Marciana, Venezia
Biblioteca Nazionale, Roma
Archivio di Stato di Udine
Archivio di Stato di Treviso
Biblioteca Civica di Treviso
Biblioteca Civica di Gorizia
Archivio dei Cavalieri di Malta, Venezia
Istituto Storico Germanico, Roma
Musei Civici d'Arte Antica, Bologna
Centro studi storici, Mestre
Biblioteca Civica di Volterra
Biblioteche Comunali del Sistema Bibliotecario del Vittoriese
6
Veduta ideale di Serravalle vista da Nord (m. 2,30xl,95)
L'affr esco mostra la cittadina com'era verso la metà dell'Ottocento, con la
porta settentrionale ancora intatta e brandelli di mura castellane verso il fiume
Meschio, la chiesa di santa Giustina annessa alla caserma per sottufficiali austriaci.
Si osservano lungo il fiume il cosidetto mulin de Polentina e poco a valle il
mulin de la Croda; lungo la strada d' Alemagna animata di gente si vede il convento
di san Giovanni prima della porta della Muda.
Il castello è raffigurato intatto, col mastio ancora coperto , e il palazzo
caminese e poi dei podestà veneziani, con l'annessa chiesetta di santa Margherita.
Lungo le mura si notano le torri scudate, parimenti intatte e coperte, che si
riuniscono a destra alla rocca del Montese!; poco a valle di questa la chiesetta di
sant' Antonio.
Nel precipizio sul Meschio si nota il campanile della chiesa di santa Maria
Nova e in lontananza l'abbazia di Colle.
A sinistra in alto la chiesa di santa Augusta con la torre del Malcanton e le
fortificazioni intatte.
In alto, fra le nubi, campeggia lo stemma dei conti da Camino signori di
Serravalle tenuto tra gli artigli da un drago alato che simboleggia la possanza
guerriera della nobile famiglia.
7
Massimo Gusso
FRANCHI AUSTRASIANI NELLA VENETIA DEL VI SECOLO D.C.
Un contributo allo studio dei più antichi riferimenti al castrum di Ceneda
Premessa: le più antiche fonti su Ceneda
Fin dagli insediamenti romani tra il II sec. a. C. ed il I sec. d.C., la città o meglio
il castrum di Ceneda (dalle fonti latine e greche si ricavano diverse varianti:
Ceneda, Ceneta, Cenita e persino Cinita) dovette essere prima di tutto un modesto
insediamento fortificato posto a difesa dell'imbocco delle vie che conducevano alle
Alpi attraverso l'attuale valico del San Boldo ed il passaggio per il Lago di Santa
Croce: esso ebbe uno sviluppo prevalentemente militare, diverso quindi rispetto a
quello di altre località circonvicine, ritrovabili nelle medesime fonti geografiche,
come ad es. la statio di Susonnia (probabilmente l'odierna Susegana)' .
Una sistematica e quasi incredibile serie di perdite documentali ci ha comunque privato di tutte le testimonianze letterarie, epigrafiche e di ogni altra evidenza
documentale sulla Ceneda antecedente il VI secolo d.C. 2 , e pochissime menzioni
1) Cfr. Anonimo Ravennate IV, 30, ed. J. Schnetz, in Itineraria Romana, Lipsiae 1940, II, p. 254, che
tuttavia pone Susonnia tra le civitates; cfr. A.N. Rigoni, La Venetia nella cosmografia dell'Anonimo
Ravennate vie di comunicazione, "A Yen" 5, 1982, spec. pp. 223-224; Ead.,L 'ambito territoriale della
Venetia tra Altomedioevo e Medioevo nella cosmografia dell'Anonimo Ravennate, in Paolo Diacono
e Guido, in La Venetia nell'area Padano-Danubiana. Le vie di comunicazione, Atti del Convegno
internazionale (Venezia, aprile 1988), Padova 1990, pp. 137-150, part. pp. 140; 144, n. 14 e 147; cfr.
anche H. Philipp, s.v. Susonnia, RE IV A. l ( 1932), c. 988: "siidwestlich von Ceneta ... am Plavisfluss"
e A. Grilli, Il territorio d'Aquileia nei geografi antichi, "AAAd" 15, 1979, p. 50.
2) È stato scritto, senza tuttavia fornire un riferimento documentale verificabile, che "on mentionne
pour la première fois Ceneda sous Théodose en 420" (L. Jadin, s.v. Ceneda, inDHGE, Paris 1953, XII,
c. 136). Per un sintetico regesto delle scarse fonti (ma non di tutte) su Ceneda nell'antichità e nella tarda
antichità, si rinvia comunque al Thesaurus Linguae Latinae - Onomasticon, Lipsiae 1907-1914, voi.
9
si contano nei due secoli successivi: gli autori o i documenti che ricordano questa
località tra la seconda metà del VI e la fine dell 'VIII secolo d.C. sono infatti soltanto
sette 3 , da collocarsi nel seguente ordine cronologico:
latino/poesia: sost. Cenitam, variante Cinitam, autore: Venanzio
Fortunato (tra 569 e 576)
fonte n. 2 greco/storia: sost. Kévc-m,autore: Agazia di Myrina (tra 570 e 580)
fonte n. 3 latino/canonistica: agg. Cenetensis (?), testo: Atti della Sinodo di
Grado, del 579
fonte n. 4a latino/canonistica: agg. Cenetensis (?), testo: Atti Concilio Costantin.
III, del 680
fonte n. 4b greco/canonistica: agg. (?) Kévcrou- Kcvfaou (?), testo: Atti Concilio
Costantin. III, del 680
fonte n. 5 latino/geografia: sost. Ceneda, autore: il c.d. Anonimo Ravennate,
fine VII-inizi VIII sec.
fonte n. 6 latino/storia: agg. Cenitense, Cenetensibus, Cenetensis, autore: Paolo
Diacono, fine VIII sec.
fonte n. 7 latino/poesia: agg. Cenetensium, autore: Paolino di Aquileia, anno
799.
fonte n. 1
II, c. 314 rr. 73-79 (s.v. Ceneta). Sostanzialmente poco utili appaiono invece Aeg. Porcellini, Totius
LatinitatisLexicon. Onomasticon, cur. V. De Vit, Prati 1868, t. VIII,p. 207 (s.v. Ceneta); il successivo
Lexicon Totius Latinitatis. Onomasticon, cur. J. Perin, Patavii 1913, t. I, p. 353 (s.v. Ceneta); C.
Hillsen, s.v. Ceneta, RE III.2 (1899), c. 1899 e V. Botteon, Un documento prezioso riguardo alle
origini del vescovado di Ceneda e la serie dei vescovi cenedesi corretta e documentata. Illustrazione
critico-storica, Conegliano 1907, spec. pp. 67 ss. (pieno di notizie quantomeno stravaganti, specie per
il tardoantico); del tutto inutile G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia dalla loro origine sino ai nostri
giorni, Venezia 1854, voi. X, pp. 221-222 (s.v. Ceneda). Per un approccio archeologico si possono
leggere: A.N. Rigoni, Documentazione archeologica e strategie d'intervento per la ricostruzione
storica di Ceneda e del suo territorio, in in "Atti del 2° Convegno. Il sistema difensivo di Ceneda.
Problemi di conoscenza, recupero e valorizzazione" (maggio 1991), Vittorio Veneto 1993, pp. 109119; G. Arnosti, L'evoluzione delle logiche insediative e dell'organizzazione del territorio dall'epoca
Romana al primo altomedioevo, ibid., pp. 29-68 e ancora Id., Appunti sul Ducato Longobardo di
Ceneda, in "Atti del 3° Convegno. Castelli tra Piave e Livenza. Problemi di conoscenza, recupero e
valorizzazione" (maggio 1994), Vittorio Veneto 1995, pp. 17-42. Per la toponomastica cfr. D.
Olivieri, Toponomastica Veneta, Venezia-Roma 1961, p. 147.
3) Sulla base della premessa cronologica conseguente all'esame delle fonti dei secoli VI-VIII,
tralascio volutamente due specifiche testimonianze epigrafiche rinvenute a Montecassino, relative
due religiosi (?) cenedesi del IX secolo, una delle quali, tuttavia potrebbe essere datata in un arco
temporale "anteriore al 797-81 7" (cfr. G. Tornasi, La Diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini
al 1586, Vittorio Veneto 1998, I, p. 131), e quindi, in qualche modo essere concorrente con le fonti
da me presentate ed esaminate: si tratta di un Vend... o de Cenida ancario. Mi riservo eventuali altre
ricerche su questo personaggio; rinvio comunque, in ogni caso, ad A. Pantoni, Documenti epigrafici
sulle presenze di settentrionali a Montecassino nell'Alto Medioevo, "Benedictina" 1958, pp. 205-232.
10
Venanzio Fortunato 4 , gli Atti conciliari gradensi (forse malsicuri tout-court)
e quelli costantinopolitani (malsicuri tanto per la parte greca quanto per la latina),
la geografia dell'Anonimo Ravennate e Paolino di Aquileia si limitano a citare il
nomen Ceneda (o il suo aggettivo), senza le contestualizzazioni che consentirebbero qualche approfondimento o apprezzamento.
Quindi soltanto uno degli storici, il bizantino Agazia, inquadra Ceneda in una
precisa congiuntura, la vicenda bellica degli anni 553-554 d.C., consentendo a noi
moderni una modesta ricostruzione e valutazione storica: per questo cercherò di
sottoporre il lavoro di Agazia, in relazione al suo cenno a Ceneda, ad un esame meno
superficiale di quello che ordinariamente gli viene dedicato.
In quanto a Paolo Diacono, lo storico longobardo, pur accennando confusamente alla medesima vicenda bellica degli anni 553-554 d.C., non v'associa affatto
Ceneda, citando questa località (per restare nel medesimo momento storico) solo
con riferimento ai già ricordati versi di Venanzio Fortunato. In ogni caso, qualsiasi
considerazione sulla Ceneta tardoantica è e resta di carattere indiziario e congetturale, considerata la estrema povertà degli elementi disponibili.
Per discutere le fonti sopra riportate, e parlare - in paricolare - del VI secolo
di Ceneta, è indispensabile un approfondimento degli avvenimenti connessi con la
repentina comparsa dei Franchi nello scacchiere veneto, nell'intreccio della guerra
gotico-bizantina, e con l'insediamento (sia pur effimero) nell'area cenedese degli
stessi Franchi: furono essi infatti a mettere quel territorio al centro di episodi, di cui
rimane fortunosa testimonianza.
Un rammarico specifico deriva dalla percezione di come uno storico grandissimo come Procopio (lo sa il lettore più attento) sia stato, probabilmente, ad un
passo dal citare Ceneda, e non l'abbia fatto vuoi per la modestia della località vuoi
anche per esigenze connesse all'economia della sua narrazione 5 •
4) Che quella di Venanzio Fortunato sia da considerarsi, in ogni caso, la prima citazione di Ceneda,
era ricordato opportunamente già dal curatore del Corpus lnscriptionum Latinarum, Berolini 1877,
voi. V, p. 1067, che scriveva: "Ceneta apud antiquiores auctores ... non memoratur"; cfr. G. Cuscito,
Testimonianze archeologiche monumentali del Cristianesimo antico fino al secolo IX, in "Le origini
del Cristianesimo tra Piave e Livenza, da Roma a Carlo Magno", Atti del Convegno di Vittorio Veneto
(24-25 ottobre 1981), Vittorio Veneto 1983, p. 85; e A. Zamboni, Toponomastica e storia religiosa
fino al IX secolo, ibid., pp. 43- 78. Su Venanzio e i suoi versi vd. qui, infra, § 10. Peri 'unico documento
artistico-archeologico cenedese ancora conservato e che rechi un'iscrizione che consenta di datarlo
(alla fine del periodo di cui alle sette fonti sopra citate), la c.d. 'Pace del Duca Orso' (al Museo di
Cividale), cfr. C.G. Mor, La Cultura Veneta nei secoli VI-VIII, in Storia della Cultura Veneta ]. Dalle
origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 226-227 e n. 39 (con rinvii).
5) Peraltro Procopio non cita mai nemmeno Opitergium (Oderzo), località che diverrà in seguito, sia
pur brevemente, piazzaforte bizantina; il grande storico non cita neppure il Piave, fiume certo non
insignificante, che infatti verrà ricordato per la prima volta da Venanzio Fortunato (cfr. A. Grilli, Il
territorio d'Aquileia cit., pp. 35 e 48; cfr. anche F. Della Corte, Venanzio Fortunato, il poeta deifiumi,
in "Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti del Convegno internazionale di Studi (ValdobbiadeneTreviso, maggio 1990)", Treviso 1993, pp. 137-147). D'altra parte anche l'Isonzo sarà ricordato per
la prima volta solo da Cassiodoro (cfr. ancora A. Grilli, Il territorio d'Aquileia cit., p. 47).
11
Resta inteso che tanto Procopio quanto soprattutto Agazia (oltre che, per cenni
sparsi, anche altri storici bizantini, soprattutto Menandro, ma anche, occasionalmente,
Maiala, Evagrio e Teofane) sono indispensabili per comprendere le vicende che il
territorio della Venetia, e quello Cenedese in particolare, hanno vissuto nei terribili
frangenti del VI secolo 6 •
§ 1. Gli inizi della guerra gotico-bizantina (536-539)
Ricordo che, ancora nel 536, buona parte dell'esercito dei Goti era stazionato
inProvenzaene1Delfinato 7 • Il re Vitige, all'atto dell'assunzione al trono, in quello
stesso anno, decise di ritirarsi da quella parte della Gallia, cedendola ai Franchi,
commettendo probabilmente un clamoroso errore strategico: questa rinuncia fu
avvertita dai Franchi come un'aperta ammissione di debolezza da parte dei Goti,
pressati nell'Italia centro-meridionale da Belisario.
Di fatto tale decisione lasciava militarmente e politicamente sguarnite le
frontiere nordorientali del regno ostrogoto proprio nel frangente drammatico in cui
i bizantini entravano a Roma.
Si apriva la grande partita per "la sistemazione dell'area di interferenza dall'alto Danubio al Mediterraneo centrale - fra gli opposti poli di attrazione
rappresentati da Bisanzio e dai Franchi" 8 •
Nella prospettiva di trarne ogni possibile vantaggio strategico, i bizantini
avevano riflettuto assai per tempo sui travolgenti successi dei Franchi, fin da
quando essi, sotto la guida del re Clodoveo, avevano saputo distruggere il regno
visigotico di Alarico: Costantinopoli aveva lavorato perciò verso i Franchi per
sfruttarne la forza in senso antigotico.
Ma fin dagli inizi della guerra gotico-bizantina, i Franchi erano stati contattati
anche dalla diplomazia gotica così che si era creato un reticolo di accordi azzardati
che avevano finito per legarli, in modo pericolosamente ambiguo, ad entrambi i
contendenti 9 •
6) Devo rilevare che le pur benemerite rassegne di storia locale dedicate alla fase di trapasso tra la
Ceneda tardoantica e quella medievale, recano spesso citazioni da fonti tardoantiche latine e grecobizantine, che, quando non sono de relato, son proposte senza troppa cura nella scelta delle edizioni
(generalmente non aggiornate).
7) Sulla presenza dei Goti nella Gallia meridionale cfr. V. Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte in
Italien, "StudMed" 14, 1973, pp. 2 ss.
8) G. Tabacco, L'inserimento dei Longobardi nel quadro delle dominazioni germaniche dell 'Occidente, in "Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo - Longobardi e
Lombardia: aspetti di civiltà longobarda" - Milano 21-25 ottobre 1978, Spoleto 1980, t. I, p. 224.
9) Cfr. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602. A Socia/, Economie, and Administrative
Survey, (Oxford 1964) Baltimore 1986, p. 276, cfr. tr. it. Il Tardo Impero Romano (284-602 d.C.),
Milano 1973-1981, p. 342. Sui successi dei Franchi di re Clodoveo contro i Visigoti (507 d.C.) cfr.
12
Gli equilibri geopolitici dell'area erano stati messi seriamente in discussione
e l'Italia, specie la Ligu.ria10 e la Venetia 11 , erano state attaccate dagli Alamanni
retici, il protettorato sui quali, esercitato per pura formalità dai Goti, era stato da
questi trasferito ai Franchi.
Forse anche a partire da queste incursioni, di cui pare abbia sofferto anche
l'area veneta 12 , i Franchi, specie gli Austrasiani compresero l'opportunità strategica di intervenire sul terreno italico, senza esporsi direttamente, ma servendosi di
contingenti di popolazioni soggette.
Th. Hodgkin, Italy and her Invaders, Oxford 18962, III, p. 357; M. Christian Pfister, La Gallia sotto
i Franchi Merovingi: vicende storiche, in The Cambridge Medieval History, Cambridge 1911-1913,
ed. it. Storia del Mondo Medievale, voi. I, La Fine del Mondo Antico, Milano 1978, spec. pp. 692-693;
561; E. Stein, Histoire du Bas-Empire. De la dispatition de !'Empire d'Occidente à la mort de
Justinien (476-565), pubi. par J.-R. Palanque, Paris-Bruxelles-Amsterdam 1949, II, pp. 149-152.
Clodoveo venne allora insignito di altisonanti titoli quali 'console onorario' e 'patrizio' "by the
emperor Anastasius soon after his victory" (J.R.Martindale, The Prosopogrphy of the Later Roman
EmpireA.D. 395-527, Cambridge 1980, voi. 2 [poi PLRE II], s.v. Chlodovechus (Clovis), spec. p. 290;
vd. Greg. Tur. Hist. Frane. Il 38, voi. I, p. 192; cfr. C. Capizzi, L'imperatore Anastasio I (491-518).
Studio sulla sua vita, la sua opera e la sua personalità, Roma 1969, pp. 167 ss.; E. James, The Franks,
Oxford (UK)-Cambridge (USA) 1991, tr. it. I Franchi. Agli albori dell'Europa. Storia e Mito, Genova
1998, pp. 70 ss.). Cfr. anche J.M. Wallace-Hadrill, The Barbarian West. 400-1000, 1957, tr. it.
L'Occidente Barbarico. 400-1000, Milano 1963, pp. 100 ss.; sulle titolature attribuite ai sovrani
Franchi dagli imperatori bizantini cfr., in gen., A Gasquet, L 'Empire Byzantin et la Monarchie
Franque, Paris 1888, pp. 134-158.
10) Si intende con l'antico nome di Liguria un territorio comprendente l'attuale Piemonte e la
Lombardia, sino al fiume Adda, ma non invece l'attuale Liguria (cfr. L. Cracco Ruggini, Vicende
rurali nell'Italia antica dall'età tetrarchica ai Longobardi, "RSI" 76, 1964, p. 273; A. Carile, Il
Bellum Gothicum dall'Isonzo a Ravenna, "AAAd" 13, 1978, p. 157, n. 36 = A. Carile, La società
venetica dalla guerra gotica fra Isonzo e Ravenna all'awento dei Longobardi, cap. I di Id., La
formazione del Ducato Veneziano, in A. Carile-G. Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna, 1978, p.
137, n. 36).
11) Sul problema della Venetia et Histria nel tardoantico e sui confini della regione denominata, nelle
fonti, soltanto Venetia, cfr. S. Mazzarino, Per una storia delle Venezie da Catullo al basso impero
[1964 e 1970], ora in Id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, Il, Bari 1980, pp. 235 ss.; Id., Da
Lolliano et Arbetio al mosaico storico di S. Apollinare in Classe (Note sulla tradizione culturale di
Ravenna e dell'Anonimo Ravennate) [1965], ibid., spec. pp. 316 ss.; A.N. Rigoni, L'ambito
territoriale cit., pp. 137-150.
12) Di cui abbiamo testimonianza in Cassiodoro, Var. XII 7, e XII 28, 4 (Alamannorum nuper fugata
subreptio ), entrambe del 536. Cfr. R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger und des Konigs
Pippin, inDas Reich. Idee und Gestalt. Festschriftfar Johannes Haller, Stuttgart 1940, rist. Darmstadt
1962, pp. 10-11. Che le incursioni alamanniche toccassero anche il Veneto, nel 536-537, lo afferma
Lellia Cracco Ruggini, nel suo studio Economia e Società nel!' "Italia Annonaria ". Rapporti fra
agricoltura e commercio dal !Val VI secolo d.C., Milano 1961, p. 474.
13
Non è questa la sede per riassumere il complesso riassestamento che subì la
nazione dei Franchi dopo la morte di Clodoveo nel 511: basti dire, ad es., che tra
il 534 e il 536 i patti stretti tra Goti e Franchi riguardavano ben tre sovrani
merovingi, Childeberto e Clotario (figli di Clodoveo) e Teodeberto (nipote di
Clodoveo ) 13 •
Quest'ultimo sarà detto, in questo lavoro, re di Austrasia, intendendo con
questa denominazione la parte nord orientale del regno franco, insomma il vecchio
territorio dei Franci Ripuarii (o renani), acquisita a suo tempo da suo padre
Teodorico 14, con centro di riferimento Metz.
Clotario regnava invece a nord, da Soissons, nel territorio più ristretto tra la
Mosa e le Fiandre, e Childeberto da Parigi, sull'area dei Franci Salii (detti poi
Neustriani).
I confini tra i regni dei due zii e del nipote erano assai variabili, come le loro
alleanze o le reciproche ostilità e rivalità.
In ogni caso, al soccombere del regno dei Burgundi, nel 534, i tre sovrani
franchi si spartirono le sue spoglie arrivando a ridosso dell'arco alpino e mettendo
pericolosamente in gioco le difese dell'Italia settentrionale: "bien que l'existence
de cet État tampon filt de la plus grand importance pour le royaume ostrogothique,
celui-ci n'osa pas, comme Théodoric le Grand l'avait fait plus d'une fois, aller
jusqu'au bout pour la défendre" 15 •
Saranno soprattutto i Franchi di Teodeberto, gli Austrasiani, i protagonisti
delle vicende principali studiate in questo lavoro.
Nel 538 l'Italia era alla vigilia di una immane tragedia: le sue città andavano
militarizzandosi con trasformazioni non solo sul piano urbanistico-strutturale, ma
anche su quello del senso comune dei loro abitanti; comparivano prodigi, miracoli,
taumaturgi 16 • Inoltre alcuni recenti atti inconsulti compiuti dai Goti avevano loro
13) Cfr. A Gasquet, L 'Empire cit., pp. 159-162; PLRE II, s.v. Childebertus, pp. 284-285; s.v.
Ch/otacharius, pp. 291-292; E. James, I Franchi cit., pp. 82 ss.; A. Nagl, s.v. Theodebert I, RE V. A.2
(1934), cc. 1715-1721; J.R. Martindale, The Prosopography ofthe Later Roman Empire A.D. 527641, Cambridge 1992, voi. 3 [poi PLRE III], s.v. Theodebertus I, III-B, pp. 1228-1230 e soprattutto
F. Beisel, Theudebertus Magnus rex Francorum. Personlichkeit und Zeit, Idstein 1993.
14) Cfr. PLRE II, s.v. Theodoricus 6, pp. 1076-1077; E. James, I Franchi cit., pp. 78 ss.
15) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 332; cfr. anche G. Lohlein, Die A/pen- und ltalienpo/itik der
Merowinger im VI. Jahrhundert, Erlangen 1932, pp. 3-4; B. Saitta, La Civi/itas di Teoderico. Rigore
amministrativo, "tolleranza" religiosa e recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma 1993, pp.
46 ss.
16) Cfr. Alba Maria Orselli, Santi e Città. Santi e Demoni urbani tra Tardoantico e Alto Medioevo,
SSCISAM 36 (1988), Spoleto 1989, pp. 783-830.
14
alienato la simpatia della maggior parte dell'aristocrazia romana che lavorava
oramai per gli imperiali direttamente o indirettamente 17 •
La guerra gotico-bizantina era intanto in una fase delicata: con una fulminea
marcia oltre il Po, Belisario aveva in precedenza occupato Milano, Bergamo,
Como, Novara e molte importanti altre città della Liguria, eccetto Ticinum (Pavia):
allora "the Franks, having accepted the offers ofboth sides, waited fora favourable
opportunity to intervene in their own interests" 18 •
Il re d' Austrasia, Teodeberto, nonostante avesse dato assicurazione ai bizantini
di voler cooperare militarmente con loro, "was ambitious and treacherous" 19 , e
perseguiva una "policy of playing fast and loose between the two belligerents" 20 •
Pertanto, nella primavera del 538, egli decise spregiudicatamente "to intervene on
the Gothic side without breaking bis treaty with Justinian by sending 10,000
Burgundian 'volunteers' to Liguria" 21: "Teodeberto ... inviò diecimila uomini come
alleati [dei Goti], che non erano di nazionalità franca, ma Burgundi, per non far
vedere che interferiva negli interessi dell'imperatore: perciò, all'apparenza i
Burgundi compivano la spedizione di propria volontà e di propria iniziativa e non
ubbidendo a un ordine di Teodeberto" 22 •
17) In quello stesso 538 anche il più deciso ed autorevole esponente e propugnatore della collaborazione con i Goti, Cassiodoro, si trovava forse a Costantinopoli ed era impossibilitato a tessere
l'ennesima mediazione (cfr. O. Berto lini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941,
pp. 154 ss.); non conosciamo tuttavia esattamente i movimenti di Cassiodoro, ritiratosi dalla politica
nel 537 (cfr. A. Momigliano, s.v. Cassiodoro, in DBI, Roma 1978, voi. XXI, p. 496 e vd. qui, infra,
nota44).
18) Cfr. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire cit., p. 276, tr. it., pp. 342-343.
19) J.B. Bury, History ofthe Later Roman Empirefrom the Death ofTheodosius I to the Death of
Justinian, (London 1923) New York 1958, II, p. 203. Sulla personalità di questo sovrano cfr. anche
M. Christian Pfister, La Gallia sotto i Franchi Merovingi cit., spec. pp. 696 ss.; A. Nagl, s.v.
Theodebert I cit., cc. 1715-1721; PLRE III, s.v. Theodebertus I cit., pp. 1228-1230; U. Nonn, s.v.
Theudebert, in Lexikon des Mittelalters, Miinchen 1997, VIII, cc. 685-686.
20) J.B. Bury, History cit., Il, p. 203. Così inquadra F. Beisel le aspettative di Teodeberto: "ein
byzantinisches Oberitalien oder ein ostgotisches? Vor einer derartigen Fragestellung muB Theudebert
im Friihjahr 538 gestanden haben, und seine definitive Antwort lautete offenbar salomonisch: ein mir
unterstehendes!" (Theudebertus Magnus cit., p. 65).
21) A.H.M. Jones, The Later Roman Empire cit., p. 276, tr. it., p. 343; cfr. anche Th. Hodgkin,/taly
and her lnvaders, Oxford 19162, V, pp. 10-11; F. Gabotto, Storia dell'Italia Occidentale nel Medio
Evo (395-1313)Libro/. I Barbari nell'Italia Occidentale, Pinerolo 1911, tomo 11,p. 513; G. Lohlein,
Die Alpen- und ltalienpolitik cit., pp. 32-33; H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Bruxelles 1937,
tr. it. Maometto e Carlomagno, Roma-Bari 19764, p. 180; E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 354-355.
22) Procop., Beli. Goth. II 12, 38, p. 205 (tr. it., p. 510; generalmente seguo questa traduzione del
lavoro di Procopio, senza rinunciare a qualche occasionale integrazione o correzione). Cfr. H. Biittner,
Die Alpenpolitik der Franken im 6. und 7.Jahrhundert, "HJ" 79, 1959, p. 65; F. Beisel, Theudebertus
Magnus cit., pp. 65 ss.
15
Anche grazie all'aiuto di queste forze fresche, i Goti posero tra l'altro
l'assedio a Milano 23 che fu infatti ripresa nel marzo 539 e saccheggiata dopo
un'orrendo massacro 24 , senza che da parte bizantina si portasse soccorso, per
tempo, alla città a causa del dissidio tra Belisario e Narsete, che portò al richiamo
di quest'ultimo a Costantinopoli 25•
Non sappiamo se l'incursione burgunda, patrocinata dai Franchi, ebbe riflessi
nella Venetia, ma è senz'altro probabile che propaggini di quella scorreria abbiano
finito col coinvolgere anche quest'area; peraltro, come indica chiaramente Procopio,
gran parte delle risorse economiche, umane e militari dei Goti erano stanziate
proprio nella Venetia e proprio per questo la regione venne particolarmente
coinvolta nella guerra 26 •
Nel frattempo le forze di Belisario, attestate lungo il Po, erano duramente
impegnate nella conquista di Osimo e di Fiesole, prese poi tra ottobre e novembre
del 539: fu allora che Teodeberto, ritenne giunto il momento di guidare personalmente un attacco diretto all'Italia, approffittando del momentaneo stallo militare in cui Goti e Bizantini si erano reciprocamente posti: "the two hosts, reluctant
to risk a trial of strength, remained immobile on the banks of the river, till a new
enemy appared upon the scene" 27; f,V 'tOU't<poè <l>payyot
KEKCXKéoo0at 'tql 1toÀ.ɵcp
23) Cfr. Auctarium Marce/lini, ad a. 538.6 (assedio di Milano), p. 106; "Burgundiones zusammenmit
den Ostgoten die Stadt Mailand heimsuchten" (H. Biittner, Die Alpenpolitik der Franken cit., p. 65).
Sull'atteggiamento di Teodeberto, sull'ingenuità della diplomazia Bizantina, convinta che il sovrano
Franco avrebbe rispettato i patti e sulle vicende legate all'invasione e alla presa di Milano cfr. anche
G .B. Bognetti, Santa Maria F oris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi [ 1948],
ora in Id., L'Età Longobarda, Milano 1966, II, pp. 187-193.
24) Cfr. Procop., Beli. Goth. II 21, pp. 240-247 (tr. it., pp. 496-500);Auctarium Marce/lini, ad a. 539.3
(omnes Romanos interficiunt), p. 106; Mar. Avent. Chronica ad a. 538, p. 235 (Mediolanus a Gotis
et Burgundionibus effracta); cfr. R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger cit., p. 11. I Goti
riebbero così il controllo di tutta l'Italia Transpadana.
25) Auctarium Marce/lini, ad a. 539.1, p. 106 (Narsis revertitur Constantinopolim).
26) Cfr. A. Carile, Bellum cit., pp. 165-166 = Società cit., p. 145. Sull'incidenza degli episodi bellici
interessanti il territorio tra l'Isonzo e Ravenna, nel periodo della guerra gotica e fino al 561 cfr. ancora,
in gen., A. Carile, Bellum cit., pp. 148-151 = Società cit., pp. 128-130. In ogni caso la regione aveva
sofferto di una grave carestia negli anni 534-535 (Treviso anzi era divenuta il centro per l'ammasso
destinato agli aiuti disposti dal governo dei Goti); cfr. L. Cracco Ruggini, Economia e Società cit., pp.
473-474.
27) J.B. Bury, History cit., Il, pp. 207 (dove si legge opportunamente: "the Franks regarded the
calamities of Italy as an opportunity for themselves and were as perfidious towards the Goths as
toward the Empire"). È sempre godibile la colorita descrizione della calata dei Franchi in E. Gibbon,
The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, [1781-1788], repr. London 1995, voi. II,
chap. xli, pp. 673-675, tr. it. Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, Torino 1967, pp.
1562-1564; cfr. Th. Hodgkin, Italyand her Invaders cit., IV, pp. 309 ss.; V, p. 11; F. Gabotto, Storia
dell'Italia Occidentale cit., pp. 520 ss.; O. Bertolini, Roma cit., p. 159; H. Keller, Friinkische
Herrschaft und alamannische Herzogtum in 6. und 7. Jahrhundert, "ZGO" 124, 1976, p. 6. Non c'è
invece, sorprendentemente, alcuna traccia di questa invasione di Teodeberto in A.H.M. Jones, The
Later Roman Empire cit., pp. 276-277, tr. it., pp. 342-343.
16
rfrc0ouç 'CeKaÌ 'Proµaiouç ...28 : in buova sostanza i Franchi ritenevano assurdo che
"altri continuassero tanto tempo a guerreggiare per assicurarsi il dominio si una
terra così vicina al loro paese, mentre essi se ne rimanevano al di fuori, imparziali
verso gli uni e verso gli altri".
Non conosciamo la precisa via di accesso dei "fantassins armés de haches de
jet" 29 , né, se non a grandi linee, la direttrice della loro incursione, di cui ci informa
sinteticamente l'Auctarium Marcellini, fonte contemporanea: Theudibertus
Francorum rex cum magno exercitu adveniens Liguriam totamque depraedat
Aemiliam. Genuam oppidum in litus Tyrrheni maris situm evertit ac praedat 30 •
L'accesso sembrerebbe essere stato quello della via retica che porta a
Milano 31 , con il conseguente saccheggio della Liguria e poi, verso sud, dell'Emilia:
il rientro andrebbe tuttavia indirizzato verso la Provenza, se il saccheggio di
Genova 32 è cronologicamente alla fine dell'invasione ("chemin faisant ils mirent
encore à sac la ville de Genes, puis ce cauchemar disparut" 33 ).
28) Procop., Beli. Goth. II 25, 1, p. 261 (tr. cit., p. 509).
29) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 361.
30) Ad a. 539.4, p. 106. Nonostante J.B. Bury, History cit., Il, p. 203, n. 3, lasci intendere che il passo
del continuatore marcelliniano sia riferiribile alla precedente scorreria dei Burgundi, mi sembra
evidente che esso sia invece fonte primaria di quest'ultima invasione, guidata da Teodeberto in
persona.
31) Leggiamo infatti nella Vita Iohannis Abbatis Reomarensis Auctore lana, in MGH SS. rer. Mer.,
III, p. 513: evenit, ut Theudebertus, filius Teuderici, Clodovei condam filii, bellum ltaliae inferret,
transactis Alpibus, ltaliam inquietaret; R. Heuberger, Riitien im Altertum und Friihmittelalter.
Forschungen und Darstellung, lnnsbruck 1932,passim. Su quelle vie di accesso cfr. anche M. Gusso,
Alle origini dei Grigioni:fatti d 'arme combattuti sui Campi Canini, presso Bellinzona, nei secolo IVVI d.C., "Prometheus" 22, 1996, pp. 60-86 e Id., Le origini dei Grigioni: i Campi Canini, presso
Bellinzona, nella storia retica dei secoli/V-VI d.C., "QGrig" 65/1, 1997, pp. 7-21. Forse penetrarono
dal Monginevro; Procopio (Beli. Goth. Il 25, 5, p. 262; tr. cit., p. 51 O) scrive genericamente ou'troµÈv
<l>pcxyym
'tllç "AÀltetç..., ciifcxA.À.ouç
'tE KC.CÌ.'haÀ.oÙçOtopiçouow' Èv Aryupotç e:yÉvovw:"aus diesen
Worten folgt, daB einer der Westalpenpiisse beniitzt worden ist. Ob es der Mt. Genèvre war ... oder
einer der Bernhardpiisse, ist ganz und gar unsicher" (G. Uihlein, Die Alpen- und ltalienpolitik cit., p.
34); sul percorso di Teodeberto cfr. anche F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 68-69.
32) Il passo dell'Auctarium è l'unica fonte che riferisca del saccheggio di Genova (cfr. anche Th.
Hodgkin,ltalyand her lnvaders cit., IV,p. 311, n. 1; F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 72-73),
ed è stato ripreso, con qualche interessante variante, da Iordan., Rom. 375, p. 49: atque unus consul
[Belisario] dum contra Getas dimicat, pene pari eventu de Francis, qui cum Theodeperto rege suo plus
ducenta milia advenerant, triumphavit. sed quia ad alia occupatus alibi noluit implicari, rogantibus
Francis pacem concessit et sine suorum dispendio dejìnes ltalos expulit. Forse un cenno al passaggio
dei Franchi lungo la via marittima, con un richiamo a fonti che dovevano ricordare l'attacco a Genova,
è nel confuso racconto del cosiddetto Fredegario: cfr. Chronicarum quae dicuntur Fredegarii
Scholastici Libri IV cum continuationibus, III 44, ed. B. Krusch, in MGH SS. rer. Mer., Hannoverae
1888, p. 106 (post Theodebertus cum exercito Aetaliam ingreditur, eamque per maritimis termenibus
cuncta depopulatus ...).
33) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 361.
17
Tuttavia "Theudeberts Strategie zielte nicht auf einen Beutecoup mit folgendem
schnellen Absetzen, sondern zunachts auf eine rasche Zersprengung der noch
mobilen gotischen und byzantinischen Einheiten in Ligurien" 34 •
L'invasione ebbe un parziale successo tattico 35 , ma si dimostrò tuttavia un
fallimento strategico: exercitu dehinc suo morbo laboranti ut subveniat, paciscens
cum Belisario ad Gallias revertitur36 • Comunque ci furono devastazioni, saccheggi
e massacri che talora lasciarono i testimoni stupiti per la ferocia e la barbarie 3 , risolti
in un generale ripiegamento, forse in qualche modo concordato con i Bizantini:
Theudebertus rex Franco rum Jtaliam ingressus LiguriamAemiliamque devastavit,
eiusque exercitus foci infirmitate gravatus valde contribulatus est 38 •
La più autorevole conferma ci viene poi dallo stesso Procopio, testimone
oculare di quel complesso di eventi: la presenza dei Franchi nell'area del Po
minacciava seriamente la condotta di guerra delle forze imperiali, e Belisario
avrebbe allora, in effetti, scongiurato l'attacco franco con forti pressioni e minacce
34) F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., p. 72.
35) Procop., Beli. Goth. II 25, 2-3, p. 261, tr. it., p. 509: "al comando di Teodiberto, calarono in Italia
Avevano soltanto pochi cavalieri, che
(11youµivoumpimE>eufa~épwu, Èç 'haAfov Ècr'tpcx-teucrav).
facevano da scorta al re ed erano gli unici armati di lancia; invece tutti gli altri erano appiedati e non
possedevano né archi né lance, ma portavano una spada, uno scudo e una scure ciascuno"). Si può
ritenere quindi che i loro spostamenti non dovessero essere molto rapidi. Su questo tema, dei Franchi
'appiedati', ad eccezione dei capi, si può utilmente consultare una fonte d'età anastasiano-giustinianea,
ove si legge appunto di "un popolo potentissimo stanziato nelle Gallie" [cioè i Franchi] per il quale
"una legge prevede che nessuno possa comparire in battaglia a cavallo, se non il re, montato su di un
cavallo bianco per risultare più visibile ai nemici" (cfr. C.M. Mazzucchi ed., Menae patricii cum
Thoma referendario. De Scientia Politica Dialogus, Milano 1982, p. 8, ex lib. IV, 43-44; per la tr. it.
del passo, ibid., p. 62); proprio questo sembra rappresentare uno degli elementi di datazione di
quest'opera anonima (cfr. ancora ibid., Praef., p. XIII e C.M. Mazzucchi, Per una rilettura del
palinsesto vaticano contenente il dialogo 'Sulla Scienza Politica' del tempo di Giustiniano, in G.G.
Archi ( cur.), L'Imperatore Giustiniano. Storia e Mito. Giornate di Studio a Ravenna - 14-16 ottobre
1976, ed. Milano 1978, pp. 237-247, spec. p. 242).
36) Ancora l'Auctarium Marce/lini, ad a. 539.4, p. 106. Era stata una corsa pazza con scopi forse
prematuri, che si concluse senz'altro immediato risultato se non rovine e distruzioni nelle regioni
interessate: ciò nonostante, come ha scritto H. Biittner, "die AlpenstraBen und ihre Beherrschung
waren Faktoren in dieser politischen Zielsetzung; Theudebert I. war sich iiber die Wichtigkeit der
Alpengebiete fiir seine gr5Beren Pliine durchaus bewuBt" (Die Alpenpolitik der Franken cit., p. 66).
37) Procopio, in particolare (Beli. Goth. II 25, 7-8, p. 262, tr. it., p. 510), narra un episodio avvenuto
nei pressi di Pavia, che vide il massacro di molte donne e bambini dei Goti, i corpi dei quali vennero
gettati nel Po, come primizie di guerra, nel corso di un bestiale sacrificio umano (Beli. Goth. II 25,
10, p. 262, tr. it., p. 510).
38) Mar. Avent., Chron. ad a. 539, p. 236 (cfr G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitikcit., pp. 3435); celerque reversus ... ipse ad propria repedavit, chiosa la Vita lohannis Abbatis Reomarensis cit.,
p. 513. Se il rientro dei Franchi verso la Provenza è scenario da non rigettare, allora si può avanzare
l'ipotesi che l'incursione, guidata da Teodeberto, fosse stata concordata con Childeberto, che avrebbe
offerto scampo nei suoi territori all'esercito del nipote in ripiegamento.
18
a Teodeberto 39,le cui truppe erano state colpite, come si è visto, da un'epidemia 40;
ciò non significa, tuttavia, che nel marasma politico-militare in cui si dibatteva
l'Italia, qualche piccolo insediamento franco non si fosse già stabilito fin da questo
momento, o che non si fossero costruite le condizioni materiali per successive
scorrerie e colpi di mano in ltalia 41•
"Les Francs restaient bien maitres de quelques districts limitrophes, mais les
Goths préféraient désormais un arrangement, meme défavorable, avec l'empereur
à des relations trop proches avec les barbares d'outremonts" 42 •
È dubbio però che i Franchi, con questa loro incusione del 539 si siano spinti
fino ai confini della Venetia43 •
39) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 361; "schwere Krankheiten, die einen groBen Teil seines Heeres
hinrafften, bestimmten ihn zur Riickkehr indie Heimat" (G. Lohlein, Die Alpen- und Italienpolitikcit.,
p. 35).
40) Vd. Procop. Beli. Goth. II 25-26, pp. 261-269 (tr. it., pp. 509-512). Teodeberto, a causa
dell'epidemia e delle minacce di Belisario, "vanished across the Alps with the remainder ofhis host
as speedily as he carne, having done nearly as much mischief and reaped as little advantage as Charles
VIII, the typical Fralli{ ofthe fifteenth century, in his invasion ofltaly" (Th. Hodgkin, Italy and her
Invaders cit., IV, p. 3 I 2; F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 75 ss.). Comunque "the episode had
little influence on the course of the war" (J.B. Bury, I 923 History cit., II, p. 208). Dalle parole di
Procopio (specie Beli. Goth. II 25, 2, p. 261, tr. it., p. 509) è chiaro che esisteva un patto tra Giustiniano
e Teodeberto che prevedeva la collaborazione tra Franchi e Impero contro i Goti (cfr. anche Bel/. Goth.
I 5, tr. it., pp. 356-357): c'è un diffuso sospetto difides punica che aleggia nelle valutazioni procopiane
sulla ripetuta e sistematica violazione dei patti da parte dei Franchi, come si legge anche in un inciso
(Beli. Goth. II 25, 2, p. 261, tr. it., p. 509) ove sembra quasi si possa ritrovare il salvianeo gens ...
Franco rum infidelis (vd. Salviani Presbyteri Massiliensis, De gubernatione Dei, IV, 67, in Id., Libri
qui supersunt, ree. C. Halm, MGH AA, I, pars I, Berolini 1877, p. 49; cfr. Th. Hodgkin, Italy and her
Invaders cit., IV, p. 309, n. 1; una eco sulla infidelitas, e sulla arroganza, dei Franchi si trova persino
nel Beowulf, poema anglosassone anonimo dell'VIII secolo d.C., in particolare ai versi 1210-1213,
ed. Koch, pp. 104-106; e 2920-2921, ed. cit., p. 248); cfr. anche Ch. Diehl, Giustiniano cit., pp. 590591; Rubin, Das Zeitalter cit., p. 188 e ancora F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 82-83. Sulla
valutazione dei Franchi nelle fonti bizantine vd. qui, infra, § 6.
41) Cfr. in questo senso, G. Pepe, Il Medioevo Barbarico d'Italia [1941], Torino 1963, p. 88.
42) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 361; forse G. Lohlein esagera l'importanza delle conquiste dei Franchi
in questa fase (Die Alpen- und Italienpolitik cit., pp. 35-37).
43) Tuttavia H. Pirenne scriveva: "dal 539 Teodeberto scende in Italia con un grande esercito e ...
s'impadronisce della maggior parte della Venezia e della Liguria. Obbligato a ritirarsi a causa delle
malattie che decimano le sue truppe, Teodeberto conserva nondimeno una parte della Venezia e vi
lascia un duca" (Maometto e Carlomagno cit., pp. 52-53, sottolineatura mia). Il riferimento al duca
franco lasciato in Italia da Teodeberto, deriva, a mio avviso da un passo di Paolo Diacono che si avrà
modo di esaminare (Hist. Lang. II 2, p. 76: Bucce/lino duci ... quem ... cum Amingo a/io duce ad
subiciendamitaliam dereliquerat); anche R. Holtzmannha scritto che "Theudebert lieB Truppen unter
den Herzogen Buccelinus, Leutharius und Amingus zuriick, um diese Eroberungen zu schiitzen und
zu erweitem" (Die Italienpolitik der Merowinger cit., pp. 1 I- I 2). Ci sarà occasione, più avanti, di
discutere di questi personaggi.
19
§ 2. La guerra nella Venetia (540)
Dopo numerosi sviluppi militari e diplomatici, cui diede il suo contributo
anche un'ambigua ambasceria dei Franchi, Ravenna cadde infine nelle mani di
Belisario, che vi ottenne la resa del re Vitige e della sua corte, nella primavera del
540 (al più tardi nel mese di maggio )44 •
I bizantini si spinsero rapidamente nella Venetia, dove capitolarono quasi
tutte le piazzeforti gotiche, ivi compresa quella di Treviso (Ka.Ìoç;,foca.cntèx.mcnèx.
npo0uµ6tma. 1ta.pa.crx6µevoç;,
Ta.p~11cn6vte Ka.Ì<ettt> aìJ..JJ
8/ Beveti01ç;.... "ed egli
diede a tutti pronte garanzie, e così ottenne Treviso e ogni altro luogo fortificato nel
Veneto" 45).
Dobbiamo quindi ritenere - con la prudenza che va ossevata davanti ad un
argumentum e silentio - che allora anche Ceneda cadesse in mano agli imperiali:
infatti probabilmente solo Verona e, più in là, Pavia (Ticinum), resistettero ad
oltranza, anche perché le truppe bizantine non erano equipaggiate con adeguati
mezzi ossidionali. Anzi, di lì a poco, Verona sarebbe divenuta il primo centro della
resistenza gota e della ripresa del regno.
Dopo la partenza di Belisario dall'Italia per il suo trionfo a Costantinopoli, il
comando bizantino dell'area veneta era passato ad un alto ufficiale imperiale, di
nome Vitalio.
Nel frattempo il nuovo re goto, Ildibald (che comandava, con la piazza di
Verona, i Gothi trans Padum resistentes46), "gradually extended his authority over
44) Che in questa circostanza, assieme al re Vitige, fosse condotto a Costantinopoli anche Cassiodoro,
ipotizza A. Momigliano, Cassiodorus and ltalian Culture ofhis Time, "PBA" 41, 1955, ora in Id.,
Secondo Contributo alla Storia degli Studi Classici, Roma 1984, p. 210 (può essere tuttavia che
Cassiodoro raggiungesse Costantinopoli da Roma successivamente, nel 546, all'avvicinarsi di Totila;
cfr. A. Momigliano, s.v. Cassiodoro cit., p. 498); cfr. ciò che ha scritto di recente Ingemar Konig: "ca.
538, kurz vor der Kapitulation des Ostgotenkonigs Witigis im Kampf gegen die Byzantiner, gab er
dieses Arnt aufund iibersiedelte vermutlich 540 nach Byzanz" (Theoderich der Grofte und Cassiodor.
Vom Umgang mit dem romischen "Erbe", in A. Giebmeyer-H. Schnabel-Schiile (curr.), Das
Wichtigste ist der Mensch. Festschriftfar Klaus Gerteis zum 60. Geburtstag, Mainz 2000, p. 215).
Sull'ambasceria dei Franchi cfr. F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 78-79 ss.
45) Procop. Beli. Goth. Il 29, 40, p. 288 (tr. it., p. 525); cfr. Th. Hodgkin,ltalyand her lnvaders, Oxford
18962, IV, p. 33 7 ("most of the other cities ofNorth-eastem Italy which contained Gothic garrisons,
Treviso ..."); J.B. Bury, History cit., II, p. 213, n. 2; A. Carile, Bellum cit., pp. 169-170 = Società cit.,
p. 149. A proposito delle fonti sull'antica Treviso si veda anche il modesto contributo di Fluss, s.v.
Tarvisium RE IV. A.2 (1932), cc. 2452-2453, che tuttavia non dedica neppure un cenno alla guerra
gotico-bizantina.
46)Auctarium Marce/lini, a. 540.5, p. 106 (cfr. Iordan., Rom. 378, p. 50); cfr. anche Paul. Diac., Hist.
Rom. XII, 12, p. 134 (Gothi Transpadani Heldebadum sibi regem constituunt). Cfr. E. Stein, BasEmpire cit., pp. 368; 560; e soprattutto 566-567; C.G. Mor, Verona Medievale. dalla caduta
dell'Impero al Comune, in AA.VV., Verona e il suo territorio, Verona 1964, p. 13; F. Beisel,
Theudebertus Magnus cit., pp. 86-87.
20
Liguria and Venetia" 47 •
In particolare, nell'autunno di quello stesso anno 540, venne ripresa Treviso;
anzi, proprio nei pressi di questa città fu inflitta una dura sconfitta alle truppe
imperiali e anche il loro comandante, Vitalio, dovette sgombrare l'area: "nell'aspra
battaglia, che ebbe luogo nei pressi della città di Treviso (1t6À.tvTapl3flcnov)48 ,
Vitali o fu duramente sconfitto e dovette fuggire, salvando solo alcuni pochi dei suoi
uomini e perdendo sul campo tutti gli altri" 49 ).
Di lì a poco però il re Ildibald sarà ucciso: nel caos che ne seguì, un giovane
comandante goto e nipote del re, Baduila (che sarà poi detto Totila, cioè lett.
'immortale'), si trovava a cap~proprio della guarnigione della riconquistata
Treviso: "questo Totila si trovava allora al comando dei Goti stanziati a Treviso"
)50 •
('trovÈv Taplntcricpèipxcovtwrxavev
Egli sarebbe stato sul punto di negoziare la propria resa ai bizantini, scoraggiato dal comportamento dei capi della sua gente: infatti avrebbe proposto al
generale bizantino con sede di comando in Ravenna, Costanziano, di consegnare
agli imperiali sé, i suoi guerrieri stanziati a Treviso: "appena venne a sapere della
morte di Ildibado, come ho già detto, mandò subito a chiedere a Costanziano, che
47) J.B. Bury, History cit., II, pp. 228. Cfr. PLRE III-A, s.v. Ildibaldus, pp. 614-615.
48) Procop. Beli. Goth. Ill 1, 35, p. 303 (tr. it., p. 538). Cfr. Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit.,
IV, p. 384 ("a great battle followed near Treviso ... and this battle was disastrous for the Imperialists.
Vitalius himselfwith difficulty escaped"); e PLRE III-B, s.v. Vitalius I, pp. 1380-1381 (''was the only
Roman commander to act against Ildibald ... he risked battle near Tarbesium (Treviso) but was
defeated by Ildibald with heavy losses and fled").
49) Una grafia greca di Treviso simile a quella procopiana deve essere stata senz'altro ispiratrice per
l'Anonimo Ravennate, che in IV, 30-31, pp. 254-255 e 257 riporta infatti Tarbision e Tribicium (cfr.
Fluss, s.v. Tarvisium cit., cc. 2452-2453 e A.N. Rigoni, L'ambito territoriale cit., p. 147): tale grafia
ha contribuito, evidentemente, a giocare un brutto scherzo a Hermann Schreiber, che scrive: "Totila,
comandante sul Tarvisio, al confine tra l'Italia e il Norico" (Auf den Spuren der Goten, Miinchen 1977,
tr. it. I Goti, Milano 1981, pp. 228-229; sottolineatura mia); la svista si ripete poi nell'indice, s.v.
Tarvisio ("al confine settentrionale tra l'Italia e il Norico"), ibid., p. 312. Tornando all'Anonimo
Ravennate, alcuni studiosi hanno ritenuto il suo lavoro geografico un'opera greca, tradotta in latino,
ma si tratta di un errore di valutazione, "dovuto alla presenza di motivi grecanici in essa, e soprattutto
ai grecismi che vi si possono trovare: in realtà quei motivi grecanici e quei grecismi si spiegano con
lo stile 'misto', diciamo così, della cultura ravennate del VII secolo" (S. Mazzarino, Da Lollianus et
Arbetio cit., p. 316).
50) Procop. Beli. Goth. III 2, 7, p. 306 (tr. it., p. 540). Cfr. Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit.,
IV, p. 388 ("at the moment ofhis uncle's murder he was in command ofthe garrison at Treviso"); A.
Nagl, s.v. Totila, RE VI A.2 (1937), c. 1829; O. Bertolini, Roma cit., pp. 160 ss. e Id., s.v. Baduila,
inDBI, Roma 1963, voi. 5, p. 138; cfr. A. Carile, Bellum cit., pp. 158; 169-170 =Società cit.,pp. 137;
148-149; S. Gasparri, Dall'età longobarda al secolo X, in D. Rando-G.M. Varanini (curr.), Storia di
Treviso. Il. Il Medioevo, Venezia 1991, p. 5. Si può leggere quest'episodio anche in una fortunata
storia come la Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter [1859 ss.], di F. Gregorovius, tr. it. Storia di
Roma nel Medioevo, Roma 1900, pp. 289-291.
21
era a Ravenna, di dargli garanzie di salvezza in cambio della propria resa ai Romani
e di quella dei Goti di presidio a Treviso. Costanziano fu lieto di udire quella
proposta e subito acconsentì a tutto ciò che Totila gli aveva chiesto. Fu convenuta
per questa transazione la data precisa in cui Totila e i Goti di presidio a Treviso
avrebbero dovuto accogliere in città gli inviati di Costanziano e consegnare nelle
loro mani se stessi e la città" 51 •
Proprio all'ultimo momento, tuttavia, messaggeri dei nobili goti che si
opponevano al nuovo re Erarico, nel frattempo salito al potere, raggiunsero Baduila
e lo convinsero a porsi a capo della riscossa gotica.
Sappiamo quindi per certo che fu in area veneta, ed in particolare a Treviso 52,
e, verosimilmente, nei forti e nei castra circonvicini controllati (e non possiamo
non pensare nuovamente anche a Ceneta) che prese forma il breve e sanguinoso
riscatto bellico dei Goti, almeno fino all'assunzione al trono di Baduila-Totila, nel
settembre-ottobre del 541 ([ Gothi] dehinc sibi Baduilam, qui et Totila dicebatur,
in regnum praeficiunt 53 ): è possibile che in questo periodo si rafforzassero le difese
delle località controllate dai Goti, e che la stessa Ceneta venisse coinvolta in questo
rinnovato fervore militare.
§ 3. Insediamenti dei Franchi in area veneta (fino al 548)
La guerra gotico-bizantina continuava con estenuanti cambiamenti di fronte
tra i successi di Totila ed il ritorno di Belisario in Italia, nell'estate 544 54 •
Nel frattempo, la prima invasione franca, guidata nel 539 dal re di Austrasia,
era stata seguita negli anni successivi da altre penetrazioni, sempre organizzate da
51) Procop. Beli. Goth. Ili 2, 8-9, pp. 306-307 (tr. it., p. 540). Cfr. O. Bertolini, s.v. Baduila cit., p.
147. Su Constantianus, il comes sacri stabuli, l'ufficiale "qui avait le rang le plus élevé" tra quelli
rimasti in Italia dal 540, dopo la partenza di Belisario, cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 345 ss.; 565;
567 e PLRE Ili-A, s.v. Constantianus 1, pp. 333-334. Sulla specifica carica di comes sacri stabuli cfr.
ancora E. Stein, Bas-Empire cit., "Excursus G", pp. 796- 798.
52) "Alla fine concordarono tutti insieme di mandare qualcuno da Totila, a Treviso, per invitarlo ad
assumere il potere" ('tÉÀ.oçoÈçuµq>povficmv'tEç
itɵn:oucnmxpà TomiÀ<xvÈçTapl3flcnov... Procop. Beli.
Goth. III 2, 11, p. 307; tr. it., p. 540; cfr. V. Bierbauer, Zurostgotischen Geschichte cit., p. 19); curiosa
e singolare è la totale 'rimozione' di Treviso dalla ricostruzione dell'avvento di Totila sul trono dei
Goti in C.G. Mor, Verona Medievale cit., p. 13.
53) Paul. Diac., Hist. Rom. XII, 12, p. 134. Nel Liber Pontificalis, LXI. Vigilius (Duchesne, I, p. 298,
n. 24, p. 301; MGH GPR, I, p. 153) si legge: fune Gothi fecerunt sibi regem Badua, qui Totila
nuncupabatur; cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 567 (sulle varianti del nome di Totila cfr. ibid., pp.
567-568, n. 1).
54) Cfr. Procop. Beli. Goth. III 9, 23; 10, 13; 11, 1, risp. pp. 336; 338; 340, tr. it. pp. 558-561; cfr. E.
Stein,Bas-Empirecit., p. 577; vd.AuctariumMarcellini, a. 542.2-545.3,p. 107 (questa preziosa fonte,
in genere trascurata, si esaurisce purtroppo di lì a poco, con l'anno 548).
22
Teodeberto55 •
Ce ne informa dettagliatamente Procopio: È1tEÌ
òÈ:'tà fo't0rov'tEK:a.ÌTom{Àa
K:a.0u1tÉp'tEpa.
'tql1toÀɵ<!)
ÈyÉvE'tO
("quando poi Totila e i Goti ebbero la fortuna di
crcpicrt
riuscire vincitori nella guerra" 56 ), <I>payyotBEVE'ttrov't<X1tÀ.Etcr'ta.
1tpocrE1totftcra.vw
oÙòEVÌ
À.oyOJ
("i Franchi presero sotto il loro controllo la maggiQr
parte della Venetia, senza averne alcun diritto", senza che i Romani fossero in grado
di respingerli, o che i Goti avessero la forza di affrontare una guerra con gli uni e
con gli altri contemporaneamente)57 •
Teodeberto, il re dei Franchi, infatti, era riuscito a rendere soggette al
pagamento di un tributo alcune città dellaLiguria, le Alpi Cozie58 e la maggior parte
della Venetia (Atyoupia.ç'tExropfoa't'ta.Ka.Ì"AÀ.1tEtç
Komiaç Ka.ÌBEVEn&v
'tÙ1toÀ.À.à
59 : "denn noch waren ansehnliche Teile ltaliens in gotischen Handen:
oÙòEVÌ
À.oy<!))
vor allem das Land nordlich des Po, wo nach einem mit Totila um 545
abgeschlossenen Vertrage auch die Franken gr68ere Gebietsteile innehatten namlich von Venetien wahrscheinlich das Land zwischen Etsch [= Adige] und
Isonzo (die KiistenstraBewar in der Rand der Kaiserlichen), das nordliche Ligurien
und die Cottischen Alpen um Susa sowie zahlreiche feste Platze Mittel- und
Siiditaliens"60 •
I Franchi avevano infatti approfittato a proprio vantaggio delle difficoltà degli
altri contendenti, e senza colpo ferire si erano impadroniti delle terre che costoro
si stavano disputando, anche se non siamo in grado di precisare i tempi di questa
penatrazione.
55) Gregorio di Tours non è chiaro o forse è troppo sintetico; scrive dapprima: Theudobertus vero in
Italia abiit et exinde multum adquisivit e subito dopo confeziona una notizia che pare mettere insieme
tanto l'incursione del 539 quanto le altre successive. Scrive infatti: Buccelenum rursum dirixit, cioè
inviò ancora una volta Buccelino, qui, minorem illam ltaliam captam, atque in ditionibus regis
antedicti redactam, maiorem petit, cioè, una volta conquistata l'Italia settentrionale (minor) per conto
di Teodeberto, cercò di impadronirsi anche quella più a sud, più grande e ricca (Hist. Frane. Ili 32,
voi. I, pp. 268-269, da mettere in correlazione con il successivo IV 9, voi. I, p. 299); cfr. F. Beisel,
Theudebertus Magnus cit., pp. 87-88.
56) Beli. Goth. Ili 33, 7, p. 443 (tr. it., p. 624): lo storico si riferisce senz'altro al momento in cui il
nord dell'Italia rimase sguarnito a seguito del trasferimento verso il meridione di gran parte delle forze
gotiche nell'operazione guidata da Totila, verosimilmente - come vedremo - prima dell'anno 54 7: eo
anno Theudebertus rex magnus Francorum obiit, et sedit in regno eius Theudebaldus filius ipsius
(Mar. Avent., Chron. a. 548, p. 236).
57) Beli. Goth. Ili 33, 7, p. 443 (tr. it., p. 624).
58) Questa provincia comprendeva il territorio dell'attuale Liguria (cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp.
526-527, n. 2).
59) Procop. Beli. Goth. IV 24, 6, p. 617 (tr. it., p. 730); cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 526.
60) L. Schmidt, Die letzten Ostgoten, "Abhandlungen der PreuBischen Akademie der Wissenschaften
- phil.-hist. K.lasse", 1943, nr. 10, p. 4; F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., p. 90.
23
In quanto al periodo disponiamo di una lettera scritta dal Papa Pelagio I al
patricius Valeriano, che si riferisce a tempore ilio quo et Istrias et Venetias tyranno
Totila possidente, Francis etiam cuncta vastantibus 61•
"Theudeberts Truppen miissen sich bereits massiv in Venetien festgesetzt
haben (zwischen den Jahren 544 und 546)" 62 : in ogni caso "ai Goti erano rimaste
solo poche fortezze [città fortificate, castra 63] nella Venetia" 64), -rei-rernt0aÀ.aaaiòm
xropia 'Proµaiotç "e ai Romani le città costiere": tutto il resto del territorio lo
avevano preso in loro possesso i Franchi 65 •
È stato scritto che ai Goti sarebbe restata "la piazzaforte di Verona e così
Ceneda e le fortificazioni della parte orientale, il che permetteva loro di bloccare
la Postumia su cui del resto convergevano le strade che scendevano dai valichi
alpini ben controllati dai Franchi" 66, maio nutro qualche dubbio. In realtà per questo
61) Epistolae Aevi Merowingici Collectae n. 6, in MGH EE, III, pp. 445-447 (settembre 558-560):
il passo specifico è a p. 446. Secondo Th. Hodgkin (Italy and her Invaders cit., IV, p. 619) ciò sarebbe
avvenuto "probably in the early years ofTotila's heroic reign"; cfr. J. Sundwall, Abhandlungen zur
Geschichte des ausgehenden Romertums, Helsingfors 1919, repr. New York 1975, p. 166; secondo
G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitik, pp. 8-9, "indie Zeit um 545 fàllt die Eroberung Venetiens
durch die Franken. Der Kriegszug in das ostliche Oberitalien aber setzte den Besitz der nordlich von
Venetiengelegenen Gebiete, sowie die Beherrschung derOstalpen, ...fast ausschlieB!ich die Verbindung
zwischen Venetien und dem Frankenreich herstellen konnten, voraus" (e ibid., p. 38: "besonders die
Jahre nach 542 scheinen fiirweitere Eroberungen sehr gilnstig gewesen zu sein, da Goten und Romer
durch die Kiimpfe in Mittel- und Unteritalien vollig beansprucht waren und den Franken im Westen
der Halbinsel ebensowenig entgegentreten konnten wie in der Provinz Venetien", sottolineature mie).
62) F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., p. 102.
63) Sullo specifico tecnicismo 1toA.icrµacfr. G. Ravegnani, Kastron e Polis: ricerche sul! 'organizzazione territoriale nel VIsecolo, "RSBS" 1982, pp. 273, n. 16; 276, n. 30 e Id., Castelli e cittàfortifìcate
nel VI secolo, Ravenna 1983, p. 1O,n. 14; sulle diverse tipologie di città, villaggi ecc. nel tardoantico
cfr. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire cit., pp. 712 ss., tr. it., pp. 957 ss. (vd. inoltre qui la
successiva nota 108).
64) Procop. Beli. Goth. IV 24, 8, p. 617 (tr. it., p. 730): "the only important cities which the Goths",
scriveva J.B. Bury, "still retainded sem to have been Verona and Ticinum" (History cit., II, pp. 257;
cfr. C.G. Mor, Verona Medievale cit., p. 16; V. Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte cit., p. 29).
65) Procop. Beli. Goth. IV 24, 8, p. 617 (tr. it., p. 730); il passo procopiano fa specifico riferimento
alle gesta di Teodiberto, ricordate in relazione alla sua morte, avvenuta, come si è detto nel 54 7: questa
situazione così opportunisticamente sfruttata dai Franchi doveva essersi dunque consolidata entro
quell'anno. Procopio (Beli. Goth. IV 24, 9-11,pp. 617-618, tr. it., pp. 730-731) così prosegue: "mentre
i Romani e i Goti continuavano a battersi tra di loro nella guerra che ho fin qui descritta, senza
possibilità di affrontare, in aggiunta, altri avversari, i Franchi erano venuti a trattative coi Goti e
avevano concordato che, fino a quando i Goti avessero dovuto seguitare la guerra coi Romani,
sarebbero rimasti in pace fra loro, tenendosi ciascuno le proprie conquiste ... Se poi Totila avesse avuto
la fortuna di sconfiggere in guerra l'imperatore Giustiniano, allora i Goti e i Franchi avrebbero definito
la spartizione dei territori nel modo che sarebbe sembrato ad entrambi più conveniente"; sul punto cfr.
anche R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger cit., pp. 12-13.
66) Cfr. M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia Merovingica, in "Venanzio
Fortunato. Atti del Convegno" cit., p. 13.
24
periodo non siamo ben informati sulla sorte delle diverse località e aree della
regione veneta, e nemmeno sulla fascia costiera, sul suo sviluppo e sulla sua
percorribilità: "iiber die frankischen Eroberungen in Venetien fehlen uns alle
Einzelheiten" 67 ; possiamo però affermare con un notevole margine di sicurezza
che, con Treviso, anche Ceneta dovette passare, in quel periodo, sotto il controllo
dei Franchi, i quali probabilmente non ebbero neppure bisogno di combattere per
impadronirsene: "bedauerlicherweise kann auch hier nicht festgestellt werden,
welche Kastelle von den Franken besetzt waren. Nur von Ceneta wissen wir, daB
es frankisch war" 68 •
Non si può che concordare che l'unica cosa effettivamente sicura sulla
Ceneta, di questo periodo, è che si tratta della sola località della Venetia che
sappiamo con certezza essere stata sotto il controllo dei Franchi. Ritengo anzi, in
particolare, che, in questa fase, Ceneta non abbia subito particolari devastazioni,
ma che, anzi, i successivi insediamenti militari, prima quello goto, poi quello
franco, ne dovrebbero aver accentuato i caratteri di castrum, cioè di centro
fortificato di interesse essenzialmente militare.
È importante far discendere l'attacco franco all'area veneta anche dalla
direttrice nord/nord-est, dato che il re Teodeberto, proclamatosi signore della
Pannonia 69 , si era effettivamente impadronito di buona parte del Norico 70 •
Non è inopportuno rilevare invece che per i Longobardi, il popolo che
gravitava in quell'area, stava per aprirsi allora, proprio grazie alle vicende che qui
si descrivono, la prospettiva di una direzione di marcia che, di lì a pochi anni, li
avrebbe portati a loro volta - da protagonisti - ad impadronirsi dell'ltalia 71 •
67) G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitik cit., p. 39.
68) G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitikcit., p. 40 (sottolineatura mia); cfr. anche H. Biittner, Die
Alpenpolitik der Franken cit., p. 66.
69) Cfr. J. Jamut, Geschichte der Langobarden, Stuttgart-Berlin-Koln-Mainz 1985, tr. it. Storia dei
Longobardi, Torino 1995, p. 18. Cfr. Epistolae Austrasicae 20, ed. W. Gundlach, in MGH EE, t. III,
pars. III, spec. p. 133, dove, alla n. 5, il curatore scriveva: "Theodebertum regem Pannoniae partibus
potitum esse, alias non relatum est" (qui, infra, nota 76); sul limes Pannoniae di cui parla Teodeberto
nella sua lettera cfr. F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., p. 93.
70) Paul. Diac. Hist. Lang. II 4, pp. 80-82. A. Nagl, s.v. Theodebert I cit., c. 1719, annotava: "er
bemachtigte sich Innemorikums und des ostlichen Ratiens"; cfr. R. Heuberger, Riitien, cit., pp. 257
ss.
71) Già nel 547-548 i Longobardi avevano ottenuto da Giustiniano la formale autorizzazione ad
occupare i territori i precedenza in mano ostrogota, compresi tra la Drava e la Sava, sostenuti
dall'Impero anche con cospicui mezzi finanziari (cfr. A Gasquet, L 'Empire cit., p. 21 l; E. Stein, BasEmpire cit., p. 528; G. Tabacco, L'inserimento dei Longobardi cit., p. 226; J. Jamut, Storia dei
Longobardi cit., p. 19 e F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 108-109). Il territorio italiano era
campo di battaglia anche per altri contendenti: nell'ambito della guerra tra Longobardi e Gepidi, un
pretendente al trono Longobardo, Ildigisal, penetrò con proprie truppe - nel 549 - nella Venetia (non
sappiamo esattamente da quale direzione, ma forse toccò la parte marittima), e si scontrò con un
reparto bizantino che tentava di intercettarlo, mettendolo tuttavia in rotta, per poi dirigersi verso
25
Osservando gli eventi in un contesto più ampio, non si può non ricordare che
il re Teodeberto, con il quale, come è stato scritto, "la conquista franca esprime
pretese di egemonia europea" 72, costruì per un breve volger d'anni un vasto
dominio: anzi "die Eroberung und Beherrschung ltaliens war eines der Hauptziele,
dem Theudebert im Rahmen seiner imperialistischen Politik, die darauf ausging, an
Stelle des romischen Imperiums ein germanisches Weltreich zu setzen, zustrebte"73. Proprio per questo egli non esitò a confrontarsi con successo con una
personalità del livello di Giustiniano, con il quale stabilì una corrispondenza
ufficiale, in parte conservata 74.
oriente, verso la terra degli Sclaveni (Procop. Beli. Goth. III 35, 12-22, pp. 455-456, tr. it., pp. 631632; Paul Diac. Hist. Lang. I 21, p. 40; cfr. Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit., V, p. 122; E. Stein,
Bas-Empire cit., pp. 531-533; PLRE III-A, s.v. Ildigisal, pp. 616-617 e PLRE III-B, s.v. Lazarus 2,
p. 767: "he was in command of same Roman troops in Venetia when Ildiges (Ildigisal) met and routed
them, killing many. For the date, perhaps summer/auturnn 549").
72) G. Pepe,// Medioevo Barbarico in Europa (1949), Milano 1967, p. 123; E. Stein, Bas-Empire cit.,
pp. 525-526; G. Tabacco, L'inserimento dei Longobardi cit., pp. 230-231. Sui dettagli della
"universelle Politik Theudeberts I." cfr. specif. G. Lèihlein, Die Alpen- und Italienpolitik cit., pp. 4143. Su questo cfr. anche la valutazione di E. Gibbon, The History of the Decline and Fall cit., voi. II,
chap. xxxviii, p. 506, n. 162 e chap. xli, p. 673 ("Theodebert of Austrasia, the most powerful and
warlike ofthe Merovingian kings"), tr. it., pp. 1413, n. 1 e 1562; cfr. anche M. Christian Pfister, la
Gallia sotto i Franchi Merovingi cit., p. 696 (secondo cui Teodeberto fu "il più brillante dei sovrani
di questo periodo").
73) G. Lèihlein, Die Alpen- und ltalienpolitik cit., p. 28. "Die Austrasier setzten sich namlich im Jahr
539 unter ihrem Kèinig Theudebert I. ..., den ostgotisch-byzantinischen Krieg ausni.itzend, fiir eine
Reihe von Jahren in Venetien fest und erlangten sogar von Kèinig Totila die vorlaufige Anerkennung
dieser Erwerbung. Sie mi.issen sich nun damals, wo nicht schon fri.iher, auch des inneralpinen
Rheintals mit dessen seitlichen Verzweigungen, des Bergells, des Engadins und des Vinschgaus, also
jener Talschaften bemachtigt haben, die hinfort, zusammen mit dem Misox und dem Puschlav, das
seinem raumlichen Umfang nach mit dem Churer Bistumssprengel zusammenfallende Land Churratien
bildeten. Denn dieses Gebiet wardas unentbehrliche Verbindungsglied zwischen dem nordwestlichen
Venetien und dem frankischen Alamannien" (R. Heuberger, Ratien, cit., p. 136).
74) Cfr. Epistolae Austrasicae cit., spec. 18, 19 e 20, pp. 131-133. Questi testi appaiono tuttavia di
difficile datazione: per di più, nonostante le esplicite indicazioni di provenienza dalla cancelleria di
Teodeberto, si è ipotizzato possano essere stati confezionati (almeno in parte) sotto Teodebaldo (cfr.
ad es. A. Nagl, s.v. Theodebert I cit., c. 1719, che valuta come Ep. Austras. 19 possa essere tanto di
Teodeberto quanto del "Regierung Theodebalds, da das Datum des Briefes etwa auf das J. 5 50 verlegt
wird"; così come in PLRE III-B, s.v. Theodebaldus 1, p. 1228, si legge che anche Ep. Austras. 18
dovrebbe essere ascritta, anziché a Teodeberto, al suo successore (cfr. altresì PLRE III-B, s.v.
Missurius, p. 893). Ciò non di meno questa corrispondenza contiene in nuce i criteri ispiratori di quella
che fu la spregiudicata politica estera di Teodeberto. Difficile comunque concordare con quanto
notava H. Pirenne, sostenendo che "Teodeberto scrive nel modo più umile a Giustiniano" (Maometto
e Carlomagno cit., p. 48, n. 175, con rif. ad Ep. Austras. 20); si tratta di una valutazione formalistica
e superficiale che deriva da A.A. Vasiliev, Histoire de !'Empire Byzantin, Paris 1932, I, p. 203, n. 2
(che infatti aveva scritto: "la lettre écrite par le roi Théodobert à Justinien, dans laquelle il lui fait savoir
très humblement sur quels peuples il règne en Occident").
26
Ebbe anche modo di mostrarsi assai polemico con l'imperatore bizantino: "he
was incensed at Justinian' s assumption of the titles Francicus and Alamannicus,
with the implication that the Franks and their subjects the Alamanni had been
subjugated and were vassals of the Empire" 75 •
Nella Epistola 20, indirizzata al Domino inlustro et praecellentissimo Domno
et Patri, Iustiniano Imperatore, Teodeberto scriveva: id vero, quod dignamini esse
so/liciti, in qui bus provinciis habitemus aut quae gentes nostrae sint, Deo adiutore,
dicione subiecte: Dei Nostri misericordiamfeliciter subactis Thoringiis et eorum
provinciis adquisitis, extinctis ipsorum tunc tempore regibus, Norsavorum itaque
gentem nobis pacata maiestate, colla subdentibus edictis ideoque, Deo propitio,
Wesigotis, incolomes Franciae, ~tentrionalem p/ggam Italiaeque Pannoniae
cum Saxonibus, Euciis [gli Iuti?] qui se nobis voluntate propria tradiderunt, per
Danubium et limitem Pannoniae usque in Oceanis litoribus custodiente Deo
dominatio nostra porrigetur 76 •
Siamo ragguagliati dettagliatamente dallo storico bizantino Agazia, che
"managed to gain access to important and originai material" 77 , e che mostra pertanto
di essere assai ben informato circa la situazione italiana ma anche, in particolare,
circa quella dei Merovirigi78•
75) J.B. Bury, History cit., II, p. 257; cfr. Th. Hodgkin, ltaly and her lnvaders cit., V, pp. 11-12.
76) Epistolae Austrasicae 20 cit., p. 133: "c'est une sorte de leçon sur la géographie germanique au
VI• siècle", come osservava A.A. Vasiliev, Histoire de /'Empire Byzantin cit., p. 203, n. 2 (cfr. F.
Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 91-92). "La dilatazione dei Franchi dall'Oceano ai confini della
Pannonia e dal Mare del Nord al Mediterraneo centrale assumeva l'eredità dell'universalismo romano
in quella prospettiva occidentale latino-germanica, che si era delineata nella cultura dell'episcopato
gallo-romano di fronte alle stirpi germaniche di confessione ariana e di fronte a Bisanzio, con
l'interpretazione di Clodoveo come nuovo Costantino dell'Occidente" (G. Tabacco, L'inserimento
dei Longobardi cit., p. 231 ). Il concetto di Re-dominatore, di Re-vincitore, domina la produzione
monetaria di Teodeberto, assolutamente eccezionale per un sovrano 'barbaro', su cui cfr. A. Nagl, s.v.
Theodebert I cit., c. 1718; H. Pirenne, Maometto e Carlomagno cit., p. 96 e spec. F. Beisel,
Theudebertus Magnus cit., pp. 98-99.
77) Averi! Cameron, Agathias on the Early Merovingians, "ASNP" 37, 1968, p. 96; su questo storico
cfr., in generale, anche Ead., Agathias, Oxford 1970, bibliografia ibid., pp. 157-161.
78) Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque, ree. R. Keydel, Berolini 1967, I 4, 3, p. 14, il quale
annota come Teodeberto "avesse ritenuto intollerabile che l'imperatore Giustiniano descrivesse se
stesso nei propri editti con la titolatura di Francico, Alamannico, Gepidico, Longobardico e così via,
come se avesse sottomesso tutti quei popoli [nella tradizione romana che attribuisce agli imperatori
i nomina populorum devictorum ]. Prese questo fatto come un insulto a lui personalmente diretto, e
ritenne che anche gli altri lo ritenessero parimenti un affronto loro indirizzato". Per questo stesso passo
cfr. !'ed. S. Costanza, Messina 1969, p. 20, e l'ed. ingl., Agathias, The Histories, cur. e trad. J.D.
Frendo, Berlin-New York 1975, p. 12). Vd. anche E. Gibbon, The Historyof the Decline and Fall cit.,
voi. II, chap. xli, p. 675, tr. it., p. 1564, che colloca l'ira del re Franco dopo la disastrosa invasione del
539 e subito prima della morte dello stesso Teodeberto (a. 547), sulla scorta di Agath. I 4, 5-6, pp. 14-
27
"With much probability ... Agathias may have derived his full and accurate
information as to the Franks, and especially as to the Austrasian monarchy, from
one of King Sigebert's ambassadors to Constantinople in the year 566, perhaps
from Firminus, one of those ambassadors who was Count of Arverni and belonged
to a distinguished Gallo-Roma1, :"'mily" 79 •
È probabile che tra Giustiniano e i Franchi si fosse giunti ad una qualche forma
di intesa per cooperare, sul teatro di guerra italiano, contro i Goti. Ciò si evince, oltre
che dalla corrispondenza ufficiale tra le due corti 80 , dal racconto procopiano
dell'ambasceria di Leonzio 81 che, in missione per conto di Giustiniano, perorò
l'alleanza franco-bizantina presso il giovane figlio di Teodeberto, Teodebaldo,
ricordandogli amaramente, ma con fermezza, il mancato mantenimento di promesse fatte nel passato 82 : tramite il suo ambasciatore, Giustiniano chiedeva, in pratica,
15 (tr. ingl., pp. 12-13). Sulle titolature di Giustiniano cfr. S. Puliatti, Ricerche sulla legislazione
"regionale" di Giustiniano. Lo statuto civile e l'ordinamento militare della Prefettura africana,
Milano 1980, pp. 61-63, n. 5.
Agazia, storico e poeta bizantino, originario di Myrina (città dell'Eolide, Asia Minore), visse
all'incirca tra il 532 e il 582 e scrisse una storia in cinque libri continuando Procopio dall'anno 552
all'anno 559: si tratta quindi di un lavoro assai dettagliato per un periodo di soli sette anni; una
bibliografia su di lui si può leggere in Agathiae Myrinaei, Historiarum libri cit., introduzione, pp.
XXXIX-XL; cfr. B. Rubin, Das Zeitalter Justinians, Berlin 1960, I, pp. 227 ss.; PLRE III-A, s.v.
Agathias, pp. 23-25. Agazia "è uno storico scrupoloso ma non ha la stessa sensibilità di Procopio per
i problemi militari e spesso indulge al gusto del topos letterario nella descrizione di assedi o battaglie"
(G. Ravegnani, Castelli e città cit., p. 92).
79) Th. Hodgkin, ltaly and her lnvaders cit., V, p. 5, n. 2; cfr. Averi! Cameron,Agathiason the Early
Merovingians cit., pp. 133-134. Vd. comunque qui, al§ 6.
80) Cfr. Epistolae Austrasicae 19 cit., p. 132, ove erano stati ambiguamente promessi tria milia
virorum da inviare in rinforzo agli imperiali, ed Epistolae Austrasicae 20 cit., p. 133, nella quale
Teodeberto (se si trattava di lui) pregava Giustiniano ut antiquam retroactorum principum amicitiam
conservetis, et gratiam, quam sepius promittitis, in communi utilitate iungamur.
81) Cfr. Th. Hodgkin, ltaly and her Jnvaders cit., IV, pp. 620-621; G. Lohlein, Die Alpen- und
Jtalienpolitikcit., pp. 44-45; PLRE III-B, s.v. Leontius 5, p. 775 ("in 551 he was sent by Justinian as
envoy to Theodebald in Gaul, seeking an alliance against Totila and asking the Franks to withdraw
from those parts ofltaly previously occupied by Theodebert"). Un passo del discorso di Leonzio è
conservato in Suid. A. 1563, ed. A. Adler I, 1, p. 139: 'Aµé~ecr0m.
82) Cfr. J.B. Bury, History cit., II, p. 258. Teodebaldo, "shortly after his accession ... received an
embassy ... bringing congratulations from Justinian" (PLRE III-B, s. v. Theodebaldus I cit. , p. 1228):
tale ambasceria, del 54 7, comunque precedente di qualche anno quella di Leonzio, era guidata da
Giovanni eMissurio (cfr. PLREIII-A, s.v. Joannes 40, p. 650 ePLRE III-B, s.v. Missurius cit.,p. 893).
Si veda anche, evidentemente, EpistolaeAustrasicae 18 cit., p. 132 (a. 547?), nella quale si affermava:
amicitias nostras, quas delectabiliter requiritis, stabiliter, rogamus, studeatis, et quod meliusfoedere
inviolabili permaneant, ab animis vestris, nullis intercedentibus causis, absistant. Sulla successione
di Teodebaldo a Teodeberto cfr. Agath. I 4, 7, p. 15 (tr. ingl., p. 13); sul nuovo sovrano merovingio
cfr. Th. Hodgkin, Jtaly and her Invaders cit., V, pp. 13-14 G. Lohlein, Die Alpen- und Italienpolitik
28
al nuovo re o, meglio, alla sua corte 83 , "di volersi ritirare dai territori dell'Italia che
Teodeberto, senza averne alcun diritto, aveva pensato bene di occupare" 84 : quest'ennesimo passo diplomatico, che non fece altro che confermare i Franchi nelle
loro opportunistiche decisioni, si può datare al 549-550 o, al massimo, al 551 85 •
Totila, tra il 546 e il 549, dopo aver invano percorso la via diplomatica nei
confronti di Giustiniano 86 , aveva chiesto una figlia in moglie ad uno dei sovrani
cit., pp. 44 ss.; A. Nagl, s.v. Theodebald 1, RE V. A.2 (1934), cc. 1714-1715 e PLRE III-B, s. v.
Theodebaldus 1 cit., pp. 1227-1228. Sulla data della morte di Teodeberto (a. 547) cfr. E. Stein, BasEmpire cit., p. 530 e soprattutto, ibid., "Excursus N", pp. 816-817; G. Lohlein, Die Alpen- und
ltalienpolitik cit., p. 43) preferiva invece assegnare la morte di Teodeberto alla data tradizionale di
Mario Aventicense ( 548). Curiosamente il nome di Teodebaldo non è mai indicato correttamente nella
tradizione storiografica Longobarda che assegna al figlio di Teudeberto il nome Scusuald (Origo
gentis Langobardorum, 4, p. 4); Chusubald (Historia Langobardorum Codicis Gothani, 4, p. 9) o
Cusupald (Paul Diac. Hist. Lang. I, 21, p. 42).
83) "Wlihrend seiner Minderjlihrigkeit Jag die ganze Regierungsgewalt in den Hlinden des domesticus
Conda, der schon unter Theudebert das Amt eines hohen Hofbeamten bekleidet und so auch tieferen
Einblick indie Staatsgeschlifte erhalten batte. Dieser Mann wird auch in erster Lini e fiir die italische
Politik wlihrend der nlichsten Jahre verantwortlich zu machen sein" (G. Lohlein, Die Alpen- und
/talienpolitikcit., p. 44). Su Conda l'unica fonte resta Venanzio Fortunato, Carm. VII 16 (de Condane
domestico), cfr. M. Reydellet (éd.), Venance Fortunat, Poèmes, Paris 1998, tome II, pp. 111-114 e
188, n. 90 ("Conda n'est pas autrement connu") e M. Schuster, s.v. Venantius Fortunatus (Venantius
18), RE VIII. A.I (1955), c. 681; cfr. anche PLRE III-A, s.v. Conda, pp. 330-331 (si tratta
dell'eminenza grigia del regno austrasiano, da Teodeberto a Teodebaldo, e poi ancora da Clotario al
suo successore, Sigeberto ).
84) Procop. Beli. Goth. IV 24, 15, p. 619 (tr. it., p. 731). "Fino a quali limiti questa occupazione si
estendesse è difficile precisare, forse a non molta distanza dalla linea litoranea della terraferma" (R.
Cessi, Provincia, Ducato, Regnum nella Venetia Bizantina, "AIV" 123, 1964-65, p. 405, n. 2).
85) Cfr. J.B. Bury,Historycit., II,p. 258, n. 3; cfr. anche O. Berto lini, s.v. Baduila cit., p. 147. Procopio
(Beli. Goth. IV 24, 30, p. 622; tr. it., p. 733) ci informa che, tra la fine del 55 I e l'inizio del 552,
Teodebaldo inviò una sua ambasceria, capeggiata da Leudardo, per rispondere all'ambasceria di
Leonzio (cfr. PLRE III-B, s.v. Leudardus, p. 786). Questo ambasciatore, "and his colleagues were
probablythe adressees ofthe letter from the Milanese Clergy on the religious situation" (ancora PLRE
III-B, s.v. Leudardus cit., p. 786; le lettere in MGH EE, III, pp. 438 ss.).
86) Sulla missione a Costantinopoli, nel 546-547, degli inviati di Totila, Pelagio e Teodoro, vd.
Procop. Beli. Goth. III 21, 18-25, pp. 393-394 (tr. it., pp. 593-594) e O. Bertolini, Roma cit., pp. 169
ss.; E. Stein, Bas-Empire cit., p. 582; cfr. anche J. Sundwall, Abhandlungen cit., pp. 163; 306 e PLRE
III-B, s.v. Theodorus 14, p. 1249 (=Theodorus 24, pp. 1252-1253?); e s.v. Totila, p. 1330. Secondo
alcuni studiosi, ad una delle missioni dei Goti a Costantinopoli, a quella del 546-547, già citata, o alla
seguente, fallimentare, databile al 549-550, diretta da un romano di nome Stefano (vd. Procop. Beli.
Goth. III 37, 6-7, p. 464, tr. it., pp. 636; PLRE III-B, s.vv. Stephanus 11, p. 1186; Totila cit., p. 1331),
avrebbe preso parte il poeta Massimiano, se i suoi versi missus ad Eoas legati munera partes I
tranquillum cunctis nectere pacis opus etc. (Elegiae V, 1-2 ss., pp. 260 ss.) possono ricordare una di
queste vidende diplomatiche, nella cornice di una celebre avventura/disavventura erotica, paradossale e metaforica (cfr. G. Boano, Su Massimiano e le sue Elegie, "RFIC" 27, 1949, p. 203, che
propende per il 546, mentre E. Merone, Per la biografia di Massimiano, "GIF" 1, 1948, pp. 348-349
29
Merovingi, forse Childeberto; l'approccio del sovrano ostrogoto, che mirava
probabilmente a preservare la pace con i suoi vicini occidentali, non ebbe tuttavia
successo 87 , mentre la guerra in Italia continuava con difficoltà fino al richiamo, in
quello stesso anno, di Be1isario88 • Al re Childeberto si rivolse nel 550 il papa Vigili o,
attraverso Aureliano, vescovo di Arles, perché esortasse Totila a non danneggiare
o mettere in difficoltà la Chiesa Cattolica ed i suoi esponenti 89 : tuttavia Childeberto
si guardò bene dall'intervenire nelle vicende italiane.
Ancora nel 551 Totila aveva inviato ambasciatori a Giustiniano avanzando
proposte di pace e lamentando come ormai solo la Sicilia e la Dalmazia fossero
restate indenni dalla guerra, e i Goti erano disposti a cederle all'Impero, mentre i
Franchi avevano proditoriamente occupato gran parte dell'Italia 90 •
§ 4. Verso la conclusione della guerra gotico-bizantina
Nella primavera del 552, Totila era convinto che Narsete, il quale intanto
aveva sostituito al comando Belisario sul fronte della guerra italiana 91, avrebbe
scelto il percorso terrestre, puntando direttamente su Verona, come aveva fatto a suo tempo - il grande Teodorico, dopo aver battuto Odoacre sull'Isonzo.
Nell'eventualità, invece, che i bizantini avessero scelto di effettuare operazioni marittime, Totila riteneva che, senza distogliere truppe dagli altri scacchieri nella
penisola, gli sarebbe bastato uno schieramento relativamente leggero per rintuzzare
l'altro gli eventuali sbarchi, quando e dove si fossero verificati. Per questo incaricò
un giovane e valoroso comandante, di nome Teia, di organizzare comunque una
linea di difesa, con caposaldo strategico e operativo incardinato proprio su
e L. Alfonsi, Sulle Elegie di Massimiano, "AIV" 101, 1941-42, p. 349, propendono per il 549; cfr.
anche, in gen., F. Bertini, Boezio e Massimiano, in Atti del Congresso Internazionale di Studi
Boeziani, Pavia 5-8 ottobre 1980, Roma 1981, spec. pp. 281-283; e il più generico J. Sundwall,
Abhandlungen cit., p. 139, che scriveva: "nach Konstantinopel geschickt ... wohl zu Totilas Zeit". Più
sfumata la datazione in PLRE II, s.v. Maximianus 7, p. 740).
87) Vd. Procop. Beli. Goth. III 37, I, p. 463 (tr. it., pp. 636); cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 587.
88) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 589 ss.; dell'affanno che mostrava il governo bizantino nella
gestione della guerra contro i Goti, sotto la guida di Belisario, resta la velenosa polemica di Procopio
(Historia quae dicitur Arcana, in J. Haury-G. Wirth (edd.), Lipsiae 1963, voi. III,§§ 4-5, pp. 29-32,
trad. it. cur. da F .M. Pontani, Roma 1972, pp. 42-51 ).
89) Epistolae Arelatenses n. 45, pp. 66-69.
90) Vd. Procop.Bell. Goth. IV24,3-5,pp. 616-617, tr. it.,p. 730. Suldettagliodeglieventidellaguerra
gotica tra 545 e 552, cfr. comunque E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 577 ss.; Rubin, Das Zeitalter cit.,
p. 196.
91) V d. Liber Pontifìcalis, LXI. Vigilius (Duchesne, I, p. 299 e n. 27, p. 30 I; vd. anche Io. Mal., Chron.
XVIII, 110, p. 412 (=ed. Dindorf, pp. 484-485) e Cedren.,Hist. Comp. I, 659, 4-6); cfr. E. Stein, BasEmpire cit., pp. 597 ss.; PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit., pp. 916 ss. e F. Beisel, Theudebertus Magnus
cit., p. 121.
30
Verona 92 •
Ma Narsete, proveniente da Salona 93, "giunto ai confini del Veneto, mandò un
messaggero ai comandanti dei Franchi, che erano a capo dei presidi militari nelle
varie città fortificate di quella regione, chiedendo che lasciassero libero passaggio
alle sue truppe, come amici e alleati".
Le parole di Narsete sembrano echeggiare una preesistente situazione pattizia,
al rispetto della quale il comandante bizantino doveva essersi riferito, ma "quelli
risposero che non potevano per nessuna ragione permettere ciò a Narsete, non ne
rivelarono però il motivo, anzi tennero ben nascosto che era interesse dei Franchi
sbarrare il passo ai Romani, data la loro amicizia con i Goti, e accamparono invece
&i Acxyyoj3<ip6cxç
toùç crcp{cn
un pretesto non molto plausibile", e cioè
1toAEµtcot<itouç
... È7tcxy6µ.EVoç
iiicet ("che egli conduceva con sé anche dei Longobardi, che erano loro nemici" 94). L'alternativa che Narsete aveva di fronte a sé
consisteva infatti nel decidere tra forzare il sistema difensivo messo in opera da
Teia, che sfruttava anche le caratteristiche del terreno, e far sfilare il suo esercito
lungo il litorale: Narsete optò per il percorso costiero, "superando le difficoltà
dovute alle condizioni precarie dei passaggi fluviali lungo la vecchia via Annia" 95
on
92) Procop.Bel/. Goth. IV 26, 21-22,pp. 633-634 (tr. it., p. 739); E. Gibbon, The HistoryoftheDecline
and Fai/ cit., voi. Il, chap. xliii, p. 753, tr. it., p. 1637; Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit., IV,
p. 626; J.B. Bury, History cit., Il, p. 262. Cfr. A. Nagl, s.v. Theia, RE V. A.2 (1934), c. 1603; Ead.,
s.v. Totilacit.,c.1836ePLREIII-B,
s.v. Theia,p. 1224.Cfr. ancheC.G. Mor, VeronaMedievalecit.,
p. 16, che sembra riservare, oltre che a Verona, anche a Treviso, un ruolo strategico nell'impianto
difensivo di Teia: ma forse c'è qualche confusione con il ruolo rappresentato da Treviso al tempo di
Totila. Vd. supra nota 52.
93) Vd. Theoph., Chron. A.M. 6043, p. 227 De Boor (= 352 B); Anastas., Chron., p. 144, 17-20 De
Boor; cfr. A. Lippold, s.v. Narses 13a, RE Supplbd. XIII (1970), cc. 875-876 (sulla partenza delle
truppe imperiali guidate da Narsete ).
94) I passi greci sono tratti da Procop. Beli. Goth. IV 26, 18-19, pp. 632-633 (tr. it., p. 739); cfr. E.
Stein, Bas-Empire cit., pp. 534; 600-601. Così chiosa Th. Hodgkin il 'pretesto' addotto dai Franchi:
"the real reason for this hostile procedure was that for the moment it seemed a more profitable course
to keep, than to break, the oaths which the Franks had swom to the Goths" (Italy and her Invaders cit.,
IV, p. 625; cfr. anche R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger cit., p. 16). L'esercito di
Narsete era costituito da contingenti di diverse nazionalità, tra cui anche tremila Eruli i quali, dopo
la guerra, saranno stanziati nel Trentino per assicurare la difesa di quel territorio di confine; cfr. V.
Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte cit., p. 34. Per l'alternanza della denominazione dei
Longobardi in greco cfr. ancheSuid. Lex., ed. A. Adlercit., A2leA642, voi. I, 3, risp. pp. 226 e 278.
95) Cfr. M. Pavan, Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia cit., p. 14. Sulla via di accesso
sceltadaNarsete cfr. R. Cessi,Provincia cit., p. 405, n. 2; C.G. Mor,DaRoma a Carlo Magno: vicende
politiche tra Piave e Livenza, in "Le origini del Cristianesimo tra Piave e Livenza" cit., p. 13; G.
Rosada, La direttrice endolagunare e per acque interne nella decima regio maritima: tra risorsa
naturale e organizzazione antropica, in La Venetia nell'area Padano-Danubiana cit. (1990), p. 159,
per rinvii ai passi procopiani qui citati; cfr. anche O. Bertolini, Roma cit., p. 183; A. Nagl, s.v. Theia
cit., c. 1603; S. Mazzarino, Per una storia delle Venezie cit., p. 257. C.G. Mor sostiene che i Franchi
avrebbero negato il passaggio agli imperiali "per la pianura, lungo la Postumia (la litoranea Anoia era
già sommersa)" (Verona Medievale cit., p. 16).
31
e varcando le lagune venete, rimaste evidentemente sotto il controllo imperiale,
mpiow ov'trov"gli abitanti erano tutti sudditi fedeli" 96 •
dove 1CCX'tTJ1COrov
Totila era al corrente degli ultimi eventi veneti, e le notizie della veloce
avanzata di Narsete lungo il litorale a sud dell'Adige, che smentivano le sue
previsioni, sconvolsero i suoi piani.L'invio di Teia a Verona si era rivelato-per i
Goti - una mossa errata, perché aveva lasciato sguarnita al nemico la via per
Ravenna, e gli aveva altresì offerto la possibilità di tagliare in due lo schieramento
gotico, separando il re dalla parte migliore delle sue forze.Si può ritenere che a quel
punto, per propria autonoma scelta o per ordine superiore, Teia decidesse, in
pratica, di abbandonare la Venetia, lasciando senza difesa città e fortificazioni,
mettendosi alla testa delle sue residue forze per raggiungere Totila, acquartierato
nella vicinanze di Roma.I territori veneti finirono allora ancor di più sotto la
pressione dei Franchi esclusa sempre, forse, l'area veronese. Ma Totila, come
sappiamo, fu di lì a poco sconfitto nella battaglia di Busta Gallorum (fine giugno
552) 97 e, a quel punto Narsete poté intraprendere la riconquista dell'Italia liberandosi per prima cosa del contingente ausiliario di Longobardi, divenuto sempre
più ingombrante e pericoloso persino per quelle così terribili contingenze: "prima
di tutto pose fine al deprecabile comportamento dei Longobardi che militavano
nell'esercito, perché essi, superando la loro consueta inciviltà di modi, ora si erano
messi ad appiccare il fuoco a tutti gli edifici che trovavano e a violentare le donne,
trascinandole via dai santuari in cui si erano rifugiate. Egli se li propiziò con molti
ricchi doni e li convinse a tornare in patria, dando ordine a Valeriano e a Damiano,
suo nipote, di scortarli coi propri soldati, per impedire che facessero danni a
qualcuno lungo il cammino" 98 • Il contingente longobardo venne quindi "accompa-
96) Procop. Beli. Goth. IV 26, 24, p. 634 (tr. it., p. 740); cfr. PLRE III-8, s.v. Narses 1 cit., p. 917.
97) Procop. Beli. Goth. IV 32, 7-21, p. 652-654 (tr. it., p. 753-756); Narses eunuchus ex praeposito
patricius Totilanem Gothorum regem proelio apud ltaliam mirabiliter supera! ac perimit et omnes
eius divitias tollit (Victoris Tonnenensis Episcopi, Chronica ad a. 554, 4, p. 203); vd. Mar. Av.
Chronica ad a. 553 e 568, pp. 236 e 238; Additamenta ad Chronica Minora (isidoriana), in Chronica
Minora II cit., p. 503; Agnellus Rav., lib pont. 62, in O. Holder-Egger (ed.), Agnelli qui et Andreas
Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, MGH SS. rer. Lang., Hannoverae 1878, p. 322; Paul. Diac.
Hist. Rom. XVI 23, p. 135; Beda Chron. 522, ed. Th. Mommsen, MGH AA, XIII =Chronica minora III,
Berlin 1898, repr. Milnchen 1981, p. 308; e anche gli Additamenta ad Chronica Bedana, ibid., p. 334;
Io. Mal., Chron. XVIII, 116, p. 415 (=ed. Dindorf, p. 486); Theoph., Chron. A.M. 6044, p. 228 De
Boor = 354 B; Cedren., Hist. Comp. I, 659, 17). Cfr. J.B. Bury, History cit., II, pp. 258-269; O.
Berto lini, s.v. Baduila cit., pp. 148-149; E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 601-602; Rubin, Das Zeitalter
cit., p. 196; A. Lippold, s.v. Narses cit., c. 876; PLRE III-8, s.v. Narses 1 cit., pp. 917-918.
98) Procop. Beli. Goth. IV 33, 2, pp. 661-662 (tr. it., p. 757; molto più edulcorato Paul. Diac. Hist.
Lang. II 1, p. 76). Cfr. anche E. Gibbon, The History ofthe Decline and Fai! cit., voi. II, chap. xliii,
pp. 753-755, tr. it., pp. 1636-1637; G.B. Bognetti, Santa Maria cit., p. 201; E. Stein, Bas-Empire cit.,
p. 602; C.G. Mor, Bizantini e Langobardi sul limite della laguna, "AAAd" 17, 1980, p. 232; N.
Christie, The Lombards. The Ancient lombards, Oxford UK-Cambridge USA 1995, tr. it. J
32
gnato" verso il confine nordorientale da truppe imperiali: in quella circostanza i
bizantini tentarono di porre l'assedio a Verona, ancora in mano ai Goti99, e si giunse
anche ad un preliminare di trattativa tra assediati ed assedianti: 6rt<l>payyot
µa06vtEç, ocrot<ppoupà.v
Èç tà b:ì Bevetiaç xropia.... ("ma i Franchi, che erano
acquartierati in altri centri del Veneto, venuti a conoscenza di questi negoziati, si
intromiseroin ogni modo per impedirli,reclamandoil diritto di disporreessi di tutta
la regione in quanto appartenente a loro" 100).Teia, ritornato precipitosamente al
nord e proclamatore come successoredi Totila (et levaveruntsuper se Gothiregem
nominem Teia in Ticino101), si diede a sua volta da fare per cercare di "attirare i
Franchi in un'alleanza militare" contro i bizantini, senza tuttavia successo10 ; anzi,
"persa ogni speranza riguardo ai Franchi"103, tornò a Sud, pose in assetto di guerra
le sue truppe a Cuma, e si mise in marcia per affrontareNarsete.La Venetiarimase
così nuovamente, sia pure per un periodo abbastanza breve (estate-fine 552),
pressoché in balìa degli eventi1°4 • Noi sappiamo tuttavia che, alla morte di Teia,
a.
Longobardi. Storia e Archeologia di un popolo, Genova 1997,p. 47; PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit.,
p. 919. È chiaro che quei Longobardi, guidati dal loro re Auduin, una volta entrati, al seguito dei
bizantini, nell'Italia settentrionaleavevano preso buona nota di luoghi, difficoltà e possibilità e che
questa loro 'ricognizione' non sarebberisultatavana: si può leggereil già citato Paul. Diac.Hist. Lang.
II 1, p. 76, ove Auduin è confuso con suo figlio e successoreAlboin; cfr. anche, in gen., A Gasquet,
L 'Empire cit., p. 212; Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit., V, pp. 132 ss.; P. Delogu, Il regno
longobardo, in P. Delogu-A.Guillou-G.Ortalli,Longobardi e Bizantini (Storia d'Italia, Torino 1980,
vol. I), pp. 12-13 e PLRE III-A, s.v. Audoin, pp. 1520153.
99) Vd. Procop. Beli. Goth. IV 33, 3, p. 662 (tr. it., p. 757). "Now, however, the Frankish generals
appearedupon the scene, and in the name of their master forbadeVeronato be reunitedto the Empire.
Owingto the number of fortresseswhich they now held in Upper Italy, the consideredall the land north
ofthe Poto be in fact Frankish territory, and would suffer no city within its borders to surrender to
the generals of Justinian" (Th. Hodgkin,Italy and her Invaders cit., IV, p. 647; cfr. anche C.G. Mor,
Verona Medievale cit., p. 16; PLRE III-B, s.v. Valerianus 1, spec. pp. 1360-1361).
100) Procop. Beli. Goth. IV 33, 7, p. 662 (tr. it., p. 757); cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 602.
101) Agnellus Rav., lib pont. 62, p. 322; cfr. C.G. Mor, Verona Medievale cit., p. 16.
102) Procop. Beli. Goth. IV 33, 7, p. 662 (tr. it., p. 757); Agath. I 5, 2-ss., pp. 15-16 (tr. ingl., pp. 1314). "Teias accordingly strained every nerve to obtain a cordial alliance with the Franks, without
which he deemed it impossibleto meet Narses in the open field. Tue royal treasure in the stronghold
of Pavia was all expended in lavish gifts to Theudibald and his Court in order to obtain this alliance.
Tue Franks took the money ofthe dying Gothic nationality, and decided not to give it any assistance,
but to let Emperor and King fight out their battle to the end, that Italy might fall an easier prey to
themselves" (Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit., IV, pp. 647-648).
103)Procop. Beli. Goth. IV 34, 21, p. 670 (tr. it., p. 761); cfr. PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit., pp. 919920.
104) Purtroppo con la metà del 552 viene meno una fonte come Procopio, per noi preziosissima:
comunque, di un ritorno dei Goti, subito dopo la sconfitta di Teia, alle loro guarnigionivenete narra
esplicitamenteAgazia, come, tra breve, avremo modo di vedere.
33
eliminato dall'offensiva bizantina scatenata da Narsete 105, i Goti, non essendo più
in grado di darsi un sovrano, seppero comunque mantenere un embrione di
autonoma organizzazione statuale, che provvide a riorganizzare le loro scarse forze
ed a difendere i loro residui insediamenti, collocati lungo la penisola come rade
macchie di leopardo 106 • Una parte di quei Goti, in particolare, che avevano seguito
Teia al sud, avevano deciso di fare ritorno nelle loro 'guarnigioni' venete. Secondo
Agazia, infatti 107 quelli al di là del Po (quelli, cioè, ÈKtÒ<;
II&8ou)"si dispersero verso
la Venetia raggiungendo fortezze e città dove in precedenza erano vissuti" 108 • Tra
105) Cfr. J.B. Bury, History cit., II, pp. 270 ss.; E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 603-604. Cfr. anche A.
Nagl, s.v. Theia cit., c. 1604; A. Lippold, s.v. Narses cit., cc. 878-879; Rubin, Das Zeitalter cit., p.
197 e PLRE III-B, s.v. Theia cit., p. 1224.
106) Cfr. V. Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte cit., pp. 20 e 29. Conosciamo, ad es., da Procopio,
il nome di uno dei loro comandanti, Indulf('Iv&ruÀ<p: vd. Beli. Goth. III 35, 29 e IV 35,pp. 457 e 677678, tr. it., pp. 633 e 766) che si rifugiò con un migliaio dei suoi a Ticinum (Pavia); su di lui cfr. anche
L. Schmidt, Die letzten Ostgoten, cit., p. 5; cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 604 e PLRE III-A, s.v.
Indulf, p. 619.
107) I 1, 6, p. 10; tr. ingl., p. 9.
108) Cfr. L. Schmidt, Die /etzten Ostgoten, cit., pp. 5-6. La specifica espressione <ppoupta 1caì.
1toÀ.{crµcmx,
che il traduttore inglese di Agazia rende con "dispersed in the direction ofVenice and the
garrisons and towns ofthatregion, where they had previously lived" (tr. ingl., p. 9) è intesa in italiano,
forse affrettatamente, con "castelli e castelletti" da C.G. Mor (Bizantini e Longobardi cit., p. 233, ove
è segnato, per errore, un 1t0Afoµcmx).La traduzione di C. G. Mor del passo agaziano sopra citato deriva
dalla traduzione latina dello storico bizantino proposta nel Corpus Bonnense, ed. 1878, p. 16: in
castellis et oppidu/is (cfr. ancora C.G. Mor, Da Roma a Carlo Magno: vicende politiche tra Piave e
Livenza cit., p. 13). Se si prescinde da scrittori tecnici, come Vegezio (IV sec. d.C. ex.) che tuttavia
registra ancora castrum/castra nel significato originario di 'accampamento militare fortificato (non
necessariamente permanente)', e che ad esempio distingue correttamente tra urbs (e civitas) e
castellum (vd. es. Epit. III 3, p. 70; III 4, p. 72; III 8: sive il/ae civitates sint sive castel/a murata, p.
85; cfr. Iohannes Lyd. de mag. II, 6, p. 60, r. 15), c'è confusione nelle stesse fonti latine proprio tra
castrum e castellum (es. Cassiodoro Var. I 17, I e I 17, 3; III 48, 1 e III 48, 2; cfr. W. Kubitschek, s.v.
Castellum, in RE III.2, 1899, cc. 1755-1756), come pure in una fonte bizantina più tarda come Io. Mal.,
Chron. XII, 34, p. 233; 40,p. 237; XIII, p.253; XVIII, 66,p. 392 (=ed. Dindorf, risp. pp. 303, l; 308,
17; 329, 6; 469, 7 e 13); cfr. G. Ravegnani, Kastron e polis cit., p. 273, n. 16. Il termine greco un po'
impreciso <ppO'\lptov
vanta comunque ascendenze classiche (lo si legge ad esempio in Strabone V 1,
9 per definire la città di Tergeste (hod. Trieste): <ppouptovTepyfo'tat) ed avrebbe indicato al tempo
di Agazia, qualcosa di assai simile al latino castellum (cfr., as es., Procop. de aed. II 5, 9, p. 62; cfr.
