QUADERNI DI HISTORIA ET IUS
3
Volume sottoposto a procedura di double-blind peer review
Collana “Quaderni di Historia et Ius”
Direzione:
Marco Cavina (Università di Bologna)
Comitato SCientifiCo:
Paolo Alvazzi del Frate (Università Roma Tre)
Eric Gojosso (Université de Poitiers)
Ulrike Müßig (Universität Passau)
Carlos Petit (Universidad de Huelva)
Laurent Pister (Université Paris II)
Michael Rainer (Universität Salzburg)
Giovanni Rossi (Università di Verona)
Giuseppe Speciale (Università di Catania)
Elio Tavilla (Università di Modena e Reggio Emilia)
Laurent Waelkens (Universiteit Leuven)
LE LEGGI ANTIEBRAICHE
NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
Razza diritto esperienze
a cura di
Giuseppe Speciale
Pàtron Editore
Bologna 2013
Copyright © 2013 by Pàtron editore - Quarto Inferiore - Bologna
I diritti di traduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati
per tutti i Paesi. È vietata la riproduzione, anche parziale, compresa la fotocopia, anche
ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Prima edizione, Luglio 2013
ISBN 9788855532426
Ristampa
5
4
3
2
1
0
2018
2017
2016
2015
2014
2013
Si ringrazia la Fondazione Sicilia
perché ha reso possibile la pubblicazione di questo volume
PÀTRON Editore - via Badini, 12
Quarto Inferiore, 40057 Granarolo dell’Emilia (BO)
Tel. 051.767 003
Fax 051.768 252
E-mail: info@patroneditore.com
http://www.patroneditore.com
Il catalogo generale è visibile nel sito web. Sono possibili ricerche per autore, titolo,
materia e collana. Per ogni volume è presente il sommario, per le novità la copertina
dell’opera e una breve descrizione del contenuto.
Impaginazione: DoppioClickArt, San Lazzaro di Savena, Bologna
Stampa: LI.PE., Litograia Persicetana, San Giovanni in Persiceto, Bologna per conto
della Pàtron editore.
Indice
Giuseppe Speciale, Introduzione ................................................................... p.
7
Michael Stolleis, Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia
del diritto ................................................................................................... »
9
Aldo Mazzacane, Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei ................. »
23
Alessandro Somma, Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione
tra fascismi: le equivalenze funzionali tra razzismi italiano e tedesco ....... »
55
Paolo Caretti, Il “corpus” delle leggi razziali ............................................... »
73
Ferdinando Treggiari, Legislazione razziale e codice civile: un’indagine
stratigraica ............................................................................................... » 105
Olindo De Napoli, Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo
e “politicità del personale” nelle colonie dell’Africa Orientale Italiana ... » 123
Ruggero Taradel, La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa ........ » 141
Silvia Falconieri, Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica
nelle riviste giuridiche italiane (1938-1943) ............................................ » 159
Antonella Meniconi, Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche ........... » 177
Angelo D’Orsi, Razzisti sotto la Mole............................................................ » 193
6
Indice
Giuseppe Speciale, L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e
amministrazione (1938-2010) .................................................................. p. 205
Giovanna D’Amico, La legge «Terracini» e i suoi prodromi ........................ » 267
Silvano Di Salvo, Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione
nelle decisioni dei giudici (1956-2008)..................................................... » 285
Michele Sarfatti, Le vicende della spoliazione degli ebrei e la
Commissione Anselmi (1998-2001)........................................................... » 299
Indice analitico ................................................................................................ » 313
Giuseppe Speciale
InTRodUzIonE
Nel cuore della civilissima Europa, nel secolo XX, il legislatore italiano
fascista limitò la capacità giuridica dei cittadini in base alla loro appartenenza
ad una razza e produsse un articolato corpus di norme che condusse al compiuto e perfetto isolamento – ancor prima che all’annientamento della vita
– dei membri della minoranza ebraica; lo stato mise in moto una complessa
e invasiva macchina amministrativa per attuare tale legislazione; l’opinione
pubblica, adeguatamente preparata da un’attenta e ben orchestrata campagna
di stampa, accolse nella sua larga maggioranza le novità legislative con acquiescenza cinica, opportunistica, timorosa, convinta o anche solo conformista.
Il legislatore si cimentò nella costruzione di un insieme di regole che da un
lato sancirono meticolosamente esclusioni (dalla scuola, dal pubblico impiego,
dalla proprietà, dalle professioni, etc.), dall’altro posero limiti a tali esclusioni
e previdero garanzie per gli ebrei: si disposero le scuole e gli albi professionali per gli ebrei; si issarono i limiti entro cui era possibile per gli ebrei
continuare a possedere terreni e fabbricati e si statuì la cartolarizzazione delle
quote eccedenti tali limiti; si stabilì che gli ebrei licenziati a causa delle leggi
razziali potessero godere della pensione anche con un’anzianità di servizio
inferiore rispetto a quella prevista dal diritto comune. La legislazione razziale,
assolutamente disumana, isolò dalla società nazionale gli ebrei, ne compresse
fortemente i diritti, ne mortiicò la dignità escludendoli dalle scuole, dal lavoro,
dalla vita civile, tuttavia non comminò loro pene capitali né previde, almeno
in un primo momento, deportazioni che si dovevano concludere con stermini.
Non previde, cioè, soluzioni che avrebbero potuto più facilmente suscitare gesti
generosamente eroici, o comunque prese di posizione ‘meta-giuridiche’, quali
quelli che si ebbero a partire dalla seconda metà del 1943, quando fu chiaro a
tutti, almeno nei territori controllati dai nazisti e dai fascisti della RSI, che per
gli ebrei si erano chiusi anche i residui spazi di tutela e che iniziava per loro un
cammino verso la distruzione collettiva. Una legislazione siffatta fu percepita
8
Introduzione
subito dall’ariano, dall’italiano non ebreo, nel suo nucleo essenziale. Forse
l’ariano colse supericialmente e rozzamente il senso che il legislatore aveva
attribuito alle norme in difesa della razza, ma lucidamente capì gli effetti ultimi
e più veri che la legislazione razziale persegue: l’ebreo non era più un soggetto
di diritti. Del resto, il legislatore era intervenuto nell’art. 1 del nuovo codice
civile a limitare la capacità giuridica in ragione dell’appartenenza alla razza.
La reazione della comunità nazionale può essere misurata, semplicisticamente ed esempliicativamente, con una scala ideale i cui gradi corrispondano
al dissenso, all’acquiescenza, all’adesione. Utilizzando ora il termine consenso
in un’accezione lata, comprensiva dell’acquiescenza e dell’adesione, non mi
sembra arrischiato sostenere che le norme razziali riscossero il consenso della
maggioranza della comunità nazionale, consenso talvolta convinto, talvolta
imposto, talvolta indotto da una eficace campagna di stampa, talvolta, inine,
dovuto a ragioni di opportunistica convenienza. Il regime si avvalse dell’adesione di pochi per consolidare l’acquiescenza dei molti e gli intellettuali
– molti, non tutti – si prestarono volentieri all’operazione. In questo senso
non mi sembra arrischiato sostenere che le norme razziali godevano di un
diffuso consenso e potevano presentarsi come un rilesso del comune sentire
degli italiani.
Quelle vicende scandalizzano, scandalizza la legge che diventa strumento
di sopraffazione e persecuzione, scandalizza l’alterità dell’ebreo, scandalizza
l’opportunismo dell’ariano che si insinua nelle pieghe della legislazione razziale per trarne il maggior proitto possibile. Quanto è successo in quegli anni
è un elemento costitutivo della nostra identità di italiani ed europei.
Se vogliamo che quella identità sia un’identità forte dobbiamo fare i conti
con le vicende della legislazione razziale, dobbiamo rilettere serenamente e
con passione su quegli eventi, non possiamo far inta di nulla.
Questi temi sono attuali, lo sono non solo per le derive totalitarie che si
affacciano anche in Italia ogni giorno più forti e inquietanti, ma sono attuali
anche per altre ragioni. Inducono a rilettere sul rapporto tra legge, espressione
formalmente legittima della volontà del legislatore, e giustizia, insieme di regole e principi non disponibili da parte di nessun legislatore; inducono a rilettere sui cardini non della tolleranza, ma della convivenza, della condivisione;
inducono a rilettere sulla saggezza di alcune soluzioni costituzionali, tra tutte
quella di cui all’art. 113 che afferma che nel nostro ordinamento i provvedimenti del potere esecutivo sono sempre soggetti a controllo giurisdizionale.
Per la stampa e il sostegno alla realizzazione di questo volume devo ringraziare la Fondazione Sicilia e il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università
degli Studi di Catania.
Michail Stolleis
CoMPREndERE L’InCoMPREnSIBILE:
L’oLoCAUSTo E LA SToRIA dEL dIRITTo*
I.
Vorrei introdurre questo mio contributo relativo ad uno degli oggetti più
scabrosi della storiograia con un’osservazione di tipo personale: in dal 1969
mi occupo, con grandi interruzioni e con sempre rinnovate riprese, del sistema giuridico e d’ingiustizia del nazionalsocialismo. Era un tema della mia
generazione, arrivata all’università da studente intorno al 1960, che in questo
ambito dovesse esser fatto qualcosa che i docenti accademici non potevano
o non volevano fare. Quello che ci spronava era un impeto morale piuttosto
che “di sinistra”.
Allo stesso tempo non doveva trattarsi di una storiograia moralizzante, che
avrebbe potuto soltanto constatare il fallimento dei padri e una “rimozione”
del problema da parte dei contemporanei. Atteggiamenti eticizzanti erano in
questo campo un esercizio obbligatorio troppo facile per chi non aveva assistito
in prima persona all’olocausto e non ne aveva saputo quasi niente ino all’età
scolare. Doveva essere dunque una storiograia critica e distaccata, fondata
metodologicamente: distacco soltanto ino ad un certo punto, giacché restava
salva l’empatia con le vittime, e non era possibile altrimenti.
Saul Friedländer, che si è sentito in altro modo chiamato in causa da questo tema, ha parlato di “Primärgefühl der Fassungslosigkeit”, di sensazione
primaria di sbigottimento1. Nel corso degli anni questo “Primärgefühl der
Fassungslosigkeit” si è rafforzato ed è divenuto più intenso. Quanto più la
conoscenza dei particolari si accresce, il tempo passa e noi stessi diveniamo
vecchi, tanto più diventa incomprensibile ed “estraneo” l’accaduto.
* Ringrazio molto il mio collega Vincenzo Colli (Istituto Max Planck) per la traduzione.
1
S. Friedländer, Das Primärgefühl der Fassungslosigkeit bewahren, in Id, Den Holocaust
beschreiben, Göttingen 2007, 96-120 (104).
10
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
Vediamo il reale inferno dei campi di concentramento, le montagne di
cadaveri, le liste senza ine di nomi come sulle foto bianco-nero della nostra
giovinezza. Le cifre dell’orrore sembrano divenire sempre meno leggibili. Tutti
noi sappiamo che è stata realtà, ancor ininitamente peggiore che su queste
immagini bianco-nero. Ma ci tocca anche accettare che le voci delle vittime
si fanno più sommesse. Coloro che hanno assistito a tutto – e nei limiti delle
loro possibilità ne “danno testimonianza per ogni tempo” – parlano talora con
malinconia e timore di un futuro in cui più nessuno potrà raccontare i fatti in
maniera “autentica”.
In fondo vi sono le “memorie contrapposte” delle vittime e dei responsabili
(insieme ai loro discendenti), di chi è stato coinvolto e di chi non lo è stato,
della vicinanza e della lontananza2.
Non c’è contraddizione con ciò, se dico: l’impeto scientiico di “capire”
inalmente perché si poté arrivare all’uccisione di massa di ebrei, zingari,
omosessuali, malati di mente, asociali, nemici politici ed innocenti in cifre folli
ad un tempo si rafforza. Non può essere possibile – così si pensa – occuparsi
per interi decenni di questi avvenimenti e comunque non capirli. Ciò tocca
l’autocoscienza delle scienze alle quali si spera di poter offrire un qualche
benché minimo contributo. Tutti gli sforzi di “capire” inalmente con la lettura
delle fonti e la rilessione cosa è stato l’olocausto, cosa, a partire dal consueto
antisemitismo borghese degli anni Venti allora ancora apparentemente innocuo,
lo ha spinto nella legislazione e nella prassi discriminante, inché alla ine fu
incrementato ino alla follia e giunse ad un arresto soltanto col crollo dell’intero
sistema, tutti questi sforzi devono forse essere stati vani?
II.
Come si può dunque “capire” l’olocausto? Innanzi tutto bisogna mettersi
d’accordo su cosa s’intenda con “olocausto” – per quanto ciò possa suonare
superluo. Normalmente usiamo “olocausto” o “shoah” o (pars pro toto) “Auschwitz” come sigla generale di un movimento politico iniziato in Germania
per l’allontanamento dalla vita sociale e politica, la privazione dei diritti e poi
lo sterminio sistematico della minoranza ebraica, in primo luogo in Germania,
poi nell’intera Europa, in dove si estese l’ambito di potere di Hitler. Ma dire
così da vari punti di vista sarebbe piuttosto riduttivo.
Non erano soltanto gli ebrei, ma insieme con loro tutte le minoranze, che
il regime perseguitava con odio: in cima ovviamente gli oppositori politici
(socialisti, comunisti, cristiani, ma anche conservatori, che non si erano lasciati
D. Diner, Gegenläuige Gedächtnisse. Über Wirkung und Geltung des Holocaust, Göttingen 2007.
2
Michael Stolleis
11
conquistare), zingari (sinti e rom), omosessuali, asociali, cosiddetti criminali di
professione, portatori di handicap mentali o isici, quali “mangiapane a ufo”,
seri cultori di studi biblici e obiettori di coscienza3.
Si devono dunque, per comprendere il fenomeno nel suo complesso, lasciar
da parte tutte le limitazioni delle identità di gruppo, tutte le loro rivalità per
un posto adeguato nella storia della memoria. Ovviamente Hitler fu in dai
tempi viennesi un antisemita invasato, altrettanto lo furono la maggior parte
dei dirigenti in “stato” e “movimento”. “Lo sterminio degli ebrei europei” (R.
Hilberg) al più tardi dalla Conferenza del Wannsee divenne certo lo scopo
centrale. Questo delirio che si nutriva ad un tempo di politica e biologismo e
si preiggeva una “pulitura del corpo del popolo” veniva a comprendere tutti
i gruppi menzionati ed è questo il contesto da cui prendere le mosse.
Una seconda limitazione va a sua volta abbandonata. Gli antisemitismi
latenti o dichiarati presenti in molte società dell’Europa occidentale e orientale
furono risvegliati, incoraggiati e favoriti dal nazionalsocialismo e dalle azioni
omicide che lo accompagnavano. Ciò arriva a comprendere dalla collaborazione di gruppi dell’Europa occidentale o di politici nella deportazione degli
ebrei nei campi di sterminio ino agli omicidi di massa in Lituania, Ungheria e
Galizia, ma racchiude appunto anche le leggi razziali e la prassi discriminatoria
italiane, che sono l’argomento del nostro convegno4.
Per comprendere il fenomeno nel suo complesso, bisogna prendere le mosse
non soltanto da un concetto ampio di “olocausto”, devono essere inclusi anche i complici e i correi istigati dal potere nazista, ma bisogna anche restare
aperti a tutte le ipotesi scientiiche dotate di serietà metodologica nel corso del
chiarimento dell’intero complesso. Anche in questo caso le tipiche tendenze
degli studiosi a porre al centro le proprie tesi, o addirittura a dichiararle come
le uniche plausibili, devono essere contenute. Senza alcun primato tutti sono
competenti per il loro rispettivo settore disciplinare: la psicoanalisi e la “psicologia delle masse”, se si tratta di fenomeni della identiicazione affettiva,
ma anche della paura e della sottomissione. Inoltre: la storia della scienza
biologica, in particolare delle teorie dell’evoluzione e delle dottrine della razza,
dell’eugenica, anche la storia della scienza giuridica (in connessione all’eugenica), potranno mostrarci che la storia dei brillanti successi delle scienze
della natura nel diciannovesimo secolo aveva anche i suoi risvolti mostruosi.
Di eccezionale importanza è di certo anche la sociologia che indaga sia le
istituzioni e le loro dinamiche interne, sia i fenomeni della frammentazione di
responsabilità in molte quasi impercettibili particelle e i fenomeni dell’identiLa letteratura è sconinata. Le principali opere di riferimento sono: R. Hilberg, Die Vernichtung der europäischen Juden, Frankfurt 1990; S. Friedländer, Das Dritte Reich und die
Juden. Bd. I, Die Jahre der Verfolgung 1933-1939, 2. Aul., München 1998, Bd. II, Die Jahre
der Vernichtung 1939-1945, München 2006.
4
G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007.
3
12
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
icazione con immagini guida, con “Führer” o con scopi vaghi comprensibili
soltanto intuitivamente.
Forse in futuro persino gli studiosi dei meccanismi cerebrali faranno parte
di questa équipe di ricercatori, se dovessero deinire come il “desiderio di
morte” e la “sete di sangue” lascino le loro tracce nel cervello, e per gli anni
dopo il 1945 potrebbero insegnarci come il ricordo venga deformato e piegato
afinché resti per i singoli psicologicamente tollerabile. In fondo l’economia
ha svolto un ruolo considerevole per la politica di espansione e per la conduzione della guerra nel complesso, sia nella presa di materie prime e inanze,
sia come mezzo di “ricompensa” del fronte interno5. Per l’olocausto essa non
è invece sostanziale, giacché coinvolgeva persone che dal punto di vista militare, economico o politico erano prive d’importanza. Impegnava considerevoli
forze logistiche, favoriva la propaganda di guerra degli alleati e inoltre doveva
essere tenuto nascosto alla propria popolazione.
1. Per comprendere l’incomprensibile, si dovrebbe cominciare con il tratto
dominante: l’antisemitismo fondato biologicamente. Molti tedeschi di estrazione borghese credevano che, nel caso dei provvedimenti contro gli ebrei dopo il
1933, in primo luogo si trattasse di una riduzione moderata dell’ inlusso degli
ebrei nella vita pubblica, culturale e scientiica. Vi era un ampio consenso in
ambiente borghese sul fatto che in proporzione ai numeri assoluti vi fossero
troppi ebrei scrittori, attori, artisti, ginecologi, avvocati, produttori, pubblici
uficiali – si voleva “ridurre” ciò e possibilmente restando entro i binari del diritto.6 Al più tardi con le leggi razziali di Norimberga del 1935 divenne evidente
però che questo era stato soltanto una messa in scena per i circoli borghesi i
cui istinti d’invidia e le avversioni erano stati soddisfatti. Allora si fece strada
l’argomentazione biologistica, quella del “sangue”. Nessuno capì esattamente
cosa dovesse signiicare, nonostante che Hitler nel “Mein Kampf” lo avesse
detto chiaramente. Allora si voleva non più soltanto “ridurre” una minoranza
religiosa che aveva vissuto in Germania sin dal Medioevo, ma “eliminarla”
in una qualche forma come elemento razziale. Un’idea folle, di certo, assurda
5
G. Aly, Hitlers Volksstaat. Raub, Rassenkrieg und nationaler Sozialismus, Frankfurt
2005, ha posto in rilievo con vigore che l’intero popolo tedesco traeva vantaggi dalla guerra.
Per quanto ciò sia importante a chiarimento dello stato d’animo generale in Germania, non
contribuisce minimamente alla spiegazione dell’olocausto. Un qualsiasi senso economico,
militare, di tattica politica, non si riesce a coglierlo nell’accaduto. Fu svolto per così dire contro ogni intenzione utilitaristica. I “costi” di diritto internazionale e morali dell’olocausto, in
aggiunta anche a quelli di carattere logistico e inanziario, superavano di gran lunga i guadagni
materiali che potevano farsi incidentalmente e si può ritenere che di ciò fosse conscia anche
la dirigenza nazionalsocialista.
6
Sugli atti di violenza antisemitica al di fuori del diritto vedi M. Wildt, Volksgemeinschaft als Selbstermächtigung. Gewalt gegen Juden in der deutschen Provinz 1919 bis 1939,
Hamburg 2007.
Michael Stolleis
13
soprattutto in un’area geograica in cui da più di mille anni i popoli si erano
mischiati, appunto incrociati dal punto di vista biologico. Ma non appena si
consolidano nel centro del potere, le idee assurde si trasformano in terribile
realtà. Allora cominciò la ricerca della “nonna ebrea”, la pubblica costrizione
di redigere elenchi di antenati; allora si diffuse la paura in famiglie borghesi, di
alta borghesia e nobili di trovarsi dalla parte sbagliata. I nazisti radicali erano
pseudo-biologi, per esprimersi con indulgenza. Credevano al “sangue” e disprezzavano tutti i tentativi di limitazione giuridica, appunto perché ponevano
il “sangue” in maniera assoluta. Chi credeva al “sangue” doveva sterminare.
Persino persone anziane, da cui non vi era più niente da temere dal punto di
vista biologico, inirono travolte7. Giacché soltanto l’uccisione poteva portare
la vera “salvezza”, si rigettarono subito anche altre idee folli meno radicali,
come il trasferimento di tutti gli ebrei in Madagascar.
Questo mondo biologistico immaginario è nato nel secolo diciannovesimo.
È il prodotto del darwinismo sociale, delle dottrine dell’ereditarietà e delle
teorie popolari della razza, che dal canto loro risalgono alle scienze della natura
del diciottesimo secolo.
Le cognizioni intorno alle razze principali dell’umanità appartenevano ad
un sapere standard; lo si poteva controllare in ogni “Konversationslexikon”. Si
credeva – di certo in tutta Europa – alla connessione tra aspetto isico, forma
del cranio e carattere. Il passo era breve ino all’idea assurda di riconoscere
una congiura globale dell’ebraismo semitico per la distruzione dell’arianità e
di doverla scoprire ora all’ultimo minuto.
Allo stesso modo dal secolo diciannovesimo deriva l’idea che il “corpo
del popolo” biologico presenti elementi sani e malati. In conseguenza dei
“problemi sociali” si facevano ricerche su alcolismo, criminalità, denutrizione
e malattie ereditarie. A cerchie borghesi, ma anche socialiste, parve plausibile
di intervenire regolamentando in questi angoli oscuri della società dominata
dal “progresso”: non soltanto con aiuti positivi, ma anche agevolando l’aborto, per mezzo di sterilizzazione e in ine uccidendo “vita indegna di vivere”.
Questa formula, resa popolare dal medico Hoche e dal giurista Binding, venne
soltanto a riassumere quanto già si discuteva da tempo.
Il vaneggiante antisemitismo razzista del mondo ariano e gli autoeletti
medici del corpo sociale della nazione erano concordi che fosse decisiva
soltanto la “utilità” per il popolo, la nazione, la generalità. Con ciò furono
infrante tutte le barriere della civiltà e della cultura, della morale e del diritto.
7
Quale esempio tra innumerevoli altri si ricordi lo scienziato, imprenditore e mecenate
di Francoforte Arthur von Weinberg (1860-1943), che nel 1942 all’età di 82 anni fu deportato nel Konzentrationslager Theresienstadt, dove morí, mentre la IG-Farben, una impresa di
livello mondiale che egli stesso aveva creato, gestiva insieme alle SS il KZ Buna-Monowitz
incassando lauti proventi bellici. A questo proposito: J.R. White, IG Auschwitz: The Primacy
of Racial Politics, Diss. Univ. of Nebraska Lincoln NE, 2000.
14
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
Il diritto come ostacolo non era più utile, da quando era stato diffamato come
“semplice diritto legislativo” che poteva essere cambiato ogni momento. La
morale era stata irrisa come strumento dei deboli da Nietzsche: i forti non
avevano bisogno di attenervisi.
2. Un secondo motivo essenziale che portò ad una caccia alle minoranze
dopo il 1933 fu la, per metà inconscia e per metà cinicamente conscia, mobilizzazione della “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare). L’esperienza
decisiva per Hitler era stata la comunità dei soldati al fronte. Molti soldati
proseguirono questa forma esistenziale nei corpi di volontari – essi erano quali
“Landsknechte” (servitori della patria) spesso rovinati per un rientro nella società civile. Allora, dopo la prima guerra mondiale tutti parlavano di comunità.
La borghesia anelava ad un superamento delle lotte di classe in una
“Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare). Anche i socialisti sognavano una comunità che superasse le classi. La “Jugendbewegung” (il
movimento della gioventù) sia borghese che socialista ad uno stesso tempo
avevano intonato i loro canti e si erano sedute intorno ai fuochi da campo.
Teorici dello stato quali Rudolf Smend speravano nel superamento della crisi
permanente dello stato per mezzo di “integrazione”. Ma anche Carl Schmitt,
Erich Kaufmann e Hermann Heller erano alla ricerca, ciascuno a suo modo,
di una unità della collettività, ed era chiaro che il liberalismo borghese del
diciannovesimo secolo non poteva più produrla.
Questi discorsi di unità, “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare), e integrazione, incessantemente ripetuti nel periodo della Repubblica di
Weimar, dopo il 1933 furono fatti propri e radicalizzati dai nazionalsocialisti.
Giacché Hitler disprezzava e voleva distruggere il prima possibile i partiti,
aveva bisogno di una proiezione di scopo: l’unità della nazione ora deinita
dal punto di vista razziale. Dopo le sue esperienze al fronte e in battaglia era
soltanto possibile presentarsi come potente riunendo dietro di sé le masse.
Come modello (Leitbild) e ad un tempo motivo conduttore servì a ciò la
“Volksgemeinschaft” (comunità nazionale/popolare) con i suoi rituali unitari.
Si lusingava la classe operaia con il discredito delle professioni intellettuali,
si umiliava la borghesia e ad un tempo si pretendeva che si inquadrasse, si
deridevano le élites scientiiche, nobiliari, ecclesiastiche come “lebensfremd”
(avulsi dalla realtà), “sclerotici”, “clericali”.
Su questa base non era dificile con un passo ulteriore giungere a deinire
la “Volksgemeinschaft” (comunità nazionale) come unità “razziale”. Da lì in
poi vi fu soltanto una totalità omogenea degli ariani e una serie di gruppi, che
non erano “integrabili”: gli odiati ebrei, i socialisti, gli incorreggibili liberali,
i cristiani pieni di riserbo nei confronti della comunità e altri gruppi religiosi,
i malati inguaribili e, ad essi equiparati, gli omosessuali.
Tutti loro erano per esclusione “estranei alla comunità” (gemeinschaftsfremd/stranieri della comunità). È caratteristico che il ministero della giustizia
Michael Stolleis
15
sotto il nazionalsocialista radicale Thierack in piena guerra avesse programmato ancora una legge contro i “Gemeinschaftsfremde” (asociali). Chi si fosse
posto contro la “comunità nazionale” doveva essere punito o eliminato8.
In altre parole, la comunità dei combattenti della prima guerra mondiale e
dell’attore politico Hitler divenne ora soltanto una comunità nazionale deinita
razzialmente. Era realizzabile soltanto dando la caccia alle minoranze; giacché
soltanto questa caccia produceva la sensazione di trovarsi dalla parte giusta
nella collettività9. Questo aspetto psicologico spiega anche perché i colpevoli
più radicali dell’olocausto fossero tipicamente di estrazione piccolo borghese
o contadina. Essi potevano compensare con maggior forza le sensazioni di
svantaggio sociale permanente ora con la possibilità di fare la loro comparsa
come “uomini di potere”. Notoriamente una persona con complessi d’inferiorità può trasformarsi tragicamente se lo si dota di una uniforme, stivali da
equitazione, frusta e soprattutto del potere di uccidere.
3. Una terza ragione dell’evoluzione dal 1933 ino alla ine dell’olocausto
consiste a mio parere nel fatto che pare esserci un “decorso quasi regolare delle
rivoluzioni”. Si è spesso osservato che fratture rivoluzionarie dispiegano una
loro propria dinamica con il precedente ordinamento sociale e giuridico. Lo si
nota in maniera esemplare nella rivoluzione maggiormente nota, quella francese del 1789. Essa inizia come rivolta interna al sistema, vengono concesse
riforme, le richieste aumentano, i radicali si affermano, la temperatura sale, e
già così tanto che il minimo sospetto o la più infondata calunnia hanno conseguenze mortali. Allora la rivoluzione divora i propri igli, l’onda s’infrange
e passa in un nuovo ordine. Si chiama allora “reazione” o “restaurazione”.
Il passaggio di potere ai nazionalsocialisti non fu un colpo di stato o un
putsch, ma in primo luogo una formazione del governo ancora legale. Nel
giro di poche settimane si sviluppò in una rivoluzione – se non si riserva
questo concetto soltanto per i rivolgimenti “moralmente buoni”, sostenuti
dalla volontà popolare10. Questa rivoluzione nazionalsocialista cominciò in
maniera legalitaria, facendo uso del idato strumento della legislazione e dei
regolamenti. Una legge seguì all’altra. I giuristi commentarono queste leggi, i
tribunali le applicarono. Si restò formalmente entro i conini consueti. Il regime
costruì una facciata di legalità per assicurarsi la lealtà dei funzionari pubblici
borghesi e dell’apparato giudiziario. Il ministro della giustizia Gürtner non era
8
P. Wagner, Das Gesetz über die Behandlung Gemeinschaftsfremder, in Feinderklärung
und Prävention. Kriminalbiologie, Zigeunerforschung und Asozialenpolitik, Berlin 1988; W.
Ayass, Gemeinschaftsfremde. Quellen zur Verfolgung von Asozialen (Materialien aus dem
Bundesarchiv, 5), Koblenz 1998; M. Willing, Das Bewahrungsgesetz (1918 – 1967), Tübingen
2003, pp. 187 e ss.
9
Z. Baumann, Moderne und Ambivalenz. Das Ende der Eindeutigkeit, Hamburg 2005.
10
M. Stolleis, Revolution, in Handwörterbuch zur Deutschen Rechtsgeschichte, a cura di
E.Kaufmann, vol. 4, Berlin 1990, pp. 961-965.
16
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
nazionalsocialista, poteva valere molto più come garante della tradizione11.
L’organizzazione dei primi campi di concentramento “selvaggi” fu contenuta,
la rivoluzione fu dichiarata conclusa, i capi delle SA che si ostinavano a voler
partecipare alla spartizione del bottino furono passati alle armi nel 1934. Ciò fu
sicuramente illegale, ma tranquillizzò in ogni caso gli ambienti borghesi. Hitler
non poteva ancora fare a meno del loro consenso. Non appena le cose non
stavano più così, all’incirca dal 1935 e 1936, cominciò una radicalizzazione:
una politica estera aggressiva, un riarmo forzato, una crescita dell’impero non
uficiale delle SS e della Gestapo. La lotta per il potere tra stato e NSDAP,
il partito, si accese a tutti i livelli. Ci si sbarazzò anche degli idioti utili al
sistema, compreso il “Kronjurist” Carl Schmitt12.
A questo ritmo si svilupparono anche la privazione dei diritti e l’emarginazione degli ebrei e delle altre minoranze oltre che la persecuzione degli oppositori. Ad una prima fase “selvaggia” fece seguito una fase della pacatezza e
della legittimazione, soprattutto con le leggi razziali di Norimberga del 1935,
che si accettarono anche in ambienti borghesi perché ora sembravano raggiunte
chiarezza, delimitazione e sicurezza del diritto. La loro applicazione si svolse
troppo lentamente per le forze radicali, cui sembrarono troppo moderate, troppo
giuridiche. Si aspettava un’occasione, che arrivò nel novembre 1938 e portò
al grande progrom, le cui conseguenze, come segnale della rottura degli argini
morali, giuridici e politici, furono molto più penetranti di quelle materiali. Ora
si usò qualsiasi occasione per il ricatto, richieste di “contribuzioni”, si fecero
pagare i trasferimenti di bambini ebrei all’estero, si depredò il patrimonio
ebraico in grande stile. Ma la dinamica interna continuò. L’occasione ancor
più grande si offrì in guerra. Ora si poté “davvero” cominciare ad uccidere
sul terreno antistante o sul retroterra delle azioni belliche, prima senza una
programmazione, poi sempre più conseguentemente e con una eficienza che
per i tedeschi è famosa e famigerata.
In altre parole: non ci fu un piano generale, perseguito in dall’inizio, dello sterminio degli ebrei, né presso Hitler né presso uno dei potenti della sua
cerchia. Ma c’erano disposizioni sulla violenza, sul disprezzo di “scrupoli”
borghesi e di limiti giuridici e morali. Queste disposizioni si trovavano a
portata di mano, furono sempre nuovamente “ricaricate”, non in ultimo dallo
stesso Hitler.
La disponibilità alla violazione del diritto, al ricatto e alla violenza, in
ine all’omicidio, la si trovava in alto e in basso, nella stessa misura presso il
personale dirigente e nelle truppe. La dirigenza di continuo si assicurava di
essere senza scrupoli, di voler attaccare “senza pietà” e di non farsi legare le
mani da ili giuridici. Non dovevano applicarsi critiche né morali né giuridiche.
Fondamentale L. Gruchmann, Justiz im Dritten Reich 1933 – 1940, München 1988.
A. Koenen, Der Fall Carl Schmitt. Sein Aufstieg zum Kronjuristen des Dritten Reiches,
Darmstadt 1995.
11
12
Michael Stolleis
17
Gli ex-soldati, i membri dei corpi di volontari e i picchiatori delle SA avevano
fatto esperienza soltanto di violenza e avevano l’intenzione di continuarla. In
questo clima della autoinfatuazione attraverso il linguaggio in un vocabolario
della violenza, gli eventi un po’ alla volta precipitarono.
Ciò che, in primo luogo per rispetto verso l’ambiente borghese, si era svolto
formalmente ancora sotto “forme giuridiche”, presto divenne aperta violenza
che poi, quando il mondo intero issava il proprio sguardo sugli avvenimenti
della guerra, non doveva più essere nascosta. L’olocausto è perciò un processo molto complesso, in un crescendo continuo, nel quale progressivamente i
radicali si affermarono mentre oppositori e moderati ammutolivano. A questo
ammutolimento contribuì notevolmente il fatto che il vero irrompere delle
uccisioni di massa (eutanasia, gruppi d’azione, campi di lavoro e di sterminio) si veriicò all’ombra della guerra, in parte di nascosto, in parte a grande
distanza dalla “patria”.
4. Che la progressione dalle parole a singole azioni da lì potesse “precipitare” in uno sterminio sistematico ha a che fare da un lato con la “modernità
tecnica”, dall’altro con particolarità tedesche. Con la “technische moderne”
si intende lo sviluppo della tecnica a partire dalla metà dell’Ottocento. Da un
lato essa porta non soltanto a macchine sempre più complesse, ma meccanizza
anche la guerra, con l’invenzione delle armi a ripetizione, dei carri armati,
dei sottomarini, di bombe sempre più grandi13. Dall’altro attraverso quello
sviluppo è caratterizzata da una ripartizione dei compiti che rende sempre
più dificile agli individui di riconoscere le conseguenze concrete delle loro
azioni. La produzione alla catena di montaggio (Fordismo, Taylorismo) consentiva anche di uccidere in maniera industriale alla catena di montaggio.
Nei giganteschi macelli di Chicago per la prima volta nella storia venivano
uccise giornalmente decine di migliaia di animali poi lavorate alla catena di
montaggio14. Ogni operaio era responsabile soltanto per una singola manipolazione. La “colpa” dell’uccisione di massa si risolveva in singole operazioni.
Questo era un funesto prodromo della uccisione di massa di esseri umani.
Sono convinto che qui non vi siano connessioni causali, ma strutturali. Anche le SS sperimentavano quale tecnica di uccisione fosse la più eficiente,
la mitragliatrice, il monossido di carbonio delle automobili, il gas velenoso
o lo sterminio col lavoro15.
13
S. Giedion, Mechanization Takes Command. A contribution to anonymous history,
Oxford 1948 (New York 1969, pp. 240 ss: The Mechanization of Death).
14
U. Sinclair, The Jungle, New York 1906. Si veda anche: D. Pick, War Machine. The
Rationalisation of Slaughter in the Modern Age, Yale Univ. Press 1993.
15
W. Gruner, Der Geschlossene Arbeitseinsatz deutscher Juden. Zur Zwangsarbeit als
Element der Verfolgung 1938-1943, Berlin 1997; Id., Jewish Forced Labor Unter the Nazis
Economic Needs and Racial Aims, 1938-1944, Cambridge 2006, pp. 3-137.
18
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
L’olocausto non fu soltanto un massacro razzista in guerra o in occasione
di una guerra, ma anche prodotto di una gigantesca amministrazione e di una
rafinata logistica. I colpevoli di grado superiore dirigevano i colpevoli di grado
inferiore, ma dirigevano anche il personale delle ferrovie e della posta, del
rifornimento di materiali e vettovaglie. La loro igura guida era il funzionarioNS e colpevole a tavolino Adolf Eichmann. Hannah Arendt colpì al centro,
quando vide in lui l’incarnazione della “banalità del male”16. In questi apparati
si perde la responsabilità personale. Essa viene ridotta talmente, che l’agente
si accorge di volta in volta soltanto di un settore degli avvenimenti e in tal
modo non ha più bisogno di rilettere su cosa stia succedendo nel complesso.
Pertanto erano “uomini del tutto normali” che lì uccidevano – con tutte le
ambivalenze insite in questa terribile espressione17.
In Eichmann, Heydrich, Kaltenbrunner e Himmler, per nominare soltanto
questi, si riconosce anche uno speciico tipo “tedesco”.18 È certo al limite di
quanto possa esprimersi e provare scientiicamente, è anche pericolosamente
vicino ai vecchi, da secoli tramandati clichées, ma io azzardo l’affermazione
che il tipo del funzionario ubbidiente e oltremodo eficiente sia stato formato
con particolare costanza nei grandi stati centralistici della Prussia e dell’Austria. Questo tipo non corrisponde al libero cittadino autoresponsabile che
elabora i propri pensieri politici, morali e giuridici e sopporta egli stesso il
rischio delle sue azioni. Prussia e Austria, nonostante tutte le differenze, non
hanno puntato sulla borghesia liberale, ma sulla casta dei funzionari e dei militari e lì sviluppato determinate forme di comportamento. Detto diversamente:
la borghesia non governava, veniva governata. Si tenne lontana dalla politica;
proprio i suoi migliori rappresentanti erano ieri di mantenere le distanze dalla
“sporca” politica.
Che il nazionalsocialismo potesse strumentalizzare senza grandi dificoltà
per i propri crimini la quotidiana mediocrità di questo tipo di servitore dello
stato è una faccia della medaglia. Che ad un tempo proprio da questo corpo
di funzionari di maggior livello e di uficiali esplodesse la signiicativa e
onorevole resistenza del 20 luglio 1944 dopo lunghe lotte intestine è l’altra.
Entrambe le cose non si contraddicono, ma mostrano soltanto la tradizionale
debolezza della società civile tedesca.
16
H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. Ein Bericht von der Banalität des Bösen, 1964
(München Zürich 1995, p. 299). Sull’origine della famosa e discussa espressione, si veda:
E. Vollrath, Vom radikal Bösen zur Banalität des Bösen. Überlegungen zu einem Gedankengang von Hannah Arendt, Rede zur Verleihung des Hannah Arendt-Preises für politisches
Denken, 2001.
17
Cfr. R. Browning, Ordinary Men, 1992 (deutsch: Ganz normale Männer. Das ReservePolizeibataillon 101 und die Endlösung in Polen, Reinbek 1993); Id. Die Entfesselung der
Endlösung. Nationalsozialistische Judenpolitik 1939 – 1942, Berlin 2006.
18
M. Wildt, Generation des Unbedingten. Das Führungscorps des Reichssicherheitshauptamtes, Hamburg 2003.
Michael Stolleis
19
5. Il quadro che si è delineato non sarebbe completo senza dare uno sguardo
al rapporto del regime nazionalsocialista col diritto. Per i principali attori del
regime il diritto era nient’altro che un fattore negativo: scrupoli, dubbi, soistica giuridica, dificoltà. Il diritto era strumento di potere, di cui ci si serviva
intanto volens nolens ci fosse bisogno di un apparato di burocrati e di tribunali. Anche nei paesi europei occidentali occupati ci si sforzava di ricorrere
il più possibile alla positiva parvenza di procedure formalmente giuridiche,
come presso a poco mostrano recenti indagini sul regime di Vichy. All’Est era
diverso. Qui si credeva al diritto del più forte e lo si praticava senza scrupoli,
soprattutto nei rapporti con ebrei o “esseri inferiori” slavi.
Per quanto riguarda le migliaia di giudici e avvocati19 non si potrebbero fare
affermazioni di carattere generale sulle loro idee di diritto. Ci sono in tutti gli
ambiti giuridici sentenze intrise dello spirito del nazionalsocialismo, ci sono
egualmente sentenze innumerevoli nelle quali la “machinerie” dei tribunali
aveva funzionato normalmente, come anche in precedenza, e ci sono sentenze
in cui qua e là balena uno spirito di contraddizione al regime20.
L’analisi di tali sentenze e del modo di funzionamento dell’amministrazione della giustizia (compresi il “Volksgerichtshof”, il tribunale del popolo,
i tribunali speciali e la giurisdizione militare) è oggetto di intense ricerche.
Il quadro complessivo oggi è divenuto molto più differenziato. Ma queste
ricerche non appartengono al tema “olocausto” giacché quanto avvenne nei
campi di concentramento, quanto fu perpetrato dai torturatori della Gestapo,
quanto commise la SS in Maidanek o Auschwitz, era inaccessibile all’amministrazione della giustizia, in parte perché le azioni della Gestapo erano
esonerate per legge dal controllo dei tribunali, in parte perché nell’ambito di
potere delle SS comunque vigeva “anomia”, non soltanto dunque un “vuoto
di diritto”, ma un’attitudine alla superbia di non doversi curare di alcuna
prescrizione.
6. Questo ibrido del presunto “Herrenmensch” (uomo di razza superiore)
ha molte radici, sia nella biograia personale rovinata, sia in certi ambienti
(forse dei tedeschi all’estero), sia nella lettura di letteratura settaria o di autori
come Houston Steward Chamberlain, del cosiddetto “tedesco di Rembrandt”
o appunto dello “Zarathustra” di Nietzsche, che poteva avere effetti devastanti
nelle teste a ciò predisposte.
Intorno al 1900 in Europa era tutto un brulicare di ilosoi e pseudoilosoi,
di fondatori religiosi e ciarlatani, di politici e militari di scarsa cultura, che
19
Una registrazione complessiva del personale giudiziario durante il nazionalsocialismo
è stata intrapresa da Hubert Rottleuthner (Freie Universität Berlin). La pubblicazione della
banca dati si fa ancora attendere.
20
M. Stolleis, Furchtbare Juristen, in Deutsche Erinnerungsorte, a cura di E. François,
H. Schulze, vol. II., München 2002, pp. 535-548.
20
Comprendere l’incomprensibile: l’Olocausto e la storia del diritto
erano concordi quantomeno sul fatto di disprezzare lo stato di diritto borghese
e la democrazia parlamentare. Fintanto che questo atteggiamento trovava sfogo
nei caffè e nei salotti, in “ordini” misteriosi e comuni agricoli, era espressione
del senso di crisi della in du siècle, della ine del diciannovesimo e dell’inizio
del ventesimo secolo. Erano prodotti della disgregazione del mondo borghese.
Sotto circostanze politiche più favorevoli sarebbero restati privi di effetti. Ma
la guerra mondiale e la stoltezza di “Versailles” trasportarono questi elementi
nelle centrali del potere, e a cominciare da lì poterono emergere particolari
idee balzane sulla ideologia dello stato. Alla ine si dedusse dalla grandezza
del delitto la grandezza del compito politico universale che era stato afidato
ai tedeschi. Himmler, questa triste incarnazione di tutti questi caratteri, predicò alle sue SS l’eroismo degli incendiari e degli assassini, perché questo gli
sembrava che fosse un indizio della loro missione universale. E lo stesso Hitler
vide alla ine un Walhall incendiato dinanzi a sé, in cui egli aveva l’intenzione
di trascinare il suo popolo, che non si era dimostrato degno di sé.
III.
L’abbozzo in qui proposto ha trattato l’oggetto olocausto forse in maniera
un po’ troppo ridotta, non dal punto di vista morale, ma da quello scientiico. Ho tentato di integrare risultati della ricerca scientiica, come accennato
all’inizio. Con questo nel complesso ne è derivata l’impressione che si sia
trattato essenzialmente di un fenomeno “tedesco”. Dal punto di vista storico
ciò è giusto. Il regime di Hitler, che ha rappresentato il Deutsches Reich in
maniera effettiva per il diritto internazionale, ovvero dal 30 gennaio 1933 allo
8 maggio 1945, ha cominciato la guerra e perpetrato l’olocausto.
Retrospettivamente si vede anche quali fattori psichici collettivi, economici
e politici dovessero congiungersi per produrre quel che ora si chiama olocausto.
Per quanto intensamente la ricerca scientiica abbia indagato questi fattori, per
chi è nato dopo resta quel “Primärgefühl der Fassungslosigkeit”/sensazione
primaria di sbigottimento. In essa si trova non soltanto il sentimento dello
sconcerto dinanzi al moralmente incomprensibile, ma anche la convinzione
intuitiva che il fenomeno resterà in vasti ambiti inaccessibile alle scienze interessate. L’interazione degli eterogenei fattori personali, culturali e di cultura
giuridica durante una dittatura e sotto le condizioni particolarmente estreme
di una guerra è troppo complessa per poter essere decifrata completamente.
Constatarlo signiica non rassegnazione della ricerca scientiica, ma anche
una sorta di riguardo dinanzi alle voragini che si aprono accanto agli attori
ma anche in noi stessi.
Il fatto che lo stato nazionalsocialista all’incirca dal 1935 abbia inluenzato
e spronato anche altri popoli e stati ad associarsi alla sua politica razzista è
oggetto del nostro convegno. “In Italia” disse Primo Levi “le cose si sono
Michael Stolleis
21
svolte diversamente”21. Non c’è dubbio. Si sono svolte “in altro modo”, di
certo, ma “le cose” si sono svolte comunque. Quando Carl Schmitt era rientrato nel 1936 da un viaggio a Roma, scrisse un breve articolo nella “Deutsche
Juristen-Zeitung” da lui diretta dal titolo: “Scienza giuridica fascista e
nazionalsocialista”22.
In esso descrisse i paralleli fra la Germania e l’Italia in diritto civile, diritto
del lavoro, diritto costituzionale e internazionale, per poi sottolineare le “grandi
differenze dell’ideologia (Weltanschauung)”: “Il problema della razza in Italia
viene ignorato. Nella teoria del diritto pubblico e amministrativo si ripercuote
in senso tradizionalistico il fatto che per il fascismo resta fuori dubbio il primato dello stato davanti al partito. In questo sta anche la più profonda differenza
dal punto di vista della scienza giuridica”.
Concluse l’articolo con una perifrasi del suo colloquio con Mussolini intorno ad Hegel e l’attuale dimora del suo spirito (Berlino? Roma? Mosca?)
e mise in evidenza il comune allineamento contro il liberalismo del vecchio
occidente e il “collettivismo di un oriente che vuol rivoluzionare il mondo”.
Lo spirito di Hegel – così si inchinò Carl Schmitt dinanzi a Benito Mussolini
– risiedeva ormai a Roma.
Il ilosofo Hegel forse non gradiva gli ebrei, ma certamente non era un razzista dello stampo di Hitler, Himmler, Heydrich o Eichmann. Ciò nonostante
se ci si immagina che egli fosse stato visiting professor di ilosoia a Roma in
quegli anni, dove avrebbe abitato dal 1938 al 1943? Sul Campidoglio? In subafitto da Benedetto Croce? Da Ranelletti, Costamagna, Ugo Spirito, Volpicelli
o da altri giuspubblicisti italiani?23 Dagli specialisti del diritto di famiglia nel
codice civile? Poteva vedere la cupola di San Pietro dalla inestra? Frequentava
i tribunali? Conversava con avvocati? Fu l’olocausto davvero quel compito, “il
quale si afida da adempiere al carattere nordico dei popoli germanici”, come
aveva detto Hegel nella “apoteosi” della sua ilosoia del diritto?24
21
P. Levi, Ist das ein Mensch? Erinnerungen an Auschwitz, Frankfurt 1961; Id., Bericht
über Auschwitz, hrsgg. v. Ph. Mesnard, Berlin 2006. Si veda inoltre …denn in Italien haben sich
die Dinge anders abgespielt: Judentum und Antisemitismus im modernen Italien. a cura di G.
Jäger, L. Novelli-Glaab, Berlin 2007; A. Mattioli, Das faschistische Italien – ein unbekanntes
Apatheidregime, in Gesetzliches Unrecht. Rassistisches Recht im XX Jahrhundert, a cura di M.
Brumlik, S. Meinl, W. Renz, Frankfurt-New York 2005; O. De Napoli, La Prova della Razza.
Cultura giuridica e razzismo in Italia negli anni Trenta, Milano 2009.
22
C. Schmitt, Faschistische und nationalsozialistische Rechtswissenschaft, in Deutsche
Juristen Zeitung, 1936, p. 619 e ss.