F. Dolger, Die fruhbyzantinische und byzantinisch beeinjlusste Stadt (V.-VIJI. Jahrhundert), in "Atti
del III Congresso internazionale di Studi sull'Alto Medio Evo", Spoleto 1959, pp. 70-72), ma anche,
nella sua genericità, ciò che in latino si sarebbe, allora, definito castrum, cioè un luogo fortificato di
dimensioni più ragguardevoli (cfr. G. Ravegnani, Kastron e polis cit., p. 273 e Id., Castelli e città cit.,
p. 1O, n. 14); 1t6À.1crµcx
è peraltro un sinonimo di 1t6À.1ç,
e solo in senso letterale va inteso come 'città'
(cfr. ad es., la definizione di Cuma: 1t6A.1crµcxoÈ
'hcxA.111:òv
in Agazia I 8, 2, p. 20; tr. ingl., p. 16; vd. anche
Theopyl. Sim. Hist. III, 10, 6, p. 130 su cui cfr. ancora F. Dolger,Diefriihbyzantinische Stadtcit., p.
72, n. 19, e ancora G. Ravegnani,Kastron e polis cit., p. 273, n. 16; vd. anche le varianti 1toÀ.icrµémov
34
queste guarnigioni è assai probabile vada annoverata quella di Trevisolll2, ma non
certamente quella di Ceneta, che dovette restare saldamente in mano Franca, come
sappiamo grazie allo sviluppo delle vicende successive 110• Ancora Agazia ci
ragguaglia su un estremo tentativo diplomatico, nello steso tempo disperato e
spregiudicato, presso i Franchi, messo in atto dai Goti, verosimilmente dopo aver
valutato, in un primo tempo, l'opportunità di rivolgersi a tutti e tre i sovrani
merovingi 111• Si decise infine di mandare ambasciatori al solo Teodebaldo in quanto
le sedi degli altri due sovrani erano troppo lontane.Questa scelta tuttavia non venne
condivisa da tutti i Goti (où µT\v&mxvye -ròe0voi:;),ma solo da coloro che vivevano
al di là del Po (µ6vot BL. ÈK't'Ò<;
Ilaòou 1tow.µou).L'espressione "quelli ÈK't'Ò<;
in Michele Psello, Chronogr. VII b 34, p. 350, nt6Atcrµa, ibid. VII b 32, p. 350 e nell'equipollenza
di Suid. Lex., TI3043, ed. A. Adler, I, 4, p. 255). Siamo infatti in un frangente storico in cui sembra
"esaurirsi progressivamente la stessa idea di città, almeno nei suoi connotati consueti" (G. Ravegnani,
Castelli e città cit., pp. 15-16), ma, nello stesso tempo, "oltre ai forti militari in senso stretto le fonti
ricordano come 'castelli' anche gli insediamenti civili" i quali, "per comodità possono essere definiti
'castelli-città'. Questi sorgevano di preferenza ali' interno del territorio e avevano quali caratteristiche
peculiari la presenza di un nucleo di popolazione civile e di una cinta muraria" (ibid., p. 19); peraltro
"un indizio indiretto dello snaturamento dell'idea di città pare rilevabile anche dalla confusione
terminologica fra n6Atç e <ppO'Upt0v
che vengono usati come sinonimi nelle fonti. Il fenomeno, più
avvertibile in Agazia, si accentua con Teofilatto Simocatta" (ibid., p. 16, n. 34; cfr. Id., Kastron epolis
cit., p. 282; cfr. F. Dolger, Die friihbyzantinische Stadt cit., p. 72, n. 21). Per Agazia si consulti
comunque il preziosissimo index verborum dell'ed. S. Costanza cit., p. 356 (per n6À.tçe n6Atcrµa) e
pp. 361-362 (per <ppouptov).
109) Che Tarvisium facesse parte delle "roccheforti gotiche", come Verona e Tridentum, nella
Venetia occupata dai Franchi, è sostenuto da A. Carile, Bellum cit., p. 175 = Società cit., p. 154;
tuttavia, a parere di G. Lohlein, anche "Verona ging in friinkischen Besitz iiber, ohne daB Goten und
Byzantiner es verhiiten konnten" (Die Alpen- und Italienpolitik cit., p. 45); secondo C.G. Mor, ci
sarebbe stato "un accordo fra il presidio Goto e i Franchi nel senso di far passare Verona, con quanto
sopravviveva di contingenti Goti, sotto il controllo diretto del re di Austrasia" ( Verona Medievale cit.,
p. 17; cfr. anche pp. 19-20). Per parte mia credo che Verona sia ininterrottamente rimasta in mano dei
Goti.
110) Evidentemente destituita da ogni fondamento la notizia non documentata rinvenibile in due
lavori assai risalenti, F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopis ltaliae et /nsularum Adjacentium,
Venetiis 1720, V, c. 170 e G. Moroni, Dizionario di erudizione Storico-ecclesiastica da S. Pietro sino
ai nostri giorni, Venezia 1841, voi. XI, p. 72 (s.v. Ceneda), secondo la quale Ceneda sarebbe stata
distrutta da Totila; peraltro, anche più recentemente, si è continuato a scrivere, di Ceneta, che "la
localité fut détruite lors des conquetes byzantines", sempre senza rinvio alcuno a fonti verificabili (cfr.
L. Jadin, s.v. Ceneda cit., c. 136; per non parlare delle fantasiose notizie riportate da V. Botteon, Un
documento prezioso cit., pp. 70-73, sul padre di Totila, distruttore lui di Ceneda, e non il figlio, ecc.,
totalmente prive di fondamento documentale, anche se assai fortunate, riprese come sono state da altri
studiosi successivi che non si sono presi la briga di consultare fonti o studi accreditati).
111) I 5, in., p. 15; tr. ingl., p. 13; per le successive citazioni vd. ancora Agath. I 5, 2, p. 15, tr. ingl.
p.13.
35
Ilaòou" che la traduzione inglese rende con "those living beyond the Po" 112,
potrebbe essere ancor meglio resa in italiano con "quelli a nord del Po": Agazia
infatti, nel passo appena citato, distingueva appunto tra i Goti, quelli~ cxÙ'téòv
Ei'.crco
'tOUIlaoou, cioè al di qua (cioè a sud) del Po, che si diressero in Toscana e in Liguria,
e quelli OÈÈK'toç,cioè al di là (cioè a nord) del Po, che rientrarono nella Venetia:
letteralmente si tratta di espressioni tipo 'fuori'= ÈK'toç,e 'dentro'= Etmo,laddove
la linea di demarcazione rappresentata dal grande fiume indicava per l'osservatore
(in particolare per l'osservatore di parte bizantina) un dentro, al di qua del Po (a
sud), e un fuori al di là (verso nord).Si creò perciò una frattura tra i Goti, che vedeva
quelli della Venetia (comunque i Goti che ancora controllavano Verona e Ticinum)
interessati a che un aiuto esterno (in una sorta di speranzoso richiamo al 'sistema
teodericiano' di equilibrio tra i potentati germanici 113) potesse ancora ribaltare la
situazione, mentre tutti gli altri si mostravano timorosi di ciò. che il futuro, e
soprattutto la capricciosità della sorte, poteva ancora recar loro, decidendo
prudentemente di attendere lo sviluppo degli eventi e porsi dalla parte del vincitore
(1tcxpcxÒOKOUV'tEç
µÈv KcxÌ Om1tUv0cxv6µevoi
'tà 1toiouµEVcx,
~ouÀE'uoµevoiOÈ'téòv
1
14
Kpmouv'tcovyEVÉo0m ). Sul trono austrasiano- come si è già detto - sedeva in quel
momento Teodebaldo, giovane figlio di Teodeberto e di una principessa gepida, e
recente sposo di Vuldetrada, figlia a sua volta del re dei Longobardi, Wacho 115:
112) Th. Hodgkin scriveva: "I suppose that È1Ct6çbere means 'beyond' from the point ofview of a
dweller in Rome" (ltaly and her Invaders cit., V, p. 14, n. 1).
113) Non è inopportuno riportare alcune delle valutazioni politiche sul regime teodericiano cui
partecipò attivamente Cassiodoro, e sul suo sistema di amicizie, sudditanze e persino 'solidarietà
internazionali', che fece forte l'Italia ostrogota: lord. Get. 296 (p. 131: nunquamque Gothus Francis
cessi!, dum viverei Theodoricus, ove si riflette chiaramente il successivo rovesciamento dei rapporti
di forza); Get. 303 (p. 136: necfuit in parte occiduagens quae Theodorico, dum adviveret, aut amicitia
aut subiectione non deserviret) e, soprattutto, l'Anonimo Valesiano II, 70 (ed. J. Moreau, Excerpta
Valesiana, Lipsiae 1968, p., 29: et sic sibi per circuitum placavit omnes gentes); cfr., in ogni caso, B.
Saitta, La Civilitas di Teoderico cit., pp. 46 ss.; 141-142; sul tentativo teodericiano di costituire una
sorta di solidarietà internazionale contro l'imperialismo franco, coinvolgendovi quanti più popoli
possibile cfr. ancora ibid., p. 48, n. 108.
114) Agath. I 5, 2, p. 15 (tr. ingl., p. 13: "not that the others were not delighted at their attempt at
subverting the established order, but being overawed by the uncertainty ofthe future, and fearful of
the capriciousness of fortune they suspended judgment, and kept a wary eye on events, since they were
determinated to be on the winning side"). Il passo agaziano è stato letto anche nell'edizione S.
Costanza cit., p. 23 e questa infatti riporta il termine corretto 1tcxpcxooKO\lV'tEç
anzichè K<Xp<XOOKO\lV'tEç
come risulta invece presumibilmente per un errore, nell'ed. R. Keydell di riferimento.
115) Cfr. J. Jarnut, Storia dei Longobardi cit., p. 17 e PLRE III-B, s.v. Theodebaldus 1 cit., p. 1228;
cfr.anchePLREIII-B,s.v. Vaces(Wacho),p.1350es.v. Vuldetrada,pp.1396-1397;vd.OrigoGentis
Langobardorum, 4., p. 4: et habuit Wacho de Austrigusajì/ias duas, nomen unae Wisigarda, quam
tradidit in matrimonium Theudiperti regis Francorum, et nomen secundae Walderada, quam habuit
uxorem Scusuald [= Teodebaldo, cfr. qui, supra, nota 82], rex Francorum, quam odio habens, tradidit
36
ricordo che egli aveva fatto negare già a Teia l'aiuto richiesto, in quanto, a detta di
Procopio, "i Franchi, pensando alla propria convenienza ... non erano disposti a
morire né per fare l'interesse dei Goti, né tanto meno quello dei Romani, ma
piuttosto aspiravano a impadronirsi essi stessi dell'Italia, e solamente a questo fine
sarebbero stati disposti a sottoporsi ai rischi di una guerra" 116• Comunque l'ambasceria di quelli che potremmo chiamare 'i Goti della Venetia' si presentò al re
Teodebaldo nei primi mesi del 553 e illustrò a lui ed alla sua corte, con dovizia di
spunti storici e giuridici, il diritto della nazione gota a vivere laddove Teodorico
aveva fondato il suo regno, peraltro su esplicita autorizzazione imperiale. Gli
ambasciatori Goti richiesero senza indugi un intervento militare dei Franchi
lanciando anche fosche previsioni sul futuro degli stessi Franchi, minacciati dai
Romani (=dai Bizantini) secondo una tradizione da farsi risalire a Mario e a
Cesare 117• Il discorso, di certo ricostruito ed abbellito retoricamente da Agazia,
mostra qualche interesse e probabilmente indica come non fosse venuta meno, in
ciò che restava della classe di governo teodericiana, la capacità di elaborazione
politica anche se gli stessi ambasciatori si dissero infine disposti a versare
un'ingente somma al sovrano merovingio, in genere più sensibile a questo argomento che alle dotte riflessioni su corsi e ricorsi storici.
eam Garipald in uxorem. "Diese langobardische Prinzessin, die nach dem friihen Tod ihres Gatten,
des austrasischenKonigs Theudebald imJahre 555 zuniichstvon Chlothar I zur Frau genommen, dann
an den bairischen Herzog Garibald weiter gereicht wurde" (Ursula Koch, Mediterranes und
Langobardisches Kulturgut in Griibern der Àiteren Merowingerzeit zwischen Main, Neckar und
Rhein, in "Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. I, p. 113);si tratta
della madre della famosa regina Teodolinda, avuta in seguito, dal suo terzo marito; cfr. ibid., s.v.
Theodolinda, pp. 1235-1236.
116) Procop. Beli. Goth. IV 34, 18, pp. 669-670, tr. it. 761. Cfr. A. Nagl, s.v. Theia cit., c. 1603; Th.
Hodgkin scriveva: "the Franks ofthe Sixth Century, according to Procopius, adopted the ungenerous
policy of always turning their neighbours' troubles to profitable account, by seizing their most
precious possessions when theywere engaged in a life and death struggie with some powerful enemy"
(Italyand her Invaders cit., IV, p. 619); G. Lohlein, a sua volta, osservava: "erwar sich dariiberklar,
daB die Byzantiner, nachdem sie das der friinkischen Provinz vorgelagerte Gotenreich zerschlagen
und Italien bis zum Po sich unterworfen hatten, ihre Hand auch nach den Gebietennordlich des Flusses
ausstrecken wiirden, daB im besonderen das fiir die Landverbindung von Byzanz her iiuBerst
bedeutsame Venetien am meisten von den Ostromern begehrt und deshalb am stiirkstenbedroht war"
(Die Alpen- und Jtalienpolitik cit., p. 46).
117) Agath. I 5, 4-10, pp. 15-17 (tr. ingl., pp. 13-14). W. Goffart sintetizzava: "an Ostrogothic
embassy to the Franks suggested to them that it was in their best interests to maintain the Ostrogoths
as a buffer agains the Empire" (Byzantine Po/icy in the West under Tiberius II and Maurice. The
Pretenders Hermenegild and Gundovald (579-585), "Traditio" 13, 1957, p. 76). Già in una lettera a
Clodoveo (vd. Cassiodoro, Var. III, 4; cfr. B. Saitta, La Civi/itas di Teoderico cit., pp. 48-49, n. 109),
il vecchio Teodorico aveva indicato proprio nelle pressioni bizantine sul sovrano merovingio perché
attaccasse i Visigoti di Spagna, la aliena ma/ignitas che ancora qui sembrano adombrare gli ultimi
ambasciatori Goti nel disperato tentativo di portar dalla loro i Franchi.
37
Alle richieste dei Goti si contrappose una facciata di neutralità, almeno come
dichiarazione di intenti: i Franchi non avrebbero intrapreso azioni militari per trarre
d'impaccio altri dai propri problemi 118, ma la corte austrasiana pensò bene, forse,
di 'girare' la richiesta dei Goti a due capi alamanni: Aci0a.ptç òÈ1ca.ìBounlivoç, d
1ca.ìtòv Pa.c:nÀ.Èa.
mpéòv11nma. ~pecncev... e i due (Leutari e Buccellino ), dato che il
progetto non interessava il loro sovrano, accettarono l'alleanza di loro autonoma
iniziativa 119•
§ 5. L'invasione franco-alamannica degli anni 553-554
[esame delle fonti su Ceneda nn. 2, 5 e 6]
Come ha sintetizzato un grande storico del Tardoantico, "the fighting was not
over, for there were still Gothic garrisons holding out in a number of towns, and in
the north the Franks, who had some years past taken advantage of the struggle to
occupy large parts of the Alpine provinces and Venetia, now became aggressive.
In this same year (553) a vast horde of Franks and their Alaman subjects swept
through Italy" 120•
I due capi Alamanni, Leutari e Buccelino (Butilino) 121 , predisposero, con la
118) Agath. I 6, in., p. 17 (tr. ingl., p. 14); L. Muratori così sintetizzava l'esito dell'ambasceria dei
"Goti Transpadani" a re Teodebaldo: essi "noi ritrovarono disposto a voler brighe di guerra" (Annali
d'Italia dal principio del! 'Era Volgare sino ali 'anno 1500, Milano 1744, tomo III, p. 437).
119) Agath. I 6, 2, p. 17 (tr. ingl., p. 14: "Leutharis and Butilinus, however, accepted the alliance on
their own initiative even though it held no attraction for their king"); è chiaro tuttavia, in Agazia (I
6, 6, pp. 17-18, tr. ingl., p. 15), come gli Alamanni dipendessero dal re dei Franchi (definito 'il loro
re'!) e, di conseguenza, come le loro scelte militari derivassero, in definitiva, da un mandato reale.
Secondo G. Lohlein, tuttavia, i due capi Alamanni avrebbero operato "gegen den Willen des Konigs"
(Die Alpen- und ltalienpolitik cit., p. 46; analogamente in R. Holtzmann, Die ltalienpolitik der
Merowinger cit., p. 14). Più romantica la lettura di L. Muratori, Annali d'Italia cit., tomo III, p. 437:
"costoro [Leutari e Buccellino] veggendo che il re Teodebaldo preferiva il gusto della pace ad ogni
guadagno, presero essi l'assunto di far la guerra in Italia a i Greci, invaniti dalla speranza di grandi
conquiste e d'immenso bottino".
120) A.H.M.Jones, The Later Roman Empire cit., p. 291; tr. it., p. 360; cfr. anche L. Schmidt, Die
letzten Ostgoten, cit., pp. 6-7.
121) Si trattava di due fratelli, di nazionalità alamannica (Agath. I 6, 2, p. 17; tr. ingl., p. 14) i quali,
a quanto pare, disponevano di notevole ascendente ed influenza sui Franchi (ouvaµtv OÈ1tapèx
<I>pa.yyotçµeyt<YtT}v
eixfanv, ibid.; cfr. W. EnBlin, s.v. Leuthari, RE XII.2 (1924), cc. 2313-2314; cfr.
V. Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte cit., p. 29; H. Keller, Friinkische Herrschaft cit., p. 7). Per
quanto riguarda la tradizione relativa ai loro nomi, H. Keller sottolineava che "die friinkischen
Quellen, ...von Leuthari nichts wissen" (Friinkische Herrschaft cit., p. 8): infatti Mar. Avent. (Chr.
a. 555.4e 568,pp. 237 e238)e Greg. Tur. (Hist. Fr. III 32, vol. l,p. 268)ricordano il soloBuccelenus;
mentre Agath. (I 6, 2 e ss., p. 17; tr. ingl., p. 14) e Paul. Diac. (Hist. Lang. II 2, p. 78) parlano di
entrambi, con le grafie rispettive: Aru0aptç e BounAtvoç- Leutharius e Buccellinus. V d. comunque,
in qualche codice agaziano, la variante Jx>mouÀivoç;cfr. ed. S. Costanza cit., p. 25, apparato a r. 11.
38
massima rapidità, una spedizione, ammantata di qualche velleità di revanche
filogotica, e verosimilmente mossero da basi Franche 122
: "l'autorité exercée par
Butilin et Leutharis pour le compte de la monarchie franque, s' étendait probablement aussi sur les conquètes vénitiennes de Théodebert car Butilin avait déjà
commandé en Italie du vivant de ce roi" 123
.
Teodebaldo non solo non vi si oppose ma probabilmente incoraggiò l'impresa124tanto che sotto il comando dei due avventurieri finì anche un contingente di
guerrieri Franchi 125
.
Nella primavera del 553 il grosso delle truppe di invasione attraversò le Alpi,
entrò in Italia e si diresse rapidamente verso il fiume Po 126, mentre Narsete, appresa
122) "Wenn man will, kann man in Leuthari, den Agathias an erster Stelle nennt und den die
frankischen Quellen iiberhaupt nicht erwahnen, sozusagen das "inneralemannische Pendant" und
somit den "eigentlichen" Alamannenherzog sehen. Ich hai te es fiir wahrscheinlicher, daB auch er vom
Frankenki:inig mit einer Machtbasis im alemannisch beeinfluBten Grenzbereich- etwa in Ratien, um
Basel/ Augst oder im ElsaB - ausgestattet worden war und von ihr aus zusammen mit seinem Bruder
den politisch nur lose erfaBten inneralemannischen Raum kontrollierte" (H. Keller, Friinkische
Herrschaft cit., p. 9).
123) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 605 (sottolineatura mia; il riferimento è a Paul. Diac. Hist. Lang. II,
2, p. 78); cfr. anche L.M. Hartmann, s.v. Butilinus, RE III.l (1897), c. 1085; H. Biittner, Die
Alpenpolitik der Franken cit., p. 67 e F. Beisel, Theudebertus Magnus cit., pp. 122-123.
124) Cfr. Agath. I 6, 2, p. 17 (tr. ingl., p. 14); la sua avidità era nota: non è escluso che contasse in una
congrua quota parte del bottino (cfr. J.B. Bury, History cit., II, p. 275, n. 3). Teodebaldo non gode di
gran fama nelle fonti, anzi "primo di una lunga serie di re merovingi, morì esaurito da stravizi" (G.
Pepe, Il Medioevo Barbarico in Europa cit., p. 124; cfr. anche M. Christian Pfister, La Gallia sotto
i Franchi Merovingi cit., p. 696: "Teodebaldo perì, vittima di una precoce dissolutezza, nel 555").
125) Cfr. Agath. I 7, 8, p. 19 (tr. ingl., p. 16): i due ritenevano arrogantemente di non trovare seri
ostacoli alla loro marcia, in quanto Narsete, il comandante bizantino, era per loro 'solo un eunuco',
quindi un essere incapace di combattere. L. Muratori, Annali d'Italia cit., tomo III, pp. 43 7-438, così
chiosava: "sprezzando sopra tutto Narsete, per essere eunuco, ed allevato solamente fra le delizie della
corte. Certo non dovevano ben conoscere ..."; cfr. Th. Hodgkin, Italy and her Invaders cit., V, p. 16;
H. Keller, Friinkische Herrschaft cit., pp. 7 ss. Agazia assegna agli invasori il numero di 75 mila
("chiffre, manifestement incroyable", come scrive E. Stein, Bas-Empire cit., p. 606). Sul comportamento differenziato di Franchi ed Alamanni si sofferma diffusamente Agazia, con spunti di carattere
etnologico, folclorico ed antropologico (I 6, 4-17, 7, pp. 17-19, tr. ingl., pp. 14-16; II 1, 6ss., pp. 4041, tr. ingl., pp. 32-33); sulla contrapposizione tra Franchi 'civili' in quanto cristiani (e cattolici), e
Alamanni 'incivili' perché pagani, cfr. S. Costanza, Orientamenti cristiani della storiografia di
Agatia, "Helikon" 2, 1962, spec. pp. 93-95; 98-99; 110; sulla concezione del mondo di Agazia e, in
particolare, sul suo "mépris pour toutes sortes de superstitions", cfr. Z. V. U dal' cova, Le monde vu par
!es historiens byzantins du IV' au VII' siècle, "ByzSlav" 33, 1972, spec. pp. 203-205. Vd. qui
comunque al successivo § 6.
126) Cfr. Agath. I 11, 2, p. 23 (tr. ingl., p. 18); per la datazione cfr. Ch. Diehl, Giustiniano. La
restaurazione imperiale in Occidente, in The Cambridge Medieval History, Cambridge 1911-1913,
ed. it. Storia del Mondo Medievale, voi. I, La Fine del Mondo Antico, Milano 1978, p. 590 ("metà del
553 G. Li:ihlein,Die Alpen- und Italienpolitikcit., p. 47 ("im Friihjahr 553"); W. EnBlin, s.v. Leuthari
39
la notizia "de l'invasion franco-amamanique, il laissa un corps d'année devant la
ville et marcha vers le Nord" 127•
Narsete stava dirigendo le operazioni di eliminazione delle sacche di resistenza dei Goti nell'Italia meridionale e centrale: la guarnigione di Lucca, ad es.,
nell'autunno del 553 ancora resisteva, rincuorata proprio dalle speranze alimentate
dalle notizie sull'intervento di Leutari e Buccelino 128•
L'attacco franco-alamanno si rivelò da subito potenzialmente assai insidioso,
anche perché molti Goti sbandati vi si unirono, soprattutto Goti della Liguria e
dell'Emilia, che non esitarono a violare i loro accordi con i Bizantini riscontrando
di avere assai più in comune con i Franco-alamanni 129: da Panna (autunno del
553 130) toccò l'Etruriae si spinse verso Roma (primavera del 554), all'altezza deHa
quale gli invasori si divisero in due colonne d'attacco, ciascuna capitanata da uno
dei fratelli.
Questo fu certamente un errore in quanto alla divisione delle forze 131, che
indebolì la loro capacità tattica, non corrispose nemmeno un disegno strategico
coordinato: Buccelino guidò comunque una lunga scorreria lungo la Campania, la
Lucania e il Bruzzio, fino allo stretto di Messina; Leutari devastò da par suo Puglia
e Calabria ionica 132•
I due contingenti franco-alamannici, mano a mano che procedevano nei
sistematici saccheggi, risultavano sempre più appesantiti dal bottino: Leutari
"machte sich mit seiner Beute auf den Heimweg, um sie in Sicherheit zu bringen,
cit., c. 2314 ("Friihjahr 553 gingen sie iiber die Alpen"); E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 605-606 ("vers
juin 553 ils menèrent dans la vallée du P6"); W. Treadgold, A History of the Byzantine State and
Society, Stanford (California) 1997, p. 211 ("these new arrivals were more interested in plunderthan
conquest"). Una cronologia della spedizione di Leutari e Buccellino si legge anche nel vecchio lavoro
di E. De Muralt, Essai de Chronographie Byzantine de 395 a 1057, St.-Pétersbourg 1855, I, pp. 207209.
127) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 606.
128) Vd. Agath. I 12, in., p. 24 (tr. ingl., p. 19); per la cronologia di questo passo cfr. Averi! Cameron,
Agathias cit., p. 143. Cfr. anche Th. Hodgkin,Jtaly and her lnvaders cit., V, pp. 21 ss. ed E. Stein, BasEmpire cit., pp. 606-607;
129) Vd. Agath. I 15, 7 p. 29 (tr. ingl., p. 23).
130) Nel frattempo, secondo quanto narra Agath. I 21, 2 p. 37 (tr. ingl., p. 29), Narsete si era
acquartierato a Rimini dove ricevette l'insperato soccorso di un regolo germanico, anch'egli,
curiosamente, di nome Teodebaldo, "a namesake ofthe young king ofthe Austrasian Franks" (Th.
Hodgkin, ltaly and her lnvaders cit., V, p. 30), che si presentò alla testa dei suoi guerrieri "vom
suebischen odervandalischen Stamme der V aranen" (A. Nagl, s.v. 0EU6i~cxA.foç2,RE V A.2, c. 1715;
cfr. PLRE III-B, s.vv. Narses I cit., p. 921 e Theodibaldus 2, p. 1228): ciò mostra che il 'richiamo
germanico' dell'incursione non faceva necessariamente aggio su tutti i barbari di origine germanica
presenti in quel frangente in Italia.
131) Cfr. Agath. II 1, 3 p. 40 (tr. ingl., p. 32).
132) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 607.
40
und sandte auch seinem Bruder Boten, die ihm dasselbe raten sollten; erst nach
Sicherung seiner Beute wollte er seinem Bruder das Heer zu Hilfe senden" 133, e
pertanto il capo alemanno decise di ritornare indietro risalendo la penisola, mentre
l'ambizioso Buccelino continuava le sue scorrerie: come si è detto, l'accordo tra i
due fratelli prevedeva probabilmente il sollecito ritorno di Leutari, una volta messo
al sicuro il bottino 134 •
La colonna di Leutari, che aveva intrapreso l'itinerario costiero adriatico, si
scontrò duramente con la piccola ma ben guidata guarnigione bizantina di Ilicmupov
(Pisaurum, Pesaro ) 135, perdendo in quella circostanza buona parte di quel bottino,
che cercava di mettere in salvo in territorio sotto controllo Franco: incalzate dai
bizantini, le truppe di Leutari, attraversato in qualche modo il Po, si diressero allora
in cerca di rifugio nella Venetia (Kma.Àa~ovn:ç òÈ:Beveticxv136).
La descrizione della ritirata di Leutari rivela incidentalmente alcune lacune di
Agazia nell'esposizione della geografia italiana, dovute probabilmente a qualche
appannamento delle sue fonti.
Comunque sia, obiettivo finale del capo alamanno si rivelò il castrum di
Ceneta: egli andò infatti ad accamparsi Èç Kévetcnriv1t0Àtv, cioè 'nella città (nel
castrum) di Ceneda' 137, "under the shadow od the dolomites", com'è stato scritto
non so se con intenti poetici o a causa di qualche moderna approssimazione
geografica, e lì si stabilì coi suoi fissandovi il proprio quartier generale 138 •
133) W. EnBlin,s.v. Leuthari cit., c. 2315.
134) Cfr. Agath. II 2 pp. 41-42 (tr. ingl., p. 33); cfr. L.M. Hartmann, s.v. Butilinus cit., c. l 086. Notava
E. Gibbon che "Buccelin was actuated by ambition, and Lothaire by avarice" (The History of the
DeclineandFallcit., vol. 11,chap.xliii,p. 760, tr. it.,p. 1643);"asspringchangedto summerLeutharis
wrote to propose that they retum home with their booty; Butilinus refused and chose to remain", come
si legge in PLRE III-A, s.v. Butilinus, p. 254; cfr. L. Schmidt, Die letzten Ostgoten, cit., p. 7.
135) Cfr. Agath. II 2, 5-8 pp. 42-43 (tr. ingl., p. 34); cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., p. 607.
136) Cfr. Agath. II 3, 3 p. 43 (tr. ingl., p. 34). "Carne into Venetia, which was now a recognised part
ofthe Frankish kingdom" (Th. Hodgkin, Italy and her lnvaders cit., V, p. 35; cfr. G. Lohlein, Die
Alpen- und Italienpolitik cit., p. 47; R. Holtzmann, Die Italienpolitik der Merowinger cit., p. 14; N.
Faldon, Le origini del cristianesimo nel territorio, in N. Faldon (cur.), Storia Religiosa del Veneto3. -Diocesi di Vittorio Veneto, Padova 1993, p. 38).
137) Agath. II 3, 3 p. 43 (tr. ingl., p. 34). La trascrizione in caratteri latini, basata sulla pronuncia del
greco del tempo, dà: es (o is) Kéneta tìn po/in). I codici più accreditati danno l'accusativo un po' strano
KÉvew.anziché KÉve'tavcome ci si sarebbe dovuti attendere, cfr.1'ed. R. Keydell cit., p. 43, apparato
r. 22; mentre !'ed. S. Costanza cit., p. 67, apparato r. 2 sceglie esplicitamente di correggere KÉvE'ta.
con KÉvE'ta.v.
Con eç 'tTJV
1t6Atvovvero, meno frequentemente, eiç 'tTJV
1t6Atvsi deve intendere uno
'stato in luogo raggiunto dopo a un moto a luogo mirato': Agazia fa largo uso di tale espressione: si
veda in I 14, 4, p. 27 (eç napµav ... 'tTJV
1t6Atv);I 15, 8, p. 29 (eç <l>a.[3evia.v
... 'tTJV
1t6Atv);I 21 in., p. 37
(eç 'Apiµevov...'tTJV1t6Atv);
II 2, 5, p. 42 (eìçrricra.upov'tTJv1t6Atv);
II 15,4, p. 60 (eçl:t1ìéòva.'tTjv1t6Atv);
III 14, 5, p. 102 (eç 'Awa.pouv'ta.
...'tTJV1t6Atv);
III 19, 8, p. 109 (eç ...<l>amv'tTjv1t6Atv):
i passi citati sono
riferiti all'ed. R. Keydell cit.; un'espressione affine (eç 'tÒvcppoupwv)si ritrova in II 13 in., p. 57; II
19 in., p. 65; II 22, 3, p. 69; IV 16, 7, p. 143; IV 28 in., p. 158.
41
Ceneta, già sotto i Franchi 139, si lascia immaginare come una piazzaforte o
come un campo trincerato, che doveva offrire adeguate garanzie di sicurezza. Si
trattava probabilmente di un borgo fortificato, di un castrum, secondo la specifica
definizione che fornisce Paolo Diacono, laddove pone Cenitense castro in specifica
contrapposizione a Tarvisiana civitate 140 (anche se dobbiamo ricordare che Paolo
ha in mente la situazione del suo tempo). Peraltro, una fonte anteriore a Paolo
Diacono, l'Anonimo Ravennate, citava Ceneda (unico testo a recare la grafia
Ceneda al posto dei più frequenti Ceneta o Cenita) tra le civitates della Venetia, ma
forse 'traducendo' con civitasun testo greco o grecanico: item in regione Venetiarum,
sunt civitates, id est ... Ceneda 141•
Anche se appare malsicura la terminologia atta a qualificare la 'città' di
Ceneda, si torna sempre e comunque a castrum, qualunque sia ilpunto di partenza.
Leggiamo castrum in Paolo Diacono e non possiamo esimerci dal pensare che si
tratta di un termine applicato al VI secolo da uno scrittore del/' VIII; se propendes-
Si tratta di una locuzione stereotipata ('verso la/nella città'), che nel caso di Costantinopoli ha dato
clamorosamente luogo alla sua denominazione turca contemporanea, /stambul, che altro non è,
infatti, se non la corruzione di un originario greco-bizantino is tìn po/in, 'verso la/nella città' (cfr. E.A.
Sophocles, Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (!rom B. C. 146 to A.D. 1100), New
York 1900, p. 902, s.v. 1t6Àtç).
138) La localizzazione 'sotto le Dolomiti' è di Th. Hodgkin, ltaly and her lnvaders cit., V, p. 35. Cfr.
anche J.B. Bury, Histo,y cit., II, p. 2 78: "at the Venetian town of Ceneta, where he tookup his quarters
to rest..." e PLRE III-B, s.v. Leutharis, p. 790: "crossingthe Po into Venetia, he made camp at Ceneta,
a town in Frankish possession and there his army was smitten with disease" (sottolineature mie).
139) Agath. II 3, 3 p. 43 (tr. ingl., p. 34): è importante sottolineare come Agazia non distingua affatto
Leutari (ed i suoi) dai Franchi che già presidiavano militarmente Ceneta.
140) Hist. Lang. II 13, p. 90, con riferimento ai versi di Venanzio Fortunato che saranno esaminati
al successivo § I O. Sull'espressione vi/lae seu castra, adoperata da Paolo Diacono in un passo assai
prossimo (Hist. Lang. II, 4, p. 80), cfr. le osservazioni di G. Pepe, Il Medioevo barbarico d'Italia cit.,
p.111,n.2.
141) IV, 30, p. 254; cfr. il testo dell'Anonimo è pubblicato anche in appendice aA.N. Rigoni, L'ambito
territoriale cit., pp. 146-149, spec., per il presente passo, p. 147; cfr. A. Grilli,// territorio d'Aquileia
cit., pp. 49-50. Come ha scritto G. Ravegnani: "la sanzione giuridica dello stato di città non sembra ...
la condizione indispensabile per distinguere i castra dalle civitates, ma piuttosto un atto formale,
ereditato da un'antica consuetudine, per suggellare un processo di ascesa verso forme di vita cittadina.
Sembra, in sostanza, che indipendentemente dallo status giuridico alcuni castelli fossero normalmente considerati città e che il "diritto di città" sia stato un privilegio accessorio piuttosto che una conditio
sine qua non per riconoscere l'avvenuta trasformazione. Ma non si può naturalmente generalizzare.
Il castello non era un tipo unitario di insediamento e, accanto ai veri e propri castelli-città, si avevano
ridotte di nessuna importanza. Il tratto distintivo tra Ka.<Ytpov
e 1t6ì..tçpoteva essere meno netto per i
forti di maggiore importanza: entrambi possedevano una cinta muraria, che nel VI secolo è una fra
le principali caratteristiche della città, e inoltre anche nei castelli esistevano probabilmente consigli
locali che - indipendentemente dall'effettiva importanza sul piano amministrativo - erano un altro
elemento distintivo della città" (Kastron e polis cit., p. 278).
42
simo però per civitas (grazie all'opera geografica del VII secolo) non potremmo
non tener conto dell 'injlusso linguistico che ci riporta inevitabilmente alla 1t6À.tç
di Agazia, che a sua volta non può essere tradotta se non con castrum 142•
Sia come sia, questo castrum doveva essere dotato di caratteristiche strategiche che lo rendevano di notevole interesse militare (oltre alla posizione di controllo
dei varchi settentrionali. Ceneda era senz'altro munita di una cinta di mura) e
possedeva anche, probabilmente, nel territorio circonvicino, un sistema più o meno
articolato (uno 'spazio integrato') di piccoli forti (propugnacula) e di torri di
guardia 143 •
È possibile affermare, anche se non con certezza assoluta, che il "fulcro"
dell'insediamento franco nell'entroterra della Venetia si trovasse proprio in Ceneta,
e che la cittadina rappresentasse, per lo schieramento Franco, il polo castrense di
riferimento 144•
Nonostante la sicurezza che la località offriva loro, lo stato d'animo degli
uomini di Leutari precipitò in manifestazioni di collera e di cupo abbattimento: il
loro disappunto era esplicito e li spingeva ad eccessi ed intemperanze.Praticamente
nulla era rimasto del loro bottino e ciò significava che le loro fatiche erano state
vane: "in spite of the security the place afforted them their mood was angry and
sullen, their disgruntlement evident and extreme" 145 • I fuggiaschi di Leutari,
142) Sulla denominazione di 1t6Atç
assegnata a Ceneda da Agazia, bisogna considerare infatti che tale
termine era forse sentito, da quell'autore, come sinonimo di castrum, nel senso di 'insediamento
urbano fortificato' (vd. qui, supra, nota 108; cfr. comunque G. Ravegnani, Kastron e polis cit., p. 278
e ancora Id., La difesa militare delle città in età giustinianea, "SdC" 14, 1980, pp. 98 e 114, n. 281;
Id., Castelli e città cit., pp. 10, n. 16; 16, n. 34; 19).
143) Ad es. vigilia, 'torre di vedetta', è toponimo che si ritrova puntualmente nell'attuale località di
San Giacomo 'di Veglia', nell'immediata periferia di Ceneda, l'attuale Vittorio Veneto (cfr. D.
Olivieri, Toponomastica Veneta cit., p. 143; W. Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi,
metodi, Milano 1983, p. 63; cfr. anche G. Cannella, Ricerche su Ceneda nell'Alto Medio Evo (sec. VIX), tesi di laurea a.a. 1970-71- Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore prof. C.G.
Mor, pp. 10-11; in generale sull'insieme delle fortificazioni cenedesi, pp. 4-13); cfr. ancora questa
ultima ricerca a proposito della torre di vedetta di San Floriano "elemento satellite" del castrum
cedenese, e sulle rocche di Sant' Antonio e di Santa Augusta, sulla stretta di Serravalle (ibid., pp. 67); sulla torre di San Floriano cfr. anche A. Salvador, Testimonianze in sito: morfologia, ruderi,
strutture in elevato, in in "Atti del 3° Convegno. Castelli tra Piave e Livenza" cit., p. 72. Sulle turres
cfr., in gen., G. Ravegnani, Castelli e città cit., pp. 9-11; sui burgi, piccoli castella, strutturalmente
affini alle turres, ma con diversa funzione strategica, ibid., p. 11.
144) Cfr. ad es. A. Carile, Bellum cit., pp. 159; 176-177 = Società cit., pp. 138; 155; cfr. G. Rosada,
Il "viaggio" di Venanzio Fortunato ad Turones: il tratto da Ravenna ai Breonum loca e la strada per
submontana castella, in "Venanzio Fortunato tra Italia e Francia" cit. (1993), pp. 42-43, oltre ad G.
Amosti, L'evoluzione delle logiche insediative cit., pp. 49-50 e Id., Appunti sul Ducato Longobardo
di Ceneda, cit., pp. 17-18,
145) Agath. II 3, 3 p. 43 (tr. ingl., p. 34).
43
guerrieri selvaggi e incapaci di vita sedentaria, si ritrovarono ammassati in una
modesta area fortificata: non è difficile immaginare il clima di violenza che la
disperazione di quei guerrieri aveva introdotto drammaticamente in città. Fu senza
dubbio a causa di quell'improvviso aumento della popolazione, che a Ceneta
scoppiò un'epidemia (o forse Ui • .:. '-equenza di epidemie). Le truppe superstiti di
Leutari, i Franchi che dobbiamo pensare presidiassero la città costituendone la
guarnigione stanziale, e infine la popolazione cenedese residente dovettero esserne
duramente provati 146 • Secondo alcuni -riferisce Agazia, il quale lascia intendere di
aver consultato (o aver attinto a) fonti alternative 147 - sarebbe stata l'aria del luogo
ad essere malsana (non si comprende tuttavia se malsana di per sé, o per effetto del
sopravvenuto mutamento delle condizioni igienico-ambientali) e quindi causa o
concausa del diffondersi della malattia; secondo altri, invece, l'improvviso ozio
forzato avrebbe precipitato guerrieri abituati a marce forzate e combattimenti nella
pigrizia, nell'ozio, e in perniciose forme di indolenza.Ma, per lo stesso storico, la
malattia sarebbe stata una sorta di manifestazione 'fisica' di una punizione
soprannaturale, a causa delle turpi violazioni delle leggi umane e divine perpetrate
da quei barbari pagani durante la loro incursione 148 • Fuori dal moralismo di scuola
(e dall'omaggio alla religione), Agazia ci fornisce una descrizione degli effetti del
contagio, manifestatosi in forme diverse, ma tutte mortali: si tratta di un quadro
davvero colorito 149 , che serve a sottolineare paradigmaticamente la fine di Leutari,
e a chiudere il racconto della sua sconsiderata impresa; e la morte dell'avventuriero
alemanno è descritta in termini raccapriccianti 150 • Paolo Diacono, una delle poche
146) Agath. II 3, 4 p. 43 (tr. ingl., p. 34: "they were decimated by a sudden outbreak ofplague"); cfr.
E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 607-608 (che non menziona, tuttavia, Ceneta). È significativo che non
risulti cenno, nelle fonti, di rovinose malattie con carattere epidemico nel periodo della dominazione
gota in Italia, mentre un grave peggioramento è segnalato per il periodo che va dall'invasione dei
bizantini all'arrivo dei Longobardi (cfr. B. Saitta, La Civi/itas di Teoderico cit., p. 124; cfr. altresì L.
Cracco Ruggini, Vicende rurali cit., p. 279).
147) II 3, 5 p. 43-44 (cfr. tr. ingl., pp. 34-35).
148) Cfr. S. Costanza, Orientamenti cristiani cit., pp. 98-99.
149) Agath. II 3, 4-8 pp. 43-44, tr. ingl., pp. 34-35; di "some showed symptoms offever, some of
apoplexy, some of other forms ofbrain-disease, but, whatever form the sickness might assume, it was
invariably fatai" parla Th. Hodgkin (Jtaly and her lnvaders cit., V, p. 35). Ricordo che Agazia era un
attento osservatore degli effetti delle malattie e dello sviluppo dei contagi, come mostra nel quinto
libro delle sue Storie (V 10, pp. 175-176; tr. ingl., pp. 145-146: anno 558) cfr. E. Gibbon, The History
of the Decline and Fall cit., voi. II, chap. xliii, p. 774 ss., tr. it., pp. 1657 ss. L'epidemia scoppiata a
Ceneda non sarebbe stata tuttavia peste: più probabilmente si trattò di una forma tifoidea di grande
virulenza; ovvero di "vaiolo, peste inguinaria e dissenteria" come ha scritto C.G. Mor, Verona
medievale cit., p. 18, n. 1.
150) Agath. II 3, 8 p. 44 (tr. ingl., p. 35; Agazia cita anche, testualmente, un passo di Tucidide, II 49,
1). Piuttosto impreciso A. Carile, che fissa al 556 la morte di Leutari, "il capo dei Franchi e degli
Alemanni" (Bellum cit., p. 149 = Società cit., pp. 129): la data probabilmente rimonta alla Cronaca
44
fonti a ricordare Ceneta (che pure sarebbe diventata sede di un ducato Longobardo),
non fa riferimento alla città, in questa specifica occasione 151, ma afferma, anzi, che
il Francorum dux Leutharius, Buccellini germanus ... iuxta lacum Benacum propria morte defanctus est, in una località diversa, nel veronese, nei pressi del lago
di Garda 152 • Ciò indica, evidentemente, l'affermarsi di una fonte alternativa, a
meno che non si tratti di due distinte notizie, che presuppongano la divisione delle
di Marius di Avenches. Esiste forse anche un'altra versione della morte di Leutari, solitamente non
presa in considerazione: è possibile, infatti, che proprio un passo di Mar. Avent.: Lanthacharius dux
Francorum in bello Romano transfossus obiit (Chr. a. 548.2, p. 236) sia da considerarsi
cronologicamente mal collocato e vada trasposto all'anno 554; il Lanthacharius di Mario e il
Aro8api.ç di Agazia potrebbero essere stati infatti la medesima persona. A questo proposito, E. Stein
sostiene, per un periodo successivo al 551-552, che "le jeune et faible Thibaut, se boma à échanger
avec Justinian des messages aigres-doux mais non hostiles, après qu 'un chef frane eut péri dans une
action engagée contre des troupes impériales, peut-etre en Vénétie" (Bas-Empire cit., p. 530); cfr.
inoltre G. Lohlein, Die Alpen- und Italienpolitik cit., pp. 35, 38 e 44, dov'è accettata l'indicazione
dell' Aventicense, mentre qualche sfumatura di dubbio emerge in PLRE III-B, s.v. Lanthacarius, p.
765, che pur indicando come ''the circumstances are obscure but the event perhaps occurred early in
the Theodebald's reign", sente di dover collocare geograficamente i fatti, guarda caso ''possibly in or
near Venetia"; anche F. Beisel inquadra questo Lanthacarius nella cornice tradizionale (Theudebertus
Magnus cit., p. 121).
151) Infatti Paolo Diacono, oltre al passo citato supra, nota 140, ricorda altre due volte Ceneda
(curiosamente sempre e solo come aggettivo), ma nel contesto storico dell'ormai costituito ducato
longobardo, precisamente in Hist. Lang. V 28, p. 276, relativamente all'anno 668-669 [quando il re
longobardo Grimuald] Opitergium civitatem, uhi ipsi extincti sunt, funditus destruxit eorumque qui
ibi habitaverantfines Foroiulianis Tarvisianisque et Cenetensibus divisit; e in Hist. Lang. VI 24, p.
328, relativamente ai primi anni della seconda metà del VII secolo, quando unus e Langobardis
nomine Munichis, qui pater post Petri Foroiuliani et Ursi Cenetensis ducum extitit, solus fortiter et
viriliter fecit. Ricordo che nei codici della Historia Langobardorum di Paolo Diacono abbiamo una
dimostrazione dell'estrema variabilità delle lezioni tràdite su Ceneda (per questo è stata consultata
l'ed. L. Bethmann-G. Waitz, in MGH SS. rer. Lang., Hannoverae 1878, cui corrispondono le diverse
indicazioni di riferimento):
II 13 p. 79 - Cenitense
apparato, rr. 35-36, sub o):
Canitense, Cenitensi
Ceninensi, Genitense
Genitensi, Ciense
V 28 p. 153 - Cenetensibus
apparato, r. 51 sub e):
Cenetenensibus
VI 24 p. 173 - Cenetensis
apparato, r. 45 sub o):
Ceten.
Queste varianti sono malaccortamente accostate alla più complessa questione delle diverse redazioni
dei documenti su Cissa/Ceneda (su cui diffusamente al§ 9.) da F. Babudri, Il vescovato di Cissa in
Istria, "AttiMemlstria" 31, 1919, spec. p. 45, n. 1 (e, pedissequamente, G. Amosti, Lo scisma
tricapitolino e l'origine della Diocesi di Ceneda, "Il Flaminio" 11, 1998, p. 72, n. 36).
152) Paul. Diac. Hist. Lang. II 2, p. 78: propria morte (cioè 'di morte naturale', 'di malattia'); cfr. J.B.
Bury, History cit., II, p. 278, n. 4.
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forze di Leutari, concentratesi in parte a Ceneta e in parte nell'area veronese,
ovvero, ancora che indichino come Leutari avesse fatto tappa a Ceneda prima di
prendere la via di Verona 153 • Scriveva L. Muratori: "finalmente Leutari, passato con
gran fatica il Pò, condusse la sua gente a Cenesa, allora posseduta da i Franchi. Così
la chiama Agatia. Io la crederei Ctneda, terra della Venezia, se Paolo Diacono nol
dicesse ritirato fra Verona e Trento, vicino al lago di Garda" 154 • Non so esattamente
quale edizione agaziana avesse usato Muratori, comunque doveva esservi un
riferimento ad una lezione tipo Kevemà (o simili), che compare unicamente nel
codice siglato L (=cod. Leidensis ex leg. Vulcani 54) nell'ed. R. Keydell 155 ; mentre
KÉveta si ritrova in cinque codici su sette 156 •
Anche E. Gibbon faceva morire Leutari sulle rive del Benaco 157•
È probabile che l'incertezza sulla geografia della morte di Leutari dipenda in
buona parte dalla qualità del testo agaziano in mano agli storici, se anche C.G. Mor
sostiene che "Agathia lo fa arrivare ... nella città di Kenedà (sic), soggetta ai
Franchi", salvo precisare in nota di aver usato un'edizione settecentesca dello
storico bizantino (forse non la stessa usata di Muratori 158); la località indicata da
Paolo, a parere di quell'insigne studioso, si sarebbe potuta "identificare con quella
collinosa tra Lazise, Peschiera e Ponton, dove generalmente nel Medio Evo si
accampavano gli eserciti imperiali che dalla Germania scendevano in Italia" 159 •
Sembra quasi che per far quadrare il contrasto tra la notizia agaziana e quella di
153) Cfr. ancora C.G. Mor, Verona medievale cit., p. 18, n. l.
154) Annali d'Italia cit., t. III, p. 441.
155) Ed. cit., apparato, p. 43, ad r. 22 (descrizione dello specifico codice ibid., Introduzione, p. XIII);
mentre KÉvE'ta si ritrova in cinque codici su sette (ibid., apparato, p. 43, ad r. 22). Cfr. anche l'ed. S.
Costanza cit., p. 67, apparato r. 2.
156) lbid., apparato, p. 43, ad r. 22. In ogni caso l'ed. A. Zanella, cit. di Paolo Diacono, p. 233,
commento, n. 14, suppone dubitativamente che in questa 'Cenesa', se la si dovesse accettare, si
potrebbe individuare l'attuale località veronese di Senaga.
157) The History ofthe Decline and Fall cit., voi. II, chap. xliii, p. 760 ("on the banks ofthe lake
Benacus, between Trent and Verona"), tr. it., p. 1644.
158) Verona medievale cit., p. 18: "Agathia Scolastico, De imperio et rebus gestis lustiniani lmp.,
libri quinque ... ho usato l'edizione di Venezia 1750"; probabilmente, tuttavia si tratta di una svista
per l'ed. Agathiae Scholastici, De imperio et rebus gestis lustiniani Imperatoria libri quinque. Ex
Bibliotheca et interpretatione Bonaventurae Vulcanii, cum notis eiusdem . Accesserunt eiusdem
Agathiae epigrammata, cum versione Latina. Venetiis. Ex typographia Bartholomaei Javarina
MDCC.XXIX, utilizzata e ricordata più correttamente da un'allieva di Mor, G. Cannella, Ricerche
su Ceneda nell'Alto Medio Evo cit., p. 3, ove cita appunto l'edizione di Venezia del 1729. L'uso
imprudente di vecchissime edizioni, è piuttosto frequente, nonostante l'esistenza di lavori più recenti
e impostati a criteri filologicamente più accurati.
159) Ibid.; cfr. anche V. Cavazzocca Mazzanti, Dove fosse il S. Daniele degli imperatori (6°
Contributo alla Storia di Lazise), "NA V" 36, 1918, pp. 181-187, e C.G. Mor, Bizantini eLangobardi
cit., p. 235, n. 8.
46
Paolo Diacono si senta il bisogno di precisare, anche di recente, senza timore di
forzare la geografia, che, ad es., "Ceneta (Vittorio Veneto), named by Agathias, is
someway from Lake Garda" 160, ovvero che "Ceneta, das zwischen Verona und
Trient nicht weit vom Gardasee lag" 161 ; per L. Cracco Ruggini, Leutari "muore di
pestilenza fra Verona e Treviso" 162 ; prudentemente generico A. Lippold: "der
[Leutari] dann nach Venetien gelangte, wo er jedoch mit seinen Scharen an der Pest
zugrunde ging" 163 ; "tra Verona e Trento, o, secondo Agazia, a Ceneta, nel Veneto
orientale" scrive ancora salomonicamente M. Pavan 164 •
§ 6. Riflessioni sulle opinioni di Agazia su Franchi e Alamanni (per un
inquadramento della disfatta degli anni 553-554 e del passo su Ceneda)
Sono state addotte vere e propre forzature per sostenere la scelta di Paolo,
piuttosto che di Agazia, come quelle di natura tattico-operativa suggerite da C.G.
Mor, che diceva essere "preferibile la localizzazione offertaci dallo storico
longobardo in luogo di quella dataci dal bizantino ... sopratutto per la ragione che
la via normale di passaggio verso la Gallia orientale era appunto quella della Val
d'Adige, mentre da Ceneda occorreva fare un lungo giro per arrivare, attraverso il
Bellunese e la Val Sugana, nel Trentino" 165; in realtà tutto è irrazionale nel
comportamento di Leutari nella sua incongrua risalita della penisola, e non si vede
perché proprio nella Venetia la sua convulsa fuga avrebbe dovuto avere un
improvviso sussulto di ragionevolezza. È chiaro invece, anche per i dettagli fomiti,
che sono le notizie agaziane a restare quelle di miglior qualità intrinseca ed
attendibilità sostanziale, non foss'altro perché scritte pochissimi anni dopo i fatti
attingendo ai diari di guerra bizantini e anche - come vedremo - a informazioni
dirette di fonte Franca e, soprattutto, senza il minimo coinvolgimento emotivo o
personale su luoghi e scenari.
Un Agazia che da Costantinopoli cita KÉve'tcxlocalità per lui assolutamente
sconosciuta e che non poteva certo inventare, è già - soltanto per questo maggiormente attendibile di un Paolo Diacono che, duecento anni dopo, e senza il
sostegno di fonti altrettanto autorevoli, si limitava a tratteggiare in poche righe una
160) PLRE III-B, s.v. Leutharis cit., p. 790.
161) W. EnBlin, s.v. Leuthari cit., c. 2315: che Ceneda stia "tra Verona e Trento" è invero un
po'approssimativo; ma tale spunto geografico vien fuori citando Paolo Diacono, il quale tuttavia,
come si è detto, non nomina affatto Ceneda nel racconto su Leutari e Buccelino.
162) Economia e Società cit., p. 447.
163) S.v. Narses cit., c. 883.
164) Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia cit., p. 14.
165) Verona medievale cit., p. 18; la posizione di questo storico si è fatta, in seguito, più problematica
e possibilista, fino ad ammettere la localizzazione cenedese della vicenda in Id., Da Roma a Carlo
Magno: vicende politiche tra Piave e Livenza cit., pp. 13-14.
47
serie assai malcoordinata di eventi, senza avvertire la necessità di precisione,
neppure sul piano della cronologia.
Agazia mostra di aver avuto accesso a materiali di buon livello e lascia
intendere che la permanenza in Ceneda degli Alamanni di Leutari non fu breve,
tanto da fare pendant con la fine altrettanto ingloriosa della scorreria di Buccellino
nel Mezzogiorno d'Italia nel 555 166•
Il passo 'cenedese' di Agazia è contenuto nella lunga esposizione nella quale
lo storico descrive una indubbia sconfitta dei Franchi, o meglio, una sconfitta che
toccò soprattutto gli alleati-subordinati Alamanni, ma che non lasciò indenni i loro
patroni e mentori 167 •
Si tratta, come si è visto, della vicenda incentrata sull'incursione degli anni
553-554: il re Austrasiano Teudebaldo aveva de facto autorizzato Leutari e
Buccellino ad invadere l'Italia, servendosi del pretesto di prestare assistenza e
soccorso alle enclaves gote assediate, o comunque minacciate, dall'esercito imperiale guidato da Narsete.
La narrazione, nel complesso abilmente condotta, puntava a mostrare che le
cause della sconfitta dei Franchi sarebbero state tutte da addebitare agli Alamanni
pagani e selvaggi, tanto da consentir di sorvolare sul fatto -pur conclamato-della
collocazione pro tempore dei Franchi dalla parte dei nemici dell'impero.
La nostra attenzione è inevitabilmente attratta dal singolare atteggiamento di
Agazia, che mostra di valutare i Franchi con un interesse tutto particolare (e
decisamente inedito): egli, che pure si collegava idealmente (ma anche sostanzialmente) alle Storie procopiane, non era più interessato al giudizio pesantemente
negativo che proprio Procopio aveva dato su questo popolo (e soprattutto sui suoi
reggitori, per la loro perfidia e il loro opportunismo). Lo storico di Cesarea aveva
infatti vissuto da testimone le vicende italiane, sottolineando ad ogni pié sospinto
l'attitudine al tradimento (qualcosa di assai vicino allafides punica, come si è già
osservato) che da Teodeberto in poi aveva caratterizzato l'ingresso e lo stabilimento dei Franchi Austrasiani nell'Italia settentrionale 168 • Ma Agazia - ripeto - non
sembra più interessato a questo duro (e tuttavia realistico) giudizio, o pregiudizio:
stava infatti già osservando i Franchi con gli occhi della generazione successiva a
quella di Procopio 169•
166) Infatti in Agath. II 4, in., p. 44 (tr. ingl., pp. 35) gli eventi della Venetia sono dati in concomitanza
con la fine della vicenda di Buccellino.
167) Vd. Agath. II 1-14, p. 40-59 (tr. ingl., pp. 32-47).
168) La 'duplicità' dei Franchi è un connotato specifico della storiografia di Procopio: cfr., ades.,Bell.
Goth. I 13, pp. 71-75; II 12, pp. 199-205; II 28, pp. 275-282, tr. it. risp. pp. 385-388; 471-474; 518522.
169) Sul contesto storico generale modificato, in cui si trova ad operare Agazia, e che aveva ormai
preso atto della progressiva dissoluzione dell'opera giustinianea, cfr. A. Carile, Consenso e dissenso
fra propaganda e fronda nelle fonti narrative del!' età giustinianea, in G.G. Archi (cur. ), L 'Imperatore Giustiniano. Storia e Mito cit., pp. 81-84.
48
Gli anni settanta del VI secolo sarebbero stati caratterizzati infatti da un'intensa attività diplomatica bizantina nei confronti dei Franchi, nell'esplicito (faticoso)
intento di ottenere il loro contributo per cacciare i Longobardi dall'ltalia 170: se 'i
bizantini del tempo di Procopio' avevano riconquistato l'Italia ad un prezzo
altissimo; anche contro gli insidiosi maneggi dei Franchi, 'i bizantini del tempo di
Agazia', speravano ora, magari senza troppa convinzione, di potersi riprendere la
penisola anche con l'aiuto di Franchi.
È verosimile che Agazia scriva dei fatti relativi al 553-554 almeno una ventina
d'anni dopo, senz'altro dopo il 5 71, data dell'arrivo di una importante ambasceria
dei Franchi a Costantinopoli inviata dal re Sigeberto e diretta da Firmino, di cui si
è già fatto cenno 171 (denique Sigyberthus rex legatus ad Iustinum imperatorem
misit, pacem petens, id est Warmarium Francum et Firminum Arvernum. Qui
euntis evectu navali, Constantinopolitanam sunt urbem ingressi, locutique tamen
cum imperatore, quae petierant obtenuerunt. In alium tamen annum in Galliis sunt
regressi 172), ma con maggiore probabilità dopo il 575, dopo cioè il primo- diretto
-tentativo bizantino di ricacciare militarmente i Longobardi 173•
Il fallimento di questo tentativo concretizzatosi in una spedizione laboriosamente inviata in Italia da Tiberio (reggente dell'imperatore Giustino Il) e guidata
dal curopalate Baduario, fu uno smacco difficilmente recuperabile: Baduarius
170) Per il contesto di tali eventi si vedano, ad es., i frr. 49 (a. 577) e 62 (aa. 579-580) dello storico
bizantino che raccolse l'eredità di Agazia, Menandro ('Protettore'), nell'ed. C. Miiller, Fragmenta
Historicorum Graecorum, Parisiis 1851, voi. IV, pp. 253 e 263 = frr. 22 e 24 nell'ed. R.C. Blockley,
The History of Menander the Guardsman, Liverpool 1985, pp. 196 ss. ); cfr. poi W. Goffart, Byzantine
policy cit., pp. 74 ss. e anche Averi! Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., p. 138.
171) Vd. qui, supra, nota 79.
172) Greg. Tur., Hist. Frane. IV, 40, voi. I, p. 366; cfr. G. Lohlein, Die A/pen- und Italienpolitik cit.,
pp. 53 e 62; W. Goffart, Byzantine policy cit., p. 77; J. Sasel, Il viaggio di Venanzio Fortunato e la
sua attività in ordine alla politica bizantina, "AAAd" 19, 1981, p. 369. Quel Firminus era un
personaggio di origine romana, della nobiltà aleverniate, di sicura formazione classica e probabilmente a conoscenza della lingua greca ( cfr. K.F. Stroheker, Der senatorischeAdel im spiitentiken Ga/lien,
Tiibingen 1948, rist. Darmstadt 1970, nr. 158, e L. Pietri, L'Ordine senatorio in Gallia dal 476 alla
fine del VI secolo, in AA.VV. (cur. A. Giardina), Società Romana e Impero Tardoantico, voi. I
(Istituzioni, Ceti, Economie), Roma-Bari 1986, pp. 312 e 700, nn. 23 e 25; PLRE III-A, s.v. Firminus,
p. 485. La data dell'ambasceria "is uncertain, perhaps c. 570-572" (PLRE III-B, s.v. Warinarius, p.
1401). Agazia ebbe certamente accesso ad una fonte diretta ascrivibile ai Franchi e "if we need to name
a source, the embassy of57l seems a likely candidate", scrive Averi! Cameron (Agathias on the Early
Merovingians cit., p. 134; per certi dettagli, infatti, Agazia pare addirittura più informato di Gregorio
di Tours, cfr. ibid., pp. 133-134).
173) Cfr. ancora Averi! Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., p. 133; un'altra
ambasceria merovingica fu inviata a Cistantinopoli negli anni 578-579 da Chilperico, re di Neustria
(cfr. W. Goffart, Byzantine policy cit., pp. 85; 93; 98-99 e nn. 108-112), ma è del tutto improbabile
che da tale missione potessero venire informazioni utili sulle operazioni degli Austrasiani in Italia.
49
gener Iustini principis in Italia a Longobardis proelio vincitur et non multo plus
inibi vitae finem accipit 174• A quel punto, per la corte bizantina, sarebbe diventato
"vital, not merely desirable, to enlist the aid of the Franks" 175• Solo agli inizi del
regno di Maurizio (a. 582) si sarebbero ricreate le condizioni per uno scambio di
aiuti tra Bizantini e Franchi. Purtroppo "Évagre et Théophylacte Simocatta, les
principaux historiens de Maurice, trop préoccupés des querelles religieuses qui
agitent Constantinople et des grandes luttes contre les Perses et les Avares, ne nous
disent rien des obscures et patientes intrigues poursuivies en Occident par la
diplomatie byzantine" 176•
Senz'altro "Agathias was seeing the events ofthe 550's with the eyes ofthe
570's, that he utilised the Franks and the Alamanni to suit bis own historical
174) Iohannis Abbatis Monasterii Biclarensis, Chronica, ad a. 576, 1, p. 214. Cfr. B. Feliciangeli,
Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia nel secolo VI, Camerino 1908, rist. an. Bologna 1974,
pp. 22-23; G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitikcit., pp. 63-64; W. Goffart, Byzantine po/icy cit.,
p. 80; J. Jarnut, Storia dei Longobardi cit., pp. 34-35; D. Sendula, Aspetti dei rapporti politicogiuridici tra il Regnum Langobardorum e l'Impero Bizantino nei sec. VI-VIII, in "Atti del VI
Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. Il, p. 625 (su Baduario vd. Corippi
Africani,ln Laudem Iustini, II, 284-285, MGH AA, III, pars posterior, p. 134). In precedenza lo stesso
Baduario, per ordine di Giustino II aveva vittoriosamente aiutato i Gepidi, all'incirca nel 565, contro
i Longobardi nella Mesia (vd. Theophyl. Sirn. Hist. VI 1O,7-ss., pp. 240-242; cfr. J. Jarnut, Storia dei
Longobardi cit., p. 22). Considerando l'ambito geografico di questo lavoro non è inopportuno
ricordare che questo Baduario, curopalate bizantino, è stato considerato da alcuni studiosi come il
predecessore della casata veneziana dei Badoer: cfr. ad es. E. Gibbon, The History o/ the Dec/ine and
Fa// cit., voi. Il, chap. xlv, p. 858, n. 24, tr. it., p. 1735, n. 3 (con rinvii). In G. Arnosti, Lo scisma
tricapitolino cit., p. 66, il comandante bizantino è chiamato, per errore, Bandario.
175) Averi! Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., p. 138.
176) A. Gasquet, L 'Empire cit., p. 183; non portarono a risultati seri nemmeno i tentativi di far passare
al servizio dell'impero alcuni duchi longobardi (vd. anche l'Epist. Austras. n. 48 (a. 581?), pp. 153153; cfr. D. Sendula, Aspetti dei rapporti politico-giuridici cit., p. 625). Alcuni elementi Franchi
avrebbero proposto di contribuire ad un'invasione dell'Italia (contro i Longobardi) in cambio
dell'appoggio di Costantinopoli al pretendente Gundovaldus (vd. Greg. Tur. Hist. Fr. VI, 24. VI, 26;
VII, 14, voi. II, risp. pp. 66-68; 70 ss.; 162; cfr. A. Gasquet,L 'Empirecit.,pp. 183 ss.; G. Lohlein,Die
Alpen- und Italienpo/itik cit., p. 65; H. Biittner, Die Alpenpolitik der Franken cit., p. 73; W. Goffart,
Byzantine policycit.,pp. 9 l ss., spec. pp. 96 ss.; quest'ultimo autore annotava specificamente: "as long
as irnperial policy was aimedat obtaining help agains the Lombards from the legitirnate Merovingians,
Gundovald would have had to be ignore'd. However, once Austrasia and Burgundy had shown
reluctance to invade the peninsula, the Byzantines would again have thought that a pretender might
be useful in changing Frankish minds. Yet, Byzantium was much too distant to have a hand in
manipulating politics at the Merovingian court, and, unless the Byzantine autorities were offered a
pian to use Gundovald by some group of Franks, they could not hope to establish the pretender
otherwise than by sending an imperial army", ibid., p. 98; cfr. ancora ibid., pp. 105 ss.). Su alcuni
aspetti della complessa storia merovingia di questo periodo, con riferimento proprio agli usurpatori
e ai 'vuoti di potere' cfr. M. Gusso, A proposito di alcune locuzioni interregnali difonti tardoantiche
e altomedievali, "SDHI'' 57, 1991, pp. 431-444.
50
theories, and that realising that Procopius hostility to the Franks would now seem
oldfashioned and embarrassing, he was careful to avoid calling it to mind" 177•
Ma Agazia non si mostra mai come uno "storico ufficiale"; nel suo lavoro
potrà esserci retorica, ma non si trova maipropaganda; non dimentichiamo poi che
egli era un autore di richiamo, ed aveva in mente soprattutto il suo pubblico 178•
Non sappiamo quanto involontariamente Agazia, fors'anche affascinato dai
Franchi, si sia fatto promotore di un tentativo di attirare (se non di promuovere)
l'attenzione delle classi colte bizantine su questo popolo, come se volesse a tutti i
costi dimostrare che i Franchi non erano dei barbari, o, comunque, non erano
barbari come tutti gli altri 179 : "firstly, he is greatly influenced by the fact that the
Franks are Catholics" 180•
Certo risultava sgradevole attribuire ai sovrani costantinopolitani dei nemici
che fossero seguaci della loro stessa religione, appariva anzi una contraddizione in
termini: teniamo presente l'attenzione che Agazia dedica nelle sue Storie alla
durissima lotta tra Bizantini e Persiani anticristiani (consapevoli e attivi nemici di
Dio), seguaci di un credo dualistico, che lo storico chiama un po' semplicisticamente
177) Averil Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., p. 139. Descrizione sui culti pagani
degli Alamanni in Agath. I 6, 3-7, pp. 17-19; tr. ingl., pp. 14-16. Secondo Agazia, la divinità si fa
regolatrice delle azioni umane, favorisce i giusti ed i pii e punisce gli ingiusti e gli empi: gli Alamanni
avevano devastato e saccheggiato le chiese ed avevano lordato di sangue i sacri recinti abbandonandovi cadaveri insepolti. Coloro che per avidità invadono la terra d'altri, sconvolgono la vita di altri
popoli innocenti, ignorano la giustizia e non si curano di Dio. Sono raggiunti duramente dalla sua ira:
Dio ha in odio questi comportamenti e i momentanei successi degli empi si capovolgono nelle loro
irrimediabili sciagure (vd. Agath. II 1, 8-11, pp. 40-41; tr. ingl., pp. 32-33 e cfr. S. Costanza,
Orientamenti cristiani cit., p. 98).
178) E il pubblico di Agazia aveva aspettative ben precise, che lo scrittore non voleva, né poteva,
deludere. Gli scrittori bizantini che si iscrivevano al filone aulico del genere storiografico ambivano
distinguersi dai coevi cronisti, che si rivolgevano ad un pubblico assai meno colto e raffinato. Per
queste considerazioni cfr. H. Hunger, Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner, I,
Miinchen 1978, pp. 252-254 e M. Rampi La storiografia agaziana e il '1avoloso", "QM" 37, 1994,
p. 39.
179) Cfr. Averil Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., pp. 136 ss.; cfr. tuttavia S.
Impellizzeri, che sostiene invece come "il giudizio famoso" che Agazia "dà sui Franchi, di cui celebra
i costumi civili ed umani, l'amore per la giustizia ... diverge da quelli dei contemporanei, che vedono
in essi invece delle genti selvagge", e sia "frutto della idealizzazione di genti babariche, topos comune
della etnografia classica" (La Letteratura Bizantina. Da Costantino a Fozio, Firenze 1975, p. 236).
180) Averil Cameron, Agathias on the Early Merovingians cit., p. 136; vd. Agath. I 2, 4, p. 11; tr. ingl.,
p. 10 (cfr. S. Costanza, Orientamenti cristiani cit., p. 93); cfr., in ogni caso, G. Pepe, Il Medioevo
barbarico d'Italia cit., pp. 218 ss.; d'altra parte già la "Justinian's anti-Arian reconquista had quite
naturally looked to the orthodox Franks in Gaul for assistance against the Ostrogoths; treaties had been
concluded and sustantial subsidies were sent to the Merovingian king of Austrasia" (Yv. Goffart,
Byzantine policy cit., p. 75; vd. Procop. Beli. Goth. I 5, 8-9, pp. 26, tr. it., p. 357); cfr. F. Beisel,
Theudebertus Magnus cit., pp. 96-98.
51
'manicheo' 181•
È indubbio che Bisanzio aveva utilizzato i Franchi 'cattolici' contro i Goti
'ariani', riconoscendo implicitamente l'intervento di una nuova forza nella politica
occidentale 182, e la valutazione agaziana sui Franchi mira a dipingerli-con un po'
di retorica - come difensori della fede, come presidio occidentale della stessa fede
e, conseguentemente, degli interessi Bizantini 183: in questo senso anche la sua
narrazione dell'episodio che ha al centro Ceneda contribuisce a farci riflettere.
Certo i Franchi avevano sbagliato a scegliersi come alleati i pagani Alamanni,
e per questo avevano pagato duramente il loro errore: ciò non toglie che, rimossi
gli Alamanni 184, i Franchi tornassero ad essere il presidio che erano, e anche Ceneda
restò nelle loro mani ancora per qualche anno.
In ogni caso l'approccio di Agazia nei confronti dei Franchi, in questa
specifica vicenda, è più approfondito e sentito (quindi più credibile, anche nei
particolari) che non quello di Paolo Diacono (affrettato e di maniera): allo storico
longobardo interessava certo evidenziare posizione e ruolo dei Franchi, ma dei
Carolingi del suo tempo, e solo limitatamente dei Merovingi passati 185•
Si ricordi inoltre che la Historia Romana di Paolo si concludeva piuttosto
bruscamente proprio nel 552, alla vigila dell'invasione dell'Italia da parte di
181) Vd. Agath. III 12, 8-ss., pp. 99-100; tr. ingl., pp. 81-82; cfr. S. Costanza, Orientamenti cristiani
cit., pp. 94-95; sul fatto che l'interesse di Agazia è soprattutto rivolto all'Oriente, e particolarmente
alla Persia, cfr. S. Impellizzeri, La Letteratura Bizantina cit., p. 235 e, specif., Averi! Cameron,
Agathias on Sassanians, "DOP" 23-24, 1969/1970, pp. 66-183.
182) Cfr. J.M. Wallace-Hadrill, L'Occidente Barbarico cit., pp. l l l-112.
183) In realtà Averi! Cameron, riferendosi sia a Procopio che ad Agazia, notava che "the christian
atrnosphere of Constantinople is almost entirely lacking from their works. Because religious affairs
were held to come under a separate category - ecclesiastica! history- a whole area of contemporary
!ife was simply excluded. Neither Agathias nor Procopius ... explained or even asked, what the role
of christianity was in everyday !ife and affairs. Both were Christians, yet both forced their histories
into a mould shaped by pagan ideas and tradition (Agathias cit., p. 134).
184) Con parole degne d'un animo cristianamente misericordioso Agazia si augurava comunque che
persino questi ultimi, già resi più civili dalla sola vicinanza con i Franchi, potessero presto essere
accolti nella vera religione (vd. Agath. I 7, 2, p. 18; tr. ingl., p. 15; cfr. S. Costanza, Orientamenti
cristiani cit., p. 11O).
185) Cfr. a questo proposito, in gen., Rosamond McKitterick, Paolo Diacono e i Franchi: il contesto
storico e culturale, in P. Chiesa (cur.), Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e
rinnovamento carolingio. Convegno internazionale di Studi, Cividale del Friuli 6-9 maggio 1999,
Udine 2000, pp. 9-28; Lidia Capo, Paolo Diacono e il mondo franco: l'incontro di due esperienze
storiografiche, ibid., pp. 39-74.
52
Leutari e Buccelino,e proprio per esaurimentodelle sue fonti (per il venir meno del
suffragium dei dieta maiorum, come si esprime lui stesso)186•
§ 7. Fine della presenza Franca in territorio veneto (555-562/563)
Ritorniamo alla nostra vicenda storica là dove l'avevamo lasciata: Narsete
187
aveva inseguitoBuccelinoe ne avevarovinosamentesconfittele <l>pa:yyucà.qruAa
nei pressi del Volturno (eo temporeBuccelenus dux Francorum in bello Romano
cum omni exercitu suo interiit188): "the defeat ofthe Franks was already certain; it
was now to be annihilation"189•
186)Le paroledi Paolo sono estrapolatedalPrologus dellaHist. Rom., p. 2; cfr. Lars Boje Mortensen,
Impero Romano, HistoriaRomana e HistoriaLangobardorum, in P. Chiesa(cur.), Paolo Diacono cit.,
spec. pp. 363 ss.; ricordo che una fonte importanteper Paolo,Iordanes,lo storico Goto,termina il suo
lavoro al 551, un anno avanti la fine della Historia Romana (cfr. ibid., p. 365 e A. Momigliano,
Cassiodorus and ltalian Culture cit., pp. 210-218).
187) È l'espressione che compare in uno dei versi riportati in Agazia (I 10, 8, r. 11, ed. S. Costanza,
p. 83), che esaltanol'impresa narsetiana.254. Anche la sconfittadei Franco-Alamanniè utilizzata da
Agaziacomeprova dei castighiche gli invasorisi eranoattiratisul capo a causa dellaloro empietà(cfr.
M. Rampi La storiografia agaziana e il "favoloso" cit., pp. 51-52).
188)Mar. Avent. Chr. a. 555.4, p. 237; Agath. II 7-10, pp. 49-55 (tr. ingl. pp. 38-43), dove è lodato
altresì il valore di un energico e sperimentatosoldato, Sindual,che si distinse con i suoi Eruli contro
i franco-alamanni(cfr. PLRE III-B, s.v. Sindua/ cit., p. 1155).A parere di E. Stein, Buccelino non
intendeva ''renoncer au déssein de se rendre maitre d'Italie, d'autant plus que les Goths encore
réfractaires à l'Empire lui avaient promis de le reconnaitrepour roi une fois qu'il serait vainqueur"
(Bas-Empire cit., p. 608); "ist es doch bekannt, dal3Butilin gerade die Hoffnung,die man ihm auf die
gotische Konigskrone machte, in erster Linie bestimmt hat, das Untemehmen trotz der starken
Verluste infolge der ausgebrochenenKrankheiten in seinem Heere nicht aufzugeben, sondem eine
Entscheidungmit Narses zu wagen" (G. Lohlein,Die Alpen- und Italienpolitik cit., p. 48); cfr. anche
PLRE III-A, s.v. Butilinus cit., p. 254: "Butilinus... chose to remain, accordingto Agathias because
he had promisedto aid the Goths agains the Romans and they were encouraginghim to belive that he
would be offered the crown (Agath. II 2, 1-2)".
189) J.B. Bury, History cit., Il, p. 280; vd. Agath. II 6-10, pp. 47-55 (tr. ingl., pp. 37-43); cfr. Th.
Hodgkin,Italy and her Invaders cit., V, pp. 39-46; E. Stein,Bas-Empire cit., p. 608; W. Treadgold,
A History cit., p. 241. Si può ricordareancheuna fonte, accettatanel passato (cfr. ancoraTh. Hodgkin,
ltaly and her lnvaders cit., IV, p. 536, secondocui: "MarcellinusComes gives us no fact after 558"),
ora opportunamentevalutata come dubbia, il Marcellini Auctarium alterum: [a. 552] ind. XV. XI p.c.
Basi/ii ... per haec tempora cum Buccelinus comes cum sociis a Theodeberto rege Francorum dudum
missus per annos aliquot ltaliam Siciliamque infestaret et Romanum saepe exercitum superaret,
tandem exercitus eius profluvio ventris attritus a Narse pugna victus et profligatus, ipse dux occisus
est ( Chronica minora II cit., p. 43, n. 1), considerazionie discussionisu questa fonte ibid., pp. 42-43;
il passo si può leggereanche nell' ed. del Chronicon di MarcellinusComes di J.-P. Migne,PL, Parisiis
1861,t. 51, c. 946: è chiaro che questa confusanotizia mescola i primi attacchiall'Italia promossi da
Teodeberto nel 539, con la spedizione franco-alamannadel 553-554, in una commistionesimile a
quella che si ritrova in Gregorio di Tours. Sul secondo Auctarium di Marcellino ricordo quanto
scriveva O. Holder-Egger:"das Stiickvon 549-566,welches in den Ausgabengedrucktist, ist nichts
als ein Fragmentaus Hermannsvon ReichenauChronik", Untersuchungen iiber einige annalistische
Quellen zur Geschichte des fanften und sechtsten Jahrhundert III. (Die Chronik des Marcellinus
Comes und die ostromischen Fasten), in "NA" 2, 1877,p. 108, n. 4.
53
Il livello dei comandanti franchi (almeno quello della loro fortuna), tanto sul
campo quanto nella direzione e nelle scelte strategiche generali, era caduto davvero
in basso: non si può non ricordare l'autorevole opinione di chi ha scritto che tutto
ciò non si sarebbe verificato "if Theodebert had been still alive" 190
.
Nel frattempo Narsete si trovò così a controllare l'Italia a sud del Po: "denn
die Rechtsfrage betreffs Venetiens wurde noch in Verhandlungen der Byzantiner
mit Theudebalds N achfolger, Chlothachar I., erortert und erst beim AbschluB eines
Waffenstillstandes zwischen diesem Konig und dem ostromischen Herrscher
vorlaufig geregelt. Welche Abmachungen man dabei traf, ist freilich unbekannt.
Verzichteten die Franken aber etwa auch auf das streitige Gebiet, so gelangten die
Byzantiner doch keinesfalls sofort und kampflos in dessen Besitz" 191
. Probabilmente "mit den Franken schloB Narses einen Waffenstillstand und Vertrag, nach
dem jene das ostliche Venetien (bis zur Brenta?) mit Ausnahme des Kilstenstriches
behielten, wahrend sie wohl jetzt schon die anderen von ihnen besetzten Gebiete
(die Cottischen Alpen und Nordligurien) raumen mu8ten" 192
.
Le conseguenze di questa invasione si fecero sentire pesantemente sul tessuto
sociale italico, e le autorità imperiali dovettero infatti intervenire a regolare la
disastrata economia: certamente lo spietato fiscalismo bizantino ("un régime de
terreur fiscale") non aveva giovato alla ripresa della fragile economia italiana,
istituendo un clima che fece "détester la domination byzantine encore mal affermie"193);risultano terribili le condizioni dell'economia italiana dopo le devastazioni
prodotte dalla guerra gotica, specie nelle Venezie, nel Ravennate e nell'Emilia,
quando ai proprietari terrieri, specie ai più modesti, vennero a mancare i mezzi
elementari per cercare di risollevare le proprie tenute, e per rinnovare le indispensabili dotazioni di strumenti, di uomini, se non addirittura di sementi 194.
190) J.B. Bury, History cit., Il, p. 281. Una leggenda sull'eroismo e sui successi di Buccelino, si era
già in parte formata nella Historia Francorum di Gregorio di Tours (III, 32; IV, 9, voi. I, pp. 268 e
299: "tutte fandonie", chiosava L. Muratori,Annali d'Italia cit., tomo III, p. 441; "a garbled version"
la definisce PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit., p. 922), ma trova il suo massimo interprete in Fredegario:
cfr. Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, II 62, p. 88; III 44 e 50, p. 106, dove si leggono
altisonanti e ingiustificate (quanto sgrammaticate) storie di vittorie di Buccelenus contro Belisario e
Narsete; anzi lo stesso Belisario avrebbe perso la vita proprio dopo essere stato sconfitto da questo
eroe. Inoltre Siciliam occupat, totamquè Italiam dominans, magna eifelicitas in his condicionibus fuit
etc.
191) R. Heuberger, Riitien, cit., p. 261.
192) L. Schmidt, Die letzten Ostgoten, cit., p. 7.
193) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 446-449 e 565 ss.; sul sistema del fiscalismo bizantino
applicato alle diverse realtà territoriali e amministrative in epoca giustinianea cfr. S. Puliatti, Ricerche
sulla legislazione "regionale" cit., pp. 41 ss.
194) Cfr. L. Cracco Ruggini, Economia e Società cit., specie pp. 442 ss. (con numerosi rinvii
documentali), ed Ead., Vicende rurali cit., pp. 280 ss.; una fonte frammentaria, connessa alle cronache
isidoriane, relativa al periodo della guerra gotico-bizantina riferisce sinteticamente e crudamente la
54
La riconquista della penisola era costata gran parte del suo potenziale
patrimoniale e produttivo: "lo stesso anno della promulgazione delle norme
raccolte nella Pragmatica Sanctio, il flagello degli Alamanni e dei Franchi di
Leutari e Buccellino aveva aggiunto miserie a miserie" 195• Una sorta di grido di
disperazione si levò da tutta Italia all'imperatore, perché venisse in aiuto almeno di
coloro che erano sul punto di soccombere sotto il peso dei debiti contratti.
Giustiniano, in realtà, mirava apertamente alla restaurazione del potere
bizantino, accompagnata dal ristabilimento dei precedenti rapporti socio-economici, specie in favore della aristocrazia latifondista, che riebbe, in prospettiva, la
protezione imperiale accompagnata dai beni e dai privilegi di cui i Goti, specie con
Totila, l'avevano spogliata 196•
L'imperatore emanò comunque, nel 555 (o ai primi del 556), un modesto
provvedimento che ci appare del tutto insufficiente, ma resta comunque indicativo
della percezione, 'a livello centrale', di una realtà ormai difficilmente governabile:
si trattò di una costituzione (la c.d. Lex quae data est pro debitoribus in Italia et
Sicilia 191), indirizzandolaNarsi Panfronio et senatui, cioè a Narsete, ad un illustre
personaggio romano (Pamphronius), che ritroveremo anche in seguito, e, ovviamente, al Senato di Roma.
Si trattò di una moratoria di cinque anni dei debiti, che reca un esplicito
riferimento all'ultima invasione (nuper factam incursionem Francorum 198): non
realtà di quel periodo: per idem tempus tanta fames /acta fuit per totam Italiam, quod matres carnes
puerorum suorum manducabant (Additamenta ad Chronica Maiora ex codicibus diversis, in
Chronica minora II cit., p. 493).
195) O. Bertolini, Roma cit., p. 194; cfr. J.B. Bury, History cit., II, p. 282; PLRE III-B, s.v. Narses
1 cit., p. 923. La c.d. Pragmatica Sanctio pro petitione Vigilii (datata 13 agosto 554) è pubblicata nel
Corpus Iuris Civilis (ree. R. Schoell-G. Kroll), Berolini 19546, Voi. II, Novellae, pp. 799-802 (Nov.
App. VI]); lo stesso anno della Prammatica anche Cassiodoro "kehrte ... auf seine Giiter nach Italien
zuriick, wo er bei dem Orte Squillace das Kloster Vivarium griindete" (Ingemar Konig, Theoderich
der Grofle und Cassiodor cit., p. 215).
196) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 613 ss.; G. Ostrogorsky, Geschichte des Byzantinischen
Staates, Miinchen 1963, trad. it. Storia dell'Impero Bizantino, Torino 1968, p. 61.
197) In Corpus Iuris Civilis cit., Voi. Il, Novellae, p. 803 (Nov. App. VII]); cfr. E. Stein, Bas-Empire
cit., pp. 616-617; J.B. Bury, History cit., Il, p. 282, n. 1; PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit., p. 923. "The
constitution was issued in 555 or shortly afterwards" (PLRE III-B, s.v. Pamphronius, p. 962).
198) È curioso, ma non sorprendente, che l'accenno alla decursio barbarici temporis, nelle premesse
della Novella imperiale, possa avere come pendant il riferimento ad una espressione simile: tempore
hoc barbarici, in un documento papiraceo ravennate di quegli stessi anni (aprile 553), con il quale una
benestante donna Gota faceva dono dei suoi beni alla Chiesa (cfr. A. Carile, Bellum cit., p. 159, n. 46
= Società cit., pp. 138-139, n. 46 con riferimenti bibliografici). Ci sarebbe da chiedersi chi fossero,
allora, i barbari (per riflessi linguistici su barbarie e civiltà nel periodo trattato in questo lavoro cfr.
comunque J. Szovérffi, À la source de / 'humanisme chrétien médieval: "Romanus" et "Barbarus"
chez Vénance Fortunat, "Aevum" 1971, pp. 77-86; G.B. Ladner, On Roman Attitudes towards
55
siamo tuttavia informati di altri provvedimenti o di altre misure di sollievo alla
popolazione o all'economia: ovviamente fuori di ogni realtà è ad esempio la
cronaca che narra di come Narses patricius ... ltaliam Romano imperio reddidit,
urbesque dirutas restauravit totiusque ltaliae populos, expulsis Gothis [e i Franchi?], ad pristinum reducit gaudium 199• In ogni caso, la riconquista dell'area
Transpadana, nonostante il volonteroso impegno propagandistico di qualche
cronista 200 , si realizzerà completamente soltanto alcuni anni più tardi. Come è stato
scritto, "of the subjugation of the Transpadane provinces ... we bave no record. It
was a slow business" 201: sarà probabilmente nel 556, o meglio, a partire dal 55 6 (se
vogliamo dar fiducia alla cronologia di Mario di A venches ), che "les Francs aient
été forcés d' évacuer les territoires conquis par Théodebert dans l' ouest de la HauteItalie. Une treve fut conclue qui ne semble rien avoir changé à la situation
Barbarians in LateAntiquity, "Viator" 7, 1976, pp. 1-25; L. Alfonsi, Romani e barbarinella Historia
Langobardorum di Paolo Diacono, "RomBarb" 1, 1976, pp. 7-23; Ralph W. Mathisen, Roman
Aristocrats in Barbarian Gaul:Strategiesfor Survival in an Age of Transition,Austin (Texas) 1993,
spec. pp. 1-6; 39-49). Ricordo il celebre verso di Massimiano: nonjleo privatum, sed generale chaos
(Elegiae V, 110, p. 268), cioè: 'non piango il mio personale fallimento, ma il caos, la discordia
universale', che-nella cornice erotica in cui è iscritto-richiama la 'fine dei tempi', che si manifestava
anche attraverso un rimescolamento dei valori, come doveva essere vissuta da un intellettuale
occidentale a cavallo della metà del Vl secolo posto drammaticamente di fronte alla condizione
dell'Italia ed al cruento Clash of Civilisationsche vi si stava svolgendo.
199) Auctarii Hauniensis Extrema (in Chronica minora I, p. 337, § 4; cfr. anche !'ed. R. Cessi, in
appendice aisuoi Studi sullefonti dell'età gotica e longobarda.IL 'ProsperiContinuatioHauniensis ',
"ArchMur" 22, 1922, p. 638, rr. 40-42 (vd.Liber Pontificalis,LXIII IohannesIII: erat enim totaItalia
gaudens, Duchesne, I, p. 305 e n. 5, p. 307). Sulle fonti che dipingono una dubbia abbondanza
dell'Italia di questo periodo cfr. L. Cracco Ruggini, Economia e Società cit., pp. 478-479.
200) In part. Mar. Avent. Chr. a. 556.4, p. 237: eo anno exercitusreipublicae resumtisviribuspartem
Italiae, quam Theudebertusrex adquisierat, occupavit (che è notizia da trasferire forse al 554). Si
consideri peraltro che per diversi cronisti, meno informati o meno attenti, la stessa presenza dei
Franchi in Italia in questo periodo non risulta neppure conosciuta o degna di essere almeno ricordata.
Mi riferisco, ad esempio, ad Isid. lun. Chron.402, in Chronicaminora Il cit., p. 476; al passo appena
citato delle Auctarii Hauniensis Extrema, a Beda, Chron. 522, p. 308, oltre che alla Historia Romana
di Paolo Diacono (XVI 12-13, pp. 134-135). Sulla dipendenza pasticciata da Isidoro iuniore delle
Auct. Haun. Extrema, cfr. R. Cessi, Studi sullefonti cit., p. 612 (specif. per il passo di cui si tratta).
Peraltro il silenzio sulla presenza dei Franchi in area veneta in questo periodo non è prerogativa solo
dei cronisti tardoantichi: si pensi a S. Gasparri, Dall'età longobarda cit., pp. 8-9, ove è ricordata ad
es. l'invasione dei Franchi del 589-590, mentre, in precedenza, non vi è alcun cenno sulle incursioni
e sugli insediamenti franchi nel periodo 539-562 (cfr. ibid., pp. 4-5).
201) J.B. Bury, History cit., II, p. 281. "Petit à petit, les Goths qui se maintenaient encore dans la
province de Ligurie, furent soumis" (E. Stein, Bas-Empire cit., p. 609).
56
territoriale en Vénétie" 202
. Indubbiamente "la proximité du royaume frane, unifié
parClotaire à la mort de Childebert en décembre 558 ou 559, détermina probablement
Narsès à ménager pendant quelque temps encore les Ostrogoths qui occupaient
Vérone et Brescia. Nous ne connaissons que très imparfaitement /es circonstances
dans lesquelles se termina ensuite la tragédie ostrogothique" 203 •
Come sappiamo da un frammento dello storico bizantino Menandro 204
, ancora
nel 561-562 205
, un comandante Franco, di nome Aming (o, forse, Haming? Il nome
è comunque reso in greco con un "Aµµtyoç che escluderebbe l'aspirazione iniziale206), avrebbe schierato le sue truppe per bloccare un guado dell'Adige, impedendone
in tal modo l'attraversamento ad un contingente di truppe imperiali.
Purtroppo il frammento è poco chiaro, e comunque troppo sintetico: sembra
di capire che la frizione franco-bizantina fosse considerata con preoccupazione da
Narsete che avrebbe inviato un'ambasceria ad Aming, guidata da Bono (e non
202) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 61 O e de relato A. Carile, Bellum cit., p. 177 = Società cit., p. 156.
Forse Mar. Avent. Chr. a. 556.4, p. 237, va inteso come riferibile al 554, cioè alla sconfitta di Leutari
e Buccelino, mentre il passo immediatamente successivo (a. 556.5, p. 237) riguarda un arco
cronologico che va appunto almeno dal 554 al 562 (notava F. Gregorovius, Storia di Roma cit., p. 346,
n. 1: "reca stupore che la Cronica di Mario A ventic. disgiunga di sette anni i tempi di Bucelino da
quelli di Leutari"). L. Cracco Ruggini scrive, forse troppo sbrigativamente: "soltanto nel 556, tuttavia,
i Franchi evacueranno definitivamente l'Italia Settentrionale" (Economia e Società cit., p. 4 77). Il 556
è dato erroneamente come l'anno in cui Leutari si rifugia a Ceneda in A.N. Rigoni, Documentazione
archeologica cit., p. 113.
203) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 610 (corsivo mio); cfr. anche Th. Hodgkin, Italy and her Invaders
cit., V, p. 46 ("the sickly child Theudebald, king of Austrasia, died in 555, and his great-uncle
Chlotochar, who succeeded to his kingdom, showed no sign of wishing to renew the war for the
possession of Italy").
204) Menandr. fr. 8, ed. C. Miiller cit., p. 204 = fr. 3, 1 rr. 1-2, ed. R.C. Blockley cit., p. 44 (da questa
edizione è tolto il passo citato di seguito); cfr. anche E. Gibbon, The History ofthe DeclineandFall
cit., voi. II, chap. xliii, p. 763, n. 56, tr. it., p. 1646.
205) La data "is uncertain; the preceding and succeding fragments ofMenander concem events in 559
and 561, and within that time Narses is recorded in north Italy in 561" (PLRE Ili-A, s.v. Bonus 3 cit.,
p. 241).
206) "Duca di (sic) Aming", come si legge, per una evidente svista, in A. Carile, Bellum cit., p. 177,
n. 120 = Società cit., p. 156, n. 120; si tratta di un comandante "of Frankish forces in north Italy
(possibly since c. 553)" (PLRE III-A, s.v. Amingus, p. 55). Che Aming fosse uno dei comandanti
franchi che, per incarico di re Teodeberto avevano guidato le incursioni in Italia dopo il 539 si può
ricostruire anche a partire da una confusa notizia del Liber Pontificalis, peraltro cronologicamente
sconclusionata: venit Amingus dux Francorum et Buccillinus... et ipsi premebant Italiam. Sed
auxiliante Domino et ipsi a Narsete interfecti sunt (LXIII. Iohannes III Duchesne, I, p. 305, n. 3, pp.
306-307; MGH GPR, voi. I, p. 157); nella Vita Iohannis Abbatis Reomarensis cit., p. 513, si legge
invece confusamente di due capi franchi inviati in Italia, tra i quali Bucceleno. F. Beisel definisce il
"dux Aming der letzte der groBen Heerfilhrer in Italien" (Theudebertus Magnus cit., p. 122).
57
'Buno' come capita di leggere 207) e Pamfronio 208, i quali avrebbero cercato una
composizione incruenta, ma senza successo 209• Infatti Aming fece rispondere
orgogliosamente ai Bizantini che non·avrebbe cessato di combattere fino a quando
fosse stato in grado di imbracciare la lancia 210•
Probabilmente si tratta solo della parte iniziale della notizia relativa a questa
vicenda, che si sarebbe conclusa poco dopo con la sconfitta di questo ultimo centro
di resistenza Franco (da collocarsi essenzialmente nell'area veronese211); certamente i Franchi non dovettero assistere alla riconquista della Venetia da parte dei
bizantini "en spectateurs indifférents" 212• Tuttavia, da qui ad immaginare altri più
intriganti scenari ce ne corre: è difficile inoltre che in Aming si possa riconoscere
il personaggio - chiamato Chamingus - cui si rivolgeva in una lettera ufficiale il
207) Ad es. in G. Amosti, Lo scisma tricapitolino cit., p. 61 (dove tuttavia non è specificata l'edizione
menandrea di riferimento); si trattava di un altissimo funzionario: "the office which Bonus held was
perhaps that ofcomes patrimonii per ltaliam".(PLRE III-A, s.v. Bonus 3 cit., p. 241; sullo specifico
ufficio cfr. part. A.H.M. Jones, The Later Roman Empire cit., pp. 425-427, tr. it., pp. 638-638).
208) Cfr. J. Sundwall, Abhandlungen cit., pp. 105 e 145-146 (dove con "Frankenkonig" si deve, forse
intendere ildux Aming);PLRE III-A, s.v. Bonus 3,p. 241; W. EnBlin, s.v. Pamphronius 2 cit., c. 353;
PLRE III-B, s.v. Pamphronius cit., p. pp. 962-963; ilpatricius "Pamphronius was evidently a highranking civilian officiai in ltaly" (PLRE III-B, s.v. Pamprhonius cit., p. 962), presumibilmente
Prefetto del Pretorio o Prefetto della Città di Roma (secondo Menandro, fr. 49 ed. C. Miiller cit., p.
253 = fr. 22 ed. RC. Blockley cit., pp. 196-197 e p. 281, n. 267) questi sarebbe stato ancora in carica
nel 578 (cfr. W. EnBlin, s.v. Pamphronius 2 cit., c. 353; W. Goffart, Byzantine policy cit., p. 81, che
offre una propria traduzione del frammento menandreo ).
209) "During the reconquest of north Italy Bonus and Pamphronius were sent to the Frank Amingus
as envoys by Narses to arrange for the Roman army to cross rhe river Attisius (Adige) without
involvingthe Franks in warfare" (PLRE III-A, s.v. Bonus 3 cit., p. 241; ibid., s.v. Amingus cit. p. 55);
cfr. anche O. Bertolini, Roma cit., p. 220.
210) Menandr. fr. 8, ed. C. Miiller cit., p. 204 = fr. 3,1 rr. 8-10, ed. R.C. Blockley cit., p. 44 (anche
in questo caso ho scelto quest'ultima edizione per il passo citato). "Amingus ... lagerte am linken Ufer
der Etsch, um die Byzantiner am ùberschreiten des Flusses und an der EinschlieBung von Verona zu
hindern" (L. Schrnidt, Die letzten Ostgoten, cit., p. 7).
211) Però W. Goffart ritiene che "a considerable portion of Venetia was stili a dependency of
Austrasia in 562, when its governar Amingus supported a Iast-ditch Gothic rising" (Byzantine policy
cit., p. 76). L'unico storico che ipotizza che il duca Franco Aming avesse la propria sua base operativa
a Treviso, da cui si sarebbe mosso "al soccorso" di Widin, è C.G. Mor, Da Roma a Carlo Magno:
vicende politiche tra Piave e Livenza cit., p. 14 (una serie di considerazioni, ibid., p. 19, n. 8, connesse
con la 'riconquista' di Treviso da parte dei Franchi dopo il 550-551, non sono completamente
intelleggibili).
212) Come suggerisce E. Stein, Bas-Empire cit., p. 610. Sulla vicenda cfr. anche G.B. Bognetti,
Teodorico di Verona e Verona longobarda capitale di regno [1960], in Id., L'Età Longobarda cit.,
IV, pp. 350 ss.
58
maior domus di Sigeberto, Gogone 213•
G.B. Bagnetti sosteneva, dal canto suo, che "in un anno non facilmente
precisabile, ma certo avanti l'estate del 561, Narsete si era probabilmente indotto
a mandare una schiera per eseguire arresti di vescovi ribelli nella Venezia. Ma i
Franchi rifiutarono il passaggio dell'Adige, e cominciò la rivolta gotica, conclusasi
solo nel 563" 214: ora, almeno il rango della delegazione bizantina lascia pensare ad
un esplicito tentativo di conciliazione diplomatica prima di arrivare al confronto
militare, magari attraverso compensazioni in denaro, vista la presenza tra i delegati
del comes patrimonii. Se anche ci fosse stata una richiesta agli imperiali, da parte
di papa Pelagio 215, di catturare alcuni vescovi scismatici tricapitolini, noi non
213) "It is not known whether Amingus had acted atthe command ofSigibert I, king of Austrasia since
561" (W. Goffart, Byzantine policy cit., p. 76, e n. 11): si dovrebbe allora retrodatare a non prima del
562 una delle Epistolae Austrasicae (la n. 13, pp. 127-128), tradizionalmente datata tra il 568 e il 575;
Cfr. però PLRE III-A, s.v. Chamingus, p. 281 (che data la lettera al 575/581 e sostiene che il
personaggio in questione "non to be confused with Amingus, long since dead"); cfr. ibid., s.v. Gogo,
p. 541.
214) G.B. Bognetti, Santa Maria cit., p. 200; G. Amosti (Lo scisma tricapitolino cit., p. 61) pone
l'episodio nel 559; questo stesso autore sostiene poi (ibid., p. 62) che nel 560 Narsete sarebbe divenuto
prefetto del pretorio e per questo assegna alla stesso speciali compiti di vigilanza sui culti che
darebbero ragione di presunti suoi comportamenti. Narsete, tuttavia, non rivestì mai le funzioni di
prefetto del pretorio (ad ogni buon conto cfr. PLRE III-B, s.v. Narses I cit., pp. 912-928, con la più
scrupolosa disamina dell'intero complesso cursus honorum del celebre personaggio). In particolare,
nel periodo di cui si tratta, Narsete era praepositus sacri cubiculi; vir inlustris e, forse dal 559,
patricius (cfr. PLRE III-B, s.v. Narses I cit., pp. 923. Anzi, in quegli anni il titolo prefettizio fu
conferito come Praefectus ltaliae o per Jtaliam e non come Praefectus Praetorio (cfr. J.B. Bury,
History cit., II, p. 282: che ricorda appunto come Narsete avesse al suo fianco Antiochus, "at the head
of the civil servi ce, but it is significant that the title of Antiochus was not Praetorian Prefect, but simply
Praefect ofltaly"); cfr. PLRE III-A, s.v. Antiochus 2, p. 90 (questi, nella Pragmatica Sanctio è detto
infatti: Antioco v(iro) magnifìco praef(ecto) per Jtaliam). Una certa confusione sul Narsete Prefetto
può essersi forse ingenerata in quanto, tra il 554 e il 568, ricoprì la prefettura italiana un personaggio
dall'inverosimile nome: Fl. Marianus Michaelius Gabrihelius Petrus lohannis Narses Aurelianus
Limenius Stefanus (cfr. PLRE III-A, s.v. Aurelianus I p. 156), che si chiamava anche Narsete (cfr.
ibid., pp. 1474-1475 con l'elenco dei Pr. Pret. per l'Italia).
215) Cfr. ed. J.-P. Migne, PL, LXIX, spec. cc. 413-414 (cfr. G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella
controversia dei Tre Capitoli, "AAAd" 12, 1977, pp. 233 ss.; Id., La Fede Calcedonese e i Concili
di Grado (579) e di Marana (591), "AAAd" 17, 1980, spec. pp. 217 ss.). Sulle lettere di Pelagio cfr.
PLRE III-B, s.v. Narses I cit, p. 923: una venne composta probabilmente nel marzo/aprile del 559
("Narses is urged to take strong measures against the schismatic bishops of Liguria, Venetia and
Histria, who continued to adhere to the Tree Chapters and refused to communicate with Pelagius"),
la seconda, forse in 'unepoca più vicina ai fatti di cui si tratta (ma comunque "between 556 and 561 ");
nulla si può dedurre da tali misive riguardo i successivi comportamenti di Narsete. Su Iohannes e
Valerianus, citati da G. Amosti (Lo scisma !ricapitolino cit., p. 61, n. 9) come fratelli e prefetti del
pretorio, cfr. J. Sundwall,Abhandlungen cit., risp. pp. 132 (Iohannes, comes patrimonii attorno al 558:
"Freund, nicht Bruder des Patricius Valerianus") e p. 166 (patricius 558/560). Su queste vicende cfr.
anche R.A. Markus, Ravenna and Rame, 554-604, "Byzantion" 51, 1981, spec. pp. 568-570.
59
saremmo tuttavia in grado né di affermare che Narsete vi avesse aderito, né che vi
avesse aderito nei tempi e nei modi descritti da Menandro nel suo frammento
(ricordo per inciso che quel papa morì nel 560). E non saremmo neppure in grado
di concludere che proprio ciò avrebbe costituito il detonatore della rivolta degli
ultimi Goti, soprattutto se non l'~'>siamo dimostrare (come non possiamo, per il
silenzio, o la non correlabilità, delle nostre fonti) almeno la consequenzialità degli
eventi richiamati.
Paolo Diacono 216, dal canto suo, non riduce le nostre perplessità sull'effettiva
natura dell'episodio, quando parla di Amingus vero dum Windin217 Gothorum
comiti contra Narsetem rebellanti auxilium ferre conatus fuisset, utrique a Narsete
superati sunt. Lo storico longobardo sembra voler descrivere, purtroppo in forma
assai lacunosa, lo scoppio di una sorta di rivolta Gotica (o, meglio, Franco-Gotica),
repressa da Narsete, piuttosto che la fine dell'ultimo presidio franco che si
opponeva alla riconquistata Italia bizantina ( Windin captus Constantinopolim
exiliatur. Amingus vero, qui ei auxilium praebuerat, Narsetis gladio perimitur) 218•
Tuttavia il passo di Paolo è cronologicamente discutibile, basti pensare che la
fine di Leutari (554) è posposta - o giustapposta - rispetto a quella di Windin e
Aming (561-562) 219•
Di un residuo moto di ribellione, o di resistenza, contro N arsete (promosso dai
Franchi, cui si sarebbero unite forze Gote) si trova forse traccia in Agnello
Ravennate, che scrive appunto come le truppe bizantine pugnaverunt contra
Veronenses cives et capta est Verona civitas a militibus XY die mensis Iulii 220, ed
anche in Teofane, che cita, tra i centri della sommossa - per lui tuttavia esclusivamente gotica - proprio Verona, oltre a Brescia: tq>o'cx:Òtq>
µ11vì[si tratta, nella
cronologia del cronista, del novembre 562 221] èmviKlcx.~Wov ... Ncx.paoutou
nmpudou 011Àouvtcx.
ncx.pcx.Àcx.~e'iv
cx.ùtòvn6ktç ... t&v f6t0rov ouo, B11proicx.v
1ccx.ì
216) Paul. Diac. Hist. Lang. II 2, p. 78.
217) "Possibly the commander in Verona" (J.B. Bury, History cit., II, p. 282, n. 3); cfr. W. EnBlin,
s.v. Widin, RE VIII A.2 (1958), c. 2097 ("war 562 Fiihrer der um Verona und Brescia wohnenden
Ostgotenreste im Kampf gegen Narses"); di una insurrezione dei "Goti della valle Padana, sotto la
guida del conte Widin e con l'aiuto dei Franchi stanziati nella Venezia" parla O. Berto lini, Roma cit.,
p. 220; cfr. PLRE III-B, s. v. Widin, p. 1403. Dell'anno 56 l, "in cui il conte Widin e i suoi consanguinei
resistettero con azioni di guerriglia al governo romeo in Italia", parla A. Carile, Bellum cit., p. 158 =
Società cit., p. 138. Su Aming e Widin cfr. anche E. Stein, Bas-Empire cit., p. 61 l, n. I; R. Holtzmann,
Die ltalienpolitik der Merowinger cit., p. 15; C.G. Mor, Verona Medievale cit., pp. 19-20.
218) Paul. Diac. Hist. Lang. II 2, p. 78.
219) Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 610-61 l.
220) Agnell. Rav. /ib pont. 79,p. 331 =ed. Mommsen, p. 335. Secondo E. Stein, tuttavia, "il n'estpas
impossible que Vidin ait été commandant de Vérone après une première prise de cette ville, et que sa
révolte ait obligé Narsès à réduire Vérone encore une fois en 562" (Bas-Empire cit., p. 61 l, n. I).
221) Cfr. J.B. Bury, History cit., Il, p. 281, n. 3.
60
Bpiyicaç222.
Expulsi sunt Franci de Italia per Narsete patricium chiosa infine Agnello 223,
e infatti "la défaite d'Aming fit tomber la Vénétie franque au pouvoir des
Byzantins" 224 .
Così è riassunta la situazione da R. Heuberger: "denn bald darauf wahrscheinlich erst nach dem Tod Chlotachars (561), der seit 558 das ganze
Merowingerreich beherrscht batte - stand ein friinkisches Heer unter dem Dux
Aming im Bund mit dem gotischen Comes Widin an der Etsch, wenn auch
vielleicht wider Wissen und Willen Konig Guntchramns. AuchBrescia und Verona
waren damals noch nicht in der Hand der Kaiserlichen. Erst nachdem die Byzantiner, denen seit 555 ganz Italien siidlich des Pos gehorchte, Aming und Widin
besiegt und die genannten Stiidte genommen hatten, was vermutlich im Jahr 562
oder um 563 geschah, vermochte Narses die Grenze des Kaiserreichs bis an die
Ostalpen vorzuschieben" 225• Quindi soltanto nella seconda metà del 562, spezzata
ogni residua resistenza, venne meno con il loro ultimo efficiente comandante la
presenza dei Franchi nella Venetia, schiacciata definitivamente da Narsete 226•
222) Chron. A.M. 6055, p. 237 De Boor {= 367 B); Cedren. Hist. Comp. I, 679, 13-15; traduce
Anastas., Chron., p. 147, 9-10 De Boor: tropaea venerunt a Roma Narsis patricii signijìcantia
comprehendisse illum urbes munitas Gothorum duas, Veronam sci/icet et Brixiam, vicesima vero
quinta die Novembrii mensis. Teofane che si rifà ad un passo di lo. Mal. (XVIII, 140, p. 425 = ed. L.
Dindorf, p. 492). Nonostante nella linea della tradizione Malala-Teofane siano i Goti i nemici
definitivamente sconfitti, una eco della fine della specifica minaccia 'dei Franchi' si trova ancora nella
descrizione poetica della restaurata Santa Sofia (re-inaugurata poco dopo la data segnata da Teofane,
nel dicembre 562) e messa in versi da Paolo Silenziario (descr. S. Soph., v. 228, p. 233: dove si afferma
essere placata, letteralmente, la 'furia (celtica=) gallica'; cfr. il commento di P. Friedliinder, p. 267
e B. Rubin, Das Zeitalter cit., p. 172, e pp. 429-430. Riporto da ultimo, per completezza, la notizia
che si trova in quella fonte assai sospetta qual' è il c.d. Marce/lini Auctarium alterum [a. 552] secondo
la quale, sconfitti i Franchi di Buccelinus, i quali per annos aliquot avevano saccheggiato i 'Italia, nec
multo post socius eius Omnirugus dux cum reliquos Gothorum, quibus se iunxit, peremptus est
(Chronica minora II cit., p. 43, n. l). Che dietro a questo misterioso Omnirugus possa celarsi
Amingus? Certo si trattava di un comandante Franco (socius eius, di Buccelinus), e certo a lui si
unirono reliquos Gothorum (i Goti di Widin?), in corrispondenza alla notizia di Paolo Diacono, salvo
il tentativo di precisazione cronologica (assicurato peraltro solo da quel nec multo post).
223) Agnell. Rav. /ib pont. 90, p. 336 = ed. Mommsen, p. 335 (ove si legge, subito di seguito, in una
sorta di ricapitolazione delle gesta di Narsete: et vicit duos reges Gothorum et duces Francorum
iugulavit gladio). Vd. anche Anna/es Ravennatenses, a. 568, p. 368.
224) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 610; "Der Rest der friinkischen Besitzungen in Oberitalien fiel an
das byzantinische Reich" (L. Schmidt, Die letzten Ostgoten, cit., p. 7).
225) Riitien, cit., p. 261.
226) "Erst 563 konnten die von den Franken besetzten Gebiete wieder von Bysanz zuriickerobert
werden" (V. Bierbauer, Zur ostgotischen Geschichte cit., p. 29); cfr. PLRE III-B, s.v. Narses 1 cit.,
p. 924.
61
§ 8. Breve ed incerta riconquista imperiale della Venetia (dal 562 al 615
ca.)
Ricordo che nel dicembre 561 il re Sigeberto era succeduto a Clotario sul trono
austrasiano e si era ritrovato subito a dover rintuzzare contemporaneamente
un'incursione degli A vari ed un ati.accoportato da uno dei suoi fratelli, senza avere
alcuna seria possibilità di intervento in ltalia 227 •
"Le régions méridionales de la Rétie et du Norique, qui avaient servi de
boulevard au royaume de Théodoric, échappaientpresque complètement à l' autorité
de l'empereur; en conséquence, Narsès paraìt avoir fait construire un nombre
considérable de forteresses et de chateaux destinés à protéger la province de Venetia
et Histria et formant deux duchés, celui de Forum Julii (Cividale) dans le Frioul,
et ce lui de Trente" 228 •
Probabilmente i Franchi, pur perdendo le loro basi nella Venetia, avevano
tuttavia mantenuto il controllo di parte del Trentino: tra Franchi ed imperiali doveva
essere dispegata la 'colonia' di guerrieri Eruli guidata da Sindual il quale però, tra
566 e 567 si ribellò ai bizantini costringendo Narsete ad un'ennesima campagna
militare 229 •
Sindewala Erolus tyrannidem adsumpsit et a Narseo patricio interfectus est,
scriveva Mario A venticense 230 ; mentre il Liber Pontificalis chiosava: eodem
tempore Eruli intarsia fecerunt et levaverunt sibi regem Sindua/ et premebant
cunctam Italiam. Qui egressus Narses ad eum interfectus est et omnem gentem
227) "Als nach Chlothars I. Tode das Frankenreich erneut geteilt wurde, blieb die Lage dieselbe,
soweit es die Italienpolitik betraf. Der neue Herrscher im Teilreich von Reims, Sigebert I. (561-75),
war wie sein Vorgiinger im lnnern des Frankenreiches stark gebunden" (H. Biittner, Die Alpenpolitik
der Franken cit., p. 69). Cfr. E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 610-611.
228) E. Stein, Bas-Empire cit., p. 612. Secondo G. Lohlein, Die Alpen- und ltalienpolitik cit., pp. 5051, "arbeitete Narses an der militiirischen Sicherung des Landes. Besonders galt es, die Nordgrenze,
die im wesentlichen den Stand von vor 539 wieder erreicht batte, in Verteidigungzustand zu setzen.
Es wurde zu diesem Zweck, oft im AnschluB an bereits bestehende und wieder hergestellte Kastelle,
ein starkes Befestigungssystem geschaffen, das sich im Osten am klarsten verfolgen liiBt... Die
Verbindung zwischen der Mark von Friaul und der von Trient stellten Cenitense castrum (Ceneda)
und Feltria (Feltre) her" (corsivo mio).
229) "Possibly in 566, after the death of Justinian, the Heruli in north Italy revolted and proclaimed
Sindua! king but he was shortly afterwards defeared and executed by Narses" (PLRE III-B, s.v.
Sindua! cit., p. 1155; cfr. O. Bertolini, Roma cit., p. 220; cfr. G. Lohlein, Die Alpen- und Italienpolitik
cit., p. 52); E. Stein, Bas-Empire cit., p. 611, n. le p. 613; A. Lippold, s.v. Narses cit., c. 887.
230) Mar. Avent. Chr. a. 566.4, p. 238 (cfr. O. Holder-Egger, Untersuchungen iiber einige
annalistische Quellen zur Geschichte desfanflen und sechtsten Jahrhundert Il., "NA" 1, 1876, p.
342).
62
Erulorum sibi subiugavit2 31•
Il bizantino Evagrio, dal canto suo, nel tessere la gloria di Narsete, ricordava
specificamente l'ultimo episodio collegandolo alla precedente sconfitta di Buccelino:
1tÉ1tpa1ctm
oÈKaÌ e'tEpa'tqlNapc:rft'}Jyyou1toAÀ.ou
ciçm,BoucrEÀ.tvov
KaÌLtvoou<XÀ.òov
Kma1toÀEµ~crant, KaÌ 'tÒ.1toÀ.À.èx.
1tpocrlCTJ'lcraµFVCfl
fino all 'Oceano 232 •
Ciò avveniva proprio in coincidenza con la successione a Giustiniano morto
nel frattempo: l'episodio, in sé non pericolosissimo, mostrava tuttavia come
l'instabilità dell'area non fosse ormai più recuperabile con mezzi ordinari: non
sappiamo se a Sindual si fossero unite schiere di Goti dispersi, anche se è
un'eventualità tutt'altro che remota, e da tenere in debita considerazione 233 • "Es ist
nicht bekannt, ob die Kampfe zwischen Franken und Ostromern nach der
Niederwerfung Sindualds noch weiter dauerten. Sollte es jedoch der Fall gewesen
sein, so konnten sie nur in Ratien oder N orikum, die zu Austrasien gehorten und auf
welche die Griechen Anspruch erhoben, stattgefunden haben" 234 •
Già allora era chiaro che le posizioni bizantine, per raggiungere un livello
accettabile di sicurezza, avrebbero dovuto inevitabilmente essere stabilmente
fortificate sulle montagne ovvero essere arretrate su linee più esterne e più sicure
in direzione del mare: ma per la prima ipotesi non conosciamo se esistessero le
risorse per mantenere efficienti tale limes, le relative vie di accesso, collegamento
e controllo; e non è chiaro, infine, se le truppe disponibili sarebbero state sufficienti
a presidiarlo.
Ceneda comunque, dopo il 556/557 (o dopo il 562/563), tornò con ogni
probabilità sotto il controllo imperiale: si apriva allora anche per questa cittadina
una breve ed incerta stagione nell'ambito della ritrovata, ma effimera, unità della
Venetia.
231 )LXIII. Iohannes III, Duchesne, I, p. 305, n. 3, p. 306; MGH GPR, voi. I, p. 157; secondo R. Cessi,
il redattore della vita di Giovanni III nelLiber Pontificalis, "si mostra poco aggiornato sulla verità dei
fatti relativi alla spedizione di Buccelino e di Amingo, alla rivolta degli Eruli con Sindua!, la cui
inversione cronologica dà la sensazione di un mosaico composto da un più tardo scrittore assolutamente disorientato in fatto di cronologia" (Le prime conquiste longobarde in Italia, "NA V" 35, 1918,
p. ll9).
232) Evagrii Scholastici, Historiae Ecclestiasticae, IV 24, ed. J.-P. Migne, PG, voi. 86, 2, c. 2741;
Mario A venticense, tornando ancora sull'argomento, mette insieme Bucce lino e Sindua! in Chr. a.
568, p. 238). Che Sindua! si fosse proclamato re risulta dagli Excerpta Sangallensia 710 (a. 567) in
Chronica Minora I, p. 335 (et occisus est Sindua! rex) e da Paolo Diacono (Hist. Lang. II 3, ed. Zane Ila,
p. 232: Sindua! Brentorum regem). Su Narsete e gli Eruli vd. anche gli Excerpta codicis Vaticani
Graeci 96 (saec. XIV): il passo è citato per esteso in Agathiae Myrinaei, Historiarum libri quinque,
ree. S. Costanza cit., p. 75.
233) Cfr. R. Cessi, Le prime conquiste longobarde cit., p. 149, per la sottolineatura che, ancora alla
immediata vigila della calata dei Longobardi, nel momento della più acuta crisi della gestione italica
di Narsete, "il partito gotico" non fosse "ancor spento".
234) G. Léihlein, Die Alpen- und Italienpolitik cit., p. 53; cfr. R. Heuberger, Riitien, cit., pp. 261 ss.
63
Tra Concordia e Padova la più robusta linea difensiva correva lungo la vecchia
via Annia; Opitergium controllava poi il tratto della via Postumia fino a Concordia;
il territorio veneto era stabilmente presidiato dai Bizantini anche sulla linea
avanzata tra Feltria e Bellunum 235 •
Dopo qualche anno, tuttavia, a partire dal 568-569, gens Langobardorum
comi tante fame et mortali tate omnem invadit Italiam 236 : le tragiche condizioni della
regione, ulteriormente aggravate dall'invasione, la tenuta dei presidi imperiali
(oltre, probabilmente, agli accordi intercorsi tra Bizantini e Longobardi), non
consentirono tuttavia agli uomini di Alboino di impadronirsi dell'intera Venetia, e
neppure, forse, per parecchi anni dello stesso castrum di Ceneda 237 : la conquista
longobarda, infatti, almeno nella prima fase dell'invasione, non dovette avere i
connotati della continuità territoriale 238 • Sembra anzi "probabile che tutto il
235) Cfr. Luisa Alpago-Novello Ferrerio,Bizantini e longobardi nella Val Belluna, "ArcStBFC" 46,
1975, spec. pp. 55 e 64-67.
236) Beda, Chron. 527, p. 308; Mar. A vent. Chr. a. 569, p. 238: hoc anno Alboenus rexlangobardorum
cum omni exercitu relinquens atque incendens Pannoniam suam patriam cum mulieribus ve! omni
populo suo in/ara Jtaliam occupavi!, ibique a/ii morbo, aliifame, nonnulli gladio interempti sunt (vd.
Liber Pontifìcalis, LXV. Pelagius Il: langobardi obsederent civitatem Romanam et multa vastatio ab
eis in Jtaliafieret, Duchesne, I, p. 309 e n. 1, p. 309). È chiaro che all'invasione non poté seguire, per
molto tempo, un miglioramento delle condizioni economico-sociali dei territori conquistati. Tralascio, in questa sede, la questione del presunto tradimento di Narsete, che avrebbe favorito l'arrivo dei
Longobardi in Italia. Di esso si parla polemicamente in diverse fonti ed un filone della trattatistica
bizantina lo conserverà ancora per secoli, nonostante "the story ... is certainly a fiction" (PLRE III-B,
s.v. Narses 1 cit., p. 925): vd. Liber Pontifìcalis l}{]/J. Iohannes III, Duchesne, I, p. 305 (Narsis ...
scripsit genti langobardorum ut venire! et possiderent ltaliam; cfr. ibid., n. 7, p. 307); Auct. Haun.
Extr. 4, p. 337; Isid. Chron. 402, p. 476; Beda, Chron. 523, p. 308 e, ovviamente, in Origo gentis
Langobardorum, 5, p. 4 (langobardos in Italia, invitatos a Narsete), nella Historia Langobardorum
Codicis Gothani, 5, p. 9 (Albuin movit et adduxit langobardos in Italia, invitatus ad Narsete
proconsule) e in Paul Diac. Hist. Lang. II, 5, p. 85, e poi ancora nel De administrando imperio, 27 di
Costantino VII Porfirogenito, scritto tra il 948 e il 952 (ed. Gy. Moravscic, p. 114); cfr. R. Cessi, le
prime conquiste longobarde cit.,passim e pp. 146 ss.; dedica invece ancora qualche attenzione alla
"tradizione di un invito ( e di un accordo) di Narsete ai Langobardi" C.G. Mor, Bizantini e langobardi
cit., pp. 247-248 e 251.
237) Vi è chi ha sostenuto autorevolmente l'occupazione longobarda di Cenedafin dai primi tempi
dell'invasione, pur nel silenzio di Paolo Diacono; cfr. G. Arnosti, lo scisma !ricapitolino cit., pp. 17
e 19 (con rinvii): credo tuttavia che possa essere avanzata, altrettanto fondatamente, una diversa
opinione. Un'articolata proposta di localizzazione della prima fase dell'invasione dei Longobardi si
legge in C.G. Mor, Bizantini e Langobardi cit., pp. 251 ss., anche se non vi è spiegata "la presenza
dell'intercapedine dei presidi alpini bizantini" (ibid., p. 260), né i loro collegamenti con la fascia
costiera timasta in mano agli imperiali, e a p. 264 dà già per costituito, almeno nel 579, il ducato
longobardo di Ceneda. Cfr. ovviamente, in gen., R. Cessi, Le prime conquiste longobarde cit., pp. 135
ss.
238) Cfr. Luisa Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e longobardi nella Val Belluna, cit., p. 55.
64
territorio compreso tra Piave e Livenza fino all'interno della zona prealpina sia
rimasto, al momento del primo impatto, sotto il controllo delle forze bizantine e che
il primo insediamento longobardo sia avvenuto nel rispetto di definite aree
d' influenza" 239 •
Abbandonando Belluno e Feltre, "i Bizantini non devono aver lasciato tutto
il territorio, anzi è verosimile che si siano arroccati nei loro fortilizi nella regione
della sinistra Piave, lungo le pendici delle Prealpi che culminano nel Col Visentin:
zona facilmente collegata con la sottostante pianura opitergina attraverso comode
mulattiere (passo di S. Boldo, "canali" di Limana e Fadalto)" 240 •
Solo attorno al 615-616, in corrispondenza con la caduta di Concordia in mano
Longobarda, gli imperiali sarebbero stati costretti ad arretrare la loro linea difensiva
abbandonando in pratica "tutto il saliente a Nord di Opitergium ... perché non più
difendibile" 241 : fu allora, probabilmente, che i Longobardi si impadronirono di
Ceneda, e ne fecero in seguito la capitale di un loro ducato, con prospettive
politiche, militari, economiche e culturali che si devono ritenere importanti e
interessanti pur nella desolazione dei resti documentali 242 •
Ai Bizantini rimasero l'area lagunare e, ancora per non molto tempo, qualche
località ben fortificata, come Opitergium, oltre al controllo di alcune vie, attraverso
forti e campi trincerati.
La presenza del cuneo bizantino di Oderzo continuò ad ostacolare a lungo "i
collegamenti in pianura tra il ducato del Friuli e il resto del regno di Pavia" 243 , ma
è probabile che dal Friuli il traffico si svolgesse attraverso una via che doveva
scavalcare il Cansiglio, attraversare la Val Belluna e proseguire sulla sponda destra
del Piave fino a Feltre, da dove passava per Trento (attraverso la Valsugana) ovvero
prendeva la direzione della pianura 244 • Le fortificazioni bizantine nella Val Belluna
ressero probabilmente fino alla presa di Oderzo (639) 245 , ma nulla si sa della sorte
239) G. Cuscito, Testimonianze archeologiche monumentali cit., p. 83.
240) Luisa Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella Val Be/luna, cit., p. 66.
241) G. Cuscito, Testimonianze archeologiche monumentali cit., p. 83.
242) Sul ducato longobardo di Ceneda cfr. S. Gasparri, I Duchi Longobardi, Roma 1978, pp. 26 ss.
(e poi, sul piano prosopografico dei duchi conosciuti, pp. 33; 63-64, Ursus; 46, Aginualdus; 47,
Ahulmus; 51, Anselmus; 71, Petrus; l'indice dei nomi, in calce al volume, risulta non rinviare
correttamente alle pagine); G. Arnosti, Appunti sul Ducato Longobardo di Ceneda, cit., pp. 17 ss. (sul
duca Orso cfr. C.G. Mor, La Cultura cit., pp. 226-227 e n. 39). Ricordo che l'indice della PLRE IIIB (che arriva ali 'anno 641 ), allepp. 1534-1535, s.v.LombardDuces, reca solo nomi di duchi del Friuli,
a partire da Gisulfas I, aa. 569-581, e di Tarvisium (Ulfari, aa. 591-592).
243) Luisa Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella Val Be/luna, cit., p. 66.
244) Cfr. Luisa Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella Val Be/luna, cit., pp. 66-67.
245) Cfr. ancora Luisa Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella Val Be/luna, cit., p. 67.
65
dei presidi imperiali sulla montagna bellunese che superavano e controllavano la
piazzaforte cenedese, che hanno lasciato soltanto qualche resto archeologico e
forse qualche traccia linguistica come una ricerca nel settore sta tentando di
mostrare 246 •
Il futuro tuttavia avrebbe dimostrato che, se l'eliminazione dei Goti si era
risolta in un primo tempo a profitto di Bisanzio causando anche l'allontanamento
dei Franchi dall'Italia, l'arrivo dei Longobardi nella penisola riaprì, per il futuro,
agli stessi Franchi "le possibilità di intervento, pur nelle difficoltà provocate dalle
esuberanti scorrerie longobarde fin nella valle del Rodano ... non si può sottovalutare il persistente avvolgimento in cui i Franchi di Austrasia mantennero l'Italia del
nord: conservarono i valichi alpini dell'alto Adige, costrinsero più volte i Longobardi
a riconoscere, pagando tributo, la formale supremazia della dinastia merovingia di
Metz" 247 •
§ 9. Ipotesi e suggestioni sull'origine del vescovato cenedese
- 9.1 Considerazioni introduttive
Dobbiamo ora prendere in esame una ipotesi assai suggestiva, e sino ad ora
rispettabilmente minoritaria, quella cioè dell'istituzione in Ceneta di una sede
episcopale:
246) Ringrazio il dott. G. Tornasi per alcune anticipazioni che ha voluto fornirmi su una ricerca in
corso che individuerebbe un possibile percorso linguistico di ascendenza greco-bizantina, dal
Castello di Zumelle a Lentiai, ad Arfanta, giù in direzione di Conegliano-Oderzo.
247) G. Tabacco, L'inserimento dei Longobardi cit., pp. 231-232. È interessante indagare le
successive fonti bizantine per trovare il cambio di prospettiva geopolitica che si verificherà
progressivamente alla corte costantinopolitana, e in particolare il mutamento di valutazione sulle
questioni dell'area veneta. Alla metà del X secolo, ad esempio, la Venetia è sentita come 'territorio
Franco', anche se il ducato veneziano è ovviamente ben conosciuto e circostanziato persino in alcuni
dettagli della sua localizzazione lagunare (vd. De administrando imperio, 27 rr. 71-95, pp. 116-118).
Sembra non esservi tuttavia la percezione che i Veneziani fossero stati l'ultimo baluardo (nord)
occidentale dell'Impero, almeno fino ali' invasione dei Franchi della seconda metà del secolo VIII (vd.
De administrando imperio, 28 rr. 36-37, p. 120), e non solo nominale: sorprendentemente l'imperatore Costantino VII Porfirogenito sembra ignorare che l'Italia stessa aveva fatto parte dell'Impero
Romano, di cui i Bizantini si consideravano gli eredi politici, e che fino al VII secolo una parte
dell'Italia settentrionale, tra cui la stessa Venezia, era stata sotto la diretta dominazione dell'Impero
(cfr. L.A. Berto, La "Venetia " tra Franchi e Bizantini. Considerazioni sulle fonti, "SV", n. s.
XXXVIII, 1999, p. 201). Ma Costantino VII parla dei Veneziani come dei Franchi anzi li definisce
'Franchi fuggiti da Aquileia e rifugiatisi nelle isole delle lagune' (vd. De administrando imperio, 28
rr. 4-11, p. 118; cfr. L.A. Berto, la "Venetia" tra Franchi e Bizantini cit., pp. 197 e 200). In realtà
qui, ormai, sono gli Occidentali in genere ad essere diventati, per i Bizantini (come avverrà
parallelamente per gli Arabi), tutti dei 'Franchi'.
66
a) nel periodo della occupazione dei Franchi, approssimativamente tra 545 e
555(-561);
b) ovvero nel successivo periodo di rioccupazione di Ceneda da parte degli
imperiali.
Non ho alcuna pretesa di dire una parola definitiva sull'argomento specifico
(e in particolare sulle suggerite 'datazioni basse'), né tantomeno sulla questione
dell'origine tout-court del vescovato cenedese, e che questa prudenza mi pare la
miglior base di partenza, o almeno quella che stabilisce le condizioni più adatte ad
una serena valutazione degli elementi disponibili.
Sono consapevole di inoltrarmi in un contesto generale già caparbiamente (e
forse vanamente) esplorato, e so bene che, per dirla in sintesi, "de origine
episcopatus Cenetensis viri docti inter se discordant", come scriveva nel suo latino
rotondo Paul Fridolin Kehr 248 •
Allo stato delle attuali conoscenze, per uno storico, non potrà mai esservi una
valutazione preliminare diversa dalla mera constatazione che unaprecisa datazione
del!'originedella diocesidi Cenedaresta, eprobabilmenteresterà,non dimostrabile
documentalmente249 •
Ho tuttavia la sensazione che, per ragioni che mi restano oscure, buona parte
dei 'viri docti' che hanno studiato tale questione hanno fatto, più o meno consapevolmente, la scelta di disseminare di aut-aut 'ideologici' i loro studi, così da
imbrigliare le ricerche successive in una rete di postulati che per loro natura
dovrebbero venir accettati o respinti, ma non discussi.
Questo riferimento alle pregiudiziali ideologiche si riferisce essenzialmente
alle prese di posizione 'partigiane', a favore o contro Ceneda e, di conseguenza (o
viceversa), a favore o contro l'istriana Cissa (su questa sede episcopale 'concorrente' avremo presto modo di parlare), ed anche all'approccio (in genere sfumato, ma
deciso) teso ad assegnare alla diocesi di Ceneda degli inizi che non precedano la
seconda metà del VII secolo, magariper non 'rischiare' di riconoscere che iprimi
titolari avrebberopotuto essere dei presuli scismatici?
La rarefazione delle fonti, lamentata in generale per Ceneda, è confermata
anche in questo caso, tanto che, per lavorare sulla dibattuta nascita dell'episcopato
cenedese, possediamo soltanto alcuni documenti di storia ecclesiastica, per di più
filologicamente discutibili:infatti, a seconda della lettura e dell'interpretazione che
si può attribuire ad un loro aggettivo, essi possono essere utilizzati a favore della
recenziorietà della istituzione della diocesi di Ceneda, ovvero per negarla tout-
248) Regesta Pontificum Romano rum - Italia Pontificia -voi. I (Venetia et Histria)- pars I, Provincia
Aquileiensis, Berolini 1923, p. 82.
249) Cfr. anche G. Tornasi, La Diocesi di Ceneda cit., I, p. 17.
67
court prima della seconda metà del VII secolo.
Un testimone d'eccezione come Venanzio Fortunato, nel suo celebre excursus
sul Veneto orientale, non fa purtroppo cenno alcuno all'esistenza di un presule
cenedese attorno al 565, ma è chiaro che non si può dedurre nulla da un argumentum
e silentio come questo 250 , che trova diverse spiegazioni, tutte plausibili, come la
vacanza della sede dovuta all'allontanamento del titolare dopo l'evacuazione
franca, o risponde ad altre ragioni, connesse con le simpatie, le antipatie, le
prudenze o persino con più banali esigenze metriche del nostro poeta; in ogni caso
il suo spunto è talmente sintetico da non lasciare spazio ad alcuna interpretazione
specifica, né in senso positivo, che negativo (vd. qui, infra, § 10).
-9.2 Organizzazione ecclesiastica dei Merovingi
Il Castello di San Martino
L'organizzazione religiosa ed ecclesiastica dei territori Merovingi, posta
sotto la protezione (e fondata sul culto) di San Martino 251 , era andata di pari passo
con la loro organizzazione politica: l'episcopato costituiva anzi, di fatto, una delle
più importanti colonne dei regni, certo non senza contrasti con i sovrani252 •
250) S. Tramontin,a proposito dei versi venanziani,ne ha ricavato inveceche "Cenedanon era ancora
diocesi allora" (Origini del Cristianesimo nel Veneto, in AA.VV., Storia della Cultura Veneta cit.,
p. 120, n. 114).
251) Subdita sanctorum meritis fastigia regum: il potere dei sovrani era da considerarsisubordinato
al potere dei santi, almeno secondo Paolino di Périgueux (De vita Sancti Martini IV, 348, p. 95), e in
particolare a quello di San Martino: le "images of Saint Martin were so intimatelybound up with the
institutionsofMerovingian society that skepticismabout the roles ofbishops and relic cults or the allinclusive importance of Christianityhad to precede any skepticism about the specific roles of Saint
Martin" (R. Van Dam, Images of Saint Martin in Late Roman and Early Merovingian Gau/, "Viator"
19, 1988,pp. 25-26). Su "Saint Martin,patron des Francs" cfr. anche E. Ewig,Le culte de Saint Martin
à l'époquefranque, "RHEglFr" 47, 1961,pp. 1-18, ora in Id., Spiitantikes undfriinkisches Gallien,
Miinchen 1979,voi. Il, pp. 360-370; Id., Die Martinskult im Friihmittelalter, "ArchMK.ge"14, 1962,
pp. 11-30, ora in ibid., voi. II, pp. 376-384.
252) Cfr. M. Pavan Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia cit., pp. 16-17;sono gli stessi
Carmina di Venanzio Fortunato che "font revivre l'image de l'éveque se consacrant à ses trois
fonctions:d 'istruction du peuple, d' assistancedes indigentset d' entretiendu patrimonie de l'Eglise":
si forma attorno a questo corpus di versi il senso di solidarietà (lo spirito di corpo) dei vescovi
merovingi (cfr. M. Reydellet, Tradition et Nouveté dans /es Carmina de Fortunat, in "Venanzio
Fortunato. Atti del Convegno" cit., pp. 89 ss.); per eventuali approfondimentisu tale questione, che
qui pare solo il caso di accennare, cfr. D. Claude, Die Bestellung der Bischofe im merowingischen
Reiche, "ZRG-KA"49, 1963,pp. 1-75; F. Prinz, Die bischojliche Stadthe"schaft im Frankreich vom
5. bis zum 7. Jahrhundert, "HZ" 217, 1973, pp. 1-35; G. Schrebelreiter, Die Friihfriinkische
Episkopat: Bild und Wirklichkeit, "FMS" 17, 1983, pp. 131-147. Sul particolare legame tra i re di
Austrasia ed il culto di San Martino (e sulla tutela esercitata da detti sovrani sui due santuari di Tours
e di Poitiers) cfr. E. Ewig, Le culte de Saint Martin cit., p. 361 e p. 368 ("le culte martinien était de
tradition chez !es Mérovingiensd' Austrasie"). Cfr. Id., Die Martinsku/t cit., pp. 378 ss.
68
Lo stesso Venanzio Fortunato, in diversi suoi componimenti poetlc1,
"acknowledged the right ofkings to intervene in the selection ofbishops, and in his
panegyrics outlining a model of Christian Frankish kings he preferred to stress their
own spititual functions by comparing one of them to Melchizedek, who had been
both king and priest. Since F ontunatus had grown up in an Italy recently reconquered
for the Byzantine Empire, and since he was writing, at least in part, for an Italian
audience, perhaps he was influenced by Byzantine ideas about the priestly functions
of Christian emperors" 253 •
Gli Austrasiani in particolare avevano disinvoltamente lavorato alla sistemazione ecclesiastica delle diocesi dei territori che via via finivano sotto il loro
controllo, come si evince dalle notizie sugli episcopati norici, dipendenti
ecclesiasticamente dal Patriarcato di Aquileia, come Aguntum (Stribach, presso
l'odierna Lienz), Virunum, la cosiddetta ecclesia Breonensis (hod. Maria Saal auf
dem Zollfeld), e Teurnia (Tibumia bei Spital an der Drau) 254 •
Tali diocesi "hatten in der Zeit von 553-65 zum Frankenreich gehort" 255 e, in
253) R. Van Dam, Jmages o/Saint Martin cit., p. 11. Si veda anche il bel lavoro di R.W. Mathisen,
Syagrius of Autun, Virgilius of Arles, and Gregory of Rome: Factionalism, Forgery, and Locai
Authority at the End of the Sixth Century, in "L 'Église et la Mission au VI<siècle-Actes du Colloque
d' Arles de 1998", Paris 2000, pp. 260-290).
254) Vd. ad es. l'Epistola n. 16 (dal Registrum gregoriano, MGH EE, I, pp. 17-21, il testo citato è a
p. 20): in tribus ecclesiis nostri conci/ii [cioè dipendenti da Aquileia] id est Beconensi [=Breonensi],
Tiburniensi et Augustana Galliarum episcopi constituerunt sacerdotes; cfr., in gen., R. Heuberger,
Riitien, cit., pp. 257-259; G. Tabacco, L'inserimento dei Longobardi cit., p. 232. Si tratta della
supplica (suggestio) inviata all'imperatore Maurizio dal Patriarca di Aquileia, Severo, profugo a
Grado, unitamente ai vescovi (scismatici) della sua provincia ecclesiastica (la si legge anche in R.
Cessi, (a cura di), Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, Padova 1942, voi. I (sec.
V-IX), documento nr. 8, pp. 14-19; cfr. G. Cuscito,Aquileia e Bisanzio cit., spec. pp. 244 ss.; Id.,La
Fede Calcedonese e i Concili di Grado (579) e di Marana (591), "AAAd" 17, 1980, spec. pp. 222 ss.;
Id., La politica religiosa della corte longobarda di fronte allo scisma dei Tre Capitoli. L'età
Teo/indiana, in "Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. II, pp. 374
ss. ). Il libellus supplex, in buona sostanza, affermava che se il governo imperiale non avesse impedito
al papa Gregorio di proseguire nelle sue azioni vessatorie, i vescovi supplicanti ritenevano che i loro
successori non sarebbero più stati ordinati ad/da Aquileia, ma piuttosto dai colleghi della Gallia, come
era avvenuto in alcuni casi (che sono i tre citati) e che l'Impero avrebbe - in tal modo - perduto il
controllo sulla provincia metropoliti ca di Aquileia. L'imperatore invierà sollecitamente una iussio al
papa nella quale, invitandolo a tener conto della praesens rerum ltalicarum confasio, e gli ordinerà
di astenersi da ogni molestia contro i vescovi scismatici (cfr. G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio cit., p.
253; cfr. anche in R. Cessi (cur.), Documenti cit., voi. I, doc. nr. 9, pp. 20-21). A noi qui interessa
soltanto un passo: sed quia Galliarum archiepiscopi vicini sunt, ad ipsorum sine dubio ordinationem
accurrent, et dissolvetur metropolitana Aquileiensis ecclesia ...
255) Cfr. R. Heuberger, Riitien, cit., pp. 258; quest'autore, così commenta (ibid.) la posizione dei tre
vescovati, nel periodo di tempo indicato: "die Bischofe, die im Dreikapitelstreit auf der Seite der
Schismatiker standen, erkliiren: wenn ihre Gesinnungsgenossen und Amtsbriider in Reichsvenetien
69
particolare quella di Aguntum fu "wirklich einmal, zur Zeit, als die Franken
Venetien beherrschten, in deren Hand" 256 : anzi l'imperatore Giustiniano non
avrebbe "durch einen ErlaB die in Venetien und dessen Nachbarschaft herrschende
Erregung ... beschwichtigt, so waren frankische Priester fast iiberall im Patriarchat
Aquileja eingedrungen (das zujener Zeit teils im Besitz der Ostromer, teils in dem
der Franken war)" 257 •
a) Tenendo conto di tali fatti, l'ipotesi di fissare l'origine dell'episcopato
cenedese in epoca Franca, appena a cavallo della metà del VI secolo, ha piena
dignità e appare anzi scevra dell'impianto ideologico che invece presiede alla scelta
di posporla molto più avanti, come accade abitualmente: la sua istituzione sarebbe
rientrata infatti perfettamente in una prassi amministrativo-organizzativa che i
Franchi mostravano di adottare in modo costante 258 •
Non va trascurato il tenue indizio archeologico costituito da un agionimo di
grande interesse, dall'intitolazione cioè a San Martino del castello di Ceneda: si
può ammettere pacificamente che tale dedica sia ascrivibile proprio al periodo
durante il quale i Franchi avevano governato la città 259 , senza voler escludere,
sarntihremPatriarchenvondenkaiserlichenBearntenzurAenderungihrerdogmatischenUeberzeugung
gezwungenwiirden,so wiirdensich ihre,d. h. derunterzeichnetenBischofeNachfolgermit Riicksicht
auf die Volksstimmung in ihren Sprengeln nicht von ihrem Metropoliten, sondem von den
(schismatischen)friinkischenErzbischofenweihenlassen,die in der Nahe (des AquilejerPatriarchats)
ihren Amtssitz hiitten"; cfr. G. Lohlein, Die Alpen- und Ita/ienpolitik cit., pp. 6-7; H. Biittner, Die
Alpenpo/itik der Franken cit., p. 66; G. Rosada, Il "viaggio" di Venanzio Fortunato cit., pp. 32-34
(e G.B. Bognetti, Teodorico di Verona cit., pp. 349 e 352-353).
256) Cfr. R. Heuberger, Riitien, cit., p. 258.
257) Cfr. R. Heuberger, Riitien, cit., p. 259; proprio ad Aguntum (ad Francorum regnum hoc est
Agontiensem civitatem) si era rifugiato, secondo la testimonianzadi Paolo Diacono (Hist. Lang. II 4,
p. 82) il vescovo di Altino, Vitalis; cfr. M. Pavan Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia
cit., p. 16; G. Rosada Il "viaggio" di Venanzio Fortunato cit., p. 44 e H. Uhi, Das Noricum Ripense
und die einseitigen Beziehungen zu Norditalien. Der Fai/ der Romischen Armee beim /imes
danubicus, in La Venetia nell'area Padano-Danubiana, Atti del Convegnocit., p. 319. Il municipium
Claudium Aguntum si trovava nella parte meridionale del Noricum, nei pressi delle sorgenti della
Drava, nelle vicinanze dell'attuale città di Lienz, nel Tirolo austriaco.
258) Apparecomunqueinsostenibile,in ogni caso, una retrodatazioneaddiritturaal IV sec. d.C., come
faceva F. Ughelli, che individuavain S. Evenzio il primo vescovo (Italia Sacra cit., V, c. 172;cfr. V.
Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 119-124;G. Cannella,Ricerche su Ceneda nell'Alto Medio
Evo cit., pp. 68-69).
259) Cfr. ad es. N. Faldon,Le origini del cristianesimo nel te"itorio cit., p. 44; stando a A.N. Rigoni,
un certo legame di Ceneda col mondo dei Franchi doveva essersi sviluppato, al punto da far sorgere
spontaneo il collegamento tra essi e l'intitolazione del castello cenedese (Documentazione archeologica cit., p. 113). Il castello,opera difensivaprobabilmentedi epocatardoromana,vennerisistemato
dai Goti agli inizi nel VI secolo, e poi nuovamentedai Longobardinel VII secolo. Cfr. R. Bechevolo,
Il Castello di San Martino, Vittorio Veneto 1982, spec. pp. 42-43 (epoca romana); 52-56 (epoca
gotica); 61 (Franchi); cfr. anche V. Ruzza, Guida di Vittorio Veneto e della Zona Pedemontana tra
Piave e Livenza, Vittorio Veneto 20003, pp. 41 ss.
70
ovviamente, che ciò sarebbe potuto accadere anche in epoca precedente (sotto i
Goti) 260 , ovvero in epoca successiva (sotto i Longobardi)261 •
Sostenere però, come è stato fatto, "che l'intitolazione a San Martino" fosse
d'epoca Longobarda e, anzi, fosse "esaugurale del culto ariano" 262 , significherebbe
spostare la medesima intitolazione al momento del passaggio dei Longobardi
dall'arianesimo al cattolicesimo, ma anche attribuire agli stessi Longobardi capacità di organizzazione ecclesiastico-cerimoniale francamente eccessive rispetto a
quella che essi ebbero o mostrarono (se pensiamo ad una cinquantina d'anni dalla
loro invasione).
In ogni caso anche solo trascurare la semplice ipotesi Franca 263 significa
cancellare la presenza Austrasiana, e questo immaginare i Longobardi intenti a
'cattolicizzare' un sito ariano dei Goti, o magari da loro stessi precedentemente
'arianizzato', sposterebbe davvero troppo in là l'evento, o comunque lo inserirebbe
in un contesto eccessivamente artificioso 264 •
Il dominio degli Austrasiani infatti, sia pure esteso per non più di una ventina
d'anni (per l'epoca si trattava pur sempre di una generazione), non passò inosservato, e lasciò il segno. E sappiamo quanto, in generale, possano mostrarsi resistenti
toponimi e agionimi.
In ogni caso, se si assegna, con una buona volontà degna di miglior causa, una
'cattolicità impegnata' ai primi Longobardi, a maggior ragione andrebbe valorizzata la ben più fondata 'cattolicità' dei loro avversari Franchi, pur facendovi la tara
del rivestimento propagandistico (come ho accennato a proposito delle valutazioni
di Agazia al§ 6).
260) Cfr. ad es. G. Arnosti, L'evoluzione delle logiche insediative cit., p. 49.
261) D'altra parte la prima cattedrale di Bellunum, intitolata a San Martino, sarebbe stata edificata a
cavallo della metà del VI secolo, sotto gli auspici di un vescovo di nome Felice, in un'area
presumibilmente sottoposta al controllo dei Franchi (cfr., in gen. sul vescovo di Belluno, Luisa
Alpago-Novello Ferrerio, Bizantini e Longobardi nella Val Be/luna, cit., p. 65). Sul culto di san
Martino a Ceneda cfr. G. Mies, Culto dei santi epietà popolare, in N. Faldon (cur. ), Diocesi di Vittorio
Veneto cit., pp. 327-329.
262) G. Cannella, Ricerche su Ceneda nell'Alto Medio Evo cit., p. 11; San Martino era il tipico santo
anti-ariano.
263) Anche S. Tramontin, che contesta l'esistenza di un episcopato cenedese prima della fine del VII
secolo, non esita a ribadire tuttavia le "ragioni politiche" che stavano alla base dell'erezione di chiese
o dello "stabilimento di patronati da parte degli occupanti longobardi (s. Michele o s. Giorgio) o
franchi (s. Martino)" (Origini del Cristianesimo nel Veneto cit., p. 121).
264) A proposito di arianesimo a Ceneda, ricordo per inciso che, senza offrire il benché minimo
appiglio documentale, V. Botteon riferiva che, secondo aluni autori, "nell'anno 414 era entrata in
Ceneda anche l'eresia di Pelagio ... e che il diacono cenedese Anniano- Valeriano difendeva la eresia,
ed aveva scritto a favore di essa dei libri ... così si prova [sic] che a Ceneda fino dal quarto secolo
regnava l'arianesimo, e fino al quinto l'eresia di Pelagio" (Un documento prezioso cit., p. 81).
71
Se proprio si fosse trattato di 'esaugurare' un luogo ariano nel castello di
Ceneda, tale cerimonia avrebbero potuto averla già compiuta proprio i Franchi
stessi (con il loro vescovo?) su un qualche sito religioso dei Goti: teniamo conto che
proprio questa lotta tra nazionalismi barbarici, che usavano l'apparato ideologico
delle rispettive diverse fedi cristiane, serviva purtroppo, in gran parte, a giustificare
i massacri di quest'epoca torbida e infelice 265 •
Quindi il toponimo 'Wadia', riferito ad una torre facente parte dell'insieme
delle fortificazioni del castello cenedese, è senz'altro argomento a favore dell'ipotesi di uno stanziamento longobardo, di cui tuttavia nessuno dubitava 266 : ma non è
possibile collegare cronologicamente o documentalmente tale toponimo
all'agionimo vivo ancor oggi. Che i Franchi cattolicizzassero un luogo di culto
ariano, dedicandolo a San Martino mi pare evento logico, ragionevole e congruente; che i Longobardi intitolassero, o reintitolassero, un luogo di culto dedicandolo
al santo dei loro nemici sembra, in coscienza, assai più problematico, a meno che
la datazione di tale evento non venga posposta assai più in là (e allora verrebbe fatto
di chiedersi se i nuovi arrivati avessero mantetenuto la precedente intitolazione, e
quale essa fosse )267 •
Ritengo che i Franchi, nel breve periodo in cui controllarono Ceneda, e, non
dobbiamo dimenticarlo, ne fecero il centro del loro schieramento difensivo,
avrebbero pututo intraprendere dei lavori nel castello erigendovi forse anche - in
quell'occasione- un piccolo edificio di culto dedicato al loro Santo in uno dei punti
più alti del castrum 268•
265) Cfr., in gen., E.L. Woodword, Christianity and Nationalism in the Later Roman Empire, London
1916.
266) Cfr. ancora G. Cannella, Ricerche su Ceneda nel! 'Alto Medio Evo cit., p. 11; sul termine 'wadia'
cfr. N. Francovich Onesti, Vestigia Longobarde in Italia (568-774). Lessico e Antroponimia, Roma
1999, pp. 126-127 e p. 136 (che data l'affermarsi del termine al VII secolo); ma potrebbe anche
trattarsi di un precedente termine goto, conservatosi in seguito per l'assoluta assonanza con il
longobardo.
267) E in questo caso, a che Santo avrebbe dovuto essere stato intitolato, in precedenza? Magari a San
Michele Arcangelo, "il tipico rappresentante della superstitio longobarda, il difensore dai pericoli
naturali" (Maria Teresa Sillano, Appunti e ipotesi sul culto di San Giorgio in età Longobarda, in "Atti
del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. II, p. 635): ma non sembrai! caso
di avviarci in un intrico di supposizioni che non porterebbe a nessuna ragionevole soluzione.
268) Bisogna dire comunque - per correttezza - che la prima effettiva attestazione documentale di
questa intitolazione a San Martino è molto tarda, rispetto ai fatti qui discussi, risalendo al 1175 (cfr.
G. Tomasi,LaDiocesi di Ceneda cit., I, p. 160; sull 'incertezzadegli inizi dell'intitolazione martiniana
cfr. ancora R. Bechevolo, Il Castello di San Martino cit., pp. 69-70). Era costume abituale di
quest'epoca dedicare a un Santo particolare le cappelle costruite all'interno di torri e castelli: tale
patrono avrebbe dovuto garantire la sicurezza e la protezione di tali edifici (nel VII secolo i
Longobardi si rivolsero a questo scopo soprattutto a San Giorgio; cfr. Maria Teresa Sillano, Appunti
e ipotesi sul culto di San Giorgio cit., p. 637). A proposito della dedica di San Martino ad un edificio
di carattere difensivo, ricordo che il Santo proteggeva specificamente dagli assedi (cfr. R. Van Dam,
Images of Saint Martin cit., p. 7).
72
San Martino fu il 'Santo per eccellenza' dei Franchi, che lo venerarono con la
bellicosa superficialità che si addice ad un popolo di guerrieri, ed anche, con il
medesimo spirito, 'esportarono' nelle terre che conquistavano 269
.
Ricordo infine che i castra, la categoria descrittiva in cui è generalmente
ricompresa Ceneda, "spesso erano sede episcopale e ciò, oltre ad aumentarne la
rinomanza, equiparava i castra alle città sotto il profilo dell'amministrazione
ecclesiastica" 270.
Sarebbe ovviamente azzardato sostenere che sia stato per questo motivo che
Agazia avesse scelto di definire Ceneda 1t6Àtç;peraltro siamo in un'epoca in cui è
frequente la "stilizzazione come urbes delle sedi episcopali di nuova fondazione"271,anche se, spesso, "le sedi episcopali nascevano in sedicenti urbes, che in
verità erano poco più che fortezze fomite di edifici ecclesiastici" 272 •
In questo senso "die Merowinger haben fur die Stadte Frankreichs wenig
getan" 273
.
269) Egli era totis venerabile terris, come aveva scritto già Sidonio Apollinare (Epist. IV, xviii, 5, v.
1, p. 132); cfr. R. Van Dam,lmages o/Saint Martin cit., p. 6 ("venerated in ali lands"). Come ha notato,
piuttosto ruvidamente, J.M. Wallace-Hadrill: "i Franchi non avavano alcuna esitazione a recare le loro
offerte di ringraziamento ai santuari dei santi taumaturgici della Gallia, come S. Martino, nel cui nome
vincevano le loro battaglie e ammassavano i loro tesori; e nessun senso di biasimo morale o di
incongruenza li rimordeva quando lasciavano i santuari per andare a tagliare la gola del parentado
inviso" (L'Occidente Barbarico cit., p. 112). Peraltro, già prima dell'invasione Franca, testimonianze
del culto di San Martino, in area veneto-ravennate, esistono e sono state debitamente registrate, "au
debut du VI•siècle"; cfr. E. Ewig, Le culte de Saint Martin cit., p. 359, n. 41 per Padova (e Id., Die
Martinskult cit., p. 375). Del!' erezione, da parte del re Goto Teodorico di ''una cappella dedicata a S.
Martino" che forse consentirebbe di localizzare ''un santuarietto gotico (poi, naturalmente, riconciliato al!' ortodossia) in S. Martino Buonalbergo", ma che "potrebbe indirizzarci verso la ricerca di altre
chiese intitolate al vescovo di Tours", parla C.G. Mor (Verona Medievale cit., p. 21), precisando
tuttavia come siano troppo scarse le notizie sulla storia religiosa dei Goti.
270) G. Ravegnani, Kastron e polis cit., p. 278.
271) Alba Maria Orselli, Santi e Città cit., p. 812. Tornando ad Agazia, rilevo che l'attenzione per
l'organizzazione ecclesiastica, in uno storico bizantino laico, doveva essere relativamente modesta,
per non parlare della percezione del culto dei Santi, almeno in rapporto alla contemporanea, diversa,
sensibilità occidentale .
272) Alba Maria Orselli, Santi e Città cit., p. 813, n. 103, sottolineatura mia (cfr. anche E. Ewig., Kirke
und Civitas in der Merowingerzeit, "SSCISAM" 7, 1960, pp. 45-71, ora in Id., Spiitantikes und
friinkisches Gallien cit. voi. Il, pp. 1-20). Per fare un esempio della confusione K<X<rtpovhtoÀ.iç
in
presenza di una sede episcopale, ricordo che Teofane definisce Kacrtpovla città di NaKoÀ.E(aç
(Chron.
A.M. 6274, p. 456 De Boor (= 707 B), e "Nakoleia ist Bischofsstadt und hat seinem Status nach
sicherlich Stadtrecht" (cfr. F. Dolger, Diefriihbyzantinische Stadt cit., p. 72, n. 20; sul ruolo vescovile
nella città del primo periodo bizantino cfr. ibid., pp. 88-89).
273) Ancora F. Dèilger, Diefriihbyzantinische Stadt cit., p. 85 (che continua: "das stiidttsche Leben
beginnt im allgemeinen erst wieder unter den Karolingem").
73
Negare aprioristicamente la possibilità che il vescovato di Ceneta risalga agli
anni a cavallo della metà del VI secolo appare azzardato almeno quanto ascrivere
la sua istituzione ad un periodo immediatamente a ridosso all'invasione longobarda,
ovvero posporla di oltre un secolo rispetto a tale evento 274 •
Anche il vescovado di Bellunum, cui abbiamo già fatto cenno, potrebbe essere
stato istituito all'epoca della dominazione Franca 275 e non giova sostenere che nella
suggestio dei vescovi aquileiesi si sostiene che in sole tre diocesi erano stati
insediati vescovi dai Franchi (le già citate Virunum, Teurnia eAguntum ): il periodo
è il 590-591 e le ragioni di opportunità che avevano spinto alla preparazione di
quello scritto (e al sottolineare, in esso, di certe situazioni, e non di altre) non vi sono
completamente esplicitate.
b) Tanto Ceneda che Belluno potrebbero tuttavia avere avuto istituiti i loro
episcopati nel periodo della ripresa del controllo della Venetia da parte dei
Bizantini, e questo spiegherebbe perché la suggestio dei vescovi del 590, pur
sottoscritta dal presule bellunese, non facca cenno a Ceneda come di diocesi
promossa dai Franchi, mentre la mancanza della sottoscrizione di un presule
cenedese può essere dovuta ad altre, diverse ragioni.
274) Cfr. ad es. L. Jadin, s.v. Ceneda cit., p. 137: "!es temps de la fondation du diocèse est vivement
controversé; il est certainement postérieur à la destruction d'Oderzo par Grimoald en 668". Il c.d.
placito di Liutprando l'anno 743, che normalmente viene utilizzato come terminus ante quem per la
istituzione del vescovado cenedese, è pubblicato in R. Cessi, (a cura di), Documenti cit., voi. I,
documento nr. 41 (una traduzione italiana di tale documento in N. Faldon, Le origini del cristianesimo
nel territorio cit., pp. 45-48); si tratta tuttavia, con grande probabilità, di un falso (ci crede tuttavia J.
Jamut, Storia dei Longobardi cit., p. 83, che fa di Liutprando addirittura 'il creatore della diocesi', e
coglie così la peggiore opportunità per citare Ceneda, soprattutto perché lo fa soltanto in questa
circostanza). Sul placito, in senso critico, cfr. L. Margetic, Le prime notizie su alcuni vescovati
istriani, in Histrica et Adriatica. Raccolta di saggi storico-giuridici e storici, tr. it. Fiume 1983, pp.
129-130 (e n. 18). "Comunque si voglia giudicare il documento liuprandeo sulle origini del vescovado
di Ceneda ..." scrive G. Cuscito, "si può concludere che la diocesi di Ceneda sia di fondazione
longobarda e la sua origine sia dovuta al fatto che la città era divenuta sede di un ducato"
(Testimonianze archeologiche monumentali cit., p. 98), e sostiene che il primo vescovo cenedese
sarebbe stato Valentiniano, tra il 714 e il 715 (ibid.; cfr. P.B. Gams, Series Episcoporum cit., p. 783;
F. Agnoletti, Treviso e le sue Pievi. Illustrazione storica nel XV centenario della istituzione del
vescovato trivigiano (CCCXCVI-MDCCCXCVI), Treviso 1898, rist. an. Bologna 1978, voi. 11,p. 745;
V. Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 141-144; S. Tramontin, Le origini del Cristianesimo nel
Veneto e gli inizi della Diocesi di Ceneda, in "Le origini del Cristianesimo tra Piave e Livenza" cit.,
p. 34). Sul placito liuprandeo cfr. ovviamente ancora V. Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 95
ss.
275) Scriveva C.G. Mor: "Teodebaldo già nel 550 occupava una parte del Veneto - direi il Friuli e
forse il Bellunese" (Bizantini e Langobardi cit., p. 235, n. 8).
74
È più che probabile che Ceneda abbia conservato l'importanza militare e
strategica acquistata sotto i Franchi "anche durante la dominazione bizantina fino
all'arrivo dei Longobardi e che proprio in questo periodo venne fondata la sede
vescovile" 276 •
- 9.3 Esame della fonte su Ceneda n. 3
È venuto il momento di esaminare il primo dei documenti ecclesiastici di cui
abbiamo fatto cenno, ed affrontare la discussa questione degli Atti della Sinodo di
Grado del 579 che, stando al Mansi e ad altri editori avrebbero registrato la presenza
di un presule di nome Vindemius, definito, da come essi vollero leggere il suo titolo,
episcopus sanctae ecclesiae Cenetensis 277 •
Ricordo che la Sinodo gradense, convocata dal patriarca di Aquileia, Helias,
costituì la più importante manifestazione della chiesa aquileiese nella sua rivendicazione dottrinaria tricapitolina 278 •
Innanzi tutto bisogna dire che non si potrebbe spiegare l'esistenza di un
presule cenedese nella seconda metà del VI secolo se non ipotizzando l'esistenza
della stessa diocesi cenedese in una data anteriore all'invasione di Alboino e dei
suoi 279 •
276) L. Margetic, Le prime notizie cit., spec. p. 129. Sosteneva C.G. Mor che dopo il 563, "riunita la
Venetia all'Impero" Narsete "fu svelto a sostituire, nelle tre diocesi del Norico, i vescovi "franchi"
con altrettanti "aquileiesi", o almeno li riassoggettò alla sede metropolitica" (Bizantini e Langobardi
cit., p. 241 ).
277) V d. Sacro rum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio (cur. J .D. Mansi), Florentiae 1743, t.
IX, p. 926 B; F. Ughelli, Italia Sacra cit., V, pp. 26 ss.; P. Kandler, Codice Diplomatico Istriano,
Trieste 1862-1865, rist. Trieste 1986, voi. I, doc. nr. 26, pp. 64-65; P.B. Gams, Series Episcoporum
Ecclesiae Catholicae, Ratisbonae 1873, p. 783 e, infine, il Thesaurus Linguae Latinae- Onomasticon,
s.v. Ceneta cit., c. 314. Tuttavia F. Ughelli, op. cit., c. 29, parlando della Sinodo di Grado, dapprima
scrive: Vindemius Episcopus s. Ecci. Caesen., salvo poi, a c. 31 (e ac. 173) definire lo stesso vescovo
come Cenetensis. Che la effettiva sede di questo Vindemius debba considerarsi "molto discussa" non
lo nega nemmeno un sostenitore della 'tesi cenedese', come L. Margetic, Le prime notizie cit., spec.
p. 130,n. 23.
278) Sulla complessa questione cfr., in gen., J.B. Bury, History cit., Il, p. 383-391; É. Amann, s.v.
Trois-Chapitres (affaire des), inDictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1950, t. XV, 2, cc. 18681924; K. Baus, s.v. Dreikapitelstreit, inLexikonfar Theologie und Kirche, Freiburg 1959, voi. III, cc.
565-566; G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio cit., pp. 231 ss.; di "unità scismatica aquileiese" parla G.
Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in P. Delogu-A. Guillou-G. Ortalli, Longobardi e
Bizantini cit., pp. 349-351. Cfr. anche C.G. Mor, La cultura veneta cit., pp. 218-219. Sul patriarca
Helias cfr. anche R. Cessi (cur.), Documenti cit., vol. I, doc. nr. 4, p. 5 (iscrizione nell'edicola a fianco
della Chiesa di Santa Eufemia, a Grado).
279) Cfr. G. Tornasi, La Diocesi di Ceneda cit., I, p. 17 (quest'autore non esclude una datazione
attorno alla metà del VI secolo, "fra la prima occupazione della zona da parte dei Franchi e l'avvento
dei Longobardi", ma comunque, ibid., p. 18, dichiara esplicitamente di non voler prendere posizione
75
È impossibile, infatti, pensare che potesse essere toccato ai Longobardi, la cui
adesione al cristianesimo era, per usare degli eufemismi, dubbia e superficiale 280,
occuparsi, fin dai loro primi anni, nientemeno di organizzazione ecclesiatica,
favorendo addirittura la nascita di una nuova diocesi nel loro territorio: "sul piano
organizzativo poco sappiamo ci1.:'.'la realtà della sistemazione della Chiesa arianolongobarda in Italia; mi sembra che non a torto, si possa revocare in dubbio la
testimonianza di Paolo Diacono, relativa alla presenza di una gerarchia episcopale
ariana, perfettamente parallela a quella cattolica. Specialmente per i primi tempi
dopo la conquista la situazione della Chiesa cattolica nel Regno longobardo era in
un collasso tale che difficilmente sarebbe potuto servire di modello per un'analoga
Chiesa ariana" 281•
Secondo successivi editori degli Atti di Grado 282, il titolo di questo Vindemius
sul merito della questione). La consapevolezza di una datazione 'bassa' per la istituzione della diocesi
cenedese è diffusa più di quanto si possa pensare a fronte della pubblicistica accademica o
specialistica, cfr. ad es. la bella Guida di Vittorio Veneto, di V. Ruzza, cit., che, a p. 12 nota appunto:
"la sede vescovile, sorta in epoca imprecisata nel VI sec.".
280) Gregorio Magno parlava dei Longobardi in termini assai negativi (nefandissima gens; nefandissimi;
come si legge nel Registrum, MGH EE, I, risp. Ep. V, 38, p. 325 ed Ep. VII, 23, p. 468; cfr. V.
Paronetto, I Longobardi nell'Epistolario di Gregorio Magno, in "Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. II, spec. pp. 559-562) e non solo come degli eretici ariani (lo
erano in effetti solo in parte), ma spesso come dei pagani. Si trattava infatti di una gente giunta in Italia
ancora imbevuta della religione germanica e profondamente attaccata alle proprie tradizioni e ai
propri riti religiosi ancestrali; cfr. R. Manselli, La Chiesa Longobarda e le Chiese dell'Occidente, in
"Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull'Alto Medioevo" cit., t. I, spec. pp. 247-251 (cfr.
anche P. Delogu, Il regno longobardo cit., pp. 7-9 e spec. M. Meli, Eco scandinave nella Historia
Langobardorum di Paolo Diacono, in P. Chiesa (cur.), Paolo Diacono cit., pp. 333-353). A proposito
del "sincretismo religioso di arianesimo e politeismo, iniziatosi forse già in Moravia sotto l'influenza
dei Goti", che caratterizzava i Longobardi al loro ingresso in Italia, cfr. altresì G. Tabacco,
L'inserimento dei Longobardi cit., p. 228.
281) R. Manselli, La Chiesa Longobarda cit., p. 252; cfr. G.B. Bognetti, La continuità delle sedi
episcopali e l'azione di Roma nel regno Longobardo [ 1959], in Id., L'Età Longobarda cit., IV, p. 304;
S. Tramontin, Le origini cit., p. 34 e R.W. Mathisen, Barbarian Bishops and the Churches "in
barbaricis gentibus "during Late Antiquity, "Speculum", 72, 1997, p. 690; in ogni caso "any role that
religion played as a segregating factor would have been the result, not of theological differences or
officiai policies, but of organizational structure, which may have had very little meaning at the local
level. Indeed, it may be that the degree of religious incompatibility between Nicene Romans and
barbarian Arians has been greatly exaggerated, for there is anecdotal evidence to suggest that there
was a good deal of rningling" (ibid., p. 693; cfr. anche E.L. W oodword, Christianity and Nationa/ism
cit., p. 70)
282) Vd. Chronica Patriarcharum Gradensium in MGH SS. rer. Lang., pp. 392-397, ma anche R.
Cessi, Nova Aquileia, "AIV" 88, 1928-29, spec. pp. 588 ss.; Id. (a cura di), Documenti cit. vol. I, doc.
nr. 6, pp. 7-13; G. Cuscito, la Fede Calcedonese e i Concili di Grado (579) e di Marano (591),
"AAAd" 17, 1980, pp. 225-230; cfr. P.F. Kehr, Regesta Ponti.ficum cit., pp. 12-13. Qualche critica agli
editori degli Atti sinodali nei MGH si legge in L. Duchesne, L 'Église au VJème Sièc/e, Paris 1925, p.
244, n. 2. Cfr. G. Arnosti, lo scisma tricapito/ino cit., pp. 66-71.
76
si sarebbe dovuto leggere, in realtà, con maggior aderenza alla lezione del testo
tràdito, come episcopus sanctae ecclesiae Cessensis 283, come si trova scritto anche
nel Chronicon Venetum (= Istoria Veneticorum) opera del diacono Giovanni degli
inizi dell'XI secolo 284 •
Tale aggettivo è comunemente fatto risalire a Cissa, isola esistita fino al VIIVIII secolo di fronte alle coste dell'attuale città istriana di Rovigno. Le considerazioni che possono essere addotte per affermare l'effettività stessa di un episcopato
in quell'isola, si scontrano con ragioni per così dire statistico-ambientali 285 : l'isola
non ha lasciato notizie di sé nelle fonti dopo gli inizi del V secolo e sembra poco
probabile che vi fosse stata insediata una sede episcopale 286 •
283) MGH SS. rer. Lang. cit., p. 393 = R. Cessi, Nova Aquileia cit., p. 593 e Id., Documenti cit., p.
12; cfr. anche V. Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 36 ss. e 134 ss.; F. Lanzoni, Le diocesi
d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (ann. 600), Faenza 1927, vol. Il, p. 850; A. Guillou,
L'Italia Bizantina dall'invasione Longobarda alla caduta di Ravenna, in P. Delogu-A. Guillou-G.
Ortalli, Longobardi e Bizantini cit., p. 220; G. Ortalli, Venezia dalle origini cit., p. 350; per Vindemius
vescovo di Cissa sono anche G. Cannella, Ricerche su Ceneda nell'Alto Medio Evo cit., pp. 69-70 (che
ritiene peraltro falsi gli atti della Sinodo di Grado), e G. Arnosti, Lo scisma tricapitolino cit., pp. 7274. Cfr. infine F. Babudri, Il vescovato di Cissa in Istria cit., pp. 35 ss.
284) Vd. Iohannis Diaconi, Istoria Veneticorum, ed. e tr. it. L.A. Berto, Bologna 1999, I,§ 11, p. 62
( Vindemius, episcopus Cessensis); sulla datazione di quest'opera cfr. ibid., Introduzione, pp. 7-8 (che
stima gli anni tra 967-1 O18). V d. anche Andreae Danduli, Chronica per extensum descripta, cur. Ester
Pastorello, Bologna 1938, p. 83 rr. 26-27 (e p. 85 rr. 22-26).
285) Cfr. B. Benussi, Storia documentata di Rovigno, Trieste 1888, rist. Trieste 1977, pp. 31-32; 3536 e Appendice IX, pp. 332-337 (oltre alla modestia della località, va ricordato che una catastrofe
avrebbe provocato lo sprofondamento dell'isola di Cissa attorno alla metà del secolo VIII, o poco
oltre: c'è notizia di due fortissimi terremoti, nel 754 e nel 800-801); Id., Del vescovato di Cissa e di
Rovigno (Studio critico), "AttiMemistria" 34, 1922, pp. 131-171; vd. spec. p. 154: "l'origine d'un
vescovato sull'isola di Cissa nel sec. V, il suo perdurare sino alla seconda metà del sec. VIII, ed il suo
sparire improvviso in questo ultimo periodo di tempo manca d'ogni presupposto razionale e storico";
L. Margetic, Le prime notizie cit., spec. pp. 126 ss.; cfr. comunque P.F. Kehr scriveva "ab insula Cissa,
ubi saec. VI sedes episcopalis exstiterat, cuius episcopus Vindemius concilio Gradensi a. Chr. 579
celebrato interfuit, postea in mari demersa" (Regesta Pontificum Romanorum cit., p. 235) e R. Van
Doren, s.v. Cissa, inDHGE,Paris 1953,XII,c. 851,cheassegnaa Vindemius 'diCissa' una datazione,
compresa tra il 571 e il 577 (sulla quale cfr. C. De Franceschi, Saggi e Considerazioni sull'Istria
nell'Alto Medioevo. Il. Cessensis episcopus, "AttiMemlstria" 18 n.s., 1970, p. 70, da Lanzoni).
Estrema, se non faziosa, la posizione di F. Babudri, Il vescovato di Cissa in Istria cit., spec. pp. 43 ss.
(sui rilievi per l'individuazione dell'isola sprofondata cfr. A. Pogatschnig, Nota aggiuntiva, apud F.
Babudri, Il vescovato di Cissa cit., pp. 58-61 ).
286) I riferimenti delle fonti antiche su Cissa sono assai poco frequenti e in qualche caso dubbi (cfr.
in ogni caso il Thesaurus Linguae Latinae- Onomasticon, vol. II, cit., c. 460, s.v. Cissa). Vd. Plinio
il Vecchio, Naturalis Historia, III, 151, p. 294, che parla delle isole davanti alla foce Timavi calidarum
fontium, citando effettivamente Cissa e Pullaria (ma l'editore fa un rimando in apparato ad un luogo
precedente III, 140, p. 289, su Gissa: si rischia effettivamente una certa confusione sulle due località,
l'una istriana, l'altra dalmata); poi San Girolamo, che nella sua lettera ad Castricianum (Ep. LXVIII,
77
È ben curioso che, se un vescovato di Cissafosse mai esistito, quella località
sia rimasta nella più completa oscurità proprio nei secoli VI e VII nonostante le
raffinate elaborazioni filologiche (con una forte componente 'ideologica') di
studiosi insigni: conseguentemente non resterebbe che riportare a Ceneda questo
primo, importante, frammento ttstimoniale di fonte ecclesiastica 287 • In effetti è
paradossale che si affermi l'esistenza di un episcopato sull'isola di Cissa disponendo, come unica documentazione, del dubbio spunto della Sinodo del 579 (corroborato dall'altrettanto dubbio spunto del 680, che esamineremo poi), creando in
questo modo un riferimento circolare, con il documento che dà fede alla sede,
mentre la sede, così asseverata, dovrebbe dar fede al titolo, che a sua volta
convaliderebbe il documento 288 •
Ceneda, se non altro, avrebbe avuto dalla sua le caratteristiche che potenzialmente le avrebbero consentito di essere sede deputata all'insediamento di un
vescovo, già a partire dall'epoca Franca e nel contesto dato.
Devo confessare che la serie di studi e pubblicazioni sull'argomento Ceneda/
Cissa si affronta faticosamente e non senza qualche noia o imbarazzo, specie per
certe punte di caparbietà, nella secolare ed aspra lotta per l'affermazione della
primogenitura (sarebbe meglio dire dell'effettività) del vescovato dell'isola che
non c'è, piuttosto che di quello dello sfortunato castrum cenedese, rimasto
desolatamente privo di fonti genuine che documentino la sua storia più risalente.
Ma prima di affrontare, sul piano filologico, la difendibilità della lezione
p. 675) ha un riferimento a Cissa non sicuro (cfr. B. Benussi,Del vescovato di Cissa cit.,pp. 138-139
e l'apparato all'edizione geronimiana, p. 67 5, che reca anche le varianti scissam e cisses ). Ancora nel
VII secolo anche l'Anonimo Ravennate (V, 24; A.N. Rigoni, L'ambito territoriale cit., p. 148)
scriveva: nam in colfo occidentale in ipso Mari Magno littore Dalmatie seu Liburnie atque Ystrie sunt
insule, inter cerera quae dicuntur, id est ... Cissa. La testimonianza più interessante, che è comunque
cronologicamente antecedente a questa dell'Anonimo, situabile com'è nel V secolo, è quella della
Notitia Dignitatum Occidentis, XI, 49, perché ci offre tra l'altro la forma aggettivale di Cissa,
Cissensis, nell'indicare la carica di procurator bafii Cissensis Venetiae et Histriae, il che indica la
presenza nell'isola ancora nel tardo impero di una tintoria (di porpora) imperiale; cfr. A.H.M. Jones,
The Later Roman Empire cit., p. 836 e n. 29, pp. 1350-1351, tr. it., p. 1273 e n. 29 pp. 1646-1647. Su
queste fonti cfr. ancora F. Babudri, Il vescovato di Cissa in Istria cit., pp. 38-39.
287) Cfr. L. Margetic, Le prime notizie cit., p. 129. È insostenibile comunque una localizzazione terza,
cfr. ad es. Iohannis Diaconi, Istoria Veneticorum cit., p. 63 ove il curatore traduce incongruamente:
"Vindemio, vescovo di Sisak", che riporterebbe all'antica Scisia (Pannonia Orientale, hod. Croazia).
Sgombriamo il campo anche dall'equazione Cissa = Gissa, nell'isola dalmata di Pago (cfr. anche C.
De Franceschi, Cessensis episcopus, cit., pp. 80-81).
288) Dire, come fa S. Tramontin (Origini del Cristianesimo nel Veneto cit., p. 119, n. l 07), che alcune
"diocesi dell'Istria" possano "essere sicuramente documentate per il V o VI sec.", tra le quali "Pedena
e Cissa" è azzardato a causa della inevitabile 'circolarità' della pretesa documentazione.
78
Cenetensis per Vindemius, esaminiamo cos'altro sappiamo su di lui: le sole notizie,
successive tuttavia al 579, le fornisce Paolo Diacono 289 , che scrive: his diebus
defuncto Helia Aquilegensi patriarcha, postquam quindecim annos sacerdotium
gesserat e cioè, 'alla morte del patriarca di Aquileia, Helia, dopo quindici anni di
episcopato [la morte del presule risale al 5%-587]', Severus huic succedens
regendam suscepit ecclesiam 'gli successe, nel governo del patriarcato, Severus'.
Quem Smaracdus patricius veniens de Ravenna in Gradus, per semet ipsum
e basilica extrahens, Ravennam cum iniuria duxit cum aliis tribus ex Histria
episcopis, id est Iohanne Parentino et Severo atque Vindemio. necnon etiam
Antonio iam sene ecclesiae defensore: 'il patrizio Smaragdus [l'esarca bizantino di
Ravenna 290 ] raggiunse Grado dalla sua sede e arrestò personalmente [il patriarca]
Severus, strappandolo alla basilica [dove si era rifugiato] e lo condusse con la forza
a Ravenna unitamente ad altri tre vescovi, lohannes, di Parenzo, Severus [di
Trieste] Vindemius, e persino all'ormai vecchio Antonius, defensor [cioè amministratore] del patrimonio della chiesa'.
289) Hist. Lang. III, 26, p. 157 (vd. Iohannis Diaconi, Istoria Veneticorum cit., I§ 17, p. 68). Il
personaggio ·ecclesiastico di nome Vindemius che nelle fonti mi pare più prossimo al vescovo di cui
si tratta è un Vindemius acolitus, citato tra i nomina presbiterorum, diaconorum, qui Romam venerunt
cum Vietare presbitero et Mastalone diacono al tempo di papa Felice IV (anni 526-530; Agnellus
Rav., lib pont. 60, p. 321 ), e che a quell'epoca avrebbe dovuto avere una ventina-trentina d'anni, e non
può quindi identificarsi con il nostro vescovo, a meno di non immaginarlo assai vecchio (sulla dignità
dell'acolitato cfr. L. Duchesne, in Liber Pontificalis, I, pp. 171 e 190-191, n. 25; 321-322 e nn. 2-3;
371); ricordo quanto segnalato in precedenza alla nota 3, relativamente ad un Vende...o de Cenida
ancario, da una scritta rinvenuta a Montecassino. Se la colmatura della lacuna, che viene normalmente
data con Vende(gisl)o fosse proposta in Vende(mi)o, peraltro compatibile, potremmo avere la
testimonianza della permanenza del nome in ambito cenedese tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX
secolo. Curiosamente, nel tardoantico, abbiamo notizia di diversi ecclesiastici che portano il nome
Vindemius, in particolare in Africa ed in Italia: il primo di questi partecipa ad una Sinodo sotto papa
Silvestro (314-335); un secondo è vescovo (donatista) di Cenae, presso Cartagine, nel 411; sono poi
attestati, ali' epoca dell'occupazione vandalica dell'Africa, un Vindemius, episcopus A/tuburitanus
(Africa Proconsularis) ed un Vindemius episcopus Lamfoctensis (Mauritania Stifensis), che potrebbero tuttavia essere la medesima persona. Ci fu poi, più tardi, un Vindemius, episcopus Antiatinus,
che partecipò alle Sinodi romane del 499 e del 502, all'epoca di papa Gelasio (cfr. comunque W.
Enl3lin, s. vv. Vindemius 1, 2, 3, 4, RE IX A. I (1961 ), cc. 24-25; perla partecipazione dei vescovi di
Anzio alle Sinodi citate cfr. anche Liber Pontificalis, XXXIII. Si/vester in Duchesne, I, p. 192, n. 38).
Il nome Vindemius doveva essere particolarmente diffuso nell'area cartaginese, come mostra una
scoperta archeologica piuttosto recente, avvenuta nel sito di Bir Messaouda, relativa alla "first half
ofthe fifth century A.D .... from one ofthe cemeteries outside ofCarthage", che ha portato alla luce
"the grave inscription" di un bambino di dieci anni, di nome Vindemius (storia del ritrovamento e foto
dell'iscrizione nel sito Internet http://www.hum.uva.nl/carthage/l0l600.htrn).
290) Cfr. PLRE III-B, s.v. Smaragdus 2,pp. 1164-1166; perl'arrestodei vescovi,p. 1165. F. Babudri
ricostruisce addirittura un preciso itinerario di Smaragdo nella sua incursione repressiva (Il vescovato
di Cissa in Istria cit., pp. 44-45).
79
L'intervento repressivo dell'autorità imperiale contro i vescovi è da collocarsi
tra il 587 e il 589 e puntava a contrastare lo scisma dei Tre Capitoli.
Dopo un anno di carcerazione e vessazioni a Ravenna, dove erano stati
costretti ad abiurare lo scisma, i vescovi poterono infine tornare a Grado (extempto
vero anno, e Ravenna ad Grados reversi sunt291), ma, ricusati dai loro stessi fedeli
e dagli altri colleghi vescovi, rimasti rigorosamente tricapitolini, dovettero ritrattare l'abiura nel corso di una apposita Sinodo di vescovi, riunita nel 591 a Marano,
località lagunare tra le foci di Tagliamento e Isonzo (post haec facta est sinodus
decem episcoporum in Mariano), dove Severus sconfessò per iscritto il proprio
'errore' (receperunt Severum Patriarcham Aquilegensem dantem libellum erroris
sui)292.
Con il patriarca furono riammessi alla comunione tricapitolina i vescovi
Severus di Trieste, Iohannes di Parenzo, Patricius di Emona 293 , il nostro Vindemius
e lohannes di Celeia 294 ( cum patriarcha autem communicaverunt isti episcopi:
Severus, Parentinus lohannes, Patricius, Vindemius et Iohannes 295
).
È stato ipotizzato che Vindemius, di cui - nelle due circostanze in cui viene
citato (al momento dell'arresto e al momento della ritrattazione dell'abiura e della
riammissione alla communio tricapitolina)-Paolo Diacono tace sistematicamente
la sede, si trovasse a Grado "per la sua consacrazione" 296 ; il silenzio di Paolo va
valutato con la prudenza d'uso: tuttavia, se Vindemius era già vescovo nel 579,
perché ipotizzare la necessità di una sua nuova consacrazione? E, se del caso, a
quale altra diocesi sarebbe stato destinato?
A meno di non voler ipotizzare un Vindemius già titolare a Ceneda, supponiamo fino alla Sinodo di Grado, poi non rientrato in sede, rimasto in esilio e
riconsacrato vescovo di Cissa per assegnargli una sede territorialmente più
sicura 297•
291) Paul. Diac. Hist. Lang. III, 26, p. 157; idem anche per le due successive citazioni di Paolo.
292) Sulla Sinodo di Marano unica fonte è proprio Paolo Diacono; cfr. L. Duchesne, L 'Église au VJèm•
Siècle cit., p. 245; G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio cit., pp. 239 ss.; Id., La Fede Calcedonese cit., pp.
222 ss.; G. Arnosti, Lo scisma tricapitolino cit., pp. 74-79. È ben curioso che G .D. Gordini, s.v. Grado,
in Dizionario dei Concili, Roma 1965, voi. Il, p. 148, dopo aver ricordato la Sinodo gradense del 579,
commenti anche quella del 590 come se si fosse tenuta nella stessa località; cfr. piuttosto S. Tramontin,
s.v. Grado, inDHGE, Paris 1985-1986, XXI, cc. 1025-1026.
293) Emona è Aemona Pannoniorum, l'attuale Lubiana.
294) Celeia è Celjie-Cilli, in Slovenia; cfr. Lidia Capo (ed.), Paolo Diacono, Storia dei Longobardi
cit., nn. a Hist. Lang. III, 26, p. 482.
295) Paul. Diac. Hist. Lang. III, 26, p. 158.
296) Cfr. G. Cuscito, Aquileia e Bisanzio cit., p. 237; Id., La Fede Calcedonese cit., p. 223.
297) N. Faldon (Le origini del cristianesimo nel territorio cit., p. 44) sostiene un'ipotesi che si basa
sullo stesso presupposto: "Vindemio, forse eletto vescovo all'epoca dei Franchi, potrebbe essere
scappato da Ceneda proprio all'arrivo dei Longobardi, come avevano fatto altri vescovi compreso
quello di Aquileia"; secondo me, tuttavia, alla fuga del vescovo cenedese non può essere fatta
corrispondere la immediata presa della città da parte dei Longobardi.
80
Le fonti successive, in questo caso, avrebbero potuto fare un po' di confusione, rinvenendo Vindemius in elenchi di diverse titolarità: avrebbe potuto essere
stato Cenetensis fino ad una certa data (579?) e Cissensis in seguito?
L'ipotesi, a prima vista, ha tutto il sapore del compromesso, main realtà tiene
conto dell'altrimenti inesplicabile serie di ondeggiamenti della titolarità di
Vindemius, che hanno le caratteristiche del difetto di conoscenza: l'origine
dell'ipotetico vescovato cissense, infatti, anche per i suoi sostenitori, non si
allontana troppo dagli anni a cavallo della metà del VI secolo, ed è immaginata
(unitamente a quello di Pedena) quasi esclusivamente per assegnare una onorevole
sede di ripiego a vescovi privati delle loro "in Pannonia o in qualche regione
finitima in seguito a devastatrici invasioni barbariche" 298 •
Si deve ricordare che, in Paolo Diacono, Vindemius è accomunato in modo
sistematico a vescovi istriani (cfr. ad es.: cum aliis tribus ex Histria episcopis 299),
anche se l'uso di Histria, proprio in Paolo non è certo univoco, e potrebbe benissimo
valere per Venetia300 •
Si dovrà comunque pensare a Vindemius come ad un presule in esilio, forse
non già dal 579 301 , ma probabilmente a partire dagli anni 5 87-591: che fosse in attesa
di essere assegnato ad altra diocesi, come si è detto, resta da dimostrare, mentre non
è possibile che non fosse ancora consacrato, perché altrimenti, non si spiegherebbe
la sua sottoscrizione in calce agli Atti di Grado.
298) C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 84; analoga valutazione anche in G.B. Bognetti,
La continuità delle sedi episcopali cit., pp. 304 e 321. Su Pedena cfr. in part. L. Margetic, Le prime
notizie cit., pp. 131-133
299) Hist. Lang. III, 26, p. 157.
300) Ancora per il papa Gregorio la denominazione Histria abbracciava probabilmente anche buona
parte del Veneto (cfr. R. Cessi (cur.),Documenti cit., voi. I, doc. nr. 11, pp. 21-23 (inHistriaevidelicet
partibus); L. Margetic, Le prime notizie cit., p. 117: il vescovo di Oderzo, nel 680 si definirà ancora
episcopus sanctae ecclesiae Opitergensis provinciae Istria). Se vogliamo pensare a Vindemius come
al vescovo di Ceneda, una diocesi, come si è suggerito, fondata in territorio pro-tempore sotto
controllo Franco, quello degli anni 580-590 non sarebbe stato comunque un buon momento per lui,
dato che, contestualmente al regolamento di conti operato dagli imperiali sui vescovi tricapitolini, era
in atto un attacco combinato contro i Longobardi da parte delle truppe imperiali da sud, e di contingenti
Franchi da nord, con esiti discutibili sempre per ragioni afferenti alla dubbia lealtà dei Franchi,
accusati come minimo di incapacità di coordinamento, fino al solito doppio gioco ad esclusivo loro
favore. V d. Greg. Tur. Hist. Fr. X, 2-3, voi. Il, pp. 486-497, e Paul. Diac. Hist. Lang. III, 31, p. 164168; vd. anche leEpist. Austras. nn. 40e41 (aa. 585-590),pp. 145-148, nelle quali l'esarca ravennate,
scrivendo a Childeberto II, accusa platealmente i duchi Franchi di aver fatto fallire, con il loro
comportamento, l'attacco su Verona, proprio mentre gli imperiali erano giunti ormai a venti miglia
dalla città (cfr. C.G. Mor, Verona Medievale cit., pp. 26-27).
301) Cfr. L. Margetic, Le prime notizie cit., spec. p. 130 (che sostiene che ancora a quella data
l'episcopus Cenetensis si sarebbe trovato nella propria sede di titolarità, come altri vescovi della
Venetia erano nelle loro).
81
Preferisco non inoltrarmi nella giungla di variabili storiche e logiche che
deriverebbe dall'accettazione di questa sorta di compromesso, e tornare decisamente alla questione di Cissa: decisiva appare la scelta di un approccio filologico
che si proponga di non difendere a tutti i costi il testo dei codici (magari contro
l'insostenibilità geografico-statistica), ma di ricavare da quel poco che ci è stato
trasmesso possibili elementi di effettività.
Si tenga ovviamente conto che il testo degli Atti della Sinodo Gradense risulta
essere stato interpolato, e alquanto manomesso, per ragioni politiche (che peraltro
non attengono minimamente all'argomento che qui si discute )302 • In particolare si
deve rilevare come non sia mai stata segnalata una variante Cissensis, che
riporterebbe automaticamente a Cissa, ma invece diversi assai più intriganti
Cessensis. E questa forma alterata ci spinge ad ipotizzare con un certo fondamento
un originale Cenetensis al di là della forma grafica che il vocabolo - per traversie
di copiatura - avrebbe potuto assumere in seguito 303 •
Anche un sostenitore dell'istrianità del presule Vindemius come V. Botteon,
ha avuto cura di sottolineare che "il Cessensis viene interpretato per Cissa e non per
Ceneta" 304: il riferimento, anche filologicamente, non appare infatti scontato, al
punto che il medesimo studioso, riconoscendo, come peraltro è già stato notato, che
solo su quel fragile aggettivo Cessensis si sostiene la dimostrazione dell'esistenza
stessa della diocesi insulare istriana, è costretto a scrivere: "non intendo asserire che
Vindemio sia stato certamente vescovo di Cissa, ed ammetto che egli possa essere
stato in altra sede ignota; quello che parmi aver assodato si è che lo si debba
eliminare dalla serie dei vescovi cenedesi" 305 •
Questa è la classica posizione che ho definito 'ideologica': fate quel che
volete, ma rimuovete da Ceneda quel vescovo scismatico!
Sintetizzo di seguito le diverse lezioni del titolo di Vindemius segnalate dalle
varie fonti o edizioni della Sinodo di Grado, o contermini 306 :
302) Cfr. L. Duchesne, L 'Église au VJéme Siècle cit., p. 244, n. 2 (che nota tuttavia come almeno "!es
signatures conservées par le Chronicon [Gradense] paraissent authentiques").
303) Cfr. L. Margetic, Le prime notizie cit., p. 127.
304) Un documento prezioso cit., p. 125 (sottolineatura mia); cfr. anche N. Faldon, Le origini del
cristianesimo nel territorio cit., p. 44.
305) lbid., p. 128 (corsivo mio).
306) Essenzialmente con l'aiuto del saggio di C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., pp. 72 ss.
82
autore o testo
Cronicade singulispatriarchis
Nove Aquileie307
ChronicaPatriarcharumGradensium
CEN-(lezionecenetensis
CES-(lezionecessensis
o simili)
o simili)
episcopus cenensis
(variante 308 )
lohannis Diaconi, Istoria Veneticorum,
I,§ 11, p. 62
Danduli Andreae, Chronicaper extensum
descripta,p. 83, rr. 26-27
Danduli Andreae, Chronicaper extensum
descripta,p. 85, rr. 22-26
Tomaso Diplovatac10,
episcopus cessensis,
con la variante cesensis
Vindemius episcopus
sancte ecclesie cesensis309
Vindemio cesensi
Vmdemius ... ep1scopus
sancte ecclesie cessensis
Tractatusde Veneteurbis...310
Nicolò Coleti, ed. veneziana dei
SacrosantaConcilia... del Labbé 311
F. Ughelli, Italia Sacra cit., V, c. 29
Vindemius Episcopus sancte
ecclesie Cenetensis312
Vindemius Episcopus
S. Ecci. Caesen.313
Vindemius Episcopus
F. Ughelli, Italia Sacra cit., V,
cc. 31 e 173
SacrorumConciliorumNova et
AmplissimaCollectio(cur. J.D. Mansi),
t. IX, p. 926 (da N. Coleti315)
De Rubeis, Monumenta...316
Cronaca Benintendi 318
Cronaca di Giovanni Sagornini319
episcopus cessensis
episcopuscessensis
Cenetensis314
Vindemius Episcopus
sanctae
ecclesiae Cenetensis
Vindemius Episcopus
S. Ecclesiae Cenetensis
Caesen.e cesetensis317
cesetensis
cessensis
307) Cfr. C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 74.
308) Cfr. ibid., p. 75 ("riferendosi all'Ughelli il De Rubeis riporta la variante del passo in esame").
309) C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 73, indica la lezione dell'edizione di Ester
Pastorello come cessensis, mentre il testo reca cesensis.
310) Cfr. C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 73, n. 25 (si tratta di Tomaso Diplovatacio,
o de Plovataciis, Tractatus de Venete urbis libertate et eiusdem imperli dignitate et privilegiis et an
de iure Dominium Venetorumhabeat superiorem in temporalibus( 1521-1523), Biblioteca Marciana,
Venezia, Codici latini LXXIV C 374).
311) Cfr. C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 73, n. 26 (si tratta dei Sacrosanta Concilia
ad regiam editionem exacta... Studio Philippi Labbei et Gabr. Cossarii Soc. Jesu Presbyterorum.
Nunc vero integre insertis Stephani Balusii etJoannis Harduini additionibus, curanteNicolao Coleti
ecclesiae S. Moysis Venetiarumsacerdote alumno, Venetiis, t. XIV, c. 498).
312) Jbid., p. 74 (secondo Coleti, il testo sarebbe stato tratto "ex vetusto codice Bibliothecae
Vallicellanae in lucem edita").
313) Cfr. qui, supra, nota 277. Da una versione della cronaca di Andrea Dandolo, secondo C. De
Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 73
314) Cfr. ancora qui, supra, nota 277.
315) Cfr. C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 74 ("il Mansi ... riportò testualmente la
redazione degli atti sinodali dal Coleti, con l'annotazione che gli stessi provenivano dalla Biblioteca
Vallicelliana di Roma").
83
Di fronte alla assoluta mancanza di un esplicito e netto Cissensis, il termine
che ci è stato tràdito avrebbe potuto subire una serie di passaggi così potenzialmente riassumibile: un 'originario Cenetensis sarebbe stato abbreviato in un primo
tempo in Cen.sis o Ce.sis, salvo essere successivamente riletto per esteso nel
Cessensis superstite.
- 9.4 Esame delle fonti su Ceneda nn. 4a e 4b
Ricordo che, per quanto discutibile risulti il Placito di Liutprando, in esso
emerge una realtà difficilmente contestabile: un vescovato a Ceneda sarebbe
esistito prima che venisse meno la sede episcopale di Opitergium (= Oderzo). Le
due sedi vescovili esistettero quindi per anni, indipendenti l'una dall'altra, fin che,
nel corso delle vicende successive, il vescovo di Ceneda finì con l'ereditare una
porzione della estinta diocesi opitergina (trasferita nel 640 ad Eraclea 320), divenendone, in parte, il continuatore 321 •
Interessante, ma di maniera, si rivela la posizione di S. Tramontin, secondo il
quale, in fondo, potremo anche avanzare l'ipotesi di un vescovo cenedese antitricapitolino (?), specie quando il vescovo era ad Oderzo, avendo accettato Oderzo,
sia pure tardivamente, agli inizi del VII secolo (come Grado e come le altre diocesi
nel territorio bizantino), le decisioni di Giustiniano. Evidentemente tali decisioni
le avrebbe accettate il vescovo di Oderzo: allora si potrebbe ipotizzare anche la
presenza di un vescovo a Ceneda. Come si ebbe il doppio vescovo ad AquileiaGrado, una situazione analoga avrebbe ben potuto verificarsi anche per CenedaOderzo.
Si sarebbe trattato tuttavia dell'unico caso perché non risultano altre situazioni
documentate.
Del resto il caso risulterebbe giustificabile per Aquileia-Grado, perché si
trattava di due metropoliti, più difficilmente per il territorio di una semplice diocesi.
316) Cfr. lbid., p. 75 (si tratta di Jo. Fran. Bernardus De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis,
Argentinae {=Venetiis), 1740, cc. 240 e 254).
317) Varianti citate da De Rubeis in C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 75.
318) Cfr. lbid., p. 7 5 (si tratta della Cronaca di Benin tendi de' Ravagnani, segretario del Doge Andrea
Dandolo, che lavorò per rimaneggiare e proseguire la cronaca dello stesso).
319) Cfr. lbid., p. 75, n. 35.
320) Cfr. G. Cuscito, Testimonianze archeologiche monumentali cit., p. 84.
321) Anzi "sunt enim qui putent primitivam sedem episcopalem Opitergii (Oderzo) fuisse. Post
eversionem civitatis primum a Rothari rege dirutae, postea a Grimoaldo rege funditus destructae.
Opiterginus episcopus Heracleam in urbem in aestuario Veneticorum sitam se transtulisse notum est,
territorio Opitergino inter Foroiulienses, Tarvisianos, Cenetenses diviso, unde colligendum esse
contendunt episcopatum Cenetensem post haec conditum esse" (P.F. Kehr, Regesta Pontificum
Romanorum cit., voi. I, p. 82).
84
Al massimo si potrebbe dire "avrebbe potuto essere anche così" 322 •
Cronologicamente, secondo S. Tramontin, saremmo comunque nel VII secolo senza possibilità di attretrare nel Vl323 •
Questo insistere da un lato sulla 'necessità' dell'ortodossia per il titolare di
Ceneda 324 e dall'altro sul VII secolo, tradisce il pregiudizio che cela questa
posizione: perché se Ceneda restò in mano imperiale sino al 615 ca., come abbiamo
già ipotizzato, noi non sappiamo nulla della politica ecclesiastica corrente praticata
dagli imperiali nelle cittadine venete del tempo e quindi non sappiamo neppure se,
ad esempio, trovatisi di fonte un vescovo cenedese di nomina Franca lo avessero
mantenuto in carica (dipendeva comunque da Aquileia), lo avessero sostituito con
uno di obbedienza imperiale, ovvero se avessero provveduto loro stessi ad istituire
la diocesi. In questo senso persino una dedica a San Martino di origine bizantina
rientrerebbe nella normalità, visto il culto del Santo praticato nell 'Esarcato 325 •
Abbiamo davanti un percorso accidentato, che si giustifica ancora con un
pesante accumulo di difetti di conoscenza. Esso si concretizza in un tardo esempio
di grafia greca e latina, relativo ad un vescovo del 680: troviamo infatti - dopo un
secolo di silenzio - un'altra modesta testimonianza su un episcopus che dai
moderni viene di nuovo assegnato da taluno a Cissa, da altri a Ceneda.
Nel 680 abbiamo la prova che il titolare dell'episcopato opitergino continuava
ad esistere, fregiandosi del titolo, pur essendo indubitabilmente in esilio; il
documento sottoscritto dall'ultimo presule opitergino, Benenatus 326 , era stato
firmato anche da altri vescovi esuli dalle loro sedi, e da un Ursinus, episcopus
Cenetensis: infatti "nel 680 i vescovi di Altino, Oderzo, Padova, quali firmatari
degli atti del concilio lateranense erano indubbiamente esuli dalle loro sedi e si
trovavano in territorio lagunare sotto il controllo bizantino. Pertanto è lecito
supporre che anche il vescovo di Ceneda fosse esule" 327 •
322) Sul fenomeno della duplicazione dei vescovati cfr. G. Arnosti, Lo scisma tricapitolino cit., pp.
101-103.
323) Cfr. Le origini cit., p. 34; in precedenza anche Id., Origini del Cristianesimo cit., p. 120, n. 114;
cfr. poi V. Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 127; 132-135.
324) Analogamente G. Arnosti sottolinea l'appartenenza di Ceneda, almeno fino al 698, alla
giurisdizione aquileiese scismatica, traendone automaticamente la conclusione della incongruità
dell'ipotesi di un vescovo cenedese nel 680 (Lo scisma tricapitolino cit., p. 74).
325) Per chi fosse interessato ad una tarda lettura bizantina della leggenda di San Martino, cfr. H.
Delehaye, La vie grecque de saint Martin de Tours, "SBN" 5, 1939, pp. 428-431; F. Halkin, Légende
grecque de saint Martin évéque de Tours, "RSBN", 20-21, 1983/84, pp. 69-91.
326) Cfr. V. Botteon, Un documento prezioso cit., pp. 57 ss.; G. Cuscito, Testimonianze archeologiche
monumentali cit., p. 86.
327) L. Margetic, Le prime notizie cit., p. 130.
85
Il documento cui mi riferisco è agli Atti del III Concilio Constantinopolitano,
il VI Ecumenico 328, quello, per intenderci, che mise fine all'eresia monotelitica 329,
che si svolse con inusuale lunghezza tra il 7 novembre 680 e il 16 settembre 681
sotto la presidenza dell'imperatore Costantino IV, che l'aveva convocato con
"evidente affermazione di indipendenza dal Papato" 330•
Esso registrò un 'passaggio' romano, quando centoventicinque vescovi delle
diocesi italiche e occidentali sottoscrissero la 'lettera sinodale' che il papa Agatone
trasmise poi ai padri conciliari nel settembre 680 331• "Questa lettera, come del resto
tutti gli atti conciliari ci sono pervenuti nel testo greco e in traduzione latina, e in
genere anche la lettera che ci interessa viene considerata originale nel testo greco,
come risulta dall'annotazione che si trova nelle varie edizioni degli atti conciliari,
che qualifica il testo latino Vetus interpretatio ex Graeco, cui similem asserva!
Collegium Parisiense Societatis Jesu" 332 •
Agli Atti del Constantinopolitano III il documento romano (contenente, fra le
altre, la sottoscrizione di Ursinus, episcopus sanctae ecclesiae Cenetensis) è stata
collocata nell'ambito della cosiddetta Actio IV.
Mettiamo a confronto i testi relativi alle sottoscrizioni apposte a documenti
sinodali o conciliari, a circa un secolo di distanza l'una dall'altra:
I. [= fonte or. 3]
Atti della Sinodo
Gradense
a. 579 - latino
Vindemius episcopus
sanctae ecclesiae Cessensis
(=Cenetensis?)
II. [= fonte or. 4a]
III. [= fonte or. 4b]
Actio IV Concilio
Costantinopolit III
a. 680-681 - latino 333
Ursinus episcopus
sanctae ecclesiae
Cenetensis provinciae
Istriae
Actio IV Concilio
Costantinopolit III
a. 680-681 - greco 334
OùpcrivoçÈÀ.aXtcrtoç
È1tt01C01toç
... ayiaç ÈlClCÀ.Ecriaç
KÉvcrouÈ1tcxPXiaç
'lmpiaç
[correz. a margine Kevéwu]
328) Cfr. G. Ostrogorsky, Storia dell'Impero Bizantino cit., pp. 111-112.
329) Cfr. L. Duchesne, L 'Église au VIèmeSiècle cit., pp. 431-485; per i provvedimenti finali assunti
dal Concilio cfr. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1973, pp. 123-130.
330) G. Pepe, Il Medioevo barbarico d'Italia cit., p. 190; cfr. L. Duchesne, L 'Église au VJèm,Siècle
cit., pp. 466 ss.
331) G. Pepe data l'invio della delegazione papale al Concilio all'anno 679 (Il Medioevo barbarico
Siècle cit., pp. 463 ss. (part. pp. 464d'Italia cit., pp. 295-296); cfr. L. Duchesne, L 'Église au VJème
465, n. 1).
332) C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 76 e n. 37.
333) Vd. Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio (cur. J.D. Mansi), Florentiae 1743, t.
IX, c. 311. Cfr. anche F. Ughelli, Italia Sacra cit., V, c. 173.
334) Sacrorum Conciliorum cit., t. IX, c. 312.
86
Nel caso I., che abbiamo già esaminato, esiste in effetti il ricorrente (ma
probabilmente, come si è detto, controvertibile) Cessensis nei codici.
Nel caso III. un misterioso Kévcrou(=kénsou) ha fatto pensare alla corruzione
di qualcosa come Kecrcrévcrou
(=kessénsou). Si veda l'opinione di C. De Franceschi:
"il trascrittore, ignorando evidentemente l'esistenza del minuscolo vescovato di
Cissa, anziché sciogliere correttamente l'abbreviazione paleografica di Kecrcrévcrou
costituita da una K, seguita da un punto (abbreviazione per contrazione delle lettere
ecrcr)dopo il qual punto c'è il segno paleografico per ev, una cr e infine il segno
paleografico per ou, trascurò il punto e lesse Kévcrou"335 • A me pare invece che non
sia altro che la traduzione in greco della sottoscrizione del caso IL, ove non sembra
esservi paradossalmente alcun dubbio su Cenetensis 336 •
È stato tuttavia segnalato, ancora da C. De Franceschi, che il testo latino
mostrerebbe "gravi inesattezze" e che "allo stesso non deve attribuirsi alcuna fede
di fronte al testo greco" e, inoltre che andrebbero ripudiati "senz'altro non solo
l'aggettivo toponimico latino [Cenetensis], ma anche la correzione marginale di
quello greco da Kévcroua Kevfaou"337 •
Ma persino uno studioso dell'autorità di P.F. Kehr, che pure dubitava
apertamente del Vindemius Cenetensis del 579, scriveva a questo proposito: "utut
est,primus Cenetensis episcopus, quem novimus, Ursinus est, qui concilio Romano
a. 680 ab Agathone P .M. celebrato interfuit" 338 •
Lujo Margetic ha sostenuto, dal canto suo, che la sottoscrizione in latino
avrebbe potuto essere stata una traduzione dal greco 339 , ma non abbiamo certezze.
Documento e sottoscrizioni avrebbero anche potuto essere stati redatti in
origine in latino, e solo successivamente trasposti in greco (come certo accadde,
viceversa, per altri atti conciliari redatti originariamente in greco )340 •
335) Cessensis episcopus cit., p. 79.
336) Anche F. Babudri annota che: "la versio latina ha cenetensis" (Il vescovato di Cissa in Istria cit.,
p. 46).
337) Cessensis episcopus cit., p. 79.
338) Regesta Pontificum Romanorum cit., voi. I, p. 82 (corsivo mio); cfr. anche P.B. Gams, Series
Episcoporum cit., p. 783. R. Van Doren, invece, che già riteneva Vindemius presule Cissense,
continua dicendo: "un de ses successeurs, Ursinus, assita au synode romain de 680" (s.v. Cissa, cit.,
p. 851); parimenti F. Babudri, Il vescovato di Cissa in Istria cit., pp. 45-47.
339) Cfr. Le prime notizie cit., p. 126; cfr. C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 76.
340) Sulla decadenza culturale di Roma nel periodo, esiste la specifica testimonanza dello stesso papa
Agatone (cfr. G. Pepe,!/ Medioevo barbarico d'Italia cit., pp. 295 e 302). Uno studioso come H. Quentin
"rileva che nella lettera in oggetto, come nelle altre dei papi Onorio, Agatone e Leone II, relative al
monelitismo, sebbene il pontefice Agatone fosse originario di Palermo e quindi, se non greco, di solida
cultura ellenica, il testo originale è quello latino, conosciuto come la versione di Sergio I, per il fatto che
negli atti conciliari pubblicati dal Merlin e dall'Hardouin, c'è l'annotazione "Scriptus est codex
temporibus domini Sergi Sanctissimi ac beatissimi papae et in patriarchio sanctae ecclesiae romane
recluditur. Deo gratias. Amen"" C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 76 che si riferisce a Henri
Quentin 0.S.B., Notes sur les originaux latins des lettres des papes Honorius, S. Agathon et Léon II,
rélatives au monothelisme, in "Miscellanea Amelli ", Badia di Montecassino 1920.
87
Infatti "il testo greco segue l'ordine delle parole del testo latino e questo,
secondo l'uso invalso nella seconda metà del secolo VII, ha le frasi con finale
metrico. Se il testo latino fosse una traduzione di quello greco, si sarebbe dovuto
abbandonare l'ordine delle parole greche per ottenere dei finali metrici nella
traduzione latina" 341 •
C. De Franceschi ha tuttavia sostenuto che avrebbe poca importanza stabilire
se il testo della lettera di papa Agatone fosse stato redatto originariamente in greco
o in latino, in quanto, almeno le firme sarebbero senz'altro state "apposte in lingua
greca al testo greco inviato a Costantinopoli, e come tali sono molto più precise e
complete della relativa traduzione in calce al testo latino, eseguita in un secondo
momento da persone meno preparate" 342 •
Lujo Margetic rileva comunque "che la radice è KEV-...ovviamente il latino
Cen-", e che è molto più probabile che KÉvcrousi riferisca a Ceneta che a Cissa,
tanto più che un tau, 't, può nella trascrizione essere facilmente scambiata per un
sigma, cr,ed immagina infine opportunamente un passaggio esemplificabile come:
KEVÉ'tou~KEV'tou ~KÉvcrou 343 •
La poco chiara espressione KÉvcrou (=kénsou), con la citata correzione
marginale KEVÉ'tou,andrebbe quindi intesa come la malaccorta resa di una abbreviazione, tipo Cen.sis: mi è difficile immaginare altre forme di abbreviazione, dal
citato KEVÉ'tou(=kenétou) all'ancora più grossolano KEVE'tÉvcrou
(=keneténsou )344•
E comunque, se ipotizziamo una primitiva stesura in greco, come avrebbe
potuto trasformarsi il rozzo KÉvcrounel Cenetensis che ci è stato tràdito? Si tratta
di una modalità decisamente analoga a quella sopra evidenziata per dar una ragione
al Cessensis della Sinodo di Grado.
Non ci resta che prendere atto di una sorta di 'congiura degli amanuensi' che
avrebbero inconsapevolmente lavorato contro la trasmissione corretta del termine
Cenetensis, tanto nel caso del 579 (vescovo Vindemius), quanto nel caso del 680
(vescovo Ursinus).
Come si è detto in precedenza, la vicenda della davvero incredibile perdita
totale dei riferimenti epigrafici e documentali relativi alla denominazione di
Ceneda, dall'età romana al VII secolo, non può che essere fatta risalire a una
straordinaria serie di casualità o comunque ad analoghe involontarie omissioni,
corruzioni e cancellazioni, anche se è stato indagato l'interesse che da parte di
341) Henri Quentin, op. cit., sintetizzato da C. De Franceschi, Cessensis episcopus cit., p. 76.
342) Cessensis episcopus cit., pp. 76-77.
343) Le prime notizie cit., p. 127.
344) Quando C. De Franceschi (Cessensis episcopus cit., p. 79) segnala, ad esempio, la piena
corrispondenza tra :EEVÉvcrou
e Senensis, trascura di dare una valida ragione perché Cissensis avrebbe
dovuto corrispondere a KEVÉvcrou/KÉvcrou
perdendo sistematicamente il suono 'i', non solo negli esiti
greci, ma anche, e soprattutto in quelli latini.
88
Grado e di Venezia (come, d'altro canto, da parte di Aquileia e della sua diocesi
suffraganea di Ceneda) ci sarebbe stato nel falsificare i dati di una situazione
anteriore 345•
In ogni caso, per gli anni attorno al 680, come ha scritto autorevolmente G.B.
Bognetti, almeno da Padova si ricorreva, ad esempio, all'ordinario di Treviso per
l'esercizio di quelle funzioni per le quali il vescovo è indispensabile (come
accadeva a Siena rispetto ad Arezzo) e "questa è anche l'indicazione che proverrebbe da carta spuria, ma, nella realtà non del tutto infondata, pel vescovado di
Ceneda" 346•
§ 10. Reminiscenze poetiche sulla Ceneda tardoantica e sul suo territorio
[esame delle fonti su Ceneda nn. 1 e 7]
Si devono esaminare, a questo punto, le due citazioni di Ceneta non ancora
direttamente trattate, la prima cronologicamente molto prossima ai fatti degli anni
'50 e '60 del VI secolo, la seconda (che generalmente mi risulta trascurata)
appartenente ad un autore contemporaneo a Paolo Diacono. Si tratta, in entrambi
i casi, di testi poetici, e in entrambi i casi di riferimenti paesaggistici che non
aggiungono nulla a quanto già sapevamo.
Venanzio Fortunato, ripercorse a ritroso, nella Vita di San Martino 341 , scritta
tra 569 e 576, un viaggio immaginario ed emozionale rispetto a quello reale,
intrapreso qualche anno prima con motivazioni complesse, politiche e diplomatiche (e forse solo apparentemente religiose) lasciando Ravenna per la Gallia (anni
564-565 348): in questo celebre e suggestivo testo, Venanzio menziona Ceneta, che
345) G.B. Bognetti, La continuità delle sedi episcopali cit., pp. 317-318.
346) Ancora G.B. Bognetti, La continuità delle sedi episcopali cit., p. 325 (corsivo mio).
34 7) Il testo di Venanzio Fortunato, Vita Sancti Martini, IV 656-671, di seguito riprodotto, è quello
della più recente edizione: S. Quesnel (éd.), Venance Fortunat, CEuvres, Tome IV, Vie de Saint
Martin, Paris 1996, pp. 99-100 (note di commento ibid., pp. 170-171 ); si consulti anche, con qualche
piccola differenza testuale, l'ed. F. Leo, in MGH AA, Berolini 1881, IV, 1 pp. 368-369.
348) Cfr. PLRE III-A, s.v. Fortunatus 2 (Venantius Honorius Clementianus Fortunatus), pp. 491492; cfr. anche R. Heuberger, Riitien, cit., pp. 40-41. Sulle date cfr. S. Quesnel (éd.), Venance
Fortunat, CEuvres, t. IV, cit., lntroduction, p. vii (partenza nell'anno 565; cfr. anche e M. Schuster,
s.v. Venantius Fortunatus cit., c. 678); p. xiii (composizione della Vita Martini tra 569 e 576); cfr.
anche M. Pavan Venanzio Fortunato tra Venetia, Danubio e Gallia cit., p. 18 ("la data della partenza
... si pone ...tra l'autunno del 563 e la primavera 564"); p. 19 (composizione "comunque prima del 576,
anno di morte del vescovo di Parigi Germano che nel poema figura ancora vivo"). Sul viaggio di
Venanzio e sulle sue effettive ragioni, comprese quelle di natura politica, cfr. J. Sasel, Il viaggio di
Venanzio Fortunato cit., pp. 359-375 e G. Rosada,J/ "viaggio" di Venanzio Fortunato cit., pp. 43 ss.;
M. Rouche, Autocensure et Diplomatie chez Fortuna! a propos de I 'Elegie sur Galeswinthe, ibid., p.
157 ("Fortunat se révèle ... comme l'homme des fidélités silencieuses. Mais de plus, il est aussi un
remarquable agent politique au service de la Romanité et de Byzance. Jusqu 'ici, on croyait qu'il avait
89
ben conosceva, essendo considerato originario di una località assai vicina, l' odierna Valdobbiadene, se non di Ceneda stessa 349•
Egli si limita tuttavia ad un semplice cenno nel corso della sua celebre
descrizione della geografia della Venetia orientale, dettagliata, accorata e carica di
nostalgia, ma senza concedere alcun particolare degno di attenzione sulle caratteristiche della struttura urbana e difensiva del castrum, limitandosi a ricordarne
nel contesto, per quel che a noi rimane, la posizione orografica elevata 350 •
Comunque il passo venanziano pur nella lamentata sinteticità, sembra attestare che Ceneda era un centro di una certa rilevanza, dove si trovava, inoltre, una
comunità cristiana già organizzata attorno ad un luogo di culto 351 :
Hinc Venetum saltus campestria perge per arva,
submontana quidem castel/a per ardua tendens,
aut Aquiliensem si forte accesseris urbem,
Cantianos Domini nimium venereris amicos
ac Fortunati benedictam martyris urnam
Da qui [dopo Forum fu/ii e il Tagliamento]
attraversi il territorio e le fertili terre venete,
seguendo la strada degli alti castelli della
pedemontana 352 , o se magari giungerai alla
città di Aquileia, avrai l'occasione di venerare assai i [martiri] Canziani amici del
Signore353 e di onorare l'urna benedetta
del martire Fortunato 354
quitté l'Italie pour échapper aux autorités byzantines, à cause de son acceptation des Trois Chapitres
et qu'il aurait choisi Sigebert comme hote parce qu'il croyait que la Venétie resterait franque. En
réalité ... Fortunat, formé pour une carriere civile, fut envoyé, comme Martin de Braga, par Ravenne
et Byzance, pour soutenirune politique pro-byzantine en Occident"). Sull'attività letteraria (e sui suoi
aspetti politico-religiosi) cfr. anche E. Stein, Bas-Empire cit., "Excursus T", pp. 832-834.