23
Schmitt, op, cit., p. 620.
24
G.W.F. Hegel, Lineamenti della ilosoia del diritto, Roma Bari 1979, § 358.
Aldo Mazzacane
IL dIRITTo FASCISTA
E LA PERSECUzIonE dEGLI EBREI
La storia dell’antisemitismo e della persecuzione antiebraica messa in atto
dal fascismo italiano è stata tracciata più volte, ma a partire da tempi non
molto risalenti e solo in anni relativamente recenti gli studi si sono andati
moltiplicando1. L’opera pionieristica di Renzo De Felice, Storia degli ebrei
in Italia sotto il fascismo (1961), rimase a lungo isolata nella storiograia, e il
ritardo nell’affrontare il problema ha rappresentato un deicit, di cui purtroppo
si vedono tuttora i segni nel tessuto civile della nazione. Si pensi al contrario
a quanto è accaduto in Germania, dove la rilessione storica sul tema, sempre
dolorosa e spesso angosciata, ha contribuito a impiantare anticorpi robusti
contro il razzismo nella società tedesca.
Per fortuna, disponiamo ora di indagini pregevolissime, sia di carattere generale, sia su singole situazioni locali, che hanno visto in quella storia uno dei
tratti più marcati della vocazione totalitaria del regime2. Anche la storiograia
giuridica ha cominciato ad approfondire il tema delle relazioni tra cultura giuridica e fascismo3, con sicuro vantaggio sia per comprendere formazione e struttura
1
Bibliograie, rassegne e recensioni numerosissime, cui si aggiungono i moderni strumenti
informatici, orientano agevolmente attraverso la letteratura. Limiterò pertanto al massimo i
rinvii, rinunciando a indicare contributi importanti, dei quali comunque ho tenuto conto. Per gli
scritti e i discorsi di Mussolini, uso l’ediz. Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel,
Firenze 1951-63, che qui cito una volta per tutte.
2
Tra le opere di carattere generale vedi da ultimi, con impostazioni diverse fra loro, E.
Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma Bari 2003 (con Bibliograia
ragionata); M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (nuova
ediz. rivista), Torino 2007; M.A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli
ebrei (ediz. francese 2007), trad. it. Bologna 2008 (con Bibliograia).
3
Un bilancio degli studi allora esistenti e una prospettazione di ricerche da fare sono nei
saggi, seguiti dall’appendice di una guida bibliograica e di una guida archivistica, promossi
e raccolti da A. Mazzacane, Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, Baden-Baden
2002. Ma negli anni successivi le pubblicazioni si sono straordinariamente moltiplicate. Un
24
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
di ordinamenti che hanno prolungato per troppo tempo i loro effetti su quelli
vigenti, sia per analizzare più a fondo le caratteristiche della società italiana e
del regime durante il Ventennio, che talvolta riafiorano inquietanti ancora oggi.
Teorie e pratiche del diritto svolgono infatti un ruolo di grande rilievo nelle
società moderne, dove il conlitto politico si formalizza quasi sempre attraverso
i termini della ‘legge’ e, specialmente in contesti totalitari, nei quali il potere
dittatoriale mostra di prediligere il linguaggio normativo, della legislazione o
dell’amministrazione.
Occorre infatti considerare che il diritto non interviene solo ‘a cose fatte’,
per confermare e stabilizzare rapporti già deiniti sul piano economico e sociale. Né soltanto pretende di dettare preventivamente regole che poi verranno
applicate, o disapplicate, o manipolate. Il diritto esercita anche la funzione di
‘nominare’ cose e rapporti, di farli venire a esistenza nella sfera del linguaggio,
e di creare così condizioni di pensabilità e di predicabilità dei fenomeni sociali,
griglie interpretative, quadri di senso e di plausibilità, schemi di valutazione.
Forma la retorica di un campo discorsivo, di cui stabilisce il perimetro, entro
il quale si conigurano gerarchie, comportamenti accettabili o da reprimere,
decisioni condivisibili o da contrastare. In tal modo, principi e concetti elaborati
originariamente in ambito specialistico diventano, sia pure sempliicati, senso
comune della popolazione, entrano a far parte, accanto ad altri sottosistemi,
dell’ediicio sociale, inteso complessivamente come sistema comunicativo.
Quale ruolo ebbe dunque la lingua del «giure» nella persecuzione antiebraica del fascismo? Numerosi interrogativi sono ancora aperti. Alcuni riguardano
il territorio speciico del diritto, ma altri hanno portata più generale. Vediamone
i più ricorrenti.
La legislazione razzista e le disposizioni amministrative che la accompagnarono e la seguirono, varate nel biennio ’38-’39, furono lo sbocco di un
antigiudaismo presente nella società italiana e risalente nel tempo? Di un
antigiudaismo di matrice religiosa e cristiana, al quale già nel medioevo i
giuristi avevano dato forma operando con la coppia concettuale di fama e di
infamia? Oppure furono il prodotto di una scelta improvvisa del duce, cui la
maggioranza degli italiani si adeguò con conformistico zelo? Furono dettate
dall’alleanza con la Germania, o dipesero da esigenze di politica interna e di
equilibri interni al partito fascista, e più ancora da una logica strutturale totalitaria del fascismo italiano? Diedero vita ad una persecuzione blanda, poiché
gli italiani sono «brava gente», o ebbero i caratteri altrettanto, e talvolta persino
più duri che in altri paesi, almeno in quando non iniziò lo sterminio a guida
nazista? Tecnicamente, la persecuzione fu costruita sulla base di sperimentazioni giuridiche già effettuate nell’esperienza coloniale, o fu inventata ex novo?
inquadramento generale della materia è nel notissimo studio di P. Grossi, Scienza giuridica
italiana. Un proilo storico (1860-1950), Milano 2000.
Aldo Mazzacane
25
I giuristi si limitarono ad assecondare le scelte del regime, o le sostennero con
impegno? Oppure, ancora, fecero in qualche misura da argine, ancorandosi
ai principi dello Stato di diritto ed al sistema che strutturava l’ordinamento?
Anche se alcune linee interpretative appaiono ormai generalmente condivise, non a tutti gli interrogativi gli storici hanno risposto con accordo unanime.
È perciò necessario ripercorrere in breve la storia della persecuzione degli
ebrei in Italia, anche al prezzo di ripetere cose note.
1. Il “Manifesto della razza” e la condizione degli ebrei alla metà degli
anni ’30
15 luglio 1938. Sul «Giornale d’Italia» compare un articolo non irmato, ma
attribuito a docenti universitari, intitolato Il fascismo e i problemi della razza.
Ripreso da tutti i quotidiani, cui era stato distribuito il giorno prima, passò
poi alle cronache col nome di Manifesto della razza. Formulato in paragrai,
conteneva affermazioni perentorie:
Le razze umane esistono (n. 1). Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e
di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose
(n. 3). Esiste ormai una pura “razza italiana” […]. Questa antica purezza di sangue
è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana (n. 6). È tempo che gli italiani
si proclamino francamente razzisti […]. La questione del razzismo in Italia deve
essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni ilosoiche
o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana
e l’indirizzo ariano-nordico (n. 7). Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
[…] Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia
perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto
dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani (n. 9). I caratteri isici e psicologici
puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee […]. Il carattere puramente
europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea
e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani (n. 10)4.
Redattore del testo era stato un giovane assistente di antropologia dell’università di Roma, Guido Landra, in pratica – secondo quanto poi disse egli
stesso e confermò il duce – sotto dettatura di Mussolini. Il partito, tenuto
intenzionalmente all’oscuro di questa svolta, fu colto di sorpresa e manifestò
4
Il testo completo è riprodotto in M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei: cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino 1994, pp. 18-19.
#B:?H?JJE<7I9?IJ7;B7F;HI;9KP?ED;:;=B?;8H;?
:?I7FFKDJEF;H?BCE:E9ED9K?;H77LL;DKJ7 DDEJ7L7EJJ7?D;BIKE:?7H?E
IEJJEB7:7J7:;B BK=B?Ec 7FFH;IE?BhB7D9?Ei:;B&7D?<;IJE:;B+7PP?ICE
?J7B?7DE:7KD7J;B;<ED7J7:??;H?C7JJ?D7:?,;H;D7d ECC;DJ7L7FE?KD7J;
B;<ED7J7?DJ;H9EHI79ED,J7H79;c 7LKJ7Bk?CFH;II?ED;FH;9?I79>;?B)7HJ?JE
<EII;hIEHFH;IEi7DP?hI;997JEi:k;II;H;IEHFH;IEd
&KIIEB?D?7L;L79EDLE97JE%7D:H7<EHI;=?QD;BBkEJJE8H;:;Bk;9ECKD
GK;D;B<;88H7?E ';BBEIJ;IIEC;I;?B8EBB;JJ?DED :;BB7c#D<EHC7P?E
D;:?FBEC7J?97d7L;L7FK88B?97JEKD77C8?=K7DEJ7:;B:K9;?D9K?D;=7L7
:? LEB;H c?D7K=KH7H; KD7 FEB?J?97 7DJ?I;C?J7d C7 7<<;HC7L7 9ECKDGK; :?
YROHU ©YLJLODUHª ,QWHQGHYD LQL]LDOPHQWH DI¿GDUH O¶LQFDULFR GL SUHSDUDUH XQ
:E9KC;DJE?DC7J;H?77:KD9EC?J7JE:?FHE<;IIEH?C7H?DKD9?X8;DFH;IJE7B
SURSRVLWRLWHPSLGHOOHGLVFXVVLRQLVFLHQWL¿FKHQRQDYUHEEHURYHURVLPLOPHQWH
9E?D9?IE9ED?J;CF?:;BB7FEB?J?97 ,?H?IEBI;F;HJ7DJE7?CF7HJ?H;7%7D:H7B;
?IJHKP?ED?EFFEHJKD;?B =?K=DE ?;9?:E9;DJ?7FF7HJ;D;DJ??DL7H?7C?IKH7
7BBk?D:?H?PPE7DJHEFEBE=?9EFEI?J?L?IJ7<KHEDEFE?H?KD?J??B BK=B?E:7BC?D?IJHE
GHOOD&XOWXUDSRSRODUH$O¿HULSHUFKpHVDPLQDVVHURHVRWWRVFULYHVVHURLOWHVWR
?IF?99E<H7BEHE;H7DE'?9EB7);D:;;,787JE/?I9EI;D7JEH;?BFH?CE:;
FKJ7JE?BI;9ED:E );D:;F;HX9>?;I;9>;D;<EII;<7JJ7KD7H;:7P?ED;:?L;HI7
;IKBFKDJE?DI?IJT7D9>;?DI;=K?JE
?/?I9EUH?<;H?JEKD;F?IE:?E7II7?9EBEH?JE )7H;9>;;I9B7C7II;?D:?=D7
JEc'ED7L7BB;H;CEB;97IJHED;H?;:?GK7B9>;=?EL7D;79K?788?7CE7LKJE?B
JEHJE:?:7H;B7B7KH;7KDEE:K;7DD?<7d >?7C7JE?D:?IF7HJ;:7BC?D?IJHE
9>;BE?D<EHCX:?9EC;B;c97IJHED;H?;d<EII;HEIJ7J;:;JJ7J;:7&KIIEB?D?
CE:;HX?JED?C7DEDB7IEIJ7DP7:;BB7IK7FEI?P?ED;;B7H?KD?ED;I?9ED9BKI;
F;H?BCEC;DJE9EDKDDKBB7:?<7JJE,SURIHVVRULSRL¿UPDURQRGRSRTXDOFKH
JLRUQRVHQ]DFKHIRVVHURVWDWHDSSRUWDWHPRGL¿FKH
'T);D:;DT/?I9E;H7DE7DJ?<7I9?IJ? B9EDJH7H?E ';B<7I9?ICE);D:;7L;L7
L?IJE?BCEL?C;DJEFEB?J?9E7LL;HIE7BB;KJEF?;;=K7B?J7H?;9>;7BK?;D:E9H?
DEBE=EF7H;L7DE?DIEIJ;D?8?B?;BEIJHKC;DJE7:7JJEF;H?D:?H?PP7H;B;97H7JJ;
ULVWLFKHSVLFR¿VLFKHGHJOLLQGLYLGXLVHFRQGROHULVXOWDQ]HGHOODELRORJLD9LVFR
GDO¶IXDFDSRGHOO¶8I¿FLRVWXGLVXOSUREOHPDGHOODUD]]DGHOPLQLVWHURGHOOD
KBJKH7FEFEB7H;&?D9KBFEFKDE:;?CEJEH?:;BB7F;HI;9KP?ED;7DJ?I;C?J7
#BBEHE:?II;DIEH?C7D:7L77GK;IJ?ED?:?cI9KEB7d7:EH=E=B?E:?cI9?;DP7d
7XWWDYLD DQFKH TXHVWD YLFHQGD PLQRUH GL UHVLVWHQ]H µVFLHQWL¿FKH¶ LQGLFD XQD
9;HJ79ED<KI?ED;D;BBk7LL?E:;BB797CF7=D7 #DEBJH;7JJH?8K;D:EBk?D?P?7J?L77
:;?FHE<;IIEH?EBJH;7JH7IC;JJ;H;Bk?:;79>;;II79EHH?IFED:;II;7BB?L;BBEH7=
=?KDJE:7BB;9EDEI9;DP;E8?;JJ?L;I?;I9BK:;L7J;CFEH7D;7C;DJ;?BF7HJ?JE:7BB7
:?I9KII?ED;;I?;L?J7L7:?H7<<EHP7HD;KD79EHH;DJ;JKJJEH7F;H?<;H?97
! EJJ7?6.?6< 79KH7:?! !K;HH?&?B7DE
F
/¶HSLVRGLRqULIHULWRDOO¶LQWHUQRGHOO¶XWLOHULHYRFD]LRQHGLXQRGHL¿UPDWDULGHO .;632@A<
& +?99?(;.A2@A6:<;6.;G.@B992<?646;6129?.GG6@:<3.@06@A.?D&A<?6.0<;A2:=<?.;2.
FF
Aldo Mazzacane
27
L’antisemitismo infatti non era presente nel programma del Pnf, tanto che
numerosi ebrei vi avevano aderito. E nonostante le voci concitate di alcuni letterati, scienziati ed esponenti del partito; nonostante fosse usato talvolta come
argomento nelle lotte interne, era rimasto di fatto marginale nei suoi equilibri.
D’altro canto la razza non era tra i miti fondativi del fascismo (a differenza del
nazismo). Nato dalle ferite lasciate aperte dalla guerra e dalla crisi di una classe
dirigente liberale incapace di fronteggiare la crescente conlittualità sociale e
il successo dei nuovi partiti di massa, che non trovavano una rappresentanza
istituzionale adeguata e premevano dal di fuori e spesso contro lo Stato, esso
traeva il suo fondamento ideologico originario dal mito della nazione temprata
nel ferro e nel fuoco delle trincee, che chiedeva ragione all’imbelle parlamentarismo per la «vittoria tradita». Anziché nelle razze, individuava perciò i nemici
esterni nelle potenze che si opponevano al legittimo espansionismo italiano,
e quelli interni nei «sovversivi», le sinistre anti-patriottiche, gli intellettuali
antifascisti, la borghesia egoista e individualista, i nostalgici del quieto vivere
della «Italietta» liberale.
Alla mistica dello Stato-nazione si univa la stretta correlazione tra propaganda, organizzazione del consenso e repressione, la teoria e la pratica della
violenza, la militarizzazione della politica e la rigida gerarchia nelle istituzioni,
l’antagonismo aggressivo nei confronti dell’avversario, da annientare con ogni
mezzo. Tutti questi elementi si dispiegarono largamente nella svolta antisemita
impressa dal dittatore nel 1938, alla quale partito e apparati di Stato dettero
corso con rapidità ed eficacia sin dalla ine di luglio.
Il 25 il segretario Achille Starace ricevette i irmatari del Manifesto, emanando un comunicato che uficializzava la decisione. Il 30 a Forlì, davanti ad
una assemblea di quadri, e replicando neppure troppo velatamente alle critiche formulate da Pio XI il 28 durante un’udienza a dei pellegrini e riprese da
«L’Osservatore romano», Mussolini dichiarò con forza che sulla «questione
della razza» intendeva «tirare diritto». Ancora più pesantemente insistette nel
replicare ai «cattolici» in due discorsi, in settembre e in ottobre.
Vedremo più avanti come si sviluppò la campagna nell’estate del 1938,
approdata ai provvedimenti legislativi dell’autunno e dell’anno successivo. Si
affaccia frattanto un quesito. Come spiegare la decisione del duce, assunta in
assenza di un movimento politico antisemita nella società e di forti pressioni
dal lato del partito?
In Italia la presenza israelita non generava acute frizioni sociali. Toccata
molto limitatamente dall’onda dell’emigrazione centro-orientale europea, a
metà degli anni ’30 consisteva in circa 45.000 soggetti – il censimento apposito,
effettuato il 22 agosto 1938, li contò meticolosamente7 – e la stessa esiguità
Per le considerazioni statistiche e sociologiche qui sintetizzate, vedi i dati veriicati ed
elaborati da Sarfatti, Gli ebrei, cit., pp. 29-53.
7
28
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
numerica (poco più dell’un per mille della popolazione italiana) favoriva
l’integrazione e l’assimilazione. Tenuti lontano per antiche interdizioni da
molte attività, con un’istruzione in genere superiore alla media italiana, che li
orientava in buon numero verso professioni qualiicate e verso lavori di tipo
nuovo introdotti dalla modernizzazione, si erano concentrati progressivamente
nelle città medie e grandi. L’inurbamento riguardava anche le fasce più povere,
dedite in genere al commercio minuto, di oggetti usati, ambulante.
Risiedevano perciò prevalentemente nei centri maggiori dell’Italia centrosettentrionale, dove esistevano anche istituzioni religiose comunitarie (dette
università). Sebbene si fosse veriicato un calo consistente della religiosità e
dell’osservanza dei riti e del culto (il fenomeno si era accentuato dalla ine
dell’ottocento e preoccupava i rabbini), persisteva presso molti di loro il
senso delle proprie tradizioni, un modo d’essere peculiare nel costume civile
e morale. Come si vedrà di qui a poco, fu proprio l’esigenza di recuperare il
sentimento religioso quale elemento essenziale dell’identità ebraica, che si era
appannato, creando allarme nei dirigenti delle comunità, a stimolare l’intervento attivo di questi ultimi nell’approntare la legge del 1930.
Con l’arrivo delle armate rivoluzionarie francesi in Italia e le riforme
del periodo napoleonico si era avviato oltre un secolo prima un processo di
emancipazione che prese forza nel solco del ’48 italiano e europeo. Lo Statuto albertino (emanato il 4 marzo 1848 e rimasto in vigore ino al 1944) e la
legislazione sabauda conseguente, estesi alle regioni che vennero a far parte
del regno d’Italia ed inine a Roma nel 1870, sancirono la parità religiosa e
l’uguaglianza di status degli ebrei, riconoscendo loro i diritti civili e politici8.
Il codice penale Zanardelli (1889) pariicò senza distinzioni l’offesa ai culti
(impostazione poi cancellata dal codice penale Rocco nel 1930). Cittadini a
tutti gli effetti nello Stato liberale, alla ine dell’ottocento gli ebrei erano e si
sentivano italiani. Avevano partecipato largamente al movimento risorgimentale e alla costruzione dello Stato unitario. Particolarmente devoti ai Savoia,
militarono numerosi in tutti i gradi dell’esercito e diedero un elevato contributo
di sangue durante la prima guerra mondiale. Nei primi vent’anni del novecento
non pochi di essi raggiunsero cariche elevate nello Stato e nell’amministrazione. Aderirono al fascismo o se ne tennero discosti né più né meno di tutta
la popolazione. All’avvento del regime non vi erano dunque ragioni per dar
vita a una discriminazione di carattere sistematico.
Tuttavia, sebbene non motivata da forti spinte sociali e politiche, l’individuazione dell’ebreo come nemico interno da combattere e da espiantare
dal tessuto della nazione aveva dietro di sé punti di partenza niente affatto
8
Per una analisi tecnica della posizione giuridica degli ebrei nel regno vedi G. Fubini, La
condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Firenze 1974; S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto
dalla prima emancipazione all’età repubblicana, in Gli ebrei in Italia, vol. XI degli Annali
della Storia d’Italia, a cura di C. Vivanti, Torino 1996-97, t. 2, pp. 1765-1827.
Aldo Mazzacane
29
trascurabili. Una storia secolare aveva sedimentato nelle mentalità e nelle
istituzioni il senso di una sua insuperabile estraneità alla respublica christiana, dell’ambiguità inquietante della sua presenza, e la conseguente dificoltà,
diffusa in molti ceti, di riconoscergli senza riserve una piena parità nei diritti
di cittadinanza. Elementi di tensione derivavano anche dall’interno dell’ebraismo stesso. Ai processi di integrazione veriicatisi nel Risorgimento si era
accompagnata talvolta, come per rilesso, una tendenza alla riscoperta e alla
valorizzazione della propria identità, che negli ambienti più intolleranti ingenerava difidenza. La comparsa del sionismo nel novecento, politicamente poco
rilevante in Italia, ma inluente sul piano culturale, non cancellò il patriottismo
prevalente, ma favorì la tendenza a sciogliere il nazionalismo in una visione
più solidale con l’ebraismo mondiale: argomento usato nei circuiti antisemiti
per insinuare sospetti e addebiti di slealtà nei confronti della patria italiana.
Alle divisioni prodotte dal modo di interpretare i propri sentimenti di italianità
e di appartenenza all’intera diaspora, la propria doppia nazionalità, italiana
ed ebraica, all’avvento del regime si aggiunsero le divisioni determinate dai
diversi atteggiamenti nei confronti del fascismo, che andavano dall’adesione
espressa, e talvolta militante, al prudente attendismo, all’indifferenza, all’antifascismo perseguitato dalle autorità insieme con quello di tutti gli oppositori.
D’altra parte, anche nell’Italia liberale il pregiudizio antiebraico non era
stato assente. Benché ogni italiano amasse il celebre «Va’ pensiero» del Nabucco, una delle arie più belle di tutta l’opera lirica, in cui un coro di ebrei
vagheggia la perduta terra di Sion, tracce di ostilità serpeggiavano nei più vari
ceti. Gli episodi di aggressività e di violenza esplicita furono rari e isolati, ma
l’antigiudaismo cattolico, di lunga data, era diffuso e si manifestava con la
ripetizione degli stereotipi più corrivi da parte della stampa minore, dei giornali
umoristici, dei disegni e delle barzellette. Negli ambienti colti, l’entusiasmo
per le scienze demo-antropologiche, per i nuovi saperi positivistici medicobiologici, accreditava l’idea di caratteri innati, ereditari e immutabili delle
«stirpi» e suggeriva le più varie proposte della iorente eugenetica nazionale.
Sul inire del secolo si aggiunsero talune prese di posizione da parte della
Chiesa9, per esempio con alcuni violenti articoli di un organo autorevole quale
«Civiltà cattolica», che in certo modo lasciavano già intravedere il passaggio
da un antigiudaismo teologico e religioso ad un antisemitismo politico. Nel
quadro della rottura con lo Stato unitario, essi bollavano con veemenza le
«eresie della modernità», la cui regia politica era addebitata all’azione occulta
di una internazionale giudaico-massonico-inanziaria.
La leggenda di una «congiura» internazionale israelitica per il dominio
del mondo ebbe un certo successo durante la prima guerra mondiale, favorita
9
La complessa questione è stata studiata in numerosi, importanti contributi di Giovanni
Miccoli, del quale v. almeno Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Gli ebrei in Italia, cit., pp. 1369-1574.
30
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
dal vittimismo che sempre connota gli impulsi razzistici. Fu un’arma impugnata dal movimento nazionalista (cui peraltro aderirono non pochi ebrei),
che tendeva a caratterizzarsi in termini antisemiti. Lo si era visto già durante
il conlitto italo-turco (1911-1912), quando parte della stampa accusò il sionismo italiano di avversare la guerra ed attribuì ad ambienti inanziari ebraici
– la «congiura» – l’ostilità internazionale alle conquiste coloniali italiane.
La leggenda fu ampliicata dalla propaganda con la guerra d’Etiopia (1935’36) e le sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni: al ‘sano’
colonialismo di popolamento, dettato dalla demograia di un’Italia operosa,
proletaria e contadina, si opponeva il colonialismo rapace delle «plutocrazie»
liberal-democratiche, guidate da lobbies ebraiche. Senza far troppo caso alla
contraddizione, nello stesso periodo la propaganda insisteva nell’additare
l’ebraismo come «anima» del bolscevismo.
Per quanto riguarda Mussolini, la cui responsabilità personale nella persecuzione è fuori dubbio, la sua biograia politica presenta sul tema aspetti confusi
e contraddittori. Fin dagli anni della giovanile militanza socialista, non aveva
mancato di inserire nella sua retorica propagandistica, antiborghese e anticapitalistica, punte accese del pregiudizio antigiudaico10. Ciò non gli impedì tuttavia di giovarsi di collaborazioni e legami con ebrei ed ebree. Giunto al potere,
alternò toni cauti ad avvertimenti minacciosi, rassicurazioni e intimidazioni.
Con un pragmatismo incurante d’ogni principio di non contraddizione, evitò
di esprimere un pensiero organico. Ad un linguaggio spesso razzista, afiancò
prese di distanza esplicite dall’antisemitismo. Nella nota intervista del 1932
al giornalista Emil Ludwig, si spinse ino a dichiarare: «L’antisemitismo non
esiste in Italia. […] Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come
cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle Università, nell’esercito, nelle banche». Ed aggiunse anche:
«Razza: questo è un sentimento, non una realtà», impossibile da «provare
biologicamente». A suo avviso il razzismo era «una stupidaggine», poco meno
che frutto di «deliri»: «una cosa simile da noi non succederà mai»11.
L’orientamento oscillante del duce si rispecchiò nel suo giornale «Il Popolo
d’Italia», sul quale nel ’34 apparvero alcuni articoli, da lui scritti o dettati, di
critica al razzismo nazista, in cui per esempio si legge: «Ma quale razza? Esiste
una razza germanica? È mai esistita? Esisterà mai? Realtà, mito o fumisteria
dei teorici?»12.
In realtà, sino alla metà degli anni ’30 Mussolini non ebbe una linea, né una
concezione propria riguardanti la minoranza israelitica. Anche nei confronti
di essa seguì i criteri che guidavano tutto il suo agire politico, modulato sulle
10
G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Milano 2005.
11
E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, pp. 75-76.
12
Cit. in G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007, p. 19 nt.
Aldo Mazzacane
31
contingenze, secondo un tatticismo esasperato, rivolto ad affermare e preservare il potere personale sopra gruppi, interessi e fazioni rissose che componevano la società italiana e il suo stesso partito. Michele Sarfatti ha riassunto in
una sintesi tanto concisa quanto eficace i principali, contraddittori e ambigui
indirizzi seguiti dal duce nei primi quindici anni del suo governo:
condannava l’adesione al sionismo di ebrei italiani, ma non il sionismo come
movimento nazionale; utilizzava quest’ultimo nel confronto con la Gran Bretagna, ma
era contrario a uno Stato ebraico in Palestina; rallentava l’aflusso di ebrei est-europei
nella penisola, ma riconosceva il ruolo ‘nazionale’ delle élites ebraico-italiane nelle
principali città del Mediterraneo; sollecitava gli ebrei italiani a nazionalizzarsi e a
fascistizzarsi sempre più […], ma rendeva sempre più cattolica la nazione13.
In ogni caso, non lesinava gli ‘avvertimenti’, con la conseguenza di alimentare i sospetti nella opinione pubblica circa «comportamenti» sleali degli
israeliti, favoriva gli attacchi di stampa e taceva sugli episodi di intolleranza,
legittimava le correnti antisemite del partito e dava corso, più o meno aperto o
sommerso, ad un graduale allontanamento degli ebrei dalle posizioni istituzionali di rilievo, adottando in sostanza la logica di «separare» progressivamente
dagli altri una parte dei cittadini italiani.
2. La politica religiosa del fascismo e gli ebrei
Nel quadro – di necessità sintetico – che mi sembra opportuno tracciare
per comprendere meglio gli slittamenti, e poi le discontinuità, nella condizione degli ebrei nel corso degli anni ’30, un cenno deve essere dedicato alla
politica religiosa del fascismo, così come si articolò nei termini del diritto.
L’argomento è stato affrontato da un’ampia letteratura storica e da una ancora
più vasta letteratura giuridica. Mi limiterò pertanto a pochi punti essenziali.
Che il fascismo al potere avrebbe preso la strada della discriminazione
dei culti lo si poteva intuire già dal discorso alla Camera con cui Mussolini
presentò il suo primo governo nel novembre 1922. Nell’alveo dello Statuto,
ma con un forzatura interpretativa dello Statuto stesso e della legislazione
sabauda vigente, egli dichiarò: «tutte le fedi religiose saranno rispettate». Ma
aggiunse: «con particolare riguardo» al cattolicesimo, religione «dominante»
dello Stato. L’intento di accattivarsi la Santa Sede e di guadagnarsi il consenso popolare cattolico era evidente e fu colto in tutti gli ambienti, cattolici e
non. Le conseguenze di tale orientamento si avvertirono subito, a cominciare
13
M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino
2005, pp. 74-75.
32
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
dall’ambito scolastico. In dicembre il ministro della Pubblica istruzione, Giovanni Gentile, annunciò che il suo programma (poi tradotto nella riforma della
scuola del 1923) prevedeva di fare dell’insegnamento della religione cattolica
«il principale fondamento del sistema di educazione pubblica e di tutta la
restaurazione morale dello spirito italiano». Nel novembre successivo stabilì
perentoriamente con una ordinanza: poiché la religione cattolica informava del
suo spirito la civiltà italiana e tutte le discipline impartite nelle scuole, le ore di
lezione dedicate ad essa dovevano costituire «come il punto di concentrazione
di tutti gli elementi di cultura sparsi nei vari insegnamenti»14.
Negli anni successivi si susseguirono i provvedimenti legislativi e le disposizioni amministrative che limitavano l’esercizio dei «culti ammessi» e
rendevano concreto il «particolare riguardo» nei confronti della religione cattolica. Senza entrare qui nei dettagli, ampiamente illustrati dagli studi esistenti,
ritengo si possa ripetere il giudizio espresso sinteticamente mezzo secolo fa
da un ecclesiasticista autorevole, Pietro Agostino D’Avack:
Salito poi al governo il fascismo, il preesistente ediicio della politica e legislazione ecclesiastica italiana si andò sempre più rapidamente e profondamente
sgretolando, minato alle sue stesse basi dai mutati indirizzi e principi confessionisti
e collaborazionisti assunti dal nuovo governo, perfettamente antitetici a quelli che
l’avevano ino ad allora retto e che ne costituivano le fondamenta ideologiche. […]
Si venne sempre più rinunciando a quell’identità di posizione, che [lo Stato] si era
fatto un vanto di mantenere di fronte a ogni credenza e confessione, per riconoscere
invece la religione quale un importante coeficiente nella formazione morale dei
cittadini e per tornare insieme a rivalorizzare il cattolicesimo come fede e dottrina
interamente connessa a tutta la storia, la formazione e la civiltà del popolo italiano,
e soprattutto quale “religione dominante dello Stato”15.
Con questa identiicazione di religione maggioritaria e nazione (elevata da
Gentile – si è visto – a concetto storico-ilosoico) si metteva in pratica, in un
ambito speciico, una singolare interpretazione del principio di maggioranza,
che fu martellante durante il Ventennio in tutti i campi, per la quale i diritti
delle minoranze possono essere compressi o ignorati, toccando ad esse semplicemente di «sottostare». Una interpretazione che di tanto in tanto, da varie
parti v’è la tentazione di rinverdire.
Come è risaputo, i Patti lateranensi, irmati l’11 febbraio 1929 e comprensivi di due atti distinti, stipulati tra la Santa Sede e lo Stato italiano, il
Trattato ed il Concordato, chiusero deinitivamente il lungo conlitto della
cosiddetta «Questione romana» e stabilirono il regime giuridico privilegiato
14
Entrambe le citazioni in Sarfatti, Gli ebrei, cit., p. 58.
P.A. D’Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano (prima rist. riveduta e ampliata),vol.
I, Milano 1969, p. 120.
15
Aldo Mazzacane
33
della religione e della Chiesa cattolica in Italia. Furono rovesciati i principi
della legislazione aconfessionista esistente ino a quel momento e fu introdotta
in suo luogo una legislazione di favore per il cattolicesimo rispetto alle altre
confessioni religiose. Derubricate al rango di culti «ammessi», queste furono
sottoposte a controlli, limitazioni e divieti. Nei fatti, risultarono solo ‘tattiche’ le
rassicurazioni e le garanzie di tutela date solennemente dallo stesso Mussolini
all’indomani della irma dei Patti in un discorso tenuto a Roma il 10 marzo
1929 e ripetute pochi giorni dopo annunciando l’imminente emanazione di una
disciplina apposita (avvenuta in giugno). Abbandonato il principio di laicità
dello Stato, essa riservò ai suoi organi di regolare sia le forme associative,
sia le modalità della pratica religiosa di tali culti, tornando a un’impostazione
rigidamente giurisdizionalista nei loro confronti, nettamente diversa dal regime
concordatario adottato nei confronti della Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda le comunità israelitiche, la loro esistenza organizzata
e la loro sfera di azione furono issate dal r.d. 1731 del 30 ottobre 1930 (integrato dal r.d. 1561 del 19 novembre 1931) che regolò sia i rapporti con lo
Stato, sia la loro composizione interna. Col senno di poi, può apparire singolare
che gli stessi organismi dirigenti dell’ebraismo italiano avessero sollecitato e
contribuito in misura consistente all’elaborazione di una normativa approdata
di fatto a cancellare la libertà di associazione, l’autonomia degli ordinamenti
interni delle «università» e a sottoporle ad un rigido controllo governativo.
Tuttavia il dato è indubbio e richiede qualche illustrazione, poiché getta luce
sia sul disorientamento, e spesso l’insuficiente attenzione rispetto al pericolo
dell’antisemitismo fascista da parte dell’ebraismo italiano, sia sull’ancora incerta deinizione di una politica del regime nei confronti di quella minoranza,
sia inine sull’orizzonte di cultura giuridica entro il quale tutte le parti in causa
consideravano i problemi da affrontare.
In effetti l’esigenza di riformare in modo incisivo il sistema delle comunità
israelitiche italiane si era posto nel loro seno in modo teso e animato subito
dopo la costituzione, nel 1920, del Consorzio che le riuniva sul piano nazionale come primo passo per dotarle di un unico ente di rappresentanza e per
giungere all’uniicazione giuridica e amministrativa, superando le differenze
di regime risalenti agli Stati preunitari, cui si erano aggiunte quelle dei territori
acquisiti con la dissoluzione dell’impero austro-ungarico (Trieste, Gorizia,
Fiume, Merano e Rovigo).
Gli organismi dirigenti delle Comunità, specie nella loro componente rabbinica, guardavano da tempo con preoccupazione ai processi di assimilazione dei
singoli alla società civile manifestatisi sin dalla ine dell’ottocento tra gli ebrei
italiani. Il distacco dalle pratiche religiose, presso molti di loro ridotte a pochi
elementi essenziali ed alla celebrazione più consuetudinaria che effettivamente
partecipe di alcune ricorrenze, segnalava l’avvento di una laicizzazione che
incrinava fortemente i legami di appartenenza alle collettività e lo stemperarsi
di quei caratteri di tradizioni e cultura, l’indebolimento di quelle strutture isti-
34
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
tuzionali, di cui le Comunità stesse si ritenevano custodi. I matrimoni «misti»
si erano progressivamente moltiplicati: a metà degli anni ’30 erano ormai uno
su tre e i due terzi delle famiglie censite come ebraiche erano formate appunto
da coppie miste, i cui igli per oltre tre quarti dei casi venivano battezzati. Il
contenimento dei fattori di disgregazione appariva dunque come un compito
urgente, compito però reso dificile da molti fattori, compresi i contrasti che
si manifestavano negli sforzi di chiariicazione interna dell’ebraismo.
Un intervento legislativo dello Stato cominciò a sembrare una scorciatoia
idonea a preservare l’identità propria riaffermando al contempo l’appartenenza
alla nazione italiana, la piena, irrinunciabile integrazione nel tessuto sociale e
istituzionale del regno. L’avvento del fascismo al potere, conculcando tutte le
forme di associazione, rese più nebuloso il raggiungimento dell’obiettivo, accentuò le divisioni e indusse a ripensare le strategie da intraprendere. Sui timori
che un provvedimento legislativo potesse sfuggire a qualsiasi tipo di concorso
da parte dei destinatari e ledere i diritti da essi acquisiti, su una certa propensione all’immobilismo, per non sollevare una questione che poteva poi rivelarsi
ingovernabile, prevalse l’idea che un’iniziativa moderata, capace di adeguare il
regime comunitario alle trasformazioni costituzionali in atto, potesse rafforzare
l’ente centrale di rappresentanza, rinsaldando le deboli relazioni che aveva
con le realtà locali, senza necessariamente ‘fascistizzarlo’ (come pure alcuni
volevano). Un patto con lo Stato avrebbe forse potuto giovare avvicinando la
minoranza al regime. Occorreva dunque un atteggiamento ispirato a «sagace
senso di opportunità», sorretto da solidi argomenti giuridici, come sostenne con
convinzione Mario Falco, il quale nel ’27 entrò a far parte della commissione di
studio appositamente istituita dal Consorzio per elaborare un disegno organico
di riforma, dopo che una personale e avventata iniziativa del rabbino capo di
Roma, Angelo Sacerdoti, aveva suscitato allarme e sconcerto tra i consorziati.
Mario Falco fu l’animatore dei lavori della commissione e l’estensore del
progetto inale, che nel ’29 fu sul tavolo della commissione governativa bilaterale istituita in marzo per la predisposizione di una riforma delle comunità
ebraiche, e che riluì nella legge del ’30, modellata negli aspetti fondamentali sul suo schema del ’27, con poche modiiche, sebbene di un certo peso.
Eminente ecclesiasticista, già allievo a Torino di un giurista dalla coscienza
morale e civile cristallina, quale Francesco Rufini, in alcuni interventi e nella
corrispondenza privata Falco non nascose il suo lucido e amaro presentimento
che gli avvenimenti politici avessero preso ormai un corso inarrestabile e che
rimanesse agli ebrei solo di ripiegare su strategie difensive. Proprio Rufini
glielo rimproverò garbatamente nel 1931 quando egli si espresse a sostegno
della soluzione legislativa inine adottata:
il cittadino Rufini, e, si potrebbe aggiungere, l’uomo Rufini non può non vedere
con qualche rammarico questo passo indietro verso stadi giuridico-politici, che riteneva oramai superati […]. Facciamo un piccolo paragone tra me e lei. Io, cattolico,
Aldo Mazzacane
35
potrò trascorrere il resto dei miei giorni senza essere ricercato in nulla e per nulla in
ragione della mia fede, e senza essere obbligato assolutamente a nessuna professione
di fede. […] Lei, israelita, non lo potrà più. […] Questo ordinamento mi sembra
accrescere quella differenza di condizione giuridica, rispetto al principio della libertà
di coscienza, che è stato uno dei sogni più fervidi, e diventa più che mai una delle
più melanconiche disillusioni della mia vita16.
In una lettera successiva lo stesso Rufini diede però atto all’allievo di aver
agito in modo «provvidenziale per evitare forse cose più gravi».
In effetti Falco, come altri intellettuali con lui, aveva chiarissimo lo scenario politico in cui ci si muoveva (nel frattempo erano emerse nella società
italiana varie manifestazioni di antisemitismo). Tuttavia come giurista aveva
a disposizione uno strumentario tecnico al tempo stesso obbligante e limitato
con il quale operare. Aveva infatti individuato acutamente il nodo dal quale
non si poteva prescindere: il sistema ordinamentale dello Stato liberale era
ormai tramontato; occorreva lasciarsi deinitivamente alle spalle il modello
dell’associazionismo volontario e dell’autonomia di stampo privatistico ed
orientarsi decisamente secondo un impianto pubblicistico, congruente con le
torsioni che il diritto pubblico e costituzionale italiano avevano subito.
La relazione della commissione di studio che accompagnava il progetto di
legge nel ’27 tenne a sottolineare la sua coerenza con le «nuove correnti del
diritto pubblico italiano», delle quali – si precisava – «si è tenuto conto sia nel
richiedere la cittadinanza italiana per coprire ufici nelle istituzioni israelitiche,
sia nel richiedere l’approvazione statuale alle elezioni, sia nel sopprimere vasti
corpi deliberativi, sia nel togliere ai membri delle Comunità l’elezione dei Rabbini, sia nell’accrescere dovunque i poteri degli organi esecutivi, diminuendo
quelli degli organi deliberativi»17. Sostanzialmente, sul piano tecnico si era
rinunciato all’inquadramento delle Comunità nell’ambito delle associazioni
di diritto privato, secondo la visione liberale classica, riconducendole invece
nella sfera delle istituzioni di diritto pubblico, derivanti dall’autorità dello
Stato come sue articolazioni.
Senza collegarsi alla giuspubblicistica più organicamente fascista, il progetto (così come la legge seguente) si rifaceva alle dottrine dei due maggiori
studiosi del tempo, di Santi Romano e ancor più del suo maestro Vittorio
Emanuele Orlando, il giurista che aveva fondato la «scuola italiana di diritto
pubblico», che non aderì al fascismo, ma che era ispirato a una concezione
fortemente autoritaria degli ordinamenti dello Stato liberale. Su questo terreno
16
Per le corrispondenze inedite di Falco cui si fa riferimento cfr. S. Dazzetti, Gli ebrei
italiani e il fascismo: la formazione della legge del 1930 sulle comunità israelitiche, in Diritto,
economia e istituzioni, a cura di Mazzacane, cit., pp. 219-54, in partic. pp. 245 nt. e 251-54.
17
Citazioni in A. Calò, La genesi della legge del 1930, in La Rassegna mensile d’Israel,
3 (1985), pp. 353-54.
36
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
di tecnica e di tradizione giuridica Falco e il ministro della Giustizia e dei
Culti, Alfredo Rocco, potettero trovare la consonanza che permise il rapido
varo della normativa, che comunque non conteneva speciici tratti antisemitici.
La discontinuità irruppe invece impetuosa con le «leggi razziali».
La legge del ’30 e la successiva del novembre ’31 stabilirono la personalità giuridica di diritto pubblico delle Comunità, tutte sottoposte al medesimo
regime, e dell’Unione, che sostituiva l’abolito Consorzio, nella quale esse
dovevano federarsi, riconoscendole l’unicità di rappresentanza di fronte al
governo. Ciascuna Comunità aveva capacità impositiva sugli iscritti, dei
quali doveva tenere registro. L’iscrizione dei singoli (identiicati però su basi
religiose e non razziali) era obbligatoria e la sua revoca doveva avvenire mediante un atto formale: non proprio un’abiura – la questione fu discussa – ma
qualcosa che le si avvicinava. L’elezione alle cariche interne e la nomina dei
rabbini dovevano essere convalidate da alcuni organi dello Stato. L’autonomia
normativa era circoscritta al campo regolamentare, con esclusione di quella
statutaria, assorbita dalla legge. L’adempimento dei compiti statutari era comunque sottoposto al controllo da parte governativa, anche in via surrogatoria.
Nella fase transitoria, disciolti i consigli esistenti, l’adeguamento alla nuova
normativa era afidato a commissari governativi.
L’ebraismo italiano acquisiva così un tranquillizzante riconoscimento uficiale e l’obbligatorietà dell’iscrizione permetteva di arginare gli effetti della
secolarizzazione e di dare ossigeno alle magre inanze delle comunità, ma
rinunciava alle sue secolari tradizioni e si sottoponeva ad un ordine autoritario
e ad una tendenziale fascistizzazione.
La legislazione fu accolta dalle élites ebraiche con vivi apprezzamenti, non
sempre di maniera. Si notava con sollievo che le ragioni dell’individuo non
avevano offuscato la necessità di tutelare la stabilità e la dimensione collettiva
dell’ebraismo, per il quale l’individuo stesso non esiste fuori della collettività.
Qualche illuminato giurista cattolico sollevò obiezioni sul tema del rispetto
della libertà di coscienza dei cittadini (oltre a Rufini, Jemolo, Magni, in parte
Giacchi). Del resto, durante l’iter formativo della legge persino il guardasigilli
Alfredo Rocco aveva espresso perplessità in proposito. Con dolorosa lungimiranza, da parte israelita Piero Sraffa e Lodovico Mortara avvertirono non
a torto il pericolo di una sorta di autoghettizzazione dell’ebraismo italiano.
3. Il periodo di preparazione
In effetti, il rasserenamento che ci si attendeva non ebbe luogo. All’interno
dell’Unione si aprirono subito forti contrasti per assumerne il controllo fra la
corrente di ebrei fascisti, il rabbinato e l’ala più laica. Nel ’33 l’ascesa al potere del nazismo in Germania rese assai fosco il panorama europeo. In Italia la
condizione degli ebrei peggiorò in modo progressivo e incalzante. Si inittirono
Aldo Mazzacane
37
gli attacchi di stampa e gli episodi di intolleranza. Dal ’34 almeno, con sottili
escamotages di carattere amministrativo, li si escluse da tutte le posizioni dotate
di visibilità pubblica (a cominciare dalle cariche municipali e provinciali) e si
ostacolò la loro possibilità di accedervi. Del resto nello stesso periodo Mussolini
prese – è vero – varie volte le distanze dalle modalità con cui Hitler conduceva
la campagna antiebraica, ma non la condannò affatto e si limitò a consigliare al
Führer in via riservata, per esempio nel ’33, come più eficace una strategia meno
rumorosa, capace di evitare l’allarme dell’opinione pubblica internazionale18.
In breve: stimolata e incoraggiata dal regime, sostenuta in sede locale dalle
prefetture e dagli organi di polizia, si diffondeva nella società l’avversione
nei confronti degli ebrei, accusati ormai con frequenza di essere antifascisti e
antitaliani. Dal ’35 al ’38 l’ostilità venne montando sempre più. Nel ’36, con
la conquista dell’Impero e nel solco di quella vera e propria ‘ossessione’ per
la demograia, che in dal noto discorso dell’Ascensione (26 maggio 1927)
aveva connotato gli indirizzi del dittatore, – per il quale una popolazione sana e
proliica costituiva la principale garanzia di potenza dello Stato-nazione, poiché
«decadenza» e denatalità erano conseguenza l’una dell’altra, – assunsero un
peso crescente le disposizioni giustiicate con l’esigenza di una «difesa della
razza» italiana da commistioni che ne corrompessero la vitalità e la purezza.
Del resto, già nel codice penale Rocco del 1930 tale indirizzo si era manifestato con la previsione di «delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe».
Nel corso del ’37 l’offensiva propagandistica assunse una particolare durezza,
alimentata dai toni veementi della pubblicistica corrente e dalla produzione
di scritti con pretese scientiiche e ilosoiche. Prese avvio una campagna di
stampa battente per preparare l’opinione pubblica a misure discriminatorie.
Per ‘uso esterno’, allo scopo da un lato di rassicurare le potenze occidentali, specie gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dall’altro di presentarsi in
veste di mediatore tra liberal-democrazie e nazismo, acquistando peso sul
piano diplomatico, nelle occasioni pubbliche che avessero, o potessero avere
un’eco internazionale Mussolini negava l’esistenza di una politica antisemita
del fascismo italiano. Ma sul piano interno lo smantellamento della parità
degli israeliti in Italia procedeva impetuoso in tutti i settori, sotto la regia
del ministero degli Interni e della segreteria particolare del duce. Allontanati
dagli incarichi di rilievo, dalle amministrazioni, dagli ufici pubblici e privati,
emarginati e ostacolati nelle carriere, essi subirono una ininterrotta e ben presto
neppure strisciante politica di «separazione» e di negazione dei loro diritti di
cittadini, che dalla ine del ’36 cominciò a investire capillarmente i singoli
individui e che raggiunse il suo culmine fra il ’37 e il ’38, per sfociare poi nelle
«leggi razziali». Prima ancora della loro emanazione, vari ministeri disposero
18
G. Fabre, Mussolini e gli ebrei alla salita al potere di Hitler, in La Rassegna mensile
d’Israel, 69 (2003), pp. 187-222.
38
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
un censimento degli impiegati ebrei. Con provvedimenti amministrativi e
circolari interne, che avevano scarsa pubblicità, con motivazioni spesso false
o pretestuose, si procedette man mano alla loro espulsione.
Alla luce degli elementi qui sommariamente riassunti, e indipendentemente
dagli sforzi insistenti, impiegati dopo la «svolta» segnata dal Manifesto per
accreditare retrospettivamente la tesi di una coerenza originaria e di una continuità nella politica antisemita del fascismo (peraltro non troppo convincenti),
è dificile considerare la svolta stessa come del tutto imprevista e improvvisa,
anche se indubbiamente essa rappresentò un forte ‘salto di qualità’ e se aspetti
iniziali di incertezza e di improvvisazione vi furono. Un nodo interpretativo
comunque rimane. Come spiegare il passaggio ad un’azione uficiale di persecuzione, ad una drastica persecuzione di Stato, strutturata su un’impalcatura
giuridica non troppo agevole da sostenere sulla base dell’ordinamento vigente?