349) Cfr. anche M. Manitius, Geschichte der Lateinischen Literatur des Mittelalters, Mi.inchen 19 l l,
I, pp. 172-173; N. Faldon (Le origini del cristianesimo nel te"itorio cit., p. 3 7) sostiene che Venanzio
sarebbe nato piuttosto nella "Vallata di Ceneda, alle due Playae di Serravalle".
350) La definizione isidoriana di castrum è infatti oppidum loco altissimo situm (Etym., XV 2, 13).
351) Come scrive G. Cuscito, Testimonianze archeologiche monumentali cit., pp. 101-102.
352) La strada che porta à rebours Venanzio Fortunato nelle sue patrie terre amiche passa da Ragogna
e dal corso del Tagliamento e, per attagliarsi al verso per submontana castel/a etc., si sarebbe
articolata, secondo quanto ha proposto G. Rosada, "all'incirca tra Pinzano, Castelnuovo, Spilimbergo,
Toppo, Meduno, Maniago, Montereale Valcellina, Aviano, Polcenigo, Caneva" (Il "viaggio" di
Venanzio Fortunato cit., p. 38); cfr. anche G. Arnosti, "Per Cenetam gradiens ". Appunti sulle vie
della romanizzazione con riferimento a/l'Antico Cenedese, "Il Flaminio" 9, 1996, p. 100.
353) Cfr. G. Cuscito, Economia e Società, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra
l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano (1980) 19862, pp. 658-659; S.
Tramontin, Origini del Cristianesimo nel Veneto cit., p. 120, n. 110; G. Rosada, Il "viaggio" di
Venanzio Fortunato cit., p. 46.
354) Cfr. G. Cuscito, Economia e Società cit., pp. 658-659.
90
pontificemque pium Paulum cupienter adora,
qui me primaevis converti optabat ab annis.
Si petis il/ud iter qua se Concordia cingit,
Augustinus adest pretiosus Basiliusque.
Qua mea Tarvisius residet, si molliter intras,
e il pio vescovo Paolo [=Paolino], colui che
desiderava fin dalla mia giovinezza vedermi convertito. Se prendi la strada che tocca
Concordia, avrai modo di vedere l'insostituibile Agostino e Basilio 355 •
Se ti fermi con calma nella mia Treviso,
inlustrem socium Felicem, quaeso, require
cui mecum lumen Martinus reddidit olim.
Per Cenitam 356 gradiens et amicos Duplavenenses,
qua natale solum est mihi sanguine, sede parentum,
prolis origo patrum,frater, soror, ordo nepotum
quos colo corde fide, breviter, peto, redde salutem
cerca, ti prego, il mio insigne amico Felice,
al quale [San] Martino un tempo restituì la
vista così come fece con me 357 • Attraversando Ceneda e i miei amici di
Valdobbiadene 358 , ti troverai nella terra
d'origine, mia, dei miei genitori e di tutta la
mia famiglia, dove risiedono mio fratello,
mia sorella e la schiera dei miei nipoti: ti
prego allora [si rivolge al libretto dei suoi
stessi versi359] di fare una breve sosta e di
recar a tutti loro, che amo e a cui un vincolo
mi unisce, il mio saluto 360
Il mero accenno a Ceneda di Venanzio Fortunato è pressoché contemporaneo
allo spunto più corposo di Agazia, di cui ho avuto modo di discutere: è curioso che
355) Sant'Agostino e San Basilio? Ma forse un Augustinus o Augustus sarebbe stato vescovo di
Concordia verso la fine del VI secolo (cfr. S. Tramontin, Origini del Cristianesimo nel Veneto cit., p.
120, Il. 112).
356) Segnalo a questo proposito che nell'edizione F. Leo cit., p. 369, al v. 668, era stata preferita la
lezione Cene tam nonostante nell'apparato critico fosse indicato che i codici recavano concordemente
Cenitam ovvero Cinitam). Cfr. S. Tramontin, Le origini del Cristianesimo a Treviso, in E. Brunetta
(cur.), Storia di Treviso. I. Le origini, Venezia 1989, p. 321.
357) Cfr. anche E. Stein, Bas-Empire cit., pp. 834, n. 1 e S. Tramontin, Origini del Cristianesimo nel
Veneto cit., p. 120, n. 113; cfr. anche J. Sasel, Il viaggio di Venanzio Fortunato cit., pp. 361-362.
358) Tra Caneva e Cavolano avrebbe dovuto esservi lo snodo che consentiva di raggiungere Ceneda,
portarsi nel Quartier del Piave e, dopo Susonnia, l'attuale Susegana, risalire fino a Duplabilis (uso,
nel tradurre, forse impropriamente, la denominazione attuale, Valdobbiadene; cfr. M. Schuster, s.v.
Venantius Fortunatus cit., c. 677; A. Zamboni, Toponomastica e storia religiosa cit., p. 47); cfr. anche
G. Rosada, Il "viaggio" di Venanzio Fortunato cit., p. 39.
359) Questo appare un motivo poetico che risale ad Ovidio (vd. Tristia III, 1, ed. Wheeler, p. 100):
si tratta del classico 'colloquio con il libro' dell'esule impossibilitato a tornare in patria; cfr. F. Della
Corte, Venanzio Fortunato, il poeta dei fiumi cit., pp. 138.
360) La traduzione libera del latino venanziano è mia. Altre traduzioni italiane di questi versi, si
trovano in S. Tramontin, Origini del Cristianesimo nel Veneto cit., pp. 119-120; Id., Le origini del
Cristianesimo a Treviso cit., p. 343, n. 81; in V. Peri, Chiesa e cultura religiosa, in AA.VV., Storia
della Cultura Veneta cit., p. 175; e in G. Rosada Il "viaggio" di Venanzio Fortunato cit., pp. 27-28
(a cura di F. Rizzetto).
91
entrambi questi autori fossero poeti 361 e, per di più (pur essendo agli antipodi l'uno
dall'altro), fossero così interessati alla cultura ed alla società dei Franchi.
Il riferimento di Paolo Diacono ai versi di Venanzio, ove si nomina il castrum
di Ceneda, presenta un pendan, .:; pura descrizione paesaggistica in un carme di
Paolino, vescovo di Aquileia contemporaneo dello stesso Paolo Diacono 362 , e
formatisi nello stesso ambiente scolastico-episcopale 363 •
Egli ebbe modo di accennare all'area cenedese nel contesto di narrazione
idealmente odeporica, riadattata alle circostanze ed alle modalità con cui compose
i Versus Paulini de Herico Duce, nell'anno 799, anche qui senza particolari
indicazioni che aiutino a definire precisamente la realtà del tempo, salvo per quanto
concerne la sua generica collocazione a guardia di una catena montagnosa (iuga
Cenetensium)364 •
Trascrivo le prime tre strofe dei Versus:
1. Mecum Timavi saxa novemjlumina
jlete per novem fontes redundantia 365 ,
quae salsa gluttit unda ponti Ionici,
piangete con me, o rocce del Timavo, e tutti
e nove i fiumi che da nove fonti riversanti
inghiottono le onde salate del mar Ionio:
361) L'opera poetica di Agazia è pubblicata, oltre che in varie edizioni della c.d. Antologia Palatina,
anche specif. da G. Viansino, Agazia Scolastico. Epigrammi, Milano 1967.
362) Su questo presule aquileiense, nato probabilmente nel 726 ed in carica tra 787 e 802, cfr. M.
Manitius, Geschichte der Lateinischen Literatur, cit., I, pp. 368-370; J. Reviron, s.v. Paulin
d'Aquilée, in Dictionnaire de Théologie Catholique, tome XII, 1 (1933), cc. 62-67; V. Peri, Chiesa
e cultura cit., pp. 192 ss.; 208 ss.; C.G. Mor, La Cultura Veneta cit., spec. pp. 230-237; The Oxford
Dictionary of the Christian Church, Oxford 19782,repr. 1988, p. 1054 (Paulinus, St. ). Si tratta di un
omonimo, tanto nel nome quanto nella carica ecclesiastica, del presule citato in uno dei versi sopra
riportati di Venanzio Fortunato ( Vita Sancti Martini, IV 661: pontificemque pium Paulum ), vescovo
di Aquileia, tra 558 e 561, seguace dello scisma tricapitolino, che nel 569 fuggirà a Grado a causa
dell'invasione Longobarda (ed ivi, più tardi, morirà); su di lui cfr. Paul. Diac. Hist. Lang. II 1O,p. 88;
Th. Hodgkin, ltaly and her lnvaders cit., V, p. 458 e A. Lippold, s.v. Narses cit., cc. 886-887.
363) Cfr. C.G. Mor, La Cultura cit., pp. 231 ss.
364) Paulinus Aquileiensis, Carmina II 1-3 (Versus Paulini de Herico Duce, pp. 131-133), in MGH
PLAeK, ree. E. Diimmer, Berolini 1881, I, p. 131 (tutti i Carmina di Paolino sono pubblicati ibid., pp.
123-148; del Liber Exortationis dello stesso Paolino è in corso un'edizione critica a cura di A. De
Nicola; cfr. in "AttiMemistria" n.s. XLIX, 2001, pp. 187-213, in progress). La traduzione libera e
necessariamente approssimativa delle prime tre strofe della composizione di Paolino è mia. Ignoro
se esistano traduzioni italiane o in altre lingue moderne di tali versi. Non ho inteso approfondire, sul
piano geografico, la descrizione di Paolino, che fa riferimento a località o siti di non sempre agevole
individuazione; tanto meno ho inteso approfondire i legami tra il defunto dux Hericus e dette
localizzazioni, tanto friulane che altrove dislocate. Sul 'planctus' per la morte del duca, cfr. C. G. Mor,
La Cultura Veneta cit., p. 236.
365) I primi due versi della prima strofa hanno probabilmente un sapore virgiliano e ricordano, in
effetti, i saxa Timavi di Ecl. 8, 6 (ed. Goold, p. 74) ed Aen. 1, 244-245 (et fontem superare Timavi,
92
lstris 366 Sausque367, Tissa, Culpa, Marua,
Natissa 368 , Corca 369, gurgites /sontii 370•
2. Hericum mihi dulce nomen plangite,
Sirmium, Pola, tellus Aquileiae,
Iulii Forus, Cormonis ruralia 371,
rupes Osopi 372, iuga Cenetensium 373,
Abtensis humus ploret et Albenganus 374•
3. Nec tu cessare, de cuius confinio
est oriundus, urbs dives Argentea,
lugere multo gravique cum gemitu!
civem famosum perdidisti nobile
germine natum claroque de sanguine.
lstro e Saus, Tissa, Culpa, Marna, Natisone,
Corea, gorghi dell'Isonzo.
Piangete con me Herico, dolce nome, città di
Sirmio, Pola, contrade di Aquileia, Forum
lulii (Cividale), campagne di Cormons,
rupi di Osoppo, contrafforti dei Cenedesi;
piange la terra Abtensis e l 'Albengana.
E non smettere di piangere con abbondante
e doloroso gemito, o ricca città Argentea,
dai cui dintorni era originario 375, hai perduto un cittadino famoso, nato da nobile ceppo di celebre sangue.
Iunde per ora novem vasto cum murmure montis; ed. Goelzer, p. 15); cfr. per questo anche C. Voltan,
Le fonti letterarie per la storia della Venetia et Histria /. Da Omero a Strabone, "MIV" 42, 1989, risp.
pp. 188 e 196. Sul Timavo cfr. H. Philipp, s.v. Timavus, RE VI A.I (1936), cc. 1242-1246.
366) Non credo che sia il Danubio: Paolino si riferisce evidentemente a corsi d'acqua più vicini alla
sua zona. Vd. però Plin. Naturalis Historia III, 127: aflumine Histro in Hadriam effluente e Danuvio
amne eodemque Histro exadversum Padi Fauces (citando Cornelio Nepote, Plinio parlava di una
fiume, Hister, che defluisce dal corso del Danubio, dà il nome alla penisola istriana e si getta
nell'Adriatico di fronte al Po). Negli Scholia Vergiliana Bernensia (ad Georg. III 475) si legge che
i 'campi del Timavo' si trovano sull'Istro (in /stra sunt). Per queste due fonti rinvio a C. Voltan, Le
fonti letterarie cit., risp. pp. 176-177 e 228-229.
367) Se non fosse la Sava, potremmo pensare ad un piccolo fiume chiamatoAlsa (o Aussa) che sbocca
poco più a est del Natisone. Cfr. H. Philipp, s.v. Natiso, RE XVI.2 (1935), cc. 1806-1810 (specificamente, ivi, la cartina).
368) La Tissa forse è il Theiss; la Culpa dovrebbe identificarsi tuttora con un fiume con questo nome;
la Marna è forse il Mur (cfr. la cartina pobblicata da H. Uhi, Das Noricum Ripense und die einseitigen
Beziehungen zu Norditalien cit., p. 307); per la Natissa (hod. Natisone) cfr. ancora H. Philipp, s.v.
Natiso cit. cc. 1806-181 O.
369) "Jetzt Gurk (slovenisch Krka)": cfr. Patsch, s.v. Corcoras, RE IV. I (1900), c. 1219.
370) È l'Isonzo; cfr. Fluss, s.v. Sontius, RE III A.I (1927), cc. 996-998.
371) Hod. Cividale del Friuli (Hericus era stato dux Foroiuliensis) e hod. Cormons.
372) Sembra quasi una reminiscenza venanziana, dall'appena vista Vita Sancti Martini IV 654 (per
rupes, Osope, tuas).
373) Anche qui si sente forse un rinvio venanziano (al verso citato della Vita Sancti Martini IV 668:
per Cenitam gradiens, introdotto dal riferimento ai submontana castella). L'apparato all'edizione
paoliniana, p. 131, a 2, 4, reca anche l'ennesima variante dei codici su Ceneda: Cetenensium.
374) Che si tratti di Asti e di Albenga? Resta oscuro il rapporto con le altre località e gli altri siti citati.
375)Argentea urbs è l'attuale Strasburgo (cfr. anche l'indice del!' ed. paoliniana, p. 640): infatti il duca
Erico, originario di quella città, era stato preposto al Friuli tra il 79 l e il 799, dopo aver vissuto in
precedenza alcuni anni alla corte di Carlo Magno ed avervi conosciuto e frequentato Paolino, allora
magister artis grammaticae presso la medesima corte (cfr. N. Roman, Notizie intorno al Castello
Patriarcale di Sacile (sec. X-XV), in in "Atti del 3° Convegno. Castelli tra Piave e Livenza" cit., spec.
pp. 95-96).
93
Abbreviazioni ed espressioni particolari:
a., aa.
"AAAd"
AA.VV.
a.e.
A.D.
"Aevum"
agg.
"AIV"
al.
apud
"ArchMKge"
"ArchMur"
"ArchStBFC"
an.
"ASNP"
"AttiMemistria"
austras.
"AVen"
B.C.
"Byzantion"
"ByzSlav"
c., cc.
ca., c.
c.d.
chap.
CSHB
CFHB
cfr.
cit.
cur., curr.
DBI
d.C.
d.h.
DHGE
doc.
"DOP"
ead.
ed. (éd.), edd.
ep. epp.
ex.
fase.
"Il Flaminio"
"FMS"
fr., frr.
94
anno (annum), anni (anni, annos)
"Antichità Altoadriatiche" - Udine
autori vari
avanti Cristo
anno domini
"Aevum" - Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche - Milano
aggettivo
"Atti dell'Istituto Veneto" - Venezia
a/ii (altri)
presso
"Archiv fiir mittelrheinischen Kirchengeschichte"
"Archivio Muratoriano" - Studi e ricerche in servizio della Nuova Edizione
dei Rerum Italicarum Scriptores - Bologna
"Archivio Storico di Belluno Feltre Cadore" - Belluno
anastatica
"Annali della Scuola Normale Superiore" - Pisa
"Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria"
austrasica, austrasicae
"Archeologia Veneta"
before Christ (avanti Cristo)
"Byzantion" - Revue intemationale des études byzantines - Bruxelles
"Byzantinoslavica" - Revue intemationale des études byzantines - Praha
colonna, colonne
circa
cosiddetto
chapter (capitolo)
Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae - series Bonnensis
Corpus Fontium Historiae Byzantinae - series Berolinensis
confronta
citato, citata
curatore, curatori
Dizionario Biografico degli Italiani - Roma 1960-ss.
dopo Cristo
dass heisst (cioè)
Dictionnaire d'Histoire et de Géographie Ecclésiastiques - Paris
documento
"Dumbarton Oaks Papers" - Washington
eadem (la stessa [autrice])
edizione, editore (éditeur), editori
epistola (epistula ), epistole (epistulae)
exeunte (uscente; alla fine)
fascicolo
"Il Flaminio" - Rivista di Studi della Comunità Montana delle Prealpi
Trevigiane - Vittorio Veneto
"Friihmittelalterliche Stusien" Jahrbuch des Instituts fiir
Friihmittelalterforschung der Universitiit Miinster - Berlin
frammento, frammenti
gen.
"GIF"
"HJ"
hod.
"HZ"
ibid.
id.
in.
ind.
infra
ingl.
it.
lett.
lib.
Mass.
MGHAA
MGHEE
MGHGPR
MGHPLAeK
MGH SS. rer. Ger.
MGH SS. rer. Mer.
MGH SS. rer. Lang.
"MIV"
n.,nn.
"NA"
"NAV"
nr.
op.
"PBA"
p.c.
PLRE
praef.
"Prometheus"
"QGrig"
"QM"
p.,pp.
part.
passim
PG
PL
PLRE
publ.,pubbl.
RE
RE Supplbd.
r., rr.
generale
"Giornale Italiano di Filologia" - Rivista Trimestrale di Cultura - Roma
"Historisches Jahrbuch" - Miinchen
hodie (oggi, odierno, odierna)
"Historische Zeitschrift" - Miinchen
ibidem (lo stesso [passo])
idem (lo stesso [autore])
inizio
indictio (indizione)
in seguito, successivamente
inglese
italiano, italiana
letteralmente
libro
Massachusetts (U.S.A.)
Monumenta Germaniae Historica. Auctores Antiquissimi
Monumenta Germaniae Historica. Epistulae
Monumenta Germaniae Historica. Gestorum Pontificum Romanorum
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Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum Langobardicarum et
Italicarum saec. VI-IX
"Memorie dell'Istituto Veneto - Classe di Scienze Morali, Lettere e Arti"
nota, note
"Neues Archiv der Gesellschaft fiir altere deutsche Geschichtskunde"
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numero
opera
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post consulatum (dopo il consolato di)
Prosopogrphy of the Later Roman Empire (The)
praefatio (prefazione)
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"Quaderni Medievali" - Bari
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particolarmente
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Patrologiae Cursus Completus - Series Latina
The Prosopography of the Later Roman Empire
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Paulys Real-Encyc/opiidie, Supplementband (volume di supplemento)
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"SBN"
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spec.
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supra
"SV"
s.v., s.vv.
t., tt.
tr., trad.
"Traditio"
V., VV.
"Viator"
vd.
voi., voli.
"ZGO"
"ZRG-KA"
96
recensuit/recenserunt (curò/curarono l'edizione)
reprint (ristampa)
"Rivista Italiana di Filologia e Istruzione Classica" - Torino
"Revue d'histoire de l'Eglise de France"
rispettivamente
ristampa
"Romanobarbarica" - Roma
"Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici" - Roma
"Rivista di Studi Bizantini e Slavi" - Bologna
"Rivista Storica Italiana" - Napoli
seguente, seguenti
"Studi Bizantini e Neoellenici" - Roma
"Storia della Città" Rivista internaz. di storia urbana e territoriale Milano
"Studia et Documenta Historiae et luris" Romae Pontific. Univ. Lateranensis
sostantivo
specialmente
"Speculum" A Journal ofMedieval Studies - Cambridge (Mass.)
"Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo"
Spoleto
"Studi Medievali" - Spoleto
in precedenza
"Studi Veneziani" - Venezia
sub voce, sub vocibus (alla voce, alle voci)
tomo, tomi
traduzione
"Traditio" Studies in Ancient and Medieval History, Thought and Religion
-New York
verso, versi
"Viator" - Medieval and Renaissance Studies - Berkeley (California-USA)
vedi
volume, volumi
"Zeitschrift fiir die Geschichte des Oberrheins"
"Zeitschrift fiir der Savigny-Stiftung fiir Rechtsgeschichte (Kanonistische
Abteilung)" - Graz
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Berlin 1898, repr. Miinchen 1981, pp. 223-354 (comprende anche Chronica Minora,
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Epistolae Arelatenses, ed. W. Gundlach, in MGH EE, t. III, pars I, pp. 1-83
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99
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I testi preceduti da una lineetta ('-') sono stati utilizzati direttamente per questo lavoro; i pochi
preceduti da un asterisco ('* ') sono stati citati per completezza espositiva, in quanto di essi si era
inteso soltanto far memoria nelle note; la lineetta lunga ('---')
indica il richiamo del nome
dell'ultimo autore
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- Vasiliev A.A., Histoire de /'Empire Byzantin, Paris 1932, I
* Viansino G., Agazia Scolastico. Epigrammi, Milano 1967
- Voltan Clizia, Le fonti letterarie per la storia della Venetia et Histria I. Da Omero a Strabone,
"MIV" 42, 1989
109
* Vulcanio Bonaventura, Agathiae Scholastici, De imperio et rebus gestis Justiniani Imperatoria
libri quinque. Ex Bibliotheca et interpretatione Bonaventurae Vulcanii, cum notis eiusdem .
Accesserunt eiusdem Agathiae epigrammata, cum versione Latina. Venetiis. Ex typographia
Bartholomaei Javarina MDCC.XXIX
w
- Wallace-Hadrill J.M., The Barbarian West. 400-1000, 1957, tr. it. L'Occidente Barbarico. 4001000, Milano 1963
- Woodword E.L., Christianity and Nationalism in the Later Roman Empire, London 1916
z
-Zamboni A. Toponomastica e storia religiosa fino al IX secolo, in "Le origini del Cristianesimo
tra Piave e Livenza" cit., pp. 43-78
- Zanella A. (cur. ), Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Milano l 99Y
Ringraziamenti
Desidero esprimere la mia gratitudine al personale della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia
e a quello della Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto (Ceneda) per la cortese assistenza che mi
hanno costantemente prestato nel corso della ricerca.
Desidero altresì ringraziare le Istituzioni di seguito citate, che hanno collaborato con la massima
competenza e sollecitudine reperendo e fornendomi testi, riproduzioni di saggi e articoli, senza
l'apporto dei quali non sarebbe stato nemmeno pensabile questo lavoro:
- Biblioteca del Dipartimento di Italianistica e Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e
Medievale dell'Università degli Studi di Bologna
- Biblioteca della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Cagliari
- Univesritiitsbibliotek Erlangen-Niirnberg
- Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza
- Deutsche Bibliothek - Frankfurt am Main
- Biblioteca dell'Istituto di Filologia Classica - Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli
Studi di Macerata
- Biblioteca Estense Universitaria - Università degli Studi di Modena
- Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa
- Biblioteca della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università di Bologna - sede di
Ravenna
- Biblioteca Nazionale Universitaria - Torino
Sono state complessivamente utilizzate un'ottantina di edizioni di altrettante fonti antichetardoantiche
o medievali (considerate anche più edizioni per la stessa fonte); una sessantina di volumi di storia,
economia o letteratura; circa centoventi tra saggi e articoli, compresa una Tesi di laurea; più di settanta
voci dai più autorevoli Dizionari, dalla RE, dalle PLRE, dai Thesauri ecc.
Sono stati visitati inoltre i siti Internet di diverse Biblioteche italiane e straniere, quello dell'Istituto
Centrale per il Catalogo Unico oltre al fondamentale sito per la ricerca dell'allocazione dei periodici
nelle biblioteche italiane.
In alcuni casi, disperati e non, il motore di ricerca Google si è rivelato di estrema e sorprendente
efficienza e raffinatezza.
In ogni caso l'intera responsabilità del lavoro e degli eventuali errori è, e resta, esclusivamente mia.
110
Vincenzo Ruzza
SULLA "VEXATA QUESTIO" DELL'INIZIO DELLA CHIESA CENEDESE.
APPUNTI E CONSIDERAZIONI.
PREMESSA
La recente pubblicazione dell'opera "Mille anni di scultura e di ornati lapidei
nel/' area ducale cenedese, dal IV al XIV secolo" di Antonio Moret, mi ha dato lo
spunto per riprendere in esame un problema molte volte discusso, mai approfondito, e cioè quello delle origini della chiesa cenedese e del suo episcopato.
Sull'argomento non è che siano mancati gli interventi da parte di studiosi e
di cultori di storia locale, i quali hanno valutato aspetti generali e singoli della
"vexata questio" con disparate argomentazioni ed altrettante diverse opinioni.
Sostanzialmente gli argomenti e relative conclusioni si possono riassumere
in due sole posizioni, nettamente distinte.
Alcuni ritengono di far risalire l'inizio della diocesi al VI o, al più, al VII sec ..
Altri sostengono che l'origine va differita al sec. VIII, e, precisamente,
all'anno 713.
Personalmente ho sempre ritenuto valida la prima ipotesi, avvalorata in questi
ultimi anni dalla pubblicazione degli antichi reperti scultorei provenienti dall'antica Cattedrale cenedese, dedicata a Maria Assunta e, solo in un secondo tempo, a
Maria Assunta e S. Tiziano compatrono.
Pertanto ho cercato di riunire e rivedere le argomentazioni e le ipotesi finora
avanzate a sostegno e giustificazione della maggior antichità della diocesi.
1 - L'ANTICHITÀ DELLE DIOCESI DEL VENETO
La storiografia della prima metà del XX secolo, basandosi esclusivamente
sulla documentazione scritta, rigettando completamente le memorie locali e senza
esaminare gli apporti archeologici, aveva negato l'antichità delle prime istituzioni
111
vescovili del Veneto, posticipandole di alcuni secoli rispetto alle antiche tradizioni.
Invece, varie testimonianze, gli scavi effettuati e documenti successivamente
acclarati hanno smentito in parte tali presupposti, dimostrando la loro non veridicità
ed obbligando ad una rilettura generale del problema.
Attualmente, per lo più, si ritiene che S. Ermagora sia vissuto verso l'anno
250, epoca in cui si formarono le prime comunità cristiane nel Veneto orientale.
Negli stessi anni Euproprio è vescovo di Verona. Tra il 250 e il 313 S.Felice
Fortunato è vescovo di Aquileia. Verso il 350 esiste anche la diocesi di Padova.
Nel 381 al Concilio di Aquileia sono presenti i vescovi di Aquileia, Concordia, Altino e Padova. (I) L'esistenza della diocesi di Concordia è confermata nel 389,
anno in cui S. Ambrogio tenne l'omelia per l'inaugurazione della Cattedrale.<2l
Nel contempo ad Altino è vescovo Eliodoro (testimoniato da S. Girolamo).
Gli storici ritengono che nel V sec. siano sorte le diocesi di Treviso, Belluno
e Vicenza. Nel 418 e nel 421 a Oderzo sembra sia vescovo Epone o Epodio.
Nel VI sec. sono documentate le diocesi di Feltre, Asolo, Zuglio Carnico,
Pola, Parenzo, Trieste, Sabbiona (Seben, poi Brixen).
Non esistono prove documentali che la diocesi di Ceneda sia sorta prima
dell'VIII secolo, ma molti indizi inducono ad una rilettura di tale datazione.
E' vero che gli indizi non sono prove. Ma quando gli indizi non sono sporadici
ma una lunga serie, credo debbano esser presi in attenta considerazione.(3>
Ed è ciò che mi accingo a fare, ben consapevole che non è facile esprimere
opinioni contro corrente, o contro alcune incrostazioni storiche inveterate nel
tempo ed entrate supinamente ed acriticamente nella mentalità usuale, opinioni
accettate o avvalorate anche da alcuni illustri storici.
Non tutto quello che esporrò sarà ritenuto valido, ma molta parte si.
E se il lettore vorrà spogliarsi di preconcetti e di posizioni ritenute assiomatiche,
dovrà riconoscere una loro sostanziale validità.
2 - S. EVENZIO.
Il Concilio di Aquileia fu promosso nell'anno 381 dal vescovo di Aquileia
San Valeriano. (Alcuni storici ne pongono in dubbio l'esistenza). Vi parteciparono
gli imperatori Graziano e Valeriano nonchè S. Ambrogio vescovo di Milano.
V'intervennero i vescovi di Aquileia, Lubiana, Altino, Trento, Concordia,
1) S.Tramontin in "Le origini della diocesi di Ceneda ... "I 0 , p. 27-28.
2) Mario Pressin La diocesi di Concordia-Pordenone. Vicenza,LIEF,1980, p.29-30.
3) Un vecchio detto popolare veneziano dice, in parole povere, che un indizio non fa testo, che due
indizi portano a riflettere; tre indizi a sospettare; quattro a incriminare; cinque a condannare.
112
Ravenna, Brescia, Milano, Parenzo, Padova, Verona, oltre il contestato Evenzio.
Nelle note al Martirologio Romano, il Baronia ascrive S. Evenzio a Ceneda
(8 febbraio) e ciò in base all'edizione delle opere di S. Ambrogio (edite a Roma nel
1585) in cui (Libro I 0 , lett. VIII, p.147), si riporta la Sinodica di Papa Siricio.
·
Tra le varie sottoscrizioni si legge: "Ego Eventius Ep(iscop)us Cenetensis
saluto sanctitatem tuam" _(Il
Alcuni storici però, anzichè Cenetensis, leggono Citiniensis o Tiniensis.
La lettura "Ceneda" fu sostenuta dal Baronia, dal Lioni, dal Cardinal Noris
Pietro Constant, da J. Bernardi, ecc. Anche l'Epistola Sinodica di S.Ambrogio a
Papa Siricio induce a favore della lezione "Ceneda".
Intesero Pavia il Lotti, Padre Arduino ed altri. Il Baronia, che in un primo
tempo sostenne la lezione "Pavia", poi si ricredette e optò per "Ceneda".
Il nome "Ceneda" è stato frequentemente storpiato nei documenti tardo
imperiali ed altomedievali perchè Ceneda era una città ancor poco conosciuta.
È più difficile pensare alla corruzione del nome Ticinum perchè detta città era
molto importante e ben nota anche agli amanuensi meno eruditi.<2l
Inoltre è da rilevare che Pavia non annovera nelle sue cronotassi episcopali
un vescovo di nome Evenzio vissuto in questo periodo, ma venera un San Evenzio,
vissuto, peraltro, in epoca molto diversa. La questione rimane insoluta. Ma non si
può escludere a priori che S. Evenzio possa esser stato il primo vescovo di Ceneda.
Ipotesi che, se trovasse conferma, farebbe retrodatare di molto il sorgere della
diocesi cenedese.
3 - IL DIACONO ANIANO
Il diacono Aniano fu un sostenitore delle proposizioni teologiche di Pelagio,
teorie condannate come eretiche nel Sinodo di Diospoli nel dicembre del 415.
Buon conoscitore delle lingue greca e latina, scrittore elegante e forbito (per
i suoi tempi) Aniano continuò, anche dopo il Sinodo predetto, a sostenere le
concezioni pelagiane, in opposizione a S. Girolamo e a S. Agostino.
Tradusse diverse omelie di S. Girolamo e gli vengono attribuite molte
versioni degli scritti di S.Crisostomo, alcune delle quali vennero recepite nell'antico breviario romano.
Per contro, San Girolamo dichiarò di non degnarsi di confutare le asserzioni
dello "pseudo diacono della chiesa Celedese", ossia di Ceneda (come interpretaro-
1) J.Bemardi in "Almanacco diocesano per l'anno bisestile 1840". p.25-27 - J.Rossi, L'Indicatore
della città di Vittorio. p. 72.
2) Anche assai più tardi, nell'atto di cessione in affitto del porto di Settimo al doge Pietro Orseolo (anno
997) sta scritto: "Sicardus episcopus Tenicensis ecci." !
113
no il Baronio, il Mondini e il Lotti), mentre A. Vacant ed E. Mangenot opinarono
trattarsi non di Cèneda ma di Celenna, cittadina della Campania. 0 >
A parte il fatto che Celenna nel V sec. risulta già distrutta, non esiste alcuna
prova che Celenna sia mai stata sede di diocesi. Coloro che non accettano la lezione
"Ceneda" lo fanno in base al presupposto, meglio al pregiudizio, che non si possa
far risalire l'esistenza di una chiesa a Ceneda ali' inizio del sec. V.
A favore della lettura "Ceneda" sta inoltre il fatto che in questo periodo
vengono documentate infiltrazioni dell'eresia pelagiana ad Aquileia (e quindi
anche nel Veneto orientale) mentre nulla fa supporre l'esistenza di analoghe
infiltrazioni eterodosse nella Campania, all'inizio del V sec ..
Anche in questo caso l'incertezza rimane e difficilmente potrà venir risolta.
Ma non è da scartarsi a priori che nel sec. V a Ceneda vi fosse già una chiesa
abbastanza fiorente.
4 - CENEDA FU MUNICIPIO ROMANO?
I sosteniori della tesi che il territorio cenedese facesse parte del Municipio di
Oderzo si basano sui seguenti punti:
1) Tra Piave e Tagliamento Plinio non ricorda altre città. Perciò tutta la
pianura veneta compresa tra i due fiumi doveva far parte dell'agro opitergino.
2) Le sorgenti del Livenza e i sovrastanti monti visibili da Oderzo sono da
Plinio chiamati monti opitergini.
Sul I 0 punto: La non menzione di Plinio non è probante. Infatti non viene
menzionata neppure Treviso, città che gli scavi hanno assodato esser stata Municipio Romano, con tutte le relative magistrature. Probabilmente altre città minori
non sono state da lui ricordate nella sua succinta descrizione.
Sul II 0 punto: I monti eh' egli poteva scorgere da Oderzo come avrebbe potuto
chiamarli se non "montes opitergini"? La dizione pliniana non prova che il territorio
(l'agro) di Oderzo arrivasse fino ai monti che si vedevano da lontano nelle giornate
limpide. Dimostra solo che i monti predetti erano visibili da Oderzo, come lo sono
ancor oggi, e che le sorgenti del Livenza sono site ai loro piedi.
Invece è da notare che Plinio distingue il basso dall'alto Veneto, quindi tra le
due zone doveva esserci già una netta separazione.
Nessuno contesta che nel I e II sec. l'influenza del mercato (non l'agro) di
Oderzo possa essersi esteso sulla pianura tra Piave e Livenza, ed anche oltre il
Livenza.
Sappiamo però che tra il II e il III sec., in concomitanza con le prime invasioni
1) Vacant A.- Mangenot E. "Dictionnaire de Theologie Catholique", Paris,1909.
114
barbariche, Ceneda incominciò ad ingrandirsi, dapprima quale presidio militare e
in seguito quale piazzaforte, sottraendosi sempre più all'influenza opitergina.
"L'insediamento longobardo, ... a mano a mano che la marcia procedeva,
avvenne secondo un piano prestabilito, giacchè i Ducati vennero a coincidere.
nella maggioranza dei casi. con i territori dei Municipi romani". (I)
Anche questa considerazione fa pensare che, nel tardo impero, Ceneda
potesse esser già un vero e proprio "Municipium" indipendente da Oderzo.
Tale convincimento è supportato inoltre da un'altra considerazione: molti
storici opinano che l'antico Opitergium fosse ascritto alla Tribù Papiria. Invece
mons. A. Moret riferisce che, in base a reperti archeologici recentemente venuti in
luce, Ceneda è senz'altro da ascriversi alla Tribù Claudia.
Anche gli storici dei secoli scorsi ritennero Ceneda "Municipium" indipendente da Oderzo (Filiasi, Galliccioli, Dandolo, Cellario,<2l ecc.). Più recentemente
ne furono convinti gli storici locali Carlo Graziani e Francesco Troyer.
Altri storici sono invece propensi a credere che Ceneda facesse parte del
territorio opitergino, attribuendo un valore estensivo alle citazioni pliniane.
5 - GIOVANNI GRUTERO
Jani Gruter o Gruytère fu un celebre filologo tedesco (1560-1627) che
trascrisse fedelmente centinaia di lapidi della Repubblica e dell' Impero romano e
le pubblicò nell'opera monumentale "Inscriptiones Antiquae totius orbis romani".(3)
In detta opera, (a p.228, n.VIII, ed.1601) riporta il testo di una lapide del 1°
sec. che contiene l'inciso:" ... DECURIONES ET POP. CENET .... ", inciso che lo
stesso Grutero intese, senz'ombra di dubbio, per "Cenetenses" o "Cenetensis".
La lettura "CENET." fu poi confermata sia dal Cellario<4> sia dal card. Noris.
Francesco Scipione Maffei, due secoli dopo, nel suo libro "Verona illustrata",
nel riportare il testo della lapide, sostenne - conformandosi ad un parere espresso
dal Mazzocchi - che non CENET. ma solo CEN. dovesse leggersi.
In conseguenza mise in dubbio che si trattasse di Ceneda. Sulla sua scia altri
studiosi ritennero di interpretare il "CEN." nelle forme più impensate.
Coloro che non volevano ammettere che Ceneda sia stata un Municipio
1) P.S. Leicht "Breve storia del Friuli", V ed. riveduta da C.G.Mor-Tolmezzo,1977, p.61.
2) Cellario "Geografia antica" libro II, c.9: "Oppidum Cenetae situm ... inter Plavem et Liquentiam,
Municipium antiquum ..." - Gli storici antichi non indicano la fonte di tale loro convinzione. Non si
può escludere però che disponessero di documentazione a noi non pervenuta.
3) Eidelbergae, ex officina Comelliana, 1596, ristampata nel 1601-03 e ancora nel 1707.
4) Cellario in "Notitia Orbis Antiqui", Lipsia, vol.I 0 , p.700.
115
romano si schierarono con il Maffei e non vollero credere al Grutero, studioso
invece degno della massima stima. Infatti il Grutero fu un filologo eruditissimo e
molto scrupoloso per cui non è pensabile che abbia trascritto quello che non aveva
effettivamente visto, nè che si sia inventata la lezione pubblicata.
Può darsi - ma questa è una mia supposizione personale tutta da verificare che la lapide sia stata, nel corso degli anni, sbrecciata a fine riga, per cui le due
ultime lettere siano state abrase. Sorge anche il dubbio che nessuno si sia preso la
briga di rintracciare la lapide per verificarne il testo.
6 - L'AGRO CENTURIATO OPITERGINO
L'agro primitivo di Oderzo doveva estendersi tra Oderzo e il mare per
evidenti motivi commerciali, in quanto Opitergium era un porto accessibile ai
natanti dell'epoca e viveva sull'interscambio con l'immediato retroterra.
La centuriazione più antica si es teneva quindi tra Livenza e Piave-Sile (allora
riuniti in un unico corso, molto spostato fino ad Altino e Treviso) collocazione
confermata dai recenti rilievi aerei che hanno permesso l'individuazione degli agri
centuriati e gli alvei fluviali paleoveneti. Quella più recente (e cioè il territorio
ampliato da Cesare di 300 centurie) si estese pure tra Piave e Livenza, ma nella zona
a nord di Oderzo, all'incirca fino alla linea delle risorgive, zona su cui esistevano
immense ed impenetrabili foreste (la foresta Fetontea, poi Capulana).
Supporre che la nuova centuriazione arrivasse fino a Ceneda e comprendesse
tutto l'alto cenedese, comporterebbe un ampliamento di gran lunga superiore alle
misure indicate. Una centuria era infatti composta da 200 iugeri, equivalente a circa
50 ettari, cioè mezzo Kmq. Per cui l'ampliamento dell'agro opitergino disposto da
Cesare in 300 centurie fu di circa 150 Kmq.
Poichè allora il Piave-Sile scorreva a ridosso di Treviso e di Altino, ne
consegue che la distanza tra la Livenza e il Piave, misurata all'altezza di Oderzo,
era allora di oltre 20 Km. Perciò il territorio opitergino fu esteso da Cesare verso
nord in media di 7-8 Km.
L'ampliamento rimase quindi al di sotto della zona delle risorgive, linea che
ha sempre segnato un netto limite tra la pianura veneta molle e quella asciutta.
Portare il confine dell'agro opitergino fino allo spartiacque con la V albelluna
è una mistificazione storica in quanto verrebbe a comprendere una zona almeno 8
volte maggiore di quella indicata in 300 centurie.
È inoltre da considerare che Ceneda ebbe una sua centuriazione, certamente
non identificabile con quella di Oderzo. Ed è una centuriazione che si estendeva a
nord della linea delle risorgive. Quindi ben distinta da quella opitergina.O>
I) A.Vita! "Tracce di romanità nel territorio di Conegliano - L. Marson "Romanità dell'Agro
cenedese"
116
Detta centuriazione ha inoltre Ceneda quale "caput" del suo Cardo Massimo.
Sembra inoltre che le centuriazioni siano state realizzate solo in corrispondenza dei Municipi e Colonie romane. Tale asserzione è condivisa da molti eruditi.
Oderzo, dopo le distruzioni operate dagli Alemanni (circa nel 261) e dai
Marcomanni (276) aveva perso gran parte della sua importanza. Si può pensare ad
una lenta ripresa, non certo ad un ritorno al precedente spendore.
Un'ulteriore perdita di prestigio la subì nel 404-406 a seguito dell' invasione
degli Ostrogoti di Radagaiso e poi nel 406-41 Ocon quella dei Visigoti, guidati da
Alarico.
Nel 434 fu la volta dei Vandali e infine Attila la distrusse del tutto nel 452,
costringendo la residua popolazione a trovare rifugio nelle lagune.
Teodorico poi ne favorì una modesta restaurazione a fini militari.
Nel tardo impero Ceneda non è mai citata in unione ad Oderzo, ma sempre
collegata con Belluno e Feltre, con le quali costituì un sistema organico, "un
triangolo fortificato difensivo", coordinato contro le invasioni barbariche dal
Norico.<2>
In tale sistema difensivo si inserì poi il "Chasteum Teodorici" eretto durante
il dominio dei Goti.<3>Nel 547 Teodeberto e Teodobaldo, capitribù franchi,
fortificarono ulteriormente Ceneda in contrapposto al castello bizantino di Oderzo.
La lunga guerra gotica, dopo alterne vicende, portò i bizantini ad occupare la
parte inferiore della pianura veneta e ad istituire a Oderzo un presidio militare a
difesa delle lagune costiere, alle quali avevano facile accesso data la loro netta
supremazia navale.
Perciò ritengo che i Franchi siano rimasti padroni di Ceneda e della parte alta
della pianura veneta fino all'arrivo dei Longobardi. <4>
2) A.Bevilacqua Lazise "Il triangolo strategico bellunese ...", in La Gazzetta di Venezia, 1911, 2
agosto. Inoltre" Alcuni frammenti d' archittura ravennate nel bellunese" Estr. da "Arte e Storia" 1911,
n.l,gennaio.- C.Fassetta "Storia popolare di Ceneda" p.35, ed altri storici,
L'unione di Ceneda con Feltre e Belluno non fu un episodio sporadico ma una costante protrattasi per
alcuni secoli: la si riscontra ancora nel 730 circa quando i tre popoli si unirono per portare soccorso
agli abitanti di Jesolo, in guerra contro Eraclea. (J.Bernardi, "La civica aula ..." p. 105-106).
3) L .. Marson, "Guida di Vittorio e suo distretto", parte.II, p.14-15.
4) "Il governo bizantino. quando consolidò la riconquista della penisola, delle provincie del nord riuscì
a ricuperare soltanto pochi frammenti nel territorio ligure e in quello veneto.". Così afferma Roberto
Cessi in "Le origini del Ducato Veneziano", p.1.
117
7 - L'OCCUPAZIONE FRANCA - CENEDA È GIÀ CITTÀ
Agathia, storico del VI sec. nel citare Ceneda dice "és Kenesà tén po/in èavton
tote basiléiam". E "Polis" significa città fortificata, con la sua acropoli.
Quindi Ceneda ancor prima dell'arrivo dei Longobardi, è una vera città.O)
Già sotto il breve dominio dei Franchi si constata la separazione politica di
Ceneda - e della zona tra Piave e Livenza al di sopra della zona delle risorgive - da
Oderzo rimasta in mano ai bizantini. Ma la separazione era probabilmente avvenuta
già prima, sotto il regno gotico.
La zona delle risorgive, coperta da una grande foresta, venne così a segnare
il nuovo limite o confine tra la città di Ceneda e quello che restava di Oderzo, già
più volte distrutta. Confine incerto perchè non segnato sul terreno - e nemmeno
definito da alcun trattato - ma sostanzialmente rispettato in quanto i due confinanti
non avevano alcun motivo o interesse per violarlo.
Oderzo non più risorse all'antico splendore, ma rimase un modesto castello
fortificato dai bizantini a presidio della zona costiera e della navigazione fluviale
del basso Veneto.
Risorse quindi con connotazioni militari, non più come grande emporio
commerciale.
Ne conseguì necessariamente anche la separazione di fatto, (ma forse esisteva
già) tra le due chiese di Oderzo e di Ceneda.
8 - CENEDA BIZANTINA?
La supposta presenza bizantina in Ceneda dopo la fine della guerra gotica e
prima dell'invasione longobarda - ventilata da alcuni scrittori - è assai discutibile
se non addirittura poco probabile. Essa si basa principalmente sull'esistenza di
alcuni edifici che riflettono tipologie edilizie tipiche dei bizantini.
Ciò non prova nulla, in quanto sia i franchi-baiuari, sia i longobardi, non
disponevano di proprie maestranze edili e nelle tecniche costruttive erano di gran
lunga inferiori ai popoli assoggettati. Furono perciò costretti ad impiegare muratori
e scalpellini locali, formatisi alla più evoluta scuola bizantina, operai allora molto
quotati in tutto il Veneto.
Ammesso, per ipotesi, che i bizantini avessero in precedenza occupato
Ceneda con le sue fortificazioni, bisognerebbe conseguentemente ammettere:
- Che i Longobardi, allorchè partirono dal Friuli per conquistare l'Italia, siano
stati così ingenui da incunearsi avventatamente (con una lunghissima colonna di
carri, e quindi in una situazione di grande pericolo) tra le truppe bizantine stanziate
1) Carlo Guido Mor in "Le origini del Cristianesimo tra Piave e Livenza", p.12-13
118
a Ceneda e quelle del presidio opitergino, rischiando di venir assaliti contemporaneamente da entrambi i lati. Erano barbari, ma militarmente abbastanza scaltri per
evitare così grossolani errori.
- Oppure che le truppe imperiali siano state, così poco avvedute da abbandonare l'importantissimo campo trincerato di Ceneda, da poco conquistato, rinunciando a difenderlo, come suggerisce ogni più elementare norma di strategia
militare. A meno che vi abbiano rinunciato a causa della loro estrema debolezza
militare.<0
Invece è assodato che Alboino conquistò Ceneda senza trovare alcuna
resistenza da parte dei bizantini, perchè evidentemente questi non la possedevano.
I Franchi che la occupavano si ritrassero spontaneamente verso nord, sia per
un tacito accordo con Alboino (il quale era in ottimi rapporti con loro avendo
sposato Clotsuinda, figlia del re Clotario ), sia perchè - avendo essi mutato la loro
politica di espansione e rinunciato all'idea di impossessarsi dell'Italia - stavano
espandendosi ulteriormente nella Gallia meridionale.
Le loro tribù ausiliarie (i Baiuari), che occupavano l'Alta Italia, furono
pertanto richiamate a presidiare la Baviera, per non lasciarla esposta all'invasione
di altre tribù (gli Avari) e coprirsi così le spalle ad oriente. Per tali ragioni i Franchi
abbandonarono lentamente i territori cisalpini, ritirandosi in quelli transalpini.
Di diverso avviso è invece Giorgio Arnosti che nel pregevole studio "Lo
scisma tricapitolino e l'origine della chiesa cenedese", apparso sulla rivista "Il
Flaminio" (n.11, pag.62) sostiene che Narsete avrebbe liberato anche tutto l'alto
Veneto fino al Norico. Dice infatti: "Narsete riporta i confini della Prefettura
Italica fino al Norico a scapito dei Franchi e riconducendo le tre diocesi dell'alta
valle della Drava e del Gai/ alla giurisdizione metropolitica scismatica di Aquileia".
L'autore non indica la fonte dalla quale ha attinto la notizia.
Ciò impedisce di esaminare la sua autorevolezza o fondatezza.
L'asserzione comunque è difficile a credersi perchè manca ogni notizia
storica che Narsete sia entrato in lotta nel 564 contro i Franchi e che abbia esteso
la riconquista dell'Italia oltre lo spartiacque alpino occupando perfino il Norico. Ed
è ancor meno credibile che abbia portato una così grave offesa al suo imperatore
trasferendo tre diocesi cattoliche del Norico alla giurisdizione della scismatica
Aquileia, eh' era ribelle o almeno ostile all'imperatore. Non va dimenticato che lo
scisma dei Tre Capitoli sorse proprio a causa del categorico rifiuto aquileiese di
recepire alcune proposizioni teologiche approvate dal V Concilio Ecumenico,
concilio promosso dall'imperatore e da lui presieduto. Sarebbe stato un atto
gravissimo di insubordinazione!
1) Ciò sarebbe in netto contrasto con l'asserita espansione di Narsete a danno dei Franchi.
119
9 - SUGLI INIZI DELLA CHIESA CENEDESE
Si può pensare ad una chiesa cenedese rimasta acefala per due o tre secoli?
Io non lo credo assolutamente possibile.
Tra i Franchi (che avevano aiutato i Goti contro i Bizantini, anche se in modo
infido, mirando più che altro a depredare per conto proprio) e gli imperiali non
esisteva certamente una intesa cordiale tale da consentire al vescovo di Oderzo di
reggere e visitare le chiese e le popolazioni site in territorio nemico.
In mancanza di notizie certe è lecito supporre che in Ceneda vi fosse, in un
primo tempo, almeno un coroepiscopo che svolgesse le funzioni vescovili per
delega avuta dal metropolita di Aquileia o, molto più probabilmente, un vescovo
designato ed eletto dal popolo e dal clero cenedese.
Infatti la chiesa esistente in una città non poteva allora (V-VI sec:) vivere
senza un capo, un Vescovo. Se non c'era, il popolo lo eleggeva.
In quest'epoca "i Vescovi non sono dei religiosi di carriera, non appartengono
al clero militante, non ricevono l'investitura da superiori autorità ecclesiastiche,
sono invece degli eletti, acclamati dal popolo e dal clero della circoscrizione cui
dovranno presiedere (quella che si dirà la diocesi ma che ora si dice semplicemente
la parrocchia) e tra quel popolo figurano anche, e talora pesano duramente nella
scelta, i Grandi del luogo ... Tuttavia, appena eletti, essi recidono i vincoli più saldi
che li legavano al mondo, lasciano la famiglia, i.figli, percorrono in una sola volta
la serie degli ordini religiosi e si dedicano alla vita ecclesiastica ..." 0 >
Gli obiettori più oltranzisti possono addirittura avanzare il dubbio che a
Ceneda non vi fosse una chiesa consistente ed organizzata verso la metà del VI
secolo. Ma credo che tale asserzione non possa assolutamente reggere.
· In quest'epoca Ceneda è la maggior città tra Piave e Livenza, tanto che i
Franchi vi si rifugiano "in toto securi" e poco dopo Alboino la creerà sede di ducato.
Anche Carlo Fassetta ammette "che nella prima metà del 500 Ceneda fosse
parrocchia o pieve".
E' un non senso pensare che a Ceneda non fosse già sorta una chiesa, tanto
più se si ammette che Belluno e Feltre fossero sedi vescovili da ben oltre un secolo.
E' concepibile che il cristianesimo da Aquileia si sia diffuso nel bellunese e
nel feltrino "saltando" Ceneda, per la quale gli evangelizzatori provenienti da
Aquileia furono costretti materialmente a passare? E' pensabile l'esistenza di una
zona di pagani ostinati, e quindi "vuota" di cristiani, in mezzo a sei diocesi già tutte
da molto tempo formate e consistenti (Feltre, Belluno, Aquileia, Concordia,
Oderzo e Treviso)?
D'altronde chi sostiene che Valentiniano sia stato il primo vescovo e che la
diocesi sia sorta nell'anno 713, dovrebbe porsi almeno queste domande:
- In quell'epoca quante pievi dovevano esistere nel cenedese se il Patriarca
1) Corrado Barbagallo, "Il Medioevo" libro 1°, cap.11°, p.85
120
se ne riserva ben 4, destinate a fornire al presule i mezzi finanziari per i suoi viaggi?
Reputo che dovessero esser state non meno di una dozzina, ma facilmente assai di
più. Se fossero state di meno la riserva patriarcale avrebbe snaturato del tutto il
territorio della nascente diocesi. Però pochi storici ammettono l'esistenza di una
tale dovizia di Pievi!
- Questa probabile dozzina (o più) di pievi possono esser germinate all'improvviso al momento della creazione della diocesi? O dovevano esser sorte già da
diverso tempo, in una progressione di almeno uno o due secoli!
- Dopo la distruzione di Oderzo (638) e il trasferimento del vescovo
opitergino a Cittanova, chi amministrava queste pievi? Potevano esser completamente allo sbando, senza un pastore? Una situazione del genere è ipotizzabile al più
per uno o due anni, non per molti decenni !
A tale proposito, il "Placito" liutprandeo ci prospetta una situazione abbastanza kafkiana ed un pò surreale.
Proviamo infatti ad immaginare una diocesi (quella di Ceneda) che ancora
non esiste (perchè finora priva di vescovo) ma che conta già almeno una dozzina
di Pievi (tante almeno ne presuppone il distacco di 4 a favore del Patriarca), la quale
diocesi vuole annettersi gran parte della diocesi opitergina (trasferitasi nell'isola
Candiana), il cui territorio è privo della "parrocchia" (distrutta da Rotari), inoltre
vuota di patrimonio e priva di abitanti (deportati da Grimoaldo).
In parole povere un niente giuridico che vuole annettersi un niente di fatto!
L'antichità delle prime chiese del Cenedese è supportata dalla loro dedicazione:
Ceneda, Semaglia, Lentiai, Pieve di Soligo, Mel, sono dedicate a Maria Assunta,
segno indubbio della loro antichità. Tutte le chiese predette rivendicano la loro
evangelizzazione ai Santi Ermagora e Fortunato e quindi ad Aquileia. Oderzo
invece si è sempre proclamata emanazione della chiesa di Padova. Anche questo è
un chiaro indice di una originaria discrasia che non può esser ignorata o sottovalutata.
E che questa discrasia esistesse lo sostiene anche G.Tomasi il quale afferma
che la separazione fu poi aggravata perchè tra Oderzo e Ceneda "s'insediò una
quota di popolazione costituita da elementi allogeni (goti, baiuvari, longobardi)
accentrati in posizioni strategiche... con la conseguente totale incomprensione
linguistica (almeno per qualche generazione) con gli indigeni e i loro preti".<2>
Nuclei di detti popoli vennero sistemati nel territorio di Godega, di Bavaroi,
di Baver ecc.<3>,
posti a guardia di una possibile irruzione delle truppe bizantine.
Inoltre nuclei disarmati furono insediati a Sarmede e di franchi a Francenigo.
Tutto ciò accentuò ancor più la dicotomia tra i due territori.<4>
2) O.Tornasi, "La diocesi di Ceneda dalle origini al 1568...", vol. 1°, p.13
3) C.G.Mor "Da Roma a Carlo Magno ..." p.15
4) Ne è conferma l'inesistenza nel cenedese del culto di S. Magno, vescovo di Oderzo, successore di
San Tiziano.
121
10 - REPERTI ARCHEOLOGICI
L'antichità della diocesi è inoltre attestata dai reperti archeologici di recente
riuniti ed illustrati da Antonio Moret nell'opera "Ritrovamenti archeologici
nell'antico cenedese dal sec. IV ali 'XI", una specie di "Summa" in tale settore.
Detti reperti sono stati ampiamente esaminati da Carlo Gabersec al fine di una
datazione cronologica. Il ·risultato di tali esami è stato pubblicato nella sua
monografia "Recenti studi e ricerche sulle sculture altomedioevali nell'Italia
Nord-orientale", in "Forum Iulii-Annuario del Museo Nazionale" di Aquileia, A.
VIII (1984).<I)
In base a tale studio, ben 16 reperti tra quelli descritti nell'opera di A. Moret
sono stati classificati come appartenenti all'epoca tardo-antica e paleocristiana.
Due vengono ritenuti riconducibili al Pluteo di Probino, esistente nel Battistero di Grado (569-571 ), ed altri due come appartenenti alla scultura del VI secolo.
Poichè i reperti anzidetti provengono dalle macerie della primitiva Chiesa di
Ceneda, risulta provata l'esistenza in Ceneda di una forte comunità cristiana con
una propria chiesa paleocristiana già nel V secolo.
Parere condiviso implicitamente, da Mario Brozzi, Direttore del Museo
Archeologico Nazionale di Cividale, che ha lodato l'opera del Moret, nonchè da
Amelio Tagliaferri in "Corpus della scultura altomedioevale, Voi.X, Le Diocesi di
Aquileia e Grado", e da Giuseppe Cuscito in "Testimonianze archeologiche
monumentali del cristianesimo antico fino al sec. IX".
Inoltre l'ab.Carlo Lotti ci ha tramandato che durante i lavori di ricostruzione
della Cattedrale, eseguiti nel XVIII sec., sotto la cripta di S.Tiziano furono trovati
tre strati di pavimenti: quello inferiore "musivo et artifitioso opere vetustissimo ex
quadratis lapillis marmoreis"; quello di mezzo "ex marmore albicante".
Mons. Celso Costantini, esperto di archeologia religiosa, nella Rivista "Arte
Sacra" da lui diretta, asserì che i pavimenti delle chiese paleocristiane eseguiti in
mosaico furono costruiti fino all'inizio del IV sec. e cessarono del tutto nei secoli
successivi.
Questo ci comprova che una chiesa paleocristiana, sia pure di dimensioni
modeste, esistette in Ceneda già nel IV secolo. <2l
In entrambi i casi non siamo di fronte a semplici indizi, ma a delle prove!
1) Il Gabersec a p. 45 scrive: "Non molto numerosi sono i rilievi di età tardo-antica e paleocristiana;
ma sono sufficienti per confermare a Ceneda e nel Cenedese la presenza di consistenti comunità
cristiane, sempre in vivo contatto, nonostante tutto, con la grande cultura paleocristiana-bizantina
altoadriatica. La capacità di tenuta e di rinnovamento della cultura del popolo cenedese viene
confermata anche dalla personalità e dalla cultura del cenedese Venanzio Fortunato".
2) C.Lotti, Series Ep.orum Cenet., p. III, De Cathed. et Canon. - C.Fassetta, Storia Popolare di
Ceneda, p.47.
122
11 - QUANDO SORSE LA DIOCESI?
Quando la Diocesi di Ceneda sia sorta è difficile precisare. Forse durante il
regno dei Goti. O almeno durante il periodo della successiva dominazione franca
che separò nettamente il cenedese dal territorio opitergino, rimasto in mano ai
bizantini.<l)
Che tale separazione esistesse e che i rapporti tra i due popoli non fossero
sempre pacifici lo dimostra il fatto che Narsete, nella primavera del 552, per far
giungere il suo esercito dalla Dalmazia a Ravenna, fu costretto a farlo transitare
attraverso il territorio lagunare, tra gravi disagi e pericoli. Se avesse potuto farlo
passare attraverso l'alto Veneto lo avrebbe certamente fatto. Quindi vi fu costretto
dalla presenza franca ch'egli non voleva o non era in grado di combattere.
Infatti Narsete ... si studiava di evitare uno scontro coi Franchi.<2>
E Procopio: "La maggior parte della Gallia e del territorio dei Veneti era in
mano ai germani (così egli chiama i Franchi) quando arrivò in Italia l'esercito
romano di Narsete ". <3>C. Barbagallo aggiunge che: "Alla morte di Giustiniano, ...
i Franchi occupavano la Venezia".<4>
Contro la tesi che la diocesi sia sorta nell'anno 713 si pronunciò anche Sante
Bortolami che ne fa ascendere la creazione a prima della distruzione di Oderzo.<5>
1) S.Tramontin fa ascendere la costituzione della diocesi alla metà del VII sec. non certo nell'VIII.
Dice infatti "... se l'istituzione della diocesi f asse avvenuta sotto Liutprando, se ne avrebbe più sicura
notizia."
Pierio Valeriano (Bolzanio) scrive: "essersi a credere che Ceneda avesse un episcopato suo proprio
fin dal principiare del cristianesimo, come città nobile ed abbondante di popolo".
2) C.Barbagallo, "Storia Universale - Il medioevo", voi. I 0 , p. 85.
3) Procopio, in "Historia arcana o Carte segrete", trad. Domenico Comparetti, Roma, 1938.
Dopo la morte di Giustiniano (565), Procopio, modificò quanto aveva scritto negli otto libri della
"Guerra gotica", redatti a scopo adulatorio nei confronti dell'imperatore, facendo capire che in realtà
la conquista dell'Italia era stata solo parziale e che nella Venetia non lagunare erano rimasti i Franchi.
Nel suo libello contro Giustiniano, Procopio non potè certamente inserire notizie non vere- facilmente
controllabili dai contemporanei - perchè ciò avrebbe reso non credibili tutte le altre sue asserzioni.
4) C.Barbagallo, op.cit.p.100.- E' quindi difficile ipotizzare che i Bizantini, dopo la morte di
Giustiniano e l'elezione di Giustino II, abbiano avuto la forza, la volontà e il tempo (meno di due anni!)
per continuare ulteriormente la guerra al fine di espellere i Franchi dal!' alto Veneto.
Di diverso avviso è invece G.Amosti, come già enunciato al precedente punto 8.
5) S. Bortolami "Le Pievi" in "Il cristianesimo tra Piave e Livenza, da Carlo Magno alla Repubblica
veneta", p.51. : "L'Episcopio di Ceneda. di cui esiste inoppugnabile testimonianza solo a partire dal
680. è creazione non anteriore all'occupazione longobarda dell'Italia nord-orientale ... ".
123
12 - VENANZIO FORTUNATO
Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato nasce verso il 530. Egli precisa:
... per Cenetam gradiens et amicos duplavilenses
qua natale solum est mihi sanguine, sede parentum,
prolis origo patrum, frater, sorc,.-,rJrdonepotum,
quos colo corde, fide, breviter, peto, redde salutem. 0 >
Valdobbiadene si è autoproclamata suo luogo natale. Ma nulla lo dimostra.
Anzi, chiunque sappia il latino non può che constatare che il "qua", comunque
lo si voglia interpretare, non può certo riferirsi agli "amicos duplavilenses" ma
bensì a "Cenetam".<2> Ciò viene sottolineato da Venanzio anche nei suoi "Carmi",
e in particolare nel libro VIII, epigramma n. IX, diretto al Duca Lupo, nel quale,
riferendosi a Ceneda, dice: " ... quod pater ac genitrix,frater, soror, ordo nepotum,/
quod poterat Regio, solves amore pio. "Anche L.A. Muratori è dello stesso parere:
"Difficilmente Duplavenenses può essersi mutata in Dobbiadene. Gli amicos
Duplavenenses dovevano esser in stretta relazione con Ceneda.<3>
Venanzio Fortunato, di nobile famiglia, compì gli studi a Ravenna assieme
all'amico Felice (poi vescovo di Treviso) acquisendo una buona conoscenza della
lingua e della poesia latina. Ammalatosi agli occhi, ottenne la guarigione per
intercessione di S. Martino di Tours (555 circa). Per tal motivo fece voto di recarsi
a pregare sulla tomba di detto Santo.
Nel 568 partì per la Gallia, forse invitato dalla regina Radegonda che
intendeva affidargli l'istruzione di suo figlio Sigoberto. Circa l'anno 595 abbracciò
lo stato ecclesiastico e nel 597 fu eletto vescovo di Poitiers.
Verso il 617 scrisse il libro "De Vita Sancti Martini" in cui rievoca il suo
viaggio attraverso le Alpi e la Germania Franca. In tale poetica descrizione, in
eleganti esametri latini, ricorda affettuosamente Ceneda, sua terra di origine. Ma a
Ceneda non fece più ritorno perchè Ceneda era stata ormai invasa dai Longobardi
di fede ariana.
E' autore di inni sacri: il Pange Lingua gloriosi e il Vexilla regis prodeunt
(569); nonchè di 11 libri di Carmi e varie agiografie.
Morì a Poitiers, in tarda età, e venne subito annoverato tra i "Beati" ed anche
Paolo Diacono narra di essersi recato a pregare sulla sua tomba.
Quanto premesso interessa solo per far notare che in tutti i suoi scritti
I) Dalla De Vita Sancti Martini, ed. Berliniana 1881. In MHG.
2) Cosa si deve intendere per Duplavenenses (o Duplavilenses)? Fino a due secoli fa era credenza
diffusa che nell'antichità il Piave, o almeno un suo ramo, passasse per la V alle Lapisina e per la V alle
del Soligo, prima che avvenissero le frane di Fadalto e di Revine. Ora il Duplavis potrebbe forse esser
il "doppione" del corso del Piave e gli amici duplavenenses gli amici abitanti lungo il corso del
"doppio del Piave" e cioè nella valle Lapisina e in quella del fiume Soligo.
3) LA.Muratori in "Rerum Italicarum Scriptores", p. 430.
124
Venanzio Fortunato non cita mai Oderzo che, secondo i fautori della derivazione
della diocesi di Ceneda da quella opitergina, dovrebbe esser stata in gioventù la sua
diocesi.
Oderzo è da lui invece del tutto ignorata mentre cita Ceneda, Treviso,
Aquileia, Concordia, Ravenna ed altre località della Venetia.
Se Oderzo fosse stata la sede della sua diocesi, avrebbe dovuto ivi ricevere
sia il Battesimo, sia il Sacramento della Confermazione! Viene allora da chiedersi
come mai abbia potuto dimenticarsi totalmente di Oderzo!
13 - IL CONCILIO DI GRADO DEL 579
A detto concilio presenziò Marciano, vescovo di Oderzo. Per contestare la
presenza del vescovo di Ceneda, Vindernio, qualche storico ha sostenuto che
Vindernio sia stato vescovo non di Ceneda ma di una ipotetica diocesi di Cissa, sorta
non si sa quando su un piccolo isolotto al largo della costa istriana e poco dopo
inabissatasi nell'Adriatico, senza che ne sia rimasta traccia o memoria.
A sostenere tale tesi è stato Francesco Babudri e l'ipotesi è stata implicitamente accettata da Roberto Cessi, 0 > e poi, pedissequamente, da alcuni altri storici.
Contro detta ipotesi lo storico istriano Bernardo Benussi ha sostenuto che
Cissa - ammesso che sia esistito un isolotto di tal nome tra le tante isole e scogli che
costellano la costa istriana<2l - non può esser stata sede di diocesi, sia per non esser
1) R.Cessi ha accettato la tesi del Babudri non perchè storicamente convinto dell'esistenza della
diocesi di Cissa, ma perchè tale ipotesi serviva ad avvalorare una sua argomentazione particolare.
Infatti egli sostenne ("Origini del ducato veneziano".p. 74-75) che le sottoscrizioni dei vescovi al
Concilio furono apposte seguendo "un ordine e un rito molto rigido", secondo "la successione
alternata dei vescovi istriani e veneti, conclusa con il blocco dei vescovi retico-tridentini". Perciò
assegnò Vindemio a Cissa perchè appose la firma tra il vescovo di Altino e quello di Padova.
La tesi, se di primo acchito sembra seducente, manca però di fondamento.
1°- Infatti Feltre apparteneva alla X Regio "Venetia et Histria" non ad un ipotetico blocco ReticoTridentino, che non è mai esistito. Alla Raetia Secunda appartenevano i vescovi di Cura (Chur) e di
Saben (Sabiona). La X Regio fu un'entità territoriale unica e mai fu divisa tra veneti e istriani (ad es.
il vescovo Benenato di Oderzo si dichiara istriano).
11°-L'alternanza dei due gruppi esiste solo in apparenza. Ad un esame più accurato si rileva, ad es.,
che alla firma del vescovo di Emona segue immediatamente quella del vescovo di Pola, entrambi della
penisola istriana. D'altra parte come avrebbero potuto "alternarsi" i vescovi istriani ch'erano solo 4
con quelli Veneti che erano almeno 8 (o addirittura 9 con Vindemio)?.
111°- "L'euritmica alternanza" non si riscontra nelle sottoscrizioni di nessun concilio altomedioevale.
In essi sono talora riscontrabili solo raggruppamenti di vescovi provenienti dalla stessa regione.
2) I sostenitori dell'esistenza della diocesi di Cissa non sono nemmeno d'accordo tra loro circa il luogo
ove l'isoletta di Cissa sia esistita. Chi la pone a nord di Rovigno, chi tra Rovigno e Pola. Qualcuno
addirittura in Dalmazia, nell'isola di Pago. Anche le ricerche subacquee eseguite per trovare le tracce
di questa fantomatica diocesi non sono approdate a nulla.
125
mai stata citata come tale negli antichi documenti, sia per esser ignorata dalla
tradizione locale, sia infine perchè tra Parenzo e Pola, diocesi tra loro confinanti,
non vi fu mai spazio per un'altra diocesi. c3l
Sull'inesistenza della diocesi di Cissa si è pronunciato anche L. Margetic in
"Le prime notizie su alcuni vescu~·atiistriani", in "Histrica et Adriatica. Raccolta
di Saggi..." (PD,1983). Parere già implicitamente condiviso da Pietro Kandler (il
quale ha attribuito Vindemio a Ceneda), poi da Pio Paschini e da Giovanni Tornasi
in "La Diocesi di Ceneda dalle origini al 1586", (vol.1°, p.13-17), il quale ritiene
che la diocesi di Ceneda sia sorta verso la metà del VI sec., non già nell' VIII.
La scomparsa in mare di una sede vescovile, avvenuta nell' VIII sec., avrebbe
dovuto destare enorme impressione ed avere una notevole risonanza. Eppure viene
ignorata dagli scrittori e memorialisti contemporanei o di poco posteriori (Paolo
Diacono, antiche cronache veneziane, ravennate, ecc.).
E che Vendemio fosse vescovo di Ceneda viene - in un certo senso avvalorato dal fatto che esiste tutt'ora nella nostra diocesi un paese ed una chiesa
che ne tramandano il nome e la venerazione: si tratta del Comune e della Parrocchia
di S. Vendemiano a lui dedicata. E' da notare che Vendernio o Venderniano è un
santo assai poco noto, che non ha riscontro in nessun altro personaggio ecclesiastico
dell'epoca e nemmeno nell' agiografia veneta. E nemmeno in quella istriana.
14 · IL VESCOVO ORSINO
Il vescovo di Ceneda Orsino si sottoscrive nella sinodica di Papa Agatone,
redatta in Roma e diretta a Costantino IV contro i monoteliti, sinodica riportata poi
nella IV azione del VII Concilio Ecumenico tenuto a Costantinopoli (677-680). In
essa, scritta in latino, i vescovi veneti si sottoscrissero dichiarandosi tutti della
"Provincia Histriae".
Tra essi si sottoscrive "Ursinus Ep.us S. Ecclesiae Cenetensis" e ciò in
presenza di Benenato che si sottoscrive "Ep.us S. Ecclesiae Opitergensis".
Da ciò è evidente la contemporanea esistenza delle due diocesi.
L'aggettivo "Cenetensis", nella traduzione in greco fatta poi a Costantinopoli,
fu storpiato ed abbreviato in Kén.son o Kénitoy, il che diede luogo - da parte di
coloro che videro la traduzione greca e non il testo originario latino -ali' invenzione
del vescovado di Cissa.cl)
3)Tutti gli storici ritengono che le antiche diocesi della penisola istriana siano state solamente tre:
Parenzo e Pola sul mare e Pedena nell'entroterra.
1) F.Troyer - II ducato longobardo di Ceneda. Ms. in BCVV - Anche Pietro Kandler, noto studioso
di storia istriana, nel Codice Diplomatico Istriano, ritiene valida la lettura Ceneda.
126
15 - L'INVASIONEDEI LONGOBARDI
Nel 567 i Longobardi valicarono le Alpi orientali ed entrarono nel Friuli.
Nell'anno successivo oltrepassarono il Tagliamento<1>ed Alboino, seguendo
la via a nord delle resorgive per evitare ogni contatto con le truppe bizantine, entrò
in Ceneda, sgomberata dai Franchi che si era.I!oritirati verso le Alpi.
I bizantini, comunque siano andate le cose, si arroccarono in Oderzo e
assistettero all'invasione, senza intervenire. Segno evidente della loro estrema
debolezza militare.
Ritengo che se essi avessero posseduto il campo tricerato di Ceneda,
avrebbero, senza ombra di dubbio, lasciato un contingente di truppe a presidiarlo,
in attesa che gli invasori "passassero oltre", verso il Piave, come, del resto, avevano
fatto quasi tutte le orde barbariche nelle precedenti invasioni.
Dopo quello del Friuli, Alboino creò il Ducato di Ceneda per gli stessi motivi
strategici per cui istituì quello del Friuli. E cioè per ovvii motivi di sicurezza
militare, specie contro un possibile attacco da parte dei bizantini.
Ceneda fu quindi elevata a sede del secondo Ducato creato in Italia, il quale,
man mano che i franchi si ritiravano, si estese verso settentrione fino a comprendere
le Sculdascie di Belluno e Feltre, nonchè la Decania del Cadore.
Non vien menzionata da P. D. alcuna tensione nè lotta tra Longobardi e
Bizantini, segno evidente che questi non occupavano il territorio a nord delle
resorgive. Infatti: " ...inesplicabile riusciva, pei Longobardi, il fatto della non
resistenza dell'Impero". <2>
In mano bizantina restarono, per alcuni decenni, le lagune costiere con le città
di Concordia, Oderzo, Altino e Padova. Città tutte collegate dalla via Annia, ormai
intransitabile, ma tutte facilmente accessibili dal mare per via fluviale, fatto questo
importantissimo per la loro difesa e per il loro rifornimento.
Una parte della popolazione fuggì - more solito - davanti alle nuove orde di
barbari verso il litorale sperando di far ritorno in breve ai loro paesi, dopo il
passaggio degli invasori. Invece i longobardi non "passarono" ma si "installarono"
stabilmente nella zona. Fuggirono i "boni viri", i "possessores", i latifondisti,
mentre la maggior parte della popolazione, specie quella legata alla coltivazione
della terra, rimase in loco ed era certamente assai più numerosa dei longobardi
invasori.
1) Nell'antichità e nel Medio Evo, il Tagliamento è sempre stato considerato il confine occidentale
del Friuli. (Strabone, L.V : "Il Tagliamento ... divide gli aquileiesi dai veneti". Dello stesso avviso
sono: Plinio il Vecchio in "Naturalis Historia", L.III, cap.XVIII - Claudio Tolomeo, Libro IIl,capo
1° - Sigonio "De antiquo iure Italico, L.I, cap. 25, ecc .. Anche G. Bonturini Del Tagliamento, in
"Monografie Friulane", p.12-13, "La natura diede a' confini del Friuli le Alpi Noriche e il
Tagliamento").
2) C. Barbagallo, op.cit.p.108.
127
16 - LE CONTROVERSIE SULL'ORIGINE DELLA DIOCESI
CENEDESE
Le controversie sull'origine della diocesi di Ceneda sono dovute al fatto che,
dopo la prima distruzione di Oderzo e il trasferimento dell'episcopato ad Eraclea
(dove continuò a risiedere con il titolo immutato) il duca e la chiesa cenedese
vollero fagocitare il territorio della distrutta Oderzo, fino al limite delle lagune.
Ad avvalorare tale pretesa vollero far apparire Ceneda quale erede o
trasposizione della diocesi opitergina, e a legittimare la richiesta servì soprattutto
la traslazione a Ceneda delle reliquie di S.Tiziano. Traslazione che fu certamente
patrocinata dai duchi cenedesi ed incoronata dall'aureola del fatto miracoloso.
Tale asserto aveva un'ulteriore sottintesa ma importante valenza per il clero
locale: quella di far dimenticare, o meglio cancellare, la precedente esistenza in
Ceneda di un episcopio tricapitolino, o di un episcopato di fede ariana, istituito dai
duchi longobardi.
Avvalorando la tesi dell'eredità opitergina la chiesa locale cercava di riabilitarsi e proclamava-in un certo qual senso - la sua origine ortodossa, obliterando
quella precedente, eretica o scismatica che fosse. Tale tesi venne calorosamente
sostenuta dagli storici ecclesiastici locali, a cominciare da Vincenzo Botteon.
Ora è risaputo, (e su questo punto sono concordi gli storici) che in ogni città,
durante la dominazione Longobarda, esistevano due vescovi, uno cattolico ed uno
ariano.
Il primo nelle "pievi" - nelle quali abitava la popolazione cattolica - e il
secondo nelle "fare" - popolate dalle famiglie degli invasori. A tale duplicità non
può aver fatto eccezione Ceneda, città assai importante e capoluogo di ducato.
E' infatti inamissibile che il Duca longobardo di Ceneda, tollerasse che la
principale città del suo dominio non fosse sede vescovile, mentre lo erano già da
secoli Belluno e Feltre, dove risiedevano due Sculdasci suoi dipendenti.
Ne avrebbe certamente sofferto la sua dignità e prestigio!
D'altra parte negare che a Ceneda vi fosse già un vescovo cattolico equivale
ad ammettere che Ceneda sia stata retta per almeno un secolo solo da un vescovo
ariano ! Mentre la popolazione cattolica, molto più numerosa di quella ariana, ne
sarebbe stata priva, cioè senza un proprio pastore!
Il vescovo cattolico di Ceneda, suffraganeo della chiesa aquileiese, aderiva
allo scisma dei "Tre Capitoli", come tutti i vescovi della terraferma della "Venetia
et Histria", diversamente da quelli con sede nella zona lagunare, in dominio
bizantino. Anche questo fu motivo di separazione tra Ceneda e Oderzo.
Lo scisma tricapitolino, sorto poco prima dell'arrivo dei Longobardi, fu da
questi certamente ben visto, se non alimentato, perchè ravvisavano in esso un
elemento di separazione dalla chiesa romana, generalmente ostile nei loro confronti.
128
Nel VII secolo, molti longobardi incominciarono a rinunciare all'arianesimo
per cui, quando il numero dei convertiti divenne preponderante, i due episcopati si
fusero e rimase solo il vescovo cattolico-tricapitolino.
Secondo la tradizione, il corpo di S.Tiziano fu deposto nella chiesa di Ceneda,
dedicata a Maria Assunta, chiesa certamente non ariana perche gli ariani negavano
la divinità di Cristo e non potevano quindi dedicare una chiesa "alla Madre di Dio".
La chiesa predetta era quindi sede della "Pieve", mentre la chiesa della Fara
longobarda era quasi certamente quella di S. Michele Arcangelo, in località Salsa,
come attestato dal cimitero longobardo scoperto a lato di detta chiesa. '
La "Fara" cenedese doveva verosimilmente comprendere, oltre la località
Salsa, anche le abitazioni site lungo le vie Scrizzi e Scossore, anticamente chiamate
Schiessor, (Schloss=castello e Schlosser=magnano/maniscalco) fino al ponte sul
fiume Meschio, presidiato dal "Manerf' (corruzione dialettale di Maniero).
In detta zona esistono ancora alcuni tipici cortili (un tempo conclusi entro
mura) di chiara impostazione longobardica, cortili che purtroppo vanno pian piano
scomparendo o snaturalizzandosi.
Durante questo periodo è inoltre da rimarcare:
Nell' anno 602 o 603 i Longobardi conquistano Padova e si impadroniscono
di gran parte del suo territorio. Il vescovo patavino fugge nelle lagune, in territorio
bizantino.
Subito il territorio di quella diocesi, rimasta senza pastore, viene dal re
Agilulfo assegnato in amministrazione al vescovo di Treviso.
Ciò dimostra che i longobardi non ammettevano che il vescovo di Padova,
esule in territorio bizantino, potesse aver ingerenza alcuna in territorio longobardo.
Analogamente, visto che il vescovo aquileiese, trasferitosi a Grado, non si
decideva a far ritorno, il duca Grisulfo istituì (nel 606 ?) un altro vescovo nella
relitta Aquileia.
Da ciò si evince chiaramente che i Longobardi avevano estrema cura per
quanto riguarda l'amministrazione religiosa nei loro domini.
Ciò premesso, è logico arguire che il Vescovo di Oderzo, profugo in territorio
straniero, spesso nemico, non potesse amministrare un territorio di pertinenza
longobarda. Ed ancor meno che egli potesse avere la giurisdizione religiosa su una
città in cui addirittura risiedeva il Duca, ove si consideri che i vescovi erano i
naturali tutori del loro gregge, e non solo nelle cose di religione.
Si deve quindi convenire che Ceneda fin dalla fine del VI sec. non poteva in
nessun modo dipendere dal vescovo opitergino.
Rotari nel 636 distrusse Oderzo, ma può darsi che non ne abbia occupato
stabilmente tutto il territorio. Cosi Oderzo potè lentamente risorgere come modesto
nucleo abitato.
129
Invece la sede episcopale, trasferitasi nell'isola Candeana, ribattezzata poi
Eraclea, ben difficilmente può esser ritornata nella sua sede originaria. Anzi, tutto
fa ritenere il contrario. Lo dimostra il fatto che nel 639 - circa tre anni dopo la prima
distruzione di Oderzo - venne consacrata la nuova cattedrale in Eraclea, dedicata
a S. Maria.O>
Se gli opitergini avessero ritenuto di poter far ritorno in breve ad Oderzo non
si sarebbero affrettati a costruirsi una nuova cattedrale nel luogo di temporaneo
rifugio.
Questo prova inoltre che la prima distruzione di Oderzo fu una vera e propria
distruzione - come attestato dal Diacono - e non un fatto simbolico come hanno
stranamente ritenuto di supporre alcuni storici. Infatti Paolo Diacono (Libro IV, 45)
dice che "lgitur Rothari ... Opitergium quoque civitatem inter Tarvisium et Foroiuli
positam pari modo expugnavit et diruit. "<2>
Il re Grimoaldo opera nel 667 la seconda e definitiva distruzione di Oderzo
e ne deporta il popolo residuo tra i ducati confinanti. <3>Deportò gli abitanti, ma non
è provato che abbia smembrato tutto il territorio, come da molti si ammette.
Le successive donazioni imperiali di Oderzo a Giovanni II, vescovo di
Belluno, lasciano supporre che il territorio non sia stato totalmente smembrato tra
i tre ducati confinanti, ma che una parte di esso sia stato conglobato nel dominio
regio ed affidato in amministrazione ad un Gastaldo.
In ogni caso, la sede episcopale opitergina rimase definitivamente ad Eraclea,
ove continuò a sussistere per molti decenni, con il titolo di "Diocesi di Oderzo".
Lo comprova il fatto che nell'anno 876 v'è ancora un vescovo che si dichiara
4>
esplicitamente "vescovo di Oderzo" 1<
17 - SAN TIZIANO
Tra le due distruzioni di Oderzo si suole generalmente porre la traslazione a
Ceneda del corpo di San Tiziano. Ma l'avvenimento non può esser avvenuto che
al tempo della prima distruzione di Oderzo. e cioè nell'anno 636.
Non è pensabile infatti che gli opitergini si siano rifugiati ad Eraclea portando
con loro il corpo di S. Tiziano (unico corpo di Santo in loro possesso) e che siano
1) "La famosa iscrizione torcelliana del 639 si riferisce certamente alla Cattedrale di S. Maria Nova
ad Eraclea". (S.Tramontin in "Le origini della diocesi di Ceneda dalle origine a Carlo Magno", p.29)
2) L'endiadi rafforza il concetto e non lascia dubbi sulla effettiva distruzione.
3) "Erat quidem Grimualdo contra Romanos non mediocre odium ...Quam de causam Opitergium
civitatem ... funditus destruxit eorumque qui ibi abitaverant fines Foroiulianis Tarvisinisque et
Cenetensibus divisit". (P.D. Libro V, 28)
4) Non cosl nel 975, anno in cui il Doge Candidiano IV occupò Oderzo per ricuperare i beni della
chiesa Eracliana.
130
poi tornati ad Oderzo riportandovi nuovamente il corpo del Santo. E'evidente
quindi che nella loro precipitosa fuga ne dimenticarono la salma. I cenedesi
vincitori non tardarono ad impadronirsi di una reliquia così importante, dimenticata
dagli opitergini in fuga.
E' inoltre da ritenere che la prima distruzione di Oderzo sia stata operata, in
modo preponderante o esclusivo, da parte delle truppe del duca di Ceneda.
Se gli occupanti fossero stati i trevigiani, oppure i friulani, dei contermini
ducati, si sarebbero essi impadroniti delle reliquie di S.Tiziano. L'importanza in
quel tempo delle reliquie è ampiamente dimostrata dal fatto che sul loro possesso
si fondò la pretesa cenedese di ottenere il r~integro di tutto il territorio della ex
diocesi opitergina.
18 - LO SCISMA DEI TRE CAPITOLI
Vinto l'arianesimo, i fautori del più acceso nazionalismo longobardo sposarono ancor più la causa dello scisma tricapitono non tanto per intima convinzione
teologica quanto per trovarvi un valido appoggio contro le ingerenze del papato e
tener staccata la popolazione da Roma.
Nel tentativo di indurre con la forza il Patriarca aquileiese a desistere dallo
scisma, sta l'episodio narrato dal Diacono.
Su istanza di papa Pelagio, l'esarca Smaragdo partì con alcune navi da
Ravenna e si portò di sorpresa a Grado ove catturò il neo eletto Patriarca Severo
"insieme a tre altri vescovi istriani e cioè Giovanni parentino. Severo e Vindemio ".
In un "Memoriale", presentato nell'anno 591 dai vescovi dell'Istria all' imperatore Maurizio, il fatto vien descritto con maggiori particolari: Smaragdo "arrivò
improvvisamente da Ravenna a Grado con molta gente armata, prese il novello
Patriarca, eh' era Severo, succeduto a Elia ... e con lui Severo vescovo di Trieste,
Giovanni vescovo di Parenzo, Vendemio vescovo di Ceneda e, violentemente li
condusse a Ravenna, dove li tenne sequestrati per un anno".<!)
Anche in questo caso gli esegeti del testo si sono sbizzarriti su varie ipotesi.
C'è chi ha fatto viaggiare l'Esarca per tutta la penisola istriana a caccia dei
vescovi tricapitolini, senza pensare che la sorpresa poteva avvenire, per esser tale,
in un solo luogo, non in una serie di reiterati tentativi.
Altri hanno ignorato che il termine "Histria" era allora normalmente usato per
indicare anche tutta la Venetia oltre la penisola istriana vera e propria, e quindi
hanno arguito che i vescovi dovessero esser tutti e tre della penisola istriana.
Nel memoriale precitato si specifica invece che Vendemio era vescovo di
Ceneda.
1) J.Bemardi, La civica aula cenedese ... , p.1 O1 - Vindemio sembra sia deceduto durante la prigionia
a Ravenna, ove rimase per non aver voluto abiurare.
131
Tutto questo per non ammettere che Smaragdo, giunto di sorpresa con le sue
navi a Grado, abbia catturato il Patriarca e tre vescovi i quali erano occasionalmente
presenti presso di lui. Ciò al solo scopo di negare che Vendemio fosse vescovo di
Ceneda.
19 · LA FINE DELL' ARIANESIMO
I Longobardi, dopo le gravissime intemperanze e stragi iniziali, furono in
genere abbastanza tolleranti verso la popolazione autoctona di religione cattolica.
Nel loro disegno politico ciò serviva a mantenere la separazione tra i due
popoli, divisione che essi postulavano: da un lato la popolazione latina nelle Pievi
e, dall'altro, i longobardi, fedeli all'arianesimo, nelle Fare. 0 >
Quando poi i due popoli, convivendo a lungo fianco a fianco, incominciarono
a fraternizzare ed a lentamente amalgamarsi, molti Longobardi incominciarono ad
accostarsi sempre più numerosi alla chiesa cattolica.
Il re Ariberto, seguendo l'opera iniziata dalla regina Teodolinda, tra il 655 e
il 660 abolì ufficialmente l'eresia ariana, non senza opposizioni e il sorgere di forti
isole di resistenza. La seconda metà del VII sec. fu segnata da profondi contrasti tra
gli ultimi longobardi ariani (specie gli Arimanni) e quelli che, abbracciato ormai il
cattolicesimo, erano confluiti nella chiesa romana.
Lo dimostrano le tormentate vicende del loro regno in questo periodo.
20 · IL SINODO DI PAVIA (698).
Fu convocato da Cuniberto dopo la sconfitta di Alahis, strenuo difensore
dello scisma tricapitolino. Per esso si giunse ad un accordo tra la chiesa aquileiese
e Damiano, vescovo di Pavia, fautore della ortodossia romana. Per effetto di detto
accordo furono vinte le residue resistenze degli ultimi s~guaci dello scisma.
Dopo la fine dello scisma, riaffermata la supremazia del papato, anche nella
Venetia l'erezione di una nuova diocesi rimase nelle prerogative esclusive del
Pontefice. Non è quindi ipotizzabile che la diocesi cenedese sia sorta nel 713 ad
opera del cattolicissimo Liutprando senza l'intervento di Papa Costantino.
D'altronde non consta che durante lo scisma i Patriarchi si siano mai arrogati
la prerogativa di creare diocesi. Lo conferma il fatto che negli Atti del Concilio di
Grado (anno 579) il semplice benestare a traferire la sede da Aquileia a Grado venne
disposto "consenso beatissimi apostolicae sedis Papae Pelagi" e che presenziò al
Concilio il legato pontificio Lorenzo.
1) Nel ducato cenedese è documentata l'esistenza di numerose "Fare": Parra di Soligo, Parra di
Agordo, Parra d'Alpago, Parra di Valdobbiadene, Parra di Mel, Parra di Feltre, Parra di Castello
Roganzuolo, Farò, ecc .. Nessun altro ducato longobardo ne ricorda un numero maggiore.
132
Valentiniano fu probabilmente l'ultimo vescovo di Ceneda aderente allo
scisma, al quale rinunciò verso la fine del VII secolo. Ultimo di una serie di vescovi
eletti dal clero locale e dal popolo (o da i duchi?), si sentì in dovere di chiedere al
Patriarca la sua "consacrazione canonica".
E per non venir sepolto nella tomba dei vescovi suoi predecessori scismatici,
si fece erigere un "sepolcro nuovo" nella chiesa cattedrale di Ceneda. <n
Logicamente un sepolcro "nuovo" ne presuppone uno "vecchio". E in questo
chi erano stati sepolti se non i suoi predecessori?
La consacrazione canonica di Valentiniano, secondo il Placito liutprandeo,
sarebbe stata condizionata dal Patriarca alla cessione temporanea a suo favore di
quattro pievi. Questo ricatto diede origine ad una vertenza, patrocinata e sostenuta
dai duchi di Ceneda, nei confronti del Patriarca Callisto, allorchè questi pretese,
dopo la morte di Valentiniano, che il successore, Massimo, per venir consacrato
vescovo dovesse rinunciare definitivamente alle quattro pievi.
Su detta vertenza s'impernia il racconto del cosidetto Placito di Liutprando.
21 - IL PLACITODI LIUTPRANDO
La sentenza liutprandina del 743 ci è pervenuta in copia, manca delle
sottoscrizioni e non reca l'autenticazione notarile. Si trova nell'Archivio di Stato
di Venezia e sembra sia pervenuta alla Serenissima dall'archivio del Comune di
Treviso. <2>Gli eruditi di paleografia la ritengono eseguita tra la fine del XII e il XIII
sec. E' da notare che in questo periodo fiorirono innumeri falsificazioni ed
interpolazioni di documenti. <3>
E' da chiedersi inoltre perchè sia stata fatta questa copia, a qual fine e a chi
dovesse servire. Mi sembra che la risposta, sottolineata dalla postilla in calce
ali' atto stesso, sia abbastanza evidente. La copia doveva servire al Comune di
Treviso e ai suoi alleati, i Caminesi, per giustificare le loro pretese di espandere le
conquiste sui territori oltre il Livenza - cioè sulle terre assoggettate ai Patriarchi
aquilejesi nei sec. X-XII, - particolarmente su Sacile e il suo hinterland.
1) L'abate Carlo Lotti ha il merito di aver trascritto il testo e il disegno della lastra tombale rinvenuta
sotto il pavimento della Cattedrale quando la stessa venne parzialmente demolita per costruirne una
nuova. Detta lastra purtroppo è andata perduta.
2) Sembra che la copia del Placito sia stata trovata dal Padre Cornelio Frangi pane che, d'ordine della
Serenissima, "razziolava" gli Archivi di Treviso, dopo la sua dedizione a Venezia.
3) Vedi il falso atto di donazione fatto da Liutprando in Oderzo il 3 aprile 739 e i falsi documenti del
vescovo Francesco Ramponi, contestati dal Biscaro.
133
Ma torniamo al testo del Placito.
La sentenza in argomento, emanata il 6 giugno dell'anno 743 in Pavia, dal re
longobardo Liutprando, avrebbe posto termine alla lunga vertenza insorta tra i
Patriarchi di Aquileia ed i Duchi di Ceneda. Sul valore di tale "Placito" gli storici
e i paleografi hanno versato i classici fiumi d'inchiostro.
Numerosi eruditi l'hanno preso in esame sia dal lato paleografico, ossia della
forma, sia da quello storico, ossia del contenuto, arrivando a diverse conclusioni,
a volte sfumate, a volte nettamente contrastanti.
Alcuni lo hanno ritenuto un falso, nemmeno meritevole di venir preso in
esame. Tra questi il De Rubeis, il Chroust, il can. Azzoni Avogadro, il Lioni, lo
Schiapparelli, il Paschini, il Lanzoni, Paolo Lino Zovatto e, implicitamente, Pietro
Kandler.
S. Tramontin, dopo aver sostenuto la tesi del 713, si ricredette e ammise che
"se la diocesi di Cenedafosse sorta al tempo di Liutprando se ne avrebbe più sicura
notizia". Parere condiviso da S. Bortolami che la ritenne fondata tra il 567 e il 680.
Altri, pur riconoscendo che il testo presenta manomissioni ed interpolazioni
(operate ad arte? da chi?), hanno ritenuto che il documento sia da ritenersi
abbastanza attendibile sia nella forma (ossia rispondente al protocollo diplomatico
longobardo), sia nella sostanza (rispecchiante cioè la situazione storico-ambientale
dell'epoca), opinando che difficilmente un falsario avrebbe potuto ricostruire
esattamente i fatti dopo 4-5 secoli.
Questa posizione di sostanziale riconoscimento di autenticità è stata sostenuta e difesa dal Minotto, dal Pavanello, dal Cipolla, dal Pellegrini, dal Lizier,
dall' Andrich, dal Botteon, dal Vital, dal Marchesan, dal Fassetta, dal Cessi, e, di
recente, da C.G. Mar e da Alberto Zamboni.
Ciò premesso, non intendo entrare nel merito della diversa valutazione della
validità intrinseca del documento, data la mia incompetenza in materia.
21 a- Alcune considerazioni generali.
Che la copia del Placito rispecchi la reale situazione dell'epoca non fa
meraviglia.
I falsari si son sempre serviti, come falsariga, di un documento autentico,
modificandolo ed inserendovi, surrettiziamente, asserzioni di comodo.
Probabilmente la copia in questione ricalca anch'essa nella sua impostazione
generale qualche altro placito liutprandeo.
Nel placito in esame le interpolazioni sono evidenti perchè, ad es., nella parte
sanzionatoria vengono citati i Marchesi, che nell'VIII sec. non esistevano ancora.
Ma anche molte altre asserzioni sono evidentemente interpolate.
Per prima cosa non si comprende per quale motivo i duchi di Ceneda
avrebbero atteso circa 75 anni, dopo la distruzione di Oderzo e la traslazione a
134
Ceneda delcorpo di S. Tiziano, per chiedere l'istituzione di un vescovato a Ceneda,
visto che nelle situazioni analoghe, i Longobardi avevano sempre provveduto con
la massima sollecitudine.
La cura dei Longobardi nelle cose di religione è dimostata, ancora una volta,
dal fatto che - secondo il "Placito" - la difesa dell'integrità del territorio diocesano,
di fronte alle pretese usurpatrici patriarchine, viene sostenuta proprio dai duchi di
Ceneda i quali validamente si oppongono al suo smembramento.
Sono quei duchi che in precedenza avevano promosso l'elezione dei vescovi
da parte del clero cenedese e l'erezione di quella dozzina di pievi (che il Placito
ovviamente sottintende), preesistenti alla consacrazione canonica di Valentiniano,
pievi che dovevano già far parte della circoscrizione ecclesiastica cenedese.
Se non fa meraviglia che il Duca Teudemar si sia rivolto per la erezione della
diocesi al suo re, fa invece gran meraviglia che Liutprando non abbia subito girato
la richiesta al Pontefice romano, unico competente a decidere in materia (vedi al
punto 20).
Poichè tale comportamento è inamissibile da parte di un re cattolicissimo, non
resta che concludere che la pericope del 11°comma del Placito è stata artatamente
interpolata.
Del resto, nel seguito del Placito non si parla più della creazione della diocesi
ma solo della consacrazione episcopale di Valentiniano.
Un'altra considerazione riguarda gli attori della vertenza. In essa compaiono
oltre il messo ducale Fausto e il Patriarca Callisto, anche il vescovo di Treviso
Tiziano (che nel contempo amministrava il territorio della diocesi di Padova).
Non si capisce a quale titolo intervenga nella disputa il presule trevisano visto
che non sembra in contestazione il territorio della sua diocesi e ch'egli non
partecipa alla discussione. Non vi presenzia stranamente il vescovo di Ceneda,
Massimo, il quale avrebbe dovuto esser, logicamente, l'attore principale.
Si potrebbe ancora rilevare che il Patriarca Giovanni, il quale avrebbe preteso
la cessione temporanea di quattro pievi, non figura nelle cronologie ufficiali dei
presuli aquileiesi. Secondo Paolo Diacono (Vl,33) a Sereno, eletto nel 711,
successe direttamente il Patriarca Callisto, nel 716. Un Patriarca Giovanni è citato
solo in due cataloghi spurii, ripudiati dal Padre de Rubeis e dal Dandolo. Forse il
falsario si è avvalso di uno di questi cataloghi spurii per fabbricare la copia del
Placito?
Anche il vescovo Tiziano non figura nel primo catalogo dei vescovi trevigiani
ricostruito dal Bonifaccio e fu incluso poi solo in base al Placito
E da chiedersi: come fa il Patriarca a farsi cedere temporaneamente 4 pievi
da una diocesi che ancora non esiste? Non sarebbe stato più semplice e logico che
non le avesse cedute affatto visto che, nell'ottica del Placito, a lui già appartenevano?
135
La copia del Placito non contiene il nome delle 4 pievi oggetto del contendere.
Però contiene in calce una postilla, scritta dallo stesso amanuense, con il
nome di una Pieve che la sentenza avrebbe restituito alla diocesi di Ceneda,
annullando le pretese del Patriarca. In detta postilla risulta chiaramente leggibile il
nome della Pieve di S. Vigilio di Vigonovo, sotto il colle di S. Floriano.
Il testo contiene poi vari nomi di ville, ma non consente di identificarle con
certezza, anche se, nel contesto, l'elencazione lascia supporre che fossero situate
nell'ambito della giurisdizione della Piev.e di S. Vigilio di Vigonovo.
La veridicità e validità di detta postilla è stata sostenuta anche da Roberto
Cessi.
L'atto infine esplicita che le 4 Pievi furono restituite alla Chiesa di Ceneda.
Pertanto, se il documento è da ritenersi veritiero nella sostanza, sono del tutto
fuori strada coloro che, senza alcun motivo nè logico nè storico nè geografico,
hanno ritenuto d'identificare le 4 Pievi, oggetto della vertenza, con le 3 Pievi e le
due ville cedute dal vescovo di Ceneda, Giovanni, nell'anno 1074, a favore del
Patriarca e cioè le Pievi di S.Cassiano, di S.Fior e di S.Polo, oltre alle due Ville di
Raie di S.Remedio.
Forse per essi due Ville sono equivalenti ad una Pieve?
E' da notare che la Pieve di S.Vigilio, situata tra Vigonovo e Polcenigo, si
trova tra il Livenza e il Tagliamento. Al contrario le tre Pievi oggetto della cessione
del 1074 si trovano invece tutte e tre tra Piave e Livenza.
Bisogna tener presente che il Ducato di Ceneda si estendeva probabilmente
fino al Tagliamento, che segnò in un primo tempo il confine col Ducato del Friuli.
Poi fino al fiume Meduna, ove venne arretrato allorchè il Friuli venne totalmente
invaso dagli A vari e le "fare" friulane superstiti furono costrette a rifugiarvisi.
In seguito anche la "Contea franca" di Ceneda si estendeva fino al Meduna.
E noto invece, che solamente dopo le devastazioni operate dagli Ungari nella
prima metà del X sec., il Patriarca di Aquileia, nel 983, venne autorizzato
dall'imperatore Ottone III ad estendere i suoi domìni ad ovest del Tagliamento, fino
al Livenza, per organizzare la rinascita e la difesa militare dei territori devastati.
Il predetto imperatore, nel 1001, concesse al Patriarca Giovanni la giurisdizione sulle ville da lui riedificate. Proseguendo in tale politica l'imperatore Enrico
II donò (1017) al Patriarca Giovanni la villa di S. Paolo (S. Polo del Patriarca) con
le sue pertinenze.
Il 9 ottobre 1028, Corrado II concesse poi al Patriarca la selva detta Waldum
che si estendeva dall'Isonzo alla Livenza, sotto la strada degli Ungari.<0
1) MGH, Dipl.Germ. IV ,p.177 ,n.123 - O.Marchesini, p.60 - M.Peressin, p.106
136
Con diploma 8 marzo 1034 l'imperatore Corrado II, concesse ancora al
Patriarca Poppo "la terra che i Veneti un tempo sembrava possedessero tra Piave
e Livenza" e cioè Motta, Oderzo, Camino, San Giorgio, Albinella, Cavolano,
Sacile, Caneva, Cordignano, Reghenzuolo, Lago e Serravalle.
Successivamente i Patriarchi estesero la loro giurisdizione spirituale a
ponente del fiume Livenza, come risulta dalla cessione consensuale (consensuale?,
ma fino a che punto?) di tre pievi e di due ville operata nel 1074 a danno del
disastrato territorio della diocesi di Ceneda, il quale - come già detto - stentava
molto a ritrovare la forza di risollevarsi dalle devastazioni operate dagli Ungari.
Per effetto delle donazioni predette il Patriarcato ottenne - quesa volta col
beneplacito imperiale - il possesso materiale e spirituale dei territori militarmente
occupati da qualche decennio.
21b -La causa del contendere.
Il Patriarca avrebbe preteso di mantenere definitivamente il possesso delle
quattro pievi, estorte temporaneamente al vescovo Valentiniano, per comodità e
sicurezza di viaggio per recarsi a Pavia, capitale del regno longobardo.
Le motivazioni, comodità e sicurezza, sono entrambi infondate. Se nel suo
viaggio il Patriarca avesse dovuto far quattro tappe nel territorio della diocesi di
Ceneda, quanto tempo avrebbe dovuto impiegare per giungere a Pavia, facendo 2030 comode tappe attraverso altre sette-otto diocesi? E a che gli sarebbe servita la
villa di S. Remedio, ai bordi delle lagune del tutto fuori del suo normale itinerario?
Inoltre a che sarebbero servite quattro basi nel territorio cenedese quando non
ne avrebbe più avuta alcuna nel seguito del suo viaggio dal Piave fino a Pavia? Per
giungervi avrebbe dovuto attraversare - seguendo la via più breve - i ducati di
Treviso, Vicenza, Verona, Brescia o Brescello, Lodi e, in fine, Pavia!
Se si ritiene valida l'argomentazione patriarchina di necessitare di un corridoio di passaggio per accedere a Pavia, dovremmo chiederci perchè mai non abbia
rivolto analoga richiesta anche ai vescovi di Treviso, Asolo, Vicenza, Verona e
Brescia - tutti suoi suffraganei, come il vescovo di Ceneda- di cedergli anch'essi
alcune pievi per costituire un lungo corridoio di comodo, tutto di sua diretta
giurisdizione spirituale, fin oltre il lago di Garda?
Circa poi la "sicurezza", non risulta che in quegli anni il ducato di Ceneda
fosse in antagonismo con il contermine ducato friulano. Anzi, i due ducati non
furono mai in lotta tra loro, ma spesso alleati e in comunanza di intenti. A volte i
rispettivi duchi risultano addirittura imparentati tra loro. Quindi la motivazione
addotta, e cioè "la sicurezza", è anch'essa in ogni caso fuori discussione.
Nel Placito, la domanda fatta a Fausto, messo del duca Aginualdo " se cioè
a Ceneda nell'antichità vi fosse stata una sede vescovile o no", non ebbe una
137
risposta chiara. Se la risposta fosse stata esplicita non ci sarebbe stato motivo di
ulteriori discussioni.
Nel Placito è scritto invece "esser chiarito con molte prove che Massimo era
il secondo vescovo (consacrato da lui) e che quando Oderzo era nel suo fulgore (ma
quando? prima di Attila? o prima di Rotari ?) le chiese cenedesi erano a lei soggette."
La risposta è reticente, volutamente ambigua e si presta a svariate interpretazioni contapposte. La pericope inoltre è chiaramente frutto di una interpolazione
perchè la domanda e la risposta esulano dalla questione sulla quale si deve decidere
e per di più risulta male inserita nel contesto dell'atto.(!)
21c Altri interrogativi insoluti.
Come quello del vescovo Valentiniano che per venir riconosciuto e consacrato canonicamente sia stato costretto a pagare una "tangente" al Patriarca aquileiese,
cedendogli in uso temporaneo ben quattro Pievi.O)
Il motivo del ricatto: Valentiniano doveva farsi perdonare per aver esercitato
di fatto e per diversi anni le funzioni sacerdotali e vescovili in Ceneda senza aver
ottenuto la consacrazione canonica, eletto solo dal popolo e clero locale (o dal duca
di Ceneda).
Oltre che dal Placito, ciò risulta dal fatto che Valentiniano, come già detto,
si fece costruire nell'antica Cattedrale una tomba nuova sottolineando in modo
esplicito tale fatto nell'iscrizione della lapide, trascritta dall'ab. Carlo Lotti:
"Dominus Ep.us Valentinianus edificave sibi munumento novo". Una tomba
"nuova", presuppone l'esistenza di una tomba "vecchia" nella quale erano sepolti
i vescovi suoi predecessori.
Quindi Valentiniano non fu certamente il primo vescovo di Ceneda.
Giustamente poi il Patriarca Callisto rileva che il Valentiniano non può esser
stato consacrato nella sede opitergina, il cui vescovo da circa 80 anni si trovava
esule "in quadam insula", e quindi dovrebbe esser addirittura deposto dall'ordine
sacerdotale.
1) F.Troyer, op.cit., Capo IX
1) Se la diocesi venne allora istituita, come faceva a comprendere giù un numero di pievi così grande
da poterne cedere ben 4 senza stravolgere del tutto il suo territorio?
Per di più, la maggior parte degli studiosi opina che le 4 pievi fossero Cordignano, S. Fior, S. Polo
e S. Remedio. Invece C.G. Mor in "Da Roma a Carlo Magno" (p. 20 ,nota n.19), elenca: S. Fior, S.
Polo, S. Donà e Musestre sull' Annia. A parte l'omissione di Cordignano e l'identificazione di S.
Remedio con S. Donà, la Pieve di Musestre sembrerebbe proprio fuori luogo, in quanto generalmente
si opina che Musestre facesse già parte del Ducato e della Diocesi di Treviso.
O è invece questo il motivo per cui è presente alla vertenza anche il vescovo di Treviso? Forse
Musestre faceva parte del territorio opitergino occupato dai trevisani dopo la distruzione di Oderzo?
138
L'asserzione è fondatissima, ma ad essa non viene inspiegabilmente dato
alcun peso nel corso dell'ulteriore discussione della vertenza.
Nel Placito del 743 si parla di quattro pievi mentre nell'atto del 1074 si citano
solo tre pievi (S.Cassiano, S.Fior e S.Polo), oltre le ville di Raie di S. Remedio,
(ville, non pievi). Quindi non collima nemmeno l'oggetto delle due cessioni.c2>
Ora i casi sono due: o la copia a noi pervenuta è uno dei tanti falsi e allora la
questione cade e ogni discussione diviene oziosa. O l'amanuense ha copiato un atto
autentico e in tal caso lo si deve ritenere attendibile in toto.
Ritengo che non si possa onestamente ritenere veritiero di un atto solo la parte
che fa comodo alle proprie tesi e rigettare il resto quando non fa comodo.
E poichè il Placito attesta in modo categorico che le quattro pievi furono
restituite al vescovo di Ceneda, chi afferma il contrario dovrebbe almeno fornirne
la prova.
Anche il Maschietto ritiene che le quattro pievi siano state restituite. Infatti
a pag. 92 della "Vita di S. Tiziano" scrive testualmente: "Gli restituirono anche il
territorio ... quello cioè che il Placito chiama la parrocchia? Non si può dubitarne."
Chi sostiene che la restituzione contenuta nel Placito non sia che un'
"interpolazione" dovrebbe chiedersi almeno per quale motivo sia stata inserita e a
chi sarebbe servita.
Chi falsifica un atto lo fa sempre per un motivo preciso. Nel caso in esame non
vedo a chi potrebbe esser risultato utile. Non certo al Patriarca, non ai vescovi
cenedesi e bellunesi, non a Treviso e nemmeno ai da Camino.
Sarei curioso di sapere chi avrebbe potuto trame beneficio!
Che le quattro pievi siano state restituite è confermato dal fatto che nell'anno
1017 l'imperatore Enrico II il Santo, con diploma emesso in Hallstadt concesse al
Patriarca Giovanni la villa di S. Paolo (S. Polo del Patriarca) con tutte le sue
pertinenze.
Inoltre con Diploma 8 marzo 1034, Corrado II concesse a Popone il possesso
di Motta con il suo distretto, Oderzo, Camino, S.Giorgio, Albinella, Cavolano,
Sacile, Serravalle, Lago, Cordignano, e Reghenzuolo (leggi S.Fior).
Orbene, se le quattro pievi non fossero state restituite, che bisogno avrebbe
avuto Sigeardo di farsi concedere quanto da lui già posseduto pacificamente,
ininterrottamente e senza alcuna contestazione, fin dal tempo del re Liutprando? E
come avrebbe potuto il vescovo di Ceneda concedergli ciò che da secoli non era più
in suo possesso?
2)Non sembrerebbe logico che il Patriarca si fosse fatto cedere 4 pievi ad est del Livenza e quindi a
lui più vicine, lasciando alla diocesi di Ceneda l'unità territoriale tra Piave e Li venza?
139
22 - SU ALCUNEPOLEMICHEINSORTE
Qualcuno ha sostenuto che l'atto di donazione del 1074 sia stato fatto al solo
scopo di "ribadire la legittimità" del possesso delle quattro pievi, tenute dal
Patriarca in modo illegale, e quindi sanare la situazione esistente.
Non posso esimermi dalr ..,:1.minareanche tale ipotesi.
In sostanza si sostiene che le quattro pievi, che il Placito asserisce esser state
restituite, in realtà il Patriarca non le avrebbe rese e se le sarebbe tenute in via
definitiva. Quindi l'atto di cessione fatto nel 1047 sarebbe servito solo "a ribadire
la legittimità" (ma quale legittimità?) della situazione di fatto esistente.
Faccio osservare che, ammessa questa tesi, un sopruso del genere - che odora
di simonia - non si poteva sanare che con la restituzione del mal tolto. Non certo
costringendo il danneggiato a rinunciare formalmente ai suoi diritti così a lungo
calpestati.
Ma vediamo più dettagliatamente come sarebbero avvenuti i fatti nell'ottica
di coloro che sostengono risalire all'VIII sec. le origini della diocesi di Ceneda.
Il Patriarca Callisto, infuriato perchè la vertenza era stata definita in modo a
lui sfavorevole, anzichè rendere le quattro pievi, come deciso dal re Liutprando,
avrebbe tergiversato e poi, visto che nessuno interveniva per obbligarlo ad
osservare la sentenza, si sarebbe tenute le 4 pievi definitivamente. L'usurpazione
sarebbe stata perpetuata, dopo di lui, da una quarantina di suoi successori.
Per condividere tale tesi bisognerebbe ammettere:
- che il Placito abbia detto il falso, ove afferma che le 4 pievi furono restituite;
- che il duca di Ceneda Aginualdo - il quale aveva riavviato, sostenuto e vinta
la causa - abbia improvvisamente cambiato idea ed abbia rinunciato "sic et
simpliciter" alla restituzione delle 4 pievi, senza alcun logico motivo.
- che il re Liutprando, e i suoi successori, abbiano omesso di dare attuazione
alla sentenza, come pure tutti coloro ai quali era stata demandata l'esecuzione.
Più comprensibile sarebbe l'inerzia di Massimo, vescovo di Ceneda, il quale
non avrebbe osato opporsi al suo superiore ecclesiastico, tanto da non aver
promosso e nemmeno di essersi costituito (parte civile) nella vertenza.
Questa situazione di illegalità si sarebbe poi protratta per oltre 4 secoli.
E' certo invece che solo dopo il X sec. i Patriarchi iniziarono ad acquisire
potere in campo civile e militare, e vennero autorizzati dagli imperatori teutonici
ad espandere il loro dominio sul territorio tra Tagliamento e Livenza, e poi anche
oltre.
Ora cerchiamo di immaginare come si sarebbero svolti gli avvenimenti nel
1047, sempre nell'ottica dei fautori della non restituzione delle quattro Pievi. Un
giorno il Patriarca Sigeardo consulta il suo archivio e si accorge di detenere in modo
illegale le famose quattro pievi e, per non aver rimorsi sulla coscienza, decide di por
140
fine all'usurpazione e di sanare una buona volta la situazione.
A questo punto ci si aspetterebbe che egli convocasse il vescovo di Ceneda,
Giovanni, gli presentasse le sue più ampie scuse e gli restituisse le quattro pievi,
unitamente (ma questo sarebbe forse pretendere troppo!) alle relative rendite da lui,
e dai predecessori, indebitamente percepite.
Invece no! Invece di rimediare così al mal tolto, ignorando i dettami
evangelici, aggiunge illegalità all'illegalità invitando il vescovo suffraganeo a
sottoscrivere un atto di formale rinuncia alle quattro pievi in questione.
Il vescovo Giovanni non ha la forza di opporsi alla richiesta patriarcale, tanto
più che il suo superiore è ormai molto potente, civilmente, ecclesiasticamente, ma
soprattutto militarmente: pertanto china la testa e sottoscrive l'atto di cessione. ( 1)
Ma come avrebbe egli potuto osare di opporsi alla richiesta di Sigeardo?
L'episcopato di Ceneda era estremamente debole; aveva già perso alcune parrocchie per l'invadenza bellica di Giovanni II, vescovo di Belluno. Non aveva
nemmeno la forza per contrastare le invasioni dei trevigiani, nè di opporsi ai
continui soprusi dei suoi turbolenti feudatari.
Questa in sostanza la prospettiva segnalata.
I fautori di questa tesi ci presentano una lunga serie di Patriarchi sotto una luce
davvero meschina, addossando loro i reati di falsità, di sopraffazione, di simonia;
luce non certo consona alla loro memoria, se non di ottimi, almeno di buoni prelati!
Evidentemente la tesi è forzata, fatta di troppe illazioni, difficile da credere!
Contro di essa sta il fatto che nessun atto o documento - almeno io non ne ho
mai trovato - dimostra che le parrocchie di San Fior, S. Cassiano del Meschio, e S.
Polo sian state dipendenze della chiesa di Aquileia prima delle davastazioni operate
dagli ungari.
Se qualcuno può provare il contrario sono dispostissimo a ricredermi.
Ma altri 2 piccoli indizi fanno ritenere che le 4 pievi siano state veramente
restituite.
In data 6 agosto 9621' imperatore Ottone I dona a Sicardo, vescovo di Ceneda,
la zona delimitata da un lato dalla Corte di Tovena, la Chiesa di S. Floriano, il fiume
Meschio e il Campardo. Dall'altro lato, dal torrente Cervano e il fiume Monticano.
In detta zona è compreso S. Fior con le sue dipendenze (Castello Roganzuolo,
Godega, Orsago, S.Vendemiano ), parrocchia e ville che ricadono nel territorio che
avrebbe dovuto esser da secoli in possesso del Patriarca.
Invece l'imperatore lo regala liberamente a favore del vescovo di Ceneda con
1) L'atto di cessione del 1074 esiste in copia nell'Archivio della Curia Vescovile di Vittorio Veneto
(b. 59bis, f. l, n. l). In Regesto, è riportato dal De Rubeis (Dissertationes); da Pio Paschini (Storia del
Friuli, v.1°, p.221); dal Marchesini (Annali di Sacile, p.62); dal Maschietto (S.Tiziano, p.91).
141
tutto quello che il territorio comprende, ignorando completamente il presunto
possesso patriarchino. E' vero che il patriarca poteva possedere la Pieve di S.Fior
solo "in spiritualibus" ma la donazione avrebbe costituito un fatto per lui assai
irriguardoso in quanto la sua pieve sarebbe venuta a dipendere civilmente da un suo
subalterno.
Detto diploma non è una copia anonima o falsa o interpolata, ma è un atto
autentico.
L'originale si trova nell'Archivio di Stato di Venezia.
Altro indizio: Il castello di Cordignano fu eretto probabilmente nel X sec.
quale opera di difesa contro le incursioni operate dagli ungari. Molti storici sono
propensi a ritenere che il castello sia stato edificato dai vescovi di Ceneda e ciò
perchè in seguito essi ne furono i feudatari concedenti.
Nessuno ha mai attribuito la sua edificazione e nemmeno il suo possesso al
Patriarca aquileiese. Ciò dimostra che Cordignano nel X sec. era nell'orbita
diocesana cenedese.
22a - Ad altre osservazioni, rispondo:
E' anacronistico e fuorviante citare i contrasti sorti tra il 734 e il 737 tra il
Patriarca Callisto e il duca friulano Pemmone per giustificare una richiesta
avvenuta più di vent'anni prima, epoca in cui sembra vivessero in armonia. E in
ogni caso cosa c'entrava il duca di Ceneda nelle loro supposte beghe?
Inoltre il possesso spirituale di alcune pievi come poteva giustificare un
"transito più sicuro" dal momento che il duca di Ceneda deteneva su dette pievi ammesso che già tutte e quattro esistessero nei primi anni dell'VIII secolo - sia il
possesso politico sia quello militare?
Circa la vicinanza a Ceneda, citata nel Placito: E' vero che S. Cassiano e S.
Fior sono più vicine a Ceneda rispetto a Vigonovo e S.Vigilio (S. Polo è all'incirca
alla stessa distanza). Ma non sembra che ciò sia un elemento probante, sia per
l'indeterminatezza dell'espressione usata, sia perchè tutte le pievi in questione
erano comunque molto più vicine a Ceneda che ad Aquileia. Inoltre sembrerebbe
logico che il Patriarca avocasse a sè le pievi più vicine, non quelle più lontane dal
territorio della sua diocesi.
Ne' si può infine far confusione tra due momenti storici sostanzialmente
diversi: cioè tra quello esistente all'epoca dell'atto del 1074 e quello riscontrabile
all'epoca del Placito (a. 743). Anzi, del secondo decennio del secolo VIII, perchè
la vertenza riflette la cessione temporanea di 4 pievi avvenuta circa trent'anni
prima.
142
Verso il 713 il Patriarca, che non deteneva alcun potere politico, poteva solo
postulare il possesso spirituale delle 4 pievi che appartenevano al territorio del
Ducato longobardo di Ceneda. Quindi la richiesta era motivata non da necessità di
viaggio, nè dal desiderio di supremazia religiosa (giacchè il Patriarca era già il
metropolita di tutte le diocesi della "Venetia et Histria") ma dalla cupidigia di
possedere le relative rendite.
Invece nel 1074 l'occupazione di pievi e ville tra Piave e Livenza rispondeva
ad un preciso piano di espansione di natura politica, ma ancor più militare,
patrocinata dagli imperatori germanici, al fine di consolidare ed ingrandire un
territorio chiave e fedele (il Friuli), importante ai fini del controllo militare delle
Venezie.
E' stato più volte ripetuto che dopo l'invasione degli Ungari la contea di
Ceneda stentava molto a trovare la forza di risorgere. Perciò nell'XI sec. il suo
territorio era in balia dei vicini più potenti, che ben presto entreranno in lotta per il
suo possesso. Principalmente, da un lato il Comune di Treviso e dall'altro il
Patriarcato, che (dopo le concessioni di Ottone III e di Corrado Il) stava ormai
divenendo un vero principato, il che si verificò qualche anno dopo, nel 1077, con
la concessione degli onori ducali al Patriarca da parte di Enrico IV.
Il Patriarca Sigeardo possedeva già tutta la zona tra "la Livenza, la strada degli
Ungari e il fiume delle due sorelle (983)", nonchè Sacile e Caneva fin dal 1034.
Quindi l'ingrandimento del 1074 risponde ad una richiesta strategico-militare, cui la debolezza del vescovo di Ceneda non potè o non era in grado di opporre
un rifiuto.
23 - IL VESCOVATO DI ODERZO
La cronotassi dei vescovi opitergini ricorda nel 418 e 421 Epone o Epodi o, che
si ritiene sia stato presente alla consacrazione della chiesa di S.Giacomo a Rivoalto.
Nel 579, Marciano. Dopo di lui: Floriano (ritenuto Santo).
Nel 620-632 circa, Tiziano, anch'egli ritenuto Santo.
Verso il 632, San Magno, che si trasferisce ad Eraclea ove muore nel 670 circa.
Nella sede eracleana a Magno succede il vescovo Marco (non doc.), poi
Benenato, poi altri vescovi i quali tutti conservano il titolo di "Vescovo di Oderzo".
Al Sinodo di Roma, nel 674, risultano presenti sia Orsino vescovo di Ceneda
sia Benenato vescovo di Oderzo (De Rubeis, P. Arduino, J. Bemardi, p.104).
Nella sinodica di adesione al Concilio Ecumenico di Costantinopoli (680),
figurano tra i vari sottoscrittori sia Ursino di Ceneda sia Benenato di Oderzo.
Entrambi si dichiarano della Provincia Histriae.
Nell'876 esiste ancora un vescovo che si sottoscrive "Vescovo di Oderzo",
segno che il titolo, fino a tale data, non era stato nè mutato, nè soppresso.
143
24 - CONCLUSIONE:
Personalmente ritengo, e credo di aver sostenuto con serie argomentazioni :
I Che una chiesa paleocristiana è sorta in Ceneda nel IV o nel V secolo.
II Che la Diocesi di Ceneda è sorta tra il V e il VII sec. e non nell' VIII, come
sostengono coloro che la fanno nascere per effetto del Placito di Liutprando.
III Che detto Placito (ammesso sia attendibile, il che mi permetto di porre in
dubbio) riguarda solamente "la consacrazione episcopale canonica" del vescovo
Valentiniano e non certo la prima istituzione della diocesi cenedese.
IV Che l'argomento del contendere, e cioè la presunta cessione temporanea
di 4 pievi, che sarebbe avvenuta nell'anno 713, nulla abbia a che fare con la rinuncia
di tre pievi e due ville che il vescovo Giovanni fece al Patriarca di Aquileia
nell'anno 1074.
V Infine opino che la copia del Placito sia stata o fabbricata o interpolata dal
Comune di Treviso e/o dai Caminesi allo scopo di giustificare le loro pretese di
espansione nei confronti del Patriarcato, sul territorio a levante del fiume Livenza,
in particolare su Càneva e Sacile.
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147
Giovanni Tornasi
FRATI QUESTUANTI NEL TARDO MEDIOEVO
Fenomeno di ampia diffusione nel Medioevo fu quello dei religiosi, "frati",
che si dedicavano alla questua, non solo nel territorio circostante il loro convento
o monastero, ma anche in zone più distanti. Se il cenobio di provenienza era
particolarmente importante e quindi famoso come luogo di culto (per la presenza
di reliquie e per la fama dei miracoli ad esse legati), questi religiosi si spingevano
anche in diocesi assai lontane.
Per poter chiedere le elemosine ai fedeli dovevano però avere l'autorizzazione
(la "licenza di questua") dell'ordinario della diocesi dove intendevano essere attivi
(questo per evitare abusi e frodi da parte di sedicenti questuanti); nelle cancellerie
diocesane pertanto rimane traccia di ciò.
Si propone qui di seguito una breve lista inedita di tali autorizzazioni della
metà del Quattrocento (1449-57), traendo dall'Archivio Diocesano di Vittorio
Veneto (olim Ceneda), busta 59/1.
-
fra Pietro de Pertecharia nella diocesi di Spoleto per san Bovo, 1449,
fra Giovanni de Flazino nella diocesi di Spoleto per san Bovo, 1450,
fra Filippo de Fligino, che abita in santa Maria di Betlemme di Treviso, 1449,
fra Ludovico di Borgo S. Basso di Roma per santa Maria Maggiore di Roma,
1449-50,
- fra Gerolamo de Frigino nella diocesi di Spoleto pro vocabulo SanctiBarholomei,
1449-50,
- fra Antonio de Frayno nella diocesi di Spoleto per il beato Antonio di Vienne,
1449-50,
149
-
fra Paolo de Fageno e fra Nicolò da Borgo per l'ospedale di san Bartolomeo a
Benevento, 1454,
fra Gabriele da Tolentino eremitano per santa Maria de Apicino diocesis
Tergnien, 1455,
fra Francesco de Frigeno nella diocesi di Spoleto per santa Maria di Betlemme
di Treviso, 1455,
fra Geronimo de Frigino per l'ospedale di san Bartolomeo di Treviso, 1455,
fra Antonio de Fregeno nella diocesi di Spoleto per il beato Antonio di Vienne,
1455-57,
fra Barnaba da Ponte per l'ospedale di santa Maria di Roncisvalle, 1456,
fra Ludovico de Frageno vocabulo Sancti Bogi, 1456
Oltre ai soprastanti ricordo ancora che nel 1464 fra Nicolò da Gardena, priore
dell'ospedale di san Pellegrino in val di Fiemme nominò un cenedese collettore
delle elemosine in diocesi di Ceneda (vedi G. Tornasi, La diocesi di Ceneda. Chiese
e uomini dalle origini al I 586, Vittorio Veneto 1998, I, 61 ).
È attestata, inoltre, la presenza:
- a Tarzo il 13.10.1474 (ASTV 328) di fra Giovanni q. AngelodaSant'Elpidio
nel Piceno e fra Santo da S. Giulio di Romandiola dell'ordine degli Eremitani di S.
Maria in monte di Assisi, entrambi questuanti cerretani.
El' 11.02.1475 (ASTV 328) di fralacomoq. BartolodeSitulisdaBagnacavallo,
professo francescano.
Come si vede sono interessati alla questua 1O luoghi pii (comprendendo nel
novero anche san Bartolomeo e san Bovo, che potrebbero anche essere i santi e non
i cenobi), {ra cui quelli vicino a Treviso (due) e san Pellegrino sull'omonimo passo
dolomitico, ma anche quelli più lontani di Roma, Roncisvalle e Vienne (gli ultimi
due in Francia) e di Benevento e de Apicino (località a me ignota).
Stupisce (e desta anche qualche perplessità per le possibili frodi) il numero di
frati provenienti dall'Italia centrale ed in particolare (otto su tredici) da Fageno,
Filigino, Frageno, Flazino, Frayno, Frigeno, Frigino, in diocesi di Spoleto,
questuanti per vari cenobi.
150
Francesca Girardi
CISON IN UN DOCUMENTO INEDITO: L'INVENTARIO DEI BENI DELLA
PIEVE DI SANTA MARIA.
Il 24 febbraio 1450 sotto la loggia del comune di Cison, alla presenza del
pievano e dei parrocchiani, venne letto e pubblicato l'inventario dei beni della
chiesa di Santa Maria di Cison del distretto della Val Mareno e della diocesi di
Ceneda<l). In tale documento, oggetto del presente studio, erano elencate le terre
possedute dalla chiesa e i terreni soggetti al pagamento della decima, oltre a
disposizioni relative al quartese.
Il documento era stato fatto redigere dall'allora pievano Antonio da
Bagnacavallo per adempiere alle disposizioni del vescovo Pietro Leon<2>.
Antonio da Bagnacavallo, alias Antonio da Rimini, figlio di Serafino, era
stato probabilmente sacerdote a Cison già negli anni 1443-1446, prima che gli
succedesse per qualche anno Enrico d' Alemagna<3 >.Lo si trova documentato nel
1461 come parroco della chiesa di S. Maria di Feletto, nel 1463 come pievano di
S. Leonardo di Conegliano ed in seguito a S. Cassiano di Quinto in diocesi di
Treviso<4>.Egli faceva verosimilmente parte di quelle genti giunte al seguito di
Brandolino Brandolini da Bagnacavallo. Costui pochi anni prima era stato il
protagonista di un importante cambio istituzionale. Nel 1422, dopo la morte di
1) Si veda di seguito il documento a c. 9.
2) Pietro Leon, figlio di Zanoto, di contrada S. Canzian di Venezia fu eletto vescovo di Ceneda nel
1445. Rinunciò all'episcopato nel 1474, succedendogli il nipote Nicolò Trevisan. Morì nel 1481. Si
veda G. TOMASI, La Diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio Veneto 1998.
3) G. TOMASI, op. cit., voi. I p. 181 e voi. II p.168.
4) G. TOMASI, op. cit., voi. I p. 199,202,227.
151
Ercole da Camino, la V al Mareno era passata sotto il governo di Venezia e da questa
poi, nel 1436, era stata concessa in feudo ad Erasmo da Nami ed al Brando lini che
nel 1439 aveva poi acquistato anche la parte del Gattamelata restandone unico
signore.
E' significativo che il primo pievano documentato a Cison dopo questi
importanti avvenimenti provenga da Bagnacavallo, come anche il fatto che
successore del nostro pievano Antonio sia un pre Francesco da Bagnacavallo<5>,in
precedenza sacerdote presso la chiesa di S. Pietro di V almareno<6>•
L'inventario era stato redatto da Bartolomeo da Miane, figlio di Giovanni,
notaio e cancelliere della curia di Val Mareno da prima del 1436. Diverse le sue
attestazioni nella trascrizione di G. Giorno degli Statuti della Val Mareno. Nel 1444
roga un atto " ... mandato magnifici domini comitis (Brandolino Brandolini) et
domini potestatis (Bartolomeo Atovalli) ... "O> ma, in virtù della sua carica di
cancelliere lo si ritrova anche in molti altri importanti documenti di metà '400 a
Cison, Pollina e dintomi<8>•
Il 23 marzo 1490 Antonio Graziani<9>, cancelliere vescovile al tempo del
vescovo Nicolò Trevisan° 0>, fece registrare l'inventario nei libri del vescovato
cenedese<11> •
Veniamo ora al contenuto del codice.
Dopo una pagina introduttiva (c. lr) inizia l'elencazione dei beni della chiesa
di S. Maria, siti nelle pertinenze di Cison salvo diversamente indicato (cc. 1v-4r).
Vi si trova l'indicazione e la descrizione di:
- una casa in luogo detto la" cha' del piovan" e di un orto nelluogo denominato
"l'orto del piovan";
- due terreni, l'uno in località "al maxo de campomolino" e l'altro "in capite
tovenelle" lavorati il primo da Martino, figlio di Coleto da Cison e il secondo da
Giovanni de Recho da Tovena, dai quali si percepiscono per l'affitto frumento,
miglio, sorgo, segala, vino e legname;
5) G. TOMASI, op. cit., voi. I p. 181.
6) G. TOMASI, op. cit., voi. I p. 187.
7) Si veda A. BUOGO, La Valmarena dei contadini e dei feudatari, Treviso 1983, p.225.
8) Redige il 27 febbraio 1447 un documento d'investitura fatto da Brandolino Brandolini a Giovanni
di Baldino da Mareno, il 12 novembre 1457 controfirma l'inventario De bonis Abatiae Sanae Vallis
(Bibl. Com. Treviso, cod. 11O), il 29 novembre 1464 pubblica le Additiones del luogotenente Gian
Giorgio Trissino. Si veda A. BUOGO, op. cit., pp. 31, 38, 92, 225-227, 231.
9) Si veda G. TOMASI, op. cit., vol. II p. 269.
10) Vescovo di Ceneda dal 1474, a lui risale la più antica visita pastorale della Diocesi a noi pervenuta.
Si veda G. TOMASI, op. cit., vol. I p. 114-116.
11) Si veda di seguito il documento a c. 9v.
152
- di un terreno non edificato (pecia terre garbe, c.2r) in località "pe' de rui";
- di due boschi, uno con alberi di castagno, a "col de vi" e a "barde ronzone";
- di otto appezzamenti di varie estensioni, dislocati nei pressi della chiesa di
S. Felice e nelle località "pramor", "longa calle", "valle" e "la clisura" dati in
affitto per un corrispettivo in denaro, frumento, segale e miglio a Cristoforo
Fiastre/lo da Cison;
- di quattro terreni siti in vari luoghi nel territorio di Gai, retti da Pietro da Gai;
- di due mezzi campi a Mareno, in località "col de sfelzo", tenuti l'uno da
Gaspare da Mareno e l'altro dagli eredi di Giacomo di Odorico da Mareno;
- ed infine di un terreno a Tovena in "pra del frase no" affidato ad Antonio de
Meredellis.
A questo elenco segue (da c. 6 a c. 9r) quello delle "Decime plebanatus
Cisoni ", cioè dei terreni che per antichi diritti, dominicali o sacramentali, dovevano
corrispondere alla pieve di Cison una quota parte, un decimo, dei prodotti sia dei
fondi che degli animali o del lavoro umano 02 >.
Sono enumerati vent'uno terreni soggetti al pagamento delle decime ecclesiastiche, in prevalenza della curia di V al Mareno<13l ma anche del monastero di
Follina, del monastero di S. Giustina di Serravalle, nonché di singoli privati.
Diversamente, al pagamento del quartese, cioè della quarantesima parte dei
prodotti dei fondi, erano tenute tutte le terre, le "possessiones" e i "sedimina" situati
sotto la pieve di Cison e le cappelle ad essa soggette. Sono indicate le ville di Cison,
di Mareno, di Tovena dalla località "pietrafita"( 14l in direzione di Cison, di Gai, di
Zuel e di Rolle ed i beni da corrispondere sono: biade, legumi, rape, lino, vino,
agnelli, polli e suini (c. 9r).
L'inventario ci offre un interessante spaccato di quella che era, in parte, la
Cison medievale. Tramite la descrizione degli appezzamenti di terra, con la
12) Non è possibile determinare, in quanto non vi è qui nessuna indicazione al riguardo, se in questo
caso la decima constasse effettivamente come all'origine nella decima parte dei frutti, come è
ragionevole supporre, o in un altro valore. Per un approfondimento sul tema delle decime in diocesi
di Ceneda e nella Marca Trevigiana si rinvia a G. BENVENUTI, Le decime e i quartesi nella storia,
nella legislazione e nella giurisprudenza, Treviso 1933, capp. V-VII, e E. PERINOTIO, Le decime
nella Marca Trevigiana, Treviso 1958.
13) La dicitura curia Vallis Mareni indica nel codice il complesso di terre della signoria feudale mentre
con il termine Marenum viene indicato il paese di V almareno. Per maggiori indicazioni circa la Curia
Vallis Mareni si vedano DALL' ANESE-MARTOREL, Il Quartier del Piave e la Val Mareno,
Vittorio Veneto 1977, p. 50 e D. CANZIAN, Vescovi, signori e castelli, Firenze 2000, pp. 65-66.
14) Come si desume dal Catastico dei beni feudali della Valmarena, noto anche come Inventario
Morosini (Arch. Privato dei Conti Brandolini di Cison), la pietra fita era il termine con cui veniva
indicato un luogo ben preciso nei pressi della via publica; probabile indicatore della presenza di un
masso confinario o termen, forse anche molto antico.
153
consueta indicazione dei confini "a mane" (est), "a meridie" (sud), "a sero" (ovest),
"a monte" (nord) emerge un nutrito numero di toponimi, alcuni dei quali ancora
esistenti, come ad esempio Campomolino e Montalban.
Si tratta in prevalenza di terre arative, di terre con viti e alberi da frutta ma vi
sono anche prati e boschi e tutti gli appezzamenti menzionati appaiono di dimensioni contenute, in genere un terzo, un quarto o metà di un campo<15J.
Si ha poi la menzione di ben tre strade, la "via antiqua", la "via consortiva"
e la "viapublica", e del "roiale", termine usato attualmente nelle varianti dialettali
di "roiea", "ruiela", "roiela" per indicare che si diparte dai mulini Ciale, siti nei
pressi della chiesa di San Sii vestro, scorrendo per un buon tratto parallela al torrente
Ruio.
Notizie interessanti si ricavano anche da nomi e cognomi. Il nome proprio
delle persone è accompagnato dalle località di provenienza come "de Cisano", "de
Tovena", "de Raseria" ed altri, o dal patronimico come Giacomo di Odorico
(Iacobus Odorici) o forse anche dal matronimico come Antonius Pauleta, ma in
qualche caso già si intravedono alcune forme cognominali tuttora esistenti quali
Favalessa o Da Broi (de Brois nel codice).
Descrizione del codice
Il codice su cui è condotta la presente edizione è di proprietà privata.
E' un manoscritto pergamenaceo risalente all'anno 1450. Misura mm. 220 x
150 e consta di carte II+ 9 +II.Ha una copertina in cartoncino neutro e quattro carte
di guardia, due anteriori e due posteriori, di color celeste chiaro. La prima carta di
guardia anteriore reca sull'angolo superiore sinistro, in inchiostro bruno, la parola
"extra" e sotto, verso il centro della pagina "Pro I reverendissimo plebano Vallis
Marenil CI homines Mareni". Della stessa mano è l'annotazione "B. Rota/ R. 14"
sull'angolo inferiore destro. Sotto "homines Mareni" in matita e grafia del XXI
secolo è scritto "1450 25 febbraio I Brano d'inventario dei I beni della parrocchia
I di Cison sotto il I piovanato di Antonio I di Bagnacavallo".
Il codice è composto da un unico fascicolo, attualmente di una carta (c. 1) e
quattro bifolii (da c. 2r a carta 9v) che in origine erano verosimilmente cinque: la
prima carta è, infatti, lacunosa sul margine sinistro ed è logico supporre la caduta
dell'altra metà del bifolio.
La numerazione delle carte è coeva al testo, apposta dalla medesima mano e
con lo stesso inchiostro. E' in cifre arabe e si trova in alto a destra di ogni recto.
15) Un campo dovrebbe corrispondere indicativamente a mq. 5441; N. FALDON, Gli antichi statuti
di Conegliano, Vittorio Veneto 1974, p. 71.
154
Lo specchio di scrittura è abbastanza uniforme ma non sono presenti segni di
rigatura evidenti, misura circa mm. 150 x 90, con un margine superiore di mm. 20
e inferiore di mm. 50 circa. Le righe variano da 1O a 29 ma oscillano in media fra
le 25 e le 28.
Sui margini sono presenti maniculae (cc. 3v e 4r), croci e numerazioni dei
terrreni inventariati espresse in cifre arabe.
Il verso di c. 4 e l'intera c. 5 sono vuote.
Il manoscritto, steso in una scrittura corsiva con inchiostro che oggi risulta di
colore marrone chiaro, è di mano del notaio Bartolomeo da Miane, eccetto le
annotazioni, già richiamate, presenti sulla prima carta di guardia, e le ultime quattro
righe a c. 9v che riportano indicazione della registrazione dell'inventario nel 1490.
Il codice si presenta in uno stato di conservazione sostanzialmente buono in
quanto è stato recentemente restaurato. Vi sono integrazioni del supporto sul
margine interno di c. 1 e sui margini inferiori di c. 2 e 3. In particolare la prima carta
risulta molto danneggiata per la mutilazione sul margine, per la presenza di una
piega a circa mm. 60 dal margine esterno e di una macchia interessante i primi mm.
40 delle righe 16-23 del recto, nonché perun logoramento diffuso: tutti elementi che
hanno provocato perdite di testo.
Criteri di edizione
La trascrizione dell'inventario dei beni della chiesa di S. Maria di Cison è stata condotta
fedelmente al testo.
Si sono sciolte tutte le abbreviazioni secondo la prassi consueta.
Le parentesi tonde ( ) indicano lo scioglimento di abbreviazioni dubbie. Sono state utilizzate
le parentesi quadre [] per segnalare lacune del supporto e contengono le eventuali integrazioni oppure
tre punti [ ... ] nel caso di restituzioni impossibili, con l'indicazione in nota dell'estensione della
lacuna.
L'inserimento della punteggiatura, così come l'uso di maiuscole e minuscole, segue i criteri
moderni.
Si è riportata nel testo la numerazione presente a margine delle singole descrizioni dei terreni
elencati. Altri segni marginali quali le croci o le maniculae sono stati di volta in volta indicati in nota.
L'apparato è composto da note di carattere paleografico riferentesi a correzioni, cancellazioni
ed aggiunte del notaio.
L'inizio di ogni pagina del codice viene indicato fra barre verticali (es. I lrl).
155
DOCUMENTO
I lrl
lhesus
6> i uri bus est
[Si] uni non tam phisci et aque pub lice ac pupillorum [ ... ]<1
subveniendum quibus iura cona.;.tur [ ... ]venire<11> et tantum defraudantur ymo et
multo magis [ ... ]08 > ecclesiis et hospitalibus est certandum et in[ ... omni]bus<19>
temporibus huiusmodi bona procurantur per possi [ ... ]os<20i et appelativo nomine
proprietario conante et [ ... ]bi<21> dicunt esse collata que [omnia] non alio
defrau[ ... ]torum<22> indubie improp[ ... ]<23> esse dignoscitur [ ... am]<24l venerabilis
vir dominus presbiter Antonius de Bagnacavallo honoris plebanus plebis Sancte
Marie de Cisono V allismareni districtus et cenetensi [d]iocesis, exito generali edito
a reverendissimo in Christo patre domino domino Petro Leono Dei et apostolice
sedis gratia cenetensi [ma]gniffico episcopo nostro atque comite ut unusquisque
rector ecclesiarum, plebum et capellarum infra ocitum tempus ecclesiarum suarum
et benefitiorum [suorum] ipsius antistitis nostri [unum]<25> inventarium [ ... ]are<26>
teneatur tamquam filius [obe]dientie [ ... ]<27 > sepius ac sepissime ad consortibus
[ ... ]arii<28> ecclesiastic[ ... ]<29> plebeos [ ... ]<3°>admonuit ut unusquisque tam
[ ... ]ione<3 1l quam etiam pura et vera scientia [ ... ]rato<32 > anno plebani esse deberent
pro[di]gales et fornentes ad dicto sui inventarli con[fecti] quod in bune modum
facere procuravit et in ipso[ ... ]<33> [episcopo] [ ... ]<34> tamquam bona diete[ ... ]<35>
ecclesie [ ... ]<36l sic successoribus suis ac quorum [ ... g ... si sunt]<37> apporienda
fore. In Dei nomine principiavit que bona sunt hec videlicet et primo:
Il vi
1.
Una domus paleis cuperta de muro et paretib[us] obturata cum tegete et
curtivo simul se tenentib[us] habitationis ipsius domini plebani sita in villa
Cis[ oni] iuxta cimiterium plebis Cisoni in loco dicto lac[ha] del piovan cuius
confines: a mane cimiterium pl[ebis] Cisoni ab aliis partibus vie publice.
17) lacuna di ca. mm. 5
27) macchia di ca. mm. 25
28) macchia di ca. mm. 40
18) lacuna di ca. mm. 5
19) lacuna di ca. mm. 5
20) lacuna di ca. mm. 5
21) lacuna di ca. mm. 5
22) lacuna di ca. mm. 5
23) lacuna di ca. mm. 15
24) lacuna di ca. mm. 10
25) lacuna di ca. mm. 10
26) macchia di ca. mm. 30
29) lacuna
30) lacuna
31) lacuna
32) lacuna
33) lacuna
34) lacuna
35) lacuna
36) lacuna
37) lacuna
16) lacuna di ca. mm. 5
156
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
di ca. mm.
20
40
40
40
10
10
1O
12
45
2.
Ortus unus extimacionis unius octavi campi in villa mediante via publica
intra domum sup[ ... ]<33> et ipsum ortum in loco dicto l'orto del piovan cuius
hii sunt confines: a mane et meridie proprie heredum quondam magistri Luce
de Cisono, a sero [cur]tivum Victoris Hendrici de Cisono, a monte via
publica quem possidet dictus dominus plebanus per uso suo.
3.
Pecia una terre arate, arborate, piantate etvitigateetpartim prativeextimacionis
trium camporum sita in pertinenciis Cisoni in loco vocato al maxo de
campomolino recta et laborata per Martinum quondam Coleti de Cisono
cuius confines: a mane via publica, a meridie terra curie V allismareni, a sero
partim Zanlaurentii de Rasera et partim dicti Martini mediante quadam via
antiqua, a monte dicti Martini et respondet:
frumenti
starium
1,
calveas
I
milei
starium
1,
calveas
1
surgi
starium
1,
calveas
1
9>
et vini me[ ...]<3
4.
Et unam ysoletam extimacionis unius quarti mediante ruleo quodam vocato
ruleo merdarolio in loco vocato in capite tovenelle cuius confines: a mane
terra curi_, in via, a meridie et sero terra recta per lohannem de Recho de
Tovena et a monte via publica que regitur per ipsum Christoforum, pro
quibus sex peciis terre respondet nomine affictus:
frumenti
starium
1,
calveas
II
siliginis
starium
1,
calveas
II
milei
starium
1,
calveas
II
denariorum libre II [soldi X]
plaustrum unum lignorum
5.
Item una pecia terre garbe extimacionis medii campi in loco dicto ape de rui
cuius hii suntconfines: amane est buschus de Muraetcertarum pertinentiarum
et partim comunis, ab aliis partibus labitur ridus Cisoni.
6.
Et unus boschus medii campi cum aliquibus castaneis in loco vocato a col de
vi, a mane ridus Cisoni, ab aliis partibus comune et via qua itur ad valles
Cisoni.
12rl
38) lacuna di ca. mm. 5
39) in interlinea si intravedono alcune lettere, forse tre, non leggibili
157
7.
8.
Et unus boschus medii campi in loco vocato a barde ronzone.
12vi
Item infrascripte pecie terre possesse per Christoforum Fiastrellum de
Cisono et primo:
petia una terre arate extim<icionis medii campi in dictis pertinenciis Cisoni
in loco dicto a San Felixe cuius confines: a mane, meridie et monte vie
publice, a sero est ecclesia Sancti Felicis et partim<40l terra curie mediante
quodam tramite.
9.
Et alia pecia terre arate extimacionis medii campi in dictis pertinenciis in
loco vocato sot San Felixe cuius confines: a mane via publica, a meridie terra
curie recta per hered.es quondam Iacobi Odori ci de Mareno, a sero terra curie
recta per Trivisolium de Cisono, a monte terra heredum quondam Francisci
Botarii de Cisono que regitur per Christoforum supradictum.
1O.
Et una pecia terree arate extimacionis unius tertii campi in dictis pertinentiis,
in loco dicto a pramor cuius confines: a mane terra Blaxii de Campomolino,
a meridie pratum iurarie Cisoni, a sero via publica, a monte terra curie recta
per Franciscum Tachinellum de Cisono et regitur ut supra.
11.
Et alia pecia terre arate extimacionis unius tertii, in loco dicto a pramoro
cuius confines: a mane terra curie predicte recta per Tachinellum
suprascriptum, a meridie pratum suprascriptum rectum per Gasparem de
Mareno, a sero curie recta per Marighetam de Mareno, a monte curie recta
per Trivisolium suprascriptum et regitur per suprascriptum Christoforum.
12.
Et una pecia terre arate extimacionis unius quarti in dictis pertinentiis in loco
vocato a longa calle cuius confines: a mane terra curie recta per Trivisolium
de Cisono, a 13rl meridie terra Benvenuti de Brois de Mareno, a sero terra
curie recta per Salamonem de Cisono, a monte terra heredum quondam
magistri Luce de Cisono et regitur ut supra.
13.
Et aliam peciam terre arate, arborate et vitigate extimacionis trium quartorum
unius campi in dictis pertinentiis, in loco vocato in valle cuius confines: a
mane terra curie, recta per Salamonem de Cisono, a meridie terra Silvestri de
Mareno, a sero via, a monte heredum quondam ser Bertolutii de Cisono.
40) segue via espunto
158
14.
Et aliam peciam terre arate et vitigate extimacionis unius quarti in dictis
pertinentiis, in loco dicto in valle mediante via per medium cui a mane terra
heredum quondam magistri Luce de Cisono, a meridie heredum quondam
ser Bertolutii de Cisono et partim ecclesie Cisoni recta per Trivisolium, a
sero curie recta per Benvenutum Berto li, a monte monasterii Foline recta per
heredes quondam Paulete de Cisono.
15.
Et unam clausuram prativam extimacionis unius campi in dictis pertinentiis
in loco dicto la cliusura cuius confines: a mane boschus de Mura, a meridie
terra curie videlicet terra montis Albani, a sero via consorti va et ridus Ci soni,
a monte curie recta per Andream Brunelli et aliorum et reguntur omnes per
Christoforum Fiastrellum et respondet nomine affictus:
frumenti
starium
calveas
VI
siligis
starium
calveas
VI
milei
starium
calveas
1111
denariorum libre II soldi X
16.
13vi
Et peciam unam terre arate et partim prative extimationis medii campi
teritori Gai, in loco dicto a la curta de pradorch cuius confines: a mane et
meridie terra curie recta per Petrum de Gaio, a sero via publica, a monte
partim diete curie et partim dicti Petri que regitur et laboratur per Petrum de
Gaio suprascriptum<41 J.
17.
Et aliam peciam terre arate et partim prative extimacionis unius campi in
dictis pertinentiis in loco dicto a pantanoch, cuius confines: a mane terra
Sancti Michaelis de Gaio, a meridie partim tera<42J Titiani de Santo Nicolao
et partim dicti Petri, a sero dicti Titiani, a monte partim Sancti Michaelis de
Gaio et partim via et regitur ut supra<43 l.
18.
Et una pecia terre garbe et alias arate extimacionis unius quarti, in dicto
teritorio, in loco dicto sot San Michiel cuius confines: a mane terra Sancti
Michaelis de Gaio, a meridie terra monasterii Foline recta per Favalessam de
Gaio, a sero Sulicus et a monte ecclesia<«J Sancti Michaelis et regitur ut
supra.
41) manicula sul margine sinistro
42) segue sancti depennato
43) manicula sul margine sinistro
44) segue dieta depennato
159
19.
20.
Et alia pecia terre arate et partim prative extimationis medii campi in dictis
pertinentiis, in loco <lieto a pra da rovre cuius confines: a mane terra
monasterii Foline recta per Favalessam, a meridie curie, a sero via et a monte
terra <lietimonasterii et regitur per dictum Petrum pro quibus respondet:
frumenti calveam unam et libras duas soldos decem parvorum.
14rl
Et una pecia terre arate extimacionis medii campi in pertinentiis Mareni, in
loco <lietoa col de sfelzo cuius confines: a mane via publica, a meridie terra
monasterii Foline recta per Gasparem de Mareno, a sero Sulicus et a monte
terra curie predicte recta per magistrum Donatum de Mareno que regitur per
Gasparem de Mareno et respondet:
frumenti calveam unam.
21.
Item una pecia terre arate extimacionis medii campi in <lieto territorio
Mareni, in loco <lietoa col de sfelzo cuius hii sunt confines: a mane terra curie
recta per Benvenutum Pansolotium, ab aliis partibus vie publice et regitur per
heredes quondam lacobi Odorici de Mareno et respondet:
frumenti calveam unam.
22.
Item una pecia terre arate, arborate et vitigate extimacionis medii campi sita
in villa de Tovena, in loco vocato al pra del fraseno cuius confines: a mane
terra Sancti Simonis recta per Victorem decanum<45>,a meridie similiter, a
sero terra magistri Donati Fabri, a monte terra curie Vallismareni, recta per
Antonium de Meredellis et regitur per ipsum Antonium<46> •
16rl
Decime plebanatus Cisoni
[Prima] decima unius pecie terre arate curie Vallismareni possesse per
Victorem Hendrici de Cisano, posite in pertinentiis Cisoni extimacionis
trium quartorum campi, in loco vocato a stradella, cuius confines: a mane via
publica, a meridie similiter, a sero terra curie recta per Franciscum de la
Botario de Cisono, a monte terra curie recta per Anzelinum de Cisono<47 > •
1.
2.
Item decima unius pecie terre arate, arborate et vitigate diete curie recta per
Trivisolium Berteli in pertinentiis Cisoni, in loco <lieto a longa cal,
extimacionis unius campi salvo vero cuius confines: a mane via consortiva,
a meridie terra Benvenuti de Brois de Mareno, a sero terra curie recta per
Victorem Hendrici, a monte heredum quondam magistri Luce de Cisano.
45) decani nel testo
46) manicula sul margine sinistro
47) + sul margine destro
160
3.
Et decima unius pecie terre arate proprie Ceschi de Cisono in pertinentiis
Cisoni extimacionis medii campi in loco <lieto a le casarine, a mane terra
Dominici de Costa de Arfanta, a meridie terra iurarie Cisoni, a sero terra
Rizardi de Mareno, a monte terra Trivisolii de Cisono et partim heredum
quondam Franciscii Botarii et partim curie possesse per Michaelem de
48 >•
Strata<
4.
5.
Item decima unius pecie terre arate t(antu)m curie Vallismareni recta per
Blaxium de Campomolino extimacionis medii campi in loco vocato a la
caneva cuius confines: a sero curie V allismareni, recta per Andream Brunelli,
ab<49> aliis partibus terra diete curie recta per Blaxium suprascriptum<50>.
16vl
Et decima alterius pecie terre arate t(antu)m diete curie recta per dictum
Blaxium in dictis pertinentiis in loco vocato a campazo cuius confines: a
mane via publica, a meridie terra curie recta per predictum Blaxium, a sero
quidam roiale, a monte monasterii Foline recta per ser Antonium Paulete<51>.
6.
Itemdecimauniuspecieterrearate,plantateetvitigatedictecurie
Vallismareni
recta per Andream Brunelli in dictis pertinentiis in loco vocato in sovigna
extimacionis medii campi cuius confines: a mane via publica, a meridie terra
heredum quondam ser Bortholutii de Cisono, a sero terra dictorum heredum,
a monte terra monasterii Foline possessa per Antonium Paulete<52>.
7.
Item decima alterius pecie terre arate, arborate et vitigate in dictis pertinentiis
qui est diete curie recta per dictum Andream, in loco <lietoa col de ronche,
a mane.terra heredum quondam magistri Luce de Cisono, a meridie terra
curie recta per Franciscum Tachinellum, a sero via publica, a monte terra
Zanlaurentii de Raseria<53>•
8.
Item decima alterius pecie terre arate t(antu)m diete curie extimacionis medii
campi recta per Andream Brunelli suprascriptum in loco <lietoa ronchadel
cuius confines: a mane terra curie recta per Martinum Coleti de Mianis, a
meridie terra curie recta per Michaelem de Strata, a sero terra monasterii
48) + sul margine destro
49) segue aip depennato
50) + sul margine destro
51) + sul margine sinistro
52) + sul margine sinistro
53) + sul margine sinistro
161
Foline recta per Antonium Paulete, a monte heredum quondam magistri
Luce de Cisono<54>•
9.
Et decima unius pecie terre videlicet medietatis diete pecie terre a parte
inferiori diete curie recta per dictum Andream extimacionis in totum unius
campi cum dimidio posita 17 rl in dictis pertinenciis in loco vocato a in
campagro cuius confines: a mane terra communis Cisoni recta per dictum
Andream, a meridie terra curie recta per Tachinellum suprascriptum, a sero
via publica, a monte curie recta per Blaxium Benvenunti de Cisono<55 >•
10.
Et decima unius pecie terre videlicet medietatis unius pecie terre et
aliquantullum ultra medietatem arate et vitigate Antonii et Petri quondam
Paulete de Cisono extimacionis in totum trium quartorum unius campi in
loco vocato al col de le pere cuius confines: a mane terra curie V allismareni
recta per Michaelem de Strata, a meridie terra Trivisolii Bertoli, ab aliis
partibus vie publice<56>•
11.
Et decima alterius pecie terre arate t(antu)m monasterii de la Folina,
extimacionis trium quartorum unius campi et possessa est peripsum Antonium
Paulete in pertinenciis Cisoni in loco dicto<57 > in longera cuius confines: a
mane via publica, a meridie terra curie recta per Franciscum de Finota, a sero
via, a monte terra Benvenunti et Trivisolii fratrum de Cisoni<58>.
12.
Item decima terra partis unius pecie terre curie Vallismareni arate, arborate
et vitigate extimacionis in totum medii campi in loco vocato a stradella
videlicet est piantata de medio versus montem debetur <lietoplebanatuy<59>,
alia debetur iurarie plebis eius totius pecie terre hii sunt confines: a mane via
publica, a meridie via consortiva, a sero terre ecclesie Sancti Petri recta per
Baldinum, a monte curie recta per Piligrinum Hendrici de Mareno<60 >.
17vi
Item decima unius pecie terre proprie done Iacobe uxoris Salamonis de
Cisono videlicet de toto tereno aratorio et viti gato extimacionis medii campi
in pertinenciis Cisoni, in loco vocato al bozo a mane, sero et monte terre
prativa diete done Iacobe, a meridie via publica.
13.
54)) + sul margine sinistro
55) + sul margine sinistro
56) + sul margine destro
51) segue a masiera espunto
58) + sul margine destro
59) così nel testo
60) + sul margine sinistro
162
14.
Item decima unius pecie terre livellarie Blaxii Benvenutii de Cisono prative
et alias arative extimacionis medii campi in pertinenciis Cisono, in loco
vocato a loscho cuius confines: a mane terra curie recta per Salamonem de
Cisono, a meridie terra propria magistri Beni, a sero ridus Cisonii, a monte
terra propria Tachinelli de Ci8.0noet partim Michaelis de Strata et partim
terra livellaria magistri Beni.
15.
Et decima unius pecie terre proprie Rizardi de Mareno extimacionis unius
campi in pertinenciis Cisoni, in loco vocato sot col de le piere a le ciexe cuius
confines: a mane terra iurarie Ci soni et partim terra curie recta per Salamonem
de Cisono, a meridie terra diete curie recta per heredes quondam Iacobi
Odorici, a sero via, a monte col de le piere videlicet terra Benvenuti Bertoli
de Cisono.
16.
Et decima unius pecie terre arate, arborate et vitigate iurnie Sancti Petri de
Mareno possessa per Baldinum de Mareno posite in pertinenciis Cisoni in
loco vocato a stradella extimacionis trium quartorum unius iugeris cuius
confines: a mane terra curie recta partim per heredes quondam Francisci
Botarii de Cisono et partim per Piligrinum Hendrici, a meridie curie recta per
Andream Brunelli, a sero Antonii Bellusii et partim curie recte perTrivisolum,
a monte via.
18rl
Item medietas decime unius sedirninis monasterii Sancte Iustine de Seravallo,
tenti et possessi per Bonum Iacobelli de Mura cum dornibus ab igne<61> super
edificatis siti in pertinenciis Cisoni, in loco vocato a pedemura cuius
confines: a mane et meridie terra dicti monasterii recte per dictum Bonum,
a sero via publica, a monte terra Zanlaurentii de Rasera.
17.
18.
Et medietas decime unius pecie terre arate et vitigate et partim ortive dicti
monasterii recte per dictum Bonum in pertinenciis predictis in loco vocato
a mura: a mane via publica, a meridie Solicus labitur, a sero terra Titiani de
Antiga, a monte Zanlaurentii de Rasera.
19.
Et decima unius pecie terre proprie Baldini de Mareno arate, extimacionis
unius quarti in pertinenciis Cisoni in loco <lieto a pramor: a mane terra
Gaspari Ceschini de Mareno<62l , a meridie pratum <lietiBaldini, a sero terra
curie recta per Trivisolium de Cisono, a monte iurarie plebis Cisoni.
61) lettura non certa
62) segue de Mareno ripetuto
163
20.
Et decima unius pecie terre proprie Gaspari suprascripti arate, extimacionis
unius quarti in pertinenciis Cisoni in loco vocato a pramoro: a mane terra
plebanatus Cisoni, a meridie pratum dicti Gaspari, a sera terra proprie dicti
Baldini, a monte plebis Cisoni videlicet iurarie.
21.
Decima unius pecie terre garbe monasterii Paline mansi Antonii Paulete
posita in pertinenciis Cisoni, in loco dieta a masiere extimacionis medii
campi, cuius confines: a mane 18vfterra Donati Pabri de Tovena, a meridie
terra recta per Petrum de Gaio, a sera Solicus labitur, a monte terra Boni de
Mura.
Quartexia
Et quartexia omnium terrarum et possessionum ac sediminum quorumcumque
situatorum et situatarum sub plebania Cisoni et capellarum subiectorum diete plebi
videlicet bladorum et liguminum cuiuscumque sortis, raparum, lini et vini, agnorum,
pullorum, edorum et porchorum et aliorum similium debendorum ad solutionem
quartexiorum ut est totius ville Cisoni, Mareni, Tovene, a petra fita versus Cisoni,
Gai et Zuelli totius et de sub Zuelle, Rolarum et Susnedi<63> eorum teritoriorum<64>•
Lectum et publicatum fuit hoc suprascriptum inventarium in presentia prefati
domini presbiteri Antonii de Bagnacavallo, honorabili plebani suprascripti Cisoni
ipsum inventarium procurantis et in presentia omnium et singulorum plebeorum et
parochianorum diete ville Cisoni, ibi congregatorum ad huius inventarii
publicationem sub mericali voce et specialiter ad hoc agregatorum et maxime
infrascriptorum videlicet Petri de Capiteville de Cisano, Dominici Vencille,
lohannis Peliparii de Cisano, Prancisci de la Pineta, Michaelis de Strata, Petri
quondam Paulete, Melchioris Ventii, Trivisolii Bertoli, Blaxii Bnuti, Ceschi,
Antonii, Zanliuxii, Melchioris, Salamonis quondam magistri Zanini, magistri
Laurentii Peliparii, Victoris Hendrici, lohannis Botarii, Petri, Christofori Piastrelli,
Blaxii<65>,Mathei, Andree Brunelli, magistri Bonantonii, Viti de Arfanta, Anzelini
de Bugo, ibi presentium et cum dieta domino plebano ratificantium et approbantium
hoc suprascriptum inventarium esse verum et firmum et continentem veritatem in
quorum etiam presentis idem dominus<66> plebanus protestatus fuit quod sibi sit
reservatum ius quod si in ipso inventario aliquod appositum sit quod non sit
apponendi quod sit sibi reservatum ius cancelare et similiter siquid sibi esset
63) Susnedi/Susuedi, toponimo non individuato
64) + sul margine sinistro
65) segue Benvenuti espunto
66) segue potestas depennato
164
adiungendum quod sit sibi reservatum ius posse addere et corigere et per hoc
suprascriptum suum inventarium habeat sibi preiudicare. Et hoc currentibus annis
dominice nativitatis millesimo quadringentesimo quinquagesimo, indictione tertia
decima, die vero vigesimo quinto mensis februarii et sub logia comunis Cisoni ubi
omnes suprascripti congregati convenerunt 19vlpro predicta adimplendo.
(S.T.) Ego Bartholomeus de Mianis quondam magistri Iohannis publicus
imperiali auctoritate notarius et Vallismareni cancellarius suprascriptis affui
rogatusque et mandato scripsi et signo meo solito et nomine roboravi.
Ego Antonius Gratianus cancellarius curie episcopalis Cenete registraci feci
inventarium suprascriptum in libris episcopatus cenetensis et quia fideliter
compeio<67> transcriptum ac subscripsi sub die XXIII martii MCCCCXC.
67) così nel testo
165
INDICI
Per una rapida individuazione di nomi e toponimi si rinvia al numero della carta del codice
specificando con "r" o "v" rispettivamente il recto o il verso. Separati da barra obliqua seguono,
quando presenti, i numeri indicati a margine nel documento stesso.
Indice dei nomi di persona
La voce principale è data dal nome di battesimo a cui si rinvia dai patronimici, dalle forme cognominali
e dai luoghi di provenienza. Le varianti grafiche sono separate da barre.
L'ordine alfabetico dei lemmi che iniziano con lo stesso nome è dato dal secondo termine iniziante
con la maiuscola. La voce guida è seguita da eventuali titolo o cariche ricoperte.
Indice dei nomi di luogo
Sono indicizzati i nomi latini dei luoghi con l'indicazione del nome italiano fra parentesi tonde. Sono
indicate anche le forme cognorninali derivate da luoghi. Le varianti grafiche sono separate da barre.
Si precisa che alcuni dei toponimi indicizzati sotto Cison possono riferirsi anche ad altre località
essendo presenti nel codice con la dicitura generica "in pertinenciis Cisoni".
Abbreviazioni usate
f.
= filius
mag. = magister
not.
= notarius
q.
=quondam
ux.
=uxor
Indice dei nomi di persona
Andreas Brunelli: 3r/15, 6r/4, 6v/6, 6v/7, 6v/8, 6v/9, 7r/9, 7v/16, 9r
Antiga (de): v. Titianus
Antonius: 9r
Antonius de Bagnacavallo, plebanus Sancte Marie de Cisono: Jr
Antonius Bellusii : 7v/16
Antonius Gratianus, cancellarius curie episcopalis Cenete: 9v
Antonius de Meredellis : 4r/22
Antonius q. Paulete de Cisono: 6v/5, 6v/6, 6v/8, 7r/10, 7r/l l, 8r/21
Anzelinus de Buge: 9r
Anzelinus de Cisono: 6r/l
Arfanta (de). v. Dominicus de Costa, Vitus
Bagnacavallo (de): v. Antonius
Baldinus de Mareno: 7r/12, 7v/16, 8r/19, 8r/20
Bartholomeus de Mianis q. Iohannis, notarius: 9v
Bellusius: v. Antonius
Benvenutus: 9r
Benvenutus Bertoli: 3r/14, 7v/15
Benvenutus de Brois de Mareno: 3r/12, 6r/2
Benvenutus de Cisono: v. Blaxius, 7r/11
Benvenutus Pansolotius: 4r/21
Benus, mag.: 7v/14
166
Bertholutius de Cisono (q.): 3r/13, 3r/14, 6v/6
Bertoli: v. Benvenutus, Trivisolius
Blaxius Benvenuti de Cisono : 7r/9, 7v/14, 9r
Blaxius de Campomolino: 2v/10, 6r/4, 6v/5
Boiiantonius, mag.: 9r
Bonus Iacobelli de Mura: Sr/17, Sr/18, Sv/21
Botario (de la): v. Botari
Botari/de la Botario: v. Franciscus de Cisono, Iohannes
Brois (de): v. Benvenutus
Brunelli: v. Andreas
Buge (de): v. Anzelinus
Campomolino (de): v. Blaxius
Capiteville (de): v. Petrus
Ceschinus: v. Gaspar de Mareno
Cescus de Cisono: 6r/3, 9r
Christoforus Fiastrellus de Cisono: 2r/4, 2v/8, 2v/9, 2v/11, 3r/15, 9r
Cisono (de): v. Anzelinus, Bertolutius, Blaxius Benvenuti, Christoforus Fiastrellus, Ceschus, Coletus,
Fiastrellus, Franciscus Botarii, Franciscus Tachinellus, Iacoba ux. Salamonis, Iohannes, Luca,
Martinus q. Coleti, Pauleta, Petrus de Capiteville, Salamon, Trivisolius, Victor Hendrici
Coletus (q.): v. Martinus de Cisono, Martinus de Mianis
Costa (de): v. Dominicus de Arfanta
Dominicus de Costa de Arfanta: 6r/3
Dominicus Vencille: 9r
Donatus Fabri de Tovena, mag.: 4r/22, Sv/21
Donatus de Mareno, mag.: 4r/20
Fabri: v. Donatus de Tovena
Favalessa de Gaio: v. 3v/18, 3v/19
Fiastrellus: v. Christoforus de Cisono
Finota (de): v. Franciscus
Franciscus Botarii de Cisono (q.): 2v/9, 6r/l, 6r/3, 7v/16
Franciscus de Finota: 7r/l l, 9r
Franciscus Tachinellus de Cisono: 2v/10, 2v/11, 6vn, 7r/9, 7v/14
Gaio (de): v. Favalessa, Petrus
Gaspar Ceschini de Mareno: Sr/19, Sr/20
Gaspar de Mareno: 2v/l l, 4r/20
Gratianus: v. Antonius
Hendricus: v. Piligrinus de Mareno
Hendricus: v. Victor de Cisono
Iacoba, ux. Salamonis de Cisono: 7v/13
Iacobellus: v. Bonus de Mura
Iacobus Odorici de Mareno (q.): 2v/9, 4r/21, 7v/15
Iohannes (q.): v. Bartholomeus de Mianis
Iohannes Botarii: 9r
Iohannes de Cisono, peliparius: 9r
Iohannes de Recho de Tovena: 2r/4
Laurentius, peliparius: 9r
Leon: v. Petrus
Luca de Cisono, mag. (q.): lv/2, 3r/12, 3r/14, 6r/2, 6vn, 6v/8
167
Mareno (de): v. Baldinus, Benvenutus de Brois, Donatus, Iacubus Odorici, Gaspar, Gaspar Ceschini,
Marigheta, Piligrinus Hendrici, Rizardus, Silvestrus
Marigheta de Mareno: 2v/l l
Martinus q. Coleti de Cisano: I v/3
Martinus q. Coleti de Mianis: 6v/8
Matheus: 9r
Melchiore: 9r
Melchioris Ventii: 9r
Meredellis (de): v. Antonius
Mianis (de): v. Bartholomeus q.Iohannis, Martinus q. Coleti
Michael de Strata: 6r/3, 6v/8, 7r/I0, 7v/14, 9r
Mura (de): v. Bonus Iacobelli
Odoricus: v. Iacobus de Mareno
Pansolotius: v. Benvenutus
Pauleta: v. Antonius, Petrus
Pauleta de Cisano (q.): 3r/I4, 7r/I0
Petrus: 9r
Petrus de Capiteville de Cisano: 9r
Petrus de Gaio: 3v/I6, 3v/I7, 4r/19, 8v/21
Petrus Leon, episcopus Cenete: lr
Petrus q. Paulete de Cisano: 7r/10, 9r
Piligrinus Hendrici de Mareno: 7r/I2, 7v/16
Rasera (de): v. Zanlaurentius
Recho (de): v. lohannes de Tovena
Rizardus de Mareno: 6r/3, 7v/I5
Salamon de Cisano: 3r/I2, 3r/I3, 7v/I3, 7v/14, 7v/15
Salamon q. magistri Zanini: 9r
Sancta Nicolao (de): v. Ticianus
Silvestrus de Mareno: 3r/I3
Strata (de): v. Michael
Tachinellus: v. Franciscus de Cisano
Titianus de Sancta Nicolao: 3v/17
Titianus de Antiga: 8r/l 8
Tovena (de): v. Donatus Fabri, lohannes de Recho
Trivisolus: 7v/16
Trivisolius Berto li: 6r/2, 7r/l O, 9r
Trivisolius de Cisano: 2v/9, 2v/l 1, 2v/12, 3r/14, 6r/3, 7r/1 l, 8r/I9
Vencille: v. Dominicus
Vietar, decanus: 4r/22
Vietar Hendrici de Cisano: I v/2, 6r/l, 6r/2, 9r
Vitus de Arfanta: 9r
Zaninus, mag. (q.): 9r
Zanlaurentius de Rasera : I v/3, 6v/7, 8r/l 7, 8r/l 8
Zanliuxius: 9r
Indice dei nomi di luogo
Arfanta (Arfanta): 6r/3
- Rasera (Resera d' Arfanta): 1v/3, 6v/7, 8r/l 7, 8r/18
168
Bagnacavallum (Bagnacavallo): Jr
Ceneta (Ceneda): Jr, 9r
Cisonum (Cison di Valmarino):
barde ronzone: 2r/7
(al) bozo: 7v/13
campagro: 7r/9
campazo: 6v/5
Campomolino: I v/3, 2v/lO, 6r/4, 6v/5
(la) caneva: 6r/4
capite tovenelle: 2r/4
(le) casarine: 6r/3
cha del piovan: 1v/1
cimiterium: 1v/1
clisura: 3r/15
col de le piere: 7r/10, 7v/15
col de ronche: 6v/7
col de vi: 2r/6
ecclesia Sancte Marie: 3r/14; v. plebs
ecclesia Sancti Felicis : 2v/8
longa cal/longa calle: 2v/12, 6r/2
longera: 7r/l l
a loscho: 7v/14
max.o de Campomolino: 1v/3
mons Albanum: 3r/15
a mura: 8r/18
orto del piovan: 1v/2
pe' de mura: 8r/17
pe' de rui: 2r/5
plebs Sancte Marie: lr; v. ecclesia
pramoro: 2v/1I, 8r/I8
ridus: 2r/5, 2r/6, 3r/15, 4r/20
roiale: 6v/5
ronchadel: 6v/8
ruleus merdarolius: 2r/4
San Felixe: 2v/8
sot col de le piere a le ciexe: 7v/15
sot San Felixe: 2v/9
sovigna: 6v/6
stradella: 6r/l, 7r/12, 7v/16
tovenelle: 2r/4
valle: 3r/13, 3r/I4
Folina (Pollina):
monasterium: 3r/14, 3v/I8, 3v/19, 4r/20, 6v/5, 6v/6, 7r/l 1
Gai (Gai): 3v/16, 3v/I7, 3v/18, 8v
curta de pradorch: 3v/16
ecclesia Sancti Michaelis: 3v/17, 3v/18
pantanoch: 3v/17
pra da rovre: 3v/I9
sot San Michiel: 3v/18
169
Marenum (Valmareno, paese): 2v/9, 2v/l 1, 3r/12, 3r/13, 4r/20, 6r/2, 6r/3, 7v/15, 7v/16, Sr/19, 8v
col de sfelzo: 4r/20
ecclesia Sancti Petri: 7r/12, 7v/16
Miane (Miane): 6v/8, 9r
Mura (Mura): Sr/17
buschus: 2r/5, 3r/15
Role (Rolle): 8v
Seravallis (Serravalle):
monasterium Sancte lustine: Sr/17, Sr/18
Solicus (Soligo, fiume): 3v/18, 4/20, Sr/18
Tovena (Tovena): 2r/4, 4r/22, 8v
ecclesia Sancti Simonis: 4r/22
pra del fraseno: 4r/22
Vallismareni (Valmareno, curia): lr, 1v/3, 4r/22, 6r/1, 6r/3, 6r/4, 6v/6, 7r/10, 9r
via antiqua: 1v/3
via consortiva: 3r/15, 6r/2, 7r/12
via publica: 1v/1, 1v/2, 2v/10, 4r/20, 6r/l, 6v/5, 6v/6, 6v/7, 7r/9, 7r/10, 7r/11, 7r/12, Sr/17, Sr/19
Zuellum (Zuel): 8v
170
Damiano Cesca
LA MADONNA DI GIOVANNI BELLINO
Questo piccolo studio nasce quasi casualmente, infatti, durante l'esame delle
varie testimonianze documentali afferenti il monastero cistercense di S. Maria in
Pollina, nel tentativo di trovare ulteriori notizie riguardanti le matrici di stampa<!),
mi sono imbattuto in un fatto assai curioso riportato nel libro delle memorie di detta
abbazia<2>.Infatti, a carta 19, si legge: "Essendo molto tempo che il quadro della
Madonnadi GiovanniBellino. se ne stava derelitto posto in terra, in un canto della
cappella vicina alla sagrestia dove pendevano le corde delle campane dalle quali
e da molti villani ancora che correvano nella detta cappella per benedizione di
frumento, acqua. pane, praticò notabile deterioramento. Perciòfecc'io intendere
ali' abate commendatario, monsignor Pola, la necessità di trasferire il detto quadro
e collocarlo in luogo più decente ... onde, avendomi risposto graziosamente, lo feci
mettere sopra due modini di marmo, vicino alla cappella della beata Vergine, in
luogo eminente e colla stessa occasione, furono posti con ordinanza, d'intorno il
detto quadro, i voti che erano dispersi sopra i muri della cappella. Dicesi che questo
sia il quadro che anticamente era la pala dell'altar Maggiore".
Siamo nell'anno del Signore 1736, solo qualche decennio più tardi il monastero verrà definitivamente soppresso e la residuale comunità monastica camaldolese
1) Vedi: D. Cesca, "Anno Domini 1460, l'arte della stampa nel monastero cistercense di Sanae
Vallis"; in "Quaderno del ventennale" del Circolo di Ricerche Storiche del Vittoriese, Vittorio
Veneto, 2003.
2) Vedi: Libro di memorie del monastero di Santa Maria della Pollina. (datato 1690, e conservato
nell'archivio del suddetto monastero).
171
trasferita nel monastero di S. Michele in Is0Ia<3>.Conseguentemente a tale dispersione tutto il complesso abbaziale cadde in rovina, quasi<4 >tutti gli oggetti preziosi
vennero trasportati nel suddetto convento veneziano; molto verosimilmente l' antica pala della Madonna, opera di Giovanni Bellino seguì l'infausto destino di tutto
questo. Di cosa fosse raffigurato ~:':'llapala non vi è menzione in alcun documento;
vista però l'importanza del culto e la dedicazione di tale abbazia, il soggetto sarà
certamente stato la Madonna. Chi poi abbia commissionato tale opera ed in quale
occasione rimane un mistero, forse uno degli abati commendatari, successi ali' allontanamento da parte di Venezia dei monaci cistercensi; forse proprio per
celebrare la presa di possesso della Serenissima di detto importante e politicamente
scomodo monastero<5> •
Comunque sia, la questione relativa al fatto che a Follina vi fosse un'opera del
Bellini, rappresenta un dato importante utile anche alla classificazione dell'incompiuta pala lignea conservata presso la canonica di Cison; anch'essa recentemente
riconosciuta dal Mies come opera appartenente alla scuola del Bellini. <6> In questo
studio ci si limita a rilevare scientificamente ed a proporre la concomitanza dei due
dati, molto prossimi. Quale il risultante? Forse supporre che il Bellini abbia
lavorato nella Val Mareno? O che comunque avesse dei contatti in loco? Interrogativi interessanti ai quali attualmente non è possibile rispondere; ciò che conta è
soprattutto vagliare attentamente questi piccoli indizi che spero in futuro possano
trovare una degna significatività, magari nel ritrovamento della pala in oggetto o
nella sua riconduzione all'originaria collocazione presso il monastero di S. Maria
in Follina.
3) Vedi: D. Cesca, Pollina, Cenni storico - artistici, Venezia 2000.
4) Molti altri beni appartenuti al monastero follinese finirono nelle vicine parrocchie, come accadde
agli ex voto presenti nella cappella ove era collocatala statua della Beata Vergine,ora conservatinella
parrocchiale di Campea.
5) D. Cesca, Pollina, op. cit.
6) Vedi l'interessante studio condotto dal prof. Giorgio Mies riguardante la pala lignea di Cison, in:
"Arte del Cinquecento nel Vittoriese", Vittorio Veneto 1987.
172
Pala lignea conservata pres so la canonica di Cison di Va/marino attribuita alla scuola del
Bellini.
(Desidero segnalare lo stato di grave degrado in cui versa l'opera , in molte zane la
superfice pittorica è sollevata ed a terra sono presenti diversi piccoli frammenti della
stessa).
173
Postfazione
In sede di correzione delle bozze di stampa ho avuto modo di confrontare e
discutere con il prof. Giorgio Mies la tesi riguardante le due succitate pale di scuola
belliniana; ne sono emersi nuovi eJ estremamente importanti elementi che desidero
rendere noti agli studiosi anche se attualmente in forma embrionale (purtroppo i
tempi di stampa non mi concedono di trattare l'argomento con il dovuto approfon dimento e di corredarlo con gli elementi probatori e documentali del caso) . Con
molta probabilità la pala conservata presso la pieve di S. Maria in Cison di
Valmarino identificata come opera della scuola del Bellini andrebbe più precisamente attribuita alla mano del "discipulus Joannis Bellini (1) " (come si firma più
volte), cioè Andrea Previ tali. Come pure del Previtali sarebbe stata la mano, che ha
eseguito per il monastero di S. Maria in Pollina , la succitata "antica pala dell'altar
maggiore". Detta pala esisterebbe ancora e potrebbe essere quella conservata
presso il Museo di Padova. In essa sono raffigurati "una Madonna con Bambino e
l'Abate Commendatario" che la commissionò.
I) Vedi : M. Lucco , "Francesco da Milano" - Catalogo di Giorgio Mies - Documenti di Giorgio
Fossaluzza - A cura di Vittorino Pianca . Vittorio Veneto 1983.
174
Damiano Cesca
ANNO DOMINI 1460
L'ARTE DELLA STAMPA NEL MONASTERO DI SANAE V ALLIS 0 >
Nell'inventario riguardante l'abbazia cistercense di Pollina, steso dal podestà
della V almareno Giovanni Venier il 29 dicembre 1400<2>,è elencata una notevole
raccolta di antichi codici manoscritti (oltre un centinaio), che andava a costituire
I) In questo studio vengono citati tre toponimi importanti: Vallismareni (Val Mareno), Sanae Vallis
(Sana V alle) e Vallata. Credo sia utile spiegarne il significato perché sconosciuto o malinteso da molti
(Vedi: "VALSANA", toponimoinesistente,frutto di un'e"ata traduzioneed attribuzionereor,afica del termine latino medioevale, "Sanae Vallis"l. VALLISMARENI ( nei documenti più antichi
lo si trova come termine unico non disgiunto in Vallis Mareni, come accade dal XV secolo) indica
il territorio afferente l'antica Contea caminese della Val Mareno che ha precisi confini sanciti
statualmente almeno dal 1343(Vedi: D. Cesca - Gli antichi statuti caminesi della Valmareno - In: i
Da Camino; atti del 11°convegno nazionale, 20 aprile 2002), come segue: a Nord: il crinale delle
Prealpi, che dividono il versante trevigiano da quello bellunese: la Cisa, Monte Cimone, CimaLasson,
Passo S. Boldo, Cima Agnelezze, Col de Moi, S. Fermo di Praderadego, Col di V arnade, Monte Crep,
Monte Salvedelle, Monte Castelet, Monte Cimon; ad Ovest: la profonda incisione costituita dalla
Valle della Cavallera che scende dal Monte Cimone, indi la Val Brutta del Madean fino a Ponte
Raboso ed alla sottostante intersezione fra i confini amministrativi di Miane, Valdobbiadene e Farra
di Soligo; a Sud: la congiungente intersezione predetta con Monte Moncader, il Roccolo, Monte
Pertegar, indi per incerto confine attraverso i boschi di Carpenè fino al rio Campea e dalla confluenza
di questo lungo il fiume Soligo fino a Barbisanello e da questo al torrente Lierza, escludendo
Barbisano e la punta tra il Soligo e il Lierza predetti; ad Est: il corso del torrente Lierza daBarbisanello
a Zuel di Là, indi per il crinale collinare fino a Resera; da qui lungo il pendio delle Fratte ad intersecare
il fiume Soligo nella piana della Tajada fino ad imboccare la valle del Pioveson, risalendola a
raggiungere la Cisa sul crinale prealpino. (corrisponde alle circoscrizioni comunali di: Cison di
V almarino, Follina, Miane, Pieve di Soligo, quest'ultima ne faceva parte con Solighetto e Pieve del
175
una delle più ricche biblioteche<3l della Marca Trevigiana. Purtroppo la suddetta
raccolta nel volgere di un ottantennio (come dimostrato dall'analisi degli inventari
compilati negli anni 1450<4l, 1460<5l, 1484<6l e primo decennio del Cinquecento)
andrà inesorabilmente disperdendosi unitamente alla decadenza del monastero
follinese dopo la morte nel 1421 dell'ultimo legittimo signore della Vallata Ercole
Da Camino, <7l ed in seguito all'inizio della dominazione veneziana in terraferma
(che ottenne da Papa Nicolò V la soppressione di detto monastero nella Vallis
Mareni e l'istituzione della commenda). L'importanza della biblioteca del monastero di S. Maria è notevole, oltre alla vastità e alla qualità dei codici, in quanto ci
permette di percepire la valenza e la tipologia dell'alto livello culturale raggiunto
dalla comunità monastica follinese. Diamo dunque per assodata e comprovata<8l la
Contà; queste ville infatti appartenevano ali' antichissima Gastaldia di Solighetto, soggetta giuridicamente alla Contea della Val Mareno). SANAE VAUIS o Sana Valle è il toponimo dato dai monaci
nel XIV Secolo al territorio strettamente afferente al monastero di S. Maria (grossomodo corrispondente all'abitato di Pollina) i cui confini sono: a Est, il torrente Corino; a Ovest, il fiume Pollina; a
Nord, il Monte Crep; a Sud, la località Tre Ponti, nei pressi della quale venne praticata, dai primigeni
monaci, una profonda incisione che permise alle acque dei fiumi Soligo, Pollina e del predetto torrente
Corino di refluire liberando dall'impaludamento le terre intorno al colletto ove sorge il monastero,
rendendo salubri i territori circostanti allo stesso. Di qui la chiara derivazione del toponimo di Sanae
Vallis. VALLATA o Vallata del Soligo: corrisponde geograficamente alla porzione di territorio
valligiano che si estende dalle porte del paese di Revine sino all'abitato di Combai, interamente
percorsa dall'arteria viaria denominata "Strada della Vallata"; in detto territorio, ber buona parte, vi
scorre il fiume Soligo. (corrisponde alle circoscrizioni comunali di: Revine-Lago, Tarzo, Cison di
Valmarino, Pollina, Miane).
2) Biblioteca Comunale di Treviso, Cod. 110
3) Vedi: P. A. Passolunghi, "Il monastero di S. Maria di Pollina e la sua biblioteca nel secolo XV",
in Benedictina, anno 34 - 1987 - Fase. II
4) Biblioteca Comunale di Treviso, Cod.109, doc. n. 372
5) Biblioteca Comunale di Treviso, Cod.109, doc. n. 308
6) Biblioteca Comunale di Treviso, Cod.109, doc. n. 373
7) Vedi: D. Cesca, Gli antichi statuti caminesi della Valmareno, in: "I Da Camino", atti del II convegno
nazionale, del 20 aprile 2002.
8) Vedi: D. Cesca, Pollina- Cenni storico-artistici - Venezia 2000.
Estremamente significativo a tal proposito è riportare integralmente l'inventario dei beni del defunto
Henri de Cologna: Bona quondamfratris Henri de Cotogna. Unum breviarium portatile. Unum ali ud
portatile in bergomeno. Unum psalterium pro pueris, qui addiscunt in scolis novum in bergomeno.
Unus quinternus in bergomeno, in quo sunt misse votivae Beatae Mariae Virginis. Unus quinternus,
in quo est missa defunctorum. Aliqui quinterni in bergomeno non scripti. Lectiones festi Corpis
Christi, et Lectiones Sabbati post Pascha. Sermo etiam in Octava Corpis Christi. Sermo super eadem
materia beati Augustini. Lectiones Coronae Domini. Homilia super Evangelio Coronae Domini
super uno quinterno in bergomeno. Tabula super opera Boraginis. Una cultelaria cum sex cultellis
laboratis plumbi. Ove troviamo un psalterio in pergamena nuovo, che servirà all'insegnamento dei
ragazzi ed alcuni quinterni in pergamena non ancora manoscritti dal frate. Appare dunque chiara, dalla
tipologia e dallo stato di tali beni, l'attività amanuense del monaco Henri.
176
presenza nel suddetto monastero di un fornito scriptorium, luogo di trasmissione
della cultura grazie alla nobile arte dei monaci amanuensi, ravvisando addirittura
la presenza documentata dell'ulteriore evoluzione di tale attività. Infatti il 9 giugno
9l nell'inventario redatto da Geronimo da Feletto (pubblico notaio d'autorità
1460<
imperiale, incaricato dal canonico Cristoforo da Feletto e dal vescovo di Treviso
Marco Barbo) su mandato del cardinale Paolo Barbo (commendatario del monastero di Pollina), si trova un minuto elenco di beni, del defunto monaco Giovanni
d'Illiria (Dalmazia):
BONA QUONDAM FRATRIS IOANNIS DE ILI.ARIA.
DUODECIM STAMPEE AENEE PRO FACIENDO FIGURAS.
UNA FORMA LIGNEA PRO FACIENDO FIGURAS BEATAE VIRGINIS.
Credo sia di grande importanza per la storia della stampa italiana rilevare la
presenza nel suddetto monastero di:
- dodici matrici in rame per riprodurre immagini
(molto probabilmente di carattere sacro),
- una matrice in legno per riprodurre l'immagine della Beata Vergine,
segni inequivocabili di procedimenti rilievografici ed incavografici di stampa.
In particolar modo le dodici matrici in rame si riferiscono alla tecnica di
stampa incavografica del Bulino, mentre la matrice in legno della Beata Vergine
si riferisce alla tecnica di stampa rilievografica della Xilografia. Altresì significativo è rilevare che le matrici aenee (in rame) e quella lignea in esame arrivarono e
furono con molta probabilità impiegate nel decennio a cavallo fra il 1luglio 1450°0l
(data dell'ultima inventariazione dei beni del monastero follinese prima del
documento oggetto di questo studio), ed il 9 giugno 1460°1l. Questo è possibile
ipotizzarlo con una certa sicurezza, in quanto negli inventari analizzati del 1400<12l
e del 145003l, figurano solamente codici membranacei (in bergomeno) manoscritti;
non vi è assolutamente menzione di quintemus in carta non scripti nè di figuras
impresse nella medesima. Credo sia altamente improbabile che nella minuziosa
stesura dei succitati inventari (1400<14l e 145005l ), possa esser sfuggita la catalogazione di beni cartacei, considerati a quel tempo di notevole rarità e valore. Altro
9) B.C.T. Mise. 109, doe. n. 308
10) B.C.T. Mise. 109, doe. N.372
11) B.C.T. Mise. 109, doe. N.308
12) B.C.T. Mise. 110.
13) B.C.T. Mise. 109, doe. n. 372
14) B.C.T. Mise. 110
15) B.C.T. Mise. 109, doe. N. 372
177
particolare importante è rilevare che le suddette lastre di stampa non caddero in
disuso alla morte del frate illirico ma continuarono ad essere usate per la produzione
di immaginette devozionali per buona parte anche del periodo "Camaldolese"(Secolo
XVill), come attestatoci dalla presenza nel "Libro degl 'instrumenti della veneranda scuola del Santissimo Rosario"di alcune "forme in rame della Vergine". Una
delle quali trovò impiego nella stampa del santino di devozione raffigurante la
"Madonna del Rosario<16>". Credo di poter ipotizzare<17> con buona sicurezza che
le matrici di stampa oggetto di questo studio furono impiegate solamente per la
produzione di immagini su foglietti singoli non essendomi noto alcun libro che
contenga immagini riferibili specificamente ali' opera di tal "Ioannis de Illaria".
Attualmente purtroppo di nessuna delle lastre in esame si ha più notizia certa 08 >,
forse sono andate perse in seguito alla soppressione del monastero follinese da parte
della Serenissima nel 1771 oppure sono finite nel monastero camaldolese di S.
Michele in Isola; ove peraltro molti altri beni del nostro monastero vennero inviati.
Vediamo ora di ricostruire ed analizzare nello specifico i processi produttivi di
stampa attuati dal monaco Giovanni nello scriptorium del monastero di Sanae
Vallis ( purtroppo non vi è altra documentazione nota circa l'arrivo e l'attività del
frate dalmata in Pollina eccettuato il brano estratto dall'inventario datato 1460° 9>).
Come già evidenziato (una forma lignea pro faciendo figuras) rappresenta,
localmente, l'applicazione concreta dell'arte xilografica (o silografica). Il nome
deriva dal greco xilon = legno. In principio venivano rappresentati soggetti
semplici, legati per lo più alla tematica religiosa, per passare poi a figurazioni
sempre più complesse. Vediamo ora come il monaco Giovanni D'Illiria procedeva
16) Il santino devozionale in oggetto apparteneva all'archivio privato dello studioso follinese
Gregorio Moretti; ora viene conservato presso l'archivio della parrocchia di S. Maria in Pollina. (Al
Moretti dobbiamol'enorme mole di studi sull'antica statua della Madonnadi Pollina, che spesse volte
molti studiosiusano senzanemmenocitarel'autore o ne fanno proprie le teorie, approfittandodel fatto
che è tutto materialenon pubblicato.Per questo la locale associazioneculturale "Scriptorium" su mio
interessamento ha proceduto a fare copia di tutto l'intero archivio nel tentativo di tutelarlo).
17)Non è possibile affermarecon assoluta sicurezzache in nessuna operalibraria anticapossanoesser
comparsefigurazioniad opera di Ioannisde Illaria; semplicementedurantela mia ricerca svoltapresso
la Biblioteca Nazionale Marciana non mi è stato possibile individuare nulla. A maggior conferma
comunque dell'ipotesi relativa alla sola produzione di immaginette su fogli singoli vi è il fatto che
duecento anni più tardi le matrici venivano ancora impiegate a tale scopo (vedi il santino: Madonna
del Rosario).
18) In uno degli ultimi incontri avuti con l'amico Giovanni Tornasiho discusso della cosa, egli mi ha
comunicato la presenza di una notevole raccolta di antiche matrici da stampa conservate presso il
Museo Civico di Belluno ed appartenutealla collezioneprivata dello studiosobellunese V. Doglioni.
Purtroppo i termini di consegna di questo lavoro non mi lasciano il tempo di indagare ulteriormente
la possibilità che le matrici a stampa, del monastero di S. Maria in Pollina, ivi siano giunte e facciano
parte della succitata raccolta museale.
19) B.C.T. Mise. 109, doc. n. 308
178
I.Bulino, arcaica raffigurazione della Beata Vergine del Rosario di Follina - Questa immagine venne stampata, nel XVIII
Secolo, con una delle lastre in
rame appartenute, nel 1460, al
frate Joannis de lllaria.
alla stampa dell'immagine della Beatae Virginis. Individuato il soggetto (in questo
caso la Vergine Maria), il nostro xilografo si poneva il problema della sua riduzione
in contrasti di ombra e luce essenziali (cioè di riuscire ad immaginare il soggetto
come un incastro di pezzature bianche e nere, connesse dalla linea nera dei contorni,
senza rinunciare alle fattezze proprie dell'oggetto). Definito così il disegno,
cominciava il lavoro di incisione della matrice lignea. Anzitutto il frate cercava di
procurarsi una buona tavoletta, in legno duro, con venature sottili (le migliori
essenze erano: il ciliegio, il melo ed il pero) alta un paio di centimetri e ben levigata.
Riportava quindi il disegno della Vergine sulla tavoletta; ricorrendo al sistema della
carta oleata (trasparente), ricordandosi beninteso di rovesciarlo prima di stenderlo
sulla tavoletta, procedeva poi con il fare dei piccoli segni ricalcanti i tratti essenziali
della figura. A questo punto iniziava il lavoro di intaglio, praticato con un trincetto
piccolo e bene appuntito. Concluso l'intaglio delle parti lineari, passava allo scavo
del fondo, cioè delle zone intermedie destinate a restare bianche, con l'uso dello
scalpello e poi delle sgorbie (arnesi di forma cilindrica che ad una delle estremità
179
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2.Nel riquadro: (A) Bulino: 1, naso o becco; 2, ventre; 3, lama; 4, manico;
3, ellittica; 4 ,
(B) Sezioni del bulino: 1, quadrata; 2, rettangolare;
a losanga; 5, romboidale.
Nelle figure I e II: Il Bulino ed il suo impiego, si noti (nella figura, Il) uno, dei
trucioli di metallo (barbe) , prodotto dall'azione di incisione del bulino sulla lastra.
180
terminano con il bordo in tralice tagliente, per cui incavano il legno con un taglio
a sezione semicircolare. Sono di varia grandezza, la più fine di esse opera un taglio
sottile, ha sezione a "V": è quella che gli intagliatori veneti chiamano nel gergo
dialettale "stracanton"). In ultima operazione, il frate controllava che non fossero
rimasti filamenti o scheggiature di legno nelle parti a rilievo. La matrice ultimata
era pronta per essere inchiostrata (a base oleosa) con un tampone (tarlatana) e
riposta nel torchio a pressa (una vite, in alto, fa abbassare il piano portando a
contatto la carta e la matrice lignea sottostante) che con modesta pressione,
trasferiva l'inchiostro sul foglio dando origine alla stampa xilografica dellaBeatae
Virginis. Vediamo ora di analizzare l'altra attività di stampa operata dal nostro
fratris Ioannis, mediante l'utilizzo di duodecim stampe e aenee; il bulino. L'origine
dell'incisione a bulino viene fatta risalire alla prima metà del XV secolo, con
discendenza ed analogie molto evidenti nel niello (era questa una tecnica orafa
medioevale diffusa nelle botteghe fiorentine, per realizzare placchette e fregi
ornamentali). Una lastra in argento, veniva incisa secondo un certo disegno; nei
solchi così scavati veniva inserita una polvere ottenuta mescolando piombo con
argento, rame e zolfo: sottoponendo poi ad alta temperatura l'oggetto, la miscela
fondeva saldandosi al metallo della matrice e colmando i solchi di una pasta dura
e di colore scuro, il nigellum. Il disegno inciso veniva a spiccare sul fondo chiaro
dell'argento; anche qui il desiderio di controllare il risultato o la necessità di
conservare il modello dell'opera, per poterlo ripetere, possono aver suggerito l'idea
di applicare un foglio di carta sulla placchetta e di sfregare con qualcosa: il disegno
grazie al piombo del niello si replicava invertito sulla carta; originando in forma
embrionale, la stampa a matrice metallica. Vediamo ora nel dettaglio come operava
il frate Illirico con questa particolare forma di stampa nel monastero di Sanae
Vallis. L'incisione a bulino veniva prodotta su una lastra di rame perfettamente
liscia (preparata battendola sul rovescio), di dimensioni in genere non grandi. Frà
Giovanni, riportato su questa il disegno a rovescio, dava inizio al lavoro di intaglio.
Lo strumento principe era ed è il bulino: un'asticciola d'acciaio temprato, a sezione
quadrangolare, che ad un'estremità è tagliata in diagonale in modo da ottenere un
filo sottile. L'altra estremità dell'asticciola è conficcata in un manico di legno
grosso e stondato, tale da poter essere tenuto comodamente nel palmo della mano.
Infatti il bulino si usa spingendolo, per cui lo sforzo viene esercitato dal palmo della
mano; le dita servono a guidarlo. Il bulino non graffia, scava, apre la lastra
sollevando ai lati e davanti a sé dei trucioli di metallo, le cosiddette "barbe", le quali
vengono asportate col raschietto. Poiché l'azione del bulino, per poter àprire il
metallo, deve essere energica, la lastra va tenuta ferma; non in modo rigido, dato che
l'incisione deve procedere secondo percorsi molto vari seguendo il disegno. La
lastra, appoggiata su di un piano solido, è tenuta ferma dall'incisore con la mano
sinistra che provvede a spostarla tempestivamente in modo che la direzione del
segno da incidere risulti sulla traiettoria della mano che tiene il bulino. Compiuta
181
e rifinita la matrice aeneapro faciendofigurail monaco procedeva all' inchiostratura,
le parti della matrice rimaste al livello iniziale venivano ripulite dall'inchiostro,
infine la carta, mediante la pressione esercitata dal torchio sulla matrice veniva
impressa con l'immagine voluta.
Desidero ringraziare di cuore per la collaborazione, gli amici: Francesco Michielin, Loredana
Imperio, Giovanni Tornasi.
FONTI MANOSCRITTE:
Archivio Parrocchiale Abbazia S. Maria di Follina:
- Libro di memorie del monastero di Follina (1690)
- Catastico dei beni dell'Abbazia di Follina (Antonio Benoni, 1697)
- Libro degl'instrumenti della veneranda scuola del Santissimo Rosario.
Biblioteca Comunale di Treviso:
- Ms. 427: Codicum Transcriptorum (atti concernenti l'Abbazia di Follina, dal 1247 al 1609).
- Ms. 109 (anno 1694, Tomi V).
- Ms. 110: Inventarium de bonis omnibus et rebus Monasterii Sanctae Mariae Sanae Vallis de la
Follina (codice pergamenaceo del XIV Secolo)
Archivio di Stato di Treviso:
- Corporazioni Religiose Soppresse. Abbazia S.Maria di Follina (102 buste, secoli XII-XIX).
Archivio Diocesano di Vittorio Veneto:
- Busta 81, fase. 43: Follina
- Busta 134, Abbazia di Follina e monaci Camaldolesi (secoli XVI-XIX).
Archivio di Stato di Venezia:
- Convento di S. Michele in Isola, buste 14-22 (S. Maria di Follina, secoli XII-XVI),e buste 81-84 (atti
amministrativi e catastici, sec. XVIII). In queste buste viene conservato tutto ciò che rimane
dell'antico archivio dell'Abbazia, ivi trasportato nel 1771 dai monaci Camaldolesi.
182
Damiano Cesca - Francesca Girardi
CATALOGO DELLE MEDAGLIE CELEBRATIVE
"La forma scolpita, di dimensioni ridotte qual è la medaglia, resta per me una
delle più fini fra le arti plastiche per i problemi che pone, tesi, antitesi e sintesi
d'immagini iscritte in un cerchio, con i suoi pieni ed i suoi vuoti e attraverso il suo
diritto e il suo rovescio. Il cerchio, cioè la forma geometrica che segue un
movimento dove niente cambia, può divenire ai miei occhi un mondo tanto grande
quanto quello in cui viviamo, un mondo che gira su se stesso chiudendo
l'indistruttibilità e il trascendente che comprende anche l'uomo,fra il suo destino
e l 'Assoluto<1J ".
Così, anche il maestro Giuseppe Grava ha racchiuso "in piccoli mondi" e
donato al Circolo di Ricerche Storiche del Vittoriese vent'anni di ''forme scolpite"
nel bronzo, celebrando con l'arte medaglistica gli infiniti e nobili significati di ogni
Convegno.
1) Di: Demetrio Anastase (Scultore medaglista, Rucar, 1909- Vittorio Veneto, 1984), "Professione
di fede", 8 settembre 1965.
183
I. Medaglia celebrativa del l" decennale del Circolo di Ricerche
Storiche del Vittoriese, 1982
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: Ottone - diametro mm.50
R: raffigurazione simbolica della "Ricerca", libri, rotolo di pergamena,
clessidra e penna d'oca.
V: centralmente spicca il logo del Circolo di Ricerche Storiche del Vittoriese.
II. Convegno sui conti Da Camino, 1985
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: rame - diametro mm. 70
D: mausoleo di Rizzardo VI Da Camino morto nel 1335, ultimo signore di
Treviso, Feltre, Belluno e Serravalle.
R: il castello di Serravalle e lo stemma caminese.
III. Convegno "I Porcia. A vogari del vescovo di Ceneda, condottieri della
Serenissima, principi dell'Impero", 1994
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: bronzo patinato - diametro mm. 70
D: nella metà superiore lo stemma di famiglia, in basso la cittadella di Porcia
(da un disegno secentesco).
R: al centro a tutto campo il castello Vescovile.
IV. Convegno "I Brandolini. Da capitani di ventura a nobili feudatari", 1996
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: bronzo patinato - diametro mm. 70
D: il castello di Cison (da un disegno secentesco).
In alto a sinistra lo stemma di famiglia con il motto: lmpavidum ferient.
R: al centro pietra tombale di Brandolino Brandolini Conte di Zumelle.
184
V. Convegno "I Collalto. Conti di Treviso, patrizi veneti,
principi dell'Impero", 1998
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: bronzo patinato - diametro mm. 70
D: busto di tre quarti a destra di Rambaldo XIII insignito del Toson d'oro nel
1629. A destra stemma di famiglia inquartato di nero e d'argento, con cartiglio e
motto: Post tenebras lux.
R: a tutto campo vista panoramica dall'alto del castello di S.Salvatore con sullo
sfondo a destra tra le colline il castello originario di Collalto.
VI. Convegno "I Minucci. Arcivescovi,
letterati e cavalieri di Malta", 2000
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: bronzo patinato - diametro mm. 70
D: ritratto dell'arcivescovo di Zara Minuccio Minucci e stemma del casato.
R. nel riquadro superiore destro la cattedrale di Zara, in quello sinistro lo
stemma dei duchi di Baviera con cartiglio e motto. Nella parte inferiore prospetto frontale del palazzo Minucci di Serravalle
VII. Convegno "I Da Camino. Capitani di Treviso, Feltre e Belluno, signori
di Se"avalle e del Cadore", 2002
Scultore: Giuseppe Grava - Materiale: bronzo patinato - diametro mm. 70
D: il Conte Rizzardo da Camino vestito e armato prega (formella dell'arca
funebre nella chiesa di S. Giustina a Serravalle).
R: uno dei guerrieri reggenti l'arca di Rizzardo, alla sua sinistra gli stemmi delle
città di Treviso, Feltre e Belluno di cui i Caminesi furono capitani, a destra gli
stemmi dei feudi caminesi di Serravalle, Cadore e Mel.
185
Oscar De Zorzi
UNO SPACCATO DI VITA CIVILE E RELIGIOSA DI OSIGO, FRAZIONE
DEL COMUNE DI FREGONA, NEL XVIII SECOLO, ATTRAVERSO L'ESAME DELL'UNICO REGISTRO SUPERSTITE DELLA LUMINARIA.
Alla mia amica sincera Luciana
per il generoso e disinterassato aiuto
un GRAZIE di cuore
Premessa
Una quindicina d'anni or sono, scoprii che, presso l'Archivio comunale di
Fregona, erano custoditi un registro della luminaria di Osigo, un inventario dei beni,
delle rendite etc. della stessa e un inventario dei livelli annuali per l'altare di S.
Antonio della chiesa di Osigo, miracolosamente scampati alla distruzione<!).
Grande fu la meraviglia, poiché non pensavo assolutamente che alcunché fosse
sopravvissuto all'incuria dell'uomo e agli eventi ad esso, in parte, riconducibiii<2>.
Infatti l'Archivio della parrocchia di Osigo, conserva esclusivamente i registri
1) Archivio comunale di Fregona, di seguito ACF. Riordino ed inventario effettuato dalla dott.ssa
Maria Grazia Salvador ( 1989). Sezione Storico Antica dal XV al XVIII sec., busta n. 2, UBRO dei
CONTI della VENERANDA LUMINARIA di S. GIORGIO della VILLA di USIGO - 1738-1785 (in
effetti 1738 -1781; la Salvador, nell'inventario, indica carte n. 178, in realtà sono n. 189); Catalogo
di tutti li Beni, Rendite, Livelli, Legati, ed altro della Veneranda Luminaria di San Giorgio della Villa
di Usigo (30.4.1761) e Seguono gliAggravij annui del/' antescritta V.da Luminaria di S: Giorgio della
Villa d'Usigo, relitto di registro, in tutto carte n. 25, di cui n. 8 bianche (la numerazione delle carte è
da 1 a 39 e risultano mancanti le cc. da 8 a 13 e da 20 a 27); Inventario delli livelli che deve esigere
annualmente sino all'affrancatione, il Venerando altare di S. Antonio di Usigo, col mezo de suoi
custodi dall'infrascritti Livellarij come Segue, relitto di registro, in tutto carte n. 71, di cui n. 66
bianche.
2) Il compianto maestro Giovanni Azzalini di Osigo, appassionato cultore di storia locale, mi
raccontava che la perpetua di un parroco di Osigo del XIX secolo, soleva accendere, la mattina (e non
solo), la stufa della casa canonica, utilizzando qualche pagina dei vecchi registri dell'archivio
parrocchiale, in quanto, a parer suo (e aveva ragione), tenevano di più la fiamma!
187
canonici dal 1768 in avanti, mentre per gli anni antecedenti non vi è traccia di
documentazione.
Corre l'obbligo, comunque, di una precisazione.
Senza addentrarmi in particolari enunciazioni storiche, ritengo sia indispensabile stendere un preambolo s..;!1'origine della parrocchia di Osigo.
E' oramai noto a tutti che la pieve di Fregona, molto antica, sicuramente
anteriore all'XI secolo, si estendeva in passato su un vasto territorio delimitato a
nord dal massiccio del monte Pizzoc, a ovest dal torrente Carron, ad est (e oltre) dal
torrente Friga e a sud dall'attuale comune di Cappella Maggiore.
In questa ragguardevole estensione ecclesiastica, sparsa tra monti, altopiani,
poggi e colline, si formarono nei secoli delle cappelle campestri officiate da curati
(o rettori) dipendenti dal pievano di Fregona.
Sorsero così le "filiali" di Cappella Maggiore, Montaner, Osigo e Sonego, le
quali nei secoli si resero indipendenti dalla "matrice"; ciò avvenne rispettivamente
nel 1494, 1600, 1865, 1951 (Sonego, dal 1987 ha perso la personalità giuridica di
parrocchia, ed è chiesa aggregata alla parrocchia di Fregona).
Origine della chiesa e della luminaria di Osigo
Secondo un recente studio di Giovanni Tomasi<3l, le prime notizie attestanti
l'esistenza di una chiesa in loco (almeno indirettamente) si riferiscono ad un
sacerdote, pre Pegemperto, documentato in data 1.5.1233; non è dato peraltro di
sapere se questi fosse rettore di Osigo, o più semplicemente originario del luogo.
Fa seguito una elencazione frammentaria di rettori e vicerettori fino alla seconda
metà del XVI secolo, periodo coincidente con il vescovato di Michele Dalla Torre
(el. 8.2.1547 - t 21.2.1586) nel quale lo studioso arresta le sue indagini, e al quale
fa seguito, da parte di chi scrive, la pubblicazione delle schede biografiche dei
cappellani, curati (o rettori) della chiesa di Osigo, dal sec. XVII fino alla erezione
in parrocchia, avvenuta, come ho già detto nel 1865<4>_
Il primo documento importante che, in qualche modo, offre alcune informazioni sulla chiesa di Osigo (fig.l), è la relazione stilata dopo la visita pastorale
effettuata dal vescovo Nicolò Trevisan (el. 1474 - t Padova 10.1.1498) in data
3) G. Tornasi, La Diocesi di Ceneda, chiese e uomini dalle origini al 1586, n. 2 voli., Vittorio Veneto
1998, voi. I, pp. 257-58.
4) O. De Zorzi, Pievani, arcipreti, curati e cappellani della Pieve di Fregona. Sacerdoti e religiosi
nati nel Comune. (secc. XVJJ-XX, schede biografiche), in Aa. Vv., "La Pieve di S. Maria di Fregona",
Susegana 1998.
188
(fig. l ), particolare di una mappa, eseguita il 3 gennaio 1707 dal notaio
e perito agrimensore Carlo Piai, raffigurante la chiesa di S. Giorgio di
Osigo. Coll. Archivio di Stato di Treviso, Mappe antiche dell' Archivio storico comunale di Treviso, busta n. 39 - Vittorio Veneto.
189
27.11.1474 appunto ad Osigo, lo stesso giorno in cui, in precedenza, aveva visitato
la chiesa di Fregona<5>.
Nel documento si legge che il presule trovò la chiesa appena fabbricata e non
ancora consacrata, assieme alla casa canonica del rettore, presbiter angelus da Gai
di Fregona quondam Antonio (non sappiamo se si sia trattato di un radicale restauro
-e io sono propenso per questo-, oppure della edificazione di un nuovo tempio, in
luogo diverso da dove, ipoteticamente, doveva essere sorta in precedenza una
antica chiesa), e vide le dotazioni liturgiche possedute: una croce d'argento, un
calice d'argento dorato, un messale e un paramento con disegni damascati. Si
informò, inoltre degli introiti della chiesa, gestiti dalla Fabbrica (o Luminaria),
consistenti in sette "stare" e mezzo di frumento e un "cargo" di vino.
Il giurato della Luminaria era Davide del quondam Giovanni Rossi e il
massaro Donato de Uliana, che offrì al Vescovo due ducati per la visita pastorale,
impegnandosi, inoltre, ad effettuare il compenso al Cancelliere episcopale, entro la
prossima festività di Natale.
Ci fu, anche, un risvolto negativo nella visita pastorale, quando l'ufficiale del
Vescovo, Pietro, riferì nella relazione, di avere citato, pena la scomunica, Tiziano
quondam Giovanni Roy per la mattina del primo giovedì del mese di dicembre
successivo, a comparire davanti al Presule, assieme alla moglie, figlia del suddetto
giurato Davide Rossi, per rispondere, seconda la normativa ecclesiastica, del fatto
che gli sposi avevano contratto matrimonio, affini di terzo grado.
Il documento che ho appena compendiato indica pertanto che, nella seconda
metà del XV secolo, esisteva in quel di Osigo una, seppur modesta, organizzazione
laica e collegiale, incentrata attorno alla cappella di S. Giorgio, la cosiddetta
Luminaria (o Fabbrica) preposta alla gestione delle rendite della chiesa.
Sicuramente chiesa e Luminaria esistevano già in precedenza, anche se
l'interpretazione del testo della visita pastorale del 1474, che parla del sacro tempio
appena edificato e non ancora consacrato, assieme alla casa canonica del cappellano, farebbe supporre il contrario.
A mio parere entrambe nacquero e si svilupparono quando l'esteso territorio
della pieve di Fregona conobbe una crescita antropica nei vari colmelli (secc.XIIXIII ?) che costituiscono l'attuale Comune (tranne Cappella Maggiore e Montaner
di Sarmede, ora entità civili autonome), determinando quel processo, lento e
inarrestabile, di svincolo dalla "matrice", alimentato anche da un progressivo
patrimonio fondiario, sotto forma di lasciti testamentari di nobili, forestieri e
"popolani", destinato a costituire le basi delle dotazioni reddituali della cappella
campestre di S. Giorgio di Osigo.
5) Archivio diocesano di Vittorio Veneto, di seguito ADVV, busta n. 33, Visite Pastorali 1474-75,
del vescovo Nicolò Trevisan.
190
Quanto poi al fabbricato in cui si riunivano i Deputati ordinar} al Governo
della V.da Luminaria, si può ipotizzare che fosse annesso , come d'uso, alla casa
canonica del cappellano e nelle immediate vicinanze della chiesa.
Bisogna aspettare il secolo XVI per avere documentazione probante l' erezione della (nuova?) casa della Luminaria. Infatti una lapide (fig.2), murata al piano
superiore della attuale canonica , datata 16.6.1526, ricorda la costruzione dell' edificio, quando era rettore pre Zaneto Trafalando e Ser Andreia De lacomin maser .
Sicuramente, nel XVIII secolo , lo stabile si trovava a confine con il cimitero;
infatti tra le spese del giurato Domenico quondam Antonio Cancian, in carica dal
23 aprile 1765, alla stessa data dell ' anno successivo, vengono registrate le seguenti
uscite di cassa:
Spesi in Pietra tolta da Zamaria Matiozi per fare la scala nel cimiterio per
andare insolaro della Luminaria L. 16;
Spesi per farla lavorare la d:a Pietra dal d: 0 Zamaria L. 14;
Spesi per far condure la d:a Pietra L. 6;
Spesi in 3 dornade, e meza de muraro per meter in opera la scala di Pietra sul
cimiterio, et messa in opera da Antonio Zorzi L. 5 e soldi 10<6l .
6) ACF, Libro dei CONTI della VENERANDA LUMINARIA di S. GIORGIO ... , cit., ma senza
riferimento al numero di carta, per quanto esposto nel testo, nella descrizione del registro.
(fig.2 ), lapide in pietra arenaria datata 1526, a ricordo dell'erezione della casa della
Luminaria, attualmente collocata sulla parete esterna, a sud-est, della casa canonica .
191
Cos'è la Luminaria?