Il nodo non è stato del tutto sciolto dalla storiograia e le risposte all’interrogativo non paiono sempre concordi.
A mio avviso le ragioni del ‘cambio di marcia’ vanno ricercate in un intreccio
di esigenze di politica internazionale e di politica interna avvertite dal duce. Dal
suo punto di vista non si poteva trascurare l’irrompere prepotente della Germania hitleriana nello scenario degli equilibri europei. Nel settembre del ’35 essa
aveva varato le cosiddette Leggi di Norimberga (integrate a breve da quelle di
attuazione) che sancivano una politica di totale discriminazione degli ebrei.
L’esempio si estese a macchia d’olio in altri paesi: nel ’38 altri lo avevano già
seguito, o si apprestavano a giorni a seguirlo. Mussolini teneva particolarmente
a ribadire in ogni occasione la primogenitura del fascismo italiano rispetto ai
movimenti e ai regimi fascisti affermatisi dappertutto in Europa. Non intendeva ‘restare indietro’ sul tema dell’antisemitismo di Stato, che li accomunava,
lasciando a Hitler la leadership che egli stesso pretendeva di avere sul fascismo
internazionale. È signiicativo il fatto che si preoccupò subito e ripetutamente
di smentire e di far smentire l’opinione diffusa in Italia e all’estero secondo la
quale l’azione persecutoria era stata intrapresa imitando dottrine e politiche del
nazismo, di promuovere campagne insistenti sulla perfetta autonomia del razzismo italiano, che si diceva maturato senza inluenze straniere, di ‘inventare una
tradizione’ risalente alle origini del fascismo, di valorizzare i contributi autonomi
della scienza nazionale – nella quale frattanto si svolgeva un’aspra lotta tra le
varie correnti per imporre la propria egemonia sugli orientamenti del regime.
Ricerche molto accurate hanno accertato che non vi furono pressioni tedesche sul governo italiano19; esse ammettono però che l’avvicinamento alla
Germania ed il quadro internazionale inluirono sulla decisione del duce. È
di per sé eloquente il fatto che essa fosse comunemente interpretata come
19
M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica
razziale in Italia (ediz. inglese 1978), trad. it. Milano 1982.
Aldo Mazzacane
39
una concessione all’alleato. E del resto l’impresa d’Etiopia, isolando l’Italia,
aveva costretto il duce a rinunciare a qualsiasi velleità di ‘mediare’. Era ormai lontano il 1934, quando faceva apparire sul «Popolo d’Italia» articoli di
critica all’antisemitismo nazista e quando, schierando le truppe italiane sul
Brennero dopo l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss per impedire
a Hitler l’annessione dell’Austria, poté presentarsi come arbitro sulla scena
internazionale. L’isolamento rese l’alleanza con la Germania pressoché obbligata ed era stata infatti conclusa nell’ottobre del ’36 con il patto cosiddetto
dell’Asse Roma-Berlino, dal quale l’ala ilo-germanica ed antisemita del Pnf
uscì rafforzata. Inoltre nel 1938 i venti di guerra già sofiavano sull’Europa.
Tutto lasciava prevedere, e la prima fase del conlitto scoppiato l’anno dopo
sembrò confermare le previsioni, che la Germania nazista ne sarebbe uscita
vittoriosa. È ragionevole credere che Mussolini calcolasse di non presentarsi
al tavolo delle future trattative di pace in una posizione distinta dall’alleato
su una questione che esso considerava cruciale.
Con le motivazioni di politica internazionale si intrecciavano quelle di
politica interna. Dopo quindici anni di governo, il regime mostrava una
certa stanchezza. Lo avevano in parte logorato le lotte intestine tra i ras e
tra i dirigenti del partito, qualche volta tra partito ed organi dello Stato. La
situazione delle inanze pubbliche non era lorida. Dopo l’apice del consenso,
raggiunto con la costituzione dell’Impero, il coinvolgimento nella guerra di
Spagna lasciava serpeggiare qualche disaffezione. Il lancio della campagna
antisemita esercitò la sua eficacia in molte direzioni: ridiede forza all’idea del
fascismo come movimento rivoluzionario, contrastando l’«imborghesimento»
di troppi suoi vecchi adepti, rianimò tutti i temi della polemica antiborghese
e anticapitalistica, cari all’ala radicale, tese ad irrobustire, con la xenofobia,
il senso della disciplinata unità di una nazione potente e omogenea e favorì
l’idea che occorresse difenderne la compagine dalle «congiure», inine chiamò
tutti alla mobilitazione permanente drammatizzando il momento della lotta
contro nemici interni ed esterni, forse già in vista della guerra, ma soprattutto
per rilanciare il progetto totalitario della creazione dell’«uomo nuovo», di una
mutazione antropologica che doveva issare irreversibilmente i caratteri della
nuova civiltà e della nuova identità nazionale20.
4. Estate-autunno 1938
È tempo di ritornare al punto da cui eravamo partiti: l’estate 1938. Immediatamente dopo la dichiarazione della «svolta», alla ine di luglio partito,
20
Sul tema, sono fondamentali i numerosi, importanti studi di Emilio Gentile, che ogni
lettore conosce.
40
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
apparati e stampa furono mobilitati per una grande campagna sulla «emergenza» antisemita. La cronaca degli eventi dalla metà del mese a novembre
è impressionante, per l’incalzare di iniziative a brevissima distanza fra loro.
Nella prima parte dell’anno, l’«arianizzazione» nei più vari campi già aveva
subito un vistoso inasprimento. Con la pubblicazione del Manifesto prese un
carattere deinitivo e uficiale. Ad appena due giorni dalla sua apparizione,
confermando il legame tra politica demograica e politica razziale, fu annunciata la trasformazione dell’Uficio centrale demograico presso il ministero
dell’Interno in Direzione generale per la demograia e la razza (Demorazza),
poi organizzata e formalizzata il 5 settembre e afiancata da un Consiglio superiore. Nella spirale della discriminazione, che crebbe impetuosa sul piano
politico e amministrativo, la fondazione di una rivista apposita (annunciata
il 22 luglio) ebbe un ruolo rilevante nell’azione di propaganda e nel issare
schemi retorici di riferimento, e pertanto merita qualche cenno.
Il 5 agosto – lo stesso giorno in cui l’«Informazione diplomatica» pubblicava una nota del duce dai toni molto duri, accompagnata dalla singolare
affermazione che «discriminare non vuol dire perseguitare», divenuta poi uno
slogan della propaganda – comparve in edicola il primo numero del quindicinale «La Difesa della razza», recante in apertura il testo del Manifesto21. Il
periodico era destinato a rappresentare ino a tutto giugno 1943 il megafono
del razzismo e dell’antisemitismo italiano, e già l’8 il ministero della Cultura
popolare invitò i quotidiani a riprenderne e a metterne in risalto gli articoli
di maggiore impegno. Il ministro dell’Educazione nazionale Bottai impartì
istruzioni a tutte le strutture dipendenti dal suo ministero – ispettorati, scuole,
università, biblioteche, ecc. – perché ne fosse promossa in ogni modo la lettura.
Direttore della rivista fu Telesio Interlandi, giornalista di sicuro talento
anche per quanto riguarda l’importanza che attribuiva alle immagini, scelto
personalmente dal duce in modo perfettamente funzionale ai propri intenti. Di
lui del resto si era servito come portavoce semi-uficioso in dal 1924, quando
nel pieno della crisi seguita al delitto Matteotti gli aveva afidato il nuovo
quotidiano romano «Il Tevere», dal quale lasciava trapelare spesso notizie sulle
sue prossime mosse, per saggiare in anticipo le reazioni dell’opinione pubblica.
Interlandi non era un antisemita dell’ultima ora. Il suo atteggiamento era
fondato su poche idee tanto sommarie, quanto fermissime22. A suo avviso il
fascismo doveva lottare senza indulgenze di alcun tipo contro il pericolo più
insidioso che si trovava di fronte: il corrompersi della società per la diffusione
di un morbo che contaminava la politica, la cultura, l’economia, il costume. Il virus non era soltanto l’ebreo presente nelle città italiane, era l’ebreo
21
La rivista, spesso sparsamente citata, è ora oggetto dell’analisi dettagliata di F. Cassata,
“La Difesa della razza”. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino 2008.
22
Le sue idee sono esposte nel volume che ebbe grande successo, T. Interlandi, Contra
judaeos, Milano-Roma 1938.
Aldo Mazzacane
41
«invisibile», ossia quella consorteria nascosta che perseguiva e otteneva la
«ebraizzazione» dell’«ariano», trasformandone la mentalità e il carattere,
inquinando irrimediabilmente il «genio italiano». Per sostenere simili idee
Interlandi aveva intrapreso da tempo una battaglia culturale che la rivista gli
permise di estendere e di potenziare.
Essa divenne un medium a diffusione più larga che non gli scritti dei
Preziosi, degli Evola, degli Orano, dei Cipriani e di altri, nel quale si confrontarono le teorie «biologiche» del razzismo (le differenze erano insite in
diversità naturali ed ereditarie, immodiicabili e riscontrabili nei tratti somatici) e quelle «spiritualiste» (le differenze erano generate prevalentemente da
elementi storici, religiosi e culturali, o anche da tradizioni e contesti geograici
ed ambientali, o inine da forze metaisiche che agiscono nel profondo delle
«razze»)23. Ebbe un indirizzo talvolta sincretistico tra biologismo e spiritualismo, ma il dominio che vi esercitò in materia Lidio Cipriani diede larga
preferenza al primo. Da altre tribune le chiavi storicistiche ed eticistiche dei
Bottai e dei Gentile, non meno determinati nel loro antisemitismo, rendevano
più accettabile il razzismo per la tradizione umanistica della cultura italiana,
senza inluire pericolosamente sui criteri biologici adottati nella legislazione
e nell’amministrazione. Sul piano culturale la campagna antisemita partiva
dunque in modo tutt’altro che sprovveduto.
I provvedimenti concreti del governo si susseguirono con rapidità24. Riassumo in breve le tappe principali della normativa che formalizzò la persecuzione,
ma non bisogna dimenticare che anche gli atti di portata più settoriale, sui quali
non mi soffermo, devastavano il vivere quotidiano dei cittadini italiani ebrei.
Fu innanzitutto avviata l’11 agosto la procedura per uno speciico censimento, effettuato il 22 in base a criteri razziali e non religiosi, degli israeliti
presenti in Italia. In realtà non ve n’era bisogno: un censimento di tutta la
popolazione era stato compiuto nel 1931, era afidabile, e nel ’34, su richiesta del duce, l’Istat ne aveva estratto i dati riguardanti gli ebrei. Ma l’intento
intimidatorio della ricognizione, come premessa alla discriminazione generalizzata, non sfuggì a nessuno. Qualche giorno prima era nato presso il Minculpop un altro organo della repressione, l’Uficio studi del problema della
razza. Il 1° e il 2 settembre il Consiglio dei ministri approvò i primi drastici
provvedimenti legislativi. Gli ebrei stranieri furono espulsi da tutti i territori
del regno e furono privati della cittadinanza coloro che la avessero acquisita
dopo il 1° gennaio 1919 (r.d. 7 sett. 1938, n. 1381). Fu duramente colpito il
23
Sulle varie teorie razzistiche del fascismo cfr. da ultimo A. Gillette, Racial Theories in
Fascist Italy, London-New York 2002.
24
I principali atti normativi della persecuzione fascista sono stati più volte riassunti e illustrati da un’ampia letteratura. Sono riprodotti a cura di M. Sarfatti, Documenti della legislazione
antiebraica. I testi delle leggi, e Id., Le circolari, nel numero speciale de La rassegna mensile di
Israel, 54, n. 1-2 (gennaio-agosto 1988): 1938. Le leggi contro gli ebrei, pp. 49-167 e 169-98.
42
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
settore dell’istruzione. Il ministro dell’Educazione nazionale Bottai si mostrò
particolarmente zelante, a conferma del fatto che l’indirizzo «spiritualista» in
materia razziale, di cui era convinto sostenitore, non comportava per nulla un
atteggiamento più tenero nella repressione. Già in agosto egli aveva disposto
un’inchiesta nel suo ministero per identiicare insegnanti e ricercatori ebrei.
Al Consiglio presentò un disegno di legge, che lo stesso duce ritenne di fare
«addolcire», e che fu trasformato nel r.d. 5 sett. 1938, n. 1390, poi integrato
e coordinato con altre disposizioni nel r.d. 1779 del 15 novembre. Gli effetti
dei provvedimenti variamente susseguitisi ed ampliatisi furono drammatici:
gli studenti ebrei furono espulsi dalle scuole pubbliche, e così gli insegnanti;
in prosieguo di tempo, i ricercatori dagli istituti di ricerca, i professori dalle
università, gli studiosi dalle accademie scientiiche.
Un passaggio decisivo, anche per il rilievo costituzionale che l’organo aveva
assunto dal dicembre 1928, furono le determinazioni del Gran consiglio, contenute nella Dichiarazione sulla razza approvata nella seduta del 6 ottobre e
pubblicata il 26. La sua approvazione non fu del tutto piana: vi furono alcune
resistenze variamente motivate, in particolare riguardo a una impostazione rigidamente ‘biologistica’, tanto che dalla redazione inale fu espunto il richiamo
al Manifesto della razza di luglio. Il valore giuridico della Dichiarazione fu
poi oggetto di discussioni da parte della dottrina. Essa comunque preigurò il
quadro normativo che di lì a poco sarebbe stato perfezionato. Rilevata «l’attualità urgente dei problemi razziali in seguito alla conquista dell’Impero»
e ribadito il legame con la risalente e consolidata politica demograica del
governo, si soffermava innanzitutto sulla materia matrimoniale (vulnerando
il regime concordatario con la Chiesa cattolica) e «stabiliva»:
a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con appartenenti alle razze camita,
semita e altre razze non ariane;
b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici – personale civile e
militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri, anche di razza ariana, dovrà
avere il preventivo consenso del Ministero dell’Interno.
Denunciava poi gli effetti perversi della recente immigrazione israelita in
Italia, l’insincerità patriottica degli ebrei italiani e il loro spirito intrinsecamente
«antitetico» al fascismo. Fissava quindi i criteri per stabilire l’appartenenza
alla «razza ebraica» e demandava a una commissione del ministero degli Interni la deinizione di singoli casi controversi, conigurando uno spostamento
di competenze dalla giurisdizione all’esecutivo, incompatibile con i principi
dell’ordinamento vigente. Tale misura fu ripresa nel decreto del 17 novembre
(art. 26) e fu estesa con una legge del luglio 1939. Poiché la riserva in capo
al ministro escludeva qualsiasi forma di gravame, giurisdizionale o amministrativo, essa poneva una delicata questione di rapporti tra i poteri dello
Aldo Mazzacane
43
Stato, che impegnò non poco i giuristi. Ma non era il momento di sottigliezze
e l’offensiva proseguì implacabile.
Il 17 novembre il r.d. 1728 issò i fondamenti legislativi della persecuzione, riprendendo, precisando e ampliando le indicazioni del Gran consiglio di
ottobre. Il capo I stabiliva in modo inequivoco il divieto di «matrimonio del
cittadino di razza ariana con persona appartenente ad altra razza», divieto che
comportava la sua nullità se celebrato in violazione di quanto disposto (art.
1). In particolare, all’art. 6 si escludevano effetti civili e la trascrizione del
matrimonio stesso ai sensi dell’art. 5, L. 27.5.1929, n. 847 (derivante dal Concordato), che li prevedeva per i matrimoni celebrati con rito religioso davanti
a un ministro del culto cattolico. Il disposto sollevò disappunto da parte della
Chiesa e suscitò in seguito ripetute frizioni con il regime, mantenute però, per
ragioni di prudente diplomazia, sul piano tecnico anziché dei principi.
Due articoli minuziosi del capo II dettavano i criteri (strettamente biologici)
per determinare l’appartenenza alla «razza ebraica» e l’obbligo di denunziare
e annotare tale appartenenza nei registri dello stato civile. Seguiva (artt. 10-13
e rispettivi commi) una elencazione di tassativi divieti. Ne riporto i principali,
avvertendo comunque che essi erano suscettibili – e così di fatto avvenne – di
diramarsi nelle più disparate direzioni. Gli ebrei non potevano più prestare
servizio militare; esercitare l’uficio di tutore o curatore di minore «ariano»;
essere proprietari, o amministratori, o sindaci di aziende di interesse nazionale
o aventi più di cento dipendenti; essere proprietari di terreni e di fabbricati
al di sopra di valori stabiliti; potevano essere privati della patria potestà nei
confronti di igli appartenenti a religione diversa dalla loro; non potevano avere
domestici di razza ariana e non potevano, a loro volta, essere dipendenti di
amministrazioni civili e militari dello Stato, né di suoi enti locali ed aziende
parastatali, o banche e assicurazioni; non era ammessa la loro iscrizione al
Pnf e ad organizzazioni che ne dipendessero.
L’art. 14 dettava i criteri di esenzione dalla normativa per i cosiddetti
«discriminati». Riguardavano principalmente coloro che avessero acquisito
meriti di guerra: una concessione al re, dal quale evidentemente si temevano
resistenze, che venne nel prosieguo svuotata (il r.d. 22 dic. 1938, n. 2111, collocò in congedo «assoluto» i militari «di razza ebraica»), così come accadde
per i «discriminati» in virtù di benemerenze fasciste, espulsi il 19 novembre
dal Pnf insieme con tutti gli altri ebrei. Nel 1939 seguì una copiosa, spesso
minuziosa legislazione vessatoria: furono per esempio vietati il possesso di
apparecchi radio, la frequentazione di località di villeggiatura, l’inserimento
negli elenchi telefonici, l’inserzione di annunci e necrologi sui giornali, la
pubblicazione di libri e di articoli, lo svolgimento di conferenze. Nel febbraiomarzo furono emanati decreti in materia di proprietà immobiliare e di attività
commerciali e industriali. In giugno fu colpita la possibilità di esercitare le
libere professioni per clienti «ariani»: medico, notaio, avvocato, ingegnere,
architetto, chimico, perito agrario, ragioniere, e così via. Per i giornalisti si era
44
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
provveduto già nell’aprile e nel luglio 1938. Nel luglio 1939 fu investita la
materia testamentaria e fu estesa, rafforzandola, la competenza del ministero
degli Interni sulle questioni di status controverse, e così via.
Vittorio Emanuele III irmò tutti i decreti, convertiti in blocco in legge
con un’unica delibera per acclamazione il 14 dicembre da una Camera che
lo stesso giorno, e sempre per acclamazione, approvò il disegno di legge che
sopprimeva il parlamento e lo sostituiva con una Camera dei fasci e delle
corporazioni. Il re aveva manifestato malumore per quanto riguardava la
posizione degli uficiali ebrei dell’esercito, che gli erano tradizionalmente
devoti, ma si accontentò di generiche rassicurazioni. Il papa Pio XI nel ’37,
con la Mit brennender Sorge, aveva levato un monito fermo contro l’antisemitismo e il «paganesimo» dell’ideologia nazista e meditava un’enciclica di
generale condanna, che non vide la luce. Era infatti vecchio e malato (morì il
10 febbraio 1939) e non controllava più le gerarchie vaticane, che opposero
resistenza agli indirizzi del regime solo sulla questione dei matrimoni misti e
dei battezzati. Senza difese istituzionali, gli israeliti erano giunti a subire ormai,
dopo l’antigiudaismo teologico e religioso, dopo la politica di separazione e
di esclusione, l’aperta persecuzione di Stato.
Simili provvedimenti, e gli altri che si aggiunsero in seguito, modiicando lo
status di alcuni, avevano una portata dirompente sui principi dell’ordinamento,
perché frantumavano la concezione unitaria di soggetto giuridico, incidevano
sui concetti tradizionali di diritto soggettivo (che ha come punto di riferimento
l’individuo) e di capacità giuridica e ne implicavano una rideinizione. Lo
sottolinearono tra gli altri, con un certo compiacimento per la forza innovativa del fascismo, autorevoli magistrati quali Mariano D’Amelio e Antonio
Azara, e lo stesso guardasigilli Arrigo Solmi25. Le conseguenze dirompenti
delle ‘novità’ si possono cogliere nel primo libro del codice civile del ’42
(libro emanato nel dicembre 1938)26. I provvedimenti introducevano inoltre
nella società motivi di generale corrompimento del costume civile e morale.
Quanti ‘nazionali’ approittarono volentieri, anche con delazioni e denunce,
dell’espulsione degli ebrei da posti di rilievo e della svendita dei loro beni per
fare carriera e vantaggiosi affari?
Nelle visioni retrospettive, in confronto con le deportazioni e gli stermini
nazisti gli effetti delle «leggi razziali» vengono troppo spesso sottovalutati.
Giuseppe Speciale ha pubblicato un documento che non esito a deinire agghiacciante, sia perché rivela le distorsioni avvenute nella pratica delle istituzioni e nel modo stesso con cui i funzionari concepivano i propri compiti,
sia perché permette di cogliere in modo ravvicinato la distruzione radicale
25
Citazioni dei loro interventi sono in De Napoli, La prova della razza. Cultura giuridica
e razzismo in Italia negli anni Trenta, Firenze 2009, p. 157.
26
Una limpida sintesi degli effetti delle leggi razziali nel diritto civile è in G. Alpa, La
cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma Bari 2000, pp. 270-87.
Aldo Mazzacane
45
dell’esistenza quotidiana dei cittadini ebrei. Salò poi tolse loro anche la cittadinanza, ma essa si era già ridotta a ben povera cosa.
Si tratta della rubrica compilata dalle prefetture per gli archivi di Stato
italiani, secondo la quale dovevano essere raccolti e classiicati i documenti
provenienti dagli ufici preposti all’applicazione delle disposizioni antiebraiche
che segnalavano i casi in cui fossero stati contravvenuti i numerosi divieti di
legge o amministrativi. Vi si ritrova di tutto, una vera sintesi della persecuzione
quotidiana e di tutto ciò che agli ebrei era vietato: editoria, vendita di apparecchi radio, passaporti, lavoro di interprete e di corriere, inserzioni pubblicitarie,
attività nello spettacolo, attività tipograiche e fotograiche, commercio di
preziosi, di oggetti d’arte e di libri usati, raccolta di stracci, esportazione di
ortofrutticoli, esercizio di alberghi e locande, di scuole di ballo, di portierato,
noleggio di vetture di piazza, e così via27.
5. Il diritto razzista nelle colonie italiane
La normativa entrata in vigore nel 1938-’39 (non mi occupo di quella
successiva all’entrata in guerra, nel giugno 1940) pose non poche dificoltà
ai giuristi. Essa infatti, oltre a spargere a piene mani temibili veleni nella
popolazione italiana e a colpirne tragicamente una parte, introduceva delle
fratture nella tradizione giuridica rispetto ad alcune sue strutture portanti,
prime fra tutte la più che centenaria deinizione dei presupposti soggettivi di
applicabilità delle norme e la divisione dei poteri. In questo senso si proilava
una crisi dell’ordinamento che investiva l’intera società: non per caso l’attacco al principio di unitarietà del soggetto da parte del regime si sviluppava
parallelamente nei confronti di tutte le minoranze (etniche, linguistiche, ecc.),
i ‘diversi’, gli oppositori, le donne. E non a caso anche in questa materia l’esecutivo svuotava e riconduceva a sé i poteri del legislativo e del giudiziario.
La prima questione che il sapere giuridico dovette affrontare era come
‘giuridicizzare’ il concetto di «razza», di provenienza extra-giuridica, ossia
derivante da tutt’altre scienze, e come servirsene per seguire intenti e interpretazioni governative. Non si rinunciava così alla funzione di neutralità e
‘terzietà’ del diritto, alla fonte stessa della sua legittimazione, ossia il rigore
razionale della sua logica autonoma, e se ne riconosceva invece il fondamento,
contro i principi dello Stato di diritto, nella decisione politica? Non si rischiava
di afidare ad altri saperi (per esempio l’antropologia o la biologia) il governo
delle norme, negando l’autonomia del giuridico? Per i giuristi d’ogni professione non erano questioni di poco conto, poiché su questi principi riposavano
tradizionalmente le loro costruzioni teoriche e la loro ideologia di ceto.
27
Speciale, Giudici, cit., pp. 27-28.
46
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
Il termine razza non apparteneva al lessico dei giuristi ed al loro quadro di
riferimenti: il sistema che strutturava l’ordinamento, costruito sulle nozioni
di cittadinanza, soggetto giuridico, capacità giuridica, capacità di agire, e
così via. La sostanza del concetto aveva però fatto la sua comparsa già durante l’esperienza coloniale (il termine stesso apparve tardi nella normativa)
e i giuristi ne avevano discusso spesso. Da questo punto di vista, le colonie
furono un laboratorio per mettere a punto criteri e categorie poi trasportate in
ambito metropolitano.
Come scelta di tutto il fascismo il discorso razziale emerse in modo graduale, essenzialmente durante gli anni ’30, e solo sul inire del decennio abbracciò
in un unico insieme anche l’antisemitismo. Sul piano ideologico, lo tenne a
lungo in scacco l’idea del primato dello Stato-nazione, dificile da comporre
con i miti razziali senza sottili passaggi. Non meraviglia perciò che riguardo ai
territori d’oltremare il fascismo avesse seguito in precedenza la traccia segnata
dalla ricca messe di studi coloniali e di ricerche antropologiche della tarda
età liberale. Un cambiamento marcato avvenne con il ’36 e con l’Impero. La
cultura giuridica procedette essenzialmente secondo lo stesso binario e con
cadenze cronologiche non molto diverse.
Nei testi giuridici l’etnicismo razzista era un motivo corrente da secoli e il
colonialismo lo aveva rinvigorito, come è proprio di ogni colonialismo, che
include in sé il principio di una superiorità ‘ontologica’ del conquistatore. Nella
rilessione teorica dei giuristi la ‘cosa’ era presente assai prima che fossero
deinite le sue ‘parole’. Persino Pasquale Stanislao Mancini, fondatore con
la celebre prolusione torinese del 1851 di un diritto internazionale basato sul
principio di nazionalità, nel difendere da ministro degli Esteri la sua politica
africana alla Camera nel marzo 1883 contro gli attacchi di chi lo accusava di
aver smentito quel principio stesso, sostenne la legittimità del dominio sulle
popolazioni delle colonie, prive sia di Stato sia di nazione. L’espansione italiana in Africa svolgeva una missione civilizzatrice, un «servizio alla civiltà». E
ribadì: essa «è tanto legittima nella società internazionale, quanto è legittimo
nel diritto privato quel rapporto che chiamasi di tutela: tutela degli incapaci
per età, ovvero per debolezza di mente; il quale parimenti non è incompatibile
col principio dell’indipendenza e dell’eguaglianza di tutte le creature umane»28.
L’analogia adoperata era attraversata chiaramente da venature razziste e riprendeva l’antica immagine, declinata più volte nella produzione scientiica,
dell’indigeno come eterno ‘minore’29.
28
P.S. Mancini, Discorsi parlamentari, vol. VII, Roma 1896, pp. 228-29.
Per l’origine risalente della igura, vedi Costa, Civitas, Storia della cittadinanza in
Europa, 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma Bari 1999, par. II, 8; vedi anche L.
Nuzzo, Il linguaggio giuridico della conquista. Strategie di controllo nelle Indie spagnole,
Napoli 2004, pp. 207-15.
29
Aldo Mazzacane
47
All’inizio degli anni ’30 del novecento, appoggiandosi sulla cultura antropologica dominante e sulla tradizione coloniale italiana e europea, l’idea
di una differenza tra i popoli e della superiorità degli uni rispetto agli altri
era del tutto scontata negli studi di diritto coloniale, una disciplina che aveva
ormai raggiunto la piena autonomia sul piano scientiico e nei programmi
didattici delle università. Fino a quel momento, per governare le differenze il
diritto coloniale si era servito della distinzione collaudatissima tra cittadini (i
colonizzatori) e sudditi (i colonizzati), basata sul luogo di nascita (jus soli),
eccettuando però i igli nati in colonia da genitori italiani. Ma con le svolte
politiche di quel decennio si imposero altre prospettazioni, che facevano riferimento all’origine etnica.
In verità, già nel cosiddetto codice civile eritreo del 1909 (r.d. 28 giugno, n.
589), ai ini del riconoscimento della cittadinanza italiana ad un nato in colonia
da uno o da entrambi i genitori ignoti, potevano essere presi in considerazione
i suoi «caratteri isici» (art. 8): si tendeva in sostanza a concedere la cittadinanza ai meticci nati da padre italiano, formalmente ignoto, ma generalmente
conosciuto nella cerchia ristretta dei residenti in colonia. Il codice non entrò
mai in vigore, ma esercitò una certa inluenza su giudici e funzionari, che
negli anni seguenti inclinarono spesso verso un atteggiamento favorevole a
‘italianizzare’ i meticci.
Sul piano normativo, comunque, il termine «razza» fece la sua esplicita
apparizione nella «Legge organica per l’Eritrea e la Somalia» (6 luglio 1933,
n. 999)30. Nonostante le dichiarazioni di voler gettare le basi di un nuovo
diritto coloniale, esso si manteneva in una linea di continuità con la politica
dell’età liberale e con i principi del suo ordinamento. Sotto il proilo tecnico,
gli ‘strappi’ consistevano nell’ampliare i poteri d’uficio del giudice – misura
giustiicata comunemente dalla dottrina con la situazione particolare delle colonie – e nel modiicare il regime probatorio, giacché venivano ammessi come
prove anche gli indizi. Gli articoli 17 e 18 stabilivano infatti che nel caso di
uno o di entrambi i genitori ignoti il giudice poteva attribuire la cittadinanza
italiana, sia su domanda, sia d’uficio, «quando i caratteri somatici e altri indizi
facciano fondatamente ritenere» che uno o entrambi i genitori siano «di razza
bianca» (nel primo caso erano richieste però anche altre condizioni). Dal punto
di vista politico la legge mostrava una chiara tendenza ‘assimilazionista’ nei
confronti dei meticci. Riguardo ai matrimoni misti, senza vietarli, si limitava
a scoraggiarli incidendo sulla condizione giuridica della donna.
Un altro aspetto importante della legge del ’33 era rappresentato dal
fatto di dirimere l’annosa questione, dibattuta in dagli inizi dell’esperienza
coloniale, se dovesse estendersi alle colonie il diritto civile e penale della
30
Per un esame della legge e dei dibattiti della dottrina vedi De Napoli, La prova della
razza, cit., cap. I.
48
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
metropoli, o se si dovesse adottare un regime differenziato, con riguardo sia
ai colonizzatori, sia agli indigeni e alle loro consuetudini31. La questione era
stata a lungo discussa fra i giuristi, che si dividevano tra le due soluzioni, ed
implicava inevitabilmente considerazioni e teorie circa le «razze» o le «stirpi».
Il dibattito fu dunque anch’esso un laboratorio per disarticolare su basi razziali
la nozione di soggetto unico di diritto, disarticolazione poi trasportata nel ’38
nel territorio metropolitano.
La legge accoglieva in buona parte l’istanza di differenziare i regimi in
alcune materie, ma la scelta non era dettata da spirito democratico, bensì
dall’intento di proteggere la superiorità del diritto degli italiani da iniltrazioni di consuetudini di una razza inferiore. In sostanza, il rispetto per il diritto
indigeno era piegato a giustiicare l’ineguaglianza e l’assoggettamento dei
sudditi. Con ciò, tra l’altro, si contraddiceva uno degli argomenti propagandistici principali del colonialismo italiano, sorretto rumorosamente dai miti della
romanità, della missione imperiale di Roma, ossia il compito di «civilizzare»
i nativi, giacché si negava la possibilità che essi potessero accedere a forme
più alte di convivenza, possibilità che i più vedevano semmai rinviata ad un
futuro lontano.
La legge rimase in vigore per breve tempo, sostituita dalla cosiddetta
«Legge organica per l’Impero» (r.d. 1° giugno 1936, n. 1019), emanata dopo
la conquista dell’Etiopia, che rovesciava gli orientamenti seguiti in precedenza. Fra gli antropologi del fascismo (Lidio Cipriani è il più ascoltato)
prevale l’idea della irrimediabile inferiorità dei «negri», che mai potranno
essere rieducati o avvicinati a una civiltà superiore, né tanto meno integrati;
della «decadenza» cui si condanna la razza bianca attraverso ripugnanti promiscuità e «pericolosi ibridismi»; del meticcio come portatore di tutti i tratti
degeneri delle razze inferiori. Spetta allora al regime, che ha riportato «dopo
quindici secoli» le insegne dei Cesari sui «colli fatali di Roma», «raddrizzare
la schiena» anche ai più riottosi, ammalati di egualitarismo e ilantropismo
illuministico, liberale o cattolico, educandoli al senso dell’immodiicabile
superiorità razziale degli italiani, che sostiene e legittima il governo dei colonizzatori e impone di mantenere gli indigeni in una condizione di sudditanza,
bloccando ogni canale di comunicazione fra i due popoli. I sudditi coloniali
non possono diventare cittadini poiché non fanno parte dell’Impero, inteso
come l’evoluzione suprema della nazione. Essi fanno parte dello Stato, alle
cui leggi devono sottostare. La differenza tra i soggetti è biologicamente
fondata, e perciò è indiscutibile e insuperabile. La gerarchia politico-giuridica
31
Sul tema, con approfondimenti anche in altre direzioni, vedi L. Martone, Giustizia
coloniale. Modelli e prassi penale per i sudditi d’Africa dall’età giolittiana al fascismo,
Napoli 2002. Vedi anche Id., Le novità dell’azione penale nella Colonia Eritrea all’inizio del
Novecento, in Oltremare. Diritto e istituzioni dal Colonialismo all’età postcoloniale, a cura
di A. Mazzacane, Napoli 2006, pp. 255-65
Aldo Mazzacane
49
del liberalismo tra sudditi e cittadini deve essere riformulata e assorbita nel
concetto di gerarchia di razza32.
La creazione dell’Impero impone dunque un rafforzamento delle barriere esterne ed una rideinizione dei soggetti al suo interno, in un clima di
forte drammatizzazione propagandistica. L’orientamento ‘assimilazionista’
nei confronti dei meticci è cancellato, poiché è cancellata l’eventualità di
una naturalizzazione qualora fondati «indizi» facciano ritenere che il padre
ignoto sia di razza bianca. In parallelo con la legislazione, le disposizioni
amministrative dei ministri delle Colonie (Mussolini prima, poi Lessona)
introducono l’apartheid: separazione delle zone abitative tra le due etnie,
distinzione dei locali pubblici frequentati, impedimento di ogni sorta di
«famigliarità», lotta al «madamismo» (convivenza more uxorio di un italiano con una indigena) e allo «sciarmuttismo» (‘afitto’ prolungato di una
prostituta). L’ostilità contro i meticci e la repressione del madamismo, che
ne è considerata la scaturigine principale, si inaspriscono. Il r.d. 19 aprile
1937, n. 880, composto di un solo articolo, punisce «con la reclusione da uno
a cinque anni» il cittadino italiano che «tiene relazione d’indole coniugale
con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana». Non sono pochi i giuristi che salutano con favore la normativa, che anzi auspicano una maggiore
durezza, poiché ritengono che sia stata lasciata una porta in troppo aperta
ai meticci attraverso il riconoscimento del matrimonio misto dei genitori e
la legittimazione da parte del padre.
Le rappresentazioni retrospettive della normativa del ’36-’37 da parte di
politici e di giuristi si sforzarono di sostenere la tesi di una continuità risalente,
priva di salti, negli indirizzi seguiti dal regime. La tesi in realtà non convince:
quelle stesse rappresentazioni, tutte senza eccezione, insistevano ad un tempo
nel legare il diritto e la giurisprudenza razzista alle esigenze che derivavano
dalla costituzione dell’Impero. Lo dichiarò apertamente lo stesso Mussolini,
all’indomani dell’emanazione delle prime leggi antisemite, in un discorso a
Trieste dell’8 settembre 1938. Del resto Carlo Costamagna – uno dei maggiori
giuspubblicisti del fascismo, il quale grazie al suo prestigio e alle cariche che
ricopriva poteva talvolta permettersi delle affermazioni fuori dal coro – registrò
con soddisfazione come dopo il ’36 il concetto di razza, da antropologico e
sociologico che era in origine, fosse stato inalmente «considerato anche nel
valore di un concetto giuridico. Vale a dire di un concetto determinativo di
conseguenze nell’ordine del diritto e prima di tutto quale requisito interessante
lo status della persona»33.
32
Per una eficace sintesi cfr. Costa, Civitas, cit., 4. L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma Bari 2001, pp. 290-93.
33
C. Costamagna, Razza, in Dizionario di politica, a cura del Partito Nazionale Fascista,
vol. IV, Roma 1940, p. 27.
50
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
6. Il variegato mondo dei giuristi
Sperimentato nelle colonie, il concetto di razza vi era stato suficientemente
‘giuridicizzato’ per essere trasportato nel 1938 in territorio metropolitano. Ma
se il razzismo in colonia non aveva provocato dissensi, poiché al contrario
la politica imperiale del fascismo ottenne il massimo del consenso interno e
l’adesione dei giuristi, la legislazione antisemita suscitò reazioni variegate
nella cultura giuridica, raramente di carattere etico, normalmente determinate
da differenti valutazioni tecniche. D’altronde il problema logico era di natura
totalmente diversa: non si trattava di come impedire ai sudditi di entrare a far
parte della nazione, bensì di escludere dalla nazione stessa dei cittadini che ne
facevano parte e che dal punto di vista sociale vi si erano largamente integrati.
Nella metropoli la nozione ‘giuridicizzata’ di razza si scontrava con varie
dificoltà. Una prima era costituita dal fatto che, dovendosi applicare a cittadini
italiani, non poteva appoggiarsi alla distinzione tra cittadini e sudditi. Un’altra dificoltà – ancora maggiore sul piano ideologico più generale – derivava
dalla costruzione storica che il fascismo aveva posto in dagli inizi come suo
fondamento. Nulla lo dimostra più chiaramente di uno sguardo – sia pure
rapidissimo – agli studi di diritto romano nel corso degli anni Trenta34.
Posto per antica tradizione alla base della formazione giuridica nell’Italia
unita, come scienza propedeutica capace di fornire le categorie logiche a tutte
le altre, il diritto romano aveva grande rilievo sia per i giuristi, in particolare
per i civilisti (i cultori della scienza ‘regina’ del sapere giuridico), sia per il
nazionalismo e il fascismo italiani. Il programma preparato da Savigny ed
elaborato dalla pandettistica35, di realizzare l’uniicazione delle fonti afidando
alla scienza il compito di costruire col diritto romano il sistema logico formale degli «istituti» del diritto «attuale», aveva trovato seguito anche in Italia.
Sul versante delle ideologie politiche, il mito dell’antica Roma e della sua
eredità, saldatasi con il cristianesimo, costituiva l’orizzonte simbolico entro
il quale ci si muoveva per costruire l’identità di una nazione, di per sé fragile
e costituitasi fortunosamente in Stato solo da mezzo secolo. Il nazionalismo
e il fascismo, che del nazionalismo si nutrì e con esso si fuse, elaborarono
perciò una struttura retorica – Roma, il suo Stato, il suo diritto, il suo impero
34
Il tema meriterebbe ulteriori indagini. Vedi comunque, oltre a A. Mantello, La giurisprudenza romana fra nazismo e fascismo, in Quaderni di storia, 13 (1987), p. 23 ss., da ult.
A. Somma,”Roma madre delle leggi”. L’uso politico del diritto romano, in Materiali per una
storia dela cultura giuridica, 32 (2002), p. 153 ss.; De Napoli, La prova della razza, cit., p. 103
ss.; e gli Atti di un seminario di Trento, Diritto romano e regimi totalitari nel ’900 europeo, a
cura di M. Miglietta e G. Cantucci, Trento 2009, con contributi, per quanto riguarda l’Italia,
di C. Cascione e A. Somma.
35
A. Mazzacane, Jurisprudenz als Wissenschaft, in F.C. von Savigny, Vorlesungen über
juristische Methodologie 1802-1842, a cura di A. Mazzacane, Frankfurt a. M. 2004; Id., Pandettistica, in Enciclopedia del diritto, vol. 31, Milano 1981, pp. 592-608.
Aldo Mazzacane
51
universale sui popoli – non solo per alimentare la propaganda, sovente goffa e
rudimentale durante il regime, ma anche per organizzare il campo discorsivo
della cultura e del sapere scientiico.
Gli studi di diritto romano si trovavano però in un dificile guado. In
Germania, con l’entrata in vigore del BGB (Bürgerliches Gesetzbuch) il 1°
gennaio 1900, si era aperta una crisi profonda. Il compromesso realizzato nel
codice fra pretese della pandettistica e soluzione codiicatoria non sembrò
lasciare soverchio spazio all’idea del diritto romano come «diritto attuale»,
assegnandolo piuttosto alle competenze della storia e della ilologia relative
alla antica Roma. I contraccolpi della crisi si manifestarono anche nella romanistica italiana, largamente tributaria della scienza tedesca come e più di altre
discipline giuridiche. Essa tuttavia aveva sostanzialmente retto allo choc delle
codiicazioni già nell’ottocento e perciò manteneva senza gravi incrinature
la sua posizione nei percorsi formativi dei giuristi. Nei primi vent’anni del
novecento i sostenitori dell’orientamento storicista e di quello ‘attualista’ in
Italia convissero senza drammatiche lacerazioni. Del resto, i maggiori civilisti
continuavano a servirsi della tradizione romanistica per costruire le proprie
categorie fondamentali: diritto soggettivo, proprietà, contratto, ecc. Né da
meno erano i processual-civilisti in tema di teoria dell’azione. L’irruzione
nel panorama delle destre europee del razzismo di marca nazista modiicò il
quadro e trasportò inevitabilmente il dibattito dal terreno degli specialisti a
quello delle ideologie e della politica.
Nel 1920 il programma di fondazione del partito nazista bollò al punto 19,
in modo inappellabile, il diritto romano e la sua tradizione. Come conseguenza,
giunto Hitler al potere, il diritto romano fu cancellato dai curricula universitari
e sostituito con corsi di storia del diritto moderno36. La motivazione – nella
legislazione e nei commentari della dottrina – era di natura inesorabilmente razziale (in senso biologico): il diritto romano era concettualistico e formalistico,
avalutativo, apolitico, dominato da un «materialismo» e un «individualismo»
opposti a una concezione «sociale» del diritto e contrastanti con la eticità e
la coesione del popolo, un prodotto sovrapposto artiicialmente dall’esterno
a popoli diversi, dagli insopprimibili connotati razziali. Si trattava dunque di
una posizione destinata a generare frizioni col fascismo italiano, frizioni di
carattere non esclusivamente ‘scientiico’.
Intanto, l’affermazione dell’assoluta superiorità degli «ariani nordici» su
tutti gli altri popoli collocava in un gradino inferiore della scala, senza troppi
iningimenti, tutte le popolazioni mediterranee, dell’Italia compresa. Sul piano
Ho letto in iligrana questi avvenimenti nel percorso di Franz Wieacker in A. Mazzacane,
I tempi della Privatrechtsgeschichte, in Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 24 (1995), pp. 563-76. Ma ricostruzioni esaurienti si possono trovare nei saggi
raccolti in Rechtsgeschichte im Nationalsozialismus. Beiträge zur Geschichte einer Disziplin,
a cura di D. Simon, M. Stolleis, Tübingen 1989.
36
52
Il diritto fascista e la persecuzione degli ebrei
della ricostruzione storico giuridica, l’eredità del Corpus iuris era rappresentata
come anti-germanica e come intrisa di corruzione «asiatica», di spirito non
ariano, le cui tracce andavano espunte anziché conservate. Sul piano della
teoria del diritto, la razza era considerata come un prius rispetto allo Stato.
Generatore del diritto in dai suoi albori e suo permanente centro motore non
era lo Stato come ente astratto (esso andava inteso al contrario come «organica» manifestazione del popolo), tanto meno l’incontro di volontà a partire
dall’autodeterminazione dei singoli, bensì il Volk, la razza, concepita come
unità di Blut und Boden (sangue e terra) e organismo collettivo compiuto in
se stesso, in breve il suo «sano» e spontaneo sentire 37.
Tra i romanisti tedeschi non mancarono atteggiamenti più articolati. Qualcuno, cautamente, cercò di costruire un ponte per salvaguardare la possibilità di
elaborare con metodo pandettistico i dettagli del BGB, pandettistico anch’esso.
Qualcun altro, e tra i maggiori, tentò in prosieguo di tempo di affermare visioni
culturali più ampie: Paul Koschaker, Max Kaser, e in modo ricco e complesso,
ma non esente da ambiguità, Franz Wieacker. Ma la loro voce avrebbe fatto
scuola solo dopo la catastrofe bellica.
Per le orecchie italiane, non solo degli specialisti, ma dello stesso Mussolini
e dei suoi ideologi, i suoni delle impostazioni germaniche erano in troppo
striduli. La campagna battente per affermare la perfetta autonomia del razzismo italiano da quello tedesco, per discostarsi dalla Germania, non rispondeva
dunque solo a ragioni meramente propagandistiche.
Il fascismo si era presentato costantemente come l’intransigente custode
dello Stato-nazione, ossia della nazione giunta inalmente a darsi la forma
Stato e a identiicarsi con esso. Il regime e il suo duce erano garanti e propulsori della sua potenza e della sua spinta espansiva raggiunte grazie alla
forza di volontà, al sacriicio e alla disciplina degli italiani. Le loro virtù ed
il loro destino imperiale attingevano linfe alla vitalità ininterrotta di Roma, al
suo «genio creatore» il cui maggior frutto era stato il diritto, con la sapienza
del quale, dopo le armi, erano stati sottomessi ed uniicati i popoli, era stata
affermata la sua vocazione universale. Il razzismo in sé, e non solo nella sua
versione germanica antiromana, naturalistica, deterministica, si presentava
come un pericoloso ostacolo sulla strada di chi riteneva di poter plasmare in
chiave totalitaria l’intera popolazione.
In difesa della propria disciplina molti romanisti reagirono agli attacchi
provenienti dalla Germania – Bonfante, De Francisci, Riccobono, Betti, De
Martino fra gli altri – innanzitutto negando la natura individualistica del diritto romano. Ma per coloro che più erano vicini al fascismo, o che ne erano
parte organica, restava da superare l’antitesi di fondo. Si veriicarono passaggi
La letteratura è notoriamente molto vasta. Segnalo le lucide analisi di J. Rückert, Das
“gesunde Volksempinden”. Eine Erbschaft Savignys, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte, Germ. Abt., 103 (1986) pp. 199-247.
37
Aldo Mazzacane
53
graduali: per cominciare, si spostò l’attenzione dal diritto privato al diritto
pubblico, alla sua conigurazione dei poteri, alle caratteristiche dello «Stato»
romano. Dopo il ’36 e l’Impero la svolta fu assai più netta: si scoprì il razzismo
e l’antisemitismo del diritto di Roma. In deinitiva presso i romanisti, come
presso buona parte della cultura giuridica italiana e negli studi umanistici, prevalse una concezione storicistica del razzismo (cosiddetta «spiritualista», ma
non perciò da intendere come morbida) su quella biologistica. Dopo l’alleanza
con la Germania e l’emanazione delle leggi razziali parve necessario, su un
piano più generale, appianare le divergenze. Nel dicembre 1938 fu convocato
a questo ine a Berlino un incontro riservato italo-tedesco38.
Occorrerebbe a questo punto dedicare un certo spazio alle letture delle
leggi razziali nelle varie discipline: diritto privato, costituzionale, penale,
amministrativo, e così via. Ciò comporterebbe di superare di gran lunga i
limiti assegnati al mio contributo. Un cenno conclusivo voglio però riservarlo
all’atteggiamento della magistratura39.
Giuseppe Speciale ha individuato e commentato numerose sentenze relative alle questioni più controverse che la legislazione razziale poneva: la
competenza del ministero dell’Interno per la deinizione di status, i rapporti
di lavoro, il matrimonio e la famiglia, la materia patrimoniale40. Risulta dalla
sua indagine una tendenza ad interpretare in maniera restrittiva le norme per
evitare che scardinassero il sistema ordinamentale, operando per esempio col
concetto di eccezione o con la distinzione tra precetti d’indirizzo politico e
prescrizioni giuridiche. Risulta però anche che se si tengono per un momento
da parte le nobili coscienze di un Peretti Griva o di un Galante Garrone, le
resistenze dei giudici rinviavano a motivi tecnici, ad intransigenze corporative,
e dificilmente si prestano ad essere interpretate come frutto di meditazioni e
di consapevolezze più profonde. Per comprendere meglio dissensi e consensi
di magistrati o anche di semplici funzionari sarebbe necessario affrontare su
un piano teorico il problema della funzione del formalismo, del tecnicismo,
dell’astrattismo giuridico. Ma è un’indagine che qui non è possibile fare.