La Luminaria, nel medioevo, nell'accezione ufficiale, era la tassa che ogni
"maestro" e ogni "garzone", cattolici, (gli acattolici pagavano "l'obbedienza"),
versavano annualmente alla propria "Arte" o "Fraglia" per il mantenimento del
proprio collegio, per l'illuminazione dell'altare del patrono ad essa dedicato,
all'interno della chiesa, oppure della chiesa stessa. La Fabbrica, in diritto canonico,
era la chiesa nella sua struttura materiale, cioè l'edificio destinato al culto, e
Fabbricieria l'organismo che provvedeva all'amministrazione di quella parte del
patrimonio della chiesa destinato alla manutenzione e alla conservazione della
Fabbrica stessa ed alle spese occorrenti per il culto.
Tutti e tre i termini, nell'uso corrente antico, stavano a significare quell' organismo laico e collegiale destinato ad amministrare i beni materiali e le rendite della
chiesa.
Dalle nostre parti, questa istituzione, grosso modo fino alla caduta della
Repubblica di Venezia ( 1797), assunse il nome di Luminaria e, successivamente
fino ad alcuni decenni or sono, Fabbricieria.
Lacune dell'Archivio parrocchiale di Osigo; responsabilità generali dei
parroci
Ritornando all'esiguità dei documenti custoditi nell'Archivio parrocchiale di
Osigo, dobbiamo innanzi tutto comprendere che per quanto riguarda i libri
manoscritti canonici, come ho avuto modo di dire, le registrazioni iniziano con i
battesimi dall'anno 1768, anche se dal 1739 alla chiesa era stata concessa, come
illustrerò successivamente, l'erezione di un battistero, primo passo per svincolarsi
formalmente dalla chiesa pievanadi Fregona, nella quale, fino appunto alla seconda
metà del xvm secolo, venivano allibrati nascite, matrimoni e morti degli abitanti
di Osigo.
Se da un lato, per i motivi suesposti, è ovvia l'assenza di registri canonici
antecedenti alla data suddetta, altrettanto non è per quanto riguarda i "Libri della
luminaria di S. Giorgio di Osigo".
Ho già accennato in premessa alle gravi responsabilità umane della distruzione (tranne eventuali eventi bellici e naturali, troppo spesso, peraltro in generale,
invocati a giustificazione) di questo patrimonio storico della collettività, spiegando
(si veda la nota n. 2) la triste fine che ha subìto la maggior parte delle "carte"
contenute nell'Archivio parrocchiale di Osigo.
Ma, in molti altri casi, mi sento di dire che le cause sono da attribuirsi alle
responsabilità di alcuni parroci dell'ultimo secolo trascorso, veri barbari, insensibili alle tradizioni delle singole realtà locali, quindi dei relativi benefici a loro
192
collazionati, non interessati, anche per scarsa cultura, alla conservazione delle
patrie memorie, disposti talvolta, a vendere o svendere a mercanti e collezionisti le
testimonianze dell'umano passato; e, se proprio vogliamo cercare qualche argomento in loro favore, vanno classificati, quantomeno, come sprovveduti concessori
a chicchessia di autorizzazioni ad accedere agli archivi parrocchiali, limitandosi,
poi, sconsolati, ad allargare le braccia e scuotere la testa alla scoperta della
sottrazione di qualche pagina di un registro, se non dell'intero volume. Basta
passeggiare per i vari mercatini dell'antiquariato della zona per accorgersi di quanti
antichi documenti di molti archivi parrocchiali della nostra Diocesi, con tanto di
regesto di compiacenti traduttori, trovino tranquillamente esposizione ed acquirenti, senza un oggettivo timore di giuste implicazioni anche di carattere penale.
Resta il mistero di come questo registro (e degli altri due) si trovi nell'Archivio
del comune di Fregona. Mi vien fatto di pensare che possa esservi stato depositato
da uno zelante raccoglitore di memorie locali ancora nel XIX secolo, salvato
provvidamente dalle fiamme della stufa della casa canonica di Osigo, oppure,
chissà, da un sacerdote della stessa Parrocchia, che ne ha fatto dono al sindaco.
Credo che non lo sapremo mai.
Caratteristiche dell'unico registro superstite della luminaria di Osigo
(1738-81)
L'esame del registro ha fatto emergere i seguenti dati:
-dimensioni cm 31,5 ca. di altezza x cm 23,5 ca. di larghezza e cm 3,5 ca. di
spessore;
- rivestimento in pergamena su una sottocoperta di cartone;
- si leggono a malapena alcune parole sul frontespizio, in particolare: Libro de
Con(ti) .. Princip .. in inchiostro marrone e un numero "4" in inchiostro rosso di
scrittura non coeva, mentre sul dorso, chiaramente nella stessa scrittura del titolo,
in numero romano: N. VI.;
- la prima pagina interna porta il n. 2r e la numerazione prosegue fino alla
pagina n. 5r, poi è assente; in tutto le pagine sono n. 189, alcune bianche e altre di
dimensioni ridotte rispetto allo standard del registro;
- mancano le prime pagine relative al verbale di approvazione del maneggio
del giurato, in carica dal 23 aprile 177 5 alla stessa data dell'anno successivo, in
particolare per quanto riguarda la distinta completa delle partite attive e, in parte di
quelle passive; si nota in effetti che i fogli sono stati tagliati e, quindi, asportati.
La prima considerazione che faccio è che se il dorso del volume porta il n. VI,
ciò prova l'esistenza di altri cinque registri antecedenti al 1738 (ma la numerazione
può riferirsi ad un'altra serie di manoscritti perduti poiché la pergamena potrebbe
193
essere stata riutilizzata, successivamente, per rivestire il volume della Luminaria)
che, purtroppo, hanno contribuito a riscaldare le fredde giornate invernali della casa
canonica e, anche, ad accendere il fuoco per cucinare le pietanze del curato! Ma
questa è una digressione che, in qualche modo, ho già reso nota ai lettori, per cui
credo sia meglio ricondursi entro i binari dell'argomento che sto trattando.
E ritornando ai "documenti sopravvissuti", debbo affermare innanzi tutto che
questi hanno avuto modo di essere visitati anche dal compianto maestro Giovanni
Azzalini, il quale li ha utilizzati, nel suo libro Osigo. Il mio paese<1>,per la stesura
del capitolo riguardante, in particolare, la storia della Luminaria del luogo,
riportandone degli stralci, purtroppo non sempre esatti ad una verifica del testo.
Va sottolineato, comunque, l'impegno profuso da questo autentico figlio della
propria terra, di origine cimbra, nel presentarne per primo alcuni brani inediti,
seppure privi di redazione omogenea e meramente sterili in una logica di analisi e
di sintesi.
Metodologia di indagine ed applicazione
Più di una volta mi sono chiesto quale fosse l'approccio migliore per
affrontare l'argomento: se estrapolare le notizie e presentarle sotto forma di annali,
oppure optare per una panoramica a largo raggio di quanto l'esame del registro
poteva offrire.
Certo è che la quantità dei dati superstiti disponibili, benché limitata ad un
periodo circoscritto (1738-81), offre indiscutibilmente motivo di interesse per
questa comunità assai modesta, quale è sempre stata quella di Osigo, la quale va
comunque studiata in un contesto di vastità e di sintesi sotto l'aspetto storicoreligioso della diocesi di Vittorio Veneto.
Si avverte pertanto la necessità di selezionare le informazioni raccolte,
cercando di non tediare il lettore con una miriade di microdati, senza peraltro
appiattire i contenuti della ricerca, offrendo ispirazione per eventuali, successive,
indagini sull'argomento; insomma un "mixage" di cronaca e di compendio.
Leggendo le pagine del registro manoscritto balza agli occhi la notevole mole
delle notizie ivi contenute, a volte di una pedante meticolosità nella descrizione dei
fatti (in particolare le uscite di cassa), a volte di una sinteticità esasperata, tanto da
mettere a dura prova i nervi del ricercatore.
E questi è in difficoltà nel procedere all'esame del documento: sente, infatti,
l'obbligo di ampliare l'analisi dei dati, a prescindere da logiche strettamente
7) G. Azzalini, Osigo. Il mio paese, Vittorio Veneto 1991.
194
utilitaristiche, o quanto meno di spazio, penetrando, almeno in parte, nel tessuto di
questa piccola comunità rurale, al fine di capire le difficoltà occorse "ai deputati al
buon governo della pia Luminaria" nel reperire risorse umane e finanziarie per
programmare e portare a compimento le varie iniziative cui questo ente era
preposto.
Usando termini contemporanei, il registro della luminaria di Osigo, come
quello di tutte le altre Istituzioni analoghe e delle Confraternite, esistenti nel
Dominio Veneto, non è altro che una sorta ante litteram di un "Libro dei verbali di
un consiglio di amministrazione" di una qualsiasi moderna azienda, assommato ad
un "Libro contabile di partita doppia".
Va da sé che il risultato finale delle registrazioni, è frutto di brogliacci o
vacchette<8l, in cui il giurato segnava le varie operazioni contabili del dare e
dell'avere, riportate in bella copia poi, appunto, sul registro ufficiale da un notaio;
si può ipotizzare addirittura che, a monte, ci fossero delle annotazioni sparse su
fogli vaganti, e solo successivamente destinate a ordinate partite del cavar et
spender: come vedremo, non sempre andò così.
Ed è proprio attorno alla figura del giurato e dei suoi consiglieri che gravitano
tutte le attività della Luminaria. Si tratta in effetti di un consiglio di amministrazione
di una società, di cui il giurato era presidente, con pieni poteri durante il mandato
conferitogli.
I verbali
L'elezione del giurato avveniva entro la prima settimana di maggio, subito
dopo la festa del patrono della chiesa, S. Giorgio (23 aprile), e la carica aveva la
durata di un anno. Nel suo mandato era affiancato da dodici consiglieri, scelti per
metà tra i Deputati dè XII Vecchi, e per l'altra metà nei Novi delli XII. Ciò sta a
significare che ogni anno vi era una rotazione del cinquanta per cento tra i
consiglieri nominati. Questa ferrea norma, in apparenza, doveva garantire un
corretto avvicendamento delle cariche amministrative, sia del giurato, sia dei
consiglieri. La realtà, in effetti, era ben diversa: leggendo le pagine del registro, ci
si accorge che i ceti in qualche modo più abbienti di questa piccola comunità
detenevano una sorta di oligarchia nel reggere le sorti della Luminaria, costituendo
di fatto un continuo passaggio di consegne tra uno stretto numero di persone.
8) Vacchetta: termine veneto che sta a significare il libro in cui si registravano le spese giornaliere;
cfr. G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, rist. anast., Firenze 1993.
195
Le formalità burocratiche relative alla nuova elezione del giurato e dei
consiglieri, nonché l'approvazione del bilancio dell'esercizio trascorso, avevano
tono solenne. Tutto ciò avveniva in chiesa, al termine della messa conventuale, o
in canonica, oppure nel cortile della stessa alla presenza del curato e della
popolazione (certamente ciò dipendeva anche dalle condizioni meteorologiche).
Il notaio, incaricato della stesura degli atti sul registro, espletava le formalità
ufficiali che iniziavano, scrivendo l'invocazione In nomine Domini nostri Jesu
Christi, Amen, seguite dalla data e dal luogo della convocazione e leggeva, à chiara
intelligenza, artico latamente, le voci delle entrate e delle uscite e, alla fine, il saldo,
diremo ai giorni nostri, l'utile o la perdita dell'esercizio; qualora fosse stato rilevato
un risultato negativo, la somma sarebbe stata ripianata, nell'esercizio successivo,
o con acconti e saldo negli anni a venire, salvo l'emergere di malversazioni
contabili, nel qual caso il giurato sarebbe stato tenuto a rifondere del proprio.
Debbo, peraltro, sottolineare che tali atti amministrativi, stesi dal notaio (a far
fede dal superstite registro, oggetto di questo saggio) nel prosieguo del tempo,
persero gran parte della loro formalità iniziale, riducendosi, dal 1761, ad un
preambolo estremamente sintetizzato, da imputare, come si vedrà, alla negligenza
del "pubblico ufficiale".
Dopo l'approvazione del bilancio, seguiva l'inventario dei beni mobili della
chiesa (arredi sacri, consistenti in croci astili, turiboli, patene, pissidi etc.) e le
dotazioni, meramente più terrene, della Luminaria, che si trovavano nella caneva,
consistenti nell'attrezzatura adoperata per la vinificazione delle uve raccolte nei
fondi di proprietà ("formelle", "mastelli", "secchi in rame" e "lora" per il travaso
del vino) e, sopra la caneva, nel granaro, il Casson di Nogara diviso in due parti
con sua serratura, cioè una parte per tenir la farina per il pane dell'elemosine et
l'altra parte per conservar le scritture d'essa Luminaria ... <9i_
L'iter burocratico si concludeva con la sottoscrizione del notaio deputato a
redigere il verbale e, quindi, il registro veniva trasmesso alla Cancelleria della
podesteria di Serra valle per la definitiva approvazione da parte del podestà, sancita
con la propria firma autografa.
Ritornando ai registri custoditi nella cassapanca, ai quali ho fatto riferimento
sommariamente, l'elenco degli stessi ci rende tristemente consci dello scempio
subito dalla documentazione antica della luminaria di Osigo.
9) ACF, Libro dei CONTI della VENERANDA LUMINARIA di S. GIORGIO ... , cit., c. 5r.
196
Ecco il dettaglio:
- ... quattro Inventarij compreso il novo con suoi dissegni di mano di me
Nod. q:ioi;
-Trè libri de conti, et il presente novo, tutti infoglio (quindi è corretta, almeno
nel sec. XVIII, la numerazione sul frontespizio del registro che porta il n. 4);
- Il libro in quarto delli Capitoli;
- Il libretto delle ricevute;
- Il libro poi dell 'affittanze in foglio, s 'attrova à Serravalle appresso l 'Ill.mo
S. D.r Gajotti per la causa contro li Frare, e Consorti da Sonego ... Oll,
Tranne il registro, oggetto di questo saggio e il relitto del Catalogo di tutti li
Beni, Rendite, Livelli ... della Veneranda Luminaria di S. Giorgio della Villa di
Usigo e l' Iventario delli livelli ... dell' altare di S. Antonio ... (vedasi nota n.l), tutto
è andato perduto!
Anche le dotazioni liturgiche erano di rilievo per questa piccola realtà rurale;
il deposito era ubicato Nella Custodia con nichio corrispondente la porta con
serratura, alla Sacristia e consistevano in:
- Croci trè d'Argento, n. 0 3;
- Calici tutti d'Argento con sue patene due, n. 0 2;
- Croci di ferro, et otton due n. 0 2;
- Due Lampade d'Argento n. 0 2;
- Un Turibolo, con Navicella, e Cuchiaro tutto d'Arg.to;
-Nell'armaro della sacrestia due calici con coppa, e patene d'Argento, e
resto d'otton, e rame, n. 0 2;
-Due Piscidi d'argento, cioè una grande per conservar nel tabernacolo col
Ss.mo Sacramento nei tempi di Pasqua, e Ss.mo Natale, et l'altra picola per portar
la S.a Comunione à gl'infermi 02 >.
È da sottolineare che, analogamente all'involuzione dell'iter iniziale dei
verbali, stesi dal notaio per il resoconto annuale del cavar et spender della
Luminaria, anche per quanto concerne l'elenco dei registri amministrativi contenuti nel Casson di Nogara, nel prosieguo degli anni, tutto si risolse in una anonima
10) Mons. Rino Bechevolo, curatore dello STATO PERSONALE della Diocesi di Vittorio Veneto
1970, Vittorio Veneto 1970, a p.11O, tracciando la nota storica della parrocchia di Osigo scriveva:
Finora il documentopiù vecchioche ci parla della chiesa di S. Giorgiodi Osigo è un catastodel 1462.
Che fine ha fatto il registro citato che non si trova né in casa canonica a Osigo, né ali' Archivio
diocesano di Vittorio Veneto?
11) ACF, Libro dei CONTI della VENERANDALUMINARIA di S. GIORGIO... , cit., c. 5r.
12) Ibidem.
197
e striminzita dichiarazione, come appare leggendo il verbale di approvazione del
bilancio del giurato Domenico quondam Antonio Cancian, in carica dal 23 aprile
1759, per un anno: Un Casson di Nogara con coperto in due parti ... , et l'altro da
tenire le scritture della Pia Luminaria<l3),per ridursi poi dall'esercizio 1775-76 ad
un semplice: un Cason di nogaro<14>.
Il Cavar
Le entrate della Luminaria erano determinate, in larga misura, dalle decime
attive offerte "all'incanto" (all'asta) al miglior offerente, dagli affitti percepiti sui
terreni dati in locazione a privati, dal Formento avuto dalli affittuali, e livellarij e,
infine, dal vino custodito nella cantina, che trovava collocazione e vendita nei
mercati locali, di Ceneda e di Serravalle.
Incassi marginali potevano avvenire da fattori occasionali, non strettamente
collegati ali' attività della Luminaria; riporto, a mo' d'esempio, dal rendiconto del
giurato Domenico del quondam Antonio de Conti, in carica dal 23 aprile 1746 alla
stessa data dell'anno successivo:
- Cavati di un capone stato dato da un devotto L. I e soldi 4;
- Cavati da me infrascritto Nod: 0 (Giovanni Antonio Piai) per due nogari
vechi in Ciser, avuti dalli giurati precesori uno l'anno 1745- l'altro 1746 L. I J0 5>;
e dal rendiconto del giurato Angelo quondam Giovanni Uliana (esercizio
1752-53):
- Cavati di Argento della Croce vechia dell 'Altar della Madona onze venti trè
à L. 9 l'onza L. 207;
- Cavati del Cirio (cero) vecchio L. 26 e soldi 5;
- Cavati del Battente della Campana L. I ]0 6>.
L'esame delle partite attive di tutti gli anni evidenzia la semplicità delle
descrizioni, mentre per quanto concerne le poste passive sussiste una meticolosità
esasperata nel trascrivere puntigliosamente ogni minima spesa, in moltissimi casi
ripetitiva ad ogni esercizio.
13) Ibidem, ma senza il numero di carta; d'ora innanzi, come riferimento, indicherò, quando non
riportato nel testo, il nome del giurato ed il periodo in cui era in carica.
14) Ibidem, giurato Matteo Varnier.
15) Ibidem, ma senza il numero di carta.
16) Ibidem.
198
Lo Spender ordinario d'esercizio
Come ho testé spiegato, le uscite di cassa presentano una pedanteria quasi
eccessiva e comunque ripetitiva nella descrizione delle registrazioni, per cui
cercherò di illustrare le voci più significative del bilancio annuale d'esercizio,
compendiando quelle più ordinarie.
Molte spese sono legate alla illuminazione, manutenzione della chiesa, della
casa della Luminaria, della canonica del rettore, del cimitero e, anche, della
chiesetta di S. Daniele, con annesso ricovero dell'eremita, posti sull'omonimo
colle, sovrastante il colmello di Osigo, nonché al calendario liturgico, a ricorrenze
religiose, alle visite pastorali del vescovo, oppure a stagionalità, riferite alla
vendemmia e alla vinificazione, conservazione, travaso e vendita del prodotto
finito.
Compito della Luminaria era salariare i sacrestani che assommavano anche
l'attività di campanari: rilevo, amo' d'esempio, chenell' esercizio 1738-39, giurato
Paolo quondam Matteo da Re, furono contadi à Giacomo da Rè q. Nicolò, et Titian
q. Dom.co da Rè serventi qui nella Chiesa, e per suonar le campane giusto il
praticato di suo salario L. 18.
Si susseguono elenchi di spese riferite a far falciare, due volte all'anno, 1'erba
nel cimitero e di provvedere, all'occorrenza, al restauro del muro di cinta che lo
delimitava, all'acquisto dei sapponi e badili per seppellire i defunti, nonché a
pagare, in casi di estrema indigenza, la cassa per la deposizione della salma; solo
nell'esercizio 1739-40 si registrano addirittura tre interventi di questo tipo: Spesi
in una Cassa da Morto per sepelir il q.m Povero Bortol: 0 Ulianna povero
miserabile L. 4 e soldi 3; Spesi in una cassa per la q:m Ceccilia dal Col povera
miserabile L. 3 e soldi 2; Spesi in una Cassa per sepelir la q:m Domenica Ziprianna
(Ciprian) L. 301>.
Scorrendo le pagine del registro balzano agli occhi le continue spese per le
varie ricorrenze liturgiche; così la Luminaria provvedeva a pagare il curato per
officiare la commemorazione dei defunti, in particolare quelli che avevano lasciato
dei "legati" a suffragio della loro anima; a rivestire gli altari di un panno viola
durante la settimana di Passione; ad allestire il Sepolcro, a lisciare la biancaria
della Chiesa, ad acquistare i rami d'ulivo in occasione della festività delle Palme
e tutto ciò che poteva occorrere per la solennità della Pasqua e del Corpus Domini.
Ogni anno la comunità di Osigo, come quella di Pregona, si portava in
processione a Ceneda per le rogazioni e alla basilica della B. Vergine della Pollina;
le spese per il curato, per i ceri e il pasto per i fedeli erano a carico della Luminaria;
pensiamo ai nostri giorni un concorso di popolo, a piedi, fino a Pollina!
17) Ibidem, giurato Marco quondam Antonio de Conti.
199
Un accenno particolare mi vien fatto di fare per le processioni che annualmente venivano effettuate al santuario di S. Augusta a Serra valle; non una come si usa,
abitualmente, ancora ai giorni nostri, ma in più occasioni, all'occorrenza, quando
si crede(va) che bastasse supplicare una santa, affinché cambiasse il tempo.
Singolare quanto registrato durante l'amministrazione del giurato Paolo quondam
Matteo da Re, in carica nell'esercizio 1738-39: Per dati à quelli hano portato le
croci in processione a Sant'Augusta quattro volte (devono essere state delle
stagioni veramente critiche per i raccolti!) per impetrar il buon tempo, cioè 6.
magg: 1738. 25. Giug. 0 et 12. Ag.to susseguenti, e 20 Aprile prossimo caduto a L.
2 per volta L. 8° 8l.
Per quanto riguarda la produzione vinicola e successiva vendita, si evidenziano
le continue spese per Cerchi, e Legature per li tinazz.i, e Botti nella sud.a Caneva,
comodar ilfondi all 'ormella ... <19>,oppure, sempre a mo' d'esempio, Spesi in cerco i
da Brent, e da Botte L. 5 e soldi 10; Spesi nel travaso del vino L. 2; Spesi per il
travaso del Vino, e consegnato al Ill:mo Sig:r Conte Cesana L. 2; Spesi per far un
20 >.
disnar al Ill:mo Sig:r Conte il giorno della consegna del vino L. 2 e soldi Jo<
Altra spesa ricorrente era quella di aiutare persone indigenti per il matrimonio,
oppure per il normale sostentamento così, ad esempio: nell'esercizio 1739-40 viene
registrata la seguente spesa: dati d'ordine del Capitolo a Maria.figlia di Zuanne
Giacomin in aiuto del suo Maritaggio L. 6<21 J e nei successivi esercizi 1741-42 e
1742-43, dati per carità, alla stessa, povera miserabile, rispettivamente L. - e soldi
10, e L. 1<22>.
Significativo impegno per la Luminaria era l'acquisto dell'incenso e, soprat-
18) Ibidem. Il culto di S. Augusta, benché ritenuto dalla storiografia locale molto antico (secc. VI- VII),
trova riscontro documentario solo nel 1234, cfr. G. Tornasi, La diocesi di Ceneda, cit. voi. I, p. 411.
L'intensificazione della devozione a questa santa locale avvenne con il vescovo Lorenzo Da Ponte
(1739) e la successiva u(ficializzazione (1774) con papa Benedetto XIV; cfr. S. Tramontin, / santi
patroni, pp. 21-23, in Aa. Vv., "Il cristianesimo tra Piave e Livenza da Carlo Magno alla Repubblica
Veneta", Vittorio Veneto 1986. I fregonesi, per antica tradizione, hanno sempre avuto particolare
venerazione per questa santa (invocazioni per la pioggia, ma come si è visto anche per il bel tempo,
e per doti taumaturgiche quali: mal di schiena e di testa), ma dai riscontri d'archivio da me effettuati,
la prima attestazione di culto a Fregona è del 22.08.1701: 22. d. 0 per far portar processionalm.te La
Croce à S. Augusta L-soldi 1O,Archivio parrocchiale di Fregona, registro Luminaria 35, 1680-1710,
c. 113v.
19) ACF, Libro dei CONTI della VENERANDA LUMINARIA di S. GIORGIO ... , cit., giurato
Giacomo Badon, in carica dal 1 maggio 1737, per un anno, spesa di L. 11 e soldi 15, c. 3r.
20) Ibidem, giurato Domenico quondam Antonio Cancian, in carica dal 23 aprile 1765 alla stessa data
dell'anno successivo.
21) Ibidem, giurato Marco quondam Antonio de Conti.
22) Ibidem, giurati, rispettivamente Giambatta quondam Paolo da Re e Giambatta quondam Gian
Maria Furlan.
200
tutto, dell'olio e delle candele che sarebbero poi servite ad illuminare la chiesa di
Osigo e la chiesetta di S. Daniele (fig.3 ), e dei ceri dispensati ai fedeli il giorno della
Ciriola; la fornitura avveniva presso Giovanni Orsi di Serravalle, fino alla prima
decade della seconda metà del '700 , e quindi da Valerio Fabris Speciale, sempre di
Serra valle .
Uscita annuale di cassa era il pagamento del "livello" per i "masi" del Ruio
Bordon, Beorca e Danese, dovuto ai Frati Conventuali di S. Francesco di Conegliano,
in virtù di antiche cessioni di quei fondi alla luminaria di Osigo, che consisteva nel
diritto di percepire ogni dodici mesi una somma in denard 23l .
23) I "masi", si ridussero progressivamente da tre ad uno, quello del Ruio Bordon, come parrebbe,
dalla lettura dei verbali annuali dei giurati , in relazione a probabili alienazioni a privati. Per una più
ampia indagine sulle proprietà dei Frati di S. Francesco di Conegliano nel territorio di Fregona, cfr.
O. De Zorzi, Il territorio di Fregona dal XIII al XVIII secolo.L'eredità di Salatino Scotti-cenni storici
documentati, in Aa. Vv ., "Fregona" , Vittorio Veneto 1984, e O. De Zorzi , Compendio genealogico
sulla famig lia DE ZORZI, Vittorio Veneto 1998.
(fig.3), la chiesetta di S. Daniele, con annesso eremitorio, da un disegno esistente
nel CATASTICO DELLI Beni di ragione della Capella di S. GIROLAMO della
VAZZOLLA possessi dal Venerando SEMINARIO di CENEDA com'anco delli
Beni delle Ville d' Usigo, et Solighetto fatto per comando di Monsig. r Ill.mo e R.mo
MARCO AGAZZI Vescovo di CENEDA .. ., a. 1706. Coll. Biblioteca del Seminario
di Vittorio Veneto.
201
Le terre cli proprietà della Luminaria, condotte da coloni, ai quali veniva
offerta annualmenteuna "colazione" e che versavano l'affitto in vino e frumento,
in alcuni casi erano fornite cli abitazione, stalla ed annessi, diremo delle vere e
proprie fattorie, che abbisognavano di interventi cli ordinaria e di straordinaria
manutenzione. Dettagliate sono le spese relative a quanto occorso al ... coperto
della casa sopra le Terre in Pecol di detta Luminaria, consistenti :
- In paglia man .. (mani ?) n. 0 1200 a L. 4 il conto L. 48;
- In Sacchi L. 3 e soldi 1O;
-nella condotta della d.a paglia, ed un travo rimosso L. 3 e soldi 15;
- nella fattura di d. 0 coperto pagati a Pasqua[ Ceccol L. 13 e soldi 1O;
- alli Manovali L. 11<24>.
Con cadenza imprecisata, probabilmente quando sorgevano delle liti con
privati sui confini o sulle proprietà della Luminaria, oppure per imposizione dei
deputati della Magistratura veneziana, venivano rivisitati gli immobili da parte di
periti agrimensori (una sorta di geometri ante litteram), che provvedevano a
"perticare" (misurare)le terre, come successonell'esercizio 1775-76 (e non è il solo
caso osservato), quando fu pagato .. .il sig:r Francesco Casoni per aver fatto la
revisione del/i catastaci della Chiesa ... L. 10 e ulteriori L. 2 e soldi 10 ...per carta
d'instrumenti.
Altre spese, che si possono consideraredi ordinariaamministrazioneanche se
non appaionoregistrate in tutti gli esercizi, sono quelle che riguardanola cosiddetta
carità verso persone di altra religione e confessione cristiana che bussavano alla
porta della chiesa ottenendo carità, in cambio cli conversione. Numerose sono le
scritture per elemosini elargite ad ebrei e calvinisti<25>,addirittura a due turchi
(esercizio 1766-67, giurato Giacomo quondam Nicolò Zanette), concentrate in
particolarenegli anni sessantae settantadel :xvmsecolo;durante l' amministrazione di Domenico quondam Antonio Cancian nel 1765-66, furono ben nove i
calvinisti e quattro gli ebrei che bussarono alla porta della luminaria di Osigo!
Per un lungo periodo, dall'inizio degli anni quaranta e fino agli anni sessanta
del '700, benché non in via continuativa, si elargirono annualmente L. 16 per la
costruzione del nuovo duomo cli Ceneda, fermamentevoluta dal vescovo Lorenzo
Da Ponte (el. 1739,- t 1768),opera che, se da un lato ricostruì e ampliò la vetusta
24) ACF, Libro dei CONTI della VENERANDA LUMINARIA di S. GIORGIO ... , cit., giurato Paolo
quondam Matteo da Re, in carica nell'esercizio 1738-39.
25) Per la storia degli ebrei a Ceneda e a Serravalle (Vittorio Veneto), cfr. E. Tranchini, Gli ebrei a
Vittorio Veneto dal XV al XX secolo, Mogliano Veneto 1979, E. Tranchini e O. De Zorzi, I Monti di
Pietà di Serravalle e Cene da, Dosson 1988e G. Tornasi,Serravalle medioevale, Godegadi S. Urbano
2002. Il termine "calvinista" riportato sul registro della luminaria di Osigo, si riferisce ovviamente a
tutti coloro che erano acattolici, e non a quanti abbracciaronola riforma voluta da Giovanni Calvino
(1509-1564),che ebbe massima espansione, in Europa, nel XVII secolo.
202
cattedrale, inglobandola nel nuovo edificio, prima del definitivo abbattimento,
dall'altro distrusse il ricco patrimonio artistico (fregi, sculture, lapidi) ivi contenuto, risalente al medioevo.
Come tutti gli enti laico-ecclesiastici proprietari di immobili e quindi anche
le varie Scuole (ad esempio a Fregona esistevano le scuole dei Battuti, del Rosario
e del SS. Sacramento) del Dominio Veneto, anche la luminaria di Osigo era tenuta
a versare annualmente nelle casse della Serenissima la tassa del "campatico"<26l; la
riscossione era a carico della Cancelleria di Serravalle e veniva appaltata ad un
esattore che, nel periodo esaminato (1738-81), risulta essere dapprima Girolamo
Carpentario, poi la famiglia Villi di Serravalle (Virginio, Giambatta e Giorgio in
ordine cronologico), quindi Antonio Padelli e Giorgio Casoni.
Per finire la descrizione delle spese correnti di ogni esercizio vi è da ricordare
le annuali festività di S. Daniele e di S. Giorgio, alle quali presenziavano "in primis"
i pievani di Fregona, in virtù dell'atavico riconoscimento della preminenza della
"matrice" sulla chiesa di Osigo; all'uopo riporto la descrizione della spesa effettuata nell'esercizio 1738-39, quando era giurato Paolo quondam Matteo da Re: Per
contadi al R.do S.r D. Nicolò Salamon Economo della Pieve di Fregona per la
sagra della Chiesa di S. Daniel, et di questa L. 6; Similmente al R.mo S. r Arciprete
di d.a Pieve di Fregona R.mo S.r D. Giuseppe Busetti per la messa, et officiatura
di questa Chiesa il giorno di San Zorzi L. 4<21i.
Lo Spender straordinario:il Battistero e altri interventiedili nella chiesa
Impegno corale della piccola comunità di Osigo fu quello di ottenere dal
vescovo di Ceneda l'autorizzazione a fornire la cappella campestre di S. Giorgio di
un battistero, accelerando così quel progressivo svincolo dalla chiesa "matrice" di
S. Maria Assunta di Fregona, che avverrà poi il secolo successivo e, precisamente,
come ho già avuto modo di dire, nel 1865.
L'iniziativa trova fonti contabili già nell'esercizio 1738-39 del giurato Paolo
da Re, quando viene registrata tra le entrate di cassa la somma di ben L. 282 e soldi
26) Nel dominio di Terraferma il campatico era un'imposta diretta fondiaria e l'imponibile veniva
calcolato "sull'unità di misura del campo e della sua destinazione colturale, alla quale corrispondevano cifre diverse secondo la produttività della destinazione."; cfr. MG.Salvador (a cura di),Archivio
comunale di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto 1994, p. XVIII.
27) Don Nicolò Salamon, nato a Fregona il 18.9.1700, è cappellano ed economo, in attesa della
elezione ad arciprete di Fregona di don Giuseppe MariaBusetti (24.9.1738); cfr. O. De Zorzi, Pievani,
arcipreti, curati e cappellani della pieve di Fregona ... , in Aa. Vv ., "La Pieve di S. Maria di Fregona",
cit.
203
3 Cavati dalla racolta dell 'elemosine fatte ali 'A/tardi S. Ant. 0 in aiuto ali' errezione
della Cape/la del Sacro fonte dal/i Deputati à tal caritativo officio ....
A fronte di questa entrata si allibrano, nello stesso periodo, spese significative
per l'avvio dei lavori di costruzione dell'apposita cappella ove sistemare il
battistero.
Il cantiere è un fervore di attività e si contabilizzano una nutrita serie di costi
sostenuti per le formalità amministrative e il pagamento delle maestranze, di cui
riporto i principali:
-Per spesinell'ottenerilDecretodaMons.r Ili.mo, e R.mo Vescovo di Ceneda
d'eriger la Cape/la, e poner il sacrofonte in questa Chiesa, trà consigliar coll'Ill.mo Gajotti Fiscale, estender la supplica, presentarla a Sua Sig.a Ili.ma, e
R.ma, atti alla Cancelleria, essami, fedi ... in tutto come dalla polizza L. 31: I O;
- Per spesi nella Fabrica di d.a Cape Ila per il sacro Fonte ... In sabion, e
condotta del med.mo Carri ventidue L. 33;
-In Calcina misure vinti avute da moro d'Alcin L. 20;
- Condotta della med.a dalla Cape/la sino qui L. 4;
-per bagnarla L. 4;
-per altri mastelli dieci avuta bagnata da michiel Frare L. 10;
-per condurla da Sonego sino qui L. 2 e soldi IO;
- In Pietre di Costa pagate à m: 0 Zuanne Tomasin Tagliapietra, e lavorate,
giusto la stima L. 167;
- In sassi carri 30 condotti L. 15;
- Condotta delle sud.e pietre compreso la colazione L. 52;
-Per carri trè di Toffi (?) per il volto(?), et condotta L. 34;
- Per coppi pagati à m. 0 Tomaso Sartori n. 0 720 L. 36;
-per condotta da Serrava/le sino qui L. 8;
- Per spesi in tolle per I' armadure, e' Sesti (legni areati con i quali si armano
e si sostengono le volte e gli archi) pagati al d. 0 Sartori come dalla ricevuta L. 32;
- Per spesi in ferro per la ferriata della mezaluna arpesi a d.a cape/la, e
ferramenta di Bartoelle al sacrofonte, et sancta santor (sic) n. 56 L. 28;
- In Piombo, e Gesso L. I e soldi I O;
-In Tolle di nogara per la cupola, et attorniam.to al d. 0 sacro fonte L. 22 e
soldi 14;
- Per pagati à s. ° Fran.co de Faveri marangon per una fatt.a del/i sesti,
cupo/la del s. Fonte portelle e del s.a s.tor L. 47 e soldi 14;
-à Dom.co de Faveri tagliap.a per la Lapide, e piedestallo per sua fatt.ra
stimata L. 21;
- à Dom.co Zannette Favero per sue fatture come da ricevuta, et per le due
Serrat.re arpese, bartoelle L. 15;
204
- a Dom. ° Franc.co da Re Pitt.re per suo indrizzo, e sagome L. 13 e soldi 8;
- Per La fattura di muraro in d.a errezione di Capella, e stabilirla à bianco
pagati àLucio Piai, e suoi lavoranti da liquidarsi quello saràL. = et si noteràdoppo
li presenti conti (spesa che, si capisce, è destinata al prossimo esercizio);
I lavori proseguono alacremente negli anni successivi per dotare la chiesa di
tutto quanto era necessario per l'esercizio del sacramento del battesimo.
Così durante l'amministrazione del giurato Marco quondam Antonio de Conti
(esercizio 1739-40) si provvede all'acquisto di una Caldiera di rame ... per il
Battiste rio del costo di L. 21 e di una Cazza per il medesimo di L. 2. Ci si preoccupa,
inoltre, di comperare per L. 3 e soldi 4 un vaso di Banda per tor l'acqua Santa à
Fregona, e portar la nel batisterio di Usigo, di offrire cibaria et giornate à quelli
s'impiegarono per haver la licenza da Mon. Sig:r Ill.mo, et R.mo Vescovo per far
il Batiste rio, registrando una spesa di L. 1O, nonché di consegnare al Vicario del
Presule un agnello (L. 3) per la assistenza di haver la licenza del med.mo Batisterio
(anche all'ora bisognava "ungere"); una ulteriore spesa viene allibrata per la stima
del Batisterio à Giacomo De Marin Muraro, del costo di L. 3. Nell'esercizio 174041, giurato Zuanne quondam Luca Falsarella, avvengono ulteriori uscite di cassa
di L. 45 e soldi 9 per acquistare i Vasi per il battesimo, et farli sigilare alla
Cancellaria Episcopale di Ceneda e di L. 14 al pittore Francesco da Re per haver
fatto San Giovanni Batista, sopra il Batisterio d'ordine del Capitolo.
Un ulteriore passo avanti per giungere alla completa autonomia dalla pieve di
Fregona avviene nell'esercizio successivo 1741-42 del giurato Giambattista
quondam Paolo da Re, quando la Luminaria ottiene l'autorizzazione a conservare,
in perpetuo, il Sacramento nella chiesa di S. Giorgio. Anche per questa importante
incombenza le spese compresero la supplica da inoltrare al Vescovo, il relativo
decreto e, ovviamente, la Colatione alli giurati, e Consiglieri, che andarono a
ricever il decreto della med.ma suplica. Il giorno che il Sacramento fu collocato
nella pisside, custodita nel tabernacolo, si svolse una grande solennità religiosa, alla
quale concorsero l'arciprete di Fregona e altri religiosi, che costarono per disnar
alla Luminaria la somma di L. 14; fu acquistata inoltre della polvere da sparo per
L. 2 e soldi 2, per la componente profana della festa.
Nell'esercizio successivo (giurato Giambatta quondam GiammariaFurlan) si
provvede a far far il capitello sopra (la) B:a Vergine fuori della Chiesa, per lire 5
e soldi 10 (si deduce che all'esterno della chiesa vi fosse una statua, oppure un
affresco, rappresentante la Madonna), e nell'esercizio dopo (1743-44, giurato
Giovanni quondam Paolo de Luca) si spendono ben L. 116 e soldi 12 per far fare
il Confessionario da ms. Nicolò dalle Coste, et ms. Zorzi de Zorzi, come in Tolle
chiodi in tutto giusto la stima del Sig:r Fran.co Crestin (?).
205
Lo Spender straordinario: arredi artistici e dotazioni liturgiche
Nel XVIII secolo, la chiesa campestre di S. Giorgio di Osigo aveva all'interno
quattro altari:
-l'altare maggiore dedicato a S. Giorgio martire, sormontato (come anche
oggi) dalla stupenda pala dipinta su tavola, nel 1529 da Francesco da Milano (doc.
1502 - t dopo il 1552), raffigurante il patrono S. Giorgio, S. Daniele profeta, S.
Biagio e il devoto committente, il rettore pre Giorgio Locatello. La festa ricorre,
come ho già detto, il 23 aprile e l'altare era mantenuto a spese della Luminaria;
-l'altare dedicato a S. Antonio confessore, festa il 13 giugno, mantenuto da
28l;
entrate à livello lasciate da suoi Divoti<
- l'altare dedicato a S. Sebastiano martire, festa il 20 gennaio, provveduto
dalla Luminaria;
-l'altare dedicato alla B.V. Maria, a carico sempre della Luminaria, col
dipinto raffigurante la Madonna del Rosario col Bambino in trono, tra i Santi Pietro
e Paolo, opera di Giuseppe Moretto (Portogruaro 1547?- t S. Vito al Tagliamento
9).
1628)<2
C'erano poi tutti gli arredi sacri, di cui ho già dato un inventario, descritto alla
resa dei conti del giurato Giacomo Badon, in carica dal 1737 al 1738. Ovviamente
la dotazione della chiesa comprendeva anche i vari messali, suppellettili minori etc.
che venivano restaurati, oppure comperati ex novo all'occorrenza.
L'esame del registro della Luminaria evidenzia le periodiche spese sostenute
per il rinnovo, l'ammodernamento e l'incremento di tutti questi apparati artistici e
liturgici.
Così, riportando le più significative, ho rilevato che il pittore locale Francesco
da Re<30l fu chiamato a prestare più volte la sua opera nella chiesa di S. Giorgio a
Osigo.
28) ADVV, busta Fregona 71 A, relazione dell'arciprete di Fregona don Giuseppe Maria Busetti, per
la visita pastorale del vescovo Lorenzo da Ponte, s.d., ma a.1741.
29) La pala era stata tolta, negli anni cinquanta del '900, dall'altare della chiesa (quella ingrandita nei
primi decenni del XX secolo) perché in cattive condizioni e depositata in canonica. Il restauro è
avvenuto nel 1990 a spese della Banca Prealpi di Tarzo, ed ora si ammira nuovamente all'interno del
sacro edificio, nella navata di sinistra, cfr. G. Mies, Fregona. Aspetti e immagini della Pedemontana
del Consiglio, in Aa. Vv., "Fregona", Pordenone 1984 cit., e G. Mies, La Banca Prealpi per l'arte,
Susegana 2000.
30) Il pittore Francesco da Re è praticamente sconosciuto alla storiografia artistica; a conoscenza di
chi scrive, di lui si è occupato fino ad ora G. Mies, presentando un ciclo di affreschi esistenti nel
Santuario di S. Francesco da Paola a Revine, cfr. G. Mies, La Banca Prealpi per l'arte, cit., oltre ad
altri accenni alla sua attività descritti in alcune edizioni di storia locale.
206
Durante l'amministrazione del giurato Paolo quondam Matteo da Re (173839) aveva avuto l'incarico di dipingere le dodici croci per la consacrazione della
chiesa, incassando L. 24 e, oltre al summenzionato intervento per il battistero, nell'
esercizio 1740-41, eseguì cinque Arme (stemmi) de Monsig:r Ill.mo, et R.mo
Vescovo di Ceneda (Lorenzo da Ponte) per L. 7 e (il figlio?) Jseppo da Rè pitore
si incaricò di dipingere il cereo pasquale che annualmente veniva acquistato, per la
somma di L. 1 (es. 1745-46, giurato Antonio quondam Domenico Cancian). Questi,
durante l'amministrazione del giurato Cesare quondam Giambatta da Re (174748), riceve l'incarico di depingere l'Annaro in Chiesd 31l, e gli vengono versate L.
11 e soldi 9(32l.
Seguono, negli anni, altri interventi da parte di un non meglio identificato
pittore, come nell'amministrazione del giurato Angelo quondam Giovanni Uliana
(1752-53) ove sono Spesi nel pitore per saldo del Penello L. 58 e soldi 12, e per
stimarlo L. 9; potrebbe trattarsi dello stendardo con l'immagine di S. Giorgio,
oggetto di intervento due anni dopo (es. 1754-55, giurato Giambatta quondam
Paolo Uliana), quando sono versati in contanti al Sig.r Pitor per commodar il
Penello di S. Giorgio L. 8. Presumo sia sempre l'artista Giuseppe da Re, poiché il
suo nome riappare nell'amministrazione successiva, quando viene, ancora una
volta, chiamato per miniar il Cirio, per L. 2, mentre nella maggior parte delle
annuali ricorrenze pasquali, la miniatura del cereo viene registrata senza le
generalità del pittore.
Suscita veramente sorpresa la presenza di un altro artista dal cognome da Re,
quando il giurato Matteo quondam Giuseppe V arnier (es. 1761-62) spende per far
commodar ilpenello di S. Giorgio dal Sig. r Ant: 0 daRè pitore d'ordine del Capitolo
L. 20, (I' asta sarà poi indorata e colorita da Marco de Conti per totali L. 22, esercizio
1764-65, giurato Cesare da Re). Pare che ci troviamo di fronte ad una dinastia di
artisti locali: Antonio, Francesco e Giuseppe da Re, la cui attività, benché prodotta
in ambito locale e periferico, sia ancora tutta da scoprire.
Solo molto più tardi, durante l'amministrazione del giurato Misiero Cesare da
Re, in carica dal 23 aprile 1779 alla stessa data dell'anno dopo, si registrano uscite
di cassa straordinarie per il rifacimento degli stendardi; sensibile il costo dei due
arredi artistici, considerato che furono spesi al S: Arciprete di fregona per
damasco<33l per far due penelli L. 182 e a Gio Batta Colli per far l 'imagini e cucir
li penelli L. 136.
31) Era stato realizzato durante l'esercizio 1745-46 del giurato Antonio quondam Domenico Cancian:
Spesiinfare unArmaro di pezzo (abete) in Chiesa, trà, Tolte, Chiodi.fattura di MarangonL. I 4 e soldi
11.
32) In effetti la registrazione è: ... dal Pitorda Rè ... , ma credo non ci siano dubbi sul fatto che si tratti
di Giuseppe da Re.
33) Damasco, termine veneto che sta a significare una sorta di drappo di seta a fiori, di colore
rubicondo, cfr. G. Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, cit.
207
Altri artisti più volte chiamati ad abbellire la chiesa di Osigo furono i
conterranei Francesco e Marco de Conti indoradori<34>,dalle cui mani uscirono
preziose dorature ed argentature. Scorrendo le pagine del registro manoscritto della
Luminaria, ci si accorge di quante volte, nell'arco di oltre trent'anni, i de Conti
facessero valere la loro maestria.
Francesco fu chiamato, durante l'amministrazione del giurato Antonio
quondam Domenico Cancian (es. 1745-46) a ... indorar li ferralli (le lampade
processionali) per L. 65 e soldi 10 e nell'esercizio 1750-51 (giurato Giovanni
quondam Paolo da Luca) per dorare la soazza delle reliquie di S. Giorgio per L. 8,
cornice che era costata L. 1 e soldi 15. In quella amministrazione ci fu un particolare
intervento in denaro da parte della Luminaria per far aprovar, dal vescovo di
Ceneda Lorenzo da Ponte, la reliquia di S. Giorgio, spendendo L. 8 e soldi 4, per
la realizzazione della custodia L. 25, per indorarla da parte di Francesco de Conti
L. 28, per soazare il quadretto dell'indulgenza di S. Giorgio L. 1 e soldi 15, nonché
indorarlo dal nostro L. 8.
A Marco ho già accennato poc'anzi per la doratura e il colore dell'asta del
penello di S. Giorgio, ma la sua valentia, che lo portò anche ad assumere la carica
di giurato della Luminaria nell'esercizio 1739-40, a meno che non si tratti di
omonimia, fu opportunamente richiesta in altre occasioni.
Durante l'amministrazione di Cesare da Re (1764-65), quando si provvede a
rifare il soffitto sopra l'altare della chiesetta di S. Daniele ( le tavole e i quattro
murali furono acquistate da Gregorio Antoniazzi di Ceneda per L. 17 e soldi 5 e il
lavoro fu affidato al marangon Tician de Faveri per L. 15 e soldi 15), Marco de
Conti è incaricato di colorire il sofito per L. 7, dopo che la Luminaria aveva speso
L. 3 e soldi 1Onell'acquisto del prodotto; nell'esercizio successivo si ricorre ancora
alla sua maestria per far accomodar la Palla del'Altare della Madona con una
uscita di cassa di L. 1. Quindi, nel 1767-68 (giurato Matteo quondam Nicolò
V arnier), il nostro incassaL. 1 e soldi 10per aver rifrescato liAnzoleti avanti l' altar
di S: Giorgio e dipinge ed indora la nuova asta del Penello del Santo per L. 22,
eseguita da Zorzi de Zorzi per L. 8. Nello stesso esercizio la Luminaria si incarica
di rifare le finestre e la porta della cucina della canonica, ed è sempre Marco de
Conti ad essere chiamato per aver collo rito de d:e finestre per L. 9 e soldi 10, con
oglio di lin, e colori ... costati L. 10 e soldi 11. Altra spesa rilevante durante la
predetta amministrazione, è quella di rifare la ombrella per la chiesa (il baldacchi-
34) I de Conti da Osigo di Fregona furono presenti sulla scena artistica del Veneto orientale e del Friuli
occidentale, almeno dalla fine del XVI secolo, alla seconda metà del XVIII secolo, collaborando, per
la loro maestria, nell'indorare altari e arredi liturgici, con i più grandi intagliatori del tempo, quali, ad
esempio: i Comuzzi di Gemona e i Ghirlanduzzi di Ceneda; cfr. O. De Zorzi, Alcune note biografiche
e documentarie sui Ghirlanduzzi, mastri intagliatori di Ceneda, in corso di stampa.
208
no, oppure l'ombrello che si adoperava per portare il viatico agli infermi), per la
quale si comperano 6 braci, e mezo di drapo di seda con suo recamo d'oro, pagato
L. 58 e soldi 10 e 4 braci, e mezo di giurin (?) per fodrar la d:a ombrela per L. 8
e soldi 10, oltre ad altre spese per cordella d'oro ... , cordocin, e seda ... efatura di
sartor ... ; Marco de Conti viene pagato, inoltre, L. 1 e soldi 1Oper indorar il calice
incima la ombrella ....
Sono anni buoni per il nostro artista.L'esercizio dopo 1768-69, governato dal
giurato Giovanni Cancian, lo vede ancora protagonista nell'accomodar il Angelo
incima il Tabernacolo per soldi 10, e la stessa somma gli viene elargita per
accomodare il Baston della Croce picola. Nell'amministrazione successiva (giurato Ignazio quondam Angelo Uliana) viene pagato con L. 5 per aver fatto le Arme
di Bonsig :r Vescovo e, in quella dopo ( 1770-71 ), il giurato Giovanni quondam Luca
Falsarella gli versa L. 17 per aver colorito l' anti petto (dell'altare) di S: Bastian,
e colorito sopra il coro a sue spese. E, infine, per l'ultima volta, si ricorre ancora
a lui nell'esercizio 1778-79 (giurato Paolo quondam Giambattista Uliana) per
dipingere nuovamente lo stemma del vescovo di Ceneda, a L. 3 e soldi 10, anche
se, in precedenza, durante il governo dei giurati Lisandro da Re e Antonio de Marchi
(es. 1774-75), gli viene preferito, per lo stesso incarico Michele de Conti che
incassa L. 6 e soldi 13 e mezzo.
Anche le dotazioni liturgiche, strettamente legate alle funzioni religiose, si
rinnovavano periodicamente.
Ad esempio i messali ("da vivo e da morto"), perché mal ridotti per l'uso
continuo o a seguito di nuove disposizioni canoniche, venivano sostituiti e
acquistati a Venezia, ove si trovavano anche le migliori botteghe di orefici, in cui
Luminarie e Confraternite di Terraferma comperavano, solitamente, l'argenteria
sacra.
Così, a mo' d'esempio, durante l'esercizio 1741-42, viene acquistata una
croce d'argento da porre davanti al Tabernacolo (stranamente non è registrato il
costo); durante l'amministrazione 1752-53 si spendono L. 207 per l'Argento
vecchio nella Croce della Madonna (la stessa somma viene registrata tra le entrate,
come già evidenziato tra il Cavar), L. 154 in Argento per far la Croce (nuova) e,
ancora, L. 175 per la realizzazione. L'orefice Nicoletto ... in Serravalle incassa
nell'esercizio 1754-55 L. 37 e soldi 4 per commodare la Croce di San Giorgio,
mentre, successivamente (es. 1765-66) si rimborsa l'arciprete di Fregona di quanto
speso per aver fato indorare la piside del Tabernacolo, e quelle del oglio Santo per
L. 29 e soldi 10. E, infine, il giurato Domenico Cancian spende nella sua
amministrazione 1780-81 L. 78 per far agiustar le crozi d'argento.
In precedenza, il giurato Ignazio quondam Angelo Uliana (1769-70) aveva
acquistato un crocefisso, pagandolo L. 72, oltre a L. 12 e soldi 12, rifusi allo stesso
per andar a ordinar che lifacia il crocefisso, ed andarlo a tior, e altre uscite minori
per realizzare il piedistallo in pietra etc.
209
Lo Spender straordinario: curiosità
Altre uscite di cassa, di carattere straordinario, meritano a mio avviso, di
essere riportate a corredo di questo saggio, poiché costituiscono, in qualche modo,
completamento dell'argomento trattato.
E' il caso della lite giudiziaria tra la Luminaria e i consorti Frare da Sonego,
possessori di alcune terre a Pradec e nelle Val (località dell'attuale colmello Piai
di Fregona), sulle quali la prima vantava diritti di percepire metà del vino e della
grappa distillata dalle vinacce, prodotti su detti fondi. La causa, iniziata l' 8 ottobre
1737, venne discussa nel Foro di Serrava/le, con l'assistenza, per la Luminaria,
dell'avvocato Giovanni Gaiotti, ed ebbe sentenza favorevole del Podestà il 18
aprile dell'anno dopo, ma costò alla Luminaria la somma di L. 91 e soldi 8, oltre
ad altre spese minori che non ritengo riportare.
Nell'esercizio 1743-44, si concorre con la modica spesa di L. 1, alla convenzione stipulata tra l'arciprete di Fregona e la nobile famiglia Altan, per trasferire la
chiesetta di S. Giusto (fig.4) da Col de Vigna dove era anticamente stata (se ne
deduce che era in pessimo stato se non addirittura diruta) al cortile della casa
padronale di detta famiglia, in località Nastegd 35l.
Il 10 agosto 1746 si registra l'uscita di cassa di L. 3 per carità a/li consorti
Zanne/la per la morte de/li loro figlioli, che si annegarono nella Lama (deposito
d'acqua, chiamato nelle carte anche "Lama dei Negài") delle Code del Canseio.
E, infine, nell'esercizio 1760-61 (giurato Antonio quondam Giambattista da
Re) si decide di sborsare al povero Zuanne de Conti figlio di Ant: 0 era in prigione
à Belluno .. .L. 24, scelta apparentemente atipica per un ente come la Luminaria, i
cui scopi si sono sempre attuati all'interno della circoscritta realtà locale; al di là
della patetica registrazione si evidenzia il fine pauperistico di questa Istituzione,
che assiste finanziariamente il de Conti dove, coattivamente, si trovava.
35) La chiesetta di S. Giusto, forse cappella del castello di Caron (od. Torre Matrucco) (fig. 5), ha
origini antichissime, ed è documentata già nel 1185, quando Papa Lucio III, il 18 ottobre di quell'anno,
emana una bolla da Verona, nella quale conferma tra i beni del vescovo di Belluno, Gerardo de Taccoli,
la Curtem de Fregona, cum castro de Carone; cum capella S. ]usti: et capellam S. Martinj cum
dominio et pertinentiis eurundem; cfr. V. A. Doglioni (a cura di), La foresta del Cansiglio nella Conca
dell'Alpago, Belluno 1957.
La descrizione della spesa trascritta dal registro della luminaria di Osigo permette finalmente di
individuare con precisione il sito ove era stata costruita la primitiva chiesetta, prima della riedificazione
in località Fratte (olim Nastego) avvenuta nel 1743, ad opera dei nobili fratelli Luigi e Matteo Altan
Pancetta, sul terreno di proprietà, antistante la loro villa padronale, come attestato dalla lapide murata
sulla facciata del sacro edificio. Tale luogo era stato finora generalizzato "Prato di S. Giusto" nei pressi
delle rovine del castello di Caron; invece il sito si chiamava "Col de Vigna".
210
(fig.4 ), particolare di una mappa, eseguita il 22 giungo 1697 (?) dal notaio
e perito agrimensore Carlo Piai , raffigurante l' antica chiesetta di S. Giusto, prima della riedificazione, nel
1743, nelle adiacenze della villa
padronale della nobile famiglia Altan
Pancetta. Coll. Archivio di Stato di
Treviso , Mappe antiche , cit.
211
(fig.5 ), resti (mastio) del castello di Carron . Particolare della mappa di cui alla fig.4.
Vigilanza della Serenissima sul buon governo della Luminaria
Normalmente con cadenza quinquennale , i Rettori Veneti, ai quali erano
demandati i compiti di vigilanza sugli Istituti Pii del Dominio di Terraferma
(Luminarie e Confraternite), effettuavano verifiche sulle regolarità delle scritture
contabili e, in generale, sulla gestione finanziaria di questi enti . A ciò, ovviamente,
non si sottrasse la luminaria di Osigo che, fu sollecitata in più occasioni, ad una
maggiore rigorosità nella tenuta dei propri registri contabili e ad eliminare arbitrarie
decisioni effettuate da alcuni giurati in carica, contravvenenti alle leggi stabilite per
il buon governo di queste pie istituzioni.
L'ispezione effettuata nel 1756 produsse un verbale sottoscritto dal podestà
e capitano di Treviso nel quale si ordinò in particolare:
- l'acquisto di un registro in cui i notai dovevano allibrare tutte le ricevute di
spese effettuate;
- l'obbligo dell'acquisizione di una ricevuta per ogni uscita di cassa , vietando
di abbonare quelle partite contabili che mancassero di tali pezze giustificative (se
ne deduce che "si faceva un su e su"), pena ai notai di pagare del proprio;
-1' acquisto di un registro sul quale elencare le generalità degli Affittuali, e
212
Livellari contraponendo il scosso ... ;
- l'inibizione di effettuare qualsiasi spesa eccedente la somma di sei ducati,
tranne per l'acquisto di cere, olio e legati, se non previa autorizzazione del Podestà,
secondo le leggi vigenti.
.
Cinque anni dopo il 2 agosto 1761, le ire del podestà di Serravalle, Francesco
Corner, si scatenarono nei confronti del notaio fregonese Giovanni Antonio Piai<36l,
estensore delle scritture contabili e di ogni altra registrazione concernente la
gestione amministrativa della luminaria di Osigo quando, alla verifica del rendiconto d'esercizio 1760-61 del giurato Antonio quondam Giambattista da Re, fece
compilare dalla Cancelleria podestarile un verbale, in cui inibiva "al pubblico
ufficiale", considerato ... incapace ... e che ... continua in sprezzo (alle Autorità) ad
esercitare il d.to Carico ... , di redigere qualsiasi scrittura della pia istituzione
osighese, pena la multa di L. 50 ai giurati di turno.
Sta di fatto che il notaio Giovanni Antonio Piai approntò ancora il bilancio
d'esercizio 1761-62, giurato Matteo quondam Giuseppe V arnier, lasciando poi
l'estensione dell'atto di passaggio di consegne al nuovo giurato Francesco di
Giovanni Cancian, al figlio Michele Costantino Piai, che proseguì l'attività'
notarile del padre.
Leggendo il verbale redatto dalla Cancelleria di Serravalle, e il rendiconto
dell'esercizio 1760-61, nei quali si rileva una perdita d'esercizio di L. 233 e soldi
6 e mezzo (entrate L. 1138 e soldi 11 e mezzo, uscite L. 1371 e soldi 18), emerge
il motivo oggettivo che determinò tale grave decisione da parte dell'autorità
podestarile. Fu chiaramente esposto nel documento trascritto nel registro della
Luminaria, che al passaggio di consegne al nuovo giurato si contabilizzarono sette
Botte di vino (consegnate al nuovo Giurato) ... , che viene à raccoglier egli doppio
vino, e pregiudicarsifacilmente detta Luminaria per colpa del confuso, e supperato
Registro del Nod.ro Gio:Antonio Piai ... ; in sostanza fu coperta una perdita
36) Il notaio Giovanni Antonio Piai, nacque nell'omonimo colmello Piai di Fregona il 9.1.1689 e morì
a Anzano di Cappella Maggiore il 30.3.1766. Si sposò a Cappella (Maggiore) il 20.2.1716 con Pasqua
del quondam Marin de Marin, che morì il 7.6.1774 ad Anzano. Ebbero cinque figli; qui ricordo
Michele Costantino, nato a Fregona il 29.7.1726, che si sposò con Anna di Antonio Rossi da Fratta
di Tarzo, il quale proseguì l'attività notarile del padre. Giovanni Antonio aveva un cugino di nome
Carlo Piai, nato anch'egli nel!' omonimo colmello il 23.12.1670; questi allibrò le scritture contabili sul
registro della luminaria di Osigo fino al 1739; dall'anno successivo, gli succedette il cugino Giovanni
Antonio Piai. All'Archivio di Stato di Treviso, nella sezione notarile I serie, si trovano parecchie buste
contenenti atti rogati da tutti e tre i notai, molto interessanti per la storia del territorio di Fregona (e
non solo), dei secc. XVII-XVIII.
Il cognome Piai è documentato a Fregona già dal sec. XIV; cfr. O. De Zorzi, Compendio genealogico
sulla famiglia De Zorzi ... , cit.
213
d'esercizio non giustificata, passando al nuovo amministratore esattamente il
doppio del vino in giacenza nella cantina della Luminaria (non è il caso di stupirsi
più di tanto: succede anche ai nostri giorni con imbrogli molto più pesanti, anche
se, recentissimamente, il "falso in bilancio" come reato è stato derubricato).
L'anno dopo, il 30 giugno 1762, il podestà di Serravalle Giacomo Corner,
dopo la verifica quinquennale della contabilità, ammonisce ancora la luminaria di
Osigo sul disordine amministrativo e decreta nuovamente di acquistare un registro
dove iscrivere tutte le ricevute niuna eccettuata di quanto verà speso... non
dovendosi in avenire, ne Cap.lo de XII:, ne da chi havesse a suo tempo la Revisione
essere codificata veruna spesa che non costasse da ricevuta ....
Si tratta, insomma, della solita "routine", alla quale doveva, in qualche modo
assolvere 1'autorità preposta; in sostanza più che altro un obbligo formale determinato dalla carica vigente, che poco poteva contro le oligarchie che detenevano,
quasi ereditariamente, come ho già accennato, l'amministrazione di queste istituzioni. E affermo ciò in quanto altri registri di contermini realtà locali del serravallese
e del cenedese, ove esistevano Luminarie e Confraternite, contengono analoghi
decreti podestarili, tanto a significare che il problema era generalizzato.
Ancora, il podestà di Serra valle Domenico Balbi, 1' 11 giugno 1765, stabilisce,
in osservanza a quanto ordinato dal Magistrato degli Scansadori (ducale del Senato
Veneto 21 agosto 1760)<37l, che gli utili d'esercizio della luminaria di Osigo, (come
di tutti i pii Istituti e le Confraternite del Dominio di Terraferma) assommanti a
ducati 100 e oltre, debbano essere depositati presso il Monte di Pietà di Serra valle,
a beneficio dei poveri indigenti.
1115 settembre 1766, il podestà Girolamo Contarini, sottoscrive sul registro
le nuove regole, redatte a cura della Cancelleria, emanate dalla Magistratura
Veneta, in tema di pie Istituzioni; si tratta di quattordici capitoli nei quali vengono
rafforzate le norme e le tutele atte ad amministrare con maggior diligenza detti Enti.
Altrettanto avviene il 20 agosto 1770, sotto la podesteria di Giovanni Contarini,
quando si evidenzia, ancora in generale, ma con riferimento specifico alla luminaria
37) Gli Scansadori alle spese superflue furono istituiti nel 1576 dal Governo Veneto per la riduzione
delle cariche pubbliche ed il controllo della gestione dei dazi. Successivamente subentrarono anche
come giudici delegati in cause civili veneziane e di Terraferma e, dal 1754, vigilarono sui Monti di
Pietà, sostituendosi ai Revisori e Regolatori delle entrate pubbliche in zecca; cfr. M. Dal Borgo e A.
Sambo, L'Archivio di Stato di Venezia, pp.134-35, in D. Gasparini e L. Puttin (a cura di), "Per una
storia del Trevigiano in età moderna: guida agli archivi", Treviso 1985; inoltre, E. Tranchini e O. De
Zorzi, I Monti di Pietà di Serravalle e Ceneda, cit.
214
di Osigo e al "custode" (della gestione) delle offerte all'altare di S. Antonio della
chiesa, atti amministrative difformi alla normativa vigente; e anche questa volta
sono enumerati ed elencati tredici articoli (o capitoli) per migliorare la conduzione
di queste istituzioni laico-religiose.
Ma la cosiddetta "ciliegina sulla torta" avviene il 27 settembre 1772, quando
il revisore Francesco Pontini, incaricato dal podestà e capitano di Treviso Antonio
Lorenzo Soranzo di ispezionare l'amministrazione della luminaria di Osigo dal
1756 al 1772, redige un verbale nel quale vengono a galla tutte le manchevolezze
degli amministratori.
Il verbale è preciso, una lama appuntita e tagliente che affonda decisamente
nel malgoverno dei giurati e dei consiglieri.
Circostanziate risultano le varie evidenze emerse e descritte dall'ispezione dei
libri contabili, delle quali riporto le più significative:
- i giurati in carica, dal 1756 sino al 1766 percepivano un onorario annuale di
L. 31; non sò poi con qual autorità, ofacoltà dal 1766, sin 1770 a L. 40:-edal1770,
sin al presente a L. 48 ... ;
- furono disattese le norme precedentemente impartite relative alla contabilità
del "dare" e "dell'avere" di tutti i "livellari" e "affittuali", e quella di non effettuare
spese straordinarie eccedenti i sei ducati, se non previa autorizzazione superiore;
- nell'esercizio 1765-66 il giurato Domenico quondam Antonio Cancian
concesse per la Luminaria in prestito a Francesco Cancian, figlio di Giovanni,
"meriga" (sindaco) di Osigo (è ovvio, anche senza una ricerca genealogica, pensare
che fossero parenti), la bella somma di L. 200, operazione indebita, e anche non
registrata durante il suo mandato;
Ovviamente, perentorii furono gli ordini impartiti dal podestà Soranzo, per
sanare gli abusi riscontrati (e qui faccio riferimento ai principali suesposti):
- ripristinare l'emolumento al giurato nella misura di L. 31 annuali;
- approntare, nel termine di un mese, su di un registro l'elenco dei "livellari"
e "affittuali", con la dichiarazione del relativo debito annuo nei confronti della
Luminaria, pena la multa di venticinque ducati da pagarsi a cura del giurato in
carica;
- Domenico Cancian risarcirà di tasca sua la Luminaria delle L. 200 prestate
a Francesco Cancian, salvo dimostrare le proprie ragioni oggettive nel termine di
30 giorni, nel qual caso l'impegno ricadrà sul Pio Istituto, che a sua volta si rivarrà
sul debitore.
Un 'ultima ispezione, rilevata sul registro della luminaria di Osigo, fu effettuata dal revisore Francesco Pontini, che stese la relazione l' 8 giugno 1776. In base a
quanto emerso, il podestà e capitano di Treviso Giovanni Moro, il 1O luglio
215
successivo, emanò un documento composto di sette punti ove, in particolare, si
ordinava ai giurati già in carica: Giovanni Falsarella, Alessandro da Re e Antonio
de Conti di saldare i propri debiti verso la Luminaria, oltre ad altre norme
amministrative di carattere minore.
Era, in generale e a mio avviso, il "canto del cigno" delle Magistrature
veneziane preposte alla sorveglianza di questi enti e, in generale, della pubblica
amministrazione, oramai impotenti ad un severo controllo delle istituzioni.
L'apatico disinteresse della nomenclatura veneziana, in particolare dell'aristocrazia (che deteneva sotto forma di oligarchia il potere) verso le innovazioni
portate dal cosiddetto "secolo dei lumi", la crisi mercantile e industriale oramai
prossima a collassare l'economia, l'inefficienza degli organismi vigilanti, il
dualismo mai del tutto sopito tra Dominante e nobiltà di Terraferma, e quant'altro
ancora, tutto ciò portava uno stato, quale era la Repubblica di S. Marco verso la fine
del XVIII secolo, a implodere al suo interno, quasi complice e spettatrice pressoché
indifferente della sua imminente fine, decretata il 12 maggio 1797, nell'ultima
seduta e abdicazione del Maggior Consiglio seguita, tre giorni dopo, dall'entrata in
città delle truppe di Napoleone Bonaparte.
Ma questa è un'altra storia.
Ringraziamenti
La documentazione di questo saggio è stata favorita, in larga misura, dalla gentilezza e dalla
disponibilità del sindaco di Fregona, dott. Patrizio Chies e del personale della Segreteria, in
panico/are della sig.ra Costantina Gava, che ringrazio sentitamente.
L'autorizzazione alla consultazione dei documenti mi è stata concessa dal Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Sovrintendenza Archivistica per il Veneto, datata Venezia 29.4.1999, prot. I 063/
VJJl.3.
216
Massimo Gusso
I PROCESSI ALLE VESTALI
ACCUSATE DI VIOLAZIONI DEI LORO DOVERI SACRALI
1. Il culto di Vesta
Di Vesta, divinità femminile, assai venerata nell'antica Roma, si hanno
pochissime rappresentazioni: si trattava infatti di una divinità essenzialmente
'aniconica', priva cioè di un suo aspetto caratteristico, e di attributi esteriori
specifici e riconoscibiiiO>.
Essa si trovava piuttosto rappresentata nel fuoco che bruciava nel focolare, e,
probabilmente, nello stesso fuoco-per così dire - essa 'risiedeva'< 2>.
Il nome stesso di questa dea rimanda alle sue origini greche<3>e una dea Hestfa
esistette effettivamente nel pantheon greco: ma Vesta resta una delle divinità più
autenticamente indigene tra quelle romane, e la sua introduzione è remotissima,
come indicano tanto le particolarità del suo culto, semplici ed essenziali, quanto
proprio la già rilevata carenza di rappresentazione.
L'antichissima Roma cresciuta sul colle Palatino si sviluppò attorno ad un
focolare comune: proprio la natura pubblica · del fuoco di Vesta, distingue
definitivamente questa divinità dalla sua omologa greca<4>: il sacrario di Vesta,
1) Ovidio (Fasti VI 295-ss.) dice di aver creduto all'esistenza di statue di Vesta (Vestae simulacra),
ma di aver poi capito che effigiem nullam Vesta nec ignis habet (e cioè che 'né Vesta, né il fuoco,
possono essere effigiati'). Schematiche immagini della dea appariranno in alcune emissioni monetarie
della tarda repubblica (I sec. a.C.).
2) Cfr. Firmico Materno de err. 14, 3: Vesta ignis est domesticus, qui infocis cotidianis usibus servit
('Vesta è il fuoco di casa, che serve per gli usi di ogni giorno').
3) Cfr. ad es. Cicerone nat. deor. II 67: Vestae nomen a Graecis est.
4) Restia sarà infatti soprattutto una divinità del focolare privato.
217
eretto con un'inedita forma rotonda, non fu mai neppure tecnicamente un tempio<5 >,
ma piuttosto l'edificio dove era custodito il pubblico focolare. Sulla forma rotonda
della aedes Vestae si è scritto molto e le problematiche aperte proprio intorno alla
forma sono assai complesse, ma non è certo questa la sede per affrontarle.
La forma rotonda avrebbe dovuto ricordare le capanne dei più antichi abitatori
della zona; si è detto anche che, a differenza dei templi a forma quadrangolare, si
trattava di un edificio che non aveva bisogno di 'essere orientato'; la sua rotondità
avrebbe rammentato la rotondità della terra, o la circolarità dello sguardo lungo
tutto l' orizzonte<6>•
Quando l'uso delle immagini delle divinità si fece sempre più frequente, e le
statue andarono ad ornare i diversi templi, il sacrario di Vesta ne rimase sempre
escluso, e non fu nemmeno mai accessibile ai profani, probabilmente perché si
riteneva che al suo interno ci fosse la stessa divinità, viva e presente.
Soltanto le Vestali ed il pontefice massimo potevano metter piede nella aedes
di Vesta; mentre nel penetrale più interno (il penus Vestae) avevano accesso le sole
Vestali: gli individui di sesso maschile vi erano tassativamente esclusi<7>.
La aedes sorgeva alle pendici settentrionali del Palatino, dal lato che scendeva
sul Foro: era collegato alla Regia, residenza del pontifex maximus per mezzo di un
vasto cortile (atrium Vestae) sul quale si aprivano gli appartamenti delle Vestali che
sono emersi durante scavi compiuti nel Foro Romano tra il 1883 e il 1906<8>•
Si tratta - per quel che noi oggi possiamo vedere - dei resti delle costruzioni
e dei rifacimenti degli edifici di età imperiale (Il-III secolo d.C.), che hanno
restituito anche materiale lapideo e frammenti di statue con i quali si sono potuti
ricavare esempi di iconografia delle sacerdotesse Vestali e conoscere i nomi di una
mezza dozzina di Vestali del III-inizi IV secolo d.C.
5) Cfr. Aulo Gellio Noctes Att. 14, 7, 7 acne aedem quidem Vestae templum esse; Servi o ad Aen. VII,
153: Templum Vestae nonfuit augurio consecratum, ne illuc conveniret senatus ubi erant virgines;
nam haec fuerat Regia Numae Pompi/ii: ad atrium autem Vestae conveniebat quod a templo remotum
fuerat.
6) Cfr. Sabbatucci, La Religione di Roma antica, pp. 204 ss. Importante comunque considerare che
il focolare rotondo di Vesta stava al centro stesso della città e indicava il radicamento della comunità
sul suolo romano oltre a conferire l'identità indispensabile a dar vita ad atti di culto (cfr. J. Scheid,
La Religione romana, p. 77).
7) Era riservata la cecità al maschio che, anche inavvertitamente, vi fosse penetrato, come sarebbe
accaduto a Cecilio Metello entratovi allo scopo di porre in salvo gli oggetti sacri minacciati da un
incendio. L'imperatore Eliogabalo - secondo una tradizione d'epoca tardo imperiale - avrebbe
compiuto una sacrilega irruzione nel penetrale di Vesta (cfr. Scriprores Historiae Augustae, Hel. 6,
7: et in penum Vestae, quod solae virgines solique pontifices adeunt, inrupit)
8) Cfr. F. Coarelli, Guida Archeologica di Roma, Mondadori, Milano 1974, pp. 89-92. Cfr. L.
Richardson jr., A New Topographical Dictionary of Ancient Rome, The John Hopkins University
Press, Baltimore-London 1992, pp. 42-44 (Atrium Vestae) e pp. 412-413 (Vesta, Aedes).
218
Se Vesta era assai venerata, tuttavia non aveva molti onori pubblici: sua unica
festa il 9 del mese di giugno<9l , e non a caso tale ricorrenza era particolarmente cara
ai pistores (i fornai) che del fuoco erano tra i più quotidiani e fedeli utilizzatori; e
di forni e fornai Vesta era la patrona.
Un primitivo sacrario a lei dedicato risulterebbe databile già al VIII-VII secolo
a.C., il che confermerebbe l'arcaica origine del culto di Vesta: il sacrario esistente
in età storica era quello ricostruito dopo l'incendio del 241 a.C., e che sarebbe
scampato al successivo incendio del 210 a.C.
Ma antichità ed essenzialità della venerazione di un elemento come il fuoco
facevano della dea Vesta l'intestataria di credenze 'superstiziose' assai forti
nell'anima popolare: vere e proprie paure ancestrali si legavano al suo culto, primo
tra tutti il terrore dello spegnimento del suo fuoco sacro, che conservava attualizzandolo - il ricordo mitico di quell'autentico disastro che, per una tribù
primitiva, aveva dovuto rappresentare lo spegnimento del fuoco comune: una vera
e propria disgrazia collettiva.
Tale credenza risalirebbe addirittura a quando le antiche tribù laziali avevano
imparato ad usare il fuoco, ma senza saper ancora come accenderlo, se non
attingendo ad un focolare che pertanto doveva essere mantenuto perennemente
acceso: non è certo un caso che gli aggettivi che le fonti assegnano all' ignis Vestae,
al fuoco di Vesta, siano tutti sinonimi: sempitemus 00 J, aetemus 01 J, perpetuus<12J
oppure inextinctus0 3l.
Anche un elemento politico testimonia, se ce ne fosse stato bisogno, dell' antichità del culto di questa dea: ogni anno (dalla seconda metà del II secolo a.e. ogni
primo gennaio), i consoli ed i pretori che entravano in carica si recavano in corteo
solenne, accompagnati dai pontefici e dai flamini, a Lavinio, nei pressi di Roma,
allo scopo di rendere omaggio proprio a Vesta. Ciò significa forse che il culto era
sorto a Lavinio e solo più tardi sarebbe stato introdotto a Roma: comunque Lavinio
era una città del 'ciclo troiano', fondata da Enea, e rappresentava uno dei centri
storici più legati a tutta la 'mitologia' storica dei Romani0 4l.
9) Si tratta dei Vestalia, che si protraevano fino al 15 giugno. Nei giorni dal 7 al 15 giugno, durante
tali festività, che prevedevano anche la pulizia rituale della aedes, vi erano ammesse le donne (purché
scalze), sempre con esclusione del penetrale.
10) Cfr. Cicerone de legibus II, 8, 20; de domo 144.
11) Livio V, 52, 7; XXVI, 27, 14; Virgilio Aen. II, 296-ss.
12) Velleio Patercolo Il, 131, 1.
13) Ovidio Fasti VI, 297.
14) Sono attestate Vestali anche fuori di Roma: a Lavinio appunto, a Tivoli ed ad Alba. Pare tuttavia
che quest'ultima località non possa rivendicare una documentata antichità del suo culto di Vesta (e,
di conseguenza, del suo collegio di Vestali): potrebbe infatti trattarsi di una riesumazione dal sapore
arcaistico (Vestam colit Alba minorem, cioè 'Alba venera una Vesta minore', dice ad esempio
Giovenale IV, 61). Per un riferimento ad una vestale albana, cfr. qui al§ 3, dossier, caso n. 15.
219
2. Le sacerdotesseVestali
Per accudire il mitico fuoco sacro che aveva assicurato coesione sociale alla
prima tribù primitiva e continuava ad assicurarla, anche in epoca storica, alla
collettività urbana e statuale, era stato creato un apposito collegio sacerdotale
(virginesque Vesta/es in Urbe c'.1stodiunto ignem foci publici sempitemum 05 >),
l'unico femminile della storia romana, quello delle vergini Vestali (virgines
Vesta/es), che ha ben pochi paralleli in altre religioni.
Le prime menzioni delle Vestali sono legate ai miti stessi della fondazione di
Roma e della sua prima 'storia': Rea Silvia, madre dei gemelli Romolo e Remo,
sarebbe stata infatti una Vestale<16>, così come Tarpeia, quella dell'omonima rupe,
che viene infatti indicata in qualche fonte con quell'appellativo< 11>.
Al tempo del regno, cioè fino agli inizi del VI secolo a.e., le Vestali avevano
forse anche il compito di proteggere il rex con qualche mezzo mistico 08 >,oltre a
contribuire a custodire i pignora del potere romano, mistici oggetti che la leggenda
dice fossero custoditi nei penetrali del sacrario di Vesta e che contribuivano ad
assicurare la salvezza dello stato e del popolo 09 >.
15) Cicerone de legibus II, 8, 20 ('le vergini Vestali custodiscano entro la città [di Roma] l'eterno
fuoco del pubblico focolare').
16) Cfr. ad es. Livio I, 3, 11 e I, 4, 1-ss.
17) Varrone de lingua lat. V, 41; Properzio IV, 4, 18 e 69; cfr. anche Livio I, 11, 5-9
18) E anche di richiamare il rex stesso all'esercizio dei suoi compiti (Vigilasne rex? Vigila, dicono
le Vestali, a quel che riferisce la tradizione, in un certo giorno dell'anno, e continuano a farlo anche
quando non vi sarà più il re e quelle parole avranno perduto il loro significato). Dumézil, La religione
romana arcaica, p. 500, ha ipotizzato un possibile legame della tradizione delle vergini Vestali con
un sostrato celtico, che considerava che la vita stessa del sovrano fosse strettamente legata ad un
gruppo di vergini (e cita in proposito una tradizione gallese). Peraltro Giannelli (Il sacerdozio, p. 80,
n. 4) ricorda le sacerdotesse del Sole del Perù incaico obbligate anch'esse alla verginità e in qualche
modo assimilabili alle Vestali romane.
19) Al tempo della invasione gallica - quella di Brenno, per intenderci - le Vestali fuggirono scalze
con iljlamen Quirinalis portando con sé i loro sacra (cfr. Livio V, 40, 7). Secondo il commentatore
di Virgilio, Servio (ad Aen. II 188), septemfuerunt pignora, quae imperium Romanum tenent: t aius
matris Deum, quadriga fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Iliae,
Palladium, ancilia. Almeno dal tempo di Augusto questi fatali, stravaganti, e assolutamente
misteriosi pignora, posti a garanzia della stessa esistenza dell'impero di Roma, erano conservati a
Roma, nel tempio rotondo di Vesta, come si deduce anche da Ovidio Fasti VI, 424-ss. (cfr. comunque
De Sanctis, Storia dei Romani, IV, Il, 1, pp. 250, n. 543; 252-253, n. 554), e lì si sarebbero trovati
ancora in età tardoantica (fine del IV secolo d.C.). Lo stesso fuoco di Vesta sarebbe stato unpignus,
come attesta Livio (XXVI , 27) quando narra che nel 210 a.C. ci sarebbe stata una congiura per
distruggere con il fuoco il tempio di Vesta e gli aetemos ignes et conditum in penetrali fatale pignus
imperii Romani (cfr. Floro I, 2, 3); sul fuoco di Vesta che verrebbe fatto risalire addirittura ad un
leggendario suo trafugamento da Troia, vd. Ovidio Fasti III, 29-ss.
Sappiamo che i sacri pignora erano custoditi tutti insieme in un grande vaso: anzi le fonti ci dicono
che i vasi sarebbero stati due identici, uno dei quali vuoto. Quando l'imperatore Eliogabalo tentò di
220
Ma erano anche le loro preghiere a contribuire al benessere dello stato e a spese
dello stato esse erano mantenute.
Cerchiamo ora di esaminare nel dettaglio la struttura e le funzioni di questo
singolare collegio sacerdotale.
Innanzi tutto esso era parte del più ampio collegio pontificale, e, in origine, era
composto da quattro (poi sei; infine sette<20>) vergini, scelte dal pontifex maximus
tra fanciulle delle migliori famiglie (sei-dieci anni), e tenute ad un servizio di
trent'anni, dieci come allieve, dieci come ministre del culto, dieci come maestre<21>.
La formula con la quale il pontifex maximus effettuava la captio (letteralmente
'la presa') della Vestale ci è stata tramandata in un latino arcaico da Aulo Gellio:
sacerdotem Vestalem quae sacrafaciat, quae ius siet sacerdotem Vestalemfacere,
pro populo romano Quiritibus, uti optima lege fuit, ita te, Amata, capio (letteralmente: 'Ti prendo, Amata, perché tu compia i sacri riti che secondo le prescrizioni
deve compiere una secerdotessa Vestale, per il popolo romano dei Quiriti, sulla
base di un'ottima legge'<22>,ovvero: 'in quanto sei risultata rispondente a tutte le
condizioni richieste per l'ammissione al sacerdozio'<23 >).
Alla captio della Vestale, che ha tutta l'aria di essere la riproduzione fedele di
un ratto matrimoniale, seguiva la sua inauguratio, forse tuttavia non formale: la
fanciulla sarebbe stata cioè nello stato di persona 'augurata' (possedere l' augurium
significava avere un accrescimento di sé, un potenziamento mistico-religioso che
sottrarre all'aedes Vestae i favolosi oggetti per collocarli nel tempio del suo dio solare, la virgo
maxima Io ingannò con accorta ironia consegnando ai suoi inviati il vaso vuoto (Scriptores Historiae
Augustae, Hel. 6, 8).
20) Il numero di sette, forse raggiunto solo nel Tardo Impero (comunque non prima del IV secolo
d.C.), ci è suggerito in realtà da un intervento polemico di Sant' Ambrogio (Epist. XVIII, 11).
21) Cfr. Dionisio di Alicarnasso II, 69, 2. Allo scadere del trentennio le Vestali erano autorizzate a
riprendere una vita normale, ed anche a formarsi una famiglia; tuttavia, era raro che esse abbandonassero il loro ruolo: il termine rappresentava quindi un limite minimo del servizio alla dea, ma poteva
volontariamente essere superato. TacitoAnn. II, 86 parla, ad esempio, del caso di una Vestale rimasta
in servizio per ben 57 anni.
22) Noctes Atticae I, 12, 14. Gellio si riferisce qui forse alla lex Papia de Vestalium lectione: non è
chiaro se essa fosse figlia della legislazione della tarda repubblica (circa 65 a.C. ), ovvero risalisse ad
un tempo assai più remoto (circa 254-253 a.C.): ovviamente la valutazione del provvedimento
cambierebbe parecchio. Presumibilmente si trattò di una norma finalizzata a frenare l'arbitrio del
pontefice massimo nella scelta delle Vestali, introducendo una procedura che prevedeva la formazione di una rosa di venti candidate, dalle quali veniva poi estratta a sorte la prescelta che solo allora
poteva essere 'presa' dal pontefice. Non esiste sufficiente documentazione per discutere tale
regolamentazione, che comunque appare tarda.
23) Per questa traduzione alternativa, che è forse più rispondente allo spirito della formula originale,
cfr. Giannelli, Il sacerdozio, p. 56.
221
4>.
derivava dall'appoggio della divinità suprema, luppiter)<2
Presiedeva il collegio delle Vestali la virgo vestalis maxima, presumibilmente
la Vestale più anziana: il pontifex maximus, come vedremo in seguito, manteneva
tuttavia una speciale - e permanente - giurisdizione (disciplinare e penale) su
queste sacerdotesse.
Condizione essenziale del loro servizio era la verginità, iscritta nella loro
stessa denominazione, e ovviamente la castità, di modo che la condizione di
verginità originaria fosse mantenuta per il tempo prescritto<25J •
In molti popoli primitivi la verginità, che in genere doveva recar con sé o
comportare poteri mistici e magici del tutto particolari, veniva intesa soprattutto
come stato intermedio tra femminilità e mascolinità: ciò determinava, in una
società dominata dal diritto e dai rapporti giuridici, come quella romana (anche
a,caica), speciali deroghe allo status di minorità cui altrimenti le sacerdotesse - in
quanto donne - avrebbero dovuto soggiacere<26>• Esse risultavano infatti sottratte
alla tutela, anche a quella paterna; potevano testimoniare in giudizio, e persino
disporre con pienezza dei loro beni: alla stregua di un uomo libero, verrebbe da
dire<27>.
Le Vestali non vivevano in una situazione di clausura, come siamo forse
indotti ad immaginare: erano invece libere, anche nei rapporti sociali<28>, salvo il
fatto di dover ottemperare al culto cui erano preposte, consistente essenzialmente
24) Cfr., per l'inauguratio delle Vestali, P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I,
Giappichelli, Torino 1960, spec. pp. 215-ss.e 324-ss.; qualora le Vestali, compiuto il loro servizio,
avessero deciso di abbandonarlo, dovevano essere exauguratae cioè 'tolte dalla condizione di persona
augurata' (cfr. P. Catalano, op. cit., pp. 329-ss.).
25) Vi erano specifiche relazioni tra il culto di Vesta e quello riservato alla Bona Dea, entrambe
simboleggiavano infatti la castitas e la pudicitia (anche il culto della Bona Dea, officiato in presenza
delle Vestali, prevedeva l'esclusione rituale degli uomini, degli animali di sesso maschile e persino
delle rappresentazioni figurati ve degli stessi.
26) Per un approccio alla conoscenza della condizione femminile nella Roma antica cfr. ad es. Eva
Cantarella, Passato Prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano 1998.
27) Cfr. Gellio Noctes Atticae VII, 7, 2-ss.; Gaio, I, 145 (...exceptis virginibus vestalibus, quas etiam
veteres in honores sacerdotii liberas esse voluerunt).
28) Sappiamo, ad esempio da una fonte tarda (Macrobio Satum. III, 13, 10-ss.), di una cena, offerta
dai pontefici, in occasione della inauguratio di unflamen Martialis, nel 69 a.C., cui parteciparono
anche quattro Vestali (e ci immaginiamo le altre due rimaste nella aedes di Vesta a badare al fuoco).
Le Vestali inoltre avevano diritto ai migliori posti a teatro, ai combattimenti dei gladiatori o nelle altre
sedi delle rappresentazioni pubbliche (cfr. Cicerone pro Murena 35). Quando una delle Vestali si
ammalava gravemente era affidata alle cure di una matrona, presso la sua casa, all'esterno della
residenza ufficiale delle sacerdotesse: tale matrona tuttavia non doveva avere marito né figli (cfr.
Plinio il GiovaneEpist. VII, 19). Molto più tardi, a seguito di un editto di Valentiniano e Valente (Cod.
Theod. XIII, 3, 9, fine sec. IV d.C.), alle Vestali sarebbe stato assegnato un archiater, un medico
speciale.
222
nel mantenimento del fuoco sacro<29 > e nella preparazione di particolari 'prodotti'
destinati alle cerimonie religiose della comunità, in particolare la muries, la
'salamoia sacra' preparata con sale non raffinato, sminuzzato nel mortaio, versato
in un vaso di terracotta, coperto di gesso e poi cotto nel forno: esso era, in seguito,
tagliato con una sega di ferro e mescolato cor. acqua sorgiva.
Con la muries, in particolare, si salava la mola, cioè la farina di spelta torrefatta
preparata a giorni fissi dalle stesse Vestali (in particolare dalle tre più anziane, le
tres maximae), ottenendo la cosiddetta mola salsa, che era sparsa sugli animali
utilizzati come vittime dei sacrifici (il termine im-molare indica infatti 'il primo
gesto' del sacrificante, quello cioè di cospargere di farina bagnata dalla salamoia,
la vittima sacrificale: il termine passerà poi ad indicare il sacrificio tout-court).
E, infine, alle Vestali spettava il compito di preparare il suffimen dei Parilia
(festa del 21 aprile), consistente in una mistura 'magica' (in polvere?) composta di
sangue di cavallo, cenere di vitello e steli secchi di fava: tale composto preparato
sei mesi prima del suo utilizzo, distribuito agli allevatori, veniva versato sulla
paglia ardente nel momento in cui - a primavera - procedevano alla purificazione
rituale del bestiame <30>.
Ovviamente esse erano assai impegnate in attività religiose, processioni,
sacrifici (partecipavano attivamente, ad es., agli Argei, a metà maggio; assieme al
flamen Quirinalis, prendevano parte alle feste dei Consualia il 21 agosto; celebravano ai primi di dicembre i riti 'tutti al femminile' in onore della Bona Dea ecc.)<31>.
Avevano un abbigliamento specifico: una stola (veste lunga fino ai piedi)
sopra la quale portavano un leggerissimo velo di lino (pallium); sul capo una infula
fermata da una vitta di lana bianca (una benda che cingeva il capo, i cui capi
pendevano da entrambe le parti); inoltre un velo era loro destinato per coprire il
capo, quando compivano sacrifici: è il cosiddetto suffibulum, sorta di scialle
allacciato con una fibbia (fibula), di forma rettangolare, bianco listato di porpora.
Portavano i capelli coperti da un'acconciatura su sei trecce (seni crines), con
nastri di lana bianca e rossa.
29) Interessante ricordare che nel sacrario di Vesta, a differenza che nei templi delle altre divinità, non
doveva mai essere conservata acqua (l'acqua infatti uccide il fuoco) e che l'acqua necessaria alle cure
dello stesso sacrario doveva essere di volta in volta procurata dalle Vestali, anche in luoghi molto
distanti (cfr. Plutarco Numa 13, 2; Properzio IV, 4, 9-22). L'acqua così raccolta doveva essere tenuta
esclusivamente in un vaso detto futtile, che aveva una forma così particolare che non poteva essere
poggiato a terra pieno, altrimenti avrebbe sparso l'acqua contenuta e la cosa avrebbe dovuto essere
espiata (cfr. Servio ad Aen. XI, 339: futtile vas quoddam est lato ore, fundo angusto, quo utebantur
in sacris Vestae, quia aqua ad sacra Vestae hausta in terra non ponitur, quod si fiat piaculum est: unde
excogitatum vas est, quod stare non posset, sed positum statim effunderetur).
30) La 'ricetta' del suffimen si trova in Ovidio Fasti IV, 731-734.
31) Per l'elenco completo delle cerimonie religiose e ufficiali cui le Vestali partecipavano rinvio a
Giannelli, Il sacerdozio pp. 70-77.
223
Le Vestali godevano in ogni caso di un ruolo sociale assai rilevante ed elevato,
si muovevano precedute da un littore<32>,come magistrati, e fruivano di privilegi,
come quello di recarsi alle cerimonie sacre in vettura o in lettiga<33>•
Per di più le Vestali 'portavano fortuna': se, ad esempio, avessero incontrato
sul loro percorso un condannato a morte, la condanna di costui non avrebbe più
potuto aver luogo<34>.
Come certe sacerdotesse o profetesse vergini dell'antica Grecia, le Vestali
avevano un ruolo peculiare e specifico nell'ambito delle loro comunità proprio
grazie all'anomalia della loro condizione: è necessario sottolineare con forza
questo elemento per non fare confusione con altre scelte religiose che hanno
portato, e portano alla verginità e alla castità, in particolare per non far confusione
tra Vestali romane e monache cristiane (di tale confusione si è nutrita in origine
anche una certa polemica pagano-cristiana)C35>• Sottolineiamo la condizione di
anomalia, di eccezionalità che contraddistingueva le VestaJiC36>: la loro verginità
non voleva affatto essere lo specchio di 'perdute' perfezioni e di purezze mitiche,
e non rappresentava uno stato primordiale da riconquistarsi faticosamente a prezzo
di sacrifici e rinunce; e nemmeno, la loro castità, annunziava l'inizio della fine dei
tempi.
Si trattava piuttosto, per le Vestali, di uno stadio artificiale, di sospensione del
normale processo che faceva passare le fanciulle dalla pubertà alla maternità:
un'anomalia che riguardava queste fanciulle costrette a diventare Vestali, e quindi
a sposarsi - eventualmente ed al più presto - solo dopo i trentacinque anni, quindi
ad un'età più che doppia rispetto alla normalità di quei tempi. Il fatto che da qualche
parte un piccolo numero di giovinette fosse destinato alla temporanea castità per
volere altrui rafforzava, nei contemporanei, la consapevolezza che matrimonio,
32) Plutarco Numa 1O, 5. Comunque l'accompagnamento delle Vestali da parte del littore sembra da
collocare attorno al 42 a.C. (cfr. Dione Cassio XL VII, 19, 4) e sembra esser stato originato da ragioni
connesse alla protezione fisica delle sacerdotesse (cfr. poi alla nota 75).
33) Plutarco Numa 1O,6: forse perché esse non dovevano toccar terra, pernon contaminarsi? Plutarco
ricorda infatti, nello stesso passo, che se qualcuno avesse osato passar sotto la lettiga che trasportava
una Vestale, sarebbe stato condannato a morte (cfr. Giannelli, li sacerdozio, p. 93 per altre
valutazioni).
34) Plutarco Numa 10, 6: esse dovevano tuttavia giurare che l'incontro era stato fortuito.
35) Rinvio comunque, per ogni ulteriore specifico approfondimento su questo tema, allo splendido
studio di P. Brown, li corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani
(1988), tr. it. Einaudi, Torino 1992, pp. 5-ss.
36) Di castitatem pati ('subire la castità') parla ad es. Cicerone, De legibus II, 19, 29 proprio a
proposito delle Vestali.
224
unione sessuale e maternità fossero indiscusso destino di tutte le donne (e non il
contrario, com'era nelle prime tesi cristiane più radicaii<37>).
3. Crimen incesti: un dossier sui processi alle Vestali
Il sacerdozio di Vesta aveva una missione radicalmente conservativa di quel
che della romanità doveva restare immutato nel corso dei secoli: era una funzione
di mantenimento, di confinamento, di limitazione.
Nel nome di Vesta si chiudeva ogni preghiera e funzione religiosa, come a dire
che con essa, e in essa, si chiudeva la comunicazione con il divino e si conservava
solo quanto di nuovo, attraverso il rito, si era ottenuto. Pertanto alle Vestali era
richiesto un comportamento 'professionale' e rigoroso. I benefici e i privilegi loro
assicurati corrispondevano ad obblighi indiscutibili ed inviolabili: in primo luogo
quello di mantenere assolutamente intatta la verginità che rendeva le Vestali
'soggetti' unici e sacri nella società.
La violazione di tale prescrizione, che veniva tecnicamente definita incestum
(da in, negativo+ castum: letteralmente: 'violazione della castità'), provocava un
moto di superstizioso orrore nella popolazione, tale da obbligare chi di dovere alla
più dura punizione: infatti spaventose erano le conseguenze per la colpevole<38>.
Una società primitiva che decide di affidare alle proprie sacerdotesse la
custodia del fuoco comune si premunisce anche contro distrazione, negligenza o
trascuratezza, che potrebbero far perdere quel bene prezioso: da un lato quindi
garantisce congrui privilegi e sicuro benessere a tali sacerdotesse, dall'altro le pone
sotto la minaccia di terribili conseguenze, in caso di infrazione ai loro doveri.
Anche la verginità, oltre a far delle Vestali - come si è visto - degli esseri
speciali, 'magici', intermedi tra maschi e femmine, quindi privi delle necessità
tanto degli uni, quanto delle altre, era condizione prescritta perché circostanze ed
eventi di natura personale o men che menopassionalenon distraessero le sacerdotesse
dai loro compiti fatali.
Posto che la giurisdizione sui 'delitti' delle Vestali (ed eventualmente sui loro
'complici') spettava esclusivamente - ed inappellabilmente - al pontefice massimo<39>,
osserviamo le conseguenze cui le Vestali sarebbero andate incontro qualora
avessero violato i loro principali doveri, in particolare:
a) non conservando debitamente acceso il fuoco di Vesta;
b) non mantenendo la loro verginità (incorrendo nel crimen di incestum).
37) Cfr. Sant' Ambrogio De virginibus I, 4, 15; De virginitate 13; Epist. XVIII, 11; poi, pressoché con
gli stessi argomenti polemici, Prudenzio contra Symmachum Il, 1064-ss.
38) Sull'incestum cfr. Koch, s.v. Vesta, cc. 1747-1752.
39) Almeno fino al 113 a.C.: vd. qui al commento del caso n. 11 del dossier.
225
Siamo informati dalle fonti di un certo numero di tali violazioni proprio in
quanto esse erano sentite come gravissime, e foriere di conseguenze potenzialmente terribili a carico dell'intero corpo sociale romano: gli dei avrebbero infatti potuto
scatenare ogni tipo di fenomeno naturale, dalle epidemie ai terremoti, allo scopo di
punire Roma per l'oltraggio subito.
a) In genere, per le ordinarie infrazioni alle regole commesse dalle Vestali, era
prevista la frusta: in particolare, qualora una Vestale particolarmente negligente
avesse lasciato addirittura spegnere il fuoco sacro, essa sarebbe stata sottoposta,
salvo pena più dura, a fustigazione eseguita per ordine del pontefice massimo da un
littore, o personalmente dello stesso sacerdote.
Plutarco racconta infatti che "talvolta lo stesso pontefice massimo punisce la
colpevole, nuda dietro un velo disteso in un luogo oscuro"<40>•
Essa avrebbe anche dovuto promettere che la cosa non si sarebbe ulteriormente ripetuta (e da questo possiamo presumere che la punizione- in caso di recidiva
- sarebbe stata ancor più dura e forse non avrebbe ulteriormente risparmiato la
malcapitata): consideriamo tuttavia che nel comune sentire lo spegnimento del
fuoco avrebbe messo a repentaglio la sopravvivenza stessa di Roma<41 >.
La colpevole, subita la punizione corporale, avrebbe dovuto provvedere,
ovviamente, a riaccendere il fuoco con il procedimento cosiddetto di confricazione:
essa doveva cioè scavare sfregando (terebrare) un pezzo di legno (preso da un
arbor felix- 42>)fino a produrre una scintilla e un poco di fuoco, che avrebbe dovuto
essere portato all'interno dell'aedes su un crivello di bronzo.
Non era possibile infatti riaccendere semplicemente il fuoco sacro, portandovi
un fuoco già acceso d'altra provenienza. Insomma, il fuoco doveva essere originario e per questo doveva essere riacceso ex novo.
Conosciamo, dalle fonti, alcuni episodi di ignis in aede Vestae exstinctus, in
particolare quelli accaduti nel 206<43>e nel 178 a.c.<44>: in entrambi i casi i pontefici
40) Plutarco Numa IO, 8.
41) Cfr. Dionisio di Alicamasso II, 69, 5.
42) Per arbor felix (letteralmente 'albero portafortuna, di buon augurio'), si intendono piante come
il fico bianco, la quercia, il faggio, il leccio, il sughero, il nocciolo, il sorbo, il pero, il melo, la vite,
il prugno, (cfr. Macrobio Satum. III, 20, 2). Infelices ('di malaugurio') sono invece arbores come la
felce, il fico nero, quelli che producono bacche nere o frutti neri, poi l'agrifoglio, il pungitopo, il pero
selvatico, il lampone e i rovi (vd. Macrobio Satum. III, 20, 3). Cfr., in gen., Thulin, Die Etruskische
Disciplin, III, pp. 94-ss.
43) Livio XXVIII, 11, 6-ss.; Valerio Massimo I, 1, 6 (il pontefice massimo, in questa circostanza, era
P. Licinio Crasso Dives).
44) Liv. Per. XLI; Ossequente Liber Prodigiorum, 8 (il pontefice massimo era allora M. Emilio
Lepido).
226
massimi in carica rifiutarono di giudicare gli episodi più gravi di quello che in realtà
erano stati e optarono per la punizione corporale, nonostante lo scandalo suscitato
fosse stato grande, e ci fosse chi chiedeva la morte per le colpevoli.
Anche per aver lasciato spegnere il fuoco doveva essere infatti - in origine prevista la pena di morte: lo sappiamo dall'episodio del 178 a.e., che ha per
protagonista la vestalis maxima Emilia, la quale, incaricata in quel tomo di tempo
di mantenere vivo il fuoco, ne aveva invece affidato le cure ad una giovane allieva,
che l'aveva sbadatamente lasciato spegnere.
Allora Emilia che correva un pericolo mortale chiese aiuto alla dea e gettando
sopra le braci il proprio velo riaccese portentosamente i! fuoco.
Non ci fu dubbio alcuno che la dea avesse risolto la situazione venendo in aiuto
alla sua sacerdotessa<45>•
b) Ben più gravi sicuramente le conseguenze per la Vestale che avesse violato
l'obbligo di castità: la condanna prevista era infatti la morte, con modalità di
esecuzione davvero terribili per la colpevole che veniva infatti sepolta viva.
Il complice, il delitto del quale si definiva tecnicamente come stuprum, era
condotto nudo nel foro, gli era messo il collo in una forca (sub furca) e probabilmente era issato su una specie di croce, per esservi frustato a morte<46>.
Se escludiamo il caso di Pinaria, Vestale condannata al tempo del mitico re
Tarquinio Prisco, episodio certamente leggendario<47>,siamo informati di un certo
numero di casi: uno avvenuto nel 483 a.e. (dossier, caso l); uno nel 472 a.e. (caso
2); uno ancora nel 420 a.e. (caso 3); un altro nel 338-336 a.e. (caso 4); poi diversi
episodi nel m secolo a.e.: nel 273 (caso 5), forse nel 269<48>; nel 266 (caso 6); nel
236 (caso 7); nel 230 (caso 8); nel 216 (caso 9); poi ancora il clamoroso scandalo
nel 114-113 a.e. (caso 10); in seguito non si sarebbero più avuti processi a Vestali
seguiti da condanne<49>,almeno fino al tempo dell'imperatore Domiziano, più di
45) Cfr. Dionisio di Alicarnasso Il, 68, 3-5; la storia è raccontata in modo diverso dalle fonti quali
Valerio Massimo I, 1,7 e Properzio IV, 11, 53-ss.
46) Secondo V. Arangio-Ruiz, Storia del Diritto Romano, Jovene, Napoli 1972, p. 172, "il seduttore
era condannato dai magistrati a subire il supplicium more maiorum, cioè la crocifissione": nelle fonti,
tuttavia, tutti i complici delle Vestali condannati moriranno sotto la verberatio e presumibilmente
sarebbero stati appesi alla croce da morti (vd. nel dossier).
47) Di cui riferisce Dionisio di Alicarnasso ID, 67, 3.
48) Di un processo tenutosi tra il 273 e il 266 a.C. (forse nel 269) contro una Vestale, di cui non
conosciamo il nome e che sarebbe stata condannata a morte, riferisce Dione Cassio fragm. XX, 2 (cfr.
Giannelli, Il sacerdozio, p. 81, n. 5).
49) Un processo si tenne in epoca ciceroniana, appunto senza che le imputate venissero condannate
(si veda il successivo dossier al n. 11, anno 73 a.C.).
227
due secoli dopo (casi 12 e 13)<5°).
Soltanto sotto Caracalla abbiamo nuovamente notizia di condanne di vergini
Vestali, mentre un ultimo processo di cui non è chiaro l'esito si sarebbe verificato
ancora alla fine del IV secolo d.C. (casi 14 e 15).
Si tratta, come si vede, di una quindicina di processi, in un periodo di tempo
di oltre novecento anni, con un vero e proprio picco statistico nel III secolo a.e.,
quando furono combattute la prima e la seconda guerra punica e quando il terrore
per lo scontro con la potenza cartaginese e le tensioni indotte dalle contestuali
grandi trasformazioni politico-sociali della repubblica romana, produssero ondate
ricorrenti di furore superstizioso con picchi di fanatismo religioso particolarmente
aberranti<51>.
Ricordiamo che si trattava di una procedura assolutamente straordinaria, in
quanto l'inquisitore (il pontefice massimo, per buona parte dei casi che si esamineranno) era anche il giudice (gli altri pontefici si limitavano ad assisterlo, senza
costituire una vera e propria giuria), mentre il sistema penale romano prevedeva
ordinariamente la separazione delle due figure<52>•
Inoltre era autorizzata una straordinaria eccezione procedurale: si poteva
infatti - e, si badi bene, nel solo caso di incestum (il delitto tipico dei processi alle
Vestali) - procedere anche all'interrogatorio degli schiavi di proprietà degli
imputati, ricorrendo pertanto anche alla tortura<53) •
E questo, si vedrà, si rivelerà uno degli elementi decisivi per raccogliere (e
qualche volta, forse, per 'costruire') prove contro le Vestali.
Tuttavia un processo contro le Vestali imputate di incestum non si poteva
considerare alla stregua di un vero e proprio processo: era soprattutto un 'rito
religioso' con il quale si tentava di rimuovere l'empietà caduta sulla comunità:
l'incestum stesso era un prodigium che doveva essere espiato. L'espiazione
consisteva nella 'rimozione' della Vestale dalla collettività mediante il suo seppel-
50) Plinio, Naturalis Historia XXVIII, 12, accenna oscuramente ad episodi di seppellimento di
persone vive - ma probabilmente non di Vestali - a lui contemporanei. (etiam nostra aetas vidit). V d.
poi al§ 5.
51) Cfr. A.J. Toynbee, L'Eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita
romana. Il. Roma e il Mediterraneo dopo Annibale (1965), tr. it. Einaudi, Trorino 1983, spec. il cap.
XII (Risposte religiose a dure prove spirituali), pp. 458-ss. Ricordo che ancora nel 204, almeno
stando ad Erodiano I, 11, 4, una vestale era stata sul punto di essere sottoposta a giudizio, ma si sarebbe
salvata per sola miracolosa intercessione della dea (vd. qui la successiva ilota 67).
52) Sulla specificità 'tecniche' del processo alle Vestali cfr. F. Schulz, Storia della Giurisprudenza
Romana (1953); tr. it. Sansoni, Firenze 1968, pp. 62-63.
53) De servis nulla lege quaestio est in dominum nisi de incestu, dice Cicerone Mil. 59 ( 'non è possibile
per legge ricorrere ali' interrogatorio degli s~hiavi contro il loro padrone, se non nel caso di incestum' ).
228
limento da viva sotto la terra<54 >•
Esamineremo ora il contesto e l'esito dei vari processi e poi (al § 4)
affronteremo le modalità operative delle condanne alla sepoltura rituale.
1) caso del 483 a.C.<55>
Vestale accusata di incestum: Opimia
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Nel corso della mitica guerra contro i Volsci si sarebbero verificati diversi
prodigi: voci e visioni straordinarie mostrarono la collera degli dei contro i Romani.