38
A. Gillette, Fateful Bonds: The Secret Italo-German Committee on Racial Questions, in
Annual Holocaust Conference Papers, 1997 (Electronic Journal: www.millersville.edu/-holocon/gillette.html). Più in generale, su convergenze e divergenze tra la giurisprudenza italiana
e tedesca, vedi A. Somma, I giuristi e l’Asse culturale Roma-Berlino: economia e politica nel
diritto fascista e nazionalsocialista, Frankfurt a.M. 2005.
39
Benché non tocchi il tema della legislazione razzista, oggetto del mio lavoro, ritengo
fertili le analisi di O. Abbamonte. La politica invisibile. Corte di Cassazione e magistratura
durante il Fascismo, Milano 2003.
40
Speciale, op. cit.
Alessandro Somma
SULLA CoMPARABILITà dELL’oLoCAUSTo
E SULLA CoMPARAzIonE TRA FASCISMI:
LE EqUIvALEnzE FUnzIonALI
TRA RAzzISMI ITALIAno E TEdESCo
1. L’eccezionalità del percorso storico tedesco e l’incomparabilità
dell’olocausto
È noto che in area tedesca l’unità politica e la modernizzazione economica
furono realizzate nella seconda metà dell’ottocento da uno Stato autoritario.
Fino al crollo della dittatura hitleriana ciò indusse ad invocare l’eccezionalità
del percorso storico nazionale, e soprattutto a celebrarne la superiorità rispetto
ai percorsi intrapresi invece in area francese o inglese1. Alla conclusione del
secondo conlitto mondiale si moltiplicarono le voci di chi invece sottolineò
il potenziale fascista di una modernizzazione realizzata senza la mediazione
del meccanismo democratico2. Non caso il fascismo appariva ed appare descrivibile come sistema fondato sull’affossamento del liberalismo politico e
sulla contestuale riforma del liberalismo economico classico3. Vi fu tuttavia
chi intese salvare l’eccezionalità del percorso storico tedesco e che a tal ine
alimentò l’immagine della dittatura hitleriana come parentesi nella storia
tedesca, la cui portata si voleva oltretutto sminuire attraverso un confronto
assolutorio con il sistema di potere staliniano4.
Questo uso del passato venne denunciato nel corso degli anni sessanta del
novecento dai cultori della nuova storia sociale, che poterono sviluppare il loro
pensiero anche grazie alla relativa distensione nell’agitato confronto tra le due
Per una sintesi ad es. H.-U. Wehler, Politik in der Geschichte, München 1998, p. 78 s.
V. H. Grebing, Aktuelle Theorien über Faschismus und Konservatorismus, Stuttgart
1974, p. 49 ss.
3
Cfr. A. Somma, Liberali in camicia nera, in Il corporativismo nelle dittature sudeuropee,
a cura di A. Mazzacane, A. Somma e M. Stolleis, Frankfurt M. 2005, p. 63 ss.
4
Al proposito C. Natoli, nell’Introduzione del volume da lui curato Stato e società durante
il Terzo Reich, Milano 1993, p. 11 s.
1
2
56
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
Germanie. Essi ribadirono che, se pure nella seconda metà dell’ottocento si
erano ottenute importanti conquiste nel campo politico ed economico, ciò era
avvenuto con modalità anticipatrici dei successivi drammatici sviluppi della
storia tedesca. Lo Stato autoritario aveva infatti preservato una struttura sociale
e un sistema di potere preindustriali, termini di riferimento per la costruzione
della dittatura nazionalsocialista5.
A distanza di un ventennio, il nuovo approccio risultava notevolmente diffuso, e tuttavia non ancora un punto fermo per la comunità scientiica tedesca.
Nel corso degli anni ottanta del novecento alcuni studiosi, evidentemente
interessati a confezionare versioni non conlittuali della storia patria e ad incentivare così la costruzione di un nuovo sentimento nazionale6, rilanciarono
la teoria della eccezionalità del percorso storico tedesco, utilizzata fra l’altro
per superare una sorta di tabù: la tesi della incomparabilità dell’Olocausto7.
Tesi peraltro diffusa anche fuori dal contesto tedesco, incentrata sull’idea
che il genocidio hitleriano sia l’unico della storia ad essere stato privo di
natura strumentale8.
Nell’attacco alla tesi della incomparabilità si è distinto Ernst Nolte, i cui
scritti hanno presentato l’avvento del nazionalsocialismo come una reazione
ai successi politici del marxismo leninismo, e collocato i crimini hitleriani
sullo stesso piano di quelli imputabili in particolare allo stalinismo9. Lungo
la stessa linea di pensiero si è collocato anche chi ha esplicitamente riabilitato
le teorie sulla eccezionalità del percorso storico tedesco10, la cui evocazione
si è posta ancora una volta al servizio di una rinnovata lotta, più che al comunismo, alla memoria di esso. Con il risultato che, se da un lato si è affermato
di voler ricostruire l’identità nazionale e la memoria storica, dall’altro si è
invece inito per alimentare quanto i neoconservatori statunitensi considerano
la ine della storia11.
Molte sono state le reazioni negative a simili posizioni e tutte hanno
sostanzialmente difeso la tesi, ribadita in particolare da Jürgen Habermas,
della incomparabilità o almeno dell’unicità dell’Olocausto. Essa soltanto
costituirebbe un baluardo contro il revisionismo storico ed il riaffacciarsi del
Cfr. i contributi raccolti in Totalitarismus und Faschismus, a cura dell’ Institut für Zeitgeschichte, München 1980.
6
U. Backes e E. Jesse, Totalitarismus und Totalitarismusforschung, in Jahrbuch für Extremismus und Demokratie, Bd. 4, 1992, p. 7 ss.
7
Su cui in d’ora W. Wippermann, Totalitarismustheorien, Darmstadt 1997, p. 95 ss.
8
Citazioni in E. Traverso, La singolarità storica di Auschwitz, a cura di M. Flores, in
Nazismo, fascismo, comunismo, Milano, 2000, p. 303 ss.
9
E. Nolte, Il passato che non vuole passare, in Germania: un passato che non passa, a
cura di G.E. Rusconi, Torino 1987, p. 8 s.
10
Cfr. M. Stürmer, Geschichte im geschichtslosem Land, in Streit ums Geschichtsbild, a
cura di R. Kühnl, Köln 1987, p. 30 s.
11
È d’obbligo il riferimento a F. Fukuyama, La ine della storia e l’ultimo uomo, Milano
1992.
5
Alessandro Somma
57
nazionalismo12. Non intendiamo qui ricostruire i termini di questo vivace e
partecipato dibattito, noto come Historikerstreit, in gran parte dedicato a riaffermare il carattere incomparabile o unico dell’Olocausto13. Intendiamo più
semplicemente rilettere sull’idea secondo cui vi sono vicende incomparabili,
sostenuta per i crimini nazionalsocialisti, ma in in dei conti anche, seppure
per inalità opposte, per i crimini dello stalinismo14.
L’idea in discorso si fonda sulla convinzione, evidentemente ricavata dalla tesi della unicità ed irripetibilità degli accadimenti, che comparare eventi
storici implichi necessariamente un loro accostamento dal punto di vista morale15. Convinzione decisamente discutibile, in quanto il carattere singolare
di un evento può emergere esclusivamente dal raffronto con altri eventi16. Ed
in quanto proprio la relatività dei valori costituisce un baluardo della ricerca
storica, che punta in tal modo, più che a scagionare, a mostrare come chiunque
possa divenire complice di scenari screditati17.
Più precisamente, chi ricava il carattere singolare di un evento senza ricorrere a raffronti, non riiuta in verità il ricorso alla comparazione, bensì fa
della cattiva comparazione18. Tale è ad esempio quella che muove dall’idea
secondo cui la mutazione delle società attiene alla loro collocazione lungo un
ideale percorso unilineare, individuando la quale è dato ricavare l’obbiettivo
tasso di sviluppo o progresso di quelle società. E ciò avviene inevitabilmente
quando, affermando l’unicità di una certa esperienza, si disconosce l’irrilevanza
delle inluenze reciproche tra esperienze, quindi la loro diffusione, punto di
vista indispensabile a produrre ricerche al riparo da cedimenti evoluzionistici
magari inconsapevoli19. Con il che i teorici dell’unicità ed irripetibilità degli
avvenimenti dovrebbero annoverare, tra le vittime del loro approccio, anche
la ricerca storica fondata sui paradigmi diffusionisti20.
12
J. Habermas, Una sorta di risarcimento danni, in Germania, cit., p. 19 s. Nello stesso
senso H. Mommsen, Nuova coscienza storica e relativizzazione del nazionalsocialismo, ivi, p. 60.
13
Fra le tante ricostruzioni H.-U. Wehler, Le mani sulla storia, 1988, Firenze 1989, p. 33 ss.
14
F. Furet, Il passato di un’illusione, 1995, Milano, 2000, pp. 404 e 413. Sul punto D.
Losurdo, Il revisionismo storico, IV ed., Roma Bari 1998, pp. 3 ss. e 33 ss.
15
Cfr. ad es. G.E. Rusconi, Tra memoria e revisione storica, in Germania, cit., p. XlII s.
16
Sul punto U. Backes, Was heisst “Historisierung” des Nationalsozialismus?, in Die
Schatten der Vergangenheit, a cura di E. Jesse, Frankfurt a. M. 1992, p. 26 e D. Losurdo, Il
revisionismo storico, cit., p. 34 s.
17
J. Fried, Eröffnungsrede zum 42. Deutschen Historikertag, in Zeitschrift für Geschichtswissenschaft, 1998, p. 872. Il testo costituisce il discorso di aperture del 42° Congresso degli
storici tedeschi, che segnò l’avvio di una rilessione approfondita sulle colpe individuali e
collettive degli storici ai tempi del nazionalsocialismo.
18
In tal senso C. Natoli, Introduzione, cit., p. 16.
19
Sullo scontro tra comparazione evoluzionista e diffusionista ad es. A. Somma, Tanto
per cambiare, in Politica del diritto, 2005, pp. 105 ss.
20
Cfr. W. Schieder, Fascismo e nazionalsocialismo nei primi anni trenta, in Il regime
fascista, a cura di A. Del Boca, Roma Bari 1995, p. 46, con speciico riferimento allo studio
delle “inluenze dirette tra fascismo nazionalsocialismo”.
58
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
2. La comparazione tra fascismi
In termini più generali, come la comparazione implica un ricorso alla storia,
la storia comporta necessariamente l’utilizzo della comparazione21, pratica
non certo nuova22 o scarsamente diffusa presso i cultori della disciplina23. E,
se la ricerca storica non può esimersi dallo storicizzare le esperienze studiate,
la comparazione è uno strumento indispensabile a tal ine, mentre non lo è
l’affermazione della loro unicità, capace solo di alimentare la costruzione di
dimensioni metastoriche24.
Con ciò non si vuole evidentemente dire che i raffronti tra eventi storici, e
a monte la loro ricostruzione, siano impermeabili rispetto alle tensioni dei loro
autori, e soprattutto che la loro incidenza si possa azzerare. Del resto le forzature ideologiche non sono eliminabili, come sembrerebbero ritenere coloro che
discorrono della necessità di confezionare indagini storiche conoscitive pure25,
o che invocano una non meglio deinita “prospettiva non ideologica e politica,
e cioè effettivamente storica”26. E proprio la storia dei totalitarismi testimonia
tutto ciò, caratterizzata come è dallo scontro attorno all’opportunità di accostare
o meno, per le più disparate inalità, i regimi fascisti a quelli socialisti27. Scontro
che ha condotto alcuni a ritenere lo stesso concetto di totalitarismo uno strumento della propaganda anticomunista28, o comunque un prodotto della guerra
fredda29, contrapposto al concetto di fascismo, da altri considerato invece una
categoria utile solo ad alimentare l’estremismo di sinistra30.
21
F. Albisinni, Prospettive per la ricerca storico comparativa, in Rivista di storia del diritto
contemporaneo, 1977, p. 175. In termini generali, anche H.-G. Haupt e J. Kocka, Historischer
Vergleich, in Geschichte und Vergleich, Frankfurt a. M. 1996, p. 9 ss.
22
Cfr. ad es. le rilessioni maturate in dai primi anni di esperienza delle Annales: M.
Bloch, Pour une histoire comparée des societés européennes, in Revue de synthèse historique,
46 (1928), p. 16 ss.
23
V. tra le altre le panoramiche di N. Tranfaglia, Fascismi e modernizzazione in Europa,
Torino 2001, p. 5 ss. e H. Kaeble, Der historische Vergleich, Frankfurt a. M. 1999, p. 12 ss.
24
C. Natoli, Introduzione, cit., p. 20, valutando criticamente le rilessioni sulla storicizzazione del nazionalsocialismo sviluppate da Martin Broszat.
25
Con speciico riferimento allo studio del nazionalsocialismo, v. ad es. A. Guarino, Sine
ira et studio, in Trucioli di bottega, 8 (2002), p. 13.
26
R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma Bari 1983, p. XX ss. V. anche Id.,
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, nuova ed., Torino 1993, p. XXV, in cui si censura
l’impostazione “ideologico politica” del discorso di Habermas.
27
V. per tutti D. Schmiechen-Ackermann, Diktaturen im Vergleich, Darmstadt 2002, pp.
15 ss. e 21 ss.
28
Al proposito E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, nuova ed. Roma 2008, pp. 13
e 16 s.
29
Cfr. V. Marchetti, Resistenza ebraica, antisemitismo, totalitarismo, in Nazismo, fascismo,
comunismo, a cura di M. Flores, cit., p. 259 ss. e C. Natoli, Introduzione, cit., p. 11.
30
Così ad es. H.-H. Knütter, Hat der Rechtsradikalismus in der Bundesrepublik eine
Chance?, in Sicherheit in der Demokratie, a cura del Bundesministerium des Inneren, Köln
Alessandro Somma
59
L’immanenza di forzature ideologiche nella ricerca storica è testimoniata
in particolare dalla tesi della incomparabilità ed unicità dell’Olocausto, vicenda drammatica cui in particolare i tedeschi guardano comprensibilmente
con occhio decisamente inquieto. È infatti a tutti evidente che la tesi possiede una carica direttamente valutativa, prima ancora che immediatamente
conoscitiva31. Essa deve essere pertanto intesa come affermazione frutto
delle peculiarità del dibattito tedesco sul totalitarismo e della carica emotiva che comprensibilmente lo caratterizza32, anche per le sue connessioni
con l’ulteriore dibattito circa i termini ed i risvolti di una ritenuta perdita o
assenza di identità nazionale33. L’incomparabilità dell’Olocausto non deve
e non può cioè valere come confutazione dell’idea secondo cui “la barbarie
non è il monopolio di alcun popolo”34.
Risolto in senso affermativo il quesito, o meglio il falso problema, della
opportunità di un confronto tra totalitarismi, occorre chiarire se ed a quali
condizioni esso sia proicuo. Dal punto di vista della sua struttura logica, la
comparazione è un confronto tra oggetti in riferimento ad una determinata
proprietà. Essa è proicua se praticata ricorrendo ad un metodo che, rinunciando ad esaltare il proilo della proprietà degli oggetti, evita di occultarne le
caratteristiche peculiari, e di ricavare così in modo artiiciale la loro vicinanza.
Giacché vi sono sempre punti di contatto tra esperienze diverse, che tuttavia si
possono ritenere proicuamente assimilabili solo se proicuamente assimilabile
è il contesto in cui esse sono collocate35.
È dunque dal punto di vista del metodo utilizzato per la comparazione tra
totalitarismi, più che da quello della sua legittimità morale, che occorre criticare
la posizione noltiana nella lite tra storici. Essa è ricavata dal raffronto di aspetti
isolati delle dittature esaminate, che oltretutto si svilupparono entro contesti
non assimilabili dal punto di vista del loro sviluppo e della struttura sociale36.
Insomma, quella noltiana è una comparazione realizzata ricorrendo ad un
metodo scelto ad arte per esaltare le comunanze e comprimere le differenze.
1982, p. 113. Similmente G. Plum, Einführung, in AA.VV., Totalitarismus und Faschismus,
München 1980, p. 7 ss.
31
Spunti utili a tentare una distinzione tra carica valutativa e carica conoscitiva si ricavano
da N. Tranfaglia, Un passato scomodo, Roma Bari 1996, p. IX ss., e C. Pavone, Negazionismi,
rimozioni, revisionismi: storia o politica?, in Fascismo e antifascismo, a cura di E. Collotti,
Roma Bari 2000, p. 15 ss.
32
Ad es. M.L. Salvadori, Perché un certo passato possa passare senza che lo si dimentichi,
in Storia contemporanea, 1988, p. 251.
33
Su cui ad es. H.-U. Wehler, Le mani sulla storia, cit., p. 131 ss.
34
F. Sudre, Existe t-il un ordre public européen?, in Quelle Europe pour les droits de
l’homme?, a cura di P. Tavernier, Bruxelles 1996, p. 39 ss.
35
Citazioni in A. Somma, Tecniche e valori nella ricerca comparatistica, Torino 2005,
p. 42 ss.
36
Al proposito J. Kocka, Hitler non dovrebbe essere rimosso con Stalin e Polpot, in
Germania, cit., p. 52.
60
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
E il metodo non viene mai scelto a caso: è selezionato in funzione dei risultati
attesi, e comunque è da valutare nelle sue connessioni con i risultati prodotti.
È infatti dificile negare che vi sia una corrispondenza biunivoca tra la scarsa
attenzione per il contesto, ed il proposito di alimentare nei termini visti la
costruzione di un’identità nazionale tedesca.
3. L’orientamento tradizionale: protorazzismo italiano e razzismo
tedesco
Secondo una convenzione ora diffusa, si ritiene esservi un razzismo classico di tipo scientiico ed un razzismo nuovo di tipo culturale. Il razzismo
scientiico fa riferimento alla “idea di una differenza essenziale, inscritta nella
natura stessa dei diversi gruppi umani”, e conduce alla credenza secondo
cui “le caratteristiche biologiche o somatiche corrisponderebbero a capacità psicologiche e intellettuali”. Esso si differenzierebbe in tal modo dalle
teorie di tipo protorazzista, che considerano l’ambiente naturale o culturale
“responsabile delle differenze che creano le razze”, e che pertanto reputano
il diverso “suscettibile di essere civilizzato e perino di vedere trasformato il
suo aspetto isico”37. Il razzismo culturale denuncia invece l’intento di “naturalizzare la cultura, assegnandole gli attributi della natura, della razza nel
senso biologico del termine”. Esso rivelerebbe il superamento della logica
puramente gerarchica tipica del razzismo scientiico, a favore di una logica
di differenziazione38.
Utilizzeremo i concetti menzionati come punto di riferimento per il raffronto tra razzismo italiano e tedesco. Il tutto precisando che il razzismo non
è riducibile alla sola volontà di dominio di un gruppo umano, individuato
come razza, sugli altri gruppi umani. Giacché sono razziste anche le dottrine
e le pratiche che concernono l’esaltazione di alcune caratteristiche di un certo
gruppo umano e con ciò la volontà di selezionare gli individui che lo compongono, ad esempio con politiche demograiche o sanitarie39.
Come abbiamo visto, proprio il carattere particolarmente efferato del
razzismo nazionalsocialista, inteso soprattutto come antisemitismo, conduce
alcuni a riiutare la possibilità di comparare l’esperienza tedesca con le altre
esperienze fasciste. Ciò si dice, paradossalmente, ad esito di un confronto tra
le dittature mussoliniana e hitleriana, dal quale emergerebbe che il razzismo di
matrice “biologica” e “geopolitica”, tipico della seconda, non trova riscontro
37
M. Wieviorka, Il razzismo, 1998, Roma Bari 2000, pp. 7 e 11.
Ivi, p. 23 s.
39
Per tutti W. Wippermann, War der italienische Faschismus rassistisch?, a cura di W.
Röhr, in Faschismus und Rassismus, Berlin 1992, p. 113 ss., il quale distingue in merito tra
“völkisches”, “soziales” e “sexistisches Rassismus”.
38
Alessandro Somma
61
apprezzabile nella prima, più simile a quanto abbiamo visto essere una forma
di protorazzismo40.
Queste ricostruzioni fanno evidentemente leva sui discorsi di alcuni protagonisti dell’epoca, che tuttavia necessitano di essere compresi valutando
correttamente il contesto in cui sono stati prodotti. Si tratta oltretutto di ricostruzioni contestate alla luce delle dificoltà di individuare, nella teorizzazione come nella realizzazione pratica, criteri utili ad inquadrare il razzismo
biologico entro il più generale fenomeno del razzismo o eventualmente del
protorazzismo41. Anche per questo si sottolinea che i menzionati razzismi
scientiico e culturale costituiscono manifestazioni di un medesimo fenomeno,
non riducibile a vicende prive di un’autonoma identità, esattamente come il
menzionato protorazzismo42.
La distinzione tra un razzismo nazionalsocialista ed un razzismo mussoliniano trova tuttavia riscontri anche autorevoli nella letteratura italiana. In tal
senso si parla di un razzismo che solo alla ine fu blandamente biologico43 e
che per il resto ebbe in massima parte i caratteri del protorazzismo44.
Si tratta di una lettura insostenibile. Il razzismo italiano, se pure non ha
assunto i caratteri di un radicato ed efferato antisemitismo, ha inteso affermare
la superiorità della cosiddetta razza italiana con metodi non certo coerenti
con chi afferma di riconoscersi nel protorazzismo o razzismo spiritualista.
Quest’ultimo, nel momento in cui esalta il valore uniicante dell’identità culturale, mira a creare le condizioni ambientali e sociali afinché mediante essa si
possa giungere ad una inclusione imposta. Il fascismo italiano ha al contrario
condotto al genocidio coloniale45, e in dall’inizio ha realizzato forme di pulizia
etnica ai danni delle popolazioni slave, vicenda forse meno approfondita dal
punto di vista storico, ma non per questo meno rilevante46.
Non ci troviamo pertanto di fronte al protorazzismo o al razzismo culturale, bensì ad una forma di razzismo biologico di chi non credette nella
possibilità di imporre l’identità culturale e che pertanto progettò e realizzò
l’emarginazione o la soppressione del diverso. In alternativa ci troviamo di
40
K.D. Bracher, Il nazionalsocialismo in Germania, in Fascismo e nazionalsocialismo, a
cura dello stesso Bracher e L. Valiani, Bologna 1986, p. 32.
41
Ad es. C. Natoli, Il fascismo italiano e la persecuzione contro gli ebrei, a cura di C.
Ruiz Zafon, in L’ombra del vento, Milano 2008, p. 69.
42
Per tutti A. Burgio, Una ipotesi di lavoro per la storia del razzismo italiano, in Studi sul
razzismo italiano, a cura dello stesso Burgio e di L. Casali, Bologna 1996, p. 24.
43
R. De Felice, Storia degli ebrei, cit., p. 359 ss., dove si precisa: “almeno per l’aspetto
discriminazioni e arianizzazioni, la politica razziale fu ben presto il mezzo per far mangiare a
quattro ganasce una banda di corrotti”.
44
Ivi, pp. 236.
45
Cfr. ad es. L. Canfora, L’olocausto dimenticato, in Il fascismo e gli storici oggi, a cura
di J. Jacobelli, Roma Bari 1988, p. 36.
46
Citazioni in W. Wippermann, War der italienische Faschismus rassistisch?, cit., p. 117,
con riferimenti alla connotazione razziale del concetto di “slavo comunista”.
62
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
fronte ad un fenomeno dificilmente distinguibile secondo rigide separazioni,
in linea con la rivendicazione del carattere unitario del fenomeno razzista.
4. Il razzismo come fenomeno unitario
La distinzione tra un razzismo spiritualista italiano ed un razzismo biologico tedesco è fuorviante anche in quanto non è dalle modalità attraverso
cui si costruisce la categoria del diverso, bensì dal trattamento riservato al
diverso, che si può ricavare la maggiore o minore efferatezza delle due forme
di razzismo. Tanto più che nelle esperienze italiana e tedesca le due forme di
razzismo comparvero sovente afiancate, e furono sempre volte a documentare
la superiorità di una razza sulle altre ed a preparare le modalità attraverso cui
preservarne la purezza.
Altrimenti detto, il razzismo è un fenomeno unitario, che comprende il
protorazzismo, che abbraccia variamente pratiche di segregazione e pratiche
di annientamento isico e sociale, e che si unisce al ricorso all’eugenetica
negativa e positiva. E la combinazione dei vari elementi che compongono il
fenomeno razzista ebbe a che vedere con il loro essere funzionali a realizzare
le inalità di volta in volta privilegiate dalla dittatura ed a produrre discorsi
tesi a legittimare quelle inalità.
In tal senso la maggiore enfasi italiana sul razzismo spiritualista non fu
dovuta solo ad una avversione verso il razzismo biologico, bensì discese da
necessità contingenti e relative al piano interno come al piano esterno. Il
razzismo spiritualista meglio si combinava con il proposito di incentivare
politiche demograiche quantitative, fondate sul mito nazionalista della razza,
espansiva in quanto feconda. Politiche in linea con una concezione spiritualista, alternativa a concezioni ritenute positiviste e materialiste, confezionata
su misura per un gruppo umano la cui comune origine doveva prescinde dalla
varietà somatica47.
È poi il razzismo spiritualista il più utile ispiratore delle politiche coloniali
imperialiste tipiche di un stato che, non potendo aspirare ad una egemonia
esclusivamente militare, fu costretto a ripiegare sulla ricerca di una sorta di
egemonia culturale48.
Di non poco conto furono poi le limature del discorso e della pratica
razzisti, dettate dalla necessità del ventennio di non alienarsi il favore della
chiesa cattolica. La politica ossessivamente natalista di quest’ultima si coordinava alla perfezione con il proposito fascista di favorire lo sviluppo di
47
Ad es. I. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze 1999, p. 144.
Non a caso l’imperialismo italiano è stato deinito, con termine a volte utilizzato per
diminuirne artiiciosamente la portata, come “imperialismo straccione”. Per tutti G. Maione,
L’imperialismo straccione, Bologna 1979.
48
Alessandro Somma
63
una razza numerosa ed espansiva. E del resto proprio la politica coloniale
fascista costituì un importante terreno di confronto e collaborazione tra il
regime e le gerarchie vaticane49. Certo, alla chiesa cattolica si dovettero
anche fare delle concessioni: si dovette preferire l’eugenetica negativa
all’eugenetica positiva, e si dovette inoltre combinare l’antisemitismo con
l’antigiudaismo50. E tuttavia non vi è chi non veda come si tratti di concessioni che non alterarono la sostanza del discorso razzista: semplicemente
determinarono una diversa combinazione delle componenti di un fenomeno
che resta unitario.
Tutto ciò viene messo in luce da una comparazione che ricerchi le equivalenze funzionali tra le costruzioni di volta in volta utilizzate, e nel fare
ciò valorizzi la dissociazione tra le pratiche discorsive adottate dal potere
e i valori alla cui implementazione esse furono destinate. Lo vedremo trattando delle rilessioni italiane sullo stato e sull’organizzazione corporativa
della società51.
5. Popolo e razza nella concezione nazionalsocialista dello Stato
La diversa enfasi con cui si discute dello stato e del popolo costituisce un
aspetto su cui le dittature italiana e tedesca sembrano differenziarsi in modo
sostanziale.
Il fascismo italiano celebrava lo stato come entità che “sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo”, che non è “razza, né regione geograicamente
individuata, ma schiatta storicamente perpetuatesi, moltitudine uniicata da
un’idea, che è volontà di esistenza e di potenza”. Tanto che “non è la nazione
a generare lo stato”, bensì “la nazione è creata dallo stato, che dà al popolo,
consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva
esistenza”52. Da ciò la conclusione che solo una forma di razzismo spiritualista
poteva dare “al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà
e quindi un’effettiva esistenza”53.
49
V. già E. Rossi, Il manganello e l’aspersorio, 1958, Milano 2000, p. 215 ss. e G. Salvemini, Stato e Chiesa in Italia, Milano 1969, p. 412.
50
Per tutti G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007, p. 45 ss.
51
Altri esempi si ricavano dalla controversia attorno al valore del diritto romano: cfr.
A. Somma, Da Roma a Washington, in Le radici comuni del diritto europeo, a cura di P.G.
Monateri, T. Giaro e A. Somma, Roma 2005, p. 194 ss.
52
B. Mussolini, Voce Fascismo-dottrina, in Enciclopedia italiana, vol. 14, Roma 1932,
p. 848.
53
J. Evola, Sulle differenze fra la concezione fascista e nazista dello Stato, in Lo Stato,
1941, p. 143, richiamando motti mussoliniani.
64
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
Diverse le pratiche discorsive utilizzate in area tedesca. Nella letteratura
nazionalsocialista si dice infatti che “il popolo è più dello stato”, ente considerato come “il mezzo allo scopo”54. Il popolo del resto “è un dato voluto
da Dio”, e rispetto a popolo “lo stato non appare che in qualità di veste
giuridica”55. Discende da ciò che il fascismo italiano aveva sottovalutato il
problema della razza, o che comunque lo aveva erroneamente considerato
in termini più culturali che biologici: “qui si può rinvenire, anche giuridicamente, la più profonda differenza tra le due dottrine”56.
Peraltro il diverso costume concettuale delle due dittature non si tradusse
in una differenza sul piano funzionale. I riferimenti allo Stato ed al popolo
comparvero entrambi all’interno di pratiche discorsive volte ad ottenere esiti
assimilabili, differenziandosi sul piano retorico per motivi che attengono al
complesso delle esperienze italiana e tedesca.
Si consideri innanzi tutto che, all’epoca in cui venne avviato il confronto
tra fascismo italiano e nazionalsocialismo, il primo aveva la necessità di
consolidare il potere conquistato, laddove il secondo era ancora prevalentemente impegnato a gettare le basi della dittatura57. Peraltro, se “il fascismo è
in anticipo su noialtri di dieci anni” e ciò comporta “soluzioni politico sociali
difformi”, “la direttrice di marcia è comune, è identica”58. Semplicemente
essa viene sciolta in retoriche incentrate sul tema del popolo o dello stato, a
seconda che la meta sia più o meno vicina59.
Nel merito si consideri poi che, all’epoca, il popolo del defunto II Reich
tedesco era sparso entro diverse entità statuali non tedesche. Si intuisce
agevolmente che, in una simile situazione, era necessario individuare nuove
retoriche uniicanti e nuovi enti collettivi uniicanti60. Ed in tale prospettive
la ricostruzione di una identità a partire da dati meramente culturali avrebbe
sortito effetti minori di quelli riconducibili all’invocazione di dati di ordine
biologico, ed a monte allo sviluppo di una retorica incentrata sul tema del
popolo61.
Anche per questo, come si annota nella letteratura nazionalsocialista, la
rivoluzione mussoliniana aveva potuto conquistare prima lo stato, per poi
54
H. Frank, L’intesa italo-germanica per gli studi legislativi, in Lo Stato, 1937, p. 581. V.
anche E. Noack, Volk, Gesetz und Recht, in Deutsches Rechts, 1938, p. 2.
55
C.A. Emge, La politica legislativa del nazionalsocialismo e le sue realizzazioni, in
Comitato giuridico italo germanico, Atti del primo convegno, Roma 1939, pp. 214 e 221.
56
C. Schmitt, La dottrina del diritto nel fascismo e nel nazionalsocialismo, in Lo Stato,
1936, p. 300.
57
J. Evola, Sulle differenze, cit., p. 148.
58
P.J. Goebbels, Noi tedeschi e il fascismo di Mussolini, Firenze 1936, p. 95 s.
59
Lo stesso discorso vale per l’avversione nazionalsocialista nei confronti del diritto, su
cui soprattutto M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland, Bd. 3, München
1999, p. 323 s.
60
P. Costa, Cittadinanza, Roma Bari 2005, p. 76.
61
J.W. Hedemann, Grundlinien des Personenrechts, in Bundesarchiv R 61/429, f. 36.
Alessandro Somma
65
arrivare al popolo, mentre quella hitleriana aveva dovuto incamminarsi lungo
il percorso inverso62.
Decisivo per i riferimenti nazionalsocialisti al popolo fu anche l’interesse a sottolineare la cesura tra il nuovo ed il precedente sistema di potere,
contrapposto alla volontà mussoliniana di valorizzare invece gli elementi
di continuità. Ciò concerneva tuttavia un diverso modo di dare forme alla
dittatura e non anche, o almeno non prevalentemente, un diverso modo di
selezionarne i contenuti. Il nazionalsocialismo doveva differenziarsi in modo
netto e risoluto dalla precedente esperienza weimeriana, esperimento costituzionale decisamente avanzato63. Quest’ultimo era considerato un prodotto del
liberalismo democratico e del marxismo, in quanto tale destinato a rendere lo
Stato un passivo spettatore di conlitti tra “particolarismi”64. Un prodotto che
aveva irrimediabilmente pregiudicato la concezione statale tipica del II Reich,
considerata non distante “dalla concezione germanica del diritto”65.
6. Stato e razza nella concezione mussoliniana del popolo
Diverso l’approccio italiano al tema della continuità con il sistema di potere
precedente. Almeno sino alla ine degli anni trenta del novecento, quando la
rappresentanza politica da suffragistica divenne rappresentanza di interessi66,
il fascismo si servì della formale continuità con lo stato liberale e con lo
Statuto albertino del 1848, che il tecnicismo esasperato dei cultori del diritto
consentiva di utilizzare come fondamento del nuovo ordine67.
Del resto, lo stato prefascista era espressione di una cultura autoritaria ed
inoltre ampiamente dedito alla repressione burocratica68. Ed era tale anche in
quanto aveva elaborato una teoria della sovranità che superava la tradizionale
idea della Costituzione come patto fondativo dei rapporti di potere interni allo
Stato, per abbracciare la teoria della sovranità dello Stato persona, ovvero dello
“Stato in sé, al di là e prima della Costituzione”69.
62
W. Rath, Zum deutsch-italienischen Freundschaftsbund, in Zeitschrift der Akademie für
Deutsches Recht, 1938, p. 186. Nello stesso senso S. Villari, L’idea dell’impero e l’idea del
Reich, in Lo Stato, 1941, p. 101.
63
P. Costa, Diritti, in Lo Stato moderno in Europa, a cura di M. Fioravanti, Roma Bari,
2002, p. 55.
64
G. Dahm, Deutsches Recht, Hamburg 1944, p. 194 s.
65
Th. Scheffer, Volk, Staat und Recht, in Deutsche Rechtsplege, 1936, p. 308.
66
Cfr. soprattutto la L. 19 gennaio 1939 n. 129.
67
Ad es. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia, Roma Bari 1994, p. 374 ss.
68
Così N. Tranfaglia, Dallo stato liberale al regime fascista, 2. ed., Milano 1975, p. 34 ss.
69
M. Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Stato e
cultura giuridica in Italia dall’unità alla repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma Bari 1990, p.
15, che così motiva “questo insistere quasi ossessivo sul problema della continuità dello Stato”.
66
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
Così descritto, lo stato divenne una costruzione che conteneva in nuce i
principi del totalitarismo, o che comunque poteva esservi facilmente adattata.
Vi fu evidentemente chi ritenne che il nuovo ordine non potesse essere legittimato attraverso una mera rilettura delle tradizionali costruzioni pubblicistiche70.
Tuttavia i più considerarono che le correnti teorie in tema di sovranità statale
erano intimamente antidemocratiche. Proprio per questo avevano riiutato
quanto incarnato dalla svolta weimeriana, rea di aver “codiicato la sovranità
popolare” e “l’odiatissimo regime parlamentare, brutalizzato per la prima volta
in una disposizione costituzionale rigidamente tassativa”71. E una simile lettura
era evidentemente compatibile con l’idea fascista secondo cui era compito
dello Stato portare a compimento le costruzioni tradizionali72, sciogliendo
inalmente le individualità e trasmettendo loro un “contenuto nel campo etico,
religioso, politico ed economico”73.
Giacché lo stato di cui si parlava durante il ventennio non era un mero
contenitore di identità, bensì un loro selettore, che operava secondo i criteri
utilizzati per descrivere i contenuti della razza con toni spiritualistici. Del resto,
come sappiamo, “nello stato fascista” si realizza la comunità nazionale, che
è “unità morale, politica ed economica” e soprattutto “organismo avente ini,
vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui”74.
È uno stato che attua “la sintesi ideale dei valori materiali e immateriali della
stirpe”, che “rappresenta la continuità delle generazioni”, e che pertanto consente “l’attuazione dei massimi valori spirituali”75. Valori che tuttavia iniscono
per essere anche biologici, dal momento che, “tra gli elementi di coesione e di
uniicazione delle varie generazioni, trovasi una fondamentale unità di razza”76.
E dal momento che i valori cui si fa riferimento sono la reincarnazione del
genio romano, evocato per elencare caratteristiche della stirpe molto vicine a
quelle menzionate in ambienti nazionalsocialisti a proposito del popolo.
Si aggiunga che nel fascismo italiano si alludeva sovente al popolo in una
accezione diminutiva, in quanto relativa ad interessi e ini privi di proiezione
storica, come quelli solitamente fatti valere attraverso il principio della so70
In particolare C. Costamagna, Elementi di diritto pubblico fascista, Torino 1934, p. 34.
V. anche Id., Stato corporativo, in Rivista internazionale di ilosoia del diritto, 1926, p. 420.
71
P. Chimenti, Diritto, Stato, sovranità nella dottrina costituzionale italiana, in Archivio
giuridico F. Seraini, 1927, p. 154. V. anche F. D’Antonio, Su la locuzione Stato di diritto, in
Rivista di diritto pubblico, 1938, I, p. 214.
72
A. Rocco, La trasformazione dello Stato, Roma 1927, p. 18 s.: “tutta la scuola giuridica
del diritto pubblico” ha “sempre insegnato che la sovranità non è del popolo, ma dello Stato”.
73
Ivi, p. 20.
74
Dich. I Carta del lavoro. Nella letteratura ad es. G. Bortolotto, Lo Stato e la dottrina
corporativa, 2. ed., Bologna 1931, p. 3 ss., e G. Bottai, Il contenuto economico della carta del
lavoro, in A. Turati e G. Bottai, La Carta del lavoro illustrata e commentata, Roma 1929, p. 80.
75
G. Bottai, Stato corporativo e democrazia, in Lo Stato, 1930, p. 124.
76
A. Sermonti, I principi dello Stato fascista nel sistema del diritto pubblico generale, in
Rivista di diritto pubblico, 1939, I, p. 362 s.
Alessandro Somma
67
vranità popolare. Il popolo è infatti semplicemente “una moltitudine”, ovvero
“la somma o l’aggregato di individui viventi”, che può avere ini e interessi
contingenti e comunque diversi da quelli della nazione77.
Se si considera tutto ciò, si vede come i toni utilizzati in area italiana per
discorrere di stato, non siano molto diversi da quelli ricorrenti in area tedesca
a proposito del concetto di popolo. I primi risentirono del pensiero nazionalista ed in tal senso conducono necessariamente a fondare l’appartenenza alla
comunità su costruzioni statualiste, a loro volta necessariamente coordinate
con vicende in senso lato spiritualiste. I secondi furono invece ritagliati su
misura per una comunità che voleva essere ugualmente organica, ma che non
trova ancora nello stato, o non vi aveva più trovato, una sponda utile a fondare
l’appartenenza su identità esclusive ed escludenti.
A toni diversi non corrisposero tuttavia intenti diversi, dal momento che
entrambe le dittature italiana e tedesca, la seconda con prevalenti richiami al
popolo, mirano alle medesime politiche imperialiste e soprattutto a demolire
la “concezione puramente giuridica della sovranità”, riiutata come “soluzione
impersonale del problema del potere”78.
I richiami alla razza o a vicende ad essa relative, ricostruite in termini
spiritualistici o biologici, mentre connotavano il diverso al ine di emarginarlo
o sopprimerlo, costruivano l’identità degli individui chiamati a sottomettersi
all’autorità, proprio in virtù della loro appartenenza razziale. E allo stesso
modo la retorica sullo stato o sul popolo, direttamente o implicitamente
combinata con il razzismo spiritualista o biologico, riassumeva il senso
dell’attacco all’individuo, affermando la sua subordinazione ad una collettività in funzione della quale risolvere il problema della tensione “tra autorità
e autonomia individuale”79.
Altrimenti detto, il razzismo hitleriano fu l’equivalente dello statalismo
mussoliniano nella comune avversione per il modello di rappresentanza politica
tipico della “democrazia affaristica e bassamente parlamentare”80, fondata sulla
mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze, che “per loro natura non
possono partecipare all’esercizio del potere ed alla emanazione di leggi”81.
77
Ivi, p. 362 s.
J. Evola, Sulle differenze, cit., p. 148. Nella letteratura tedesca ad es. C. Schmitt, La
categoria del Führer come concetto fondamentale del diritto nazionalsocialista, in Lo Stato,
1933, p. 834 ss.
79
P. De Francisci, Idee per un rinnovamento della scienza del diritto, in Annuario di
diritto comparato, 15 (1941), p. 8. V. anche C. Schmitt, La dottrina del diritto, cit., p. 300:
“il problema di una organizzazione integrale del potere domina tutte le questioni del diritto
pubblico interno“.
80
G.L. Capobianco, Lineamenti di Diritto pubblico interno e comparato, Udine 1936,
p. 140.
81
S. Messina, Die Rechtsgrundlage im autoritären Staat, in Zeitschrift der Akademie für
Deutsches Recht, 1938, p. 179.
78
68
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
7. Il corporativismo: classe e razza nella riforma fascista del liberalismo economico
Le differenze tra i richiami italiani allo stato ed i richiami tedeschi al popolo
possono essere ulteriormente relativizzate, se si considera che la letteratura
del ventennio esaltava il corporativismo come la forma di collettivismo più
idonea ad annullare la differenza di classe82, e quindi ad assolvere ad uno dei
principali compiti afidati dalla dottrina nazionalsocialista al razzismo. Se
infatti la naturalizzazione del dato storico tipica del razzismo produce identità assolute ed assolutizzanti, ovvero funzionali a deinire ordini e gerarchie
sociali83, l’incitamento alla collaborazione interclassista tra produttori entro le
strutture dello stato corporativo assolse allo stesso compito di disciplinamento.
E soprattutto realizzò la funzionalizzazione dei comportamenti individuali in
forme assimilabili a quelle contemplate dal pensiero eugenetico84, in linea con
quanto sembra una sorta di eugenetica economica.
È noto che la valenza collettivista del razzismo lo rende uno strumento
attraverso cui, invocando forme di appartenenza incentrate su motivi spiritualistici o biologisti, la coscienza di classe viene rimpiazzata da una sorta di
coscienza di popolazione85. Questa è del resto una delle funzioni tipicamente
attribuite al razzismo, e a monte al nazionalismo, le cui logiche gerarchiche e di
differenziazione sono chiamate ad occultare i meccanismi di sfruttamento tipici
del liberalismo economico, di quello tradizionale come di quello riformato86.
Con il risultato che, se da un lato si crea un fondamento per la coesione tra gli
appartenenti alla razza eletta, dall’altro si occulta il conlitto di classe evocando
il conlitto tra razze, individuando cioè quali razze assumono la funzione ed
i compiti della classe subalterna e quali invece quelli della classe dominante.
Ma concentriamoci sui nessi tra razzismo e corporativismo, fenomeno che
ebbe una variante fascista, ma che si riconduceva a spinte all’epoca diffuse,
tanto quanto il favore per la ricostruzione di una società organica, che valorizzasse la rappresentanza di interessi.
Si suole dire che rispetto alle altre forme di corporativismo, quello fascista
avrebbe inteso sciogliere la società nello stato87. Peraltro la matrice statualista
del corporativismo fascista è in verità una matrice produttivista. Nel sistema
82
Per tutti A.J. De Grand, L’Italia fascista e la Germania nazista, 1995, Bologna 1999,
p. 24.
83
Così A. Burgio, Una ipotesi di lavoro, cit., p. 23.
C. Mantovani, Rigenerare la società, Soveria Mannelli 2004, p. 263 s.
85
Cfr. H. Le Bras, Il demone delle origini, 1998, Milano 2001, p. 10.
86
In termini generali, per tutti, D. Petrosino, Razzismi, Milano 1999, p. 26 ss. e R. Siebert,
Il razzismo, Roma 2003, p. 106 ss.
87
Da ultimo E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Roma 2008, p. 325 s. V. però P.G.
Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo, Roma Bari, 2000, p. 162, che considera tipica
della “cultura cattolica antidemocratica“ l’invocazione dell’“unità dello Stato e della società”.
84
Alessandro Somma
69
di potere mussoliniano il superamento del conlitto di classe alimentava infatti
l’identiicazione della “suprema inalità nazionale” con “l’interesse superiore della produzione”88, così come l’attribuzione di una “funzione nazionale
o sociale” in capo a chi era chiamati a soddisfarlo89. In tal senso occorreva
contrastare l’autodifesa di classe90 e nel contempo rendersi idealmente tutori
delle classi deboli91.
Sono, questi, motivi coltivati in seno al pensiero nazionalista, che anche in
tema di corporativismo si conferma come l’anima più inluente nel fascismo
mussoliniano. È del resto Alfredo Rocco a prevedere, in dal secondo decennio
del novecento, quali saranno i compiti che qualiicheranno il corporativismo
fascista92. Rocco attribuiva al corporativismo una funzione che ben si coordinava con quella assolta dall’imperialismo e dal colonialismo nell’ambito di
un’economia nazionalista. La “nazione” fu da lui descritta come una società
“i cui componenti sono vincolati dalla coscienza di una comune origine etnica”, così come “dalla solidarietà dei loro interessi di stirpe”93. Ed un simile
vincolo conduceva naturalmente al rafforzamento della “lotta incessante che
la nazione italiana deve sostenere nel mondo per tutelare gli interessi della
razza italiana”94.
Nel solco di queste premesse, il corporativismo fascista doveva informare
l’intero sistema delle relazioni private in senso produttivista: doveva divenire
uno dei principali strumenti di disciplinamento utilizzati dal potere fascista,
nella sua essenza di biopotere.
Infatti il corporativismo non era solo il modo per realizzare la rappresentanza
integrale degli interessi della produzione, quindi una formula da applicare unicamente ai rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, o tra “capitalisti lavoratori” e
“capitalisti imprenditori”95 o ancora tra “cittadini produttori”96. Il corporativismo
voleva ridisegnare i rapporti proprietari, discutendo di una “proprietà attiva,
88
C. Costamagna, Linee del diritto privato del fascismo, in Lo Stato, 1937, p. 18. Sul punto
ad es. V. Castronovo, Il potere economico e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura
di G. Guazza, Torino 1973, p. 67 e L. Ornaghi, Stato e corporazione, Milano 1984, p. 119 ss.
89
L. Mossa, Modernismo giuridico e diritto privato, in Id., L’impresa nell’ordine corporativo, Firenze 1935, p. 50 s.
90
Innanzitutto con il divieto di serrata e sciopero, di cui agli artt. 502 ss. cod. pen. Cfr.
ad es. C. Saltelli e E. Romano-Di Falco, Commento teorico pratico del nuovo codice penale,
2. ed., vol. 4, Torino 1940, p. 15 ss.
91
M. D’Amelio, Sulla protezione giuridica delle classi deboli, in Rivista di diritto pubblico, 1936, I, p. 5 ss.
92
A. Rocco, Il congresso nazionalista di Roma (1919), in Id., Scritti e discorsi politici,
vol. 2, Milano 1938, p. 478 s.
93
A. Rocco, Economia liberale, economia socialista ed economia nazionale, 1914, ivi,
vol. 1, Milano 1938, p. 43.
94
A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti, 1914, ivi, pp.
70 e 85.
95
G. Bottai, Giustizia sociale corporativa, in Critica fascista, 1934, p. 381 s.
96
G. Bottai, Stato corporativo, cit., p. 127.
70
Sulla comparabilità dell’Olocausto e sulla comparazione tra fascismi:
che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li
moltiplica”97. Intendeva poi condizionare i comportamenti dei partecipanti alle
relazioni di mercato, promuovendo la “restrizione dell’eficacia del dogma della
volontà”, necessaria a potenziare il “principio di solidarietà o di socialità”98, e
realizzando l’alleanza tra produttori e consumatori99. E anche il diritto di famiglia
risentì della logica corporativa e della sua matrice produttivista, attento come
fu a “preparare il futuro fascista e lavoratore”100.
Che il corporativismo mussoliniano dovesse assolvere a molti tra i compiti
afidati al razzismo nazionalsocialista, lo ricaviamo anche dallo scarso peso
che il primo ha assunto nella dittatura hitleriana.
Anche il programma del partito nazionalsocialista alludeva alla “formazione di camere corporative professionali, per l’esecuzione nei singoli stati
federali delle leggi quadro emanate dal Reich”101. E dopo la presa del potere si
avviarono discussioni circa la costruzione di un “ordinamento corporativo”102.
Tuttavia il regime riformò il diritto delle relazioni industriali istituendo una
rete di iduciari del lavoro (Treuhänder der Arbeit)103, organi dipendenti
dall’esecutivo, incaricati di esercitare un controllo sui rapporti patrimoniali e
non patrimoniali fra datori di lavoro e lavoratori, chiamati a collaborare per
il “raggiungimento degli scopi dell’impresa e per il bene comune del popolo
e dello stato”104.