Si disse - in particolare - che alcune delle divinirtl.erano sdegnate perché i
sacrifici loro destinati erano compiuti da mani empie ed impure.
Accurate indagini svolte dai pontefici scoprirono che una Vestale di nome
Opimia aveva perduto la sua verginità e contaminava per ciò stesso le cerimonie
religiose.
Si utilizzò la tortura per ottenere le prove e la Vestale venne sepolta viva; due
uomini furono riconosciuti colpevoli di stuprum: flagellati in pubblico furono
giustiziati immediatamente.
2) caso del 472 a.C.<56>
Vestale accusata di incestum: Orbinia
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Una pestilenza ammorbava Roma: su indicazione di uno schiavo (probabilmente estorta con la tortura) si apprese che una delle Vestali, Orbinia, aveva perduto
la propria verginità e compiva ciò nonostante i sacrifici per la comunità, esponendola all'empietà.
Fu processata, condannata, frustata, e infine sepolta viva<57>.
Dei suoi due complici (o presunti tali) uno si suicidò, l'altro fu fatto uccidere
nel foro a frustate, "come uno schiavo".
54) Nocentes virgines Vestae, quia legibus non tenentur, licet vivae, tamen infra urbem in campo
scelerato obruebantur, dice Servio ad Aenl. XI, 206 ('le Vestali colpevoli per aver violato i precetti
che le riguardavano, erano sepolte vive nel Campo Scellerato, all'interno della cerchia urbana').
55) FONTI: Dionisio di Alicamasso VIII, 89, 4-5 (nome della Vestale: Opimia); Livio II, 42, 10-11
(nome della Vestale: Oppia). Il nome della Vestale è invece Popilia in Orosio II, 8 (Pompilia in
Eusebio Il, 102). Cfr. R.M. Ogilvie,A Commentary on Livy. Books 1-5, Clarendon Press, Oxford 1965,
p. 349. Ovviamente, data l'antichità del caso, potrebbe trattarsi di una reduplicazione di un analogo
caso più recente, per costruire dei 'precedenti' a tali vicende.
56) FONTE: Dionisio di Alicamasso IX, 40, 3-4.
57) È l'unico caso in cui la sepoltura rituale è fatta precedere da una punizione corporale.
229
3) caso del 420 a.e.<58>
Vestale accusata di incestum: Postumia
esito del processo: assoluzione
La Vestale Postumia era stata accusata de incestu, anche se innocente.
I sospetti erano sorti propter cultum amoeniorem ingeniumque liberius quam
virginem decet (cioè "a causa della cura eccessiva che essa dedicava alla propria
persona e per la sua condotta troppo indipendente rispetto a quanto sarebbe stato
conveniente per una Vestale"). e· erano insomma più pretesti moralistici che altro:
la ragazza era probabilmente intelligente e aveva offeso i soliti conformisti. Il
processo venne in un primo tempo differito, deinde absolutam ("poi venne
assolta"), ma il pontefice massimo<59> sentenziò che essa dovesse astenersi da ogni
frivolezza e che dovesse ornarsi più di santità che di eleganza (abstinere iocis
colique sancte potius quam scite iussit).
4) caso del 338-336 a.e.
Vestale accusata di incestum: Minucia<60 >
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Anche la Vestale Minucia avrebbe tenuto un comportamento sospetto: se ne
andava infatti vestita con eccessiva eleganza (suspecta primo propter mundiorem
iusto cultum ). Raccolta una denuncia da uno schiavo- anche in questo caso ottenuta
sotto tortura - essa venne interdetta dalle sue funzioni sacrali, le fu poi ingiunto di
conservare la proprietà dei suoi schiavi (perché se li avesse legalmente liberati essi,
da liberi, non avrebbero più potuto essere torturati), infine, raccolte le prove, fu
processata, condannata e sepolta viva; non c'è traccia nelle fonti dei complici e della
loro eventuale sorte<61>.
5) caso del 273 a.e.
Vestale accusata di incestum: Sextilid 62>
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
La Vestale Sestilia fu condannata e sepolta viva.
Non abbiamo altre notizie, né del contesto della vicenda, né dei complici.
58) FONTE: Livio IV, 44, 11-12. Anche in questo caso non è possibile stabilire se si tratti della
costruzione di un 'precedente artificiale' al caso rubricato al successivo n. 4)
59) Il suo nome, Sp. Minucius, ci è tramandato da Plutarco (Mor. 89 F).
60) FONTI: Livio VIII, 15, 8; Orosio III, 9, 5; S.Girolamo, Adversus lovinianum I, 41 (in P.L. Migne,
voi. XXXIII, Parisiis 1883, c. 283) ove il nome della Vestale è tuttavia storpiato in Munitia (una
Munitia propter suspicionem stupri viva defossa est).
61) L'esecuzione della Vestale Minucia dovrebbe essere la più antica tra quelle storicamente
indiscutibili. S.Girolamo, nel passo citato alla nota precedente, ricorda che si trattò si un procedimento
basato solo sul 'sospetto' e che iniusta, ut reor, poena, nisi grande crimen putaretur laesa virginitas.
62) FONTI: Livio Per. XIV; Orosio IV, 2, 8.
230
6) caso del 266 a.e.
Vestale accusata di incestum: Caparronia<63l
esito del processo: condanna a morte (evitata col suicidio dalla condannata)
La pestilenza turbava Roma da due anni, arrecando moltissime vittime tra la
popolazione. La consultazione dei Libri Sibillini diede un responso inequivoco:
all'origine dell'epidemia era l'ira degli dei<64l. Si indagò, e, alla fine, la Vestale
eaparronia incesti rea ('dimostrata colpevole di incestum') fu condannata ad essere
sepolta viva, ma si impiccò (suspendio periit), o comunque le venne consentito
pietosamente di uccidersi. Il corruptor eius (cioè 'colui che l'aveva corrotta') e gli
schiavi che ne erano stati complici furono tutti suppliziati.
7) caso del 236 a.e.<65l
Vestale accusata di incestum: ignota
esito del processo: condanna a morte (evitata col suicidio dalla condannata)
Non abbiamo notizie del contesto della vicenda.
8) caso del 230 a.e.
Vestale accusata di incestum: Tuccid 66l
esito del processo: assoluzione
Non è chiaro come si fossero mossi gli accusatori della Vestale Tuccia.
Essa si sarebbe tuttavia difesa sottoponendosi ad una sorta di prova ordalica:
avrebbe raccolto acqua del Tevere dentro un setaccio - per dar prova della sua
63) FONTE: Orosio IV, 5, 6-9.
64) Siamo-come del resto nel precedente, e forse leggendario, caso repertato al n. 2- nella più classica
situazione che i Greci definivano 'miasma', cioè 'contaminazione': quella credenza, nobilitata
letterariamente nell'Edipo Re di Sofocle, per cui tutta una comunità soffre di un morbo misterioso, e
vane sono le ricerche della causa, fino a che non emerge l'evidenza che una sola persona è colpevole
di una straordinaria violazione religiosa (per Edipo il parricidio e l'incesto con la madre; per la Vestale
la rottura del vincolo di castità). Tale persona vive in mezzo agli altri, come un untore, e va pertanto
eliminata allontanandola o uccidendola, comunque rimuovendola dalla collettività; sull'argomento
cfr. specif. E. Dodds, / Greci e l'irrazionale (1951), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 47-ss.
65) De Sanctis, Storia dei Romani, IV, 2, 1, p. 322, e n. 374, che riferisce un passo di Eusebio, che non
trova altrove riscontro.
66) FONTI: Valerio Massimo VII, 1 abs. 5 (che riferisce come l'accusa alla Vestale fosse quella di
incestum); Dionisio di Alicamasso II, 69, 1-3 (che invece parla di un'accusa meno grave, l'aver
lasciato spegnere il fuoco e altro); Plinio Naturalis Historia XXVIII, 12 riferisce il fatto di Tuccia con
una data diversa. Solo Livio Per. XX lascia intendere invece che la Vestale Tuccia fosse stata
condannata: ma sembra che si tratti di un errore dell' epitomatore.
231
innocenza- e il miracoloso intervento della sua dea le avrebbe consentito di portare
effettivamente l'acqua fino al sacrario<61>.
9) caso del 216 a.e.
Vestali accusate di incestum: Opimia e Floronid 68>
esito del processo: condanna a morte (evitata almeno da una delle due col
suicidio)
Siamo in uno dei momenti più tragici della seconda guerra punica (l'anno
della battaglia di Canne, per intenderci): moltissimi sono i prodigi e le sventure che
colpiscono i Romani, anche nel loro immaginario collettivo.
Due Vestali furono riconosciute colpevoli di aver violato i loro doveri di
castità (stupri compertae), ma solo una delle due venne sepolta viva (uti mos est,
'secondo il costume'); l'altra riuscì a darsi la morte. In questo caso siamo informati
su uno dei complici, Lucio Cantilio, al quale, vien da dire con Manzoni, "la
sventurata rispose". Egli era uno dei segretari dei pontefici (scriba pontificius): la
sua relazione con Floronia era stata, evidentemente provata (cum Floronia stuprum
fecerat).
L'amante venne frustato con verghe con tale violenza da morire sotto i colpi
di sferza (ut inter verbera expiraret).
La città, turbata dal seppellimento delle Vestali, 'celebrò' poi sacrifici umani,
attuati mediante il seppellimento di prigionieri vivi (si veda più oltre, al § 4).
Per tutte le sventure capitate quell'anno venne persino inviata un'ambasceria
al lontano oracolo di Delfi per chiedere quali preghiere e quali cerimonie avrebbero
potuto placare gli dei<69> •
10) caso del 114-113a.c.o 0>
Vestali accusate di incestum: Aemilia, Licinia e Marcia
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Mentre il II secolo a.e. stava per chiudersi, furono alcune sconfitte militari,
la minaccia di invasione dell'Italia da parte dei Cimbri e dei Teutoni, unitamente
67) Un altro 'miracolo' aveva riguardato in precedenza la celebre Vestale Claudia Quinta, sospettata
a sua volta di incestum, nel 204 a.C.: essa avrebbe disincagliato, tirandola semplicemente con la
propria cintura, la nave che portava a Roma la statua della Magna Mater, per dimostrare la propria
innocenza, rivelando così la protezione che la stessa dea voleva dedicarle (cfr. Ovidio Fasti IV, 247;
Erodiano I, li, 4; S.Girolamo. Adversus lovinianum I, 41 cit.: Claudia virgo vestalis cum in
suspicionem venisse! stupri, et simulacrum matris ldaeae in vado Tiberis haereret, ad comprobandam
pudicitiam suamfertur cingulo duxisse navem, quam multa milia hominum trahere nequiverant).
68) FONTI: Livio XXII, 57, 2-3; Plutarco Fabius 18, 3.
69) Cfr. Livio XXII, 57, 4-5.
70) FONTI: Cicerone Brutus 160; Asconio in Mii. 40; Livio Per. LXIII; Plutarco Quaestiones Romanae
83 (284 B); Ossequente Liber Prodigiorum 37; Orosio V, 15, 22.
232
alle sedizioni civili ad eccitare gli animi e, come era accaduto nel passato, si vollero
individuare come capri espiatori di misteriosi e inquietanti prodigi i colpevoli di
comportamenti moralmente riprovevoli.
Ovviamente furono le denunce contro le Vestali a rappresentare il clou dello
scatenamento del fanatismo religioso (e della demagogia che accompagnava
sempre tali fenomeni).
La folla eccitata, in buona sostanza, chiedeva vittime umane: tre Vestali,
Emilia, Licinia e Marcia, vennero allora accusate d'aver avuto rapporti carnali con
esponenti del ceto emergente dei cavalieri (si trattava di una manovra politica che
mirava senz'altro a colpire anche questo gruppo sociale).
Evidentemente le accuse erano state, almeno in parte, costruite.
Lo sappiamo perché il pontefice massimo in carica, Lucio Cecilio Metello
Dalmatico, personaggio autorevolissimo, cercò di resistere alla pressione della
'opinione pubblica' ormai scatenata.
Alla fine i suoi risulteranno giudizi col sapore del compromesso: il 16
dicembre del 114 a.C. egli giudicherà la Vestale Emilia (colpevole); il 18 dicembre71 toccherà a Licinia (innocente); e innocente sarà giudicata anche Marcia, in
una data non precisata, entro la fine di quell'anno.
Ma il furore superstizioso del popolo non era più contenibile e quelle tre
sentenze pontificali non furono accettate: con procedura inaudita uno dei tribuni
della plebe, Lucio Peduceo, presentò a tamburo battente-al!' inizio del nuovo anno
113 a.C. - una proposta di legge ai comizi (che la approvarono, è il caso di dirlo,
'a furor di popolo'): essa sottraeva al pontefice massimo, almeno per tale circostanza<12>,la competenza a condurre il processo alle Vestali, rimettendolo ad un
tribunale straordinario, una quaestio extraordinaria, presieduta da un inquisitore
(quaesitor), individuato nel severissimo Lucio Cassio Longino Ra villa (già console
nel 127 a.C.)<73>.
71) Su queste date cfr. la precisa ricostruzione che fornisce Macrobio Satum. I, 10, 5-6. Si capisce,
comunque, da queste precisazioni cronologiche, che i processi erano sempre condotti verso singoli
imputati, verosimilmente verso ciascuna delle Vestali e verso ciascuno dei loro complici.
72) Non si sa se la rogatio Peducaea avesse istituito una corte permanente per giudicare le Vestali (cioè
una quaestio publica perpetua), sottraendo al pontefice massimo, in via definitiva, il suo potere sul
collegio delle vergini, ovvero se si fosse limitato ad avocare ad un tribunale (esterno al collegio
pontificale) la competenza inquirente e giudicante soltanto nel presente caso. È probabile che sia più
valida la prima ipotesi e, conseguentemente, che fosse stata dettata una vera e propria procedura penale
specifica, attingendo a quella ordinaria.
73) Sul quale, a proposito della vicenda delle Vestali, cfr. un commentatore di Cicerone, Asconio, in
Mii. 40: ... quo tempore Sex. Peducaeus tribunus plebis criminatus est L. Metellum pontificem max.
totumque collegium pontificum male iudicasse de incesto virginum Vestalium, quod unam modo
Aemiliam damnaverat, absolverat autem duas Marciam et Liciniam, populus hunc Cassium creavit
qui de eisdem virginibus quaereret. Isque et utrasque eas et praeterea conplures alias nimia etiam
[altre ancora?]. ut existimatio est, asperitate usus damnavit.
233
Per il popolo fu come votare direttamente la morte delle Vestali, le quali,
nonostante venissero difese da valenti avvocati, quali Lucio Licinio Crasso (per
Licinia<74 l ), vennero infatti tutte e tre condannate e sepolte vive, mentre vari
complici e presunti tali vennero suppliziati<75l.
E non bastò. Tale fu l'orrore pubblico dell'evento che la città volle purificarsi
dal delitto compiuto e, in una spirale di (per noi ripugnante) fanatismo - così come
era accaduto nel 216 a.C. (vd. il precedente caso n. 9)-, venne ordinato un sacrificio
umano, che avremo modo di descrivere più avanti (§ 5).
11) caso del 73 a.C.<76 l
Vestali accusate di incestum: Fabia, Licinia (e forse altre)
esito del processo: assoluzione
Questo caso è poco chiaro. Si intrecciano diverse storie, che forse furono
contemporanee, contestuali (o comunque contermini): alcune Vestali vennero
infatti accusate de incestu, ne conosciamo in particolare due: Fabia, il complice
della quale altri non sarebbe stato se non il famoso/famigerato Lucio Sergio
Catilina, e Licinia, che avrebbe avuto una relazione con M. Licinio Crasso, il
celebre oratore e uomo politico, più tardi console due volte (nel 70 e nel 55) e poi
triumviro con Cesare e Pompeo.
74) Cicerone loda esplicitamente sia la difesa (Brut. 160): defendit postea Liciniam virginem ... in ea
ipsa causafuit eloquentissimus otationisque eius scriptas quasdam partis reliquit. Un altro Crasso,
anni dopo, sarà implicato in una causa di incesto con un'altra Vestale Licinia (vedi caso 11).
75) Conosciamo, sempre grazie a Cicerone (Brut. 122), il nome di uno dei complici, Sergio Fulvio,
che fu difeso da un altro celebre avvocato, C. Scribonio Curione, di cui Cicerone loda pure l'arringa:
pro Ser. Fulvio de incestu nobilis oratio, citandone anche un breve spunto nel de lnventione I, 43. La
presenza degli avvocati dimostra che una procedura doveva essersi definitivamente stabilita anche nei
processi alle Vestali, lasciando al Pontefice Massimo un ruolo marginale, se non di componente della
corte giudicante. Una brevissima riflessione sulla possibile tecnica difensiva adottabile nei giudizi
contro le Vestali: gli avvocati avrebbero potuto ragionevolmente far leva esclusivamente sulla
violenza subita dalle vergini, scaricando sui loro coimputati tutta la responsabilità. In effetti, di fronte
alla verificabilità, ora diremmo 'medico-legale', dell'evento, solo il trasferimento della responsabilità
sul violentatore e l'appello alla non volontarietà della partecipazione all'atto sessuale da parte della
Vestale avrebbe potuto salvare la vita alla malcapitata. Un caso di violenza carnale su di una Vestale
(della quale non conosciamo il nome né conosciamo la sorte del suo aggressore) si verificò attorno
all'anno 42 a.C., come narra Dione Cassio XLVII, 19, 4, che anzi, ricollega quest'aggressione,
compiuta su di una Vestale che se ne tornava sola da una cena e che non era stata riconosciuta,
coll'assegnazione, quasi a body guard di un littore ad ogni Vestale (cfr. Giannelli, Il sacerdozio, p.
84).
76) FONTI (perla vicenda relativa a Fabia): Sallustio Cat. 15, 1; 35; Cicerone Cat. IIl,4, 9; Brutus 236;
Orosio VI, 3, l; (per la vicenda relativa a Licinia): Plutarco Crassus 1, 4-5; Mora/. 89 E. Cfr., per
entrambe le storie, lo studio di R.G. Lewis, Catilina and the Vesta/, "The Classica! Quarterly", 51
(2001), pp. 141-149.
234
Sallustio scrive che l' adulescens Catilina "si era macchiato di molti amori
disonorevoli e sacrileghi (nefanda stupra)", uno dei quali avrebbe riguardato
proprio Fabia, una Vestale che era sorellastra di Terenzia, la moglie di Cicerone.
Si trattò di un vero e proprio scandalo pruriginoso, un "affaire delle Vestali"<77> :
Fabia, accusata di incestum con Catilina, venne difesa dal celebre oratore M. Pupi o
Pisone, che trasse notevole fama dall'aver portato a termine con successo il
processo: Fabia virgo Vestalis causam incesti dixerat, cum ei Catilina obiceretur,
eratque absolutd 18> •
Anche altre Vestali, di cui non ci è stato tramandato il nome<79>, sarebbero state
coinvolte nell'inchiesta che ne seguì, ma tutte furono assolte (di virginum
absolutionem, al plurale, parla infatti Cicerone<80>). Decisivo sarebbe stato l' intervento 'politico' di un componente del collegio pontificale Q. Lutazio Catulo
(console nel 78 a.C.), personalità all'epoca assai influente e strategicamente ben
collocata, dato che probabilmente svolgeva le funzioni di supplente del Pontefice
Massimo Q. Cecilio Metello Pio, allora assente, impegnato com'era in Spagna nella
guerra contro Sertorio: infatti uno storico smaliziato come Sallustio non mostra
alcun dubbio sulla colpevolezza della Vestale, e soprattutto del suo seduttore,
Catilina. Una fonte tarda, che riflette tuttavia testimonianze ben più vicine ai fatti,
ha scritto: Catilina incesti accusatus, quod cum Fabia virgine Vestali commisisse
agrguebatur, Catuli gratia fultus evasit 80 •
Non conosciamo tuttavia l'andamento del giudizio, e soprattutto resta oscuro
il secondo caso (sempre che non sia lo stesso), quello che coinvolse la Vestale
Licinia con Crasso, anche perché sappiamo con certezza della esistenza in vita della
stessa Vestale nel 69 e nel 63 a.C., quindi fino ad almeno dieci anni dopo questi
eventi<82> • Secondo Plutarco, un certo Plozio accusò Licinia di aver avuto una
77) Cfr. R. Syme, Sallustio, Paideia, Brescia 1968, pp. 101-103.
78) Asconio in or. in toga candida, 82.
79) Al di là di Licinia, conosciamo tuttavia il nome di quattro Vestali che, assieme a lei nel 69 a.C.,
quattro anni cioè dopo questi fatti, parteciparono ad una sontuosa cena di cui abbiamo già fatto cenno
alla precedente nota 27: si trattava di Popilia, Perpennia e Arruntia. Probabilmente qualcuna di loro
potrebbe essere stata coinvolta nello scandalo.
80) Cat. III, 4, 9: sulle modalità di tale assoluzione non entra Cicerone, che, come ricordato, era
imparentato con la principale sospettata; Asconio in or. in toga candida, 82 loderà infatti la nobile
reticenza dell'oratore. È stato ipotizzato che il giovanissimo Clodio (altra figura torbida degli anni
successivi) avrebbe condotto l'accusa al processo, mettendoisi così in luce in una cause célèbre come
questa: lo stesso Clodio, anni dopo sarebbe stato accusato di sacrilegio, per aver partecipato muliebri
vestitu alle celebrazioni rigorosamente femminili in onore della Bona Dea, e sottoposto a giudizio per
questo.
81) Orosio VI, 3, 1.
82) Cfr. le testimonianze di Macrobio Saturn. III, 13, 11 (per il 69 a.C.) e Cicerone pro Murena 13
(per il 63 a.C.).
235
relazione carnale con Crasso: entrambi furono perseguiti, ma se la cavarono.
Crasso, in realtà, avrebbe 'corteggiato' la Vestale per ragioni d'affari, più che di
cuore: egli infatti voleva a tutti i costi acquistare da lei una proprietà terriera cui
teneva molto per ragioni speculative, e non lasciò in pace la sacerdotessa - a quel
che pare - "prima di esser vem.1~2in possesso della proprietà"<83l .
Entriamo ora nel periodo imperiale: è il princeps, l'imperatore, a prendere
nelle sue mani i poteri di indirizzo sui culti; è l'imperatore ad assumere il pontificato
massimo, e quindi a dirigere anche il culto di Vesta.
Nella loro qualità di pontifices maximi sono pertanto gli imperatori a promuovere e a dirigere i successivi processi alle Vestali.
12) caso del 82-83 d.C.<84>
Vestali accusate di incestum: Varronilla e le due sorelle Oculatae
esito del processo: condanna a morte (evitata da tutte e tre col suicidio)
Racconta Svetonio che Domiziano attuò un rigido piano di moralizzazione
che lo portò a prendere in considerazione gli incesta Vestalium virginum ('le
violazioni della castità delle Vestali'), a patre suo etfratre neglecta ('che suo padre
[Vespasiano] e suo fratello [Tito] non avevano neppur preso in considerazione');
prima conseguenza fu la condanna di tre Vestali, "perché non avevano saputo
astenersi da rapporti sessuali"<85>• Si trattò di due sorelle Oculate e Varronilla, che
tuttavia non furono sepolte vive, avendo l'imperatore concesso loro di scegliere il
genere di morte che preferivano (liberum mortis permisisset arbitrium). I loro
complici (corruptores) salvarono la vita perché vennero condannati alla relegazione (probabilmente in un'isola). L'esordio di Domiziano nei panni di moralizzatore
delle Vestali si rivelò quindi, stando alle fonti, abbastanza mite<86> : non sappiamo
se fu in questo processo, che aveva coinvolto praticamente la metà del collegio delle
Vestali, ad uscire assolta la virgo maxima Cornelia, che sappiamo appunto essere
stata absolutam olim ('una prima volta assolta' - vd. quindi il successivo caso 13).
83) Vd. Plutarco Crassus 1, 5.
84) Regnante Domiziano - FONTI: Svetonio Domitianus 8, 4; Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana,
VII, 6; Cassio Dione LXVIII, 3, 3-4.
85) Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VII, 6 pone l'accento sul fatto che le Vestali avrebbero
mancato anche verso la dea 'Atena Iliaca', cioè la Minerva romana (di provenienza troiana),
rappresentata all 'intemo nel penetrale dell' aedes Vestae dalla statuetta del Palladio, uno dei pignora
mistici che assicuravano la sicurezza di Roma. Domiziano era un fanatico seguace di Minerva, che
onorava addirittura superstitiose, come dice Svetonio Domitianus 15, 3. Cfr. comunque F. Grosso,
La vita di Apollonio di Tiana come fonte storica, "Acme" 7, 1954, pp. 445-447.
86) Una valutazione analoga a quella di Svetonio si trova in Cassio Dione LXVIII, 3, 4.
236
13) caso del 89-90 d.C.<87>
Vestale accusata di incestum: la virgo maxima Cornelia
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Racconta ancora Svetonio che Domiziano mox Comeliam maximam virginem
absolutam olim, dein longo intervallo repetitam atque convictam defodi imperavit
stupratoresque virgis in Comitio ad necem caedi ('quando la vestale maggiore
Cornelia, già assolta una prima volta [per la stessa imputazione] fu nuovamente
accusata [di incestum] dopo un lungo intervallo e si dimostrò che aveva mancato
ai suoi doveri, ordinò di seppellirla, mentre coloro che avevano avuto rapporti
carnali con lei vennero frustati a morte nel comizio<88> '): si salvò solo un uomo di
rango pretorio, che era stato torturato estorcendogli una confessione dubbia e che
pertanto venne esiliato<89>•
Il quadro che esce dalla sintetica narrazione svetoniana è quello di una
disinvolta e disinibita vicenda, frutto probabilmente di un allentamento della
vigilanza e di una diversa e più laica visione delle cose, cui l'impegno moralizzatore
di Domiziano intendeva tuttavia por fine. Lo stesso Plinio il Giovane dice della
vestale che fu condotta ad supplicium ne scio an innocens, certe tamquam innocens
( 'andò al supplizio non so se innocente, ma certamente come se lo fosse stata [per
il suo nobile comportamento]') <90>.
14) caso del 214 {?) d.C.<91>
Vestali accusate di incestum: quattro ignote<92>
esito del processo: condanna a morte (eseguita)
Sappiamo dallo storico Erodiano che Caracalla, nel perseguitare i partigiani
87) Regnante Domiziano - FONTI: Svetonio Domitianus 8, 4; Plinio il Giovane Epist. IV, 11; cfr. forse
anche un'allusione di Stazio Silvae I, 1, 33-36.
88) Conosciamo almeno uno di loro, un cavaliere romano di nome Celere che proclamò fino all'ultimo
la propria innocenza (cfr. Plinio il Giovane Epist. IV, 11).
89) Si trattava di Valerio Liciniano, una figura assai ambigua ed anche un po' losca (almeno a sentir
Plinio il Giovane Epist. IV, 11).
90) La narrazione della vicenda che ci offre Plinio (nella già più volte richiamata Epist. IV, 11) è
diversa da quella di Svetonio, ed è tutta tesa a sottolineare l'atto tirannico di Domiziano (nam cum
Corneliam, Vestalium maximam, defodere vivam concupisset, ut illustrari saeculum suum), che aveva
anche violato la stessa procedura prevista nei casi di processi alle Vestali, non riunendo i pontefici
nella Regia (nel Foro), ma in una sua villa fuori città (dove ora sorge il palazzo pontificio di Castel
Gandolfo) e non aveva neppure sentito l'imputata (Plinio non accenna alla mancata presenza di un
avvocato difensore, ma non sappiamo nulla della procedura inquisitoriale contro le Vestali nel periodo
imperiale). Considerato che Svetonio non è certo incline a perdonare Domiziano quando si comporta
da tiranno, si deve ritenere più veritiera la sua narrazione rispetto a quella pliniana.
91) Regnante Caracalla - FONTI: Erodiano IV, 6, 4; Cassio Dione LXXVII, 16.
92) Conosciamo, da epigrafi scoperte negli scavi nell'area dell 'Atrium Vestae, il nome della vestalis
maxima, in carica negli anni dopo il 209 d.C., Terentia Flavo/a: essa, forse, essendo in vita nel 215,
scampò alla strage di Caracalla.
237
di suo fratello Geta da lui appena assassinato, e che era stato suo co-reggente
dell'impero, avrebbe scatenato una repressione senza precedenti.
Ne avrebbero fatto le spese persone appartenenti ad ogni ceto sociale, e "anche
le sacerdotesse di Vesta furono sepolte vive, sotto l'accusa di non aver tenuto fede
all'obbligo della verginità". La ùrnmmatica esecuzione delle Vestali (sembra in
numero di quattro), coincide significativamente con emissioni monetarie dello
stesso imperatore, che lo mostrano sacrificante proprio nel tempio di Vesta. Ma la
strage delle Vestali ordinata da Caracalla fu forse dovuta soprattutto alla sua
instabilità mentale, che era caratterizzata da ricorrenti suoi terrori religiosi e da
ossessioni mistiche.
Il fatto lascia tuttavia interdetti se si pensa che l'imperatore Settimio Severo
e sua moglie Giulia Domna, i genitori di Caracalla, solo pochi anni prima, si erano
adoperati alla ricostruzione proprio della aedes Vestae e della attigua residenza
delle vergini Vestali(93 > dopo che nel 191 d.C. un terribile incendio aveva devastato
Roma: la coppia imperiale aveva voluto esplicitamente dimostrare una notevole
venerazione per questo culto tradizionale romano.
L'attuale sistemazione urbanistica dell'area sacra nel Foro rappresenta, anzi,
proprio l'esito del restauro e della ricostruzione severiana.
Ma i più immediati successori di Severo si sarebbero dedicati a divinità nuove
e comunque grandi furono le stravaganze di alcuni di essi.
Anche Eliogabalo, uno dei successori di Caracalla, fu particolarmente se non
morbosamente attratto dal culto di Vesta, e ne avrebbe persino violato la sacertà del
tempio: ignem perpetuum extinguere voluit ('avrebbe voluto spegnere il fuoco
etemo'<94>); in virginem Vestalem incestum admisit ('commise incestum con una
vergine Vestale'<95>)e tentò persino di rubare il sacro reliquiario, ingannato tuttavia
abilmente dalla virgo maximd 96 > •
Sarebbero stati i successori dei Severi, i cosiddetti imperatori illirici, cultori
del tradizionalismo romano, a riportare per l'ultima volta in auge il vetusto culto di
Vesta(97 >
93) Cfr. G. Rodenwaldt, La transizione all'arte della tarda antichità, in Università di Cambridge,
StoriaAnticaXI/, 2, Crisi e ripresa dell'impero 193-324d.C. (1961), tr. it.11Saggiatore,Milano 1970,
p. 705.
94) Cfr. Scriptores Historiae Augustae Hel. 6, 7; per l'irruzione di Eliogabalo nel tempio di Vesta vd.
la nota 7.
95) Cfr. Scriptores Historiae Augustae Hel. 6, 6 (ed Erodiano V, 6, 2; Cassio Diane LXXX, 9, 3); si
tratta del suo 'matrimonio' con la Vestale Aquilia Severa, sposata nel 221 d.C., fatto che, com' appare
evidente, non poteva che essere considerato scandaloso.
96) Cfr. Scriptores Historiae Augustae Hel. 6, 8. Vd. sopra la nota 19 (in fine).
97) Cfr. W. Ensslin, Le riforme di Diocleziano, in Università di Cambridge, Storia Antica XII, I cit.,
p. 558. Conosciamo, sempre da epigrafi ritrovare, i nomi di alcune vesta/es maximae in carica dopo
questo caso: Campia Severina (240 d.C.); FlaviaMamilia (242 d.C.); Flavia Publicia (247-257 d.C.);
Coelia Claudiana (286 d.C.); e Terentia Rufilla (300-301 d.C.); sulle due ultime cfr. anche PLRE, I
(1971), s.vv. Coelia Claudiana, p. 206 e Terentia Rufilla, p. 773.
238
15) caso del 370-380 d.C.<98>
Vestale accusata di incestum: Primigenia
esito del processo: condanna a morte (con tutta probabilità non eseguita)
Simmaco (Q. Aurelius Symmachus), celebre senatore e oratore pagano,
famoso competitore con Sant' Ambrogio nell?..controversia sull'ara della Vittoria<99>,
si trovò, in qualità di pontifex maior-100>,ad esercitare una vigilanza sulle
Vestali.
Una di queste (Primigeniae dudum apud Albam Vestalis antistitis), che
prestava il suo servizio religioso ad Alba (quae sacra Albana curabat), sarebbe
venuta meno ai suoi obblighi di castità: tanto lei, anzi, quanto il suo amante (un tale
Maximus), sarebbero stati rei confessi.
Il fatto, accaduto fuori Roma, sembra non abbia destato poi grande scandalo
Simmaco tuttavia (la data è incerta, ma in un periodo precedente il 382 d.C.),
a nome del collegio pontificale (collegium nostrum), si rivolse con una lettera al
praefectus Urbi (al prefetto della città [di Roma]), che tuttavia tergiversò; allora
scrisse al Vicarius della città di Roma, chiedendo il suo intervento per provvedere
all'esecuzione della condanna: la colpevole doveva essere sepolta viva, come
prescriveva la tradizione (more institutoque maiorum) 001 >.
Quello che il senatore temeva - mentre il Cristianesimo trionfava (anzi,
proprio per questo!) - era la punizione che gli dei avrebbero potuto far cadere su
Roma a causa della trascuratezza dei tradizionali culti patrii e, soprattutto, dalla
neglegentia sacerdotumo 02>.
98) Regnante Graziano ? - FONTE: Simmaco Epist. IX, 147 e 148; cfr. PLRE, I (1971), s.vv.
Primigenia, p. 725 e Symmachus 4, p. 866.
99) Si può leggere riunita in un volumetto (Simmaco-Ambrogio, L'altare della Vittoria, Sellerio,
Palermo 1991).
100) A Simmaco sono attribuiti nelle fonti, alternativamente, i titoli di pontifex maior o di pontifex
Vestae, che devono considerarsi sinonimi: quando, con l'imperatore Aureliano il nuovo collegio dei
pontijices Solis entrò a far parte dell'antico collegio dei pontefici, questi ultimi assunsero la
denominazione di pontifices Vestae (cfr. L. Cracco Ruggini, Il Paganesimo romano tra religione e
politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del Cannen contra paganos, "Memorie dell' Accademia Nazionale dei Lincei", XXIII, 1979, pp. 25-26, n. 57; p. 64, n. 179; p. 69, n. 201).
101) Cfr. ancora L. Cracco Ruggini, Il Paganesimo romano tra religione e politica, cit., pp. 25-26,
n. 57.
102) Un caso clamoroso di abbandono del sacerdozio delle Vestali per passare al Cristianesimo,
abbandonando i vecchi culti, è quello compiuto dalla vestalis maxima Claudia. Il suo nome, eraso
quasi perintero (resta solo l'iniziale C) compare in un'iscrizione datata 6 giugno 364 d.C.: la damnatio
memoriae che da parte pagana si volle effettuare nei suoi confronti non ha sortito successo dato che
conosciamo il nome di questa sacerdotessa dal poeta cristiano Prudenzio (Peristephanon Il, 527-528,
cfr. PLRE, I (1971), s.v. Claudia 4, p. 206).
239
Ma poco dopo questo ultimo caso, di cui non conosciamo l'esito, tanto il culto
di Vesta, quanto il collegio delle Vestali sarebbero stati soppressi<103>.
4. L'esecuzione della sentenza nei confronti delle Vestali condannate
Veniamo ora, chiuso il dossier, alla descrizione della tecnica di esecuzione
della condanna a morte della Vestale per seppellimento 004 >.
Essa non può essere materialmente uccisa dal potere della città, né da quello
religioso (il pontefice) né da quello politico (i magistrati): essendo stata consacrata
a Vesta è comunque sacra. Deve quindi essere 'semplicemente' consegnata al
mondo dei morti, il quale dovrà comunque accoglierla<105>.
La procedura ci è descritta accuratamente da Plutarco<106>: il luogo della
§
103) L'ultimo imperatore a portare il titolo di pontifex maximus fu Graziano, che vi rinunziò nel 382
a.C.: il venir meno di questa figura chiave per il culto di Vesta e per il sacerdozio delle Vestali
(unitamente alla soppressione delle immunità e delle sovvenzioni statali) condusse rapidamente alla
loro abolizione, disposta dall'imperatore Teodosio attorno al 390-394 d.C. (l'ultima virgo vestalis
maxima di cui conosciamo nome e storia è Coelia Concordia sicuramente vivente, e attiva, tra 380 e
385 d.C.: è dedicataria di una statua a Vettio Agorio Pretestato, un campione della resistenza degli
ultimi difensori dei culti pagani; cfr. PLRE, I (1971), s.v. Coelia Concordia, pp. 218-219. Di una
vestale superstite, dopo il 394 d.C. che avrebbe lanciato maledizioni contro la principessa Serena,
figlia dell'imperatore Onorio, e sposa del generale Stilicone, ci informa lo storico pagano di lingua
greca Zosimo (V, 38, 1-5).
La 'Casa' delle Vestali sarebbe stata adibita ad alloggio per il personale della corte imperiale e, in
seguito, di quello della corte pontificia. Dopo il sec. XI non ci sono più notizie dell'edificio che da
allora cadde in rovina.
104) Pare infatti destituita di fondamento la pena alternativa della precipitazione dalla rupe Tarpeia
della Vestale rea di incestum: effettivamente ci sono alcune fonti retoriche che incidentalmente
suggeriscono tale possibilità, ma non paiono fededegne. Mi riferisco, in particolare, a Seneca Controv.
I, 3, 1-ss. (ab Tarpeio); a Quintiliano lnst. VII, 8, 3 (ut praecipitet urincesta); mentre Orazio Carm.
30, 3, 8-9 (che secondo qualcuno farebbe un cenno a questa pena) si riferisce senz'altro ad una
cerimonia ordinaria, che nulla ha a che fare con l'esecuzione di una Vestale.
105) La notizia di Tacito (Anna/es VI, 4) secondo la quale adfici virginem inauditum habebatur
('condannare al capestro [a morte] una vergine era inaudito') ci chiarisce soltanto che non sarebbe
stato possibile uccidere una vergine Vestale con mezzi materiali (strangolandola, ad es., ovvero
tagliandole la testa), secondo la 'procedura' ordinaria, come di fronte ad una colpevole di reato
capitale. In realtà la sorte della Vestale rea di incestum non deriva dall'applicazione della massima
pena capitale, quanto da un'espiazione collettiva, e non va giudicata secondo un metro astrattamente
'penalistico'. Ricordo che nell'esempio di Tacito, sopra rammentato, una fanciulla vergine, la figlia
di Seiano, sarebbe stata stuprata dal camefice,primadi essere strangolata, per salvaguardare la norma
che stabiliva che una vergine non avrebbe potuto essere giustiziata. In realtà, indipendentemente dalla
(forse leggendaria) notizia di Tacito, siamo ad un rapporto inverso rispetto alla questione delle
Vestali: queste sono sepolte vive perché hanno violato la loro verginità; la fanciulla di Tacito invece
non avrebbe potuto essere strangolata fino a che non fosse stata sverginata.
106) Numa 10, 8-13 (si legga anche la descrizione della orgogliosa discesa nella camera sotterranea
della virga maxima Cornelia, in Plinio il Giovane Epist. IV, 11 - vd. nel dossier il caso n. 13 e la
successiva nota 108).
240
sepoltura è un terrapieno collocato nel cosiddetto campus Sceleratus, nei pressi
della Porta Collina<101l; qui è predisposto un ipogeo, una stanza sotterranea, non
molto grande, con unico accesso dall'alto: all'interno vi si trova un giaciglio, con
delle coperte, una lucerna accesa e una piccola provvista del necessario per vivere,
pane, un vaso d'acqua, latte, olio, "come se i Romani volessero allontanare da sé
la colpa di far morire di fame una persona consacrata con i riti più solenni".
La condannata è collocata in una portantina ermeticamente chiusa (quasi
sigillata), in modo che essa non possa essere vista, e neppure si possa udire
all'esterno la sua voce.
La portantina sfila per il centro di Roma, mentre tutti i passanti si scostano "e
non c'è spettacolo più agghiacciante, né giorno più lugubre per la città".
Quando il corteo arriva al luogo del seppellimento il pontefice massimo recita
delle "preghiere misteriose", mentre la portantina viene dissigillata: il pontefice fa
uscire la Vestale, e, seguito da alcuni aiutanti, la accompagna alla botola di accesso
dalla quale essa viene fatta scendere lungo una scala che conduce alla stanza
sotterranea 008 l •
Nel momento in cui la condannata è scesa nella cella sotterranea il pontefice
si ritira senza voltarsi indietro, la scala viene tolta, la botola richiusa e il terreno vi
viene riversato sopra e quindi livellato.
La morte sarebbe seguita - non sappiamo dopo quanto tempo - per asfissia o
comunque per inedia. Le fonti attestano che il pontefice massimo avrebbe dovuto
celebrare ogni anno, sul luogo di sepoltura delle Vestali, una cerimonia di
purificazione<109l.
107) Si tratta di un luogo collocabile a Roma all'incrocio tra le attuali via XX Settembre e via Goito
(vi sorge ora l'edificio del Ministero delle Finanze) dove, nel 1872, vennero alla luce alcune vestigia
della Porta; il Campus, invece si trovava tra la Porta e l'attuale slargo urbano di Piazza Indipendenza,
lungo la direttrice della via Goito. Cfr. anche L. Richardson jr., A New Topographical Dictionary, p.
68 (Campus Sceleratus): "an area in the agger just inside Porta Collina and south of Vicus Portae
Collinae".
108) Plinio il Giovane (Epist. IV, 11) descrive la orgogliosa 'discesa' della virgo maxima Cornelia:
cum in illud subterraneum demitteretur haesissetque descendenti stola, vertit se ac recollegit, cumque
ei manum camifex daret, aversata est et resiluitfoedumque contactum "mentre veniva introdotta nella
famosa stanza sotterranea, la stola essendosi impigliata, si volse indietro per ricomporla, ed avendole
il carnefice offerta la mano, volse altrove lo sguardo, ritraendosi in se stessa, e respinse il contatto
ripugnante". Allora, essendo pontifex maximus lo stesso imperatore, il compito di introdurre la Vestale
condannata nella stanza sotterranea, era stato forse assegnato a dei carnefici.
109) Cfr. Plutarco Quaestiones Romanae 96 (287 A).
241
§ 5. Appendice - Forme peculiari di 'sacrificio umano' in Roma antica
Abbiamo già fatto cenno, trattando dei casi del 216 a.C. (dossier, n. 9) e del
113 a.C. (dossier, n. 10), ai sacrifici umani che avevano seguito il seppellimento
rituale delle Vestali, quasi in una spirale di insania religiosa (ovviamente dal punto
di vista di noi moderni). Si trattò, in entrambe le circostanze, del seppellimento da vivi - di quattro individui (due coppie - maschio e femmina - di Galli e di
Greci<110>): luogo dell'evento il Foro Boario, in Roma.
Ma procediamo per ordine, dato che è solo dagli anni 228-226 a.C. che
iniziamo a conoscere i dettagli di tale terribile pratica, probabilmente assai più
antica.
Seppellimenti umani di Gallo-Greci nel 228-226 a.c.<111>
Sotto la minaccia di una invasione gallica, i Romani, atterriti forse da qualche
oracolo che annunziava come la città sarebbe stata occupata dal nemico, decisero
di "attuare l'oracolo", anticipandone l'esito - se si può dire - e, contestualmente,
annullandone gli effetti: allo scopo seppellirono vivi nel Foro Boario una coppia di
Galli ed una coppia di Greci, in rappresentanza dei popoli che avevano sconfitto i
romani.
I Galli, infatti - "il popolo, a quanto pare, che i Romani temettero più di
qualsiasi altro" 012 > -, erano stati autori, con Brenno, della leggendaria presa di
Roma all'incirca nel 390 a.C.; i Greci erano responsabili addirittura della mitica
conquista di Troia, ritenuta l'antesignana di Roma. Essi sarebbero stati posti in tal
guisa nella condizione di 'occupare' il suolo di Roma, senza tuttavia nuocere alla
città e allo stato.
Seppellimenti umani di Gallo-Greci nel 216 a.C.<113>
Il sacrificio venne replicato nel 216, quando la sconfitta di Canne provocò in
Roma il timore superstizioso di un attacco di Annibale alla stessa città, rimasta
indifesa; era stata da poco sepolta viva una Vestale: exfatalibus libris sacrificia
aliquot extraordinariafacta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca inforo
bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo consaeptum, iam ante hostiis
humanis, minime Romano sacro, inbutum<114> ('secondo le indicazioni dei libri
profetici, furono compiuti alcuni sacrifici straordinari, tra i quali un uomo ed una
110) Forse prigionieri di guerra, o schiavi (o condannati), provenienti da quelle aree geografiche.
111) FONTI: Polibio II, 22, 7-ss.; Plutarco Marcellus 3; Orosio IV, 13, 3; un semplice accenno si trova
in Livio XXII,57, 6.
112) Plutarco Marcellus 3.
113) FONTI: Livio XXII, 57, 6.
114) Livio XXII, 57, 6.
242
donna della Gallia e un uomo ed una donna della Grecia vennero sepolti vivi nel
Foro Boario, in una buca chiusa intorno da massi di pietra, che già in precedenzaO15>
era stata riempita di vittime umane, con un rito assai poco romano').
Livio sembra quasi volersi scusare con i propri lettori dicendo minime
Romano sacro, 'che si trattava cioè di un rito assai poco romano'.
Seppellimentiumani di Gallo-Grecinel 113 a.c.<116>
In un clima molto mutato, ma tuttavia reso incandescente da controversie
civili e da brucianti sconfitte militari, subito dopo il seppellimento di ben tre Vestali
(e della sanguinaria uccisione dei loro complici), si ripeté ancora una volta il rito
dell'interramento delle due coppie di Gallo-Greci, per placare ancora gli dei con
vittime umane<117>.
Questo caso risultò tuttavia l'ultimo: probabilmente più che l'orrore suscitato
dal sacrificio fu la sempre maggiore 'laicizzazione' della società a far sì che la
maggioranza dei politici romani si impegnasse a sopprimere definitivamente tale
usanza. Nel 97 a.e., infatti, un senatus consultum factum est- scrive Plinio 118 - ne
homo immolaretur ( 'venne approvato un senatoconsulto che disponeva che non si
dovessero mai più sacrificare vittime umane').
È evidente come a noi paia- oggi- sconvolgente come tale divieto di sacrifici
umani non si estendesse alle Vestali colpevoli di incestum, e, in effetti, abbiamo
visto eseguire seppellimenti rituali su di esse ben dopo l'approvazione di quel
senatus consultum, ma, come si è detto, il seppellimento delle Vestali, oltre a far
parte del costume tradizionale Romano (come si è visto dalle ultime testimonianze
della fine del IV secolo d.C.), non era affatto avvertito come un 'sacrificio umano',
ma, come si è detto, rappresentava piuttosto il tentativo rituale di rimuovere espiandola - la macchia di impurità formatasi nel corpo sociale.
115) Livio si riferisce qui all'episodio del 228-226 a.C.
116) FONTI: Plutarco QuaestionesRomanae 83 (284 B).
117)Tuttavia non si può utilizzarela valutazionemorale modernaper giudicarea tali episodi,dei quali
anche Livio o Plutarcomostravanovergogna.Gli studi più approfonditiche sono stati condottisul rito
di seppellimentomostrano costanti precise: la sua messa in atto non può essere letta come qualcosa
di improvvisato,di un rito magari assunto dall'esterno, senza alcun rapporto con il sistema religioso
romano. Tanto meno il seppellimento nel Foro Boario può essere visto (o letto) come un ritorno
aberrantealla barbarie, una sortadi fuga irrazionale:si trattava in realtà di cerimonieassai antiche, con
prove e riscontri certi di efficacia, e quindi raccomandabili (e forse indispensabili)per far fronte a
periodi di crisi militare o sociale.
·
118) Naturalis Historia XXX, 12 (cfr. la precedente nota 50).
243
Eliminazionisacrali.
In analogia si possono richiamare anche le pratiche di 'eliminazione' degli
ermafroditi (monstra), che venivano sempre abbandonati in mare (dove sarebbero
annegati), o bruciati, con una procedura crudelmente sacrale, ma che appunto non
intendeva uccidere dei bambini (spesso appena nati), ma eliminare la mostruosità
di tali nascite, che, mescolando i sessi, creavano sconvolgimento nell'equilibrio
della natura, e dovevano pertanto essere espiate.
6. Bibliografia
La bibliografia sulle Vestali è assai ampia. Alcuni libri o saggi sono già stati segnalati nella note,
quando la specificità della citazione lo richiedeva. Pertanto si suggeriscono di seguito, solo studi e
rassegne di carattere generale sulla Religione Romana e sulle Vestali:
- CarmineAMPOLO,La nascita della città, in Storia di Roma. Voi. I. Roma in Italia, Einaudi, Torino
1988,pp. 153-180
-Tim CORNELL,Some Observations on the "Crimen Incesti", in Le Délit religieux dans la cité
antique (Table Ronde, Rome, 6-7 Avril 1978), École Française de Rome, Roma 1981, pp. 27-37
- Gaetano DE SANCTIS,Storia dei Romani, La Nuova Italia, Firenze (1953=) rist. 1973, voi. IV,
parte II, tomo I
- George DUMÉZIL, La Religion romaine archai'que avec un 'Appendice sur la Religion des
Etrusques, Paris 1974, tr. it., La Religione romana arcaica con una appendice su la Religione degli
Etruschi, Rizzoli, Milano 1977
- Augusto FRASCHETTI,Le sepolture rituali del Foro Boario, in Le Délit religieux dans la cité
antique, cit., pp. 51-115
- Giulio GIANNELLI,Il sacerdozio delle Vestali Romane, pubblicazioni del R. Istituto di Studi
Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze - Sezione di Filosofia e Filologia, Firenze 1913
- Pierre GRIMAL,Enciclopedia dei Miti, 1979, tr. it. Garzanti, Milano 1987
- F. GillZZI, Aspetti giuridici del sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968
- Cari KOCH, s. v. Vesta, in Real Encyclopiidie der Classischen Altertumwissenschaft, voi. VIII A
2,1958, cc. 1717-1776 (Vesta/es sub D, cc. 1732-1753)
- Kurt LATTE, Romische Religiongeschichte, C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, Mtinchen
1960
- Gerhard RADKE, Die Gotter Altitaliens, Verlag Aschendorff, Miinster 1965
- Dario SABBATUCCI, La Religione di Roma antica. Dal calendario festivo ali' ordine cosmico, Il
Saggiatore, Milano 1988
- fohn SCHEID,Le délit religieux dans la Roine tardo-républicaine, in Le Délit religieux dans la cité
antique,cit.,pp.117-171
- fohn SCHEID,La Religione a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983
- Cari O. THULIN, Die Etruskische Disciplin (1905-1909), ristampa Wissenschaftliche
Buchgesellschaft;Darmstadt 1968 (I-III)
- Georg WISSOWA, Religion und Kultus der Romer, C.H. Beck' sche Verlagsbuchhandlung,
Mtinchen 19122
Per quanto concerne le opere degli autori antichi citati nelle note, una buona parte è attualmente
reperibile in edizioni, spesso economiche, in traduzione italiana e spesso anche con il testo originale
a fronte.
244
Mario Ulliana
PER DAR VITA A UN MUSEO DEL BACO DA SETA
La Manchester del Veneto.
Luigi Marson, nella "Guida di Vittorio e suo Distretto", 1889, ci offre un
quadro della situazione economica locale e, per quanto attiene la bachisericoltura,
scrive:
«Del setificio diremo che, prima dell'arenamento serico e dell'introduzione
dei sistemi più perfezionati, moltissime famiglie tenevano le loro filande a fuoco.
Basti dire che Cison sola ne avea ben 20; si imagini Vittorio!
Sulla rovina pertanto delle piccole e grandi filande a fuoco sono sorte le
filande a vapore,benché ne rimangano tuttavia alcune a vecchio sistema. Le une e
le altre sono concentrate per lo più nel capo-luogo del Distretto, che è divenuto una
piccola Como o Manchester. Si contano dieci.filande a vapore, di cui otto a Vittorio
(5 a Cèneda, 2 a San Giacomo, 1 a Savassa) e le altre 2 a Cison e Pinidello, con
562 bacinelle e più di 1000 lavoratrici per tutto l'anno; quattro filande a mano con
100 bacinelle e 250 lavoratrici per tre mesi all'anno a Vittorio, senza contare altre
12 piccole filande, pure a mano, sparse qua e là negli altri comuni del Distretto ma
di poche bacinelle ciascuna.
Aggiungasi che le attuali filande a vapore sono suscettibili di un maggior
numero di bacinelle mentre la purezza dell'acqua del Meschio, tanto celebrata
specialmente per la.filanda.fa sperare che non solo queste bacinelle funzioneranno
tra breve, ma che sorgeranno pure nuove filande. Il consumo annuo dei bozzoli si
ritiene di circa Kg. 737.000, senza tener conto di quello delle piccole.filande afuoco
(o a mano) sparse nel distretto, inclusi però i 20.000 kg. circa impiegati per la
245
bachicoltura.
Notasi che la provincia di Treviso nell'86 ha dato kg. 1.503.974 di bozzoli; e
considerando che il distretto di Vittorio, uno degli otto della provincia, ne può dare
a un dipresso 188.000, ne verrebbe di conseguenza che pel consumo della filanda
se ne importino in esso, per lo più dalla provincia, kg. 450.000 circa. Questo
calcolo però risulterebbe stando ai dati dell'anno1886 accennato.
La, seta greggia che si ottiene dal consumo accennato di bozzoli, sarebbe di
circa kg. 73.000, i cascami di kg. 29.100 e le bucate dei bozzoli che servono
ordinariamente per la bacologia di kg. 3.400.
Pare incredibile, dopo quello che abbiamo detto, che Vittorio con le sue acque
privilegiate per la seta, colla intraprendenza sua caratteristica, coi capitali di cui
certamente non difetta, non abbia trovato ancora il modo di fondare qualche
filatoio da ridurre in trame e in organzini le sue distinte qualità di sete gregge o
qualche altro stabilimento per la lavorazione della grande quantità di cascami che
per lo più si trasportano, pagati a prezzo esiguo, da lontano (Svizzera, Francia,
ecc.), mentre lavorati in paese offrirebbero guadagni incalcolabili.»
Un quadro dunque dove l'attività di filanda è preponderante, quella bacologica
modesta e dove si prospettano sviluppi, quasi meravigliandosi che non si veda una
maggiore intraprendenza nella lavorazione della seta. Ad ogni modo va sottolineata
l'impennata di orgoglio che sta in quell'affermazione: Vittorio è diventata una
piccola Como o Manchester!
Una risorsa per l'economia
Una cosa è certa: l'economia della nostra città e dell'intorno si fondava su
questa attività.
E ne restano, inequivocabili, i segni. Ancor oggi, su alcune facciate, nonostante le reiterate tinteggiature, rispuntano scritte come Premiato Stabilimento
Bacologico, Regio Osservatorio Bacologico (in un giardino di via Pasqualis ne è
conservato il grande fastigio recante la corona reale); molti corpi di fabbrica, in
disuso o adibiti ad altra funzione, nella loro struttura denotano la finalità sericobacologica per cui erano stati realizzati; tutto il panorama cittadino e suburbano è
ancora connotato dagli snelli e solidi lineamenti delle ciminiere delle varie filande
un tempo esistenti.
Anche qui da noi, come nel resto della regione, la bacologia era venuta
prosperando, dapprima come elemento integrativo e in un secondo momento
dominante nell'ambito dell'agricoltura.
Era cominciata come piccola attività familiare e casalinga. In un vecchio
opuscolo stampato a Vienna nel 1860, che si intitola "Istruzione ad uso dei maestri
ed alunni delle scuole popolari agrarie" si trova un capitolo "Bacologia popolare"
246
in cui è detto: «Quando l'educazione dei bachi da seta non venga trattata in grande,
non vi è bisogno di appositi stabilimenti o edifici (bigatteri). I filugelli possono
essere educati nelle solite stanze dei contadini, purché queste non siano umide, né
esposte al troppo freddo, od al soverchio calore».
Era una attività ben accetta al contadino: l'anticipazione in denaro era
modesta, l'impegno nell'anno agrario era limitato, perché il ciclo produttivo si
risolveva nell'arco di una quarantina di giorni, c'era la possibilità di usufruire
dell'apporto lavorativo di donne, fanciulli e vecchi, e infine il ricavato recava un po'
di linfa vitale, un timido spiraglio di benessere, al magro bilancio familiare. Era il
primo denaro contante disponibile dell'annata agraria e serviva a coprire le spese
vive (concimi, sementi, ecc.).
In una campagna, allora abbastanza trascurata, con abitazioni insufficienti e
malsane, con le famiglie contadine spesso indebitate, in stato permanente di
precarietà, nell'incertezza della disdetta del contratto, con in raccolti spesso
compromessi da grandinate e siccità, si scopre a un tratto la convenienza della
coltivazione di una pianta, il gelso e dell'allevamento del filugello, il baco da seta,
che recano un buon margine di convenienza .
Dapprima il morèr trova spazio nei ritagli inutilizzati del terreno, su pendici
scoscesi e poi, man mano, in superfici sempre più ampie, alternato ai coltivi, al
punto da limitare persino la coltivazione della vite. Tale incalzante avanzata era
corrispondente a un incremento sempre più cospicuo degli allevamenti, tenuti nelle
bigattiere domenicali (padronali), nelle case coloniche e nei casoni di paglia dei
braccianti. I caseggiati, prima trascurati, ora venivano trasformati per renderli
idonei ad ospitare la nuova attività: Quello che prima non si era sentito come un
dovere per dare una dimora decente agli uomini, ora era colto come una opportunità
vantaggio.sa. Tanto che si disse, nel dare una spiegazione al termine dialettale
cavalier, con cui si designava in dialetto il baco da seta, che lo si chiamava così
perché doveva essere riverito per la sua utilità.
La trattura della seta
Secondo la tradizione, la coltura del baco da seta sarebbe stata introdotta dalle
nostre parti, sulla fine del '600, da una famiglia Dal Bo, originaria del Friuli, che
dal soprannome di· un suo componente Zuanon avrebbe in seguito mutuato
l'appellativo Zanon (il cognome Dal Bo Zanon è ancora oggi diffuso). Essa ebbe
residenza in località Costa, in Basso Caliero, sulla strada che mette in comunicazione il Ponta vai con Costa, denominata poi, e tuttora nella toponomastica, via dei
Corder. Qui fu istituito un filatoio all'aperto, di cui resta ancora traccia nella platea
e nel colonnato del cortile interno. La trattura funzionava- come è accennato nelle
note del Marson - secondo il tradizionale sistema a fuoco diretto, che rimarrà tale
247
fino all'introduzione del sistema a vapore, introdotto più tardi, dopo l'annessione
del Veneto all'Italia. Le filande erano praticamente tettoie, nelle quali i naspi
venivano girati a mano, ogni bacinella aveva il suo fornello alimentato a legna, le
spazzole erano anch'esse manovrate a mano.
Nei ruoli delle Arti del Comune di Ceneda, troviamo, nell'anno 1757, tre ditte
proprietarie di filatoio: i fratelli Tieppo e Leon Romanin, Tieppo e fratelli Pincherle
e Jacob Conegliano. I nomi lasciano chiaramente intendere la intraprendenza
ebraica, come più tardi, nell'800, dimostrerà il capostipite del ramo vittoriese dei
Gentili, Benedetto, costruttore della filanda di Savassa, cui aggiungerà in seguito
un setificio.
L'ubicazione non è casuale: tenendo presente che nella trattura della seta è
determinante la qualità dell'acqua, con la quale nelle bacinelle si purga la rozzezza
della fibra serica, la maggior parte delle nostre filande è insediata sulle rive del
fiume Meschio, le cui acque avevano caratteristiche tali da conferire alla seta
pastosità, morbidezza e lucentezza.
Tra le filande del tempo si ricordano quella dei Della Coletta detti Faldon e
quella dei De Mori a Costa,, Nardari e poi Segati a Meschio, Fioretti in via Casoni,
Todesco ai Con, Busanelli in via Molini, Panella in via Caprera, Scarpis in via
Calcada.
Attendevano alla lavorazione dei bozzoli le famiglie Lucheschi, Tirindelli,
Marson, Coletti e Paludetti a San Giacomo.
Un seme selezionato
Nello scorcio dell'ultimo quarto del secolo XIX, all'aspetto innovativo della
filanda a vapore si affianca la vera e propria industria del seme-bachi.
Fino ad allora nell'allevamento si usava un seme rozzo, così come era prodotto
dall'imperizia tecnica dei contadini: un seme molto scadente e poco resistente alle
malattie che potevano insidiarlo.
Ciò aveva causato annate di crisi, tali da compromettere la stessa stabilità delle
filande. Nei ruoli comunali del tempo questi alti e bassi sono riscontrabili: nel 1853,
ad esempio, sono iscritti 30 filandieri con 440 fornelli; due anni dopo i filandieri
sono scesi a 15 e i fornelli a 244.
Qualcuno si accorse che per avere a disposizione un seme più forte, che
garantisse la produzione, era indispensabile intervenire nella delicata fase preparatoria della confezione, con un'idonea selezione fatta di attenti controlli e opportuni
incroci.
Solo così si poteva stornare il pericolo delle malattie, ottenere una seta più
pregiata e in definitiva assicurare stabilità e benessere all'intero settore.
Il promotore di tale movimento di riscossa fu Giuseppe Pasqualis, friulano,
248
vittoriese di adozione, un vero pioniere della selezione del seme-bachi, da ottenere
con sistemi scientifici e distribuire così selezionato ai produttori. Per fare questo
egli predicò l'istituzione di Stazioni bacologiche finché ottenne la fondazione a
Vittorio, nel 1873, del Regio Osservatorio Bacologico, annesso allo stabilimento
bacologico da lui fondato.
Bisognava però vincere le resistenze e i pregiudizi dei contadini, ancorati ai
metodi tradizionali, e convincerli ad adottare metodi più razionali. Così fu intrapresa un'azione di propaganda capillare con lezioni serali e distribuzione gratuita di
pubblicazioni.
Con i nuovi metodi si recò rimedio soprattutto al flagello dell'atrofia o
prebina, (individuata dal Pasteur), che causava imperfetto schiudimento e notevole
mortalità.
L'Osservatorio bacologico
Questo risultato fu raggiunto utilizzando seme microscopicamente selezionato. L'esame durava anche quattro mesi ed era affidato a personale femminile:
nell'Osservatorio Pasqualis venivano occupate anche 100 microscopiste. All' epoca dello sfarfallamento, operavano 26 uomini e 1200 donne adulte.
Questa opera paziente e intelligente contribuì a portare la bachicoltura
vittoriese a li velli insperati. Sulla scia del Pasqualis altri bachicoltori si affermarono
in quel ventennio nella zona, famiglie di bachicoltori che costituirono il nerbo
dell'economia vittoriese del tempo: i Costantini un Vettore Costantini inventò il
ginecrino), gli Sbrojavacca, i Marson, Spagnol, Cadel, Mattana, Posocco,
Mozzi, Marchi, Sartori e Schiratti, Collalto a Susegana., ecc.
Il seme esclusivamente indigeno fu abbandonato e, per ottenere un miglior
rendimento si preferì il prodotto di incroci di farfalle di bozzoli gialli nostrani e di
bianchi giapponesi.
Da notare che il seme, una volta confezionato, perché i primi tepori della
buona stagione non lo facessero maturare anzitempo, aveva bisogno di essere
ibernato. In mancanza di grandi celle frigorifere, si ricorse a locali di ibernazione
a quote più alte, in montagna, in locali appositi: si ottenevano così nascite
concentrate nell'epoca desiderata, cioè in concomitanza con la foliazione del gelso.
Gli insediamenti a servizio della bacologia vittoriese erano in Cansiglio (Villa
Natalia, Crosetta), a Cima Gogna, Perarolo e Rivalgo in Cadore, a Mas di Sedico,
ed in località meno elevate (a Pollina, ad esempio) per esigenze diverse.
Anche il clima aveva la sua parte: per la sua salubrità e mitezza, tanto
favorevoli al filugello, Vittorio era paragonata a Nizza.
249
Un primato nazionale
La bachicoltura e l'industria del seme-bachi vittoriesi raggiunsero così una
posizione di preminenza in campo nazionale, tanto che nel 1925 aveva qui sede
l'Associazione Veneta Confezionatori seme-bachi, rappresentante oltre un terzo
della produzione nazionale. Il seme di Vittorio era per gran parte destinato
all'esportazione, in Italia e nel mondo, in agguerrita concorrenza con l'industria
giapponese.Le aree di espansione erano rappresentate dai paesi balcanici,dalla
Russia, dalla Turchia, dal Medio Oriente.
Scrive Lucio Bologna nel suo "Breve compendio della storia di Vittorio
Veneto", 1924:
« Vtttorio Veneto è chiamato il Giappone del Veneto, il che dimostra l'importanza che ha nella produzione bozzoli e nella confezione del seme rispetto ai
maggiori centri del Regno.»
Di fronte alla floridezza dell'industria del seme, altrettanto non si può dire del
prodotto dei bozzoli, del cui commercio cominciarono a interessarsi non i produttori ma operatori esterni e spesso in termini molto esosi. La seta, del resto,
cominciava ad avere periodi di crisi a causa della concorrenza internazionale.
Nel riferirsi ai problemi sella sericoltura nazionale, va ricordato un uomo
politico, eletto nelle nostre zone e poi assurto alle più alte responsabilità governative. Si tratta di Luigi Luzzati (1841 -1927), uno dei più lungimiranti economisti
del periodo prefascista. Nel 1907 egli promosse una grande inchiesta serica (unica
nel settore), formulando suggerimenti che, se applicati, avrebbero fatto dell'Italia
il paese produttore più importante dei tempi moderni. Così non fu, e un po' alla volta
il valore della seta scese così in basso da costituire non più un guadagno ma una
perdita per gli allevatori. Tuttavia qui da noi, per una specie di legame sentimentale,
si rimase per lungo tempo fedeli all'allevamento del baco da seta sia pure in
condizioni di grande disagio.
La crisi
Nella crisi degli anni 30, il problema costante è il deprezzamento del prodotto.
Si aggiunga che la necessità di vendere subito i bozzoli soggetti a facile deperimento (tipica l'espressione dei produttori: "È come avere un morto in casa!"), faceva
cadere i più nelle mani degli speculatori
Si invocarono sovvenzioni governative, si costituirono essiccatoi cooperativi,
cui era obbligatorio il conferimento all'ammasso del prodotto; ma il problema non
trovò soluzione, anzi si aggravò a causa dell'avvento sul mercato della seta
artificiale, in risposta alle direttive autarchiche del regime.
A proposito di fibre alternative alla seta, va registrata una curiosità locale.
250
Quando si era ben lontani dal ragionare in termini autarchici, Giuseppe Pasqualis
diede avvio a Vittorio alla produzione di una fibra anch'essa naturale, sostitutiva
di quella serica e molto più economica, ricavata dalla scorza dei ramoscelli del gelso
e la chiamò gelsolino. La produzione durò fino al tempo dell'invasione del 1917.
Il figlio del Pasqualis, Giusto, si adoperò per superare il divieto ecclesiastico ad
adoperare per i paramenti sacri tessuti di sola seta ed è del 1893 un decreto della
Sacra Congregazione dei Riti, a firma del suo Prefetto, il Cardinale Gaetano Aloisi
Masella che dà l'autorizzazione pontificia all'uso del gelsolino per la confezione
di paramenti e addobbi sacri
Nel relativo campionario di propaganda è scritto: " ... con grande vantaggio
del Clero, specie di quello delle povere Parrocchie di campagna, fino ad allora
costretto da esigenze economiche a ricorrere a stoffe di seta mista a cotone o altro,
contrariamente alle prescrizioni rituali".
I tentativi di ripresa
Ma tornando alle vicende della nostra bachisericoltura, diciamo che fin
dall'immediato dopoguerra ci furono ripetuti tentativi di ripresa. Persino all' Assemblea Costituente il nostro deputato Francesco Franceschini interviene con
interrogazioni per sollecitare provvedimenti governativi a favore del mercato della
seta. Nel 1946 si tiene a Treviso il Congresso Nazionale Serico. Un importante
provvedimento si registra nel 1954 con la costituzione, col patrocinio dell'allora
Ministro dell'Agricoltura Antonio Segni,del Centro genetico ed ecologico del baco
da seta in San Giacomo di Veglia. Esso aveva il compito, con l'apporto dell'Associazione Nazionale Bachicoltori, dell'Ufficio Nazionale seme-bachi e poi dell'Ente per le Tre Venezie, di fornire all'industria bacologia ceppi da riproduzione
(polibrido ). Dapprima sostenuto dal finanziamento pubblico, da interventi diretti
e indiretti del Piano Verde, il Centro fu per molti anni un punto di riferimento per
la resistenza del settore. A Vittorio ci si dà da fare: quasi un esempio di capacità di
adattamento alla nuova situazione, sorge nel 1948 (e rimarrà in vita fino al 2001)
la Manifattura cascami serici, per la lavorazione dei sottoprodotti provenienti dalle
filande e dalla bacologia Dal 1972 problemi di gestione, legati alle competenze
delle Regioni, portano altri intralci. Fra speranze e delusioni e difficoltà spesso
dovute ad eventi incontrollabili e lontani- come la politica di esportazione della
Cina di Mao - si propone che almeno una parte del fabbisogno dell'industria serica
sia alimentata, d alla produzione locale, che, con opportuni incentivi, continua ad
essere, nonostante tutto abbastanza vivace, se nel 1988 dei 120.000 kg prodotti in
campo nazionale, l' 80% proviene dal Veneto e di questo più del 60% dalla
provincia di Treviso!
Oltre tutto, con l'avvento della Comunità Economica Europea, l'attività
251
serica, pur nel quadro delle non sempre coerenti politiche comunitarie in agricoltura, potrebbe essere una delle attività agevolate, anche perché altamente rispettosa
dell'ambiente.
Un nuovo gravissimo colpo
Ma sul finire degli anni 80 un nuovo, gravissimo colpo viene inferto da una
sopravvenienza improvvisa e inaspettata. Essa è di natura biologica ed è il
fenomeno della non filatura da parte delle larve. Si cercano le cause, si dà colpa a
un virus, si dà colpa agli inquinamenti. Finalmente dalla Francia, dove sono stati
registrati fenomeni anal9ghi, giunge una risposta e una spiegazione puntuale: un
prodotto regolatore di ormoni, introdotto in frutticoltura per la lotta agli insetti
nocivi, ha esteso la sua azione paralizzante alle larve del baco da seta. Si corre
tardivamente ai ripari, ma intanto un altro ostacolo ha definitivamente accelerato
la fine.
Pur con tutte le riserve, va dato atto che la bachisericoltura nel passato ha dato
un contributo essenziale per compensare le angustie di un'economia poverissima
( ricordiamo cos'erano i nostri paesi!), legata a un'agricoltura spesso arretrata.
In tempi più recenti, proprio per l'effetto trainante della tradizione bacologica,
la realtà produttiva vittoriese ha visto il 50 % degli addetti al settore manifatturiero
impegnati nel tessile
C'è solo da osservare che questa attività fu condotta e gestita con una mentalità
forse ancor troppo legata e vincolata concettualmente alla rendita agricola, al 'piede
di casa' del proprietario terriero, senza quella duttilità che sarebbe stata in seguito
necessaria alle indispensabili riconversioni.
L'idea di un museo
Per ricordare questa attività, che, nei secoli trascorsi ha connotato l'agricoltura delle nostre zone e che per buona parte del secolo XIX ed altrettanta del XX
ha sostenuto da protagonista l'economia del vittoriose, è sorta l'idea di creare,
proprio a Vittorio Veneto, un Museo del baco da seta.
Un vero e proprio patrimonio di memorie che avrà una grande valenza
didattica, sociologica e turistica. Esso alle giovani generazioni la testimonianza
singolare di un'attività interessante e complessa, presenterà in modo tangibile le
condizioni socio-economiche che contraddistinsero la vita della nostra gente in
quel periodo e sarà anche un omaggio a quelle schiere di addetti, specialmente
donne, che consumarono molti anni della loro vita (compresa addirittura la
fanciullezza) in quella attività, profondendo le loro energie in ambienti e condizioni
252
di lavoro che raggiungevano spesso il più alto grado di insalubrità. Molti di quei
lavoratori e lavoratrici sono ancora tra noi.
Si aggiunga che sono ancora molte le famiglie della nostra zona, che, per aver
tenuto tenacemente in piedi l'industria che fu dei loro progenitori, conservano molti
degli strumenti e degli oggetti legati alla lavorazione della seta e sono disposti a
cederli, purché detto materiale sia idoneamente conservato e fatto conoscere nella
fruizione pubblica. Così si sventerebbe anche il pericolo, da non da sottovalutare
perché sempre più impellente, ogni giorno che passa, che tanto patrimonio - magari
per mancanza di spazio- vada distrutto o disperso o alienato per servire alle brame
di un antiquariato, pronto a carpire oggetti, che possono ben definirsi beni culturali,
per esibirli su qualche bancarella di mercatino.
I primi atti significativi
Si può dire che il progetto di una rassegna del genere, assolutamente originale
e significativa, abbia preso le mosse una ventina di anni fa.
Interessato al proposito, l'allora Sindaco Concas, il 21 settembre 1983, scrive
all'autore delle presenti note, invitandolo a nome dell'Amministrazione comunale
a svolgere il suo interessamento e a prendere gli opportuni contatti per giungere a
una definizione dell'iniziativa. Nel contempo, per iniziativa dell'Assessore al
Bilancio e al Patrimonio, Giuseppe Bevilacqua, il Comune acquisisce il materiale
che, a seguito della liquidazione del Consorzio Seme-bachi, si trovava nei depositi
di San Giacomo e Collalto di Susegana.
Viene subito presentata una proposta operativa, mentre il Circolo Vittoriose
di Ricerche storiche si impegna di includere nell'attività dell'anno sociale 1984 una
ricerca sulla Bachicoltura del vittoriese. Si delinea anche l'intento, poi abbandonato per difficoltà di finanziamento, della edizione di una pubblicazione sull'argomento e si avvia un lavoro di schedatura, dovuto principalmente alla solerzia di
Vincenzo Ruzza, lavoro poi confluito negli studi preliminari per l'attuazione del
Museo. Frattanto viene svolto una paziente opera di ricerca, acquisizione, catalogazione, conservazione dei reperti e documenti che andranno a costituire il
patrimonio museale.
Il progetto però si arena per diversi anni a causa della difficoltà di trovare una
sede idonea per ospitarlo.
Le Filande
Il criterio di scelta dovrebbe essere quello che permetta l'allestimento in un
ambiente che, con la sua tipologia della funzione originaria (allevamento, filanda
253
o stabilimento bacologico), serva a meglio inquadrare la raccolta museale. Al
tempo della Amministrazione Botteon vengono prospettate varie soluzioni: il
complesso Borea a Sant' Andrea, l'ex stabilimento Marchi in piazza Fontana, lo
stabile ex Ceppi da riproduzione a San Giacomo di Veglia, ma tutte cadono per
l'indisponibilità o l'eccessiva om,rosità.
Un rilancio dell'iniziativa avviene con la successiva Giunta: il tema della
bachisericoltura nel Vittoriese entra tra le manifestazioni della "Settimana della
cultura scientifica e tecnologica "promossa dal Ministero dell'Università e della
Ricerca Scientifica e Tecnologica (marzo 1996) e, nel maggio dello stesso anno, il
Comune procede alla costituzione di una Commissione di esperti, presieduta dal
Sindaco prof. Antonio Della Libera, naturalista, e composta da: enotecnico Giuseppe Bevilacqua, esperto agronomo; dr. Dino De Bastiani, già direttore del Centro
ecologico e genetico del baco da seta; rag. Gino Forin, tecnico bacologo, ex
direttore di stabilimento bacologico; dr. Vittorino Pianca, direttore dei Musei
civici; rag. Vincenzo Ruzza, storico; prof. Mario Ulliana, storico, quest'ultimo con
funzioni di coordinatore.
La Commissione continuò l'azione di individuazione e raccolta del materiale
documentario, prese contatto con altre esperienze museali del Veneto, ma soprattutto puntò ad ottenere dalla Amministrazione comunale la scelta della sede.
La decisione risolutiva venne quando il Comune, alla fine del 1997, deliberò
di assegnare allo scopo uno spazio compreso nel complesso delle "Filande", in via
della Seta, a San Giacomo di Veglia. Una collocazione ideale in uno degli
insediamenti più consistenti ed antichi, recentemente restaurato in un indovinato
recupero di archeologia industriale e trasformato in un centro di innovazione
imprenditoriale artigiana: ex filanda Banfi, ma prima Bonaldi, stabilimento censito
sulla mappa del Catasto austriaco del 1842, sulla strada di Campion, inizialmente
proprietà di quel Gio.Battista Paludetti, che, con le sue 44 bacinelle, conduceva un
tempo una delle più grandi aziende della zona.
La valorizzazione di questi manufatti, che restano come insopprimibili
testimonianze delle vicende esposte in queste note, è un'opportunità di grande
valore urbanistico, come ha messo in evidenza una serie di studi e tesi di laurea
dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, guidato dal prof. Franco
Mancuso. Il recupero dell'archeologia industriale è stato, in questo caso, provvidenziale ai fini della realizzazione del Museo.
La prima fase esecutiva
Il successivo passo avanti fu l'affidamento all'arch. Sergio De Nardi del
progetto di sistemazione e adattamento dell'ambiente. Anche al fine di aumentarne
la capacità espositiva fu ideata un'indovinata struttura metallica sopraelevata, con
254
scale di accesso a un doppio soppalco, e cominciarono i primi lavori a spese del
Comune (Amministrazione Scottà) e con un primo finanziamento del Ministero,
ottenuto per l'interessamento dell'On. Giovanni Meo Zilio.
E' ora possibile tracciare un primo progetto di quello che dovrà essere il
percorso espositivo.
Con idonea rappresentazione si farà ripercorrere al visitatore tutto il processo
di allevamento bacologico, dalla piantagione del gelso alla selezione delle razze,
alla lotta contro le malattie: ammasso, cernita, ginecrinatura, sfarfallo, pestatura
delle farfalle, esame microscopico, sgranatura e lavaggio del seme fino all'ibernazione nelle località climaticamente adatte, l'ncubazione, la somministrazione dei
pasti ai filugelli (la foglia del gelso triturata), il cambio dei letti, l'imboscamento,
ecc.
Si metterà in mostra tutta la gamma delle qualità dei bozzoli, dall'incrocio
bigiallo dorato all'incrocio cinese, a quello giapponese, al giallo puro nostrano.
Saranno documentati
i processi di essiccazione
dei bozzoli, di
immagazzinameto, di commercializzazione e poi tutti quelli relativi al lavoro delle
filandiere (chiamate nei vari compiti con le voci dialettali di trazaresse, scoatine,
ingropine, mistre, strosine, bilatere, passasse), per la trattura, per ammollire i
bozzoli e trarne un solo filo consistente e continuo da avvolgere in matasse sopra
i naspi.
Il Museo raccoglierà tutti materiali e gli strumenti (anche di precisione), le
macchine, gli utensili usati nelle varie fasi del processo industriale, dai graticci ai
cestoni, ai microscopi, ai ginecrini, alle spelatrici delle bacinelle, alle incubatrici,
ai fornelli.
Un percorso didattico
Tutto ciò dovrà essere organizzato in sequenze didattiche, atte a riprodurre il
più fedelmente possibile gli ambienti dove il lavoro si svolgeva, a cominciare dalla
cucina della casa contadina al mezà, che era l'ufficio di direzione amministrativa
della bacologia. Grande rilievo avrà poi la storia delle principali famiglie di
bacologi vittoriesi.
Grande importanza avrà nella rassegna l'aspetto architettonico, con il censimento di tutti gli edifici appositamente costruiti, ma tenendo anche conto che molte
attività bachisericole trovarono ospitalità in palazzi padronali o nelle monumentali
barchesse delle ville signorili. Si ricordi, ad esempio, che, a Montecchio Maggiore
in provincia di Vicenza persino la palladiana villa "La Cordellina" (proprietà
Costantini, con gli affreschi del Tiepolo!), fu adibita a stabilimento bacologico.
La rassegna - come esige la più aggiornata tecnica museografica- si avvarrà
dei più moderni mezzi della tecnologia e dell'informatica per offrire ai visitatori
255
postazioni multimediali ed interattive per ricerche e integrazioni personalizzate,
dove sia possibile selezionare argomenti e contenuti onde rispondere a tutte le
domande di approfondimento. Nei locali del museo troverà spazio anche una saletta
per riunioni e una biblioteca specializzata.
Finora i fondi stanziati dal Comune per la sistemazione del Museo sono stati
360 milioni di lire.
I contributi del Ministero per la Ricerca Scientifica, sulla legge 313 e
successive modifiche, sono stati 110 milioni di lire.
Oltre a quello del Ministero, occorrerebbe anche l'aiuto della Regione
Veneto, che dispone di leggi idonee, come la Legge regionale 5 settembre 1984, n.
50 e la 15 gennaio 1985, n.6.
Una collaborazione dovrebbe essere attivata anche con l'Amministrazione
Provinciale di Treviso, che, oltre a contributi, potrebbe assicurare il sussidio del
ricchissimo archivio Storico Fotografico Provinciale.
Le ultime difficoltà
Ci sono ancora difficoltà che intralciano la realizzazione del progetto.
Finora molto materiale è stato raccolto attingendo dai depositi dei vecchi
stabilimenti dismessi e dagli apporti delle famiglie un tempo impegnate nella
bacologia. Si pensa che, una volta funzionante il Museo, molti altri potrebbero
essere indotti a conferire oggetti e testimonianze in loro possesso.Un importante
contributo in mobilio e attrezzature è venuto dai Magazzini Generali e Doganali
S.p.a. di Treviso.
La parte di materiale più interessante e significativa ancora da acquisire è
rappresentata da quello esistente presso la vecchia sede degli ex Ceppi da riproduzione. La Regione, che, in un primo momento aveva aderito alla richiesta del
Comune di destinarlo al Museo, si è successivamente "rimangiato" l'assenso per
l'opposizione dell'Associazione Nazionale Bachicoltori, la quale ha eccepito che
quel materiale poteva tornare utile nell'eventualità (!) di una ripresa della
bachisericoltura.
Sono in corso trattative per rimontare la situazione, ora che la Regione ha
trovato modo di rescindere la comproprietà dello stabile con la predetta Associazione. Nella situazione fluttuante che si è creata, non è ancora chiaro se il materiale
ex Ceppi possa essere ottenuto, mancando una solerte ed energica pressione del
Comune nei riguardi della Regione.
Un'altra fonte di approvvigionamento per il Museo è la donazione Marson.
Dopo la morte dell'ultimo della famiglia ad esercitare fino al 1957 l'attività
bacologia, dr. Domenico, la figlia di questi, Bona Marson in Dal Como ha
manifestato la volontà di donare al Comune il materiale depositato nella sua
256
proprietà. Mentre erano in corso le pratiche per l'accettazione, la Soprintendenza
ai Monumenti di Venezia, con discutibile provvedimento, è intervenuta con
l'imposizione del vincolo sullo stabile - che pure è tutelato da una norma di
salvaguardia del Piano Regolatore - e successivamente ha avviato la pratica per
vincolare anche i macchinari ivi giacenti.
Ciò senza tener conto che proprio per la tutela di detti beni il Comune si è da
tempo attivato con la costituzione del Museo, senza del quale quei beni sarebbero
sì vincolati, ma senza alcuna valorizzazione e fruizione pubblica.
Cosi, allo stato degli atti, una parte del materiale interessante per il Museo
rimarrà bloccato.
A questo punto occorre la determinazione dell'Amministrazione comunale
per dare alla creazione del Museo la spinta risolutiva.
257
Mario Ulliana
PER DAR VITA A UN MUSEO DEL BACO DA SETA
La Manchester del Veneto.
Luigi Marson, nella "Guida di Vittorio e suo Distretto", 1889, ci offre un
quadro della situazione economica locale e, per quanto attiene la bachisericoltura,
scrive:
«Del setificio diremo che, prima dell'arenamento serico e dell'introduzione
dei sistemi più perfezionati, moltissime famiglie tenevano le loro filande a fuoco.
Basti dire che Cison sola ne avea ben 20; si imagini Vittorio!
Sulla rovina pertanto delle piccole e grandi filande a fuoco sono sorte le
filande a vapore,benché ne rimangano tuttavia alcune a vecchio sistema. Le une e
le altre sono concentrate per lo più nel capo-luogo del Distretto, che è divenuto una
piccola Como o Manchester. Si contano dieci.filande a vapore, di cui otto a Vittorio
(5 a Cèneda, 2 a San Giacomo, 1 a Savassa) e le altre 2 a Cison e Pinidello, con
562 bacinelle e più di 1000 lavoratrici per tutto l'anno; quattro filande a mano con
100 bacinelle e 250 lavoratrici per tre mesi all'anno a Vittorio, senza contare altre
12 piccole filande, pure a mano, sparse qua e là negli altri comuni del Distretto ma
di poche bacinelle ciascuna.
Aggiungasi che le attuali filande a vapore sono suscettibili di un maggior
numero di bacinelle mentre la purezza dell'acqua del Meschio, tanto celebrata
specialmente per la.filanda.fa sperare che non solo queste bacinelle funzioneranno
tra breve, ma che sorgeranno pure nuove filande. Il consumo annuo dei bozzoli si
ritiene di circa Kg. 737.000, senza tener conto di quello delle piccole.filande afuoco
(o a mano) sparse nel distretto, inclusi però i 20.000 kg. circa impiegati per la
245
bachicoltura.
Notasi che la provincia di Treviso nell'86 ha dato kg. 1.503.974 di bozzoli; e
considerando che il distretto di Vittorio, uno degli otto della provincia, ne può dare
a un dipresso 188.000, ne verrebbe di conseguenza che pel consumo della filanda
se ne importino in esso, per lo più dalla provincia, kg. 450.000 circa. Questo
calcolo però risulterebbe stando ai dati dell'anno1886 accennato.
La, seta greggia che si ottiene dal consumo accennato di bozzoli, sarebbe di
circa kg. 73.000, i cascami di kg. 29.100 e le bucate dei bozzoli che servono
ordinariamente per la bacologia di kg. 3.400.
Pare incredibile, dopo quello che abbiamo detto, che Vittorio con le sue acque
privilegiate per la seta, colla intraprendenza sua caratteristica, coi capitali di cui
certamente non difetta, non abbia trovato ancora il modo di fondare qualche
filatoio da ridurre in trame e in organzini le sue distinte qualità di sete gregge o
qualche altro stabilimento per la lavorazione della grande quantità di cascami che
per lo più si trasportano, pagati a prezzo esiguo, da lontano (Svizzera, Francia,
ecc.), mentre lavorati in paese offrirebbero guadagni incalcolabili.»
Un quadro dunque dove l'attività di filanda è preponderante, quella bacologica
modesta e dove si prospettano sviluppi, quasi meravigliandosi che non si veda una
maggiore intraprendenza nella lavorazione della seta. Ad ogni modo va sottolineata
l'impennata di orgoglio che sta in quell'affermazione: Vittorio è diventata una
piccola Como o Manchester!
Una risorsa per l'economia
Una cosa è certa: l'economia della nostra città e dell'intorno si fondava su
questa attività.
E ne restano, inequivocabili, i segni. Ancor oggi, su alcune facciate, nonostante le reiterate tinteggiature, rispuntano scritte come Premiato Stabilimento
Bacologico, Regio Osservatorio Bacologico (in un giardino di via Pasqualis ne è
conservato il grande fastigio recante la corona reale); molti corpi di fabbrica, in
disuso o adibiti ad altra funzione, nella loro struttura denotano la finalità sericobacologica per cui erano stati realizzati; tutto il panorama cittadino e suburbano è
ancora connotato dagli snelli e solidi lineamenti delle ciminiere delle varie filande
un tempo esistenti.
Anche qui da noi, come nel resto della regione, la bacologia era venuta
prosperando, dapprima come elemento integrativo e in un secondo momento
dominante nell'ambito dell'agricoltura.
Era cominciata come piccola attività familiare e casalinga. In un vecchio
opuscolo stampato a Vienna nel 1860, che si intitola "Istruzione ad uso dei maestri
ed alunni delle scuole popolari agrarie" si trova un capitolo "Bacologia popolare"
246
in cui è detto: «Quando l'educazione dei bachi da seta non venga trattata in grande,
non vi è bisogno di appositi stabilimenti o edifici (bigatteri). I filugelli possono
essere educati nelle solite stanze dei contadini, purché queste non siano umide, né
esposte al troppo freddo, od al soverchio calore».
Era una attività ben accetta al contadino: l'anticipazione in denaro era
modesta, l'impegno nell'anno agrario era limitato, perché il ciclo produttivo si
risolveva nell'arco di una quarantina di giorni, c'era la possibilità di usufruire
dell'apporto lavorativo di donne, fanciulli e vecchi, e infine il ricavato recava un po'
di linfa vitale, un timido spiraglio di benessere, al magro bilancio familiare. Era il
primo denaro contante disponibile dell'annata agraria e serviva a coprire le spese
vive (concimi, sementi, ecc.).
In una campagna, allora abbastanza trascurata, con abitazioni insufficienti e
malsane, con le famiglie contadine spesso indebitate, in stato permanente di
precarietà, nell'incertezza della disdetta del contratto, con in raccolti spesso
compromessi da grandinate e siccità, si scopre a un tratto la convenienza della
coltivazione di una pianta, il gelso e dell'allevamento del filugello, il baco da seta,
che recano un buon margine di convenienza .
Dapprima il morèr trova spazio nei ritagli inutilizzati del terreno, su pendici
scoscesi e poi, man mano, in superfici sempre più ampie, alternato ai coltivi, al
punto da limitare persino la coltivazione della vite. Tale incalzante avanzata era
corrispondente a un incremento sempre più cospicuo degli allevamenti, tenuti nelle
bigattiere domenicali (padronali), nelle case coloniche e nei casoni di paglia dei
braccianti. I caseggiati, prima trascurati, ora venivano trasformati per renderli
idonei ad ospitare la nuova attività: Quello che prima non si era sentito come un
dovere per dare una dimora decente agli uomini, ora era colto come una opportunità
vantaggio.sa. Tanto che si disse, nel dare una spiegazione al termine dialettale
cavalier, con cui si designava in dialetto il baco da seta, che lo si chiamava così
perché doveva essere riverito per la sua utilità.
La trattura della seta
Secondo la tradizione, la coltura del baco da seta sarebbe stata introdotta dalle
nostre parti, sulla fine del '600, da una famiglia Dal Bo, originaria del Friuli, che
dal soprannome di· un suo componente Zuanon avrebbe in seguito mutuato
l'appellativo Zanon (il cognome Dal Bo Zanon è ancora oggi diffuso). Essa ebbe
residenza in località Costa, in Basso Caliero, sulla strada che mette in comunicazione il Ponta vai con Costa, denominata poi, e tuttora nella toponomastica, via dei
Corder. Qui fu istituito un filatoio all'aperto, di cui resta ancora traccia nella platea
e nel colonnato del cortile interno. La trattura funzionava- come è accennato nelle
note del Marson - secondo il tradizionale sistema a fuoco diretto, che rimarrà tale
247
fino all'introduzione del sistema a vapore, introdotto più tardi, dopo l'annessione
del Veneto all'Italia. Le filande erano praticamente tettoie, nelle quali i naspi
venivano girati a mano, ogni bacinella aveva il suo fornello alimentato a legna, le
spazzole erano anch'esse manovrate a mano.
Nei ruoli delle Arti del Comune di Ceneda, troviamo, nell'anno 1757, tre ditte
proprietarie di filatoio: i fratelli Tieppo e Leon Romanin, Tieppo e fratelli Pincherle
e Jacob Conegliano. I nomi lasciano chiaramente intendere la intraprendenza
ebraica, come più tardi, nell'800, dimostrerà il capostipite del ramo vittoriese dei
Gentili, Benedetto, costruttore della filanda di Savassa, cui aggiungerà in seguito
un setificio.
L'ubicazione non è casuale: tenendo presente che nella trattura della seta è
determinante la qualità dell'acqua, con la quale nelle bacinelle si purga la rozzezza
della fibra serica, la maggior parte delle nostre filande è insediata sulle rive del
fiume Meschio, le cui acque avevano caratteristiche tali da conferire alla seta
pastosità, morbidezza e lucentezza.
Tra le filande del tempo si ricordano quella dei Della Coletta detti Faldon e
quella dei De Mori a Costa,, Nardari e poi Segati a Meschio, Fioretti in via Casoni,
Todesco ai Con, Busanelli in via Molini, Panella in via Caprera, Scarpis in via
Calcada.
Attendevano alla lavorazione dei bozzoli le famiglie Lucheschi, Tirindelli,
Marson, Coletti e Paludetti a San Giacomo.
Un seme selezionato
Nello scorcio dell'ultimo quarto del secolo XIX, all'aspetto innovativo della
filanda a vapore si affianca la vera e propria industria del seme-bachi.
Fino ad allora nell'allevamento si usava un seme rozzo, così come era prodotto
dall'imperizia tecnica dei contadini: un seme molto scadente e poco resistente alle
malattie che potevano insidiarlo.
Ciò aveva causato annate di crisi, tali da compromettere la stessa stabilità delle
filande. Nei ruoli comunali del tempo questi alti e bassi sono riscontrabili: nel 1853,
ad esempio, sono iscritti 30 filandieri con 440 fornelli; due anni dopo i filandieri
sono scesi a 15 e i fornelli a 244.
Qualcuno si accorse che per avere a disposizione un seme più forte, che
garantisse la produzione, era indispensabile intervenire nella delicata fase preparatoria della confezione, con un'idonea selezione fatta di attenti controlli e opportuni
incroci.
Solo così si poteva stornare il pericolo delle malattie, ottenere una seta più
pregiata e in definitiva assicurare stabilità e benessere all'intero settore.
Il promotore di tale movimento di riscossa fu Giuseppe Pasqualis, friulano,
248
vittoriese di adozione, un vero pioniere della selezione del seme-bachi, da ottenere
con sistemi scientifici e distribuire così selezionato ai produttori. Per fare questo
egli predicò l'istituzione di Stazioni bacologiche finché ottenne la fondazione a
Vittorio, nel 1873, del Regio Osservatorio Bacologico, annesso allo stabilimento
bacologico da lui fondato.
Bisognava però vincere le resistenze e i pregiudizi dei contadini, ancorati ai
metodi tradizionali, e convincerli ad adottare metodi più razionali. Così fu intrapresa un'azione di propaganda capillare con lezioni serali e distribuzione gratuita di
pubblicazioni.
Con i nuovi metodi si recò rimedio soprattutto al flagello dell'atrofia o
prebina, (individuata dal Pasteur), che causava imperfetto schiudimento e notevole
mortalità.
L'Osservatorio bacologico
Questo risultato fu raggiunto utilizzando seme microscopicamente selezionato. L'esame durava anche quattro mesi ed era affidato a personale femminile:
nell'Osservatorio Pasqualis venivano occupate anche 100 microscopiste. All' epoca dello sfarfallamento, operavano 26 uomini e 1200 donne adulte.
Questa opera paziente e intelligente contribuì a portare la bachicoltura
vittoriese a li velli insperati. Sulla scia del Pasqualis altri bachicoltori si affermarono
in quel ventennio nella zona, famiglie di bachicoltori che costituirono il nerbo
dell'economia vittoriese del tempo: i Costantini un Vettore Costantini inventò il
ginecrino), gli Sbrojavacca, i Marson, Spagnol, Cadel, Mattana, Posocco,
Mozzi, Marchi, Sartori e Schiratti, Collalto a Susegana., ecc.
Il seme esclusivamente indigeno fu abbandonato e, per ottenere un miglior
rendimento si preferì il prodotto di incroci di farfalle di bozzoli gialli nostrani e di
bianchi giapponesi.
Da notare che il seme, una volta confezionato, perché i primi tepori della
buona stagione non lo facessero maturare anzitempo, aveva bisogno di essere
ibernato. In mancanza di grandi celle frigorifere, si ricorse a locali di ibernazione
a quote più alte, in montagna, in locali appositi: si ottenevano così nascite
concentrate nell'epoca desiderata, cioè in concomitanza con la foliazione del gelso.
Gli insediamenti a servizio della bacologia vittoriese erano in Cansiglio (Villa
Natalia, Crosetta), a Cima Gogna, Perarolo e Rivalgo in Cadore, a Mas di Sedico,
ed in località meno elevate (a Pollina, ad esempio) per esigenze diverse.
Anche il clima aveva la sua parte: per la sua salubrità e mitezza, tanto
favorevoli al filugello, Vittorio era paragonata a Nizza.
249
Un primato nazionale
La bachicoltura e l'industria del seme-bachi vittoriesi raggiunsero così una
posizione di preminenza in campo nazionale, tanto che nel 1925 aveva qui sede
l'Associazione Veneta Confezionatori seme-bachi, rappresentante oltre un terzo
della produzione nazionale. Il seme di Vittorio era per gran parte destinato
all'esportazione, in Italia e nel mondo, in agguerrita concorrenza con l'industria
giapponese.Le aree di espansione erano rappresentate dai paesi balcanici,dalla
Russia, dalla Turchia, dal Medio Oriente.
Scrive Lucio Bologna nel suo "Breve compendio della storia di Vittorio
Veneto", 1924:
« Vtttorio Veneto è chiamato il Giappone del Veneto, il che dimostra l'importanza che ha nella produzione bozzoli e nella confezione del seme rispetto ai
maggiori centri del Regno.»
Di fronte alla floridezza dell'industria del seme, altrettanto non si può dire del
prodotto dei bozzoli, del cui commercio cominciarono a interessarsi non i produttori ma operatori esterni e spesso in termini molto esosi. La seta, del resto,
cominciava ad avere periodi di crisi a causa della concorrenza internazionale.
Nel riferirsi ai problemi sella sericoltura nazionale, va ricordato un uomo
politico, eletto nelle nostre zone e poi assurto alle più alte responsabilità governative. Si tratta di Luigi Luzzati (1841 -1927), uno dei più lungimiranti economisti
del periodo prefascista. Nel 1907 egli promosse una grande inchiesta serica (unica
nel settore), formulando suggerimenti che, se applicati, avrebbero fatto dell'Italia
il paese produttore più importante dei tempi moderni. Così non fu, e un po' alla volta
il valore della seta scese così in basso da costituire non più un guadagno ma una
perdita per gli allevatori. Tuttavia qui da noi, per una specie di legame sentimentale,
si rimase per lungo tempo fedeli all'allevamento del baco da seta sia pure in
condizioni di grande disagio.
La crisi
Nella crisi degli anni 30, il problema costante è il deprezzamento del prodotto.
Si aggiunga che la necessità di vendere subito i bozzoli soggetti a facile deperimento (tipica l'espressione dei produttori: "È come avere un morto in casa!"), faceva
cadere i più nelle mani degli speculatori
Si invocarono sovvenzioni governative, si costituirono essiccatoi cooperativi,
cui era obbligatorio il conferimento all'ammasso del prodotto; ma il problema non
trovò soluzione, anzi si aggravò a causa dell'avvento sul mercato della seta
artificiale, in risposta alle direttive autarchiche del regime.
A proposito di fibre alternative alla seta, va registrata una curiosità locale.
250
Quando si era ben lontani dal ragionare in termini autarchici, Giuseppe Pasqualis
diede avvio a Vittorio alla produzione di una fibra anch'essa naturale, sostitutiva
di quella serica e molto più economica, ricavata dalla scorza dei ramoscelli del gelso
e la chiamò gelsolino. La produzione durò fino al tempo dell'invasione del 1917.
Il figlio del Pasqualis, Giusto, si adoperò per superare il divieto ecclesiastico ad
adoperare per i paramenti sacri tessuti di sola seta ed è del 1893 un decreto della
Sacra Congregazione dei Riti, a firma del suo Prefetto, il Cardinale Gaetano Aloisi
Masella che dà l'autorizzazione pontificia all'uso del gelsolino per la confezione
di paramenti e addobbi sacri
Nel relativo campionario di propaganda è scritto: " ... con grande vantaggio
del Clero, specie di quello delle povere Parrocchie di campagna, fino ad allora
costretto da esigenze economiche a ricorrere a stoffe di seta mista a cotone o altro,
contrariamente alle prescrizioni rituali".
I tentativi di ripresa
Ma tornando alle vicende della nostra bachisericoltura, diciamo che fin
dall'immediato dopoguerra ci furono ripetuti tentativi di ripresa. Persino all' Assemblea Costituente il nostro deputato Francesco Franceschini interviene con
interrogazioni per sollecitare provvedimenti governativi a favore del mercato della
seta. Nel 1946 si tiene a Treviso il Congresso Nazionale Serico. Un importante
provvedimento si registra nel 1954 con la costituzione, col patrocinio dell'allora
Ministro dell'Agricoltura Antonio Segni,del Centro genetico ed ecologico del baco
da seta in San Giacomo di Veglia. Esso aveva il compito, con l'apporto dell'Associazione Nazionale Bachicoltori, dell'Ufficio Nazionale seme-bachi e poi dell'Ente per le Tre Venezie, di fornire all'industria bacologia ceppi da riproduzione
(polibrido ). Dapprima sostenuto dal finanziamento pubblico, da interventi diretti
e indiretti del Piano Verde, il Centro fu per molti anni un punto di riferimento per
la resistenza del settore. A Vittorio ci si dà da fare: quasi un esempio di capacità di
adattamento alla nuova situazione, sorge nel 1948 (e rimarrà in vita fino al 2001)
la Manifattura cascami serici, per la lavorazione dei sottoprodotti provenienti dalle
filande e dalla bacologia Dal 1972 problemi di gestione, legati alle competenze
delle Regioni, portano altri intralci. Fra speranze e delusioni e difficoltà spesso
dovute ad eventi incontrollabili e lontani- come la politica di esportazione della
Cina di Mao - si propone che almeno una parte del fabbisogno dell'industria serica
sia alimentata, d alla produzione locale, che, con opportuni incentivi, continua ad
essere, nonostante tutto abbastanza vivace, se nel 1988 dei 120.000 kg prodotti in
campo nazionale, l' 80% proviene dal Veneto e di questo più del 60% dalla
provincia di Treviso!
Oltre tutto, con l'avvento della Comunità Economica Europea, l'attività
251
serica, pur nel quadro delle non sempre coerenti politiche comunitarie in agricoltura, potrebbe essere una delle attività agevolate, anche perché altamente rispettosa
dell'ambiente.
Un nuovo gravissimo colpo
Ma sul finire degli anni 80 un nuovo, gravissimo colpo viene inferto da una
sopravvenienza improvvisa e inaspettata. Essa è di natura biologica ed è il
fenomeno della non filatura da parte delle larve. Si cercano le cause, si dà colpa a
un virus, si dà colpa agli inquinamenti. Finalmente dalla Francia, dove sono stati
registrati fenomeni anal9ghi, giunge una risposta e una spiegazione puntuale: un
prodotto regolatore di ormoni, introdotto in frutticoltura per la lotta agli insetti
nocivi, ha esteso la sua azione paralizzante alle larve del baco da seta. Si corre
tardivamente ai ripari, ma intanto un altro ostacolo ha definitivamente accelerato
la fine.
Pur con tutte le riserve, va dato atto che la bachisericoltura nel passato ha dato
un contributo essenziale per compensare le angustie di un'economia poverissima
( ricordiamo cos'erano i nostri paesi!), legata a un'agricoltura spesso arretrata.
In tempi più recenti, proprio per l'effetto trainante della tradizione bacologica,
la realtà produttiva vittoriese ha visto il 50 % degli addetti al settore manifatturiero
impegnati nel tessile
C'è solo da osservare che questa attività fu condotta e gestita con una mentalità
forse ancor troppo legata e vincolata concettualmente alla rendita agricola, al 'piede
di casa' del proprietario terriero, senza quella duttilità che sarebbe stata in seguito
necessaria alle indispensabili riconversioni.
L'idea di un museo
Per ricordare questa attività, che, nei secoli trascorsi ha connotato l'agricoltura delle nostre zone e che per buona parte del secolo XIX ed altrettanta del XX
ha sostenuto da protagonista l'economia del vittoriose, è sorta l'idea di creare,
proprio a Vittorio Veneto, un Museo del baco da seta.
Un vero e proprio patrimonio di memorie che avrà una grande valenza
didattica, sociologica e turistica. Esso alle giovani generazioni la testimonianza
singolare di un'attività interessante e complessa, presenterà in modo tangibile le
condizioni socio-economiche che contraddistinsero la vita della nostra gente in
quel periodo e sarà anche un omaggio a quelle schiere di addetti, specialmente
donne, che consumarono molti anni della loro vita (compresa addirittura la
fanciullezza) in quella attività, profondendo le loro energie in ambienti e condizioni
252
di lavoro che raggiungevano spesso il più alto grado di insalubrità. Molti di quei
lavoratori e lavoratrici sono ancora tra noi.
Si aggiunga che sono ancora molte le famiglie della nostra zona, che, per aver
tenuto tenacemente in piedi l'industria che fu dei loro progenitori, conservano molti
degli strumenti e degli oggetti legati alla lavorazione della seta e sono disposti a
cederli, purché detto materiale sia idoneamente conservato e fatto conoscere nella
fruizione pubblica. Così si sventerebbe anche il pericolo, da non da sottovalutare
perché sempre più impellente, ogni giorno che passa, che tanto patrimonio - magari
per mancanza di spazio- vada distrutto o disperso o alienato per servire alle brame
di un antiquariato, pronto a carpire oggetti, che possono ben definirsi beni culturali,
per esibirli su qualche bancarella di mercatino.
I primi atti significativi
Si può dire che il progetto di una rassegna del genere, assolutamente originale
e significativa, abbia preso le mosse una ventina di anni fa.
Interessato al proposito, l'allora Sindaco Concas, il 21 settembre 1983, scrive
all'autore delle presenti note, invitandolo a nome dell'Amministrazione comunale
a svolgere il suo interessamento e a prendere gli opportuni contatti per giungere a
una definizione dell'iniziativa. Nel contempo, per iniziativa dell'Assessore al
Bilancio e al Patrimonio, Giuseppe Bevilacqua, il Comune acquisisce il materiale
che, a seguito della liquidazione del Consorzio Seme-bachi, si trovava nei depositi
di San Giacomo e Collalto di Susegana.
Viene subito presentata una proposta operativa, mentre il Circolo Vittoriose
di Ricerche storiche si impegna di includere nell'attività dell'anno sociale 1984 una
ricerca sulla Bachicoltura del vittoriese. Si delinea anche l'intento, poi abbandonato per difficoltà di finanziamento, della edizione di una pubblicazione sull'argomento e si avvia un lavoro di schedatura, dovuto principalmente alla solerzia di
Vincenzo Ruzza, lavoro poi confluito negli studi preliminari per l'attuazione del
Museo. Frattanto viene svolto una paziente opera di ricerca, acquisizione, catalogazione, conservazione dei reperti e documenti che andranno a costituire il
patrimonio museale.
Il progetto però si arena per diversi anni a causa della difficoltà di trovare una
sede idonea per ospitarlo.
Le Filande
Il criterio di scelta dovrebbe essere quello che permetta l'allestimento in un
ambiente che, con la sua tipologia della funzione originaria (allevamento, filanda
253
o stabilimento bacologico), serva a meglio inquadrare la raccolta museale. Al
tempo della Amministrazione Botteon vengono prospettate varie soluzioni: il
complesso Borea a Sant' Andrea, l'ex stabilimento Marchi in piazza Fontana, lo
stabile ex Ceppi da riproduzione a San Giacomo di Veglia, ma tutte cadono per
l'indisponibilità o l'eccessiva om,rosità.
Un rilancio dell'iniziativa avviene con la successiva Giunta: il tema della
bachisericoltura nel Vittoriese entra tra le manifestazioni della "Settimana della
cultura scientifica e tecnologica "promossa dal Ministero dell'Università e della
Ricerca Scientifica e Tecnologica (marzo 1996) e, nel maggio dello stesso anno, il
Comune procede alla costituzione di una Commissione di esperti, presieduta dal
Sindaco prof. Antonio Della Libera, naturalista, e composta da: enotecnico Giuseppe Bevilacqua, esperto agronomo; dr. Dino De Bastiani, già direttore del Centro
ecologico e genetico del baco da seta; rag. Gino Forin, tecnico bacologo, ex
direttore di stabilimento bacologico; dr. Vittorino Pianca, direttore dei Musei
civici; rag. Vincenzo Ruzza, storico; prof. Mario Ulliana, storico, quest'ultimo con
funzioni di coordinatore.
La Commissione continuò l'azione di individuazione e raccolta del materiale
documentario, prese contatto con altre esperienze museali del Veneto, ma soprattutto puntò ad ottenere dalla Amministrazione comunale la scelta della sede.
La decisione risolutiva venne quando il Comune, alla fine del 1997, deliberò
di assegnare allo scopo uno spazio compreso nel complesso delle "Filande", in via
della Seta, a San Giacomo di Veglia. Una collocazione ideale in uno degli
insediamenti più consistenti ed antichi, recentemente restaurato in un indovinato
recupero di archeologia industriale e trasformato in un centro di innovazione
imprenditoriale artigiana: ex filanda Banfi, ma prima Bonaldi, stabilimento censito
sulla mappa del Catasto austriaco del 1842, sulla strada di Campion, inizialmente
proprietà di quel Gio.Battista Paludetti, che, con le sue 44 bacinelle, conduceva un
tempo una delle più grandi aziende della zona.
La valorizzazione di questi manufatti, che restano come insopprimibili
testimonianze delle vicende esposte in queste note, è un'opportunità di grande
valore urbanistico, come ha messo in evidenza una serie di studi e tesi di laurea
dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, guidato dal prof. Franco
Mancuso. Il recupero dell'archeologia industriale è stato, in questo caso, provvidenziale ai fini della realizzazione del Museo.
La prima fase esecutiva
Il successivo passo avanti fu l'affidamento all'arch. Sergio De Nardi del
progetto di sistemazione e adattamento dell'ambiente. Anche al fine di aumentarne
la capacità espositiva fu ideata un'indovinata struttura metallica sopraelevata, con
254
scale di accesso a un doppio soppalco, e cominciarono i primi lavori a spese del
Comune (Amministrazione Scottà) e con un primo finanziamento del Ministero,
ottenuto per l'interessamento dell'On. Giovanni Meo Zilio.
E' ora possibile tracciare un primo progetto di quello che dovrà essere il
percorso espositivo.
Con idonea rappresentazione si farà ripercorrere al visitatore tutto il processo
di allevamento bacologico, dalla piantagione del gelso alla selezione delle razze,
alla lotta contro le malattie: ammasso, cernita, ginecrinatura, sfarfallo, pestatura
delle farfalle, esame microscopico, sgranatura e lavaggio del seme fino all'ibernazione nelle località climaticamente adatte, l'ncubazione, la somministrazione dei
pasti ai filugelli (la foglia del gelso triturata), il cambio dei letti, l'imboscamento,
ecc.
Si metterà in mostra tutta la gamma delle qualità dei bozzoli, dall'incrocio
bigiallo dorato all'incrocio cinese, a quello giapponese, al giallo puro nostrano.
Saranno documentati
i processi di essiccazione
dei bozzoli, di
immagazzinameto, di commercializzazione e poi tutti quelli relativi al lavoro delle
filandiere (chiamate nei vari compiti con le voci dialettali di trazaresse, scoatine,
ingropine, mistre, strosine, bilatere, passasse), per la trattura, per ammollire i
bozzoli e trarne un solo filo consistente e continuo da avvolgere in matasse sopra
i naspi.
Il Museo raccoglierà tutti materiali e gli strumenti (anche di precisione), le
macchine, gli utensili usati nelle varie fasi del processo industriale, dai graticci ai
cestoni, ai microscopi, ai ginecrini, alle spelatrici delle bacinelle, alle incubatrici,
ai fornelli.
Un percorso didattico
Tutto ciò dovrà essere organizzato in sequenze didattiche, atte a riprodurre il
più fedelmente possibile gli ambienti dove il lavoro si svolgeva, a cominciare dalla
cucina della casa contadina al mezà, che era l'ufficio di direzione amministrativa
della bacologia. Grande rilievo avrà poi la storia delle principali famiglie di
bacologi vittoriesi.
Grande importanza avrà nella rassegna l'aspetto architettonico, con il censimento di tutti gli edifici appositamente costruiti, ma tenendo anche conto che molte
attività bachisericole trovarono ospitalità in palazzi padronali o nelle monumentali
barchesse delle ville signorili. Si ricordi, ad esempio, che, a Montecchio Maggiore
in provincia di Vicenza persino la palladiana villa "La Cordellina" (proprietà
Costantini, con gli affreschi del Tiepolo!), fu adibita a stabilimento bacologico.
La rassegna - come esige la più aggiornata tecnica museografica- si avvarrà
dei più moderni mezzi della tecnologia e dell'informatica per offrire ai visitatori
255
postazioni multimediali ed interattive per ricerche e integrazioni personalizzate,
dove sia possibile selezionare argomenti e contenuti onde rispondere a tutte le
domande di approfondimento. Nei locali del museo troverà spazio anche una saletta
per riunioni e una biblioteca specializzata.
Finora i fondi stanziati dal Comune per la sistemazione del Museo sono stati
360 milioni di lire.
I contributi del Ministero per la Ricerca Scientifica, sulla legge 313 e
successive modifiche, sono stati 110 milioni di lire.
Oltre a quello del Ministero, occorrerebbe anche l'aiuto della Regione
Veneto, che dispone di leggi idonee, come la Legge regionale 5 settembre 1984, n.
50 e la 15 gennaio 1985, n.6.
Una collaborazione dovrebbe essere attivata anche con l'Amministrazione
Provinciale di Treviso, che, oltre a contributi, potrebbe assicurare il sussidio del
ricchissimo archivio Storico Fotografico Provinciale.
Le ultime difficoltà
Ci sono ancora difficoltà che intralciano la realizzazione del progetto.
Finora molto materiale è stato raccolto attingendo dai depositi dei vecchi
stabilimenti dismessi e dagli apporti delle famiglie un tempo impegnate nella
bacologia. Si pensa che, una volta funzionante il Museo, molti altri potrebbero
essere indotti a conferire oggetti e testimonianze in loro possesso.Un importante
contributo in mobilio e attrezzature è venuto dai Magazzini Generali e Doganali
S.p.a. di Treviso.
La parte di materiale più interessante e significativa ancora da acquisire è
rappresentata da quello esistente presso la vecchia sede degli ex Ceppi da riproduzione. La Regione, che, in un primo momento aveva aderito alla richiesta del
Comune di destinarlo al Museo, si è successivamente "rimangiato" l'assenso per
l'opposizione dell'Associazione Nazionale Bachicoltori, la quale ha eccepito che
quel materiale poteva tornare utile nell'eventualità (!) di una ripresa della
bachisericoltura.
Sono in corso trattative per rimontare la situazione, ora che la Regione ha
trovato modo di rescindere la comproprietà dello stabile con la predetta Associazione. Nella situazione fluttuante che si è creata, non è ancora chiaro se il materiale
ex Ceppi possa essere ottenuto, mancando una solerte ed energica pressione del
Comune nei riguardi della Regione.
Un'altra fonte di approvvigionamento per il Museo è la donazione Marson.
Dopo la morte dell'ultimo della famiglia ad esercitare fino al 1957 l'attività
bacologia, dr. Domenico, la figlia di questi, Bona Marson in Dal Como ha
manifestato la volontà di donare al Comune il materiale depositato nella sua
256
proprietà. Mentre erano in corso le pratiche per l'accettazione, la Soprintendenza
ai Monumenti di Venezia, con discutibile provvedimento, è intervenuta con
l'imposizione del vincolo sullo stabile - che pure è tutelato da una norma di
salvaguardia del Piano Regolatore - e successivamente ha avviato la pratica per
vincolare anche i macchinari ivi giacenti.
Ciò senza tener conto che proprio per la tutela di detti beni il Comune si è da
tempo attivato con la costituzione del Museo, senza del quale quei beni sarebbero
sì vincolati, ma senza alcuna valorizzazione e fruizione pubblica.
Cosi, allo stato degli atti, una parte del materiale interessante per il Museo
rimarrà bloccato.
A questo punto occorre la determinazione dell'Amministrazione comunale
per dare alla creazione del Museo la spinta risolutiva.
257
Franco Posocco
APPUNTI SULLA TRASFORMAZIONE DEL PAESAGGIO VITTORIESE
"Vestita di rosso e con un famoso
fabulistico cappello (nero)?
sull'auto rossa sull'utilitaria
detta "Corsa", dell'Opel, una rossa
invero straordinaria
giù dai campi d'inenarrabili candori
dai campi - incanti
scende scende madame i tornanti
della strada d'Alemagna.
Andrea Zanzotto - Sovrimpressioni - Milano, 2002
1) - Il paesaggio dell'area vittoriese è la risultante di tre componenti
morfologiche tra loro integrate: la pianura, la collina e la montagna.
Profondamente trasformate e ripetutamente adattate dall'azione umana, esse
hanno dato luogo ad una figurazione tipica, dove la pianura, ed in genere le valli,
erano il luogo degli insediamenti urbani, la collina la sede della colonizzazione
sparsa e la montagna il sito dello stabilimento temporaneo.
Si tratta di un paesaggio complesso, continuamente confrontato nella nostra
percezione, con l'immaginario celebrato variamente nei secoli scorsi nell'ambito
della pittura veneta.
Pur nella dinamica delle trasformazioni dell'agricoltura, dell'allevamento e
delle attività pastorali e forestali, la forma complessiva di questo ambiente aveva
conseguito una condizione di sostanziale equilibrio, testimoniata nelle cartografie
dell'Ottocento, nelle fotografie del primo Novecento e nelle molteplici vedute di
quei pittori, che avevano ripetutamente individuato scorci, panorami e prospettive.
Proprio la Collezione "Paludetti", recentemente aperta nel nuovo museo
civico di pittura contemporanea, consente di apprezzare l'interpretazione figurativa
di questi contesti vittoriesi, quali apparivano a cavaliere dei due secoli prima citati.
259
Sarebbe invero da augurarsi che queste brevi e modeste note avessero come
prosecuzione proprio una ricerca sul paesaggio vittoriese, quale emerge dalla
nuova quadreria cittadina.
All'interno delle tre condizioni orografiche indicate all'inizio, quasi che
queste potessero configurarsi come dei sistemi territoriali autonomi, potevano
distinguersi delle immagini individue, delle vere e proprie "icone", dove la qualità
paesaggistica pareva esprimersi in una forma propria e significativa.
Nella zona piana infatti è possibile riconoscere il paesaggio dei "Prati del
Meschio", come un ambiente aperto ed irriguo, quello della regolare zona, forse
centuriata, disposta tra Ceneda e S. Giacomo di Veglia ai bordi delle antiche vie S.
Tiziano e Calde Livera, quella dei Campardi, anch'essa prativa, ma come dice il
termine: "arida", quella più interna alla valle, quella lacustre e di palù (tra Savassa
e Cison), e così via.
Parimenti la morfologia collinare consente di apprezzare la differenza tra le
alture, complesse e articolate, della morena laterale in zona di Scomigo, Cappella
Maggiore, rispetto a quelle più regolari della morena centrale (Colle Umberto e S.
Martino) e di distinguere queste dolci ondulazioni da quelle più erte e geometriche
di Costa, Anzano, Ceneda, Confin ed ancor più da quelle, già pedemontane, di S.
Lorenzo, Serravalle, Fregona, Revine, S. Floriano, ecc.
Dei tracciati geometrici, concavi quelli morenici, rettilinei e paralleli quelli
sedimentari, sembrano costituire la invisibile "sinopia" strutturale, generatrice
delle linee di forza dell'intera composizione paesaggistica vittoriese.
Anche la montagna presenta diverse tipologie di panorami, poiché per fasce
altimetriche, si può distinguere la zona del castagno e delle grandi latifoglie, che
interessano le alte valli della Cervada e del Monticano, da quella del bosco ceduo,
misto di conifere e di resinose, peraltro di impianto recente, infine da quelle dei
pascoli, misti a rocce affioranti, e delle radure sommitali, sede estiva un tempo,
delle attività di malga e di alpeggio.
Questasinteticageografiaètuttaviaarricchitadall'arredoagrarioedinsediativo,
assai vario e articolato, caratterizzato da essenze arboree, qui spesso giunte in
prossimità del limite settentrionale di acclimatazione: il cipresso e l'ulivo ad
esempio, ma anche il vigneto, che tuttavia rappresenta una delle colture
iconograficamente emergenti dal punto di vista figurativo.
Connotano il paesaggio anche i muri di sasso, che circondano le proprietà,
soprattutto nelle zone suburbane, nonché le grandi case coloniche a schiera, sempre
con il tetto a due falde, solitamente attrezzate per l'allevamento del bestiame e la
coltura del baco da seta.
In alcuni luoghi, ad esempio nelle brevi valli che salgono da Sarmede aRugolo
e Montaner, oppure da Fregona a Sonego, nella stessa Val de Caldaz, è possibile
apprezzare il gradiente degli assetti agrari, che passano dalle colture cerealicole
associate alla vigna, a quelle del pascolo misto a ceduo, per concludersi con il bosco
260
misto a croda delle parti più alte.
Qualche villa veneta, generalmente dell'età più tarda, costituisce il riferimento figurativo dell'ambiente collinare: villa Palatini a S. Fris, villa Lucheschi a
Fregona, villa Garbellotto a Cappella Maggiore, per non parlare della grande villa
Mocenigo a Villa di Villa (no men numen ), quasi demolita dal terremoto del 1936,
o della villa che Baldassare Longhena costruì per i Lippomano ai Gai di S.
Vendemiano, ora oggetto dell'incuria della nostra epoca.
Ad un suo allievo: Giorgio Massari, sono attribuite le due grandi barchesse di
S. Giacomo di Veglia, a tutta evidenza appartenenti alla tradizione architettonica
e funzionale della villa/azienda di pianura.
Anche chiesette e cappelle, spesso di antica origine e decorate da cicli di
affreschi partecipano alla decorazione ambientale.
Percorrendo l'autostrada A 27 dal casello di Conegliano a quello di Fadalto/
S. Croce, si ha modo di operare una lettura dinamica dei diversi paesaggi che si
dispiegano dai primi corrugamenti del Col di Manza/Castello Roganzuolo ai dirupi
predolomitici del Pizzoch/Visentin, nella sequenza di passaggio attraverso le
diverse immagini dell'ambiente collinare e montano.
Percezioni seriali si hanno anche dalla strada dei Colli, specie tra Carpesica
e Ogliano, nonché su quella vera e propria "cornice" che si snoda da Fregona a
Sarmede per Osigo, Montaner e Rugolo.
2) - Il paesaggio, nella percezione della cultura figurativa e nell' aggiornamento delle tecniche d'uso. è però sottoposto ad una incessante trasformazione ed
insieme, ad una continua rilettura.
In altri termini, il paesaggio corrisponde al mutare del nostro apprezzamento,
non meno che all'evolversi della sua propria forma fisica.
Si potrebbe affermare che il paesaggio costituisce l'intersezione tra la forma
referenziale che è dentro di noi e quella reale che è fuori di noi.
Il paesaggio è dunque apprezzamento e giudizio.
Seguendo tale linea metodologica applicata al nostro campo di osservazione,
è possibile scorgere nell'area pedemontana la persistenza di ambienti caratterizzati
da un "paesaggio antico", ancora individuabile per lacerti accanto ad aree completamente omologate dall'adozione di magisteri agrari recenti, o dall'inserimento di
insediamenti (lottizzazioni) e in genere di costruzioni contemporanee.
E' un fenomeno di contaminazione progressiva, tipico della nostra epoca, che
nel tempo tende ad accelerare.
Emblematico è il caso di Scomigo, dove accanto al borgo antico, con le lunghe
case a schiera, vi sono edifici recenti di edilizia urbana, mentre assieme ad antiche
vigne maritate con siepi e piantate arboree, si stendono nuovi vigneti disposti
secondo metodi colturali innovativi.
Il mutamento ambientale iniziato nell'ultimo dopoguerra, sembra assumere
261
caratteri differenziali nelle varie zone territoriali del comprensorio.
La pianura infatti, un tempo sede primaria delle attività agricole, è diventata
il luogo dell'insediamento sparso a bassa densità e lo spazio di riserva per gli
agglomerati residenziali e produttivi.
Tipiche in tal senso sono le zone i Ceneda bassa, di Mescolino, di Corbanese,
dove le antiche strade hanno consentito l'edificazione "a nastro" di villette e
capannoni, con l'inserimento delle più disparate attività artigianali, zootecniche,
commerciali e produttive in genere.
Dissonanza, spaesamento, informalismo caratterizzano queste periferie.
Si è creato in tal modo un alone periurbano, peraltro noto come "modello
Nord-Est", che associa la casa di abitazione al laboratorio, il campo all'industria,
l'infrastruttura con l'edificazione.
In tale contesto le zone produttive previste dagli strumenti urbanistici sembrano rappresentare i luoghi di coagulo e di densificazione della dispersione insediati va.
E' la visione complessiva della conca cenedese che si ha dal colle di S. Paolo.
La campagna delle zone piane e valli ve sembra quindi consunta senza rimedio
da questa modalità d'uso del territorio, dove l'agricoltura e il paesaggio non
costituiscono più un valore e una risorsa, ma solo una riserva di edificabilità.
Si tratta quindi ad un tempo paradossalmente, di un modello antirurale, perché
riduce lo spazio agrario e di un modello antiurbano, perché nega la formazione di
tessuti insediativi coesi e compatti.
E' il pericolo che sembrano correre i Prati del Meschio, in genere i paesaggi
fluviali e lacustri, nonché le zone umide vittoriesi, quello di essere oggetto di un
insediamento progressivo, mentre ora costituiscono la grande riserva verde al
centro della conca, tra Costa, S. Giacomo, Ceneda e S. Martino di Colle Umberto,
nonché all'interno delle valli pedemontane.
Per salvare gli ultimi brandelli di pianura valliva, di paesaggio umido e di
campagna veramente agricola appare indispensabile individuare un "limite" all'insediamento residenziale e produttivo, cioè circoscrivere quelle zone, dove le
attività primarie vengono privilegiate e quelle edilizie si limitano al solo recupero
dei volumi esistenti.
E' la distinzione tra città e campagna, quella che un tempo regolava l'assetto
del circostante urbano, che va ripristinata.
3) - Se la pianura appare estesamente occupata e quasi consumata dall' espansione insediativa, nel Vittoriese la collina si presenta ancora sostanzialmente
conservata, quasi che le pendici delle alture, con poche eccezioni (Olarigo,
Carpesica, Anzano), fossero avvertite come il limite fisico da rispettare nell'edificazione.
Questo costituisce una sorta di eccezione rispetto ad altre situazioni consimili
(cfr. Conegliano, Montebelluna, Bassano, ecc.).
262
S. Paolo, S. Rocco, S. Gottardo, S. Augusta, Madonna della Salute, (si noti la
dedicazione sacra generalizzata delle alture vittoriesi), sono colline rispettate
dall'urbanizzazione.
Tuttavia l'assetto naturalistico maturato negli ultimi cinquant'anni, assieme
all'abbandono delle attività agricole ivi svolte, hanno comportato una vigorosa
ripresa della vegetazione arborea e arbustiva, cioè del bosco d'impianto artificiale
o di spontaneo recupero della superficie prativa.
Le colline sono dunque nuovamente boscose, mentre nelle zone più solatie si
assiste al reimpianto di quegli uliveti che un tempo erano più numerosi, ancorchè
solitamente associati al vigneto e al prato/pascolo.
Anche in collina sopravvivono dunque, (osi stanno singolarmente ricreando),
alcuni lacerti di paesaggio antico, con siepi, campi lunghi, piantate, frutteti, vigne,
soprattutto nelle zone più riposte di Cozzuolo, dei Posocon, di Maren, di Osigo.
Si tratta di individuare questi relitti, almeno per testimoniarne la sopravvivenza figurativa.
4) - In questa prospettiva di trasformazione differenziale degli ambienti che
circondano la città policentrica vittoriese, la montagna sembra essere la regione
della permanenza nella destinazione d'uso, della persistenza nell'assetto funzionale e cioè di una relativa immutabilità dei paesaggi e dei panorami.
Qui infatti non vi sono insediamenti recenti ed i piccoli borghi esistenti si
limitano alle storiche presenze: Fais, Vizza, Maren, prossime al limite della
residenza stabile, quale sui 700 - 800 metri, si è andata configurando nella
Pedemontana trevigiana.
Le grandi infrastrutture, come la A 27 nella val Lapisina, i fasci di antenne o
le numerose strade che rigano il col Visentin, le istallazioni militari del Cansiglio,
hanno inferto alcune ferite al paesaggio montano, che tuttavia ha dimostrato di
saper "digerire" la teleferica del monte Pizzoch, gli elettrodotti dell'alta tensione,
la ferrovia per Ponte nelle Alpi, i canali di derivazione idraulica realizzati dalla
SADE ad Anzano e a Rindola e diverse altre opere della modernità.
La montagna della Prealpe ha conservato la sua immagine severa e protettiva
di fondale necessario per la composizione spaziale di Vittorio Veneto e dei centri
comprensoriali.
E tuttavia anch'essa al suo interno ha visto degradare il sistema dei sentieri,
spesso abbandonati e irreperibili perché non più usati, mentre il vasto corredo di
rustici, malghe, casere, tabià, fienili, ove si assiste alla tracimazione di tipologie
valbellunesi e alpagote, è andato rapidamente in rovina.
L'antica utilizzazione di queste strutture è ancora riconoscibile dalla sopravvivenza, spesso rigogliosa, delle alberature, singole o a gruppo, che venivano
piantate in prossimità della baita abitata, per recare sollievo durante la calura estiva.
Questi "patriarchi" vegetali nei grandi spazi liberi degli altipiani realizzano
263
una sorta di triangolazione topografica, necessaria per l'individuazione e la
riconoscibilità dei paesaggi, non meno che per quella delle proprietà.
Le iniziative di recupero economico e adeguamento strutturale sembrano
configurare un possibile reinserimento della montagna nel ciclo d'uso dei beni
territoriali e nelle opzioni di fruizione estetico/turistica da parte degli abitanti della
sottostante città.
Spetta alle politiche di settore definire tali scenari dello sviluppo.
La montagna è tuttavia un ambiente difficile e va considerata, specie nelle
zone peri urbane, come un'area di protezione del patrimonio idrico, di rigenerazione
dell'atmosfera, forse anche di contemplazione, da mantenere in un assetto attrezzato, ma sostanzialmente naturale e protetto.
5) - Il Vittoriese è tuttora una vera e propria collezione di paesaggi tipici ed
esemplari, come testimoniano le "viste" che si colgono dalle finestre delle case,
dalle strade e dai sentieri, dalla cima di colli e montagne ..
Questa silloge immaginaria merita una considerazione particolare da parte di
quanti sono in qualsiasi modo implicati negli interventi materiali.
Per rendere sostenibile la trasformazione, servono dunque regole, più che
vincoli, occorre ordine ed equilibrio tra le forme della preesistenza ed i nuovi
inserimenti, soprattutto sono richieste sollecitudine e attenzione allo spreco di
risorse fisiche e territoriali in genere.
Solo una cultura della compatibilità, una conoscenza della storia, un rispetto
dei luoghi possono infatti interagire con una progettazione sapiente, in grado di
armonizzare le esigenze del mutamento e dell'evoluzione con quelle della continuità e della memoria.
E' questa la sfida da accettare, perché Vittorio possa mantenere il suo decoro
urbano e territoriale, nella città e nel contesto che la circonda.
L'obiettivo, certamente arduo in tempi di dilagante funzionalismo, è dunque
quello di graduare e controllare l'evoluzione di una "città- giardino" collocata in
un ambiente di paesaggi collinari e montani di antico decoro, ove natura e cultura,
storia e ambiente hanno svolto un dialogo costruttivo dello spazio antropico nella
città e nel territorio.
264
Lorenzo Cadeddu
UNO O DUE CAPRONI?
"Colle prime luci la pioggia cessa. Il cielo sgombro di nubi annuncia una
splendida giomata .... Verso le otto uno sciame di apparecchi nostri, da bombardamento e da caccia, popola il cielo di Vittorio ... Le prime bombe centrano i bersagli.
Certune, evidentemente destinate a colpire la Villa Pasqualis, sede del Comando
d'Armata, scoppiano in Piazza Garibaldi; altre nei pressi di Villa Costantini ... Le
batterie antiaeree sparano senza sosta: evidentemente, nella furia rabbiosa, non
tentano nemmeno di puntare, perché le nuvolette appaiono qua e là a casaccio. Non
un aeroplano è colpito ... Gli apparecchi nemici del campo di San Giacomo non
osano farsi vedere: nessun palpito di motore. All'improvviso, invece, spuntano dal
cielo di Belluno le prime sagome austriache.
Un aviatik precipita presso Sant' Andrea disegnando una spirale di fiamme; un
altro va fracassandosi contro le rocce di Sant' Antonio, verso Revine.
Ora un Caproni maestoso, a quota bassissima, sembra scivolare sulle case. Le
sue mitragliatrici mandano lampi, anche nel sole.
Cinque velivoli nemici lo assaltano, lo circondano, piroettano, s'impennano,
puntano decisi. Il Caproni si difende con manovra sicura: due ali nemiche sono
stroncate. Ma adesso che succede? Il rombo del motore ha un silenzio: ancora un
respiro ... forse plana ... forse ...
Non parla più: come un bolide precipita verso San Pietro, trascinandosi una
vampa gialla. Mio Dio, mio Dio!
Corriamo verso quella località nella speranza di portare un aiuto a quei
disgraziati. Troviamo quattro cadaveri bruciacchiati. Uno indossa la divisa americana, gli altri tre la nostra ... ".
265
Il lungo scritto riproposto alla lettura è tratto dal racconto autobiografico di
Alessandro Tandura "Tre mesi di spionaggio oltre Piave".
L'azione aerea a cui fa riferimento Tandura è, certamente, quella subita da
Vittorio (ancora non aveva aggiunto il predicato "Veneto") il 27 ottobre 1918,
vigilia della definitiva liberazione.
Sulla stessa vicenda ha riferito anche Isidoro Tomasin ne "L'anno di Vittorio
Veneto" il quale, tuttavia, mentre si sofferma, esaustivamente, sul bombardamento
della sede del Comando d'Armata austriaco di Via Pasqualis ignora, completamente, l'abbattimento del nostro Caproni.
Tandura, però, non riferisce il nome dell'aviatore americano che, probabilmente, non conosce, sappiamo, però, che si tratta del Tenente Coleman De Witt
Fenafly, nato a New York il 29 ottobre 1892 e morto, in combattimento aereo, il 27
ottobre 1918. Vediamo, allora, con l'aiuto di un testo edito dal Gruppo Medaglie
d'Oro al Valor Militare, chi era Coleman De Witt. Già, perché l'ufficiale statunitense fu uno dei quattro decorati di M.O. V .M. stranieri (la quinta è la città francese
di Verdun) e la decorazione gli venne conferita per effetto del d.l. 7 gennaio 1919.
Il 27 ottobre 1917, esattamente un anno prima della morte, De Witt raggiunse
il campo di aviazione di Foggia proveniente dalla Francia e qui prima conseguì il
brevetto di pilotaggio poi fu nominato istruttore e, infine, divenne capo pilota.
Nell'aprile dell'anno successivo, unitamente ad altri dieci piloti statunitensi,
venne promosso Tenente e trasferito nel veronese dove prese parte, al comando di
un Caproni da bombardamento, a numerose azioni di bombardamento lungo il
fronte italiano.
Il 27 ottobre 1918, durante la battaglia di Vittorio Veneto, al rientro da una
missione di bombardamento su depositi munizioni nemici, il Caproni di De Witt
venne attaccato da cinque velivoli da caccia austriaci.
De Witt non si sottrasse al combattimento e anzi, accettò la pur impari lotta
e, dopo aver abbattuto due velivoli nemici, colpito da una raffica di mitragliatrice
nei serbatoi di carburante, il velivolo precipitò in fiamme. Nessuno dell'equipaggio
ebbe a salvarsi.
La motivazione della Medaglia d'Oro che gli venne concessa localizza la
vicenda nel " ... cielo di Vittorio Veneto ... ".
Come il lettore può vedere, il racconto di Tandura e quanto pubblicato dal
Gruppo Medaglie d'Oro al Valor Militare combaciano anzi, sono proprio
sovrapponibili anche se, su quest'ultimo testo, non viene citata la località presso la
quale il velivolo cadde e che, secondo Tandura, era situato " ... nei pressi di San
Pietro ... ".
L'azione dei nostri velivoli da bombardamento, d'altro canto, doveva svilupparsi lungo le rotabili Ponte nelle Alpi - Vittorio, Vittorio - Pollina e Tovena Trichiana e dunque risulta verosimile che un velivolo colpito possa essere caduto
nella zona di San Pietro di Feletto e Rua di Feletto.
266
In località Rua di Feletto, a sud di San Pietro di Feletto, su una delle pareti
esterne del campanile della parrocchiale, dedicata a Maria Assunta in cielo, è situata
una targa in marmo sulla quale è riconoscibile un velivolo su un'ala del quale è
scritto "Moriamo sulle vette/per gli orizzonti dei mari".
Al di sopra dell'abbozzato velivolo, sta una piccola croce e la scritta "Cielo
di Conegliano 27-10-1918" e, più sopra ancora, incolonnati, i quattro nomi dei
componenti l'equipaggio con le rispettive località di nascita: Tenente Mario Tarli
Ascoli Piceno, sergente Giannetta Vassura Cotignola, mitragliere Dandolo Zamboni
Desenzano e mitragliere Domenico Fantucci di Nera.
In merito è stato sentito il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti
in Guerra che ha confermato tutti i riferimenti riportati sulla lapide precisando, nel
contempo, che velivolo ed equipaggio appartenevano alla 4Asquadriglia aeroplani
e che a tutti i componenti l'equipaggio venne conferita la Medaglia d'Argento al
V alor Militare, alla memoria.
Come il lettore avrà certamente notato, tra i componenti dell'equipaggio non
figura alcun militare statunitense.
Non è verosimile che Tandura abbia raccontato cose non vere nè che cose non
vere siano contenute nella motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare
concessa al Tenente De Witt.
Parimenti, non possono essere considerate poco attendibili le notizie contenute nella targa di marmo murata sul campanile di Rua di Feletto.
Unica ipotesi verosimilmente plausibile, dunque, è che durante l'azione di
bombardamento del 27 ottobre 1918 siano stati due i velivoli italiani "Caproni"
abbattuti e, ancorché la cosa possa apparire per lo meno strana, tutti e due i velivoli
precipitarono nella zona compresa tra San Pietro di Feletto e Rua di Feletto.
Questo giustificherebbe anche l'iscrizione "cielo di Conegliano" essendo le
due località comprese nel mandamento amministrativo di Conegliano.
Perché, dunque, parlare sempre e solo del velivolo ai cui comandi era il tenente
statunitense Coleman De Witt Fenaflay e non rendere giustizia ed onore anche
all'equipaggio del "Caproni" di cui alla targa sul campanile di Rua di Feletto?
Da parte mia le ricerche per chiarire la vicenda continuano.
267
Lorenzo Cadeddu
VICTORIA NOBIS VITA
Più di qualcuno, vittoriese o turista, si sarà domandato quale sia l'origine del
motto latino "Victoria nobis vita" che, scolpito sulle basi marmoree dei pennoni
della Piazza del Popolo, identifica, ormai da diversi lustri la città di Vittorio Veneto
che lo ha adottato, appunto, come motto cittadino.
Il motto venne ripreso e brilla all'esterno della cabina di comando dell' incrociatore "Vittorio Veneto", nostra ammiraglia.
Se devo essere onesto, le mie modeste reminiscenze latine non mi aiutano a
identificare se e quale autore latino può aver coniato un simile verso adottato poi
come motto.
Amici, certamente più illustri ed acculturati di me, mi hanno però confermato
che neanche a loro il motto ricorda qualche autore latino.
Dunque, la sua origine è più recente.
Tutto può essere ricondotto al 1917 .....
. . . .la dodicesima battaglia dell'Isonzo era iniziata alle ore 02.00 del 24 ottobre
e, dopo soli due giorni, la caduta delle posizioni di Montemaggiore aveva fatto
definitivamente crollare il sistema difensivo della 2A Armata, con la conseguente
apertura della via di Cividale alla penetrazione delle avanguardie austro-tedesche
che, scarsamente o nient' affatto impegnate, procedevano lungo le con valli del
Natisone.
Il crollo del sistema difensivo della 2A Armata avrebbe scoperto il fianco
sinistro della 3A Armata che avrebbe così rischiato di essere avvolta da tergo.
Il Comando Supremo italiano, valutata la pericolosità della situazione e della
penetrazione nemica, ritenne opportuno ordinare il ripiegamento generale di tutta
la fronte orientale.
269
Il 4 ° Corpo d'Armata del Cadore e la Zona Carnia vennero fatti ripiegare verso
il massiccio del Grappa, la 2A Armata era ormai sbandata e dunque bisognava
necessariamente farla ripiegare verso le retrovie per essere riordinata mentre alla
3A Armata venne ordinato di ripiegare dietro la linea del Tagliamento prima e del
Piave poi.
Solo la 1A Armata, schierata sul fronte trentino, rimase sulle sue posizioni
perché non intaccate dallo sfondamento austro-tedesco.
Dur~te il ripiegamento della 3AArmata, le truppe del Duca d'Aosta offrirono
" ... magnifico esempio di compattezza e di forza ... " come ebbe a scrivere lo stesso
Generale Cadorna sul bollettino del 1° novembre additando, ancora una volta,
"l'invitta" all'ammirazione ed alla riconoscenza degli italiani tutti.
E' di quei giorni il sacrificio dei reggimenti "Genova" e "Novara" cavalleria
che nella pianura di Pozzuolo del Friuli, unitamente ai fanti della brigata "Bergamo"
si sacrificarono per dar tempo, al grosso delle truppe in ripiegamento, di raggiungere e superare il corso del Tagliamento prima che fosse fatto saltare il ponte
all'altezza di Latisana.
Sempre sul Tagliamento, a Flambro di Talmassons, il Col. Emidio Spinucci,
Comandante di un reggimento di Granatieri di Sardegna, cadeva alla testa dei suoi
uomini in un disperato, definitivo assalto.
Grazie anche a questi episodi, la 3A Armata superò integra la linea del
Tagliamento prima e del Piave poi che venne raggiunto il 7 novembre.
L'Armata inquadrava, in quei giorni, quattro Corpi d'Armata: VIII, Xl,
XIII e XXIII, per complessive otto divisioni. Erano gli stessi Corpi d'Armata che
già dall'inizio del conflitto avevano preso parte alle precedenti 11 battaglie
dell'Isonzo.
Il XXIII Corpo d'Armata, tra l'altro, era comandato da quel Generale
Armando Diaz che di lì a pochi giorni sarà chiamato a sostituire il Generale
Cadorna.
Già nella notte del 12 dicembre, le unità della 5A Armata dell'Isonzo
attaccarono le nuove posizioni dell'Armata del Duca d'Aosta, occupando l'ansa di
Zenson e costituendo una pericolosa testa di ponte che venne prima circoscritta e
poi recisa.
Più a nord, un tentativo di superare il corso del Piave, effettuato da quattro
battaglioni austriaci all'altezza del ponte ferroviario Oderzo-Treviso, venne
stroncato dai fanti della brigata "Lecce".
Un altro tentativo gli austriaci lo esercitarono aFagarè ma venne respinto dalla
brigata "Novara" e dai bersaglieri della III brigata.
Si giunse così al terzo natale di guerra.
Proprio in quel giorno a Mogliano Veneto, nella sala operativa del Comando
tattico della 3AArmata il Duca d'Aosta, aprendo il quotidiano rapporto per l'esame
della situazione, esordì con queste parole "Cari compagni di lavoro, per la fortuna
270
d'Italia, uno solo sia oggi il nostro motto: Victoria nobis vita!. .. ".
Più che un motto, era un voto.
Un voto che, pronunciato nella solennità della ricorrenza e soprattutto, nella
gravità del momento, il Duca d'Aosta proponeva alla riflessione dei suoi ufficiali.
Un voto che la 3" Armata fu in grado di sciogliere meno di un anno dopo
occupando Trieste.
All'epoca prestava servizio al Comando aeronautica della 3" Armata, il nostro
concittadino Camillo De Carlo.
In relazione al suo incarico di osservatore l'ufficiale sarebbe stato presente
quel giorno al rapporto del Duca d'Aosta e dunque quelle parole deve averle serbate
in cuor suo.
De Carlo fu podestà di Vittorio Veneto dal 1931 al 1938 e nel 1934 progettò
e fece realizzare l'architettura della piazza che, con alcune varianti successive, è
quella ancor oggi visibile.
Il Natale del 1917 e soprattutto il voto pronunciato quel giorno dal Duca
d'Aosta a nome di tutti i suoi ufficiali tornò, allora, alla mente di De Carlo ...
271
Lorenzo Cadeddu
UN PARACADUTE PER VITTORIO VENETO
Tutti (o quasi) i vittoriesi conoscono Alessandro Tandura e, dell'illustre
concittadino, sanno che fu il primo militare, in assoluto, ad effettuare un lancio con
paracadute dietro le linee nemiche.
Il lancio di Tandura venne effettuato nella notte del 9 agosto 1918 ed all'epoca,
com'è facile immaginare il paracadute, pur discostandosi abbastanza da quello
ipotizzato da Leonardo da Vinci, non era minimamente paragonabile a quelli attuali
che, grazie a tutta una serie di "fessure", aprendosi o chiudendosi secondo necessità
consentono di centrare un disco di 30 centimetri di diametro.
Alle ore 05,30 dello stesso giorno, dall'aerocampo di San Pelajo in quel di
Padova, otto velivoli SVA, uno biposto e sette monoposto, erano decollati alla volta
di Vienna per lanciarvi migliaia di manifestini tricolori in sostituzione di qualche
quintale di bombe dagli effetti micidiali.
Per i più giovani val la pena precisare che l'idea di volare su Vienna era stata
del solito D'Annunzio, uno dei pochi che, bisogna ammetterlo, la guerra, dopo
averla a gran voce chiesta l'aveva anche fatta.
A Swazau, 50 chilometri a sud di Vienna, il velivolo del Ten. Giuseppe Sarti
fu costretto ad un atterraggio di fortuna per una avaria al motore.
Alle ore 09 .1O,parzialmente coperto da uno strato di nuvole, appare il "Wiener
Wald" (la selva viennese) e, poco dopo, una macchia bianca illuminata da un sole
pallido e attraversata da un grande fiume: Vienna.
I sette velivoli, che D'Annunzio chiamerà "le sette stelle dell'orsa", scendono
di quota sino ad 800 metri tanto che i piloti riescono a vedere i cittadini che presi
dal panico corrono in tutte le direzioni. La tentazione di sganciare bombe è grande,
ma i vani quel giorno sono stati caricati con volantini che cominciano a sfarfallare
273
gioiosi sulla città.
Alle ore 12,40 di quello stesso 9 agosto sei dei sette velivoli che avevano
sorvolato la cattedrale di Santo Stefano rientrarono alla base di San Pelajo
festeggiati da quanti erano lì in trepida attesa.
Il felice volo sulla capitale dell'Impero Asburgico non poteva che essere di
buon auspicio per l'azione di Tandura per portare a termine la quale rischiava il
capestro.
Ma tutto, quel giorno, andava bene per l'Intesa.
In Piccardia l'avanzata anglo-francese andava svolgendosi trionfalmente: 14
chilometri di penetrazione e 10.000 prigionieri mentre in Albania un grosso
idrovolante austriaco è costretto ad ammarare nei pressi di Punta Samana.
Soltando due anni prima, lo stesso 9 agosto, le truppe italiane entravano a
Gorizia, l' "amante di tutti i soldati" che Vittorio Locchi canterà nella sua "Sagra di
Santa Gorizia".
La sera del 9 agosto, dunque, dal campo di aviazione di Villaverla (Vicenza)
"gestito" dagli alleati britannici Tandura, dopo un breve e caloroso saluto in inglese
da parte del Comandante del campo, Magg. Barker, venne imbarcato su un velivolo
da bombardamento tipo Savoia-Pomilio appositamente modificato ed ai comandi
del quale c'era il parlamentare britannico Cap. Wedwood.
Il resto della vicenda è abbastanza noto giacchè il Tandura raccontò la sua
vicenda in un libro ormai quasi introvabile dal titolo "Tre mesi di spionaggio oltre
Piave".
Ciò che era ed è ai più sconosciuto è il contenuto di una relazione datata 18
luglio 1918 a firma del Capo Sezione Informazioni della 3A Armata, Col. Ercole
Smani otto.
La relazione, elaborata ed inviata al corrispondente Ufficio Informazioni del
Comando Supremo, reca ali' oggetto "Organizzazione del servizio informazioni sul
nemico nelle regioni invase".
In questo documento si relaziona il superiore Comando circa i provvedimenti
adottati per acquisire notizie sul nemico giacchè la linea di contatto tra i due eserciti
e corrispondente al letto del fiume Piave, non consentiva più ad entrambi gli eserciti
di acquisire notizie sull'avversario dallo stretto contatto della fronte e dall'azione
di pattugliamento o di osservazione più in generale.
In particolare la 3A Armata (ma ciò valeva anche per le altre Grandi Unità)
aveva previsto l'invio oltre la linea del Piave di informatori tratti tra i "volontari"
nativi dei territori rimasti in mano al nemico dopo le vicende di Caporetto.
I mezzi più idonei per far giungere gli informatori nelle località ritenute più
idonee furono i velivoli, come per l'altro vittoriose Camillo De Carlo; gli idrovolanti, come nel caso dei fratelli Giuseppe e Nicolò De Carli di Azzano Decimo o i
M.A.S. (Motoscafi Anti Sommergibili) come nel caso del caorlino dott. Romiati.
Il paracadute, mezzo impiegato da Alessandro Tandura non è dunque neanche
274
preso in considerazione
Anzi, a proposito del paracadute dice esplicitamente la relazione del Col.
Smani otto " ... si è creduto di escludere, per ora, il lancio di fiduciari dall'aeroplano
mediante paracadute, anzitutto perché tale sistema non è accolto con favore dai
generosi che si sono votati al sacrificio per il bene del Paese, in secondo luogo
perché non torna facile al momento dell'atterraggio distruggere il paracadute e,
d'altra parte, l'abbandonarlo senza distruggerlo equivarrebbe a dare in mano al
nemico la prova della presenza di nostri fiduciari nei territori invasi e porterebbe ad
un inasprimento delle misure di vigilanza ... ".
Dunque, a 22 giorni dall'avventura di Alessandro Tandura, nessuno aveva
accettato di utilizzare quel mezzo per raggiungere la zona d'impiego.
Lo stesso Tandura, nelle già citate memorie autobiografiche, racconta di aver
saputo di essere stato prescelto per il delicato compito di informatore soltanto il 30
luglio per bocca del Ten. Col. Dupont, Capo Ufficio Informazioni dell' SAArmata
e dallo stesso ufficiale, ma soltanto il giorno successivo, seppe che il mezzo per
raggiungere "la residenza" sul Col del Pel (pendici del Visentin) sarebbe stato il
paracadute ...
A proposito, in quel periodo in Italia vi erano soltanto quattro paracaduti,
peraltro britannici. Uno venne impiegato da Tandura e due furono impiegati,
qualche tempo dopo, da altri due informatori: i tenenti Ferruccio Nicoloso e Pier
Arrigo Barnaba, entrambi di Buia (Udine).
275
Lorenzo Cadeddu
EL ALAMEIN SESSANT'ANNI DOPO
Ci sono voluti sessant'anni per ridare dignità ai soldati italiani combattenti in
Africa Settentrionale ed in particolare a coloro che hanno lasciato la vita sulle sabbie
di El Alamein.
Di ciò non possiamo essere che grati al Presidente della Repubblica anche se,
per la verità, attestazioni di rispetto erano state formulate dallo stesso avversario ma
che per la paura di un indiretto avvallo della guerra fascista tali attestazioni sono
state sempre ignorate.
Solo al termine del conflitto e in terra egiziana questo valore venne riconosciuto e sulla litoranea che collega Tobruk ad Alessandria, a 111 chilometri da
quest'ultima località fu posta una lapide su cui sta scritto "Mancò la fortuna, non
il valore".
Anche questo riconoscimento, come quello sui nostri combattenti in terra di
Russia, è figlio della caduta del muro di Berlino.
Veniamo ora alla nostra rievocazione.
Ogni anno, in ottobre, le prime piogge attenuano la calura nella fascia desertica
che collega l'Egitto alla Libia e che oggi è conosciuta come Western Desert.
Le nubi giungono in questa regione provenendo da nord, cioè dal mare,
superano le modeste dune costiere e le poche alture di tufo più interne, che sulle
carte topografiche sono indicate come quote, per scaricarsi più all'interno portando,
così, un po' di fresco alle scarse popolazioni nomadi del luogo.
E' l'inizio dell'inverno, un inverno che non sarà mai troppo freddo e che
porterà quel po' d'acqua sufficiente a far germogliare qualsiasi seme disperso tra
la sabbia e la pietraia e che per alcune settimane colorerà di chiazze verdi la Western
Desert.
277
Negli altri periodi dell'anno l'acqua arriva attraverso un acquedotto che corre
parallelamente alla strada costiera, sotto due metri di sabbia.
Ad intervalli regolari l'acquedotto offre una presa d'acqua attorno alle quali
sostano gruppi di beduini.
Chiacchierano tra di loro, in cerchio, con calma, come gente che non ha fretta
sorseggiando, di tanto in tanto, piccoli bicchieri di thè alla menta con tanto
zucchero.
Appartengono alla tribù dei figli di Alì i cui tradizionali diritti d'acqua e di
pascolo si estendono su un vastissimo territorio che va da Alessandria d'Egitto a
Tripoli di Libia.
La tribù che risiede nella regione costiera chiamata El Alamein è costituita da
circa 200 uomini tra i quali tale Amdallah esercita le funzioni di capocabila.
Amdallah conosce poche parole nelle lingue degli eserciti che qui si batterono
e se gli domandate cosa accadde su queste sabbie vi risponderà, con gli occhi appena
velati di lacrime, che nel 1984, compiuta l'umana e pietosa opera di recupero delle
salme dei caduti (senza distinzione di nazionalità) nel titanico scontro, il colonnello
Paolo Caccia Dominioni volle salutare per l'ultima volta quelle croci e quei luoghi
che, per circa trent'anni costituirono la sua principale occupazione e per la quale la
sua laurea in ingegneria non gli era servita molto.
Per tutti i beduini che lo avevano aiutato nella pietosa opera lo abbracciò il
padre di Amdallah, il vecchio Abd el Rasul che nel linguaggio della tribù vuol dire
"il servo dell'inviato di Dio".
Ma, forse, solo per quei beduini e per i familiari dei combattenti di Alamein
Paolo Caccia Dominioni era un inviato di Dio giacchè per le Autorità politiche
dell'epoca Caccia Dominioni era solo "uno scocciatore". Morì nel 1992 a Santa
Maria di Leuca, località più vicina ad El Alamein e nel contempo più lontana da
Roma che rappresentava per lui l'assurda burocrazia e il vergognoso silenzio sulle
virtù del soldato italiano.
Il 20 ottobre 2002 il Presidente Ciampi gli conferirà, alla memoria, la
Medaglia d'Oro al Valor dell'Esercito, di ciò saranno contenti anche i beduini della
tribù degli Alì. In fin dei conti anche loro hanno raccolto le spoglie dei nostri caduti.
Iniziamo quindi, accompagnati da Amdallah questo viaggio virtuale o meglio,
questo pellegrinaggio virtuale e compiamolo come lo farebbe qualsiasi beduino:
invocando la protezione del Dio di quelle sterminate pianure sulle quali si
consumaròno tante belle divisioni italiane dai nomi carichi di gloria.
Non vuole essere, questo, un elogio alla guerra, cosa che sarebbe solo
irrazionale, ma una semplice rievocazione per non dimenticare.
Parlare di una battaglia importante qual'è quella di El Alamein è impresa
difficoltosa se non la si inquadra negli avvenimenti complessivi che l'hanno
preceduta e a ridosso dei quali il titanico scontro si colloca.
I primi due anni di guerra vennero combattuti, com'è noto, nel nord Africa e
278
furono caratterizzati da una situazione militare che potremo definire "elastica".
Questo elastico, nei suoi movimenti di estensione e di rilascio, costringeva i
due contendenti a movimenti in avanti ed indietro lungo l'asse est-ovest lungo oltre
1000 chilometri.
Nel primo movimento il britannico O'Connor ebbe la meglio sul nostro Gen.
Graziani; nel secondo movimento il tedesco Rommel battè i britannici Wawell e
O'Connor; nel terzo movimento i britannici Cunningham, Ritchie e Auchinlek
batterono il tedesco Rommel che, come vedremo tra poco, nel quarto movimento
si prese la rivincita con una schiacciante vittoria su Auchinleck e Ritchie.
In Libia l'Asse si giocava tutta la credibilità in campo militare.
Il Nord Africa era, infatti, uno scacchiere privo di qualsiasi risorsa, con scarse
o nulle possibilità idriche, povero di vie di comunicazione, senza alcuna attrezzatura tecnica e così esteso che le distanze venivano misurate in migliaia di chilometri.
Qui, in questo ambiente, l'arte militare vide confermato l'assioma secondo cui
le operazioni militari sono intimamente legate alle possibilità logistiche.
L'esercito italo-tedesco poteva alimentare il campo di battaglia solo attraverso il Mediterraneo e questo richiedeva uno sforzo notevole perchè non erano
soltanto armi, munizioni, carburanti, viveri ed equipaggiamenti a dover essere
trasportati, ma anche i battaglioni, i reggimenti e le divisioni necessarie al
combattimento.
I nostri convogli, erano sempre più spesso preda dei sommergibili e delle navi
da battaglia britanniche che, salpate da Malta, facevano in modo da attraversare le
nostre rotte verso i porti della Libia.
Per eliminare questa spina nel fianco, il Comando Supremo, all'inizio del
1942, elaborò un piano per la conquista della munitissima base aeronavale
britannica di Malta.
Il valore intrinseco dell'isola era stato già messo in giusta evidenza dallo Stato
Maggiore Marina nel 1938 quando, nel quadro di un progetto per il trasporto di
uomini e mezzi in Libia in caso di guerra, affermava di doversi prevedere
l'occupazione di Malta quale premessa a qualsiasi nostra operazione in Africa
Settentrionale.
In effetti un parziale tentativo effettuato all'inizio del 1942 diede qualche
risultato nel senso che sino al mese di aprile il Comando della piazzaforte fu
impegnato nel ripristino delle strutture e non poteva dedicarsi a dare la caccia ai
nostri convogli.
Sfortunatamente l'azione non potè essere reiterata per l'ostinazione dell'Alto
Comando Tedesco che ci negò qualsiasi concorso, soprattutto aereo, giustificandolo con una già programmata manovra offensiva contro la Russia.
Il piano strategico tedesco, prevedeva una classica manovra a tenaglia con
obiettivo il Medio Oriente.
Il braccio principale sarebbe giunto sull'obiettivo attraverso il Caucaso,
279
mentre quello secondario avrebbe proceduto lungo il deserto cirenaico-egiziano.
All'Italia sarebbe toccato alimentare tutta la campagna in Africa settentrionale.
Lo sforzo da noi sostenuto fu onerosissimo ma non venne riconosciuto e
apprezzato dal nostro alleato tedesco e men che meno da Rommel che dopo tutto
ne fu il massimo beneficiario.
Il Maresciallo tedesco, infatti, non comprese o non volle comprendere le
enormi difficoltà che dovevamo superare per consentire ai nostri convogli di
giungere in Libia.
Rommel si limitava a far conoscere i suoi fabbisogni pretendendoli nei tempi
stabiliti.
Nel corso di una riunione con il Gen. Cavallero questi, stizzito dall'arroganza
di Rommel, gli ricordò che" ...la battaglia dell'Egitto si inizia in Italia, prosegue nei
porti d'imbarco, sulla via Balbia e si conclude ad El Alamein. Voi combattete la
parte più brillante e non sempre tenete conto della parte durissima che si deve
combattere in precedenza ...".
Le parole di Cavallero erano tanto dure quanto vere.
Rommel, in effetti, si comportò nei confronti degli italiani in veste di creditore
e, talvolta, di ricattatore, ordinando rifornimenti a piè d'opera, lamentando aspramente l'insufficiente alimentazione alla quale addebitava gli insuccessi e le
occasioni mancate.
Mai diede l'impressione di comprendere le gravi difficoltà che l'Italia
incontrava per far giungere i convogli nei porti libici e mai, come in Africa
Settentrionale l'azione militare dipendeva dalle possibilità logistiche.
Solo a fine conflitto si verrà a sapere che i britannici tramite un sistema di
decifrazione erano in grado di decriptare i messaggi cifrati che riuscivano ad
intercettare con incalcolabile danno per le forze dell'Asse. Ma la guerra è anche
questo.
L'Italia, con le sue limitate risorse e per di più insidiata sul mare, non era in
grado di far giungere i rifornimenti sufficienti e costanti necessari per sostenere lo
sforzo italo-tedesco in quello scacchiere.
Le operazioni nel deserto avevano assorbito tutto il potenziale che l'Italia era
in grado di esprimere e così, per mancanza di nafta, eravamo costretti a far viaggiare
i convogli senza scorta e questo li rendeva preda degli agguati britannici.
La stessa mancanza di nafta impediva alla nostra flotta di uscire in mare aperto
per intercettare i convogli anglo-americani sempre scortati da navi da battaglia.
Tutto questo, mentre creava nel nostro Stato Maggiore uno stato di incertezza,
favoriva i nostri avversari che si ritenevano, non a torto, padroni del Mediterraneo.
Sul versante opposto l' SAArmata britannica, riceveva rifornimenti e rinforzi
attraverso il Canale di Suez da convogli che, per evitare gli agguati degli U-Boote
tedeschi effettuavano il periplo del Capo di Buona Speranza.
280
Tutto questo consentì al Gen. Montgomery di riorganizzare l' SAArmata con
nuovi potenti mezzi, in previsione di una grande offensiva, concomitante con uno
sbarco americano in Algeria e Marocco.
Ripercorriamo, brevemente, le vicende che precedettero la battaglia di El
Alamein.
La guerra nel deserto dell'Africa settentrionale durava ormai da due anni. In
tale periodo, 1940-1942, gli _italianiprima da soli e poi affiancati dai tedeschi, si
erano battuti con alterne vicende, ma sempre con coraggio, contro le forze
britanniche.
Nell'estate del 1940 gli italiani giunsero alla porte di Marsa Matruk ma
nell'inverno dello stesso anno dovettero abbandonare la posizione a causa di una
audacissima controffensiva con cui i britannici tornarono sul meridiano del Golfo
della Sirte. Di qui, nella primavera del 1941 vennero ricacciati dagli italo-tedeschi,
fino al vecchio confine libico-egiziano di Bardia.
E ancora, nel successivo inverno del 1941 e nella primavera del 1942 si
verificò un nuovo avanti e indietro. Seconda controffensiva britannica con avanzata
sino a Marsa Brega ed immediata reazione italo-tedesca con riconquista di tutta la
Cirenaica fino ad Ain el Gazala.
Di fi, la sera del 26 maggio 1942, l'armata corazzata italo-tedesca aveva preso
le mosse per la battaglia decisiva, quella che nelle speranze del Generale Rommel
doveva concludersi con la completa distruzione dell' SAarmata, la conquista di
Tobruk e, forse, una marcia vittoriosa verso il canale di Suez.
L'azione aveva avuto un successo forse insperato: dopo un mese di aspri
combattimenti sulle sabbie di Bir Hakeim, BirTemrad, Gotel Ualeb e Knightsbridge,
Tobruk era finalmente caduta il 21 giugno e le forze corazzate britanniche
annientate.
Nello stesso periodo, i tedeschi in Russia scatenavano una grande offensiva
verso il Caucaso e Stalingrado.
Con la presa di Tobruk un'euforia generale pervase tutti i combattenti
dell'armata corazzata italo-tedesca.
La sensazione di tutti era che la campagna d'Africa avesse raggiunto la svolta
decisiva e non erano in pochi a ritenere che la conclusione del conflitto fosse ormai
prossima.
Il collasso della piazzaforte di Tobruk, la più munita del nord Africa, in poco
più di 24 ore, aveva fatto in modo che nelle nostre mani rimanessero enormi
quantità di viveri, munizioni e carburanti oltre ai 30.000 uomini della guarnigione
tra cui ben 6 generali.
L'agguerrita SAarmata britannica, che soltanto 20 giorni prima era stata sul
punto di riportare una spettacolare vittoria sulle forze di Rommel, sembrava
disintegrarsi ed i resti si ritiravano velocemente verso l'Egitto.
Le sue divisioni più prestigiose, inglesi e dei Dominions, erano ormai a pezzi.
281
Degli 850 carri armati con i quali i britannici avevano incominciato la
battaglia di Ain el Gazala il 26 maggio 1942, ne rimanevano poche decine, sparsi
tra le diverse unità corazzate, comunque privi di efficienza operativa.
Gli italo-tedeschi potevano avanzare, con limitati timori, verso il porto di
Alessandria, il Canale di Suez ed il petrolio del Medio Oriente.
Alessandria dista da Tobruk circa 700 chilometri, ma nulla, in quel momento,
sembrava impossibile.
Le enormi quantità di materiali di ogni tipo abbandonati frettolosamente nei
depositi che si incontravano durante l'avanzata, sembrano rendere improbabile un
recupero del nemico a breve scadenza.
Se l'esercito britannico era in ritirata, l'aviazione, però, non demordeva: dalle
vicine basi egiziane, ogni giorno attaccava le colonne avanzanti e costituiva,
certamente, l'ostacolo più serio alla marcia verso oriente.
Il 26 giugno, in uno dei quotidiani bombardamenti che provocavano non
lievi danni, perdeva la vita il Gen. Baldassarre, Comandante del XX Corpo
d'Armata motocorazzato italiano nonchè i comandantidell'artiglieriaedelgenio
dello stesso Corpo d'Armata.
Ancora il 26 giugno le colonne più avanzate dell' Afrika Korps e del XX Corpo
d'Armata italiano, prendevano contatto con le posizioni di Marsa Matruk, situate
a 500 chilometri più a est di Tobruk, sulle quali gli inglesi intendevano arrestare,
almeno temporaneamente, l'offensiva nemica.
L'armata italo-tedesca, nonostante l'enorme logorio a cui anch'essa era stata
sottoposta in un mese di continui combattimenti, condotti in condizioni di netta
inferiorità di mezzi, otteneva un'altra importante vittoria: con forze divenute ormai
esigue e provate dal lungo inseguimento ma con velocità e determinazione, ancora
una volta costringeva il nemico, già in via di riorganizzazione, a ripiegare e
conquistava Marsa Matruk.
Ma pochi giorni dopo, quando pareva che più nessuno potesse più arrestare
quella spettacolare corsa nel deserto, qualcosa cominciò a cambiare.
Le difese britanniche divennero improvvisamente più consistenti e reattive.
Le deboli avanguardie italo-tedesche, poche migliaia di uomini e qualche
decina di carri armati, anzichè trovare il vuoto davanti a sé, trovarono capisaldi ben
muniti, truppe relativamente fresche e sbarramenti d'artiglieria precisi e persistenti. Per la prima volta si sentì parlare di El Alamein nei bollettini dei belligeranti.
Il nome era simile a tanti altri nomi arabi di località già uditi dai combattenti
nel corso delle non brevi permanenze in Africa Settentrionale ma ormai dimenticati.
Anche il deserto non era molto diverso da quello percorso nelle settimane
precedenti. La caratteristica della località, 3 o 4 casupole su una lieve collina
prospiciente la costa, era costituita dalla presenza di una stazione ferroviaria della
linea Alessandria - Marsa Matruk, minuscola, non molto bene in arnese e molto
282
simile a quelle stazioncine desertiche dei film western americani.
Ancora oggi, dopo 58 anni, quella stazione è cambiata poco o nulla.
Geograficamente parlando, in corrispondenza della località di El Alamein
l'immenso deserto nord-africano si restringe tra il mare e, a sud, la depressione di
El Quattara.
Di qui l'importanza militare della zona.
Infatti, questo restringimento dell'area transitabile, era favorevole alla difesa,
perchè non consentiva aggiramenti a massa dal sud.
Era quindi logico che i britannici avessero deciso di riporre in una battaglia
d'arresto, condotta in corrispondenza di quella stretta, le residue speranze per
fermare la minacciosa avanzata degli italo-tedeschi.
Ed in effetti ci riuscirono.
Per tre volte Rommel lanciò all'attacco le deboli forze che gli erano rimaste,
tentando di ripetere il successo di Marsa Matruk.
Attaccò il 1° luglio, puntando, come sempre, sulla velocità e sulla sorpresa.
Non ebbe successo.
Ripeté il tentativo il giorno seguente ed il giorno 3, senza maggiore fortuna:
la difesa britannica era riuscita, utilizzando previdenti opere approntate molto
tempo prima -in parte da prigionieri italiani- ad organizzare una linea forte e
pressoché continua.
Essa era costituita da alcuni capisaldi di battaglione o di brigata fortemente
ancorati al terreno e da un certo numero di unità che controllavano gli intervalli.
Il caposaldo principale era quello di El Alamein che sbarrava la direttrice
costiera, la più importante perchè servita da una buona rotabile e da una ferrovia.
Era presidiata da circa due brigate Sud-Africane con artiglierie.
Più a sud i britannici presidiavano le posizioni di Deir El Shein CXVIIIbrigata
indiana), Bab El Quattara e Naq Abu Dweis.
Tra gli intervalli, forze mobili corazzate e di fanteria (in particolare la 2A
divisione Neozelandese).
Il giorno 3 luglio fu una giornata molto sfortunata per gli italiani: la divisione
"Ariete", che cercava un passaggio verso est nel tentativo di aggirare le difese
britanniche della zona costiera, in conformità al piano d'attacco, fu invece sorpresa
da reparti della 2Adivisione neozelandese nei pressi di Alam Nayil, in una zona poi
soprannominata Wadi Stukas, pressappoco a mezza strada tra il mare e la depressione di El Quatara.
Si salvarono pochi carri, pochissimi cannoni ed un pugno di bersaglieri.
Molti uomini valorosi che avevano partecipato sempre in prima linea alle più
importanti fasi della campagna d'Africa si avviarono verso una lunga prigionia.
La speranza di avere rapidamente ragione di quella nuova linea di resistenza
britannica cadde bruscamente. La debolezza delle forze che erano giunte nel teatro
di El Alamein apparve in tutta evidenza.
283
Anche le formidabili divisioni corazzate tedesche, la 15A e la 21 A, erano
ridotte al lumicino e non potevano schierare più di qualche decina di carri e poche
migliaia di combattenti.
Benchè nessuno lo sapesse, senza eccessivo fragore, era incominciata quella
che sarebbe passata alla storia cv.~~ la battaglia di El Alamein che, con Stalingrado,
rappresenta il punto culminante del 2° conflitto mondiale nel teatro euro-africano.
I combattimenti continuarono per tutto il mese di luglio. Furono combattimenti duri, massacranti e, soprattutto, caratterizzati dall'incertezza del risultato.
Il deserto di El Alamein si rivelò del tutto inospitale.
Un immenso mare di sabbia in cui si alternavano modesti rialzi del terreno
(costoni o ridge) dell'ordine di pochi metri, piccole conche (deir) e distese di roccia
affiorante.
Lontano dalla costa l'acqua mancava totalmente, i rifornimenti idrici erano
scarsi e costituiva un vero problema utilizzare la poca acqua che arrivava per tutte
le necessità: mediamente 2 - 3 litri al giorno pro-capite.
La sabbia era simile a polvere arida, sottile, impalpabile.
Si sollevava formando nuvole fitte come nebbia quando soffiava il vento, per
lo più verso sera.
Durante il giorno il paesaggio era accecante e la temperatura superava i 45°
all'ombra; di notte scendeva considerevolmente.
Subentrava allora la preoccupazione di essere improvvisamente attaccati dai
britannici, i quali erano abili nella navigazione nel deserto e muovevano e
combattevano assai bene anche di notte, in specie gli australiani e i neozelandesi.
Sfruttavano questa loro abilità per svolgere un'intensa azione di pattuglia che
spesso aveva successo e procurava non pochi fastidi alle lunghissime retrovie italotedesche, per necessità quasi completamente sguarnite.
Poichè il pericolo di perdere l'Egitto, il Canale di Suez ed i pozzi petroliferi
del Medio Oriente era diventato concreto (El Alamein dista circa 110 chilometri da
Alessandria), gli inglesi fecero affluire tutte le forze che poterono racimolare in
Egitto, in Palestina, in Irak e persino nel lontano Iran.
La 9Adivisione australiana, già protagonista della difesa di Tobruk nel 1941,
ben equipaggiata e ben addestrata, arrivò sul teatro di El Alamein nei primi giorni
di luglio.
Una sola divisione fresca in mezzo a truppe stanche e logore costituiva una
grossa differenza.
Sopraggiunsero anche grandi unità di fanteria metropolitana inglese e unità
corazzate, con i nuovi carri Grant armati con un pezzo da 75mm.
Dagli australiani arrivarono i primi dispiaceri: il giorno 10 luglio prima
dell'alba sferrarono un violento attacco lungo la direttrice costiera.
La divisione "Sabratha", appena giunta a presidiare quel settore del fronte e
priva di armamento pesante, fu travolta in poche ore aprendo una pericolosa falla
284
nel dispositivo italo-tedesco.
Gli australiani dilagarono verso occidente, realizzando una penetrazione di 78 chilometri, e occuparono l'importante posizione di Tell El Elsa, consolidandosi
pressappoco sulle quote dove ora sorge il cimitero di guerra italiano.
La falla fu tamponata, non senza qualche affanno, da tutti gli uomini
disponibili del Comando dell'Armata (che si trovava sulla direttrice d'attacco degli
australiani) e dai primi reparti della 164Adivisione tedesca appena giunti sul nuovo
fronte africano da Creta, in aereo.
Più tardi accorse anche Rommel con il suo gruppo di combattimento personale, forze della 15Apanzer e della divisione "Trieste".
L'evento, che per poco si era risolto in un disastro, dimostrò la precarietà della
situazione italo-tedesca di fronte alla non sopita determinazione dei britannici di
riprendere l'iniziativa ed allontanare la minaccia almeno sino alla frontiera libicoegiziana.
L'afflusso dei rinforzi fu pertanto accellerato.
Nel giro di pochi giorni affluirono la divisione "Bologna", reparti per il
completamento della "Brescia" e della "Pavia", diversi gruppi di artiglieria,
numerosi complementi, e fu disposto l'invio della divisione paracadutisti "Folgore", già destinata alla operazione di Malta, rinviata "sine die" e che arrivò a fine
mese.
Anche i tedeschi fecero affluire, oltre alla suddetta 164Adivisione di fanteria
la brigata paracadutisti "Ramke" su 4 battaglioni, numerosi complementi per
l' Afrika Korps e pezzi controcarro da 50 e da 88 mm.
Gli opposti dispositivi andavano rafforzandosi e non vi erano dubbi che El
Alamein sarebbe stata, a breve scadenza, teatro di importanti avvenimenti.
A metà di luglio (14- 15 luglio) gli inglesi ripartirono all'attacco.
Questa volta fu investito il settore centrale (X Corpo d'Armata italiano,
divisioni "Brescia" e "Pavia") da truppe neozelandesi e indiane appoggiate da due
brigate di carri.
Si ripeté la situazione di qualche giorno prima: la "Brescia" giunta da poco a
presidiare il settore, incompleta, priva di armamento pesante e controcarro e con
poca artiglieria, venne rapidamente travolta insieme ad alcuni reparti della "Pavia".
Ne derivò un'altra pericolosa breccia che avrebbe potuto portare a tragiche
conseguenze sull'intero fronte.
Fortunatamente gli inglesi non furono abbastanza abili da sfruttare la
situazione.
Le solite forze corazzate dell' Afrika Korps (15A e 21A panzer) intervennero
in tempo e riuscirono a neutralizzare la penetrazione catturando 1500 prigionieri
neozelandesi.
Il costone di Ruweisat rimase tuttavia quasi interamente nelle mani degli
inglesi.
285
Analoghi violenti attacchi furono ripetuti dai britannici il 21-22 e 27 luglio
che, tuttavia, si risolsero in un nulla di fatto ed in consistenti perdite di fanteria e di
carri.
Finalmente il fronte si stabilizzò a fine mese e gli spazi vennero saturati per
l'intera ampiezza della stretta (Ei Alamein - depressione di El Quattara).
I combattimenti di luglio erano terminati senza vinti né vincitori.
Dalle retrovie fu un continuo andarivieni di uomini e mezzi per reintegrare le
perdite in uomini, mezzi e materiali, per portare avanti, oltre ai viveri e all'acqua,
mine, esplosivi, munizioni e materiale di rafforzamento e ogni cosa che potesse
servire a rendere più impenetrabili quelle posizioni, idonee ad essere utilizzate per
un ulteriore balzo offensivo.
Ebbe inizio un periodo di attesa, rotto da azioni di pattuglia, isolati tiri di
artiglieria, interventi sporadici dell'aviazione.
Durante il mese di agosto l'armata italo-tedesca sul fronte di El Alamein si era
notevolmente rafforzata.
Erano state ripianate le perdite delle divisioni di fanteria "Bologna", "Pavia",
"Brescia", delle motorizzate "Trieste" e "Trento" e della divisione paracadutisti
"Folgore".
L' "Ariete" era stata completamente ricostituita mentre la gemella divisione
"Littorio" poteva rientrare in linea in buone condizioni.
Anche l' Afrika Korps, grazie all'andamento favorevole dei rifornimenti, nel
corso del mese di luglio aveva ricevuto i complementi necessari e ripianato buona
parte dei carri.
Fu deciso pertanto di riprendere l'iniziativa perchè era noto che importanti
convogli sarebbero giunti dagli Stati Uniti nel mese di settembre.
Il rafforzamento dei britannici si era già realizzato tuttavia in misura almeno
equivalente a quello degli italo-tedeschi, ricorrendo, come abbiamo già detto, a
tutte le unità disponibili nel Medio Oriente.
Una superiorità locale di una certa consistenza e destinata ad accrescersi era
stata conseguita anche nella disponibilità degli aerei.
Dal 15 agosto aveva assunto il comando dell' SAarmata il Generale Montgomery
che sembrava avere le idee molto chiare su come affrontare Rommel tanto che in
una località situata ad 88 chilometri ad ovest di Alessandria così si espresse con i
suoi ufficiali "Schiacceremo il vecchio bastardo".
Senza dubbio il nuovo Comandante aveva riflettuto a lungo sull'andamento
dei combattimenti precedenti, sulle cause del loro esito sfortunato per le truppe
britanniche e sulla tattica vincente ripetutamente adottata dal generale tedesco.
Quest'ultimo aveva già elaborato per il nuovo attacco il suo piano: esso
ricalcava in sostanza quello realizzato nelle battaglie di Ain El Gazala e Tobruk due
mesi prima: prevedeva un movimento aggirante da sud, tendente alle retrovie
dell'8A armata per costringere quest'ultima ad accettare battaglia a fronte quasi
286
rovesciata, nelle condizioni meno favorevoli.
Poichè, tuttavia non era possibile aggirare ad ampio raggio lo schieramento
difensivo britannico -per la presenza della depressione di El Quattara intransitabile
a formazioni corazzate- era necessario attraversare sin dall'inizio i campi minati
inglesi nel settore meridionale del fronte, nel !ratto compreso tra Bab El Quattara
ed El Taqa, cioè nella piana di Qattaret El Diyura-Gebel Kalak.
Tali campi minati erano ritenuti di modesta consistenza e ben determinati.
La manovra aggirante doveva essere condotta da tutte le forze mobili
disponibili: le due divisioni corazzate tedesche 15Ae 21A,il XX Corpo d'Armata
italiano, la 90Aleggera ed un raggruppamento esplorante composto dai battaglioni
esploranti 3°, 33° e 580° tedeschi, il "Nizza" cavalleria e l'VIII battaglione
bersaglieri.
La sorpresa e la velocità erano requisiti essenziali per poter conseguire il
successo.
L'azione iniziò alle ore 22.00 del 30 agosto 1942 con il movimento simultaneo
di tutte le unità incaricate dell'aggiramento.
Il superamento dei campi minati, inevitabile per i suddetti motivi, si rivelò
subito più complicato del previsto perchè erano più profondi di quanto le ricognizioni avessero evidenziato.
Le cose andarono per le lunghe e ci volle tutta la notte.
Non tutti i varchi, inoltre, furono aperti, imponendo lunghi e pericolosi
incolonnamenti su quelli disponibili.
In particolare, le unità del XX Corpo italiano ("Ariete" "Littorio" e "Trieste")
che si muovevano sulla direttrice interna di aggiramento, dovettero trafilare per gli
unici varchi aperti dalla "Littorio".
In conseguenza le forze mobili attaccanti si trovarono oltre la fascia minata
soltanto nella tarda mattinata del giorno 31, in notevole ritardo sulla tabella di
marcia.
Gli inglesi, appostati sulle alture di Alam El Haifa, erano in grado di osservare
quanto stava accadendo.
E non solo di osservare: l'artiglieria, infatti, cominciò a martellare con forza
le colonne avanzanti o bloccate nei campi minati o in sosta in attesa di ordini.
L'aviazione fu, in questa fase, particolarmente attiva contro le forze
motocorazzate e le autocolonne paralizzate all'interno dei campi minati.
Dalle posizioni raggiunte il 31 (tra Deir El Muhafid e Quaret El Himeimat)
Rommel aveva due sole possibilità: continuare l'aggiramento a largo raggio
puntando alla costa alle spalle dell' 8Aarmata, o attaccare le posizioni chiave di
Alam El Haifa, sulle quali erano attestate fronte a sud, consistenti forze di fanteria
e corazzate britanniche.
Fu adottata questa seconda possibilità.
E' probabile che Rommel ritenesse indispensabile la conquista di quelle
287
posizioni prima di ogni ulteriore progressione verso est.
In effetti, dalla modesta ma tatticamente rilevante dorsale di Alam El Halfa si
dominava tutta la zona circostante sino alla depressione di El Quattara e quindi tali
posizioni, se non distrutte, avrebbero costituito una minaccia troppo grande sul
fianco del dispositivo attaccante.
L'attacco ebbe inizio nel pomeriggio del 31 dall' Afrika Korps (1SA e 21 A
panzer) fiancheggiata dall"'Ariete''., dalla "Littorio" e dalla 90A leggera.
Seguiva la "Trieste".
Montgomery, facendo suo il piano già elaborato dal predecessore (Gen.
Auchinlek), aveva conferito alla dorsale tutte le caratteristiche di una posizione
fortificata: carri a scafo sotto (inclusi i neo giunti Grant), cannoni controcarro e
artiglierie costituivano un baluardo formidabile e difficile da superare.
Il primo attacco fu condotto con grande determinazione.
I carri si avvicinarono pericolosamente alle posizioni britanniche ma non
poterono superarle perchè bersagliati da un micidiale fuoco di sbarramento.
L'azione venne sospesa con il sopraggiungere dell'oscurità.
Il giorno seguente l'attacco venne rinnovato per ben due volte senza altro
risultato che un ulteriore perdita di carri.
La benzina, poi, era assai scarsa.
Continuare in quelle condizioni voleva dire votare alla distruzione le preziosissime unità corazzate.
L'intera offensiva venne pertanto sospesa: occorreva ripiegare senza aggravare le perdite e senza consentire al nemico pericolosi contrattacchi.
L'azione fu iniziata la sera del giorno successivo e portata a termine con
grande abilità nella giornata del 5 settembre.
Il Gen. Montgomery, alla sua prima prova in campo aperto, non osò lanciare
le sue forze in un contrattacco generale e la sua fu una decisione assai saggia: infatti
un'azione condotta da nord verso sud da un'aliquota delle forze britanniche e
tendente a chiudere i passaggi nei campi minati a Deir El Munassib per intrappolare
i carri italiani e tedeschi, si risolse in un insuccesso soprattutto per la pronta reazione
della divisione "Folgore" che aveva, nel frattempo, costituito un fianco difensivo
fronte a nord.
Nell'azione fu preso prigioniero il Gen. Clifton, comandante della brigata
neozelandese.
La battaglia era durata 6 giorni (dal 31 agosto al 5 settembre) e si era conclusa
con un nulla di fatto.
Gli italo-tedeschi non erano riusciti a sfondare ed i britannici non avendo
osato impegnare il grosso delle forze in campo aperto, non avevano inferto danni
irreparabili alle forze dell'Asse.
Il problema si spostava nel tempo.
Ma in prospettiva le condizioni delle due coalizioni erano molto diverse.
288
Gli Stati Uniti incominciavano a far sentire sempre di più il peso della loro
gigantesca macchina industriale.
Già per settembre erano previsti diversi convogli in arrivo nei porti dell'Egitto, uno dei quali, di 100.000 tonnellate portava con sé 300 carri "Sherman", simili
al Grant ma con un cannone da 7 5 in torretta anzichè in casamatta, sufficienti da soli
a rovesciare il rapporto di forze.
Nel campo opposto l'Italia appariva ormai stremata, oltrechè priva di una
strategia adeguata alle sue limitate risorse materiali.
La Germania era sempre più impegnata sul fronte orientale dove le cose si
erano rivelate ben diverse da come erano state previste: un fronte sterminato
ingoiava centinaia di divisioni senza che potesse essere conseguito un risultato
decisivo.
Stalingrado, investita il 23 agosto dalla 6A armata di Von Paulus tardava a
cadere.
Esaurita la sua capacità offensiva, l'armata italo-tedesca si apprestava quindi
a sostenere l'urto che, prima o poi, sarebbe venuto dal1'8Aarmata britannica.
Le possibilità per l'armata di vincere una battaglia difensiva erano legate,
soprattutto, ai problemi logistici.
Quanti carri, quante munizioni e quanto carburante avrebbero potuto
attraversare il Mediterraneo per rafforzare il fronte che si trovava a 2500
chilometri da Tripoli e a 600 chilometri da Tobruk?
Quale ostacolo avrebbe rappresentato la base aeronavale di Malta, ora che le
forze aeree tedesche già assegnate al fronte meridionale erano state dirottate in
buona parte sul fronte orientale?
Anche l'armata britannica dipendeva dai rifornimenti che sarebbero giunti.
Mail policentrico impero britannico, che aveva proprio nel Medio Oriente una
delle sue aree più organizzate, poteva meglio far fronte ali' esigenza.
Oltre a disporre del controllo dei mari contava su più rotte di avvicinamento,
navali, terrestri ed aeree (Mediterraneo, Mar Rosso e Africa Centrale).
La potenza aerea, navale ed industriale degli USA apportava inoltre nuova
prorompente energia allo sforzo di guerra della Gran Bretagna.
Mentre questa grande trama andava sviluppandosi quasi senza che nessuno
dei due schieramenti combattenti se ne rendesse conto, questi, ignari, provvedevano a fare del loro meglio per utilizzare qualsiasi risorsa disponibile: gli uni per
rafforzare le difese, gli altri per preparare l'attacco.
Che le forze inglesi fossero in continua crescita e coltivassero propositi
offensivi su larga scala venne dimostrato anche dalle operazioni di commandos di
metà settembre.
Nella notte del 14 settembre, reparti misti britannici (Commandos, Special Air
Service, Long Range Desert Groups), particolarmente addestrati in azioni di
incursione, sabotaggio e distruzione di impianti portuali e aeroportuali, attaccarono
289
contemporaneamente con l'appoggio della flotta i porti di Tobruk e Bengasi,
nonchè l'aeroporto di Barce e l'oasi di Gialo.
Le azioni su Tobruk e Bengasi si risolsero in un completo fallimento.
A Barce furono invece distrutti o danneggiati 23 aerei e incendiate alcune
scorte di carburante mentre nessun esito di rilievo ebbe l'azione su Gialo.
Seguì un intenso programma di incursioni aeree tendente a sconvolgere
l'apparato logistico italo-tedesco e ad ostacolare l'afflusso dei rifornimenti.
Andava, in sostanza, prendendo consistenza una irreversibile superiorità
aerea da parte degli anglo-americani che, oltre a produrre ingenti danni materiali,
scuoteva il morale delle truppe.
L'organizzazione difensiva dell'armata italo-tedesca andava comunque assumendo una fisionomia precisa: lo sforzo principale era concentrato sulla realizzazione di una fascia minata intransitabile che si estendeva dal mare alla depressione
di Quattara.
L'afflusso, il trasporto e la messa in opera delle mine coinvolgeva tutti i livelli
e tutte le specialità della truppa indistintamente.
Fanti, genieri, artiglieri e carristi concorrevano in misura più o meno uguale
a questa ciclopica impresa.
Le mine erano di provenienza italiana, tedesca e, in misura cospicua, inglese.
I depositi di Tobruk avevano fruttato molto sotto questo aspetto.
Dove le mine non bastavano, venivano utilizzate bombe di aereo, granate
di artiglieria, trappole esplosive ed ogni altro tipo di ordigno che potesse servire allo
scopo.
Più di 500.000 mine vennero messe a dimora prima dell'inizio della battaglia,
disposte su due fasce minate che correvano dal mare alla depressione di Quattara,
ciascuna per una profondità che variava dai 3 ai 5 chilometri.
Numerose bretelle provvedevano ad ostacolare il movimento nel senso della
fronte e facilitavano le reazioni di fuoco e l'intervento delle riserve.
Sul davanti, all'interno e immediatamente a ridosso dei campi minati era
schierato il grosso delle forze di fanteria italo-tedesche destinato ad assicurare
l'impenetrabilità del sistema.
Alle spalle, le divisioni corazzate e motorizzate italiane e tedesche.
Allo scopo di saggiare la consistenza degli apprestamenti difensivi, e forse
anche per agevolare errate deduzioni circa il punto in cui l' 8A armata avrebbe
attaccato, il 30 settembre i britannici diedero corpo ad una settoriale ma consistente
azione offensiva nella parte meridionale del fronte.
Forze miste di fanteria e carri della 44A divisione, equivalenti ad una brigata,
investirono il settore presidiato dal IX battaglione del 187° rgt. Par. della divisione
"Folgore", sulle posizioni di Deir El Munassib.
Dopo un'ora di intensa preparazione d'artiglieria, una colonna costituita da
un battaglione del "Queen' s Royal Regiment" rinforzato da circa 40 carri, attacca va
290
il IX/187° reggimento paracadutisti della div. "Folgore" sistemato in quel settore
a caposaldo avanzato.
Penetrati dai varchi aperti dal fuoco delle artiglierie, i reparti britannici
venivano investiti a brevissima distanza, di fianco e da tergo dal fuoco della 26A
compagnia ed arrestati frontalmente dal lancio di bombe a mano dalla 25A
compagnia.
Un'altra colonna, più a nord, urtava contro le posizioni della 27 A compagnia.
Secondo lo schieramento alla vigilia della battaglia le forze di fanteria
tenevano le posizioni, dal mare alla depressione:
- la "Trento" con la 164Atedesca a nord;
- la "Bologna" e la "Brescia" con la brigata "Ramke" al centro;
- la "Folgore" e la "Pavia" a sud.
La 90A leggera e la "Trieste" -che potevano definirsi divisioni motorizzate
pesanti in quanto dotate di carri e autoblindo- erano dislocate in riserva di armata
nella zona El Daba.
Le divisioni corazzate erano state divise in due aliquote:
- la 15Atedesca e la "Littorio" in corrispondenza del settore settentrionale del fronte;
- la 21 A tedesca e l' "Ariete" in corrispondenza del settore meridionale.
Entrambe le aliquote erano ad immediato ridosso della posizione principale
di resistenza, pronte ad intervenire con immediatezza per chiudere le falle che si
fossero create o per contrattaccare le eventuali penetrazioni corazzate avversarie.
Alla stessa altezza erano schierati, più o meno, tutte le artiglierie ed i reparti
esploranti non indivisionati.
Con questo schieramento l'armata italo-tedesca attendeva l'imminente urto.
Il rapporto di forze non era di buon auspicio.
Portati a termine gli ultimi ulteriori rifornimenti l' 8Aarmata britannica poteva
disporre di una schiacciante superiorità:
- 1348 carri contro 497 di cui 259 italiani;
-200.000 uomini contro i 100.000 delle forze dell'Asse;
- 800 aerei contro i 350 italo-tedeschi,
oltre ad una superiorità ancora maggiore in artiglierie, autoblindo e armi
controcarro.
Il rapporto numerico dei carri era ulteriormente peggiorato dalla qualità dei
mezzi a confronto: i britannici erano dotati di oltre 500 carri, Grant e Sherman, con
cannone da 75, contro poche decine di carri tedeschi di uguale armamento.
Tutti i carri italiani con il loro modesto cannone da 47 /32 e le esigue corazze
risultavano paurosamente obsoleti.
Quale piano avrebbe adottato Montgomery: avrebbe attaccato a sud come
aveva fatto Rommel nel precedente mese di agosto o avrebbe attaccato a ·nord, a
291
cavaliere del fascio rotabile e ferroviario?
Un attacco a sud avrebbe dovuto comunque aprirsi la strada attraverso i campi
minati, dal momento che lo schieramento difensivo non era aggirabile dalla
depressione.
Una simile manovra avrebbe avuto motivo di essere effettuata qualora
l'intendimento britannico fosse stato quello di condurre una battaglia manovrata
sul retro delle posizioni italo-tedesche.
Ma non era questa l'idea del Gen. Montgomery.
Egli non voleva arrischiare ardite manovre, ma condurre una battaglia frontale
d'urto, strettamente controllabile e facente affidamento sul logoramento dell'avversario e sulla maggiore disponibilità di materiali piuttosto che su una vittoria in
campo aperto.
Meglio quindi attaccare più a nord, dove un eventuale successo iniziale
avrebbe automaticamente messo in crisi tutto il settore meridionale del fronte dove le fanterie italiane e tedesche erano assai carenti di automezzi- e consentito
maggior velocità all'inseguimento.
Inoltre l'alimentazione logistica era più agevole, data la disponibilità della
ferrovia e della rotabile litoranea.
Il problema principale britannico era quello di aprirsi la strada attraverso
campi minati particolarmente fitti e profondi nel settore settentrionale.
Una volta riuscite nell'impresa, le forze corazzate avrebbero dilagato in
campo aperto offrendo ben poche possibilità di successo alle inferiori forze italotedesche, per giunta già logorate nell'inevitabile tentativo di appoggiare le fanterie
nella difesa della antistante posizione di resistenza.
Montgomery previde una durata complessiva dell'azione di circa 10-12
giorni.
Rommel era in licenza in Germania: l'armata corazzata era agli ordini di Von
Stumme.
La notte del 23 ottobre era chiara e serena.
Di giorno vi erano stati i consueti, ripetuti passaggi dei "magnifici 18"
bombardieri (gli squadroni bianchi) diretti verso ovest, forse in numero minore del
solito, nonchè radi tiri di singole artiglierie.
Si sospettò qualcosa in alcune unità italo-tedesche, soprattutto ai minori livelli
che poi erano quelli più a ridosso della posizione di resistenza.
In altre -ed anche nei comandi- evidentemente no.
Lo comprova il fatto che per la stessa notte erano previste ancora lievi
modifiche allo schieramento di unità di fanteria avanzate nel settore nord.
Fatta eccezione per il personale delle posizioni avanzate o di guardia, i soldati
dell'armata italo-tedesca erano, come avveniva in genere alla sera, raccolti in
piccoli crocchi, sovente con i loro ufficiali e sottufficiali, a discutere del futuro,
della Patria lontana o dei loro ricordi e affetti.
292
Radio Belgrado -che era possibile ascoltare con le stazioni radio di maggior
portata- aveva da poco trasmesso una canzone che ormai apparteneva a tutti i
combattenti, senza distinzione di esercito: "Lili Marlene".
Alle ore 20.40 ora italiana - 21.40 ora del Cairo- il fronte si illuminò quasi
istantaneamente, ad oriente, per un'ampiezza di circa 50 chilometri e dopo pochi
secondi il rombo delle onde di bocca dei pezzi si mischiò a quello degli scoppi delle
granate in arrivo sulle posizioni italo-tedesche.
Erano oltre mille pezzi che sparavano insieme, a celerità massima, sulle
posizioni delle fanterie e delle artiglierie.
La gravitazione del fuoco era individuabile nei 12-15 chilometri di fronte tra
la strada costiera e la dorsale di Miteirya, nel settore nord, prescelto da Montgomery
per lo sfondamento, e tra Deir El Munasib e Quaret El Himeimat nel settore a sud.
L'artiglieria italo-tedesca non replicò quasi per nulla al fuoco per assenza di
ordini e per l'interruzione dei collegamenti.
Le prime reazioni di fuoco si ebbero solo quando, dopo alcune decine di
minuti, i razzi rossi delle fanterie segnalarono alle artiglierie amiche l'urgenza di
fuochi protettivi.
E nemmeno i carri si mossero a massa dalle due parti: quelli inglesi delle
Grandi Unità corazzate perchè in attesa dei varchi che dovevano essere realizzati
dalle fanterie inglesi, neozelandesi e australiane, il che avvenne in taluni settori solo
dopo due o tre giornate di attacco.
Quelli italo-tedeschi perchè immersi nelle loro buche a "scafo sotto", a
protezione contro il tiro nemico ed in attesa che le penetrazioni dei mezzi corazzati
avversari fossero individuabili con sufficiente chiarezza.
Il dramma fu, nello stesso tempo, immediato ed immenso per le divisioni di
fanteria ed in particolare per i reparti della "Bologna", della "Pavia", della "Trento"
della 164Atedesca e della "Folgore".
Sommersi e storditi da migliaia di colpi, i fanti resistettero come meglio
poterono, con le poche armi ancora efficienti, all'attacco dei poderosi battaglioni
corazzati britannici.
Nebbia, fumo, polvere e vampate caratterizzarono l'ambiente fin dalla prima
notte di battaglia.
In mezzo a quest'inferno i centri di resistenza cedevano o erano sommersi,
altri venivano aggirati, altri ancora resistevano lanciando, pateticamente, richieste
d'appoggio, di fronte ad un nemico anch'esso esausto ed incerto per la resistenza
incontrata.
E questo, succedeva anche dopo 24 ore che i centri di fuoco erano stati
superati.
Esiguo il numero dei prigionieri dalle due parti.
Sempre a sud, verso le ore 14.00, una quarantina di carri della IV brigata
corazzata britannica, appoggiati da due battaglioni di fanteria attaccavano il
293
caposaldo della 12Acompagnia del IV/187° ma fu costretto a ripiegare lasciando
sul campo 22 carri colpiti.
Anche il successivo giorno 26 il nemico si accanì contro le posizioni della
"Folgore".
E così andarono le cose per le prime tre o quattro notti e giorni: attacco di
rottura mediante logoramento, caratterizzato dagli incessanti tentativi inglesi di
rompere le nostre difese statiche, per poter poi lanciare i carri a massa lungo una
direttrice che muoveva dal centro della fronte verso nord-ovest ed avvicinandosi al
fascio viario del litorale.
Costone di Miteyria, Tell El Aqqaqir e Tell El Eisa: tutti nomi consacrati alla
storia della fanteria italiana e dei reparti bersaglieri in particolare.
In alcuni punti del fronte nord le posizioni difensive principali italo-tedesche
vennero sfondate e le nostre fanterie travolte fin dalla prima notte.
Ma prima che i carri inglesi possano irrompere a massa, muovendo dalle
posizioni di attesa retrostanti, i carri della ISA panzer ed i patetici M13 della
divisione "Littorio", affiancati dai più validi semoventi da 75/18, si lanciavano
contro i controcarro inglesi per tamponare le brecce.
I giorni dal 24 al 28 ottobre sono caratterizzati da questi contrattacchi, condotti
con bravura dai gruppi tattici corazzati italo-tedeschi che, a prezzo di durissime
perdite, rallentano o arrestano l'attacco inglese, le cui punte avanzate stanno
emergendo attraverso la fascia marginale posteriore dei campi minati.
La "Littorio" e la ISA tedesca si dissolvono così, poco a poco nella prima
settimana della battaglia.
Rimangono, a sud, l' "Ariete" e la 21 A tedesca, per ora inamovibili perchè
anche laggiù, tra Deir El Munassib e Quaret El Himeimat, la situazione è assai
critica.
La stessa sera del 23 infatti, gli inglesi, come al nord, hanno sferrato, con
truppe metropolitane (44A divisione), unità francesi e reparti speciali greci, una
serie di violenti attacchi appoggiati da forze corazzate.
Il settore è tenuto dalla "Folgore" ed i paracadutisti continuano la loro epopea
guerriera africana; l'avversario è battuto e nonostante la superiorità di forze e di
fuoco non riesce nemmeno a superare l'intera fascia minata, ancorchè questa sia più
esigua e meno densa che nel settore nord.
La 21Ae I' "Ariete" rimangono in riserva e non impegnano i loro carri a massa.
La legione straniera francese è bloccata sulle pendici sud dell'Himeimat.
Montgomery, dopo tre giorni di vani tentativi, è quindi costretto a rinunciare
ali' offensiva nel sud e decide di spostare al nord una aliquota di forze, inclusa la 7A
divisione corazzata (i "desert rats" dell'8A Armata).
Cosicchè solo il settore nord rimane teatro dell'attacco decisivo inglese.
Qui, con una serie di decisioni e di atti organizzati che fanno indubbiamente
onore allo Stato Maggiore di Montgomery, si sposta ancora il baricentro dell' attacco.
294
Il 26 e il 27, infatti, sono falliti i contrattacchi a massa sferrati da Rommel rientrato dalla Germania- con l'impiego dei superstiti della 15A panzer, della
"Littorio" e con l'intera 21A divisione corazzata, paralizzati sulle basi di partenza
dai bombardamenti aerei e terrestri inglesi o bloccati dagli schieramenti controcarro
delle fanterie britanniche.
Ciò nonostante i corazzati inglesi della 1A e 1QA divisione esitano ad irrompere
oltre lo schieramento avanzato delle loro fanterie perchè temono la reazione dei
controcarro tedeschi ed italiani schierati a protezione della cosiddetta "pista
Ariete".
Allora Montgomery lancia, nella notte del 29, la 9Adivisione australiana con
direttrice nord per giungere alla litoranea circa 5 chilometri a sud-est del minareto
di Sidi Abd El Rahman.
I bersaglieri del 7° e 12° ed i fanti della 164Atedesca, rinforzati dall'accorsa
21A Panzerdivision, contengono la penetrazione australiana; ma non riescono ad
evitare il sostanziale isolamento delle unità italo-tedesche ancora schierate più a
sud-est, a cavaliere della litoranea e della ferrovia, di fronte a quota 33 ed alle
pendici nord di Tell El Eisa.
Negli altri settori del fronte nord, gli attacchi inglesi sono scemati d'intensità
a causa del riordinamento delle forze.
Solo l'artiglieria tuona ininterrottamente e lo farà fino alla sera del 2 novembre, cioè per 9 giorni, con rare soste di pochi minuti nel tardo pomeriggio o nella
notte.
Vari soldati impazziscono sotto questo tormento.
I reparti italo-tedeschi sono privi di collegamenti; le unità si battono per
plotone, compagnie, batterie; i rari ordini giungono con motociclisti, veri eroi
dimenticati di queste giornate; il rancio è costituito dalla scatoletta e dalla galletta
e, per i reparti corazzati più veterani, dai residui dei bottini dei depositi inglesi di
Tobruk.
I feriti vengono evacuati, quando è possibile, su camionette e trattori che
osano avventurarsi tra le fiamme e tra il fumo della battaglia.
La stessa linea del fronte non è facilmente determinabile a causa delle sacche
minate residue, delle penetrazioni avanzate inglesi, dei centri di resistenza superstiti e di aree di "vuoto" -cioè dove non esiste fanteria- queste ultime controllate dai
carri della 15Ae della 21Apanzer e della "Littorio", diradati e, quando possibile, a
scafo sotto.
La notte dall' 1 al 2 novembre si verifica l'evento decisivo.
Il Comando dell' 8Aarmata constata che gli australiani della 9Adivisione sono
bloccati sulla costa dalla 21A,dalla 90Aleggera e dai residui della "Trento" e del 7°
bersaglieri e che le fanterie inglesi sono contenute nelle località di El Wiska Palm
e Miteirya dai granatieri tedeschi e da reparti della divisione "Trieste" accorsa da
El Daba in sostituzione della 21A.
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I britannici spostano ancora una volta il baricentro della manovra: attaccano,
con due divisioni fresche in prima schiera la linea compresa tra la quota 21 e la
località di Tell El Aqqaqir.
Dopo un terrificante iniziale fuoco di sbarramento, che ai combattenti più
anziani ricordava il 1° conflitto mondiale, le fanterie inglesi travolgono le esigue
fanterie italiane schierate frettolosamente, poche ore prima, sul retro dei campi
minati posteriori della posizione difensiva iniziale.
E' il calvario della "Trieste" e dei residui reparti della "Trento" e della 164A
germanica.
Una parte delle artiglierie delle due divisioni motorizzate italiane è sopraffatta
sul posto, ma ciò consente l'accorrere di carri e semoventi della 1SA, 21 A e
"Littorio" e soprattutto, il rischieramento di artiglierie italiane da 75/27 e tedesche
da 88/56 e da 50 mm in funzione anticarro.
Tale è il timore che incutono le artiglierie italo-tedesche che i carri armati
inglesi esitano ad avanzare.
Dalle 10.00 del mattino al tardo pomeriggio del 2 novembre si svolge a Tel el
Aqqaqir la più feroce battaglia di carri del deserto occidentale: vari reggimenti di
carri inglesi perdono quasi tutti i mezzi.
Da parte italo-tedesca è la fine -quali Grandi Unità- delle tre divisioni
corazzate 21 A, 1SAe "Littorio" e del battaglione carri della "Trieste".
Alla sera restano 35 carri tedeschi e 20 italiani, oltre ad un centinaio dell'
"Ariete" che si trova ancora nel settore a sud.
Gli inglesi sono però arrestati ed il fronte si stabilizza sommariamente dando
alla parola un valore non ben definibile: linee di contatto difficilmente definibili,
distanze tra i contrapposti eserciti nell'ordine di uno o due chilometri, penetrazione
di blindo inglesi nelle retrovie italo-tedesche.
Inizia tra il Comando dell'armata corazzata e Berlino il noto, tragico scambio
di ordini e contrordini: ritirata, come vorrebbe subito Rommel o difesa ad oltranza
sul posto come vorrebbe il Fuhrer?
La sera del 2 novembre si dovrebbe ripiegare.
In effetti a sud la "Folgore" e la "Pavia" iniziano, su ordine il movimento verso
ovest.
Analogamente al centro la "Bologna".
Tutte truppe appiedate che si trascinano nel deserto trainando a braccia anche
i pezzi controcarro da 47 mm., il munizionamento e le mitragliatrici.
Si progetta di costituire una nuova linea di resistenza a Fuka, 80 chilometri a
ovest delle posizioni di El Alamein.
Ma il 3 novembre Hitler ribadisce l'ordine della difesa ad oltranza delle
posizioni di Alamein e Rommel obbedisce.
Gli scontri del 2 novembre, però, hanno spezzato il morale delle forze
corazzate dell'Asse.
296
Né sarà l"'Ariete" -in afflusso da sud- a capovolgere la situazione: 140 carri
italo-tedeschi contro i 700 britannici.
Il trasferimento dell' "Ariete" è manovra suggestiva e nello stesso tempo
patetica che, per chi l'ha vissuta, doveva avere un sapore esaltante e tragico nello
stesso momento, perchè quegli equipaggi erano consci di marciare contro il
nemico, sicuri di essere destinati alla morte.
Il mattino del giorno 31' intero Corpo corazzato italo-tedesco viene schiacciato in un arco immaginario di fronte che poggia sul Minareto di Sidi Abd El Rahman,
Sawani Samalus, Sidi Suweil, Deir El Murra e Bir El Abd.
Davanti e sui fianchi qualche compagnia di fanteria della "Trieste", della
"Trento" e dei reggimenti bersaglieri 7°, 8° e 12°.
Dietro,a due-tre chilometri, lo schieramento delle artiglierie.
Nello stesso pomeriggio del 3 e nella successiva notte, dopo un'attesa
prudente di circa 24 ore, gli inglesi rinnovano l'attacco con i carri, ma sono
contenuti dall' "Ariete", non ancora impiegata in massa e, soprattutto, dall' Afrika
Korps.
Nella notte ed alle prime luci dell'alba, gli italo-tedeschi ritoccano ancora gli
schieramenti ricercando terreni dove sia possibile scavare buche perchè il terreno,
ad ovest di Tell El Aqqaqir, è piatto, duro da scavare e privo di protezioni.
Gli inglesi preparano il grande attacco finale.
In realtà si tratta dello sfruttamento del successo giacchè il grande scontro si
è combattuto il 2 novembre e lo schieramento italo-tedesco, sebbene lineare è rado
e limitato ad un velo di forze.
L'imbastitura dello schieramento è data dalla posizione sul terreno delle
bocche da fuoco, specialmente italiane: vi è quella che potremmo definire l' aristocrazia dell'artiglieria da campagna: il 46° della "Trento", il 21 ° della "Trieste", il
132° dell' "Ariete", tutti rappresentati da residui gruppi, singole batterie o,
addirittura, da sezioni isolate, rinforzate da superstiti batterie dei raggruppamenti
di Corpo d'Armata e d'Armata.
Mancano solo gli artiglieri da montagna, ma quelli, nello stesso momento
stavano morendo sulle rive del Don.
Verso il mezzogiorno del giorno 4 i carri inglesi rinnovano l'attacco in massa.
L' "Ariete" lancia i carri superstiti contro la massa dei corazzati britannici in
sincronia con i mezzi dell' Afrika Korps e dei Gruppi Esploranti tedeschi.
La "Littorio" non esiste più fin dal giorno 2 e la 90A leggera resiste agli
australiani lungo la rotabile per Tobruk.
Si creano, in questo particolare momento del combattimento situazioni a dir
poco assurde come la cattura del Gen. Von Thoma mentre va alla ricerca del
Comando della divisione "Trieste" o la resistenza dell'esiguo 66° fanteria che si
oppone, come uno scoglio, ali' attacco inglese per poi riuscire a ripiegare indisturbato.
Premuta sulla fronte ed alle ali dai poderosi carri Scherman, verso le ore 15.30
297
dal comando della divisione parte l'ultimo messaggio radio: "Carri armati nemici
fatta irruzione a sud dell'Ariete; con ciò "Ariete" accerchiata. Trovasi a 5 chilometri nord-ovest Bir el Abd. Carri Ariete combattono". Il 132° reggimento entra nella
fornace.
Alle ore 16.00 l' "Ariete" dispone ancora di 60 carri e l' Afrika Korps di 15.
Il mattino del giorno 4 l'ordine di ripiegamento ribadito da Rommel non è
giunto a moltissime unità italo-tedesche e queste, alle ore 16.00 sono le uniche ad
opporsi ai 700 carri britannici.
Risuonano ancora oggi, nelle orecchie degli anziani artiglieri, gli ordini che
i serventi udirono in quei giorni: erano gli stessi ordini impartiti dagli istruttori
durante l'addestramento nelle diverse scuole d'artiglieria: "graduazioni a zero,
puntamento diretto, capipezzo alla coda, granata E.P., carica massima" ordini
gridati tra colpi in arrivo.
I serventi sono ai pezzi.
La marea corazzata inglese emerge dal fumo e dalla nebbia a 700-1000 metri
davanti ai pezzi, avanza lentamente, quasi sentisse un profondo rispetto per l'azione
dell'artiglieria italiana.
I carri sono preceduti da una valanga di fuoco, soprattutto dei 105 statunitensi
e da uno sciame di Bren Carriers, una sorta di veicolo cingolato apparso per la prima
volta nel deserto egiziano-cirenaico.
In mezzo a questi colossi corazzati manovrano, come fossero in piazza d'armi,
i piccoli carri dell' "Ariete" che non intendono ripiegare.
I carri colpiti bruciano, le riservette saltano e, a poco a poco, anche i cannoni
tacciono.
E' il 4 novembre.
Il notista ricorderebbe che solo 24 anni prima le campane in festa salutavano
la vittoria mentre sui castelli di Trento e Trieste veniva issato il Tricolore.
Oggi, tutti intuiscono che il già incerto esito della guerra è ormai segnato,
alimentato anche dalle notizie che giungono da Stalingrado.
Ad un giovane ufficiale subalterno che era in dubbio se chiamare i trattori e
ripiegare su altra posizione prima di rimanere superato, un soldato disse: "Signor
tenente non si viene via di qui in questo modo" e serventi e pezzi rimangono sul
posto sino alla fine.
I pochi carri superstiti ripiegano isolati.
Radi plotoni di fanteria e bersaglieri appiedati sono in ripiegamento.
Qualche trattore, sfidando la marea di perforanti, attacca al traino i pezzi per
sottrarli alla cattura.
I caduti restano sul posto: chi dentro le buche accanto alle mitragliatrici e chi
dentro le lamiere infuocate dei carri colpiti e trasformati in bare d'acciaio.
Inizia la ritirata.
Rommel, in uno dei rari momenti di onestà intellettuale, ebbe a scrivere che
298
quegli italiani " ... che rappresentavano ormai le nostre più forti truppe motorizzate,
combatterono con straordinario valore ... ". In particolare, riferendosi ai carristi
dell'Ariete, il Maresciallo tedesco aggiunse ... "uno dopo l'altro i carri armati
esplodevano o si incendiavano, mentre il violentissimo fuoco dell'artiglieria
nemica ricopriva le posizioni della fanteria e dell'artiglieria italiane. Con l'Ariete
perdemmo i nostri più anziani camerati italiani ai quali, bisogna riconoscerlo,
avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo
armamento".
Alla Carnera dei Comuni, nello stesso periodo, il Primo Ministro Winston
Churchill, nell'annunciare la conclusione della battaglia disse" ... dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore ... ".
Dopo 2000 chilometri di ripiegamento alla fine del mese di maggio del 1943
ad Enfidaville in Tunisia si consuma la tragedia dell' ACIT.
Al Takruna sono presenti due compagnie paracadutisti e il ricostituito 8°
reggimento bersaglieri della divisione" Ariete". Questi ultimi presidiano i capisaldi
"Larice" e "Tiglio".
Non basterà il coraggio e la resistenza oltre ogni umano limite a cambiare il
corso della guerra.
Il giorno 13 il Comando Supremo, sul bollettino n. 1083 scrive " ..la 1A
Armata, cui è toccato l'onore dell'ultima resistenza dell'Asse in terra d'Africa, ha
cessato stamane .. .il combattimento ... E' così finita la battaglia africana iniziata,
con talune alterne vicende, trentacinque mesi prima ... ".
A 60 anni da quegli avvenimenti ricordiamo i nomi di quelle vecchie divisioni
del deserto di cui solo oggi si ripercorrono con rispetto le gesta ma di cui, sino a ieri,
era quasi un delitto pronunciare i nomi:
''Trento", ''Trieste", "Bologna", "Brescia", "Pavia", "Sabratha" e "Littorio".
Solo le divisioni "Ariete" e "Folgore", invece, hanno da sempre trovato
cantori. Forse, era giusto così perchè in nessun'altra divisione, come in queste,
l'eroismo e lo spirito di sacrificio toccarono vette così alte.
299
Indice
Presentazione ...............................................................................................................................................
pag. 5
Massimo Gusso
Franchi Austrasiani nella Venetia del VI secolo d.C.
Un contributo allo studio dei più antichi riferimenti al castrum di Ceneda ..............
pag.
9
Vincenzo Ruzza
Sulla "vexata questio" dell'inizio della chiesa cenedese.
Appunti e considerazioni .............................................................................................................................
pag. 111
Giovanni Tornasi
Frati questuanti nel tardo medioevo ...........................................................................................................
pag. 149
Francesca Girardi
Cison in un documento inedito:
l'inventario dei beni della pieve di Santa Maria ..................................................................................
pag. 151
Damiano Cesca
La Madonna di Giovanni Bellino ...............................................................................................................
pag. 171
Damiano Cesca
Anno Domini 1460. L'arte della stampa nel monastero di Sanae Vallis .....................
pag. 175
Damiano Cesca - Francesca Girardi
Catalogo delle medaglie celebrative ...........................................................................................................
pag. 183
Oscar De Zorzi
Uno spaccato di vita civile e religiosa di Osigo, frazione del comune di
Fregona, nel XVIII secolo, attraverso l'esame dell'unico registro superstite
della Luminaria ............................................................................................................................................
pag. 187
Massimo Gusso
I processi alle Vestali accusate di violazioni dei loro doveri sacrali ................................
pag. 217
Mario Ulliana
Per dar vita a un museo del baco da seta ....................................................................................................
pag. 245
Franco Posocco
Appunti sulla trasformazione del paesaggio vittoriese ..................................................................
pag. 259
Lorenza Cadeddu
Uno o due Caproni? .....................................................................................................................................
pag. 265
Lorenza Cadeddu
Victoria nobis vita ........................................................................................................................................
pag. 269
Lorenza Cadeddu
Un paracadute per Vittorio Veneto ..............................................................................................................
pag. 273
Lorenza Cadeddu
El Alamein sessant'anni dopo ....................................................................................................................
pag. 277
Argomenti dei quaderni precedenti .............................................................................................................
pag. 300
303
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2003
dalle
Grafiche De Bastiani
Godega Sant'Urbano (TV)