97
B. Mussolini, Sulla legge delle corporazioni, 1934, in Id., Lo Stato corporativo, Firenze
1936, p. 33 s.
98
Discorso del Ministro Guardasigilli Dino Grandi alla Commissione delle Assemblee
legislative per la riforma dei codici, in Il Foro italiano, 1940, IV, c. 23. Nello stesso senso
A. Asquini, Il diritto commerciale nel sistema della nuova codiicazione, in Rivista di diritto
commerciale, 1941, I, p. 430 s. e M. D’Amelio, Linee fondamentali della riforma, Roma
1943, p. 45 s.
99
Come preigurato dall’art. 10 L. 5 febbraio 1934, n. 163 in tema di “costituzione e funzioni delle corporazioni“, che investì le corporazioni del compito di stabilire i prezzi “per le
prestazioni e i servizi economici“ e per “i beni di consumo offerti al pubblico in condizioni di
privilegio“. V. comunque B. Mussolini, Sulla legge delle corporazioni, cit., p. 34 s., il quale
precisa: “la massa anonima, non essendo inquadrata in apposite organizzazioni, deve essere
tutelata dall’organo che rappresenta la collettività dei cittadini“, cioè dallo “Stato”.
100
G. Penso, L’obbligo di educare ed istruire la prole secondo il sentimento nazionale
fascista, in Rivista di diritto pubblico, 1941, p. 140.
101
Punto 25.
102
F. Ermarth, La costruzione di un ordinamento corporativo in Germania, in Lo Stato,
1933, p. 737 ss.
103
Ad es. T. Ramm, Nazismo e diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1970, p. 108 s. e
T. Mayer-Maly, Nationalsozialismus und Arbeitsrecht, in Recht der Arbeit, 1989, p. 235. Nella
letteratura nazionalsocialista: W. Mansfeld, Die Ordnung der nationalen Arbeit, München
1934, p. 27 ss.
104
Cfr. il Gesetz über Treuhänder der Arbeit del 19 maggio 1933 e il Gesetz zur Ordnung
der nationalen Arbeit del 20 gennaio 1934. Al proposito W. Mansfeld, Das Gesetz zur Ordnung
der nationalen Arbeit vom 20 Januar 1934, in Deutsches Arbeitsrecht, 1934, p. 33 ss. e Graf
von der Goltz, Die Treuhänder der Arbeit nach dem 30 April 1934, ivi, 1934, p. 97 ss.
Alessandro Somma
71
Fu lo stesso potere politico nazionalsocialista a presentare la soluzione
adottata come alternativa al corporativismo. Quest’ultimo venne infatti considerato una sorta di evoluzione rispetto ai meccanismi liberali di governo del
conlitto tra classi, che inivano per trovare una rinnovata sintesi, e non un
superamento, entro lo stato fascista, incapace di valorizzare il popolo come
motore della costruzione del nuovo ordine105.
Di qui la minore enfasi italiana sulla connotazione della comunità nazionale
in senso razziale, peraltro recuperata nelle pieghe della retorica sul corporativismo. Il quale non a caso ha assolto soprattutto al compito di ottenere un
“disciplinata irregimentazione dell’esercito del lavoro”106: ha mantenuto la
pace sociale ed il controllo sul sistema salariale, conformemente a quanto è
stato ritenuto un aspetto etico del corporativismo107.
Ad es. K. Lohmann, Buchbesprechung, in Deutsche Juristenzeitung, 1935, p. 362, e T.
Gerstenmeier, Wesen und Gehalte des Nationalsozialismus und des Faschismus als zeitgenössische Staatsideen und Staatsgestaltungen, Diss. Heidelberg 1937, p. 93 ss.
106
P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963, p. 53.
107
Ad es. F. Maroi, Diritto civile e fascismo, in Archivio giuridico F. Seraini, 1935, p. 15 ss.
105
Paolo Caretti
IL “CoRPUS” dELLE LEGGI RAzzIALI
1. Premessa
La triste circostanza segnata dal ricorrere del settantesimo anno dall’approvazione delle leggi razziali del settembre del 1938 rappresenta l’occasione per
il riiorire di un certo interesse scientiico dei giuristi, e non solo degli storici,
per quella buia parentesi dell’ordinamento italiano rappresentata dall’antisemitismo fascista e per gli atti attraverso cui l’oscurità di quella parentesi ha
partorito l’accecante orrore della discriminazione etnica1. In questo contesto
di rinnovato interesse aspira ad inserirsi il presente scritto, il quale si propone
di ricostruire la parabola della legislazione razziale nell’Italia fascista dai suoi
precedenti dei primi anni trenta alla stagione dell’abrogazione e della reintegrazione degli ebrei nella società italiana. In particolare, a queste poche pagine si
afida la speranza di riuscire, senza alcuna pretesa sistematica, a portare luce
su alcuni episodici aspetti di questa complessa ed articolata vicenda normativa
che investono più direttamente il sistema delle fonti e la sua evoluzione.
Senza voler anticipare, per ciò stesso, considerazioni che potranno emergere, via via, solo alla luce dell’analisi dei provvedimenti normativi e della
loro contestualizzazione storica, ma solo per evitare delusioni al lettore ad
altro interessato, non è, forse, privo di qualche utilità rimarcare sin d’ora
che la ricostruzione della parabola della legislazione razziale consente – ed
è proprio questo il tentativo esperito – di evidenziare la ricorrenza di alcune
1
Si pensi ai numerosi convegni sul tema che hanno visto e vedono in questi mesi la partecipazione di giuristi, come ad esempio: “Settanta anni dopo le leggi razziali: ebrei, scuola,
religioni” (Pisa, 2 ottobre 2008);”Razza, Diritto, Esperienze. A settant’anni dalle leggi razziali” (Catania, 29 e 30 ottobre 2008); “Le leggi razziali del 1938: proili giuridici” (Firenze
24 ottobre 2008); “Verso le leggi razziali. Culture, ideologie e mentalità dell’antisemitismo”
(Pisa, 1 dicembre 2008).
74
Il “corpus” delle leggi razziali
signiicative deformazioni del sistema delle fonti (dalla dilatazione del potere
d’ordinanza all’uso di presunzioni legali in materia di libertà personale, dalla
violazione del principio di irretroattività alla riproposizione di decreti legge
non convertiti, ecc.) che costituiscono una delle possibili cartine di tornasole
del carattere autoritario del regime.
Inoltre, lo studio della legislazione razziale attraverso le categorie delle
fonti del diritto, in particolare delle fonti del diritto costituzionale, permette
di proporre originali ricostruzioni di quelle vicende normative e di ipotizzarne
legami e nessi interni altrimenti dificilmente apprezzabili.
A ciò si aggiunga, inine, che la lettura delle norme nel loro sviluppo
pluridecennale consente anche di periodizzare la produzione normativa e di
comprenderne intensiicazioni e battute d’arresto in funzione del contesto
storico-politico e dei mutamenti costituzionali.
2. Le tracce della discriminazione razziale nelle leggi coloniali
Come noto, lo strumentario logico-concettuale delle più note “leggi razziali”
del periodo 1938-1945, approvate nei confronti degli stranieri e degli ebrei,
può essere rinvenuto già nelle leggi riguardanti lo status dei cittadini delle
colonie italiane approvate tra il 1933 ed il 1939. Di tale ascendenza si fece
vanto la stessa Dichiarazione del Partito nazionale fascista del 25 luglio del
1938, la quale sottolineò che “con la creazione dell’Impero, la razza italiana
è venuta in contatto con altre razze; deve quindi guardarsi da ogni ibridismo
e contaminazione. Leggi «razziste» in tale senso sono già state elaborate e
applicate con fascistica energia nei territori dell’impero”2.
L’ideologia dell’epopea coloniale mostra, però, tutta la propria intrinseca debolezza ove si guardi al contenuto delle norme ed alla loro portata
precettiva. Tale legislazione, infatti, soprattutto la più risalente, non pare
in realtà improntata ad una logica esplicitamente razzista, ovvero fondata
essenzialmente sulla discriminazione etnica. Essa appare, piuttosto, ancorata alla differenziazione dello status dei cittadini delle colonie che, lungi
dall’essere equiparato alla cittadinanza italiana, veniva disciplinato ad hoc
per ciascuna colonia e con differenti gradazioni di integrazione nell’ordinamento giuridico italiano3.
2
Dichiarazione del Partito nazionale fascista (25 luglio 1938), in R. de Felice, Storia degli
ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1988, p. 557.
3
Con ciò non si intende naturalmente negare che, anche se non esplicitamente, la politica
coloniale ed il nazionalismo moderno, come autorevolmente sottolineato da K.D. Bracher, Il
Novecento. Secolo delle ideologie, Bari 1999, p. 36, poggiavano in fondo su un’idea di progresso rudimentalmente razzista che classiicava i popoli esaltandone le differenze culturali,
politiche ed anche isiche.
Paolo Caretti
75
Alcuni esempi paiono rendere ragione di quanto si afferma. Per quanto
riguarda i cittadini delle isole italiane dell’Egeo, il r.d.l. 19 ottobre 1933 – XI,
n. 1379 (convertito in legge 4 gennaio 1934 – XII, n. 31) previde, a fronte
dell’esonero dall’obbligo di prestare il servizio militare, il mancato riconoscimento dei diritti politici. Ad essi venne, tuttavia, riconosciuta la cittadinanza
italiana e, conseguentemente, lo “statuto personale”, ovvero, il godimento dei
diritti civili riconosciuti ai cittadini italiani. Inoltre, essi potevano chiedere il
riconoscimento della cittadinanza piena, incluso l’obbligo del servizio militare
ed il godimento dei diritti politici, il quale veniva concesso con Decreto reale
sentito il Governatore delle colonie.
Tale situazione di quasi completa equiparazione dei cittadini dell’Egeo non
venne, invece, realizzata con riguardo ai cittadini libici. In ordine, infatti, allo
statuto dei cittadini della Libia, l’“ordinamento organico per l’amministrazione
della Libia” introdusse alcune norme relative alla cittadinanza (artt. 33 e ss.)
che dettavano uno statuto personale speciale. A differenza di quanto stabilito
nei confronti dei cittadini delle isole egee, quindi, non fu operato un rinvio
alle norme in materia di libertà e diritti civili previste per i cittadini italiani
– nella legislazione dell’epoca denominati “cittadini metropolitani” – ma
un elenco di diritti politici e civili dei libici, che si sovrappose al pregresso
statuto personale e successorio se di religione musulmana o solo personale
se di religione israelitica4. La disciplina dello statuto personale dei cittadini
italiani libici venne, poi, arricchita con l’emanazione del r.d.l. 9 gennaio
1939 – XVII, n. 70, recante “Aggregazione delle quattro provincie libiche al
territorio del Regno d’Italia e concessione ai libici musulmani di una cittadinanza italiana speciale con statuto personale e successorio musulmano”.
Tale legge, che apparentemente ampliava i diritti di alcuni cittadini italiani
libici, recò pionieristicamente i segni dell’ideologia razziale del regime, che
stava nel frattempo emergendo anche nella legislazione relativa ai cittadini
italiani “metropolitani”. Da un lato, lo speciale statuto riconosciuto ai cittadini italiani libici musulmani escluse apertamente i cittadini italiani libici
israeliti sulla base dell’appartenenza etnico-religiosa, dall’altro, le libertà ed
i diritti che si aggiunsero all’elenco dell’art. 40 del r.d.l. 3 dicembre 1934, n.
4
L’articolo 40 del r.d.l. 3 dicembre 1934, n. 2012 (convertito in legge 11 aprile 1935, n.
675) riconosce ai cittadini italiani libici, come individuati dall’art. 34 nei residenti in Libia
che non siano cittadini “metropolitani” o stranieri: “1) garanzia della libertà individuale, la
quale potrà essere limitata solo nei casi e con le forme stabilite dalla legge; 2) inviolabilità
del domicilio, nel quale l’autorità potrà accedere soltanto in forza della legge e con le forme
prescritte in armonia con le consuetudini locali; 3) inviolabilità della proprietà, salvo i casi
di espropriazione, per cause di pubblica utilità e previo pagamento della giusta indennità e
salve le altre limitazioni stabilite dalle leggi penali e negli ordinamenti di polizia; 4) diritto
di concorrere alle cariche civili e militari nelle colonie, in base ai relativi ordinamenti, che
determineranno anche i necessari requisiti e le modalità di concorso; 5) esercizio professionale
in colonia, a condizione del possesso dei necessari titoli”.
76
Il “corpus” delle leggi razziali
2012 riguardarono l’accesso alla carriera militare ed alle cariche politiche e
sindacali-corporative locali e furono, pertanto, chiaramente volti ad aumentare il potere politico della popolazione libica musulmana nei confronti degli
ebrei5. E ciò probabilmente in vista dell’imminente progetto di oppressione del
popolo ebraico che, come in territorio italiano, si sarebbe di li a poco attuato
anche nelle colonie.
Ma è solo con lo statuto dei cittadini delle colonie africane (Etiopia, Eritrea
e Somalia), uniicate nell’Africa Orientale Italiana con il r.d.l. 1 giugno 1936,
n. 1019 (che ne disciplinò l’ordinamento e l’amministrazione), che inizia
ad emergere l’anima di più spiccato stampo razziale di tutta la legislazione
coloniale6. Emblematica al riguardo appare la netta distinzione tra sudditi e
cittadini, che, in ultima analisi, si fondava sulla volontà di evitare contatti tra
persone di razza ariana e persone di razza africana e che di lì a poco sarebbe
stata estesa a tutte le colonie. E così la “vocazione” razziale della legislazione coloniale emerse, in via esempliicativa, dall’art. 30 del r.d.l. n. 1019 cit.,
che stabilì che “il nato nel territorio dell’A.O.I. da genitori ignoti, quando i
caratteri somatici ed altri eventuali indizi facciano fondatamente ritenere che
entrambi i genitori siano di razza bianca, è dichiarato cittadino italiano”.
Il primo provvedimento autenticamente e sistematicamente segregazionista
fu, però, il r.d.l. 19 aprile 1937 n. 880 relativo alle relazioni di indole coniugale tra cittadini e sudditi, poi convertito in legge il 30 dicembre 1937. Esso
era costituito da un articolo unico che puniva con la reclusione da un anno a
cinque anni il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle colonie
avesse tenuto relazioni “di indole coniugale” con persona suddita dell’Africa
orientale italiana o con persona straniera “appartenente a popolazione che
abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei
sudditi dell’Africa orientale italiana”.
A questo provvedimento fecero seguito altre, innumerevoli, norme restrittive della possibilità di contrarre matrimoni misti (r.d.l. 17 novembre 1938, v.
infra, sulla tutela della razza italiana) e di instaurare ogni altra relazione tra
nativi e italiani. La legge n. 1004 del 29 giugno 1939, in particolare, istituì il
5
L’articolo 6 del r.d.l. n. 70 del 1939, in particolare, prevedeva il riconoscimento, a coloro
che avessero ottenuto la speciale cittadinanza istituita dal decreto, dei seguenti diritti civili e
politici: “1) diritto di portare le armi secondo le norme per la coscrizione militare che verrà
all’uopo stabilita; 2) diritto di essere iscritti all’Associazione musulmana del Littorio alla
diretta dipendenza del Partito Nazionale Fascista; 3) diritto di accedere alla carriera militare
nei reparti libici con le limitazioni e le modalità che il regio Governo stabilirà con apposite
norme; 4) diritto di esercitare la carica di podestà nei municipi composti di popolazione
libica e quella di consultore nei municipi a popolazione mista; 5) diritto di disimpegnare
funzioni direttive nelle organizzazioni sindacali di cui all’art. 3 ed essere chiamati a far parte
del Comitato corporativo della Libia e dei Consigli provinciali dell’economia corporativa”.
6
L. Goglia, Note sul razzismo coloniale fascista, in Storia contemporanea, XIX, 1988,
pp. 1223 e ss.
Paolo Caretti
77
reato di lesione del prestigio della razza e conferì ad esso un ambito di applicazione oggettivo e soggettivo estremamente ampio. Ben al di là della sfera
dei rapporti sessuali, era considerato reato il fatto che un italiano lavorasse
per un indigeno o frequentasse un locale riservato ai neri7.
Stupefacenti se osservate con le lenti del ventunesimo secolo appaiono, poi,
le norme relative ai “meticci” di cui alla l. 13 maggio 1940 – XVIII, n. 822.
In particolare, le deinizioni recate dall’art. 1 testimoniano l’emersione, anche
nei testi normativi, dell’ideologia razzista del colonialismo italiano, prima, e
del regime fascista, poi: “a) per cittadino s’intende il cittadino italiano metropolitano; b) per nativo s’intende colui al quale è attribuita la cittadinanza
speciale di cui all’art. 4 del r.d.l. 9 gennaio 1939 – XVII, n. 70, il cittadino
italiano libico ed il suddito dell’A.O.I.; c) al nativo s’intende assimilato lo
straniero appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti
religiosi, giuridici e sociali simili a quelli dei nativi dell’Africa italiana; d) per
meticcio s’intende il nato da genitore cittadino e da genitore nativo dell’Africa italiana od assimilato. È considerato meticcio: il nato nei territori dello
Stato da genitori ignoti, quando le caratteristiche somatiche od altri elementi
facciano fondatamente ritenere che uno dei genitori sia nativo dell’Africa
italiana od assimilato; il nato da genitore cittadino, quando le caratteristiche
somatiche o altri elementi facciano fondatamente ritenere che l’altro genitore
sia nativo dell’Africa italiana od assimilato; il nato da genitore nativo quando
le caratteristiche somatiche od altri elementi facciano fondatamente ritenere
che l’altro genitore non sia nativo dell’Africa italiana od assimilato”. Alla
condizione di meticcio, che veniva dichiarata con provvedimento dell’autorità
giudiziaria, conseguiva l’equiparazione al nativo dell’A.O.I. e l’impossibilità
di essere riconosciuto da un genitore cittadino, di portarne il cognome, di
riceverne il sostentamento, di frequentare istituti, scuole, collegi, pensionati
ed internati per nazionali, e di essere adottati8.
3. Il corpus della legislazione razziale dal 1938 al 1945 e la sua attuazione in via amministrativa
Come altrettanto noto, fu la legislazione del periodo 1938-1945 ad introdurre per la prima volta nell’ordinamento italiano norme espressamente
discriminatorie nei confronti degli stranieri e degli italiani qualiicati “di
razza ebraica”. Se si guarda al corpus della legislazione razziale adoperando
le categorie tradizionalmente utilizzate dagli studiosi delle fonti del diritto, ci
7
Cfr. E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari 2003, pp. 37 e ss.
Sulla nascita dell’ideologia razzista in Italia e sulla sua evoluzione nei confronti dei
meticci, cfr. M. A. Matard Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Bologna
2008, pp. 64 e ss.
8
78
Il “corpus” delle leggi razziali
si avvede che in tale articolato complesso normativo sembrano distinguibili
due grandi categorie di disposizioni: quelle inerenti la disciplina delle libertà
e dei diritti civili9 e quelle di carattere organizzativo10. È il caso di rilevare, in
via del tutto preliminare e approssimativa, che tra le due categorie esiste uno
stretto nesso funzionale. Come, infatti, apparirà più chiaro alla luce della disamina contenuta nei paragrai che seguono, le norme c.d. “di organizzazione” si
presentano in molti casi come la traduzione amministrativo-burocratica delle
condizioni necessarie per rendere concreta la pratica delle previsioni generali
9
A questa prima categoria possono essere ascritti, in particolare: il r.d.l. n. 1381 del 7
settembre 1938, Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, poi conluito nel r.d.l. n.
1728 del 1938; il r.d.l. n. 1390 del 5 settembre 1938, Provvedimenti per la difesa della razza
nella scuola fascista, poi conluito nel r.d.l. n. 1779 del 15 novembre 1938, Integrazione e
coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola
italiana; il r.d.l. n. 1728 del 17 novembre 1938, Provvedimenti per la difesa della razza italiana; il r.d.l. n. 2111 del 22 dicembre 1938, Disposizioni relative al collocamento in congedo
assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze armate dello Stato
di razza ebraica; il r.d.l. n. 126 del 9 febbraio 1939, Norme di attuazione ed integrazione delle
disposizioni di cui all’art. 10 del r. decreto-legge 17 novembre 1938 – XVII, n. 1728 relative
ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani
di razza ebraica, il quale contiene anche norme organizzative (artt. 11 e 23); la legge n. 1054
del 29 giugno 1939, Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza
ebraica; la legge n. 1055 del 13 luglio 1939, Disposizioni in materia testamentaria nonché
sulla disciplina dei cognomi, nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica; la legge n.
1403 del 28 settembre 1940, Abrogazione del contributo statale a favore degli asili infantili
israelitici contemplati dalla legge 30 luglio 1896, n. 343; la legge n. 1459 del 28 settembre
1940, Integrazioni alla legge 13 luglio 1939 – XVII, n. 1055, contenente disposizioni in materia
testamentaria, nonché sulla disciplina dei cognomi, nei confronti degli appartenenti alla razza
ebraica; la legge n. 517 del 19 aprile 1942, Esclusione degli elementi ebraici dal campo dello
spettacolo; la legge n. 1420 del 9 ottobre 1942, Limitazioni di capacità degli appartenenti
alla razza ebraica residenti in Libia; il decreto legislativo del Duce n. 2 del 4 gennaio 1944,
Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica.
10
Alla categoria della legislazione organizzativa che introduce istituti ed organi deputati
all’applicazione delle leggi razziali in senso stretto sono riconducibili, invece: il r.d. n. 1531
del 5 settembre 1938, Trasformazione dell’Uficio centrale demograico in Direzione generale per la demograia e la razza”; il r.d.l. n. 1539 del 5 settembre 1938, Istituzione, presso il
Ministero dell’interno, del Consiglio superiore per la demograia e la razza; il r.d.l. n. 1630
del 23 settembre 1938, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica”; il r.d.
n. 2154 del 21 novembre 1938, Modiicazioni allo statuto del Partito Nazionale Fascista”;
gli articoli 11 e 23 del r.d.l. n. 126 del 9 febbraio 1939, che istituiscono l’”Ente di gestione e
liquidazione immobiliare” e le Commissioni provinciali per la risoluzione dei ricorsi contro
i provvedimenti dell’Ente digestione e liquidazione; il r.d. n. 665 del 27 marzo 1939, Approvazione dello statuto dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare; la legge n. 1056 del
13 luglio 1939, Variazioni al ruolo organico del personale di gruppo A dell’Amministrazione
civile del Ministero dell’interno; l’art. 10 della legge n. 1420 del 9 ottobre 1942, che istituiva
l’”Ente libico di gestione e liquidazione immobiliare”; il decreto legislativo del Duce n. 109
del 31 marzo 1944, Nuovo statuto e regolamento dell’Ente di gestione e Liquidazione Immobiliare; il decreto legislativo del Duce n. 171 del 18 aprile 1944, Istituzione dell’Ispettorato
Generale per la razza; decreto legislativo del Duce n. 47 del 28 febbraio 1945 di approvazione
del “regolamento amministrativo dell’Ispettorato Generale per la razza”.
Paolo Caretti
79
ed astratte che limitavano i diritti e le libertà dei soggetti discriminati. Peraltro,
non è, forse, privo di qualche utilità notare che la medesima impressione si
ricava anche dall’analisi delle fonti secondarie, ovvero dai decreti ministeriali che danno attuazione in via amministrativa alle norme di organizzazione,
articolando le strutture pubbliche interessate dalle attribuzioni di competenza
o dettagliando i trattamenti di discriminatori previsti dalla legge11.
3.1(segue): La disciplina delle libertà e dei diritti civili
Come si diceva, a partire dal 1938 il regime fascista iniziò a limitare le
libertà degli stranieri e dei cittadini italiani qualiicati “di razza ebraica”.
Atti propedeutici alla predisposizione della legislazione razziale del settembre 1938 furono, dal punto di vista politico, la pubblicazione del “manifesto
sulla razza” del 16 luglio 193812 e, dal punto di vista amministrativo, il censimento degli ebrei italiani effettuato il 22 agosto dello stesso anno, gestito
dalla “Demorazza”13.
È singolare notare dal punto della costruzione delle norme come l’appartenenza alla “razza” ebraica venne deinita non attraverso la positivizzazione
del concetto di razza ma mediante un “sistema” di presunzioni legali aventi
carattere assoluto, in quanto insuscettibili di essere superate attraverso la prova
contraria. L’art. 8 del r.d.l. 17 novembre 1938 – XVI, n. 1728 stabilì, infatti, che
“a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica,
anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato
di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e
l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che
è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità
italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica,
o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in
qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza
11
Si vedano, ad esempio: d.m. 30 luglio 1940, Determinazione dei contributi a carico dei
professionisti di razza ebraica; d.m. n. 136 del 16 aprile 1944, Trasformazione della direzione
generale per la demograia e la razza in direzione generale per la demograia; d.m. n. 685
del 15 settembre 1944, Adeguamento del trattamento tributario a favore di tutti i beni gestiti
dall’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (E.G.E.L.I.).
12
Su cui vedi infra, nota 13.
13
Il censimento fu avviato l’11 agosto con nota del sottosegretario agli interni, Buffarini
Guidi, recante una circolare rivolta ai prefetti su cui era apposta la dizione “priorità assoluta”,
che indicava nella rilevazione degli ebrei residenti nelle province un’operazione da compiersi
con massima riservatezza, celerità e precisione. Esso portò all’accertamento della presenza nel
Regno di 58.412 residenti nati da almeno un genitore di razza ebraica, di cui 48.032 italiani e
10.380 stranieri residenti da oltre sei mesi. Cfr. M. A. Matard Bonucci, L’Italia fascista, cit.,
pp. 25 e ss. e M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, vicende identità persecuzione, Torino
2007, p. 160.
80
Il “corpus” delle leggi razziali
ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di
razza ebraica, che, alla data del 1 ottobre 1938-XVI, apparteneva a religioni
diversa da quella ebraica”. Da tale “sistema” di presunzioni legali emergeva
la forte incidenza sulla determinazione dell’appartenenza “razziale” sia del
corredo genetico della persona sia, seppur in seconda istanza, della professione
religiosa e della manifestazione di appartenenza culturale. Anche la nazionalità
diveniva un criterio determinante: una persona iglia di genitori di cui uno solo
appartenente alla “razza ebraica” era in ogni caso qualiicata ebrea se l’altro
genitore fosse stato straniero, mentre poteva non esserlo se l’altro genitore
fosse stato italiano. In altri termini, nel momento genetico delle discriminazioni razziali la razza aveva una dimensione prevalentemente biologica e non
storico-culturale-linguistica14. La deinizione normativa di appartenente alla
razza ebraica venne, poi, successivamente arricchita ad opera di disposizioni
14
F. Margiotta Broglio, Intervento, in A sessant’anni dalle leggi razziali, in Annali della
Pubblica Istruzione, 1998, n. 5-6, p. 21. La giustiicazione “scientiico-biologica” dell’originaria concezione razzista del regime fascista, peraltro, come noto, si incarnò nel già citato
“Manifesto della razza”. Pubblicato una prima volta in forma anonima sul Giornale d’Italia
il 15 luglio 1938 con il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza” ed uscito uficialmente
il 26 luglio sulla Gazzetta del popolo di Torino sotto il titolo “la razza italiana”, ottenne la
irma di 180 “scienziati fascisti” ed altri intellettuali del mondo accademico. Esso dichiarava
all’art. 3 che «Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre
considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione
stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai
Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa,
ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse
di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza
abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, inine, che
persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze»; all’art. 7 che «È tempo che gli
Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che inora ha fatto il Regime in Italia
è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai
concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista
puramente biologico, senza intenzioni ilosoiche o religiose. La concezione del razzismo in
Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire
però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani
e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello isico
e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca
completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale
di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità» ed, inine, all’art. 9 che «Gli
ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati
sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba
della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo
di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione
che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei,
diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani» (pubblicato,
poi, in La difesa della razza, direttore Telesio Interlandi, anno I, numero 1, 5 agosto 1938,
p. 2). Sul ruolo degli scienziati nell’avallo delle teorie razziste, cfr. M. A. Matard Bonucci,
L’Italia fascista, cit., pp. 67 e ss.
Paolo Caretti
81
interpretative ministeriali che speciicarono, in particolar modo, i casi di igli
di “unioni miste”15.
L’appartenenza alla “razza ebraica” doveva essere dichiarata pubblicamente
sui registri dello stato civile ed annotata in tutti gli atti pubblici ed era, come
noto, fonte di numerose restrizioni delle libertà personali.
I primi provvedimenti annoverati tra le “leggi razziali” italiane, ovvero
quelli approvati nel settembre 1938, furono volti, in particolare, ad impedire
l’ingresso nel territorio nazionale di stranieri ebrei e ad espellere gli ebrei dalla
scuola italiana, sia in quanto insegnanti, sia in quanto studenti, con l’unica
eccezione degli studenti universitari già iscritti a istituti di istruzione superiore
nei passati anni accademici.
Il r.d.l. 7 settembre 1938, n. 1381, che non venne mai convertito in legge
ma conluì nel r.d.l. n. 1728 del 1938, dando luogo ad una sorta di reiterazione
ante litteram di decreto-legge non convertito, stabilì il divieto di issare stabile dimora nei territori del Regno, della Libia e nei possedimenti dell’Egeo
agli “stranieri ebrei”; ai ini di tale decreto si consideravano tali solo i igli
di genitori entrambi di razza ebraica. Il decreto assumeva, inoltre, eficacia
retroattiva ino al 1919, prevedendo agli artt. 3 e 4 che la cittadinanza concessa
ad ebrei stranieri dopo il 1 gennaio 1919 dovesse intendersi revocata e che gli
“stranieri ebrei” che avessero iniziato il proprio soggiorno in Italia, in Libia
o nell’Egeo dopo tale data sarebbero stati espulsi se non avessero lasciato tali
territori entro sei mesi16. In realtà, alla luce dell’art. 3, che prevedeva la revoca
della cittadinanza già concessa, anche a distanza di venti anni, si comprende
che il provvedimento non era rivolto ai soli “stranieri ebrei”, bensì a tutti gli
ebrei, fatta eccezione unicamente per i igli di un genitore non ebreo o per gli
ebrei residenti nel Regno d’Italia da oltre vent’anni.
Il r.d.l. 5 settembre 1938 – XVI, n. 1390 introdusse, poi, le norme sulla
“difesa della razza nella scuola fascista” e stabilì che in tutte le scuole statali e
non, ai cui studi fosse riconosciuto effetto legale, non potessero essere ammesse
15
Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., § 4.1, pp. 168 e ss.
È appena il caso di ricordare che il 1919, oltre ad essere l’anno della sottoscrizione del
trattato di Versailles a seguito del primo conlitto mondiale, fu, come altrettanto noto, anche
l’anno di inizio di una forte immigrazione degli ebrei europei in Palestina. E ciò nonostante il
sostanziale fallimento degli accordi del 3 gennaio 1919 siglati dall’Emiro Faysal (iglio dello
Sceriffo della Mecca e futuro Re del Hijaz), da al-Husayn ibn Ali e da Chaim Weizmann (in
seguito presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale); accordi con cui il primo aveva
accettato che la Dichiarazione Balfour costituisse una delle basi di discussione per il futuro
dell’area alla ine del dominio britannico (ci si riferisce alla lettera del Ministro degli esteri
inglese, Arthur James Balfour, del 2 novembre 1917 che mostrava l’apprezzamento da parte
della corona Britannica per la «costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo
ebraico» e dichiarava che la stessa si sarebbe adoperata «per facilitare il raggiungimento di
questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei
nelle altre nazioni»).
16
82
Il “corpus” delle leggi razziali
persone di razza ebraica anche se già inserite in graduatorie concorsuali. Gli
insegnanti di ruolo e tutto il personale scolastico furono sospesi dal servizio
ed i liberi docenti sospesi dall’esercizio, così come i membri delle Accademie,
degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti. Parallelamente,
anche agli studenti ed agli alunni di razza ebraica venne interdetta l’iscrizione
negli istituti scolastici di qualsiasi ordine e grado i cui studi avessero valore
legale. L’unica eccezione prevista era quella per gli studenti universitari già
iscritti “ad istituti di istruzione superiore nei passati anni accademici” (art.
5). L’appartenenza alla razza ebraica era determinata dall’essere iglio di genitori entrambi di razza ebraica. Conseguentemente, con il r.d.l. 23 settembre
1938 – XVI, n. 1630, vennero istituite scuole elementari per fanciulli di razza
ebraica a spese dello Stato nelle località in cui il numero degli alunni non fosse
inferiore alle dieci unità. In tali scuole gli insegnanti potevano essere di razza
ebraica. Venne, poi, autorizzata l’apertura da parte delle comunità israelitiche
di scuole elementari con valore legale. I programmi di studio erano gli stessi
previsti per le scuole statali ordinarie, fatta eccezione per l’insegnamento della
religione cattolica, mentre i libri di testo di Stato avrebbero subito “opportuni
adattamenti, approvati dal Ministero dell’educazione nazionale” (art. 3).
Le norme sulla scuola vennero, poi, trasfuse in un testo unico di integrazione e coordinamento ad opera del r.d.l. 15 novembre 1938 – XVII, n. 1779.
In particolare, venne aggiunto il divieto di utilizzare nelle scuole frequentate
da alunni italiani libri di testo di autori di razza ebraica, anche come coautori,
curatori e correttori e venne sancita la decadenza dall’abilitazione alla libera
docenza per i docenti di razza ebraica.
Nel novembre del 1938 furono emanate nuove disposizioni con il r.d.l.
17 novembre 1938 – XVII, n. 1728, contenente “provvedimenti per la difesa
della razza italiana”, che introdusse la disciplina dei matrimoni tra persone
appartenenti alla razza “ariana” e non e tra stranieri e italiani e riprodusse,
con integrazioni, la disciplina sugli stranieri ebrei.
Venne introdotto il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di razza
“ariana” e persone appartenenti ad altre razze. Tale divieto fu sanzionato con
la nullità del matrimonio e con pene a carico dell’uficiale dello stato civile
che al momento delle pubblicazioni non avesse accertato la razza e lo stato
di cittadinanza degli sposi o che avesse provveduto alle pubblicazioni o alla
celebrazione del matrimonio tra un “ariano” ed una persona di altra razza.
Nel caso di matrimonio religioso fu vietata la trascrizione dello stesso nei
registri dello stato civile ed il ministro di culto che avesse trasgredito tale
divieto avrebbe subito la condanna al pagamento di un’ammenda. Per quanto
riguarda i matrimoni tra cittadini italiani e stranieri, essi non furono vietati ma
subordinati al preventivo consenso del Ministro dell’interno, a pena di sanzione penale dell’arresto ino a tre mesi e dell’ammenda ino a lire diecimila. Il
matrimonio con il cittadino straniero fu, invece, interdetto ai dipendenti delle
Amministrazioni civili e militari dello Stato, delle Organizzazioni del Partito
Paolo Caretti
83
Nazionale Fascista o da esso controllate, delle Amministrazioni delle Province,
dei Comuni, degli Enti parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali, con la previsione della sanzione aggiuntiva della perdita dell’impiego.
Oltre alle restrizioni relative ai matrimoni, il r.d.l. da ultimo citato, dopo
aver introdotto una nuova e più ampia deinizione di “appartenente alla razza
ebraica”, stabilì restrizioni personali nei confronti degli stessi ed una disciplina
speciale fortemente discriminatoria.
L’articolo 10, in particolare, oltre ad escludere gli ebrei dall’espletamento
del servizio militare, vietò loro di esercitare l’uficio di tutore o curatore di
minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica e limitò fortemente i
loro diritti di proprietà immobiliare e di esercizio di impresa17.
Come corollario al divieto di esercizio dell’uficio di tutore di minori appartenenti a razza diversa da quella ebraica, l’art. 11 stabilì che il genitore di
razza ebraica potesse essere privato della patria potestà sui igli di religione
diversa da quella ebraica, qualora egli avesse impartito agli stessi un’educazione non corrispondente alla loro religione o ai ini nazionali. Se si pone
mente al fatto che la stessa disciplina ammetteva la possibilità che un genitore
di razza ebraica avesse un iglio non appartenente alla razza ebraica, e ciò nel
caso in cui l’altro genitore fosse stato italiano ed il iglio fosse stato educato
secondo una religione diversa da quella ebraica, si comprende agevolmente
quanto ampio fosse l’ambito di applicabilità della norma in caso di contrasti
fra i coniugi o nel caso di decesso del coniuge non ebreo.
Le disposizioni successive (artt. 12 e 13) furono, invece, adottate per evitare
che persone di razza ebraica potessero rivestire un ruolo sociale di supremazia
nei confronti di italiani: fu vietato agli ebrei di avere alle proprie dipendenze,
in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. La trasgressione a tale
divieto fu sanzionata con un’ammenda da lire mille a lire cinquemila. A loro
volta, gli ebrei, come non potevano contrarre matrimonio con i dipendenti
delle amministrazioni statali e delle altre istituzioni di diritto pubblico, così
17
Il testo dell’art. 10 del r.d.l. n. 1728 del 1938 disponeva che «i cittadini italiani di razza
ebraica non possono: a) prestare servizio militare in pace e in guerra; b) esercitare l’uficio di
tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica; c) essere proprietari
o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione, ai sensi e
con le norme dell’art. 1 del R. decreto-legge 18 novembre 1929-VIII, n. 2488, e di aziende di
qualunque natura che impieghino cento o più persone, né avere di dette aziende la direzione
né assumervi, comunque, l’uficio di amministratore o di sindaco; d) essere proprietari di
terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari
di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. Per i
fabbricati per i quali non esista l’imponibile, esso sarà stabilito sulla base degli accertamenti
eseguiti ai ini dell’applicazione dell’imposta straordinaria sulla proprietà immobiliare di cui
al R. decreto-legge 5 ottobre 1936-XIV, n. 1743. Con decreto Reale, su proposta del Ministro
per le inanze, di concerto coi Ministri per l’interno, per la grazia e giustizia, per le corporazioni e per gli scambi e valute, saranno emanate le norme per l’attuazione delle disposizioni
di cui alle lettere c), d), e)».
84
Il “corpus” delle leggi razziali
non potevano essere, essi stessi, dipendenti delle amministrazioni civili o
militari dello Stato già sopra citate, nonché delle assicurazioni private e delle
banche di interesse nazionale ed, in generale, di tutte quelle imprese private
che avessero qualche legame stabile con istituzioni di diritto pubblico18.
Le norme di cui all’art. 10 ed all’art. 13, lettera h) potevano subire delle
deroghe nei casi tassativi di cui all’art. 14 e su decisione puntuale del ministro
dell’interno, previa istanza di parte. Le eccezioni potevano essere stabilite nei
confronti di appartenenti alla razza ebraica che avessero un passato, personale
o familiare, di meriti militari nelle guerre coloniali o di adesione alla causa
fascista19.
All’art. 17, inine, si ribadì il divieto per gli stranieri ebrei di issare stabile
dimora nel Regno, compresa la Libia ed i territori dell’Egeo, e con gli artt.
23 e ss. si modiicarono le disposizioni di cui al r.d.l. n. 1381 del 7 settembre
1938, emanate nei confronti degli stranieri ebrei, precisando che per coloro
che, obbligati a lasciare i territori del Regno, non avessero ottemperato entro
il 12 marzo 1939 la sanzione penale sarebbe stata dell’arresto ino a tre mesi
o dell’ammenda ino a lire 5000, oltre l’espulsione. Con l’art. 25, poi, vennero
introdotte alcune deroghe all’obbligo di emigrazione: per gli ultra sessantacinquenni e per i coniugati con cittadini italiani.
L’art. 26, inine, istituì un giudice speciale per le questioni attinenti all’applicazione del r.d.l., stabilendo che queste sarebbero state decise, caso per caso,
dal ministro dell’interno, sentiti i ministri eventualmente interessati, previo
parere di una Commissione da lui nominata e che le decisioni così assunte
non sarebbero state soggette ad alcun gravame, né in via amministrativa né
in via giurisdizionale.
Le restrizioni previste dall’art. 10 del r.d.l. 1728 del 1938 si tradussero in
ulteriori norme di attuazione: quelle relative ai limiti della proprietà immo18
L’art. 13 disponeva che «Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti
alla razza ebraica: a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato; b) il Partito Nazionale
Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che ne sono controllate; c) le Amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneicenza e
degli Enti, Istituti ed Aziende, comprese quelle di trasporti in gestione diretta, amministrate o
mantenute col concorso delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di assistenza
e beneicenza o dei loro Consorzi; d) le Amministrazioni delle aziende municipalizzate; e) le
Amministrazioni degli Enti parastatali, comunque costituiti e denominati, delle Opere nazionali,
delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali e, in genere, di tutti gli Enti ed Istituti di diritto
pubblico, anche con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al cui
mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo; f) le Amministrazioni
delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli Enti di cui alla precedente lettera e) o
che attingono ad essi, in modo prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri
ini, nonché delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo, con
la partecipazione dello Stato; g) le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale; h) le
Amministrazioni delle imprese private di assicurazione».
19
Si tratta dell’istituto meglio noto come “provvedimento di discriminazione”, che consentiva ad alcuni ebrei di essere equiparati ai cittadini italiani di razza non ebraica.
Paolo Caretti
85
biliare ebbero seguito con il r.d.l. 9 febbraio 1939 – XVII, n. 126, e quelle
relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di quiescenza
del personale militare delle forze armate dello Stato di razza ebraica con il
r.d.l. 22 dicembre 1938 – XVII, n. 2111.
In particolare, il r.d.l. n. 126 del 1939 disciplinò le modalità di applicazione delle restrizioni alla proprietà immobiliare per gli ebrei, stabilendo che
si dovesse considerare l’intero patrimonio facente capo a ciascuna persona,
compresi i diritti corrispondenti alla nuda proprietà ed all’eniteusi e che i
proprietari dovessero denunciare il proprio patrimonio all’uficio distrettuale
delle imposte di competenza, il quale, in mancanza, avrebbe provveduto d’uficio al relativo accertamento. In alternativa alla devoluzione del patrimonio
eccedente i limiti imposti dall’art. 10 del r.d. 1728 del 1938 all’istituito Ente di
gestione e liquidazione immobiliare, i proprietari, a fronte di un corrispettivo
determinato ai sensi degli artt. 20 e 21, avrebbero potuto donarlo al proprio
iglio o coniuge di razza non ebraica, entro centottanta giorni dall’entrata in
vigore del decreto legge n. 126 del 1939.
Da notare che l’indennizzo per l’espropriazione delle quote di proprietà
immobiliare eccedente i limiti era costituito da certiicati trentennali, che
venivano emessi dall’Ente, che avrebbero fruttato il 4% di interesse annuo e
che sarebbero stati trasferibili solo tra persone appartenenti alla razza ebraica
o a non appartenenti solo per costituzione di dote o per l’adempimento ad
obbligazioni precedenti all’entrata in vigore del decreto. In tali ultime ipotesi,
il certiicato trentennale sarebbe stato sostituito da un diverso titolo obbligazionario emesso dall’Ente.
Per quanto riguarda, poi, la gestione di aziende da parte degli ebrei, il Titolo
II del regio decreto legge diede attuazione alle limitazioni imposte dall’art.
10, lettera c) del r.d.l. n. 1728 del 1938.
Oltre ai diritti di proprietà immobiliare, all’esercizio dell’impresa ed all’impiego nelle amministrazioni pubbliche ed aziende equiparate, nel 1939 furono
precluse ai cittadini di razza ebraica anche l’esercizio delle professioni di notaio
e di giornalista e fu limitato l’esercizio delle professioni di medico-chirurgo,
farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale,
esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico,
agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. In particolare, furono
istituiti albi speciali per gli ebrei c.d. “discriminati” e altri elenchi speciali per
tutti gli altri ebrei20.
20
Le limitazioni sono quelle di cui agli articoli 21 e ss. della legge 29 giugno 1938 – XVII,
n. 1054, ai sensi dei quali:
«Art. 21 – L’esercizio professionale da parte dei cittadini italiani di razza ebraica, iscritti
negli elenchi speciali, è soggetto alle seguenti limitazioni:
a) salvi i casi di comprovata necessità ed urgenza, la professione deve essere esercitata
esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica;
86
Il “corpus” delle leggi razziali
Oltre alle disposizioni legislative che imponevano restrizioni all’attività lavorativa, professionale ed imprenditoriale degli appartenenti alla razza ebraica,
appaiono connotanti la normazione fascista ed il suo “progetto” razziale anche
i puntuali, e meno noti, provvedimenti amministrativi che vietarono agli ebrei
alcune speciiche attività. Si tratta delle numerose interdizioni imposte dalla
direzione di polizia tra il dicembre 1938 ed il dicembre 1942 che spaziavano,
solo a titolo esempliicativo, dal divieto per gli ebrei di essere titolari di agenzie
d’affari, di brevetti, di esercitare il commercio di preziosi, l’arte fotograica, la
professione del mediatore, il mestiere di piazzista tipografo, di impiegare gas
tossici, di effettuare la raccolta di metalli, rottami riiuti, indumenti militari
fuori uso, alla preclusione della concessione di riserve di caccia, di licenza di
pescatore dilettante, del porto d’armi, di allevamento di colombi viaggiatori21.
Il 13 luglio 1939, con la legge n. 1055, vennero, quindi, emanate “disposizioni in materia testamentaria nonché sulla disciplina dei cognomi, nei confronti
degli appartenenti alla razza ebraica” che stabilirono la nullità delle condizioni
testamentarie che subordinavano il conseguimento di un’eredità o di un legato
alla appartenenza del beneicato alla religione israelitica o che privavano questi
dell’eredità o del legato nel caso di abbandono della religione medesima22.
b) la professione di farmacista non può essere esercitata se non presso le farmacie di cui
all’art. 114 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con R. decreto 27 luglio 1934-XII,
n. 1265, qualora l’Ente cui la farmacia appartiene svolga la propria attività istituzionale esclusivamente nei riguardi degli appartenenti alla razza ebraica;
c) ai professionisti di razza ebraica non possono essere conferiti incarichi che importino
funzioni di pubblico uficiale, né può essere consentito l’esercizio di attività per conto di enti
pubblici, fondazioni, associazioni e comitati di cui agli articoli 34 e 37 del Codice civile o in
locali da questi dipendenti. La disposizione di cui alla lettera c) del presente articolo si applica
anche ai cittadini italiani di razza ebraica iscritti negli elenchi aggiunti.
Art. 22 – I cittadini italiani di razza ebraica non possono essere iscritti nei ruoli degli
amministratori giudiziari, e, se già iscritti, ne sono cancellati.
Art. 23 – I cittadini italiani di razza ebraica non possono essere comunque iscritti nei ruoli
dei revisori uficiali dei conti, di cui al R. decreto-legge 24 luglio 1936-XIV, n. 1548, o nei
ruoli dei periti e degli esperti ai termini dell’art. 32 del testo unico delle leggi sui Consigli e
sugli Ufici provinciali delle corporazioni, approvato con Regio decreto 20 settembre 1934XII, n. 2011, e, se vi sono già iscritti, ne sono cancellati.
Art. 24 – I professionisti forensi cittadini italiani di razza ebraica, che siano iscritti negli
albi speciali per l’infortunistica, perdono il diritto a mantenere l’iscrizione negli albi stessi a
decorrere da 180 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Art. 25 – È vietata qualsiasi forma di associazione e collaborazione professionale tra i
professionisti non appartenenti alla razza ebraica e quelli di razza ebraica.
Art. 26 – L’esercizio delle attività professionali vietate dall’art. 21 è punito ai sensi
dell’art. 348 del Codice penale. La trasgressione alle disposizioni di cui all’art. 25 importa
la cancellazione, secondo i casi, dagli albi professionali, dagli elenchi aggiunti, ovvero dagli
elenchi speciali».
21
Per un elencazione più esaustiva e per l’indicazione delle fonti, cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei
nell’Italia fascista, cit., p. 206 e ss.
22
Secondo l’art. 1 della legge «questa disposizione non si applica ai nati da genitori
appartenenti entrambi alla razza ebraica. La predetta nullità ha effetto anche nei riguardi
Paolo Caretti
87
L’art. 2 della legge stabilì, poi, l’obbligo per gli appartenenti alla razza
ebraica, non discriminati, che avessero mutato il proprio cognome in altro
che non rivelasse la loro origine ebraica, di riprendere il proprio cognome
originario mentre gli articoli 3 e 4, al contrario, stabilirono che i non considerati di razza ebraica, igli di padre ebreo e di madre non appartenente alla
razza ebraica, avrebbero potuto assumere il cognome materno e che i cittadini
italiani non ebrei che avessero un cognome tipicamente ebraico avrebbero
potuto ottenere il cambiamento dello stesso.
La legge appena citata venne, poi, integrata ad opera della legge 28 settembre 1940 – XVIII, n. 1459, che introdusse il richiamo alle limitazioni, nelle
previsioni degli articoli 3 e 4, previste dall’art. 158 del r.d. 9 luglio 1939 –
XVII, n. 1238 sull’ordinamento dello stato civile23.
La legge 19 aprile 1942 – XX, n. 517 stabilì, invece, l’esclusione degli
elementi ebrei dal campo dello spettacolo, vietando, oltre all’esercizio da parte
degli appartenenti alla razza ebraica di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo, anche le rappresentazioni, esecuzioni, proiezioni pubbliche e registrazioni
di qualsiasi opera alla quale avessero concorso autori appartenenti alla razza
ebraica, il commercio delle registrazioni stesse, nonché l’utilizzo in qualsiasi
modo di soggetti, sceneggiature, opere letterarie, musicali, scientiiche ed
artistiche di cui fossero autori appartenenti alla razza ebraica o a cui avessero
collaborato, come personale artistico o tecnico appartenenti alla razza ebraica.
Come già si accennava in tema di limitazioni all’esercizio dell’impresa e
delle professioni, molte restrizioni alle libertà nei confronti degli appartenenti
alla razza ebraica vennero attuate attraverso provvedimenti ministeriali e circolari24. Si pensi, ad esempio, alla circolare del Duce del 15 novembre 1938,
esortante i prefetti ad “una intensiicata vigilanza sugli ebrei”, oppure alla
delle successioni aperte prima dell’entrata in vigore della presente legge e per le quali non
sia ancora intervenuta convenzione o sentenza deinitiva in ordine alla decadenza dell’erede
o del legatario».
23
L’art. 158 aveva disposto che «salvo quanto è disposto nell’art. 166 per la rettiica
degli atti di nascita ivi indicati, chiunque vuole cambiare il nome od aggiungere al proprio un
altro nome, ovvero vuole cambiare il cognome perché ridicolo o vergognoso o perché rivela
origine illegittima, deve farne domanda al procuratore generale della corte di appello nella
cui giurisdizione è situato l’uficio dello stato civile dove trovasi l’atto di nascita, al quale la
richiesta si riferisce. Nella domanda, che deve essere corredata dalla copia integrale dell’atto
di nascita dell’interessato, si deve indicare la modiicazione che si vuole apportare al nome o
cognome oppure il nuovo nome o cognome che si intende assumere. In nessun caso possono
essere attribuiti, in via di cambiamento del precedente cognome, ai sensi del comma primo di
questo articolo, cognomi di importanza storica od appartenenti a famiglie illustri o comunque
note sia nel luogo in cui trovasi l’atto di nascita del richiedente, sia nel luogo di sua residenza,
né cognomi che sono denominazioni di località, né casati iscritti nell’elenco uficiale della
nobiltà italiana, predicati, appellativi o cognomi preceduti da particelle nobiliari».
24
Su cui si veda, per un’ampia panoramica, M. Sarfatti, Documenti della legislazione
antiebraica. Le circolari, in La rassegna mensile di Israel, LIV, n. 1-2 (gennaio-agosto 1988),
p. 169 e ss.
88
Il “corpus” delle leggi razziali
circolare del 12 ottobre 1941, rivolta dal ministero dell’interno ai questori,
sull’indicazione della razza ebraica nei lasciapassare per le colonie, oppure
alle circolari del 18 gennaio e 17 aprile 1942, sempre del ministero dell’interno ai questori, sul divieto di ingresso degli ebrei nei territori di Mentone,
Slovenia e Dalmazia25, oppure alla circolare del sottosegretario all’interno
del 17 agosto 1940, recante il divieto di soggiorno nelle principali località
turistiche26, oppure ancora alla circolare del questore di Livorno del 5 giugno
1942 vietante qualsiasi “trasferimento estivo” agli ebrei assoggettati a lavoro
obbligatorio27, oppure, da ultimo, alla nota telefax del 5 dicembre dello stesso
anno del ministro dell’interno, contenente la segnalazione ai prefetti che “in
alcune provincie ebrei vanno prendendo in afitto ville e appartamenti […]
per abitarli o subafittarli” nonché l’invito ad impedire tali “accaparramenti
e speculazioni di locali che devono essere riservati anzitutto agli ariani”28.
In appendice, non può non evidenziarsi che, come anticipato, l’oppressione
nei confronti degli ebrei si fece sentire anche in Libia. Per gli ebrei libici, anzi,
le norme furono ancora più severe.
Per un verso, la deinizione di ebreo fu basata dal legislatore unicamente
sulla professione della religione ebraica. L’art. 3 della legge 9 ottobre 1942,
n. 1420 – XX, dettato in tema di “appartenenza di cittadini italiani libici alla
razza ebraica” dispose, infatti, che “ad ogni effetto di legge è considerato
di razza ebraica il cittadino italiano libico: 1° che alla data del 1° gennaio
1942-XX professasse la religione ebraica, o fosse iscritto ad una comunità
israelitica della Libia, o facesse in qualsiasi modo manifestazioni di ebraismo;
2° che sia nato da genitori o da padre di religione ebraica, salvo che egli non
professi la religione mussulmana da data anteriore al 1° gennaio 1942-XX;
3° che, essendo ignoto il padre, sia nato da madre di religione ebraica, salvo
che egli professi da data anteriore al 1° gennaio 1942-XX la religione mussulmana. Per quanto riguarda l’appartenenza dei cittadini italiani metropolitani
alla razza ebraica, rimane fermo il disposto dell’art. 8 del R. decreto-legge 17
novembre 1938-XVII, n. 1728, concernente provvedimenti per la difesa della
razza italiana, convertito nella legge 5 gennaio 1939-XVII, n. 274”.
Per l’altro, solo a carico degli ebrei libici, oltre alle restrizioni già vigenti
per tutti gli appartenenti alla razza ebraica, fu prevista la possibilità di essere
25
Le circolari in questione sono citate da M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit.,
p. 183.
26
Citata da M. Pansini, Provvedimenti razziali e propaganda antisemita, Fascismo e leggi
razziali in Puglia. Censura, persecuzione antisemita e campi di concentramento (1938-1943),
a cura di V.A. Leuzzi, M. Pansini, F. Terzulli, Bari 1999, p. 38.
27
Riportata da A. Minerbi, La precettazione, in Razza e fascismo. La persecuzione contro
gli ebrei in Toscana (1938-1943), a cura di E. Collotti, Roma 1999, II, p. 123.
28
Citata da S. Caviglia, Un aspetto sconosciuto della persecuzione: l’antisemitismo
“amministrativo” del Ministro dell’Interno, in La rassegna mensile di Israel, LIV, n. 1-2
(gennaio-agosto 1988), p. 271.
Paolo Caretti
89
precettati civilmente a scopo di lavoro in tempo di guerra o in caso di operazioni di polizia, fermo restando il divieto di servizio militare (art. 5).
3.2 (segue): I nuovi enti ed istituti per l’applicazione delle leggi razziali
Secondo la proposta classiicazione della legislazione razziale del periodo
1938–1945, la seconda categoria di norme è costituita dalle disposizioni c.d.
organizzative. Si tratta di regi decreti legge e, nell’ultima fase, di decreti
legislativi del Duce che, al ine di dare attuazione alle norme sostanziali,
istituirono nuovi enti ed istituzioni pubbliche o modiicarono gli statuti e le
funzioni di quelli esistenti.
In primo luogo, con l’introduzione di norme che ancoravano la propria
applicazione all’appartenenza razziale, si impose la necessità che tale appartenenza assumesse una connotazione uficiale e che vi fosse, quindi, un’istituzione pubblica in grado di controllare e custodire tale dato personale; oggi
diremmo “sensibile”. Venne, quindi, trasformato l’uficio centrale demograico
in “Direzione generale per la demograia e la razza”, costituente una delle
ripartizioni organiche del ministero per l’interno, cui furono afidate tutte
le attribuzioni inerenti “allo studio ed all’attuazione dei provvedimenti in
materia di demograia e di quelli attinenti alla razza, salva la competenza
attribuita dalle norme in vigore ad altre Amministrazioni statali” (art. 2, r.d.l.
5 settembre 1938 – XVI, n. 1531). Tale istituto venne, in seguito, trasformato
in “direzione generale per la demograia” con il d.m. 16 aprile 1944, n. 136
e ciò contemporaneamente all’istituzione, con decreto legislativo del Duce 18
aprile 1944, n. 171, dell’“Ispettorato generale per la razza”, posto alle dirette
dipendenze del Duce, cui vennero trasferite tutte le funzioni prima appartenenti
alla direzione generale e riguardanti questioni razziali.
Accanto a tale organo del ministero, con funzioni di attuazione e di studio
dei provvedimenti normativi, venne creato, sempre a supporto del ministero
dell’interno, un organo con funzioni consultive. Ci si riferisce al “Consiglio
superiore per la demograia e la razza” chiamato a dare pareri su questioni di
carattere generale interessanti la demograia e la razza. Oltre a rappresentanti
delle istituzioni competenti in materia, ne facevano parte 14 membri scelti
tra “persone particolarmente versate nei problemi della demograia e della
razza”, nominati con decreto reale, su proposta del ministro dell’interno (r.d.l.
5 settembre 1938 – XVI, n. 1539)29. Con legge 13 luglio 1939, n. 1056, inine,
29
I membri così nominati furono quasi tutti accademici di fama e, soprattutto, scienziati:
Filippo Bottazzi, ordinario di Fisiologia Umana nell’Università di Napoli; Alessandro Ghigi,
ordinario di Zoologia nell’Università di Bologna; Raffaele Corso, ordinario di Etnolologia
nell’Università di Firenze; Vito De Blasi, docente di Ostetricia e ginecologia nell’Università di
Genova; Cesare Frugoni, ordinario di Clinica medica e generale nell’Università di Roma; Livio
Livi, ordinario di Statistica nell’Università di Firenze; Umberto Pierantoni, ordinario di Genetica
90
Il “corpus” delle leggi razziali
venne istituito, nel ruolo generale dell’amministrazione civile del ministero
dell’interno un posto con qualiica “di capo uficio studi per i servizi della
demograia e della razza”. Anche detto organo venne soppresso con il decreto
legislativo del Duce 18 aprile 1944, n. 171, istitutivo dell’Ispettorato generale
per la razza30.
Allo scopo di attuare le norme sulla devoluzione dei beni eccedenti i limiti
di cui all’art. 10 del r.d.l. 1728/1938 e dal r.d.l. n. 126 del 1939, venne istituito
l’Ente di gestione e liquidazione (art. 11, r.d.l. 1728/1938) per l’acquisto, la
gestione e la vendita dei beni eccedenti, il cui statuto fu approvato con il r.d.
27 marzo 1939 – XVII, n. 665. Lo statuto prevedeva, quali organi dell’Ente, il
presidente, nominato con decreto del Duce, la giunta esecutiva, il collegio dei
sindaci nonché il consiglio di amministrazione, composto, oltre che dal presidente, da nove membri nominati con decreto del Duce, ciascuno su proposta di
un ministro, del capo dell’ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del
credito e dalle confederazioni fasciste degli agricoltori e degli industriali. Lo
statuto dell’Ente venne, poi, modiicato con il decreto legislativo del Duce n.
109 del 1944 a seguito delle restrizioni assolute alla proprietà privata imposte
alle persone appartenenti alla razza ebraica. Con legge 24 febbraio 1941, n.
158, inine, l’E.N.G.E.L.I. fu autorizzato a delegare la gestione e la vendita
dei beni immobili di propria competenza ad istituti di credito fondiario. Lo
stesso r.d.l. 1728/1938, poi, all’art. 23 istituì le commissioni provinciali per la
risoluzione dei ricorsi proponibili dai cittadini denunzianti avverso: “a) la determinazione del valore dei beni costituenti la quota eccedente; b) la scelta dei
beni attribuiti alla quota eccedente o avverso la decisione dell’Uficio tecnico
erariale sulla indivisibilità di un immobile; c) la determinazione dell’estimo
o dell’imponibile, ai ini del computo delle quote consentite e di quelle eccedenti”. Tali commissioni furono pensate come veri e propri giudici speciali,
nominate con decreto del ministro per le inanze e composte “1) dal presidente
del Tribunale, o da un magistrato dello stesso Tribunale da lui delegato con
funzioni di presidente; 2) da un ingegnere dell’Uficio tecnico erariale; 3) da
un ingegnere designato dal Sindacato fascista degli ingegneri”, cui potevano
essere aggregati, per singoli casi, anche 2 esperti nominati con determinazione
del presidente. Il giudizio si svolgeva con le forme ordinarie, veniva issata
e biologia delle razze nell’Università di Roma; Giunio Salvi, ordinario di Antropologia umana
nell’Università di Napoli; Sergio Sergi, ordinario di Antropologia nell’Università di Roma;
Francesco Valagussa, docente di Clinica pediatrica nell’Università di Roma; Giovanni Petragnani, direttore generale della Sanità pubblica (alto funzionario cioè del ministero dell’Interno,
da cui all’epoca dipendevano i servizi sanitari); Francesco Savorgnan, Ordinario di Demograia
nell’Università di Roma e Presidente dell’Istituto Centrale di Statistica; Sabato Visco, ordinario
di Fisiologia nell’Università di Roma. Sull’organo cfr. B. Mantelli, Il razzismo come spiegazione
scientiica del mondo, in Il Nuovo Baretti, anno I, n. 2 (maggio-agosto 2003), pp. 28-66.
30
Con il decreto legislativo del Duce, 28 febbraio 1945-XXIII, n. 47, fu approvato il
Regolamento Amministrativo dell’Ispettorato Generale per la Razza.
Paolo Caretti
91
un’udienza di comparizione delle parti che potevano essere rappresentate da
procuratori legali e avvocati. La decisione della Commissione doveva essere
motivata e notiicata al ricorrente ed all’Ente e poteva essere impugnata solo
mediante ricorso per revocazione nel caso di cui all’art. 494, n. 4 c.p.c.
Con legge n. 1024 del 1940 venne istituita, poi, una speciale commissione
con il compito di assistere il ministro dell’interno e di emettere parere vincolante sulle decisioni ministeriale dichiarative della non appartenenza alla
razza ebraica delle persone, anche in difformità dai registri dello stato civile.
Tale commissione funzionava in realtà come un nuovo giudice speciale ed era
composta da magistrati e funzionari ministeriali. Essa svolgeva istruttorie ed
indagini e si esprimeva con parere motivato e segreto.
3.3 (segue): I rapporti tra le codiicazioni civile e penale e le discriminazioni razziali
Una considerazione a parte paiono meritare le norme di discriminazione
razziale contenute nelle codiicazioni dell’età fascista. Nonostante, infatti,
quei sistemi normativi siano stati considerati, anche all’indomani della caduta
del regime, come il prodotto di un’elevata rilessione scientiica frutto di una
coscienza collettiva radicata nel profondo della civiltà giuridica italiana, non
compromessa integralmente dall’ideologia razziale né asservita alla volontà
del Duce ed alle “chimere degli scienziati”31, appare innegabile che proprio
attraverso i codici, per la loro intrinseca vocazione sistematica, la logica razziale inì per permeare di sé l’intero impianto normativo, combinandosi con gli
altri pilastri dell’ideologia fascista, come il nazionalismo ed il confessionismo.
Quanto al codice civile, numerose furono le norme che considerarono
l’elemento razziale a ini discriminatori. Così, ad esempio: l’art. 1, comma
3, in tema di rinvio a leggi speciali in materia di limitazioni della capacità
giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze; l’art. 91, in materia
di rinvio a leggi speciali in materia di matrimoni tra persone appartenenti a
razze diverse; l’art. 155, comma 2 che issò l’obbligo per il tribunale di afidare i igli di razza ariana al coniuge di razza ariana, in caso di separazione
di coniugi, di cui uno di razza non ariana; l’art. 292 recante il divieto, salva
dispensa del Re o di autorità a ciò delegate, di adozione tra cittadini di razza
ariana e persone di razza diversa; l’art. 342, che stabilì la perdita della patria
potestà del genitore di razza non ariana, che avesse igli considerati di razza
ariana e che passasse a nuove nozze con persona di razza pure non ariana;
l’art. 348, ultimo comma, il quale vietò l’afidamento della tutela di persona
di razza ariana a persone di razza diversa; l’art. 404, ultimo comma, che vieP. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un proilo storico 1860-1950, Milano 2000, p. 288.
Per una ricostruzione del dibattito circa il mantenimento o meno delle codiicazioni fasciste,
cfr. la dottrina citata in nota 58.
31
92
Il “corpus” delle leggi razziali
tò l’afiliazione di persona di razza ariana a persone di razza diversa; l’art.
2196, n. 1, che obbligò l’imprenditore esercente un’attività commerciale a
chiedere l’iscrizione all’uficio del registro delle imprese indicando la propria
razza; l’art. 2295, n. 1, il quale stabilì che l’atto costitutivo delle società in
nome collettivo dovesse indicare la razza dei soci; l’art. 2328, n. 1, contente
la medesima previsione per l’atto costitutivo delle società per azioni; nonché
gli artt. 2475, n. 1 e 2518, n. 1, richiedenti l’indicazione della razza dei soci,
rispettivamente, negli atti costitutivi delle società a responsabilità limitata e
delle società cooperative.
Peraltro, a riprova di come il diritto privato avesse ormai maturato, per
effetto della legislazione degli anni trenta, un corpus tendenzialmente stabile
di misure razziali, vale la pena osservare che il discriminatorio complesso
normativo prima descritto emergeva già dal progetto originario del Codice,
commentando il quale Piero Calamandrei ebbe a parlare di “discredito crescente non solo delle codiicazioni, ma della stesse legge intesa come norma
generale e astratta”32.
Con riguardo al codice penale, invece, solo apparentemente colpisce la
circostanza che non si rinvengano norme direttamente discriminatorie del
trattamento criminale ispirate alla razza come elemento biologico. La sorpresa,
infatti, si supera immediatamente tenuto conto dell’impianto complessivo del
Codice Rocco del 1930 e, più in generale, dell’ordinamento penale dell’epoca,
il quale risultava contraddistinto dalla proliferazione delle fattispecie di reato
nella parte speciale del codice, dalla pubblicizzazione degli interessi, dalla
ideologizzazione delle fattispecie criminose e dall’ipertroia della disciplina
extracodicistica. L’amplissima categoria dei delitti contro la personalità dello
Stato33, dal primo punto di vista, la categoria dei delitti contro il sentimento
religioso che riservavano una tutela privilegiata alla religione dello Stato34,
dal secondo, la repressione della critica e del dissenso attraverso la previsione
32
P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, in Rivista di diritto processuale
civile, 1939, pp. 24 e ss.
33
Si pensi ai delitti di attentato, di offesa alla libertà ed all’onore del Capo del Governo
(rispettivamente artt. 280, 281, 282), ai delitti di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e
l’unità dello Stato (art. 241), ai reati di associazione sovversiva (art. 270), o di attentato alla
contro la costituzione dello Stato (art. 283), ai riferimenti agli organi del regime fascista contenuti negli artt. 289 (attentato contro gli organi costituzionali) e 290 (vilipendio alle istituzioni
costituzionali), nonché all’art. 313, il quale prevedeva l’autorizzazione a procedere del Gran
Consiglio del Fascismo per il reato di cui all’art. 290 commesso a suo danno.
34
Si ponga mente ai reati di vilipendio della religione dello Stato (art. 402), di offese alla
religione dello Stato mediante vilipendio di persone (art. 403), di offese alla religione dello
Stato mediante vilipendio di cose (art. 404), di turbamento di funzioni religiose del culto
cattolico (art. 405), i quali componevano insieme il Capo I, Titolo IV del Libro II, signiicativamente intitolato “Dei delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi”. Vale la pena,
solo incidentalmente, di ricordare che l’unica norma a tutela dei culti ammessi era l’art. 406,
il quale richiamava le precedenti fattispecie penali comminando una pena ridotta della metà.
Paolo Caretti
93
di reati di opinione35 e la dilatazione del segreto di Stato36, dal terzo, nonché
– da ultimo – la diffusione delle fattispecie incriminatici antisemite nella
legislazione penale ordinaria37, infatti, crearono un sistema di repressione in
cui, con ogni probabilità, non si avvertì nemmeno l’esigenza di inserire nel
codice norme espressamente discriminatorie nei confronti degli ebrei. I beni
giuridici fondamentali dell’Italia fascista trovavano altrimenti ed aliunde la
propria tutela penale senza che fosse necessario introdurre nel codice reati
propri degli ebrei o trattamenti discriminatori sulla quantiicazione delle pene.
4. La discriminazione razziale nella Repubblica Sociale Italiana
Come noto, l’occupazione tedesca seguita all’annuncio della sottoscrizione
dell’armistizio dell’8 settembre 1943 determinò una svolta nell’assetto politicoistituzionale dell’Italia. In particolare, per quanto qui di più prossimo interesse,
la politica di discriminazione razziale nei confronti degli ebrei venne proseguita,
ed anzi fece un “salto di qualità”, ad opera della Repubblica Sociale Italiana38.
Il 14 novembre del 1943 fu pubblicato il Manifesto di Verona, contenente il
programma politico della Repubblica di Salò. Al settimo punto del programma
si leggeva che “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante
questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Gli ebrei non erano più
cittadini che godevano, fatta eccezione per le norme discriminatorie contenute
nelle leggi razziali, dei diritti garantiti dall’ordinamento ai cittadini italiani.
Essi erano divenuti stranieri, per di più, nemici e, di fatto, completamente
abbandonati dallo Stato Italiano ai Tedeschi39.
35
Si pensi, oltre al più noto reato di diffamazione (art. 595), ai reati di disfattismo politico (art. 265) e disfattismo economico (art. 267), di propaganda ed apologia sovversiva o
antinazionale (art. 272), al delitto di vendita, distribuzione o afissione abusiva di scritti o
disegni (art. 663), nonché alla disciplina dei reati commessi col mezzo della stampa periodica
(art. 57, su cui cfr., per i proili costituzionalistici, P. Caretti, Diritto dell’informazione e della
comunicazione, Bologna 2005, pp. 41-2).
36
Si guardi ai delitti di soppressione, falsiicazione o sottrazione di atti o documenti concernenti la sicurezza dello Stato (art. 255), procacciamento di notizie concernenti la sicurezza
dello Stato (art. 256), rivelazione di segreti di Stato (art. 261), rivelazione di notizie di cui sia
stata vietata la divulgazione (art. 262), utilizzazione dei segreti di Stato (art. 263).
37
In termini generali, sottolinea la residualità con cui il Codice Rocco veniva applicato
rispetto alla legislazione penale extracodicistica, F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale,
Padova 2001, pp. LV-LVI.
38
Secondo l’opinione di Collotti, Razza e fascismo, cit., pp. 126 e ss., l’elemento razzista
dell’ideologia fascista divenne ancor più centrale con la nascita della Repubblica di Salò, di
cui anzi contribuì a fondare la rinnovata identità del fascismo, e ciò anche in virtù del fatto che
le nuove giovanissime reclute che ne fecero parte potevano essere più facilmente attratte dal
mito della romanità e dalla lotta contro il nemico ebreo o straniero, più che dai valori storici del
fascismo originario. Sul punto cfr. diffusamente anche G. Mayda, Ebrei sotto Salò, Milano 1978.
39
Collotti, Razza e fascismo, cit., p. 129.
94
Il “corpus” delle leggi razziali
Con ordinanza di polizia n. 5 del 30 novembre 1943 il ministro per l’interno
Guido Buffarini Guidi comandò a tutti i capi delle Province di dare immediata
esecuzione alla seguente disposizione: “tutti gli ebrei, anche se discriminati,
a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio
nazionale, debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i
loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro,
in attesa di essere coniscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana,
la quale li destinerà a beneicio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree
nemiche. […] Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla
razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di
polizia. […] Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento
provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati”. La formale esclusione degli ultra sessantacinquenni, dei
malati gravi e degli appartenenti a famiglie miste non fu, però, mai rispettata.
Tutti gli ebrei, compresi questi ultimi, furono, infatti, deportati nei campi di
concentramento appositamente creati, da cui, poi, furono prelevati dai tedeschi40.
Inine, nel 1944, con il decreto legislativo del Duce n. 2 del 4 gennaio
1944, si giunse, per tutti coloro che fossero considerati appartenenti alla razza ebraica, compresi i discriminati, alla completa esclusione dalla proprietà
immobiliare e dalla gestione o partecipazione (a qualunque titolo) di qualsiasi
azienda. Fu, altresì, vietato agli ebrei di possedere titoli, crediti, valori e diritti
di compartecipazione di qualsiasi specie e di essere proprietari di beni mobili
di qualsiasi natura. I detentori di beni appartenenti agli ebrei e i loro debitori
erano obbligati a denunciare i propri debiti e le cose custodite al capo della
Provincia competente per territorio, così come anche le istituzioni pubbliche
di qualsiasi genere che dovessero erogare contributi o che detenessero beni
appartenenti ad ebrei ne avrebbero dovuto dare immediata comunicazione
allo stesso.
L’adempimento delle obbligazioni e la restituzione dei beni nei confronti
degli ebrei furono interdetti, con un provvedimento avente forza di legge
ma di fatto equiparabile ad un pignoramento presso terzi. Fu, inoltre, vietata
l’apertura delle cassette di sicurezza locate da istituti di credito a persone
appartenenti alla razza ebraica. A partire dal 30 novembre, poi, divenne nullo
qualsiasi atto di trasferimento di beni, costituzione di diritti reali, e locazione
di beni con pagamento del canone ultrannuale anticipato a favore degli ebrei.
Il capo della Provincia fu, inoltre, abilitato a dichiarare nulle le donazioni avvenute ai sensi dell’art. 6 del r.d.l. n. 126 del 1939 e gli atti di trasferimento di
beni anteriori al 1 dicembre 1943 “qualora, da fondati elementi, le donazioni
od i trasferimenti risultino ittizi e fatti al solo scopo di sottrarre i beni ai
40
Ivi, pp. 138 e ss.
Paolo Caretti
95
provvedimenti razziali”. Il ché ebbe l’effetto di vaniicare, sostanzialmente,
le donazioni che, come visto, secondo il disposto dell’art. 6 del r.d.l. 126 del
1939, potevano essere effettuate proprio allo scopo di sottrarre l’eccedenza
di proprietà immobiliare o aziendale all’espropriazione da parte dell’Ente di
gestione e liquidazione. Il decreto del capo della Provincia venne dichiarato
ricorribile in via amministrativa davanti al ministero dell’interno che, d’intesa
con il ministro delle inanze, avrebbe deciso con provvedimento insindacabile.
Gli artt. 7 ed 8 del decreto legislativo del Duce stabilirono, inoltre, la conisca di tutti i beni denunciati a favore dello Stato.
Secondo quanto disposto dall’art. 8, in particolare, il capo della Provincia
competente avrebbe emesso il decreto di conisca contenente la formula esecutiva
e di immediata eseguibilità, il quale non era ricorribile attraverso opposizione al
rilascio e, comunque, non era soggetto a sospensione cautelare in caso di opposizione. Tale decreto sarebbe stato pubblicato sulla Gazzetta Uficiale, trascritto
alla conservatoria delle ipoteche e trasmesso in copia autentica esecutiva all’Ente
di gestione e liquidazione che era competente per l’esecuzione. L’esecuzione,
quindi, sarebbe avvenuta tramite uficiale giudiziario ma non sarebbe stata preceduta né dalla notiicazione del decreto, né del precetto né da alcun avviso. E
ciò in deroga alle norme del vigente codice di procedura civile.
Anche le cassette di sicurezza sarebbero state aperte attraverso una procedura che non prevedeva la partecipazione dell’interessato coniscato ed il
loro contenuto sarebbe stato coniscato dallo Stato. La sanzione per ogni atto
di occultamento, distruzione o danneggiamento, alienazione o altri negozi
inalizzati alla sottrazione dei beni alla conisca od alla diminuzione del loro
valore fu issata nella reclusione ino ad un anno (ino a sei mesi se commesso
dal proprietario del bene) e della multa da lire 3000 a lire 30.000. Sanzioni
severissime furono poi stabilite nei confronti dei notai o pubblici uficiali che
avessero ricevuto atti in violazione di tali norme, reclusione ino a due anni e
multa ino a 50.000 lire, e per chi avesse effettuato pagamenti o consegna di
beni ad ebrei in violazione del divieto di cui all’art. 10: reclusione ino a tre
anni e multa pari ad un quintuplo del valore delle cose o del denaro consegnato,
in ogni caso, non meno di 10.000 lire.
Dai verbali del Consiglio dei Ministri della R.S.I. risultano, poi, approvati
ulteriori provvedimenti discriminatori la cui pubblicazione, tuttavia, non è
certa. Si tratta del Decreto recante “norme sul sequestro conservativo dei beni
di facile esportazione appartenenti ad elementi di razza ebraica”, approvato
il 24 novembre 1943, e del Decreto per il “sequestro o la messa in liquidazione delle aziende commerciali e industriali appartenenti a persone di razza
ebraica”, approvato nel Consiglio dei Ministri del 16 dicembre 194341.
41
I testi dei verbali sono disponibili on line all’indirizzo http://it.wikisource.org/wiki/
Verbali_del_Consiglio_dei_Ministri_della_Repubblica_Sociale_Italiana_settembre_1943_-_
aprile_1945.
96
Il “corpus” delle leggi razziali
La Repubblica sociale, inine, approvò un progetto di costituzione mai
entrata in vigore, dalle cui norme emergeva, però, chiaramente lo spirito nazionalista e razzista che informava il disegno di fondazione della Repubblica
sociale italiana.
Già all’art. 1 si rinviene un forte richiamo al mito della stirpe italica, anche
se i suoi caratteri identiicativi non fanno riferimento a concetti prettamente razziali. Vi si proclama, infatti, che “la Nazione Italiana è un organismo politico
ed economico nel quale compiutamente si realizza la stirpe con i suoi caratteri
civili, religiosi, linguistici, giuridici, etici e culturali. Ha vita, volontà, e ini
superiori per potenza e durata a quelli degli individui, isolati o raggruppati,
che in ogni momento ne fanno parte”. Inoltre, tra gli scopi della Repubblica
sociale, igurava all’art. 3, punto 1), fu indicato quello della “conquista e
conservazione della libertà dell’Italia nel mondo” al ine di poter assolvere
“la missione civile afidatale da Dio, segnata dai ventisette secoli della sua
storia e vivente nella coscienza nazionale”. Questa formulazione, a quanto
pare, fu il risultato dell’intervento del Duce che volle l’espunzione della parte
della disposizione che recava, dopo il riferimento ai ventisette secoli di storia,
anche le parole “voluta dai suoi profeti, dai suoi martiri, dai suoi eroi, dai suoi
geni” 42. Un capo apposito fu dedicato, poi, alla difesa della stirpe43 mentre
la disciplina della cittadinanza era contenuta negli artt. 89 e 90. La prima di
queste norme prevedeva una riserva di legge in materia di acquisto e perdita
42
Lo si apprende dal testo riportato in G. Negri, S. Simoni, Le Costituzioni inattuate,
Roma 1990.
43
Si trattava del § VI, recante gli artt. dal 71 al 74:
Art. 71 – La Repubblica considera l’incremento demograico come condizione per l’ascesa
della Nazione e per lo sviluppo della sua potenza militare, economica, civile.
Art. 72 – La politica demograica della Repubblica si svolge con tre inalità essenziali:
numero, sanità morale e isica, purità della stirpe.
Art. 73 – Presupposto della politica demograica è la difesa della famiglia, nucleo essenziale
della struttura sociale dello Stato.
La Repubblica la attua proteggendo e consolidando tutti i valori religiosi e morali che
cementano la famiglia, e in particolare:
– col favore accordato al matrimonio, considerato anche quale dovere nazionale e fonte di
diritti, perché esso possa raggiungere tutte le sue alte inalità, prima: la procreazione di prole
sana e numerosa;
– col riconoscimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, disciplinato nel
diritto canonico;
– col divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matrimonio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri;
– con la tutela della maternità;
– con la prestazione di aiuti e assistenza per il sostenimento degli oneri familiari. Speciali
agevolazioni spettano alle famiglie numerose.
Art. 74 – La protezione dell’infanzia e della giovinezza è un’elevata funzione pubblica, che
la Repubblica svolge, anche a mezzo appositi istituti, con l’ingerenza nell’attività educativa
familiare (art. 76), con la protezione della iliazione illegittima e con l’assistenza tutelare dei
minori abbandonati”.
Paolo Caretti
97
della cittadinanza, la quale veniva deinita “titolo d’onore da riconoscersi e
concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana” e, come tale,
interdetta agli “appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore”. La seconda, invece, escludeva il godimento dei diritti politici e limitava il godimento
di quelli civili per i “sudditi di razza non italiana”, ai quali veniva interdetta
anche “ogni attività, culturale ed economica, che presenti un interesse pubblico, anche se svolgentesi nel campo del diritto privato”.
Inine, riferimenti al concetto di razza e stirpe si rinvenivano nell’art. 79,
dove si leggeva che “la scuola si propone la formazione di una cultura del
popolo, inspirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà” e
nell’art. 106, comma 1, ai sensi del quale “la Repubblica protegge con particolare cura la proprietà rurale, di interesse vitale per l’economia nazionale e
per la sanità morale e isica della stirpe”.
5. Il lento ed ambiguo cammino per la “defascistizzazione” normativa:
l’abrogazione delle leggi razziali e la legislazione successiva tra misure
reintegratore e problemi d’integrazione
Contemporaneamente alla realizzazione della “soluzione inale” nell’Italia
del nord, nel Regno del sud iniziava una lenta e faticosa opera di rimozione
delle leggi razziali.
Nei “quarantacinque giorni” le condizioni del Governo Badoglio e la delicata ed incerta situazione in cui si trovava l’Italia all’indomani della caduta
del fascismo, e prima della irma dell’armistizio, costituirono un forte ostacolo
all’abrogazione delle leggi razziali. Ne derivò che in tale periodo le condizioni
degli ebrei italiani non vennero interessate da interventi abrogativi della legislazione razziale. In tale periodo gli unici atti adottati dal governo nel senso di una
mitigazione delle discriminazioni correntemente praticate nei confronti degli
ebrei furono l’arresto del direttore della direzione generale per la demograia
e la razza, Antonio Le Pera, e l’adozione di alcune circolari amministrative
che revocarono le limitazioni che erano state imposte agli appartenenti alla
razza ebraica relativamente al rilascio delle autorizzazioni di polizia, con la
conseguenza dell’abrogazione del divieto di soggiorno in determinate località
turistiche e la restituzione degli apparecchi radio coniscati44.
Fu solo dopo il trasferimento del governo a Brindisi, dopo la firma
dell’armistizio dell’8 settembre, che venne realmente avviato lo studio per
l’abrogazione delle norme razziali e per la reintegrazione degli ebrei nei loro
diritti di cittadini italiani. È questa, infatti, una componente fondamentale di
44
Si tratta della circolare del Ministro dell’interno del 28 agosto 1943 il cui testo è riportato
in R. de Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 272 e ss.
98
Il “corpus” delle leggi razziali
quell’opera di “defascistizzazione” dell’ordinamento che trova le sue prime
e non irrilevanti espressioni proprio nel periodo costituzionale transitorio45.
Il 29 settembre 1943 nelle acque di Malta, sulla nave britannica “Nelson”, il
gen. Eisenhower per gli alleati e il Maresciallo Badoglio per l’Italia sottoscrissero
il c.d. “lungo armistizio”. La condizione 31 dell’armistizio prevedeva che “tutte
le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinione
politica saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate, e le persone detenute
per tali ragioni saranno, secondo gli ordini delle Nazioni Unite, liberate e sciolte
da qualsiasi impedimento legale a cui siano state sottomesse. Il Governo italiano
adempirà a tutte le ulteriori direttive che il Comandante Supremo delle Forze
Alleate potrà dare per l’abrogazione della legislazione fascista e l’eliminazione
di qualsiasi impedimento o proibizione risultante da essa”.
Già il 22 settembre, del resto, Badoglio aveva inviato un telegramma ai
prefetti delle province pugliesi comunicando che era allo studio la redazione
della normativa abrogativa delle disposizioni “limitative dell’esercizio dei
diritti civili e politici dei cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica”,
invitandoli a darne pubblicità46.
Il processo abrogativo così avviato, però, non si concluse ino al gennaio
1944, quando, inalmente, vide la luce il r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25, pubblicato sulla G.U., serie speciale, del 9 febbraio. Con l’approvazione di tale
decreto si giunse, innanzitutto, alla reintegrazione dei cittadini italiani e stranieri dichiarati appartenenti alla razza ebraica nei diritti civili e politici. Per
quanto riguarda, invece, i diritti patrimoniali, che ponevano il problema dei
diritti nel frattempo sorti in capo ai terzi acquirenti dei beni coniscati dall’Ente
di gestione e liquidazione, la soluzione fu rimandata alla pubblicazione di un
secondo decreto (il n. 26 del 20 gennaio 1944), che sarebbe entrato in vigore
dopo la cessazione delle ostilità con la Germania47.
Come conseguenza dell’entrata in vigore del primo decreto di abrogazione,
coloro che a causa della dichiarata appartenenza alla razza ebraica avevano
perso la cittadinanza furono nuovamente riconosciuti quali cittadini italiani a
tutti gli effetti (art. 2, che dichiarò nulli tutti i provvedimenti di revoca della
cittadinanza). Si stabilì, con una formulazione dificilmente inquadrabile negli
schemi della disciplina dell’abrogazione contenuta nell’art. 15 delle “preleggi”,
45
P. Caretti, Forme di governo e diritti di libertà nel periodo costituzionale provvisorio,
in La fondazione della Repubblica. Dalla Costituzione provvisoria all’Assemblea costituente,
a cura di E. Cheli, Bologna 1979, pp. 109 e ss.
46
Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Salerno 1943–1944
cat. 3/16–1, Disposizioni limitative dell’esercizio e reintegrazione dei diritti civili, politici e
patrimoniali dei cittadini di razza ebraica, telegramma 22 settembre 1943, n. 33/a.C. da Badoglio ai prefetti delle province pugliesi, citato in L’abrogazione delle leggi razziali in Italia
(1943–1987). Reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del risorgimento, a
cura e con introd. di M. Toscano, Roma 1988, p. 34.
47
Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali in Italia, cit., p. 42.
Paolo Caretti
99
che ogni riferimento alla razza nelle leggi, nei registri pubblici dovesse ritenersi
inesistente e, anche se non se ne ordinò la cancellazione, fu disposto che negli
estratti essi non dovessero essere riprodotti, salvo provvedimento del giudice o
del procuratore del re, su domanda dell’interessato (art. 3). Coloro che erano stati
dispensati dal servizio nelle pubbliche amministrazioni furono riammessi, d’uficio per quelle locali e statali e su domanda dell’interessato per le altre (art. 4).
Già con il r.d.l. n. 9 del 6 gennaio 1944 era stato disposto e disciplinato il
rientro in servizio di coloro che fossero stati dispensati dal servizio o licenziati
per motivi politici. Tale rientro era previsto a domanda dell’interessato, nel
caso in cui questi possedesse ancora i requisiti necessari, ai sensi delle leggi
e dei regolamenti vigenti e riguardava “gli appartenenti alle Amministrazioni
civili e militari dello Stato, comprese quelle ad ordinamento autonomo, degli
Enti locali, degli Enti parastatali comunque costituiti e denominati, delle
Associazioni sindacali ed Enti collaterali, e in genere degli Enti ed Istituti di
diritto pubblico, sottoposti comunque a tutela o vigilanza dello Stato, nonché
gli appartenenti alle aziende dipendenti da dette Amministrazioni o da detti
Enti o alle aziende private esercenti servizi di pubblico interesse” (art. 1).
Le modalità per la riammissione previste dal decreto da ultimo citato furono
estese anche al rientro degli ebrei in quanto applicabili.
Si cercò, inoltre, di attenuare gli effetti dell’esclusione dagli studi, dai
pubblici concorsi e dalla vita professionale, stabilendo che “agli effetti dei
limiti di età issata o da issarsi in bandi di concorso di ogni genere, per i
concorrenti già colpiti dalle leggi razziali, non viene computato il lasso di
tempo intercorso tra il 5 settembre 1938 e sei mesi dopo l’entrata in vigore
del presente decreto” (art. 5) e che “agli effetti del conseguimento di titoli
di studio in scuole italiane di ogni grado, su richiesta degli interessati e con
provvedimento del Ministro per l’educazione nazionale, gli esami superati in
scuole estere dopo il 5 settembre 1938 e ino a sei mesi dopo la conclusione
della pace, da cittadini italiani già colpiti dalle leggi razziali, verranno considerati validi per le materie che il Ministro per l’educazione nazionale stabilirà
a suo giudizio insindacabile. Il richiedente verrà messo a sostenere, per altre
materie, esami complementari nelle scuole italiane. Ove esistano limiti di età
non verrà computato il lasso di tempo intercorso fra il 5 settembre 1938 e sei
mesi dopo l’entrata in vigore del presente decreto” (art. 6). Benedetto Croce
avrebbe, forse, detto che la legge tentava così, attraverso una sorta di oblio
normativo, di mettere “tra parentesi” – nella storia individuale e collettiva – la
deriva razziale del regime fascista.
Ad ogni modo, l’approvazione del r.d.l. n. 25 del 1944 fu il primo passo
di un lungo e lento cammino verso l’eliminazione delle leggi razziali e verso
l’inevitabilmente parziale attenuazione dei loro effetti sulla vita degli ebrei
italiani sopravvissuti alla stagione della persecuzione fascista.
Dall’estate del ’44 alla ine del ’47, si svolse un’intensa stagione legislativa
favorita dal ritorno a Roma del governo (Bonomi) e dalla riorganizzazione
100
Il “corpus” delle leggi razziali
amministrativa dello Stato. All’indomani della liberazione di Roma s’impose la
restituzione agli ebrei, che versavano in condizioni economiche disastrose, dei
loro beni. Con il d. lgs. lgt. 5 ottobre 1944, n. 252 fu ordinata, inalmente, la
pubblicazione ed entrata in vigore del r.d.l. 20 gennaio 1944, n. 26, contenente
disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani
e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica48.
Ancora, dal luglio del ’44 al giugno del ’45 il Governo Bonomi approvò
numerose altre norme volte a porre rimedio alle conseguenze subite dagli ebrei
a causa dell’applicazione delle leggi razziali. Si tratta, in particolare: del d.lgs.
lgt. 20 luglio 1944, n. 209, per la riammissione dei notai colpiti dalle leggi razziali all’esercizio della professione; del d.lgs.lgt. 10 agosto 1944, n. 195, per la
rettiica dei registri dello stato civile, con il quale si stabilì che “qualora risulti
che atti dello stato civile relativi a persone colpite da leggi razziali sono stati
formati, fra l’8 settembre 1943 e il giorno di liberazione del territorio dall’occupazione nemica, in maniera non conforme al vero, il procuratore del Re può
promuovere la modiicazione degli atti stessi con il procedimento di rettiica”;
del d.lgs.lgt. del 24 agosto 1944, n. 183, che dispose la riammissione in servizio
dei magistrati colpiti dalle leggi razziali; del d.lgs.lgt. 7 settembre 1944, n. 264,
che riformò l’ordinamento universitario vigente, disciplinando le modalità di
riassunzione in servizio dei professori universitari; del d.lgs.lgt. 14 settembre
1944, n. 287, relativo alla riforma della legislazione civile che, in conformità
con il disposto del d.lgs.lgt. n. 9 del 1944, procedette all’abrogazione esplicita
dei ricordati articoli del codice contenenti riferimenti alla razza49; del d.lgs.lgt.
del 19 ottobre 1994, n. 306, contenente norme complementari alle disposizioni
del d.lgs. lgt. n. 25 del 1944 che disponeva, tra le altre cose, la trascrizione nei
registri dello stato civile dei matrimoni religiosi celebrati e vietati dall’art. 6 del
r.d.l. n. 1728 del 1938, la reiscrizione negli albi professionali dei professionisti
cancellati in applicazione delle leggi razziali e la revoca dei provvedimenti di
annullamento dell’abilitazione alla pubblica docenza; del d.lgs.lgt. del 12 aprile
1945, n. 222, recante norme complementari al d.lgs.lgt. n. 26 del 1944 e del
d.lgs.lgt. del 14 giugno 1945, n. 348, recante l’ammissione agli esami di maturità e di abilitazione negli istituti di istruzione media in favore dei giovani che
per motivi razziali o per gravi ragioni inerenti lo stato di guerra si siano trovati
nell’impossibilità di frequentare i corsi e di sostenere gli esami.
Negli anni immediatamente successivi (1946-7) l’opera di risanamento
normativo ormai avviata proseguì nonostante l’instabilità del quadro politico50
e trovò un momentaneo punto di approdo nel decreto legislativo del Capo
provvisorio dello Stato 11 maggio 1947 n. 364, con cui si regolò la successione
48
Sulle vicende politiche che portarono il governo a decidersi alla pubblicazione del decreto
cfr. Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali in Italia, cit., pp. 45 e ss.
49
Vedi supra, § 2.3.
50
G. Mammarella, L’Italia contemporanea (1943-1985), Bologna 1985, p. 64.
Paolo Caretti
101
delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l’8 settembre del
1943, stabilendo che le relative eredità, ordinariamente devolute allo Stato ai
sensi dell’art. 586 c.c. in caso di assenza di eredi successibili, fossero invece
trasferite a titolo gratuito all’Unione delle comunità israelitiche italiane.
Come si avvertiva, il decreto n. 364 del 1947 rappresenta nel lungo percorso di epurazione dell’ordinamento dalle norme razziali un signiicativo
spartiacque. Tra i più importanti, i passaggi successivi di questo processo,
infatti, seguiranno l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e, pertanto, assumeranno l’ambigua valenza di atti di adeguamento al sopravvenuto
ordinamento costituzionale e di atti di reinserimento sociale, politico ed
economico della comunità ebraica51; tanto che l’inattuazione costituzionale
della prima legislatura trova un puntuale riscontro nell’arresto dell’attività
legislativa volta a rimuovere le conseguenze discriminatorie derivanti dall’applicazione delle leggi razziali52. Anche sulla legislazione antirazziale in particolare si consumò, dunque, quello che Calamandrei celeberrimamente deinì
“ostruzionismo di maggioranza”53 e si fecero sentire gli effetti della congiuntura internazionale54. Con l’effetto netto che, nonostante l’entrata in vigore
della Costituzione, permasero nell’ordinamento non soltanto numerosissime
norme fasciste contrarie ai nuovi principi e valori della carta fondamentale55
ma anche prassi amministrative e discriminazioni di fatto inconciliabili con
l’art. 3, comma 2, Cost.56.
E non si tratta, allora, di una mera coincidenza se la produzione legislativa
antirazziale riprese con rinnovato vigore solo a partire dalla seconda legisla51
Sembra valere anche per la rimozione della legislazione razziale quello che la dottrina
ha osservato per la “defascistizzazione” dei codici [cfr. G. Tarli Barbieri, La “defascistizzazione” dei codici, in La prima legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità nell’azione
delle istituzioni, a cura di U. De Siervo, S. Guerrieri, A. Varsori, II, Roma 2004, § 1]. Anche
l’abrogazione della legislazione razziale (e la rimozione dei suoi effetti), infatti, lega la propria
sorte alle vicende storico-politiche dell’attuazione costituzionale ma ne resta concettualmente
distinta perché la prima attiene alle sole norme fasciste che avevano introdotto discipline antisemite mentre la seconda involge il ben più ampio piano dell’entrata “a regime” della carta
fondamentale e, soprattutto, dei diritti di libertà consacrati nella sua prima parte.
52
Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Firenze 1974, p. 78, il
quale individua in un settennato il periodo in cui consumò la paralisi della legislazione emendativa della discriminazione razziale.
53
P. Calamandrei, L’ostruzionismo di maggioranza, in Il Ponte 1953, I, pp. 129 e ss.; II,
pp. 274 e ss.; III, pp. 433 e ss.
54
A. Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, in Storia dell’Italia repubblicana, II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Torino 1995, p. 119.
55
E. Cheli, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna 1978, p. 57.
56
P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in Id., Dieci anni dopo: 19451955, Bari 1955, pp. 211 e ss. Sul punto cfr. anche M. Dogliani, Il sistema costituzionale, in
Guida all’Italia contemporanea, II, Istituzioni politiche e forme di governo, Milano 1998, p.
53, il quale sottolinea come il riconoscimento del pluralismo politico, presente sin dal periodo
costituzionale transitorio, non aveva ancora determinato in questa fase la consapevolezza della
necessarietà dell’attuazione legislativa delle nuove norme costituzionali su diritti e libertà.
102
Il “corpus” delle leggi razziali
tura57, per effetto della legge 10 marzo 1955, n. 96, con la quale si estesero
ai perseguitati razziali le provvidenze stabilite per i perseguitati politici ed in
particolare un assegno vitalizio di benemerenza prima previsto solo in caso di
detenzione carceraria, di assegnazione a conino di polizia, di atti di violenza
subiti, di condanne per reati contro il fascismo (art. 1). Tale legge rappresentò il punto di riferimento di gran parte della legislazione successiva. Ad
essa, infatti, fecero seguito, nel mutato quadro interno ed internazionale, una
serie di interventi normativi che – novellandola o riproponendone la logica
restitutorio-risarcitoria – si estesero per oltre un trentennio e si svilupparono
parallelamente all’attuazione della Costituzione repubblicana58.
57
Proprio quando inizia ad affermarsi anche una nuova sensibilità per la carta fondamentale,
i cui valori vengono propugnati da alcuni storici saggi in forte polemica con l’inattuazione
costituzionale (cfr., per tutti, P. Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova
1953, e G. Balladore Pallieri, La Costituzione italiana nel decorso quinquennio, in Il Foro
padano, 1954, IV, cc. 33 e ss.), arginando così quella che Vezio Crisafulli aveva criticato come
una speciica responsabilità omissiva della dottrina (V. Crisafulli, La sovranità popolare nella
Costituzione italiana, in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, I, Padova 1957, p. 462).
58
Cfr. l. 1 luglio 1955, n. 550, Disposizioni per il mantenimento in servizio sino al 70 anno
di età dei primari ospitalieri allontanati dal servizio per motivi politici o razziali; l. 8 novembre
1956, n. 1317, Aggiunte e modiiche alla legge 10 marzo 1955, n. 96, concernente provvidenze
a favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti;
l. 8 dicembre 1956, n. 1429, Sistemazione della carriera dei docenti della scuola elementare,
secondaria e di istruzione artistica, in possesso dei requisiti di perseguitati politici o razziali,
vincitori dei concorsi speciali; l. 14 marzo 1961, n. 130, Riconoscimento di diritti ai cittadini
già deportati ed internati dal nemico; l. 3 aprile 1961, n. 284, Modiiche alle norme della legge
10 marzo 1955, n. 96, e della legge 8 novembre 1956, n. 1317, concernenti provvidenze a
favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti; l. 15
dicembre 1965, n. 1424, Interpretazione autentica dell’art. 3 della legge 3 aprile 1961, n. 284,
concernente modiiche alle norme della legge 10 marzo 1955, n. 96 e della legge 8 novembre
1956, n. 1317, relative a provvidenze a favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o
razziali e dei loro familiari superstiti; l. 24 aprile 1967, n. 261, Integrazioni e modiicazioni
della legislazione a favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o razziali e dei loro
familiari superstiti; l. 14 marzo 1968, n. 211, Modiiche agli articoli 10 e 13 del decreto del
Presidente della Repubblica 6 ottobre 1963, n. 2043, concernente indennizzi alle vittime del
nazionalsocialismo; l. 28 marzo 1968, n. 361, Interpretazione autentica dell’articolo 1 della
legge 10 marzo 1955, n. 96 e dell’articolo 1 della legge 3 aprile 1961, n. 284, relative a
provvidenze a favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti; l. 2 dicembre 1969, n. 997, Norme integrative dell’art. 4 della legge 10 marzo
1955, n. 96, concernente provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali
e dei loro familiari superstiti; l. 24 maggio 1970, n. 336, Norme a favore dei dipendenti civili
dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati; l. 16 gennaio 1978, n. 17, Norme
di applicazione della L. 8 luglio 1971, n. 541, recante beneici agli ex deportati ed agli ex
partigiani, sia politici che razziali, assimilati agli ex combattenti; l. 18 novembre 1980, n.
791, “Istituzione di un assegno vitalizio a favore degli ex deportati nei campi di sterminio
nazista K.Z.; l. 22 dicembre 1980, n. 932, Integrazioni e modiiche alla legislazione recante
provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti e razziali; l. 26 aprile 1983, n. 131,
Conversione in legge, con modiicazioni, del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, recante
provvedimenti urgenti per il settore della inanza locale per l’anno 1983.
Paolo Caretti
103
È, dunque, a partire dalla seconda legislatura che si divarica l’esperienza
che ino ad allora aveva accomunato – sotto l’egida dell’inattuazione costituzionale – la rimozione degli effetti della legislazione antirazziale e la “defascistizzazione” dei codici: mentre per la prima il sentimento comune spinse
con vigore verso il ripristino dell’uguaglianza incrinata dalla legislazione del
ventennio e, quindi, verso la rimozione integrale, per la seconda prevalse, in
un fervente dibattito59, l’idea che nella codiicazione fascista l’ideologia di
regime fosse rimasta recessiva rispetto alla grande qualità tecnico-giuridica
dell’imponente opera normativa realizzata dai Codici e che fosse, pertanto,
suficiente emendare gli stessi dalle parti inconciliabili col sopravvenuto dettato costituzionale.
Nei primi anni repubblicani, altalenante ed ambiguo fu anche il ruolo della
giurisprudenza60, di cui però si sottolineò subito la meritoria opera di aver
contenuto – anche attraverso “ingegnosi pretesti dialettici”61 – l’applicazione
delle leggi razziali inché esse furono vigenti e ciò qualiicando tali leggi come
essenzialmente “politiche”, in quanto tali insuscettibili di generare principi
giuridici dell’ordinamento62.
Gli anni che seguirono la seconda legislatura, come si accennava, proseguirono l’opera di rimozione degli effetti delle leggi razziali rimessa in moto
dalla l. n. 96 del 1955. Tali anni appaiono, però, caratterizzati da una radicale
evoluzione dei problemi della legislazione a vantaggio degli ebrei. Il passare
delle generazioni ed il succedersi delle legislature testimoniano, infatti, una
tumultuosa trasformazione del paese in cui gli ebrei italiani si trovano ad affrontare problemi nuovi (la propria sopravvivenza culturale, il rapporto con lo
Stato d’Israele, il riafiorare dell’antisemitismo, il rinnovamento della chiesa
cattolica)63, che vanno ben al di là dell’urgenza delle misure reintegrative, restitutorie e risarcitorie64 che ispirarono l’ormai lontana legislazione brindisina e
pre-costituzionale. Ne è, forse, un esempio la legge 16 gennaio 1978, n. 17, la
quale, nell’estendere la qualiica di ex perseguitato razziale ai cittadini italiani
59
Accuratamente ricostruito da P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento storiograico sui rapporti tra codiicazione civile e regime, in Quaderni iorentini per
la storia del pensiero giuridico moderno, 28 (1999) pp. 175 e ss.
60
Sul punto cfr. M. Bignami, Costituzione lessibile, Costituzione rigida e controllo di
costituzionalità in Italia (1848-1956), Milano 1997, p. 211, il quale relativizza la tradizionale
ricostruzione per cui nella giurisprudenza dei primi anni repubblicani al conservatorismo della
Cassazione si contrappose il progressismo dei giudici di merito.
61
Lo notò subito P. Calamandrei, La crisi della motivazione, in AA.VV., Processo e
democrazia. Conferenze tenute alla Facoltà di diritto dell’Università nazionale del Messico,
Padova 1954, pp. 113-4.
62
G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007, pp. 59 e ss.
63
M. Toscano, Tra identità culturale e partecipazione politica: aspetti e momenti di vita
ebraica italiana (1956-1976), in Annuario di Studi Ebraici, XI, Roma 1988, pp. 296 e ss.
64
L’appena richiamata classiicazione si deve ad A. Tabet, Ebrei, in Enciclopedia forense,
III, Torino 1960, pp. 395 e ss.
104
Il “corpus” delle leggi razziali
di origine ebraica che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della Repubblica Sociale Italiana intesi ad attuare
discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio isico o economico o
morale, precisa che “il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta
annotazione di «razza ebraica» sui certiicati anagraici” (art. 1, comma 2).
Il legislatore continua ad approvare norme risarcitorie65 ma l’avvenuta ricostruzione postbellica ed il progetto della società del benessere trasformano
lentamente, ma sempre più, le questioni di uguaglianza formale in problemi di
integrazione sociale e politica. Anzi, il progressivo sfumare della preminenza
della logica restitutoria consente alla legislazione antirazziale di superare il
paradosso di cui era rimasta vittima a partire dai primissimi interventi abrogativi e risarcitori, i quali per rimuovere gli effetti discriminatori della disciplina
fascista avevano dovuto – anche se in positivo – continuare a riproporre la
dicotomia ariano/ebreo66. Persa la speciicità dei propri tradizionali problemi
legati alla discriminazione razziale, la legislazione sulla comunità ebraica
affronta, nella loro disorientante complessità, le questioni del pluralismo degli ordinamenti costituzionali contemporanei, portando l’identità semita nel
calderone delle istanze che l’ordinamento positivo deve contemperare.
A tale considerazione può, e forse deve, arrestarsi (e su di essa attestarsi) la
ricostruzione storico-giuridica della legislazione reintegratrice nell’Italia postfascista. Ogni ulteriore passo avanti, infatti, rimanda all’esame di questioni
di ordine più generale che rischiano di sfuggire alle competenze speciiche
del giurista e che attengono al fondo del dibattito culturale e storiograico sul
fascismo italiano e sull’antifascismo e che involgono il problematico ed attuale
nesso tra razzismo, antisemitismo e politica di massa67.
65
Si veda, di recente, la l. 24 aprile 2003, n. 92 recante, in modiica della legge n. 96 del
1955, provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari
superstiti.
66
Su cui cfr. la considerazioni di S. Falconieri, La scienza giuridica italiana tra ricordo e
oblio della legislazione antiebraica, in Erinnem und Vergessen. Remembering and Forgetting,
Munchen 2007, p. 147.
67
Sul punto cfr. F. Cereja, La deportazione italiana nei campi di sterminio: lettura storiograica e prospettive di ricerca, in La deportazione nei campi di sterminio nazisti, a cura
di F. Cereja, B. Mantelli, Milano 1986, pp. 17 e ss.
Ferdinando Treggiari
LEGISLAzIonE RAzzIALE E CodICE CIvILE:
Un’IndAGInE STRATIGRAFICA
1. Gli inserti razzisti nel codice civile italiano del 1942
La legislazione speciale antiebraica, varata in Italia a partire dal settembre
1938, esercitò una pesante interferenza sul nuovo codice civile, in particolare
sul suo Libro Primo, dedicato alle persone e alla famiglia, che, in gestazione da
anni, fu emanato proprio in concomitanza col varo della legislazione razzista
e nel pieno della campagna antisemita promossa dal regime fascista. Dieci
ingombranti norme di quel Libro, oltre alle norme di richiamo, due norme
altrettanto incisive inserite fra le disposizioni transitorie del codice sancirono,
anche a mezzo della legge generale civile, l’eclissi del principio statutario di
uguaglianza dei cittadini1.
Il marchio razzista del nuovo codice era impresso nel suo primo articolo,
che declinava alle leggi speciali la previsione di deroghe per ragione di razza
al principio di uguaglianza nella capacità di diritto di tutti i nati2, ma trapuntava
poi di trasversali precetti discriminatori tutti gli istituti familiari (matrimonio,
separazione, patria potestà, adozione, afiliazione, tutela e curatela). Gli apporti
1
Per i riferimenti bibliograici sulla legislazione antiebraica e per l’analisi delle disposizioni razziste del codice civile del 1942 rinvio al mio Questione di stato. Codice civile e
discriminazione razziale in una pagina di Francesco Santoro-Passarelli, in Per saturam. Studi
per Severino Caprioli, a cura di G. Diurni, P. Mari, F. Treggiari, Spoleto, Centro italiano di
studi per l’Alto Medioevo, 2008, pp. 836 ss.
2
Questo il testo dell’art. 1, che apriva il Libro Primo del Codice civile, approvato con
regio decreto 12 dicembre 1938, n. 1852:
«La capacità giuridica si acquista al momento della nascita.
I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della
nascita.
Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono
stabilite da leggi speciali».
106
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
dell’ideologia razzista sarebbero stati anche più incisivi e, in proiezione, illimitati, se si fosse dato seguito alle deliranti proposte di collocare al centro dell’intero
ordinamento giuridico non più l’individuo, ma la «stirpe», elevando il principio
di disuguaglianza razziale a fondamento del nuovo ordine giuridico privatistico
contro «la massima ottantanovista dell’eguaglianza degli appartenenti a razze
diverse di fronte alla legge» e contro «l’inquinamento ebraico nelle cose della
nostra dottrina». Quelle proposte miravano a far codiicare, nel libro relativo ai
diritti reali, il divieto di acquisto in favore dei non ariani; in quello relativo alle
successioni e alle donazioni la disuguaglianza di quote ereditarie fra ariani e non
ariani e la nullità delle donazioni fatte da ariano a non ariano; nella procedura
civile e penale il minor valore della testimonianza del non ariano rispetto a quella
dell’ariano3. Ne iltrò fortunatamente solo l’eco nelle commissioni parlamentari
e nei comitati ministeriali incaricati di redigere i libri del nuovo codice civile.
Tuttavia il corpus razzista codicistico, a partire dalla delega assoluta rimessa al
legislatore speciale in materia di capacità giuridica e di matrimonio, era stato
strutturato in modo da poter consentire anche altre aberrazioni, oltre quelle che
già avevano trovato posto nella legge generale civile. E per quantità non sigurava affatto. Oltre al già citato art. 1 (norma fondamentale, concernendo la capacità
giuridica del cittadino), rinviavano alle limitazioni previste dalle leggi speciali
altre norme del codice civile. In particolare, l’art. 91, relativo ai matrimoni tra
persone appartenenti a razze diverse, richiamava i limiti dettati dall’art. 1 del r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728, che aveva introdotto il divieto non dispensabile
di matrimonio del cittadino italiano «di razza ariana» con «persona appartenente
ad altra razza», dichiarando nullo il matrimonio civile celebrato in contrasto con
tale divieto. Ma era poi lo stesso codice civile a dettare non poche disposizioni
intese alla «protezione della razza» ariana. L’art. 155, in caso di separazione dei
coniugi di cui uno di razza non ariana, disponeva che il tribunale, salvo gravi
motivi, afidasse i igli «considerati di razza ariana» al coniuge di razza ariana.
L’art. 292 non permetteva l’adozione «tra cittadini di razza ariana e persone di
razza diversa», salvo dispensa del Re o delle autorità a ciò delegate4. Per l’art.
3
Le citazioni del testo e le proposte richiamate sono di M. Baccigalupi, Legislazione del
razzismo. La razza come principio giuridico, in La difesa della razza, IV, 9 (5 marzo 1940), pp.
22-23, ripubblicato in A. Cavaglion, G.P. Romagnani, Le interdizioni del Duce. A cinquant’anni
dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), Torino 1988, pp. 331-336. In quelle stesse settimane
identiche proposte venivano indirizzate alla «pronta e illuminata comprensione» del ministro
Dino Grandi dal direttore di un’altra rivista razzista: S.M. Cutelli, Per l’aggiornamento razziale
dei nuovi Codici, in Il diritto razzista, II, 2-3-4 (marzo-agosto1940), pp. 103-105.
4
Nella Relazione al Guardasigilli sul funzionamento dell’istituto dell’adozione nel primo
anno di applicazione del Libro Primo del Codice civile (pp. 6-7; il documento, datato 28 luglio
1941, è in Archivio Centrale di Stato, Ministero di grazia e giustizia, Gabinetto, Riforme dei
codici 1926-1943, busta 22, fasc. 27) il direttore generale degli Affari civili e del notariato,
Donato Pelosi, segnala al ministro (Grandi) «che un solo caso si è veriicato, in cui siffatta
dispensa è stata chiesta da un cittadino di razza ariana per adottare un minore di razza ebraica
presso di lui allevata. Questo Ministero, in mancanza di un’autorità a ciò delegata [...], ha rite-
Ferdinando Treggiari
107
342 «Il genitore di razza non ariana, che abbia igli considerati di razza ariana, se
passa a nuove nozze con persone di razza pure non ariana, perde la patria potestà
sui igli stessi, e la tutela dei medesimi è afidata di preferenza ad uno degli avi
di razza ariana». A riguardo, l’art. 128 delle disposizioni transitorie del cod. civ.
1942 offriva un curioso caso di retroattività: se l’ipotesi prevista dall’art. 342
si fosse veriicata prima del 1° luglio 1939 (data di entrata in vigore del Libro
Primo e delle Disposizioni preliminari del nuovo codice civile), il tribunale, su
istanza del iglio o dei parenti o del pubblico ministero poteva privare il genitore della patria potestà sui igli «quando risulta che egli impartisce ad essi una
educazione non corrispondente ai ini nazionali». E ancora: l’art. 348 del codice
civile impediva di afidare a persone appartenenti a razza diversa dall’ariana la
tutela di cittadini ariani (limitazione estesa alla scelta del protutore in virtù del
richiamo dell’art. 355 primo comma, alla tutela dell’interdetto per infermità di
mente e alla curatela dell’inabilitato per richiamo dell’art. 424, al curatore del
minore emancipato in base all’art. 393); l’art. 404 comma terzo impediva alla
«persona di razza non ariana» di domandare l’afiliazione, salvo che non ariano
fosse pure il minore. Riferimenti alla razza saranno inoltre contenuti anche in
cinque norme del V libro del codice civile, che sarà pubblicato nel luglio 1941:
negli artt. 2196 comma 1, n. 1 (iscrizione dell’impresa), 2295, n. 1 (costituzione
della società in nome collettivo), 2328 comma 1, n. 1 (costituzione della società per azioni), 2475 comma 1, n. 1 (costituzione della società a responsabilità
limitata) e 2518 comma 1, n. 1 (costituzione dell’impresa cooperativa).
Va poi ricordato un caso di incidenza diretta della normativa speciale
antiebraica sui precetti del codice civile: la deroga al divieto di liberalità fra
coniugi (art. 781 cod. civ.) introdotta dall’art. 6 secondo comma del r.d.-l. 9
febbraio 1939, n. 126, che consentiva al «cittadino italiano di razza ebraica»
di donare i propri beni al coniuge «che non sia considerato di razza ebraica».
Un diritto, questo, che la giurisprudenza restringerà ai soli beni eccedenti la
quota di patrimonio immobiliare di cui il cittadino italiano di razza ebraica
poteva disporre (beni che altrimenti sarebbero stati trasferiti all’Ente di gestione e liquidazione immobiliare), perché in caso contrario la norma indirizzata
a limitare il suo diritto di proprietà immobiliare si sarebbe convertita in una
«legge di favore»5.
Inine, l’art. 250 delle Disposizioni per l’attuazione del codice civile e
disposizioni transitorie (approvate con r.d. 30 marzo 1942, n. 318; corrispondente all’art. 117 delle Norme di esecuzione e disposizioni transitorie del
nuto la sua competenza a provvedere sulla dispensa, che nel caso è stata negata, su conforme
parere del Ministero dell’Interno, non essendosi ravvisati i motivi eccezionali per concedere
l’invocato provvedimento».
5
Così Cass. 15 marzo 1943, Gugenheim c. Polli, in Giurisprudenza italiana, 1943, I, 1,
coll. 280 ss., su cui vedi in dettaglio G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino
2007, pp. 122-125.
108
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
Libro Primo, approvate con r.d. 24 aprile 1939, n. 640) chiudeva ad arte il
cerchio delle discriminazioni riconnettendosi all’ultimo capoverso dell’art. 1
cod. civ.: se questo rinviava alle leggi speciali (già in vigore alla data di approvazione del Libro Primo) le limitazioni alla capacità giuridica per ragioni
di razza, quello a sua volta, con odioso contrappunto, prevedeva che le stesse
leggi speciali potessero stabilire «discriminazioni tra gli appartenenti a razze
diverse da quella ariana ai ini di escludere in tutto o in parte le limitazioni
poste nel codice per le persone di razza non ariana».
Il programma di «discriminare» i discriminati (già attuato a determinati
ini dall’art. 14 del r.d.-l. del 17 novembre 1938, n. 1728), oltre ad aggiungere
disuguaglianze a disuguaglianze, rendendo in tal modo ancora più incisiva
la persecuzione, apriva di fatto la via all’arbitrio amministrativo. Proprio su
quest’ultima via la legislazione speciale si spingerà ino in fondo, intervenendo
non già sulle limitazioni alla capacità di diritto dell’ebreo, ma sull’appartenenza stessa alla razza ebraica, cioè sul presupposto di quelle limitazioni.
Appena pochi giorni dopo l’entrata in vigore del Libro Primo del codice civile,
la legge 13 luglio 1939, n. 1024, attribuirà infatti al ministro per l’interno (lo
stesso Mussolini) la facoltà di dichiarare con provvedimento non motivato
e insindacabile, dietro conforme parere motivato, ma segreto, di una commissione (il «Tribunale della razza», presieduto dalla sua istituzione alla sua
ine [1943] da Gaetano Azzariti, personaggio-simbolo delle contraddittorietà
della generazione dei giuristi che attraversarono l’esperienza istituzionale del
fascismo)6, «la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle
risultanze degli atti dello stato civile», cioè di dichiarare la qualità di «ariano»
anche in contrasto con la discendenza «legittima» ebraica.
L’impiego rovesciato del concetto di «discriminato», rimbalzando dalla
normativa speciale antiebraica nella legge generale civile (art. 250 disp. att.
cod. civ.), confermava anche attraverso l’identità del lessico la simmetria
dell’ispirazione legislativa. Anche il redattore del codice civile, come il
legislatore speciale, aveva scelto quel termine per designare lo status del
soggetto esentato, in forza di provvedimento amministrativo, dal novero dei
cittadini a limitata capacità: lo status, in pratica, del soggetto «discriminato»
dalla «discriminazione», se si intende questo secondo termine nel senso in
cui lo intendeva, ad esempio, la Dichiarazione sulla razza del 6 ottobre 1938
(«Nessuna discriminazione sarà applicata […] nei confronti di ebrei di cittadinanza italiana – quando non abbiano per altri motivi demeritato – i quali
6
Sul Tribunale della razza e sulla carriera del suo presidente cfr. il mio Questione di
stato, cit., pp. 847 ss., nt. 64-65. Per una più generale rilessione sul ruolo dei ‘tecnici’ e degli
intellettuali durante e dopo il fascismo, a partire dal dato più appariscente delle continuità
delle carriere e della transizione di settori rilevanti della classe dirigente nazionale dal fascismo all’antifascismo, cfr. L. La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la
transizione al postfascismo. 1943-1948, Milano 2008, spec. pp. 16 ss.
Ferdinando Treggiari
109
appartengano a: […]», peraltro anche qui rovesciando il senso implicato nel
titolo del relativo paragrafo, che recava «Discriminazione tra gli ebrei di cittadinanza italiana»). Se la «discriminazione» richiamata dalla Dichiarazione
sulla razza aveva riguardato la diversità di trattamento tra «ebrei» e «ariani»,
quella indicata nell’art. 250 e in altri provvedimenti normativi (come la l. 13
luglio 1939, n. 1055, recante Disposizioni in materia testamentaria nonché
sulla disciplina dei cognomi, nei confronti degli appartenenti alla razza
ebraica, che s’indirizzava ai «cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica
non discriminati ai termini dell’art. 14» del r.d.-l. n. 1728; o la l. 9 ottobre
1942, n. 1420, relativa agli ebrei residenti in Libia, che all’art. 18 afidava al
governatore generale la competenza ad emettere il provvedimento di «discriminazione») alludeva invece alla diversità di trattamento tra ebreo ed ebreo,
identiicando nel linguaggio della legge come in quello dell’amministrazione
i «discriminati» come effettivi «non perseguitati».
A monte di tutto ciò era l’orgia di idiozie montata attorno al concetto di
«ariano». Dall’identiicazione di un tipo linguistico indoeuropeo, denominato
(ma non da tutti) «ario», quel concetto era in seguito passato a designare, sulla
scia della teoria di alcuni studiosi tedeschi, un tipo antropologico nordeuropeo dalle particolarità fenotipiche (pelle chiara, capelli biondi, occhi celesti),
discendente di una antica e pura razza7. A questa presunta razza il Manifesto
della razza, pubblicato il 14 luglio su «Il Giornale d’Italia», al suo punto 4
aveva troniamente ascritto anche «la popolazione dell’Italia attuale [...] e la
sua civiltà». Ma che l’argomento genetico-ereditario fosse solo il paravento
pseudo-scientiico di una volontà mirata all’esclusione e alla sopraffazione di
un determinato gruppo sociale è dimostrato dal fatto che proprio sul discrimine
tra «razza ariana» e non ariana il r.d-l. 17 novembre 1938, n. 1728 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), aveva impostato sin dal suo primo
articolo la disciplina persecutoria degli «appartenenti alla razza ebraica» (così
deiniti nel capo II del r.d.-l.). Lo stesso guardasigilli Solmi, giustiicando nella
sua Relazione al re sul Libro Primo il riferimento alla «razza ariana» contenuto
nell’art. 250 disp. att., aveva spiegato che questa denominazione non era stata
data «già col proposito di deinire antropologicamente una determinata razza,
ma soltanto per il criterio, voluto dalla legge, di distinguere nettamente la
razza ebraica o le altre razze estranee che non si sono fuse nella razza propria
del popolo italiano»8.
7
Cfr. G. Montalenti, Il concetto biologico di razza e la sua applicazione alla specie umana, in Accademia Nazionale dei Lincei, Conseguenze culturali delle leggi razziali in Italia
(Roma, 11 maggio 1989), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1990 (Atti dei Convegni
Lincei, 84), pp. 33 ss.
8
Cfr. G. Pandolfelli, G. Scarpello, M. Stella Richter, G. Dallari, Codice civile. Libro I illustrato con i lavori preparatori, Milano, 1939, p. 57. Anche per Carlo Costamagna (nella voce
Razza apparsa nel 1940 nel Dizionario di Politica del Partito Nazionale Fascista, come pure nella
sua relazione al secondo convegno giuridico italo-tedesco, tenuto a Vienna nel marzo 1939: cfr.
110
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
2. L’art. 1 del Codice civile in strati. L’avvio del processo ricodiicatorio
Il processo ricodiicatorio, dopo un tentativo di riforma abbozzato dal guardasigilli Gallo nel 1906, aveva ricevuto impulso, dopo il primo conlitto mondiale, dal disegno di legge presentato dal governo il 10 febbraio 1923 (diventerà
la legge 30 dicembre 1923, n. 2814), contenente delega al governo stesso di
riformare i testi in vigore9. L’obiettivo non era di redigere un nuovo codice
civile, ma «di apportare soltanto alcune modiicazioni a quelli vigenti nelle
disposizioni rilettenti l’assenza, la condizione dei igli illegittimi, l’adozione, la
tutela, la trascrizione ed emendare gli articoli del codice civile che tuttora danno
luogo a questioni tradizionali e che, comunque, sono riconosciuti formalmente
imperfetti». Nel giugno 1924 era stata nominata una Commissione, presieduta
dal ministro di grazia e giustizia, divisa a sua volta in quattro Sottocommissioni. Quella per il codice civile, presieduta da Vittorio Scialoja, era composta da
Mariano D’Amelio, Antonio Azara, Alfredo Ascoli, Domenico Barone, Giovanni
Baviera, Paolo Emilio Bensa, Gerolamo Biscaro, Pietro Bonfante, Biagio Brugi, Giovanni Brunetti, Leonardo Coviello, Roberto de Ruggiero, Carlo Fadda,
Francesco Ferrara, Giuseppe Paolo Gaetano, Salvatore Galgano, Fulvio Maroi,
Giuseppe Messina, Gaetano Miraulo, Giovanni Pacchioni, Vittorio Polacco,
Luigi Rossi, Gino Segrè, Filippo Vassalli, Giulio Venzi.
Nel 1925 il Guardasigilli Rocco aveva presentato un nuovo disegno (sarà la
legge 24 dicembre 1925, n. 2260), che ampliava i poteri delegati al governo, prevedendo, «salvi restando, s’intende, i principi fondamentali degli istituti», nuove
modiicazioni e aggiunte al codice civile, compresa la pubblicazione di nuovi
«libri e titoli separati» e la loro successiva «rifusione [...] in un codice unico»10.
3. Libro I: Progetto del 1930 (Scialoja)
Il 27 settembre 1930 la Sottocommissione presieduta da Vittorio Scialoja
presentava il Progetto di riforma del primo libro del codice civile con la
Relazione illustrativa11. Rispetto al testo dell’allora vigente cod. civ. 1865, il
E. De Cristofaro, Codice della persecuzione. I giuristi e il razzismo nei regimi nazista e fascista,
Torino 2008, pp. 185 e 364) la formula «razza ariana» utilizzata dal legislatore italiano designava
unicamente la «circostanza negativa di non appartenere alla razza ebraica».
9
I lavori preparatori di questa legge sono in Delega al Governo per emendamenti al
codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per
la marina mercantile, Roma, Provveditorato Generale dello Stato, 1925.
10
I passi citati (con mio corsivo) sono ripresi da R. Università degli studi di Messina, Sul
Progetto di riforma del Primo Libro del Codice civile. Relazione del prof. F. Degni alla Facoltà
di Giurisprudenza della R. Università di Messina, Messina 1932, pp. 6-7.
11
Commissione Reale per la riforma dei codici. Codice civile. Primo Libro. Progetto e
Relazione, Roma, Istituto Poligraico dello Stato, 1931.
Ferdinando Treggiari
111
Progetto Scialoja conteneva, fra le sue novità, i due nuovi titoli Delle persone
isiche e Delle persone giuridiche.
L’art. 1 del titolo I Delle persone isiche del libro I Delle persone era tutto
in quest’unica proposizione: «L’uomo è soggetto di diritti dalla nascita ino
alla morte». Oltre a proclamare l’equivalenza tra soggettività giuridica e
condizione naturale di uomo, il nuovo precetto eliminava, rispetto all’art. 1
del cod. civ. 1865 (che dettava: «Ogni cittadino gode dei diritti civili, purché
non ne sia decaduto per condanna penale»), ogni distinzione tra cittadino e
straniero, riferendo ora il godimento dei diritti non più alla qualità di cittadino,
ma a quella di uomo12.
La Relazione illustrativa, scritta da Fulvio Maroi, ordinario di Istituzioni di
diritto privato a Roma, segnala che nella redazione del titolo I la Commissione
ha «cercato di evitare [...] di enunciare formule di carattere didascalico» e che
formulando l’art. 1 ha «soppresso il requisito della vitalità fra quelli necessari
per l’esistenza della persona», fomite di incertezze probatorie (l’art. 724 c.c.
1865, dichiarando incapaci di succedere «coloro che non sono nati vitali. Nel
dubbio si presumono vitali quelli di cui consta sono nati vivi», induceva infatti
ad equivocare sui fenomeni di ‘vita’ e di ‘vitalità’)13.
Sul progetto erano poi stati sollecitati ed erano pervenuti al ministro guardasigilli numerosi pareri: degli organi giudiziari, delle facoltà giuridiche, del
consiglio superiore forense, delle commissioni reali e dei sindacati fascisti degli
avvocati e dei procuratori14. Anche i pareri più critici erano rimasti nell’orbita
della terminologia naturalistica impiegata nell’art. 1, che aveva messo al centro
l’«uomo» come «soggetto di diritti» commisurandone la capacità ai termini
biologici, iniziale e inale, della sua esistenza. Non pochi di quei pareri avevano
anzi segnalato la superluità dell’enunciato, considerato ripetitivo di un dato
di civiltà da troppo tempo acquisito dai consorzi civili. La corte di appello di
Roma, ad esempio, scrive: «Nessuno ha mai dubitato, dopo l’abolizione della
schiavitù, che l’uomo sia soggetto di diritto dalla nascita ino alla morte, onde
la riaffermazione di questo principio, senza necessità, dà al precetto un carattere
didascalico che non sembra confacente al contenuto di un codice»15. Talmente
generale e ovvio era il principio per cui «perché abbia inizio la persona isica
capace di diritti è necessaria e suficiente la nascita di un uomo vivente», che
il consiglio di stato aveva sentito il bisogno, nel suo parere, di puntualizzare
12
Della cittadinanza e del godimento dei diritti civili era il titolo aperto dall’art. 1 del cod.
civ. 1865 (lib. I Delle persone).
13
Commissione Reale per la riforma dei codici, Codice civile. Primo Libro. Progetto e
Relazione, Roma, Istituto Poligraico dello Stato, 1931, p. 31 s.
14
Raccolti in Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori per la riforma del codice
civile, Osservazioni e proposte sul progetto del Libro Primo, I. Disposizioni preliminari –
Titolo I: Delle persone isiche – Titolo II: Delle persone giuridiche, Roma, Tipograia delle
Mantellate, 1933.
15
Op. ult. cit., p. 259.
112
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
«che il nato, oltre che vivente, deve essere un organismo umano»16. Per l’Università di Ferrara l’art. 1 «enuncia un principio astratto e paciico, che non
ha bisogno di essere difeso neppure nei manuali d’istituzione di diritto»17.
4. Libro I: Progetto deinitivo del 1936 (D’Amelio)
Il progetto di Libro Primo del 1930 e i quattro volumi di osservazioni e
proposte furono riesaminati da un comitato di giuristi nominato e presieduto
dal ministro di grazia e giustizia Pietro De Francisci il 9 maggio 193418, i cui
lavori proseguirono sotto il successivo guardasigilli Arrigo Solmi19. Il lavoro
del comitato approdò nel giugno del 1936 ad un nuovo progetto di Libro Primo
(il c.d. progetto deinitivo), che il nuovo ministro presentò alla commissione
parlamentare, avvertendo che esso, da un lato, assicurava, «secondo le sue
gloriose tradizioni, la compagine della famiglia italiana» e, dall’altro, portava
«in ogni istituto che ad essa si riconnette il lievito delle nuove idee, delle quali
il Fascismo ha permeato tutta la vita della Nazione»20.
L’impianto dell’art. 1, come formulato nel progetto del 1930 restava sostanzialmente invariato: vi venivano ora solo meglio speciicati i «requisiti
necessari per l’esistenza della persona», idonei a dimostrare «nell’essere venuto
al mondo l’attitudine alla vita» e veniva soppresso il richiamo alla morte come
momento estintivo della capacità giuridica («perché puramente didascalico»)21.
Il tenore del nuovo art. 1, che dunque manteneva al centro l’equivalenza tra
uomo e soggettività dei diritti, era il seguente: «L’uomo è soggetto di diritti
dal momento della nascita, quando sia nato vivo e vitale. Si presume vitale
chi sia nato vivo».
16
Op. e loc. ult. cit.
Op. ult. cit., p. 260.
18
Il comitato era composto da: Giulio Venzi, senatore e presidente di sezione della corte di
cassazione; Gaetano Azzariti, primo presidente di corte d’appello e capo dell’uficio legislativo
del ministero di grazia e giustizia; Pietro Bonicelli della Vite, capo di gabinetto dello stesso
ministero e presidente di sezione di Corte d’appello; Leopoldo Caliendo, consigliere della
Corte di cassazione; Filippo Vassalli ed Emilio Albertario, entrambi professori nell’Università
di Roma; Giuseppe Lampis, consigliere di corte d’appello; Gaetano Pandolfelli, consigliere
di corte d’appello e Giuseppe Stumpo, giudice (questi ultimi due con funzioni di segreteria).
19
Con decreto del 4 febbraio 1935 il nuovo guardasigilli integrò l’organico del comitato
inserendovi Antonio Azara, consigliere della corte di cassazione e segretario generale della
commissione per la riforma dei codici, e Gaetano Cosentino, presidente di sezione della corte
di cassazione e nuovo capo di gabinetto del ministro (in sostituzione di Bonicelli Della Vite),
facendo partecipare ai lavori del comitato altri due professori universitari: Tommaso Perassi
(Università di Roma), per la revisione delle disposizioni preliminari e Francesco Ferrara
(Università di Pisa) per la disciplina delle persone giuridiche.
20
Ministero di Grazia e Giustizia, Codice civile. Libro Primo. Progetto deinitivo e Relazione del Guardasigilli on. Solmi, Roma, Istituto Poligraico dello Stato, 1937, p. V.
21
Op. ult. cit., p. 11.
17
Ferdinando Treggiari
113
Il dibattito della commissione parlamentare – presieduta dal 1933 da Mariano D’Amelio, in seguito alla morte di Vittorio Scialoja –, chiamata a dare
il proprio parere sul nuovo progetto, cominciò il 16 novembre 1936, con un
intervento di Santi Romano favorevole all’inserimento nel codice di una parte generale a contenuto eminentemente tecnico e quello di altri commissari
che invece chiedevano la sospensione dei lavori della codiicazione in attesa
della riforma costituzionale. Per evitare l’impasse e far procedere spedito il
cammino del nuovo codice, D’Amelio sollecitò l’intervento in commissione del guardasigilli Solmi, che già l’indomani, il 17 novembre 1936, lesse
in commissione il suo intervento politico. Solmi respinse la pregiudizialità
della riforma costituzionale; si disse contrario all’inserimento nel codice di
una parte generale, ad imitazione del codice tedesco, perché «non conforme
al nostro spirito latino»; ritenne invece che nel codice civile italiano dovesse
penetrare «lo spirito delle nostre istituzioni, ben distinte da quelle di altri paesi»; che esso dovesse essere puriicato «da tutto quello che vi era penetrato
dal Codice francese e da altri sistemi giuridici» e «permeato dallo spirito della
Rivoluzione fascista». Il bersaglio del guardasigilli non era tanto il codice
napoleonico, giudicato anzi «in gran parte il risultato degli studi della scuola
italiana, già iorente nel secolo XIV con gli insegnamenti dei grandi giuristi
Bartolo e Baldo», quanto gli «elementi» che in esso introdotti «per effetto
della rivoluzione francese»22.
L’art. 1 venne preso in esame dalla commissione nella seduta del successivo 30 novembre, che si avvitò nella discussione sulla opportunità, non da
tutti condivisa, di sopprimere il requisito della vitalità tra quelli necessari per
l’esistenza della persona, sulla distinzione tra i concetti di ‘vivo’ e di ‘vitale’
e sulle rispettive ripercussioni sul terreno del diritto successorio, decidendo
inine di restringere la formula dell’articolo alla sua prima parte: «L’uomo è
soggetto di diritti dal momento della nascita» e rinviando alla materia delle
successioni la questione di decidere se dovessero o meno richiedersi i requisiti
di «vivo» e «vitale» già stabiliti dall’art. 724 n. 2 cod. civ. 1865 (che s’intenderà
poi abrogato proprio alla luce della portata generale dell’art. 1)23.
22
Atti della Commissione parlamentare chiamata a dare il proprio parere sul Progetto
del Libro Primo del Codice civile “Delle persone”, Roma 1937, pp. 24-25. Sui passaggi del
dibattito in commissione parlamentare cfr. più in dettaglio N. Rondinone, Storia inedita della
codiicazione civile, Milano 2003, pp. 119-127 e già R. Teti, Documenti d’archivio sul Libro I
del codice civile, in Rivista di diritto civile, 1998, I, pp. 361 e 380 s. La posizione di Solmi sul
codice napoleonico troverà eco nel successivo intervento di Alberto Asquini (cfr. Rondinone,
op. cit., p. 126 s.). L’Appunto di Solmi a Mussolini del 16 novembre 1936 e lo Schema delle
dichiarazioni rese dal guardasigilli dinanzi alla commissione parlamentare il giorno successivo
sono conservati in Archivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce – Carteggio
Ordinario 1922-1943 (d’ora in poi: ACS, SPDCR), busta 817, fasc. 500012-II.
23
Atti della Commissione parlamentare, cit., pp. 50-53.
114
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
5. Libro I: dal Progetto del 1936 all’approvazione legislativa
La commissione parlamentare chiuse i suoi lavori il 26 giugno 1937, discutendo ed approvando la relazione predisposta da una speciale sottocommissione,
nominata venti giorni prima su istanza dei commissari politicamente più agguerriti, «per la enunciazione dei principi politici cui dovrebbe ispirarsi l’opera della
codiicazione», esprimendosi altresì favorevolmente alla proposta di premettere
al Codice civile principi generali di contenuto politico (relativi alla deinizione
del diritto di proprietà e dei limiti al suo esercizio; all’inserimento delle norme
corporative fra le fonti del diritto; alla tutela del solo diritto soggettivo che fosse
conforme all’interesse nazionale) con lo scopo di indirizzare l’interprete circa
«il valore sociale dei vari istituti ed il carattere degli interessi che s’intendono
realmente tutelare nelle singole disposizioni di legge»24.
Il forte accento ideologico-programmatico, con cui si erano chiusi i lavori
della commissione parlamentare, è da mettere in collegamento con le accuse
al carattere esclusivamente tecnico e conservatore dell’opera ricodiicatrice,
che erano state lanciate dalla rivista “Lo Stato” da Sergio Panunzio e da
Carlo Costamagna tra la ine del 1936 e l’inizio del 1937. In replica a queste
accuse, già il 7 gennaio 1937 Solmi aveva inviato a Mussolini un “Appunto
sulla elaborazione dei progetti di riforma del codice civile” per rassicurare il
capo del governo che il nuovo codice civile avrebbe accolto contenuti «aderenti alla nuova organizzazione economica e politica della nazione», specie
nel libro dedicato ai diritti reali e a quello relativo ad obbligazioni e contratti
(quelli relativi a famiglia e a successioni – il primo già nella fase di progetto
deinitivo, il secondo in stadio avanzato – venivano giudicati da Solmi di
contenuto tale da prestarsi meno degli altri «alle sostanziali e profonde trasformazioni derivanti dalle nuove concezioni etiche e politiche»)25. In questo
come nel successivo “Appunto sul corso dei lavori per il codice civile”, inviato
al Duce nell’imminenza dell’udienza concessagli per l’11 febbraio 193726,
Solmi aveva anche annunciato la nomina di una commissione, «scelta anche
tra rappresentanti di confederazioni e degli studiosi del nuovo ordinamento
dello Stato, oltreché di uomini politici», col «compito di formulare voti» di
cui tener conto nella revisione deinitiva del codice. Inine, l’11 febbraio,
giorno dell’udienza con Mussolini, Solmi aveva consegnato al capo del governo un’ulteriore relazione dal titolo “Fascismo e codice civile”, in cui era
tornato a contestare «l’impressione che l’opera di riforma sia stata compiuta
con criteri esclusivi di formalismo tecnico, mirando soltanto a risolvere dubbi
Cfr. Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 124 s.
Anche questo documento, come quelli citati alle note successive, è in ACS, SPDCR,
b. 817, f. 500012-II; cfr. Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., pp. 127 ss.
26
Il documento è stato pubblicato e commentato da Teti, Documenti d’archivio, cit., p.
382 e p. 361; cfr. Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 133.
24
25
Ferdinando Treggiari
115
e migliorare formule, senza preoccuparsi di infondere spirito ed idee nuove
nel vecchio ceppo individualistico creato dalla rivoluzione francese». Certo,
aveva aggiunto riferendosi al progetto del Libro Primo, era inevitabile che
nel regolare «istituti fondamentali della vita civile» pesasse una tradizione
di secoli: ma «la profonda trasformazione, più che nella struttura dei singoli
istituti, è nello spirito informatore di essi»27.
I verbali delle riunioni della commissione parlamentare sul Libro Primo, il
testo degli emendamenti proposti al progetto deinitivo e la relazione sui lavori
redatta da D’Amelio furono trasmessi al ministro Solmi il 22 luglio 1937.
Il Progetto di Libro Primo tornò così nell’estate del 1937 all’esame del comitato ministeriale. Nei mesi precedenti, intanto, il perdurante clima polemico sul
proilo tecnico-ideologico del nuovo codice aveva fatto rilanciare a Solmi l’idea
di formare una commissione tecnico-politica, più esattamente una Commissione
consultiva per la riforma del codice civile, come viene denominata in un suo
“Appunto” al capo del governo databile all’aprile-maggio 193728. Presieduta e
guidata dallo stesso ministro di grazia e giustizia e composta da «rappresentanti
del partito, delle corporazioni, nonché da persone specialmente esperte in [...]
problemi legislativi tratte dai quadri fascisti e scelte nella magistratura, nelle
Università e nel foro ed in altri organi del Regime», la nuova commissione
avrebbe dovuto avere competenza su «singoli e speciici problemi», afiancando
la commissione parlamentare, confermata dal guardasigilli come «massima collaboratrice del Governo nell’opera di codiicazione». Come «organo di squisita
sensibilità politica», incaricato «di indicare [...] le più opportune innovazioni
da introdurre nel codice civile afinché questo adempia nel modo più perfetto
e più completo a quella che è la struttura corporativa dello Stato italiano», la
Commissione consultiva avrebbe avuto voce su tutte le parti della codiicazione.
Quanto però al Libro Primo, l’unico del codice giunto allo stadio di progetto
deinitivo, già passato al vaglio della Commissione parlamentare, «l’opera della
commissione da istituirsi avrà su di esso ben scarsa inluenza, attesa la natura
della materia che vi è disciplinata. Ma tuttavia, se i voti e le proposte della
nuova Commissione dovessero inluire sul detto Progetto, sarà precipua cura
del Guardasigilli di sottoporli alla Commissione Parlamentare, eventualmente
con concrete modiicazioni del Progetto stesso». Manca la fonte di questa citazione. Secondo Solmi, dunque, il fatto che il Libro Primo fosse oramai pronto
per essere promulgato e che riguardasse una materia meno sensibile di altre alle
novità economico-sociali del regime, faceva prevedere che esso non sarebbe
stato interessato da modiiche ‘politiche’; ma questa eventualità dal guardasigilli, come abbiamo visto, non veniva esclusa. Un anno dopo, nell’“Appunto
per S.E. il Capo del Governo (sul testo del Libro Primo del Codice Civile)”,
Cfr. Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 133 s. e nt. 25.
Conservato sempre in ACS, SPDCR, b. 817, f. 500012-II e già ripreso e commentato
da Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 140 s.
27
28
116
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
datato 30 maggio 1938, nell’annunciare al Duce che «il testo del libro I [...] è
oramai pronto», il guardasigilli sembrò infatti rendere più concreta la riserva
di modiiche di «particolare importanza di ordine sociale, e quindi politico», da
apportare al testo del Libro Primo29. I punti controversi indicati espressamente
da Solmi riguardavano l’inserimento di «una parte generale sui principii della
legislazione fascista», proposta che vedeva il ministro concorde (anteposta al
Codice, avrebbe dovuto contenere «circa una venticinquina di dichiarazioni
[...] con numerazione romana»), il problema della iliazione illegittima e della
paternità e maternità convenzionali ai igli ignoti; non anche – non ancora – il
problema razziale, benché la propaganda antisemita del regime fosse in atto
da mesi (almeno a far data dall’Informazione diplomatica n. 14, diffusa il 16
febbraio 1938)30. Ma il problema giuridico dell’appartenenza razziale sarebbe
stato iscritto in capo a poche settimane all’ordine del giorno della riforma del
codice e il vagheggiamento di organi consultivi politici della riforma, quale la
Commissione consultiva proposta da Solmi già nella primavera del 1937 (i documenti d’archivio disponibili sui lavori della codiicazione civile non ci dicono
se sia poi stata formalmente o di fatto istituita)31, pareva anzi già preigurarlo.
Sulla base delle proposte della commissione parlamentare, il comitato
ministeriale aveva intanto provveduto all’ultima revisione del Libro Primo,
chiudendo i suoi lavori nel luglio 1938 (un anno esatto da che la commissione parlamentare aveva rimesso le carte al ministro). Il 27 agosto 1938 – era
passato poco più di un mese dal Manifesto della razza, siamo nelle settimane
di febbrile gestazione dei provvedimenti razziali che prenderanno avvio già
29
In questo Appunto, preparato da un testo non datato, ma più articolato e in parte diverso
da quello poi trasmesso (entrambi conservati sempre in ACS, SPDCR, b. 817, f. 500012-II; cfr.
Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 153 s. nt. 55-56), il guardasigilli
riferisce al Duce che «il testo del libro I del codice civile (delle persone e dei diritti di famiglia) è oramai pronto. [...] Sanamente innovatore, il nuovo testo accoglie in pieno i principi
informatori del fascismo nel campo della famiglia, i cui istituti sono stati tutti riveduti per dare
ad essi un contenuto pubblicistico corrispondente alle nuove idealità del Regime. [...] Restano
ora alcuni pochi punti che rivestono però particolare importanza di ordine sociale, e quindi
politico, per modo che appare necessario, attesi anche i dissensi manifestatisi, sottoporli in
modo speciale alla Superiore decisione».
30
Vi si dichiarava che il governo fascista si riservava di «vigilare sull’attività degli ebrei
venuti di recente nel nostro Paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva della
Nazione non risultasse sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica
della loro comunità»; cfr. G. Fabre, Mussolini razzista, Milano 2005, p. 34.
31
Raccogliendo documenti dal 1939 al 1942, le carte d’archivio del Gabinetto del Ministero
di grazia e giustizia relative alla riforma del codice civile escludono cronologicamente buona
parte della fase preparatoria del Libro Primo, ricostruibile, come abbiamo visto, soprattutto
grazie alle carte versate nei fascicoli della segreteria particolare del Duce. Si sa poi che gran
parte della documentazione uficiale dei lavori di riforma del codice civile è andata perduta
durante il periodo bellico, in occasione del trasferimento del Ministero di grazia e giustizia al
nord, al tempo della Repubblica di Salò (cfr. G.B. Ferri, Le annotazioni di Filippo Vassalli in
margine a taluni progetti del libro delle obbligazioni, Padova 1990, p. 1 s.), sicché non pochi
e decisivi episodi di quella fase della nostra legislazione restano ignoti.
Ferdinando Treggiari
117
nei primi giorni di settembre –, Solmi inviò al Capo del Governo un appunto,
l’ennesimo (ma decisivo per il nostro tema), intitolato “Problema della Razza e
Libro I del nuovo codice civile”, sollevando il problema del coordinamento tra
l’emananda normativa speciale antiebraica e il libro del codice in procinto di
essere promulgato32. Il Libro Primo è pronto, scrive Solmi, ma la sua materia
«presenta rilessi con il problema della Razza, per modo che le concrete soluzioni che questo problema avrà in sede politica potranno avere ripercussioni,
a seconda del loro contenuto e della loro ampiezza, anche in sede di riforma
dei codici». E suggerisce di inserire: 1) «il divieto del matrimonio tra persone
appartenenti a Razze diverse», da limitare prudentemente ai soli matrimoni
civili, per evitare di violare le norme concordatarie e i conseguenti prevedibili
attriti con la Santa Sede (come si sa, il principio verrà poi adottato dal r.d.-l.
n. 1728/1938 per tutti i matrimoni); 2) l’impotentia generandi come causa
di nullità del matrimonio, anch’essa riconnessa (poco chiaramente) al «problema della Razza»; 3) l’allargamento delle ipotesi di «errore di un coniuge
sulle qualità essenziali dell’altro coniuge, quando si potesse ritenere che la
persona in errore non avrebbe contratto matrimonio, se fosse stata informata
di tale qualità», consigliando a riguardo l’elencazione di ipotesi tassative, tra
cui quella della «malattia contagiosa e ripugnante»; 4) il divieto, salvo facoltà
di dispensa, di far luogo ad adozione e ad afiliazione «tra persone di Razza
diversa, occorrendo difendere tutte le forze spirituali della razza italiana»
(misure, queste, che riluiranno nelle norme del Libro Primo); 5) il divieto
«che il tutore sia di razza diversa da quella del minore» (anche questo divieto
verrà poi ricompreso nel testo promulgato del Libro Primo).
Era questo un elenco ancora provvisorio di limitazioni della capacità per
ragioni di razza, destinato, come sappiamo, a ricevere nei mesi successivi un
più estensivo e sistematico assetto. Nel suo appunto del 27 agosto 1938 Solmi
assicura il Capo del Governo che, issate «le direttive di ordine squisitamente
politico che si daranno per la concreta soluzione del problema della Razza nei
suoi molteplici aspetti [...], sarebbe agevole apportare al testo legislativo, ormai
pronto, le modiicazioni necessarie, afinché il Libro I del Codice civile [...]
possa essere senza indugio promulgato». E per trattare di persona il problema
dei nuovi contenuti del Libro, chiede ed ottiene dal Duce un appuntamento
«in settimana», che viene issato per il 1° settembre 1938. L’urgenza di Solmi
non era spinta solo dalla fretta di varare il Primo Libro del nuovo codice civile
(che nel suo appunto Solmi stesso pronostica possa essere promulgato già «nel
mese di ottobre, possibilmente con la data del giorno XXVIII», ricorrenza della
Marcia su Roma), ma anche dalla necessità di un tempestivo coordinamento
legislativo che non facesse apparire il testo di quel Libro già superato dalle
32
Anche questo documento è in ACS, SPDCR, b. 817, f. 500012-II, ma può leggersi integralmente in Teti, Documenti d’archivio, cit., pp. 385-387, che lo commenta alle pp. 373-378,
come anche Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., pp. 156-159.
118
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
novità degli indirizzi razziali, che stavano per incarnarsi nei primi provvedimenti antiebraici. Dopo il Manifesto della razza la campagna antisemita era
improvvisamente montata. Nel numero di agosto-settembre 1938 della rivista
“Lo Stato” Carlo Costamagna aveva pubblicato un articolo dal titolo Professori
ebrei e dottrina ebraica, in cui, oltre a tuonare contro la «farsa della difesa
del “diritto romano”», schermo del sistema giuridico liberale e «parafrasi del
Codice Napoleone a titolo di codiicazione fascista», aveva invocato «la cacciata dei professori ebraici dalla scuola e dall’Università italiana»33.
Non sappiamo quali direttive Solmi ricevette, se ne ricevette, dal Duce
quel 1° settembre 1938. Di sicuro l’agenda della riforma del Libro Primo da
quella data e per i successivi tre mesi resterà ben aperta sul capitolo razza. Il
6-7 ottobre il Gran Consiglio del fascismo votò la Dichiarazione sulla razza:
forse è dopo questa data che Solmi e i suoi collaboratori, lavorando d’intesa
con gli estensori del futuro r.d.-l. n. 1728, misero mano alle modiiche ‘politiche’ e razziste del Libro Primo, riscrivendone il primo articolo, inserendovi
le disposizioni di rinvio alle emanande leggi speciali ed i nuovi precetti idonei
ad armonizzare con quelle leggi gli istituti familiari. Non abbiamo documenti
che individuino con certezza la mano degli inserti razzisti del Libro Primo.
Il lavoro si compì senz’altro dopo la chiusura dei lavori del Comitato ministeriale incaricato di vagliare l’operato della Commissione parlamentare sul
progetto deinitivo del Libro; e si compì al di fuori di quel Comitato, quanto
meno nella sua compagine uficiale. Verosimilmente Solmi non fece tutto da
solo; forse per l’occasione speciale attinse alla consulenza degli ‘esperti’ della
istituenda Commissione consultiva tecnico-politica; certamente il lavoro non
fu compiuto nelle sedi deputate della riforma. Non vi era tempo perché le
modiiche razziste fossero discusse uficialmente dal Comitato ministeriale
e tanto meno perché tornassero, come era previsto che accadesse, al vaglio
della Commissione parlamentare. Farcito degli emendamenti razzisti, il testo
del Libro Primo del Codice civile (Delle persone)34, insieme a quello delle
Disposizioni sull’applicazione delle leggi in generale, fu approvato col r.d. 12
dicembre 1938, n. 1852 (dunque, in ritardo di appena un mese e mezzo rispetto
agli iniziali pronostici di Solmi). Lo stesso regio decreto di approvazione ne
dispose l’entrata in vigore il 1° luglio 1939, quando il ciclo dei provvedimenti
antisemiti sarebbe stato nel suo vivo e dunque, sul piano applicativo, in piena
e tempestiva sintonia con essi.
Cit. da Rondinone, Storia inedita della codiicazione civile, cit., p. 157 s., nt. 62.
In sede di approvazione del testo del Codice Civile (r.d. 16 marzo 1942, n. 262) il Libro
Primo verrà reintitolato Delle persone e della famiglia, per porre «in risalto la parte essenziale
del Libro destinata alla disciplina dell’istituto della famiglia, come nucleo organizzato delle
persone isiche»: cfr. Codice Civile. Relazione del Ministro Guardasigilli preceduta dalla relazione al disegno di legge sul “Valore giuridico della carta del lavoro”, I edizione stereotipa
del testo uficiale, Roma, Istituto Poligraico dello Stato, 1943, p. 46.
33
34
Ferdinando Treggiari
119
6. L’ultima formulazione dell’art. 1
Nell’appunto di Solmi a Mussolini del 27 agosto del 1938 mancava, lo si
sarà notato, il riferimento alla modiica dell’art. 1 del codice civile. Non è
solo questo indizio documentale a farci ritenere che la metamorfosi di quella
norma sia giunta per ultimo, a chiudere il cerchio dell’intervento di revisione
in chiave razzista del Libro Primo. Di certo essa è il frutto di una rafinata
operazione dogmatica, ben più che un semplice ritocco: «L’uomo è soggetto
di diritti dal» divenne «La capacità giuridica si acquista al» momento della
nascita. Questa desoggettivizzazione e denaturalizzazione dell’enunciato originario era, con tutta evidenza, funzionale alla deroga sancita dal nuovo terzo
comma della norma, che per «le limitazioni alla capacità giuridica derivanti
dall’appartenenza a determinate razze» rinviava alle leggi speciali35. La vistosa deroga non si sarebbe mai potuta armonizzare con la formula partorita
dalla Commissione parlamentare, se non disincarnandone il disposto. Nel
testo nuovo della norma non compare più, infatti, né l’«uomo» né il «soggetto di diritti». Prende il loro posto un’astrazione positivizzata, un attributo
artiiciale che l’ordinamento, come concede, può negare: la «capacità giuridica», avulsa da ogni nesso antropologico, sterilizzata da ogni riferimento
alla realtà naturale dell’uomo. «Il cammino dall’uomo alla fattispecie»36
nella storia dell’art. 1 del codice civile non era stato fulmineo, giacché dopo
il ‘naturalismo’ assoluto della formula del 1930, replicato nell’intitolazione
descrittiva della rubrica dell’art. 1 («L’uomo soggetto di diritti»), la «capacità
giuridica», pur senza trovare corrispondenza nel testo della norma, aveva
fatto capolino già nella rubrica dell’art. 1 del progetto deinitivo del 1936
e in modo ancora più evidente in quella del successivo art. 2, ove era stata
riferita addirittura al concepito37. Nel testo deinitivo dell’art. 1 varato nel
1938, però, impregnava di sé l’intero impianto della norma, eclissando ogni
precedente riferimento ‘umano’:
«La capacità giuridica si acquista al momento della nascita. I diritti che la legge
riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita. Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono
stabilite da leggi speciali».
35
La congettura che «l’introduzione dell’ultimo comma abbia in qualche modo contribuito
alla formulazione inale del primo» è di F.D. Busnelli, Il diritto delle persone, in I cinquant’anni del codice civile. Atti del convegno di Milano 4-6 giugno 1992, I, Milano 1993, p. 108 s.
36
Così ancora Busnelli, Il diritto delle persone, cit., p. 106.
37
«Capacità del concepito» s’intitolava infatti la rubrica dell’art. 2 del Progetto deinitivo
del 1936. Ma, contraddicendola, il testo di quell’articolo (poi sostanzialmente trasfuso nel
secondo comma dell’art. 1 del testo promulgato) attribuiva al concepito i diritti «subordinatamente all’evento della nascita».
120
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
Nella sua relazione al re, presentata il 12 dicembre 1938, annunciando
di voler illustrare le sole «modiicazioni introdotte nel testo del progetto
deinitivo, in seguito alle proposte fatte dalla commissione parlamentare o
che io stesso, dopo maturo esame, ho creduto di apportarvi», Solmi sembra
rivendicare a sé la paternità delle nuove norme discriminatorie; che esalta:
«Tutta la disciplina degli istituti giuridici inerenti a queste materie [il diritto
delle persone e il diritto di famiglia] – scrive – è stata interamente rinnovata
e adeguata alle esigenze dello Stato fascista, provvedendosi alla difesa della
nostra razza da ogni pericolosa contaminazione che possa in qualsiasi modo
inirmare la saldezza delle sue forze isiche e spirituali»38. Solmi non denuncia
di avere messo mano egli stesso al primo comma dell’art. 1, ma enfatizzando
il peso che nell’economia della norma ha il nuovo terzo comma (che rinviava
alle leggi speciali la previsione di limitazioni alla capacità a causa dell’appartenenza a determinate razze) sottolinea lo stretto collegamento funzionale
tra status razziale e capacità giuridica: un collegamento che sarebbe stato
impossibile istituire con l’asserzione «l’uomo è soggetto di diritti», presente
in entrambi i progetti di Libro Primo del 1930 e del 1936. «Mi è sembrato
conveniente – scrive –, in armonia con le direttive razziali del Regime, porre
nel terzo comma dell’art. 1 una disposizione con la quale si fa rinvio alle leggi
speciali per quanto concerne le limitazioni alla capacità giuridica derivanti
dall’appartenenza a determinate razze. La formula usata nel testo contiene
peraltro un’affermazione positiva in quanto sancisce il principio che l’appartenenza a determinate razze può inluire sulla sfera della capacità giuridica
delle persone»39. Anche da queste parole si capisce che la modiica del testo
dell’art. 1, suggerita dalla necessità di armonizzare la legge generale sui diritti
civili indirizzata a tutti i cittadini con la legge speciale che aveva sancito gravi
limitazioni dei diritti per quelli di “razza ebraica”, non si riduceva all’aggiunta
di un comma, perché ad uscirne stravolta era l’architettura dell’intera norma.
La quale non era stata semplicemente interpolata con un rinvio alle leggi
speciali discriminatorie, ma in funzione di quelle leggi aveva mutato struttura
e impianto concettuale, accentrando il disposto del suo primo comma non
più sull’enunciato («ilosoico» e «didascalico» quanto si vuole, ma di forte
pregnanza ideale, oltre che coerente con il tenore della legge generale civile),
per cui qualsiasi uomo è soggetto di diritti, ma sulla categoria astratta della
capacità giuridica, che, a paragone, è categoria di grado ideale rilevantemente
38
Relazione a S.M. il Re Imperatore del Ministro Guardasigilli (Solmi) presentata all’udienza del 12 dicembre 1938-XVII per l’approvazione del testo delle Disposizioni sull’applicazione delle leggi in generale e del Libro Primo del Codice civile, in Ministero di Grazia
e Giustizia, Codice civile. Libro Primo, Roma, Istituto Poligraico dello Stato, 1938, p. 3. Il
corsivo delle citazioni è mio.
39
Relazione a S.M. il Re Imperatore del Ministro Guardasigilli (Solmi), cit., p. 6 (corsivo
mio).
Ferdinando Treggiari
121
minore: al punto da essere assoggettabile ai criteri variabili e contingenti delle
leggi speciali; al punto da poter essere asservita, grazie alle sue intrinseche
proprietà selettive, all’operatività di una deroga talmente incisiva da annichilire il principio stesso, secondo cui la capacità si acquista con la sola nascita.
Era stata dunque proprio l’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 1 la
ragione criptica della scelta del nuovo paradigma della ‘capacità giuridica’,
organico alla legittimazione delle disparità di trattamento. Ed era proprio questo
nuovo paradigma a garantire, nella lettura della norma, la saldatura sistematica
dei due enunciati, stretti tra loro dalla logica, per cui se la capacità, concessa
dalla legge, è la condizione del godimento dei diritti civili, la legge può limitare la capacità. Dietro la sua purezza concettuale, la categoria della «capacità
giuridica» rappresentava dunque per il legislatore razzista «un più rafinato
strumento di selezione dei soggetti di diritto»40, la chiave giustiicativa della
legittimità della disuguaglianza per ragioni di razza. Una disuguaglianza tanto
patente da elevarsi – come solo in pochi avevano all’epoca colto e denunciato41
– al rango di nuovo principio costituzionale, che soppiantando l’art. 24 dello
Statuto albertino riportava le lancette del diritto indietro di oltre cent’anni42.
Se questa diagnosi stratigraica della norma è giusta, potrebbe allora anche
ritenersi che l’eredità post-fascista dell’art. 1 contenga ancora una virtuale posta
passiva. L’intervento chirurgico di ‘defascistizzazione’ del codice civile (ispirato
alla tesi delle «zeppe, senza legame con l’organismo del codice», delle «incrostazioni politiche puramente verbali», delle «interpolazioni di congiuntura, senza
rilievo nell’orditura delle norme», di cui parlò Francesco Santoro-Passarelli43;
delle «inserzioni politiche», di cui parlò Giuseppe Ferri44; delle «bestioline parassite», di cui parlò Piero Calamandrei, facilmente estirpabili con le «pinzette»
dal tessuto prevalentemente tecnico del codice civile45), limitandosi ad amputare
Busnelli, Il diritto delle persone, cit., p. 108: «Nel testo deinitivo dell’art. 1 la scissione tra immagine reale e immagine normativa dell’uomo è compiuta [...]. La scomparsa del
riferimento all’”uomo” è completa e deinitiva: nessun codice europeo conosce un’eclisse
così totale».
41
F. Santoro-Passarelli, Lineamenti di diritto civile. Persone isiche, Padova 1940, p. 3;
cfr. il mio Questione di stato, cit., pp. 852 ss.
42
Basti dire (lo nota S. Caprioli, Codice civile. Struttura e vicende, Milano 2008, p. 155)
che il r.d.-l. 17 novembre 1938, n. 1728, convertito nella l. 5 gennaio 1939, n. 274, faceva
rivivere nel regno molti disposti delle Costituzioni del ducato di Modena, dettate da Francesco
III d’Este il 26 aprile 1771 (libro III, tit. IX Degli ebrei, spec. §§ IX s., XVI).
43
F. Santoro-Passarelli, Il mutamento politico e il codice civile (1969), in Id., Libertà e
autorità nel diritto civile. Altri saggi, Padova 1977, p. 28; Id., La riforma dei codici, in Diritto
e giurisprudenza, 1945, p. 34 s.; Id., Elogio di Filippo Vassalli, in Id., Saggi di diritto civile,
Napoli 1961, p. 91.
44
G. Ferri, La riforma dei codici, in L’Epoca, 25 febbraio 1945, poi in Id., Scritti giuridici,
I, Napoli 1990, p. 20 s.; cfr. il mio Di Giuseppe Ferri, dei codici e di altre cose commendevoli,
in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1996, pp. 481 ss.
45
P. Calamandrei, Sulla riforma dei codici (marzo 1945), in Id., Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, I. Storia di dodici anni, 1, Firenze 1966, pp. 57-58. Sul tema del40
122
Legislazione razziale e codice civile: un’indagine stratigraica
il solo terzo comma dell’articolo 1 e lasciandone intatta nel suo esatto tenore la
prima (e anche la seconda, coerente) parte, avrebbe infatti mantenuto in vigore
la premessa categoriale e logica della norma discriminatrice, congegnata in quei
termini e all’ultima ora del processo di riforma del Libro Primo proprio perché
propedeutica alla discriminazione parallelamente operata con lo strumento della
legislazione speciale.
È indubbio – ed è persino superluo notarlo – che, una volta soppresso
l’intero corpo della normativa razzista, l’enunciato del primo comma dell’art.
1, inerendo ad un mutato assetto di principi giuridici e di valori sociali, abbia
perduto la sua valenza originaria, accedendo a contenuti nuovi, quanti sono
capaci di assumere in sé le categorie giuridiche46. Reso innocuo dall’art. 3
della Costituzione repubblicana, che lo ha rivestito di una nuova isionomia
egualitaria, l’istituto della capacità giuridica ha smesso di funzionare da tempo
nel nostro ordinamento come strumento misuratore dei diritti delle persone e
come criterio di disuguaglianza. Depurata dall’ambiguità dogmatica innescata
dall’introduzione del precetto discriminatorio (l’ultimo capoverso dell’art. 1),
che proprio su quel concetto aveva fatto leva per distinguere, sin dal suo primo
momento di vita, una persona dall’altra; perduta ogni potenzialità selettiva dei
soggetti di diritto, la capacità giuridica è tornata «a coincidere puntualmente
e senza residui»47 con la soggettività giuridica.
Non si può però non riconoscere che la purgazione operata sull’art. 148 non
è stata l’unica possibile, essendosi limitata alla parte più appariscente della
contaminazione razzista del testo normativo, senza scardinarne l’impianto.
Di fronte alle successive conquiste della coscienza e della vigenza dei diritti
fondamentali, il vecchio grafito dell’art. 1 ancora campeggia nel palinsesto
del codice civile a testimoniarci il suo oscuro retaggio.
l’«epurazione» dei codici cfr. P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento
storiograico sui rapporti tra codiicazione civile e regime, in Quaderni iorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno, 28, 1999, pp. 175-292, spec. pp. 258 ss.; G.B. Ferri, Filippo
Vassalli e la defascistizzazione del codice civile, in Diritto privato, II (1997), pp. 593-634 (e
in Studi in onore di Pietro Rescigno, I, Milano 1998, pp. 391-426).
46
La storia della formazione di una norma giuridica aiuta poco più che a conoscere le
‘intenzioni’ di chi l’ha formulata, ma essendo queste intenzioni destinate a perdersi nella
proiezione applicativa della norma, l’ambito semantico di questa inirà per essere «coestensivo» alla sua interpretazione: cfr. Caprioli, Codice civile, cit., pp. 5, 195. Analoga vicenda
di trasformazione subiscono i concetti incorporati nella norma, destinati anch’essi a variare
nell’inerenza di quella ai differenti contesti; la struttura concettuale dell’art. 1 cod. civ. 1942
è un buon esempio di questa metamorfosi.
47
A. Falzea, Capacità (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, VI, Milano 1960, p.
14 (richiamato da Busnelli, Il diritto delle persone, cit., p. 125, nt. 86).
48
Vi provvidero il r.d.-l. 20 gennaio 1944, n. 25 (Disposizioni per la reintegrazione nei
diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica) e il d.legisl.luog. 14 settembre 1944, n. 287 (Provvedimenti relativi alla
riforma della legislazione civile).
olindo de napoli
oGGETTI dI PIACERE E “InSABBIATI”.
REATo dI MAdAMISMo E “PoLITICITà dEL PERSonALE”
nELLE CoLonIE dELL’AFRICA oRIEnTALE ITALIAnA
1. Per la difesa della razza: la «legge organica per l’Impero»
Nelle dottrine giuridiche e nella giurisprudenza, apparve molto chiaro il
nesso tra impero e politica razzista. Nel 1937 Marino Mutinelli dimostrava
una chiara consapevolezza del legame tra la realtà coloniale e il problema
della razza: la conquista dell’Etiopia poneva «nuovi problemi», poiché contava molto la differenza di numero di coloni presenti rispetto alle due colonie
precedentemente conquistate. Il vero problema dell’impero era quello della
razza, per cui non era necessaria solo la difesa della “razza bianca”, ma anche la preservazione della coesistenza accanto ad essa, di quella indigena1.
L’autore propugnava l’emanazione di nuove norme, anche di carattere amministrativo, per intensiicare la politica di difesa della razza: era essenziale
evitare il pericolo costituito dalla nascita dei meticci, questione di «enorme
importanza – oltrecché isio-psicologica – morale giuridica e sociale»2. L’autore descriveva i meticci sia come isicamente inferiori, sia come fattori di
instabilità sociale; il problema di spiegare perché i meticci avessero le suddette
caratteristiche e perché le colonie fossero abitate da razze inferiori non era
nemmeno posto: il fatto era considerato un dato acquisito. Così, anche per
Berlindo Giannetti, collaboratore della rivista giuridico-politica «Lo Stato»,
la conquista dell’Impero poneva la razza italiana di fronte alla necessità della
propria difesa, e, quanto al problema del meticciato, esso si qualiicava come
«problema di razza nella difesa del nostro sangue da iniltrazioni di sangue di
colore»3. Giannetti, che pure in alcune occasioni protestò vivacemente contro
1
M. Mutinelli, La difesa della razza nell’Africa Orientale Italiana, in Lo Stato, fasc. 10,
ottobre, 1937.
2
Ibidem.
3
B. Giannetti, Gli ebrei e i problemi della razza, in Lo Stato, cit., 1938, p. 492.
124
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
un’impostazione puramente biologica del razzismo4, non faceva mistero che
per quanto riguardava la politica discriminatoria verso i neri si poneva anzitutto
un “problema di sangue”.
Erano in molti a sostenere che il problema della razza fosse il primo problema giuridico a porsi una volta conquistato l’impero; per Mario Manfredini
se ne deduceva che il legislatore doveva tener conto dei fattori biologici per
regolare i rapporti tra le razze in colonia:
Fondato il secondo impero di Roma, una delle questioni più profonde, che in ogni
tempo si presentarono ai colonizzatori, si è imposta nell’opera di conquista giuridica
con cui si attua la civilizzazione, cioè il ine più alto della conquista bellica: essa si
riferisce ai rapporti di coesistenza tra le razze diverse, che si trovano ora a venire
sullo stesso territorio5.
All’indomani dell’emanazione delle prime norme antiebraiche, Carlo
Costamagna, direttore de «Lo Stato», proponendosi di trattare in modo
esauriente e sistematico il problema della razza, affermava il legame tra
razzismo e imperialismo in maniera limpida6. Per l’autore erano accomunate
dalla stessa ideologia le norme sul razzismo verso i popoli indigeni, dovute
alla “missione civilizzatrice dell’Italia”, e le norme antisemite, cui si riferiva
il citato discorso di Trieste di Mussolini. L’ideologia imperiale risultava la
chiave interpretativa adottata da Costamagna per giustiicare il razzismo in
ogni sua espressione, “anche nella versione dell’antisemitismo”, poiché «alla
base di ogni imperialismo sta, in un modo o nell’altro, l’idea razziale, alla
quale è sempre congiunta l’opinione di una superiorità civile nei confronti
di tutte le altre genti»7.
La più recente storiograia sottolinea che fu la conquista dell’impero ad
imprimere al regime una decisa svolta nel senso del razzismo8. Si accentuò in
questo periodo, inoltre, il divario politico esistente tra la condizione dei libici,
4
In particolare polemizzò contro il razzismo nordicista e anti-latino di Giulio Cogni, autore
de I valore della stirpe italiana, Milano 1937.
5
M. Manfredini, Razzismo matrimonio e legittimazione di prole nell’Impero, in Rivista
di diritto coloniale, n. 2-3-4, aprile-dicembre 1938.
6
C. Costamagna, Il problema della razza, in Lo Stato, fasc. XI, novembre 1938.
7
Ibidem.
8
La tesi defeliciana che in passato era prevalsa, secondo cui la scelta del regime per il
razzismo era dovuta a ragioni di politica estera, in funzione all’avvicinamento alla Germania
nazista, è oggi sottoposta ad innumerevoli critiche; cfr., in particolare, A. Burgio, L’invenzione
delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma 1998; D. Bidussa, Il mito del bravo
italiano, Milano 1994, che sottolinea la necessità di liberarsi dal “demone dell’analogia” e
studiare il fenomeno dell’antisemitismo italiano nella sua speciicità; M. Sarfatti, Gli ebrei
nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000 e La Shoah in Italia. La
persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Torino 2005, dove si stigmatizzano “i fabbricanti
di consolazioni aventi nazionalità non tedesca” (p. 37).
Olindo De Napoli
125
verso i quali formalmente si perseguiva l’assimilazione, e la condizione dei
sudditi dell’Africa Orientale Italiana.
La cosiddetta Legge organica dell’Impero, cioè il regio decreto legge del
1° giugno 1936 n. 1019, recava norme su “Ordinamento e amministrazione
dell’Africa Orientale Italiana”. Al capo secondo, «della sudditanza», troviamo
una normativa che iniziava a manifestare l’ostilità del regime verso i meticci9.
Gli art. 28 e 30 del r.d.l. 1019 del 1936 ricalcavano abbastanza fedelmente rispettivamente gli art. 15 e 17 della legge n. 999 del 1933 sull’Eritrea e la Somalia
Italiana. Apparentemente le norme generali sull’acquisizione della sudditanza
rimanevano quindi invariate, comprese quelle volte ad attribuire la cittadinanza
al iglio di genitori ignoti ma entrambi bianchi. La legge presentava, però, due
importanti novità. La prima consisteva nell’abrogazione della norma, contenuta
nell’art. 18 della citata legge n. 999 del 1933, che conteneva la possibilità che
il meticcio iglio di genitori ignoti acquisisse la cittadinanza italiana. Si tratta
di un ripensamento rispetto ad una normativa emanata solo tre anni prima, che
svela chiaramente la nuova ostilità del regime verso il meticciato. È solo dalla
comparazione della legge organica dell’impero con la precedente legge organica
per l’Eritrea e la Somalia Italiana del 1933 che è possibile dedurre l’esistenza di
un nuovo atteggiamento restrittivo del regime fascista sul problema dei meticci.
La ratio della norma del 1936 era la tutela dell’omogeneità razziale italiana,
anche se rimaneva in piedi l’ipotesi dell’acquisizione della cittadinanza per i
meticci per matrimonio o riconoscimento del padre cittadino.
Anche la norma contenuta nella lettera c) del primo comma dell’art. 28,
secondo la quale la donna che sposava un indigeno perdeva la cittadinanza
italiana acquisendo anch’essa lo status di suddita aveva carattere razzista.
Essa, confermando l’identica disposizione del 1933, assumeva un atteggiamento punitivo verso quello che era considerato un comportamento lesivo
della «dignità razziale». La ratio di questa norma mi sembra la necessità della
tutela del prestigio della superiore dignità della razza dei dominatori rispetto
agli indigeni dominati.
L’ex governatore dell’Ertitrea Riccardo Astuto, alla ine del decennio,
sottolineava che la legge organica per l’impero rappresentava una svolta, introducendo in Italia il diritto razzista. Infatti, la inalità era quella di assicurare
la «purità assoluta della razza nelle masse destinate a popolare l’Impero»10.
Lo stesso Astuto, subito a ridosso dell’emanazione della legge organica per
l’impero, aveva modo di sottolineare come con tale legge si volesse invertire
la rotta nella regolamentazione dello status dei meticci; il fatto che ino a quel
momento non si era provveduto contro il meticciato in Somalia ed Eritrea
non era dovuto ad una divera valutazione del fenomeno, ma alle «proporzioni
La legge fu pubblicata in Gazzetta Uficiale del Regno d’Italia del 13 giugno 1936, n. 136.
R. Astuto, Il diritto razzista base dell’Impero, in Il diritto razzista, n. 1, maggio-giugno
1939, p. 43.
9
10
126
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
relativamente modeste che essa aveva avuto, data la scarsa popolazione italiana di quelle due Colonie». Ma adesso, dopo la conquista dell’Etiopia e lo
spostamento nel Corno d’Africa di una ingente massa di uomini, si dichiarava
«indispensabile ed urgente di provvedere»11.
I meticci rappresentavano ora per il regime un problema prioritario; la
loro stessa esistenza era intesa come un’offesa alla purezza razziale e un serio
pericolo per l’ordine pubblico. Non esistevano norme in grado di contenere
tale minaccia, poiché come era pericoloso assimilarli agli italiani, così anche
risultava dificile farli accettare tra gli indigeni:
Va inoltre tenuto presente che, se il considerare i meticci come italiani danneggia
gravemente la purezza della razza, il considerarli come indigeni presenta altri gravissimi
inconvenienti. Anzitutto per la popolazione indigena questi mezzosangue sono italiani. Il
trattarli come sudditi danneggerà il prestigio della razza dominante. In secondo luogo – e
ciò è più importante – questi meticci costituiscono quasi sempre, per lo squilibrio che
esiste in loro stesso tra le due razze che li hanno formati, un elemento dificile. Meno
non molte eccezioni, lo costituiranno ancor più quando saranno rigettati tra gli indigeni.
Potrebbero formare nella popolazione locale uno stato maggiore di malcontenti e di
insofferenti. E il sangue paterno varrà pur qualche cosa nelle loro vene. Inoltre l’indole
buona e generosa della nostra popolazione la porterà a considerare questi meticci più
come italiani che come indigeni. E ciò creerà nuove e maggiori dificoltà12.
L’unica soluzione possibile era quella di costruire un quadro normativo che
progressivamente ne impedisse la nascita. Nella prospettazione di questa evoluzione la legge del ’36 costituiva solo una tappa. La priorità diveniva impedire la
nascita di meticci nell’Africa orientale italiana13.
Del resto Mussolini già nell’estate del 1935 aveva dato ordine di predisporre
con «urgenza un piano, per evitare il formarsi di una generazione di mulatti in
Africa Orientale»14.
2. La strana norma del 1937: il reato di madamismo
Per impedire la nascita dei meticci bisognava affrontare il problema delle
relazioni sessuali miste15, nonché il problema stesso dei matrimoni misti. I
11
R. Astuto, La legge organica per l’Impero dell’Africa Orientale Italiana, in Rassegna
italiana, agosto-settembre, 1936.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
14
Documento citato in G. Barrera, Sessualità e segregazione nelle terre dell’impero, in
Storia e Memoria, 1, 2007, p. 31.
15
Su questo argomento si veda l’ampio articolo di G. Gabrielli, Le persecuzioni delle
“unioni miste” (1937-1940) nei testi delle sentenze pubblicate e nel dibattito giuridico, in
Olindo De Napoli
127
nati dalle unioni del primo tipo potevano divenire cittadini italiani, mentre i
nati da quelle del secondo tipo lo erano per nascita, cosa che non poteva che
preoccupare il regime impegnato nella separazione e puriicazione dei cittadini
dai sudditi e dai misti.
Mario Manfredini a proposito della legislazione liberale sui problemi del
matrimonio e della legittimazione, sottolineava come in essa gli aspetti riguardanti la sessualità non fossero in alcun modo rilevanti: «si considerò che
la fusione della razza era da combattere per ragione politica e di prestigio: e
pertanto essa fu regolata nel suo aspetto giuridico-sociale, cioè nell’istituto
del matrimonio e nella legittimazione, mentre che il fatto naturale dei rapporti
di sesso restò estraneo ad ogni regolamento». Le istanze razziste erano ben
presenti, ma esse non si esplicavano nel divieto di matrimoni misti, perché
l’esigenza di tutela della superiorità razziale poteva essere soddisfatta anche
all’interno di tali situazioni16. Ancora negli anni Trenta era possibile la legittimazione di un iglio nato da unione mista al di fuori del matrimonio; era,
inoltre, possibile il matrimonio con persona suddita, poiché non esistevano
cause di impossibilità giuridica, ma solo taluni impedimenti: tale matrimonio
legittimava i igli.
Dopo la conquista dell’impero il regime decise di reagire e di iniziare ad
ostacolare la possibilità della formazione del meticciato per tutelare la «dignità
della razza dominatrice»; fu in questo contesto che il 19 aprile del 1937 fu
emanato il regio decreto legge n. 88017, poi convertito, senza modiicazioni
sostanziali, in legge 30 dicembre 1937 n. 259018, consistente in un unico articolo, secondo il quale:
Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione
d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali
analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana, è punito con la reclusione
da uno a cinque anni.
Ora, per dirla con le parole del Manfredini, il «fatto naturale dei rapporti
di sesso» non era più «estraneo ad ogni regolamento», come in età liberale.
La ratio legis di tale provvedimento era l’esigenza di tutelare la superiorità
Studi piacentini. Rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea, 20
(1996), pp. 83-140.
16
M. Manfredini, Razzismo matrimonio e legittimazione di prole nell’Impero, in Rivista
di diritto coloniale, n. 2-3-4, aprile-dicembre 1938, p. 356-366.
17
Pubblicato in Gazzetta Uficiale del Regno d’Italia, 24 giugno 1937, n. 145.
18
Pubblicato in Gazzetta Uficiale del Regno d’Italia, 3 marzo 1938, n. 51; la legge
sostituiva alle parole «straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi
e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana» il
termine «assimilata».
128
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
razziale dei conquistatori e dominatori: per questo si imponevano loro particolari limitazioni e restrizioni. Si intendeva evitare la promiscuità di carattere
familiare, che si sarebbe manifestata con la nascita del popolo naturalmente e
moralmente inferiore dei meticci, nonché una promiscuità di carattere sociale,
consistente nel livellamento del popolo dominante e del popolo dominato.
Nulla potrebbe illustrare meglio queste motivazioni di quanto affermato in
una sentenza del Tribunale di Addis Abeba del 1938:
Il divieto di tenere simili relazioni fa parte di quella serie di provvedimenti, che
sono tutti intesi e diretti ad attuare la nuova politica coloniale del Governo Nazionale
Fascista, che, avendo per primo, e per il genio del suo Capo, compresa l’alta funzione che la storia assegna alla civiltà italiana nel mondo, non poteva non imporre ai
portatori di detta civiltà tutti quei limiti e quelle restrizioni che li mantenessero nello
stato di superiorità isica e morale che deve possedere ogni razza conquistatrice e
dominatrice e che può esistere e conservarsi solo coll’evitare qualsiasi promiscuità
famigliare con le razze soggette o inferiori. Tale promiscuità, infatti, oltre ad avere
come conseguenza la creazione di un popolo di meticci, e quindi di un popolo isicamente e moralmente inferiore, perché è noto che il meticcio riunisce in sé le tare e
i difetti delle razze diverse cui appartengono i suoi genitori, senza ereditarne i pregi,
avrebbe anche l’altra inevitabile e non meno deleteria conseguenza di una promiscuità
sociale, che accomunerebbe e metterebbe allo stesso livello popolo conquistatore e
popolo conquistato con la perdita di ogni autorità e prestigio del primo, e che, come
ebbe ad avvertire ed ammonire il Ministro dell’Africa Italiana, rinnegherebbe le nostre
migliori qualità di stirpe dominatrice. Come vedesi, i beni che si sono voluti tutelare
con la legge sul madamismo sono la purità della nostra razza, la nostra superiorità
ed il nostro prestigio di fronte ai sudditi, ma sono beni codesti che appartengono al
patrimonio morale del cittadino soltanto e, se è così, il cittadino soltanto è tenuto a
rispettarli e non offenderli19.
Il concetto di razza non compariva nel testo normativo; esso tuttavia ne era
il fondamento, poiché rappresentava il bene giuridico che la norma era volta a
tutelare. Istituendo, infatti, quello che fu deinito dalla giurisprudenza delitto di
madamato, o anche madamismo, si iniziavano a delineare i tratti di quello che
divenne un vero regime di apartheid, ossia di separazione tra sudditi e cittadini.
Una particolare attenzione merita l’analisi della costruzione retorica della
norma che istituì il reato di relazione di indole coniugale. Nel momento in cui
essa stabiliva una pena per il solo cittadino, affermava implicitamente che il
reato era commesso solo da lui (o, in teoria, lei); non era cioè descritto come
antigiuridico un fatto oggettivo, cosa che avrebbe comportato l’attribuzione di
19
Sentenza del Tribunale di Addis Abeba del 13 gennaio 1938, Pres. ed Est. Buongiorno,
riportata in Il diritto razzista, anno I, n. 1-2, maggio-giugno 1939, p. 66.
Olindo De Napoli
129
una pena ad entrambi i soggetti coinvolti in questo, bensì era descritto come
antigiuridico il solo comportamento soggettivo del cittadino, che, degradandosi
ad avere rapporti di un particolare tipo con persone di “razza inferiore”, danneggiava il suo stesso gruppo, la sua razza. Mantenere il prestigio di razza era,
secondo la retorica fascista, un obbligo che sorgeva innanzitutto e soprattutto
in capo ai membri della razza superiore; perciò era soprattutto degli italiani
nelle colonie la responsabilità che le differenze razziali fossero rispettate.
Come sottolineava Giovanni Leone, al tempo docente di Diritto e procedura penale, solo gli italiani erano imputabili poiché «l’essere portatori di una
civiltà millenaria, e la più alta che il mondo conosca, costituisce titolo per
una maggiore responsabilità e non causa di privilegi»20. Il prestigio razziale
di fronte ai sudditi era un bene giuridico appartenente «solo al patrimonio
morale del cittadino» 21.
Se la rinnovata aggressività nei rapporti con i sudditi e verso i meticci incontrava, come si è visto, il favore di alcuni giuristi, più di un dubbio sollevò
l’aspetto paternalista di una norma che per tutelare il prestigio dei bianchi
iniva per combinare, nel caso di relazione interrazziali di indole coniugale,
una sanzione aflittiva solo ad essi e non anche ai sudditi.
3. I commenti dei giuristi
Intanto, c’è da rilevare la forte attenzione che la dottrina riservò ai problemi
interpretativi circa il delitto di madamato22; notevoli problemi suscitarono in
particolare il carattere unilaterale del reato, poiché era punito il solo cittadino
e non anche la persona suddita, e l’interpretazione della locuzione «relazione
d’indole coniugale».
In realtà, se si fosse voluta prioritariamente evitare la nascita di meticci, si
sarebbe punito anche il singolo rapporto sessuale (e magari in modo più forte
la relazione sessuale continuata) e non la «relazione d’indole coniugale», cioè
un rapporto somigliante al matrimonio. La formulazione della norma lasciava intendere che gli italiani in colonia potevano avere rapporti sessuali con
indigene, purché queste non assumessero un ruolo sociale in qualche misura
paragonabile a quello di una moglie.
Effettivamente, la locuzione «relazione di indole coniugale» attrasse fortemente l’attenzione dei giuristi: la giurisprudenza era chiamata, evidentemente,
ad indicare gli elementi che costituivano una tale fattispecie, giacché questi non
20
G. Leone, La non punibilità dell’indigena per il delitto di madamato, Nota a sentenza del
Tribunale di Gondar, 19 novembre 1938, in Rivista italiana di diritto penale, n. 1, 1939, p. 88.
21
Ibidem.
22
Per una rassegna generale della dottrina sull’argomento, cfr. Il diritto razzista, 1940,
pp. 243-245.
130
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
erano indicati dalla norma. Bastava ad integrare il reato una relazione sessuale di
una certa durata, e se sì, di quale durata? Costituiva requisito l’aspetto soggettivo
e psicologico dell’affetto del cittadino verso la suddita? Si doveva guardare ad
elementi esteriori come l’accompagnarsi pubblicamente e frequentemente alla
donna indigena? Le corti d’appello dell’Africa Orientale Italiana e la totalità
dei giuristi concordavano nel ritenere insuficiente per la commissione del
reato la mera esistenza di una relazione sessuale, o di rapporti occasionali o
saltuari. Si precisava, infatti, che non era punito il cittadino che esplicasse un
«mero sfogo isiologico»23; anzi, uno degli elementi più frequentemente citati
a discolpa dell’imputato era il pagamento di una somma come prezzo, che
provasse il meretricio24. La corte di appello di Addis Abeba sottolineava che
era necessario «un periodo di tempo che autorizzi si dica formata una costanza
e duraturità di rapporti tale da tramutare l’uso isiologico del sesso in relazione
coniugale»25. E affermava, poi, che «la legge penale in tema di madamismo non
intende reprimere i congressi carnali con le indigene come tali»26.
Cordova notava che il concubinato per integrare la fattispecie criminosa
doveva avere carattere di “relazione di indole coniugale”, per cui non era
di per sé punita neanche la relazione sessuale “continuata”; non era, d’altra
parte, vietato il matrimonio (il divieto di matrimonio venne effettivamente
stabilito solo nel 1939). Anche Manfredini era di tale avviso, ritenendo che
per la sussistenza del reato occorresse la costanza e la continuità dei rapporti
sessuali27. Si concordava, in generale, sul fatto che l’elemento materiale del
reato fosse costituito almeno da una relazione sessuale continuata nel tempo
estranea alla prostituzione.
Oltre al problema del lasso di tempo necessario, si discuteva su quali caratteristiche dovesse avere la relazione. Dopo un periodo iniziale in cui si era
affermata la necessità di dar prova dell’affectio maritalis, ossia dell’elemento
psicologico dell’affetto28, la giurisprudenza si orientò a ritenere tale accertamento solo eventuale29, per poi consolidarsi nell’idea di escluderlo del tutto,
23
Corte d’Appello di Addis Abeba, 3 gennaio 1939, pres. e rel. Carnaroli, imp. Melchionne,
riportata in Razza e civiltà, anno I, 1940, p. 548.
24
Si veda ad esempio la sentenza del tribunale di Asmara del 5 aprile ‘39, Pres. Regnoli,
imp. Arena, secondo cui il reato «non si veriica nel caso di nazionale che abbia qualche
rapporto carnale con l’indigena che esercita la prostituzione, pagandola di volta in volta», in
Razza e civiltà, anno I, 1940, p. 675.
25
Sentenza citata in Razza e civiltà, anno I, 1940, p. 552.
26
Ivi, p. 551.
27
Cfr. M. Manfredini, Ancora alcune questioni in tema di madamato, nota a sentenza del
Tribunale di Addis Abeba, 11 ottobre 1938, in Rivista penale, 1939, parte I, p. 611.
28
Cfr. la sentenza del Tribunale di Addis Abeba del 13 gennaio 1938 - Pres. ed Est.
Buongiorno – imputati Puccinelli e Ascalè, in Il diritto razzista, anno I, n. 1-2, maggio-giugno
1939, pp. 64-66.
29
Cfr. la sentenza del Tribunale di Gondar del 19 novembre 1938, Pres. ed Est. Maistro,
imputato Spano, in Razza e Civiltà, anno I, n. 1, p. 130. Il dott. Manlio Nuzzo, commentando
Olindo De Napoli
131
in considerazione della dificoltà di accertare un aspetto così delicato ed intimo30. Si è opportunamente notato come il ritenere tale elemento inconferente
nell’accertamento del reato di madamismo allargasse l’ambito di punibilità
della norma31. Per quanto riguarda la dottrina, la rilevanza dell’elemento
psicologico «semplicissimo per se stesso e comprensibile senza bisogno di
commento perché essenzialmente umano»32, era affermata da Gatti. Rosso, al
contrario, non perdendo occasione di stigmatizzare l’immoralità delle donne
indigene, affermava che non erano necessarie «ricerche di carattere soggettivo e sentimentale, neanche da parte del nazionale, inquantochè nell’indigena
la normale molla di queste unioni è l’interesse»33. Anche Giannetti riteneva
tale elemento non necessario, apostrofando con tono sprezzante i giudici che
agivano diversamente elargendo assoluzioni:
avremo allora così sempre qualche compiacente giudice, in vena di essere generoso, che andrà a ricercare fra le condizioni di punibilità perino l’affectio maritalis
o altri ostacoli del genere di ingrata memoria34.
Da accertare erano, invece, tutti quegli elementi che costituivano la “rappresentazione esterna” di un rapporto simile al matrimonio, quali in particolare
la comunanza di vita, il mostrarsi assieme in pubblico, la convivenza sotto
uno stesso tetto, la condivisione del letto e della mensa, la pratica di elargire
doni, l’esclusività anche solo richiesta dei rapporti sessuali.
Stefano Maria Cutelli, fondatore della rivista Il diritto razzista, commentava amareggiato «l’infelice dizione»35 del r. d. l. n. 880 del 1937, poi ripresa
nella legge di conversione, che parlava di «relazioni d’indole coniugale»; si
rammaricava del fatto che, sulla base di tale locuzione, la Corte d’Appello
nell’Impero non avesse potuto condannare un bianco che intratteneva «un rap-
la sentenza in Il diritto razzista, anno I, n. 1-2, p. 69, deiniva quest’orientamento giurisprudenziale ispirato ad un «maggiore, giusto rigore» rispetto a quello precedente che reputava
necessaria l’indagine sull’affectio maritalis.
30
Un elenco delle sentenze in cui si riteneva l’affectio maritalis elemento necessario del
reato è in G. Gabrielli, La persecuzione, cit., pp. 98-100.
31
Ivi, p. 98. Gabrielli avanza anche l’ipotesi che in Eritrea ci fosse più tolleranza verso
il madamismo, perché nella colonia primigenia il fenomeno era più radicato; tale ipotesi è
basata sulla constatazione che, almeno stando alle sentenze pubblicate, i tribunali dell’Eritrea
consideravano necessaria l’affectio maritalis, tendendo ad assolvere in assenza di questa; cfr.
ivi, p. 101.
32
V. Gatti, Il delitto di madamato nella giurisprudenza delle magistrature dell’Impero,
Nota a sentenza della Corte d’Appello di Addis Abeba del 3 gennaio 1939, in Il Foro Italiano,
fasc. IX, parte II, 1939, col. 141.
33
G. Rosso, Deinizione dell’espressione, cit., p. 683.
34
B. Giannetti, Diritto penale e difesa della razza (III), in Rassegna sociale dell’Africa
italiana, anno II, settembre 1939, n. 9, p. 1064.
35
Il diritto razzista, cit., 1940, p. 244.
132
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
porto sessuale continuato con una suddita di colore sol perché detto rapporto
continuato non era improntato obiettivamente alla rappresentazione esterna
di un matrimonio di fatto»36.
L’aspetto più problematico della legge e che più attirò l’attenzione dei
giuristi era la punibilità del solo cittadino. A quanto scriveva Giovanni Rosso
su Razza e civiltà, essa era «affermata costantemente dalla giurisprudenza dei
tribunali coloniali»37. Il carattere di unilateralità del reato fu invocato in un
processo svoltosi ad Addis Abeba e conclusosi all’inizio del 1938. Il pubblico
ministero richiese una sanzione anche per Ascalè, la donna indigena: questa,
in accordo con le norme sul concorso nel reato (art. 110 c. p.38), era, a suo
avviso, imputabile come concorrente proprio perché la sua azione era volta
alla medesima violazione di quella del cittadino39. Ma il giudice rigettò tale
richiesta in considerazione del fatto che non si era in presenza di reato unilaterale ma bilaterale: le due azioni non erano dirette a violare la stessa norma,
poiché, per la lettera della legge, solo il cittadino aveva la responsabilità di non
ledere il prestigio della propria razza, abbassandosi al livello di una suddita
in un rapporto simile al matrimonio. Vi era, cioè, un «rapporto delittuoso» tra
i due soggetti, ma non una «associazione delle loro volontà dirette a violare
lo stesso precetto penale», per cui il reato era da considerarsi bilaterale e non
unilaterale. Il p.m. che aveva chiesto l’incriminazione anche della suddita
era Mario Manfredini, giurista che poi si impegnò per un cambiamento della
stessa norma40. La giurisprudenza si orientò ad escludere la responsabilità del
suddito; i giuristi perlopiù appoggiarono tale interpretazione, ma molti malumori suscitava il paradosso per cui una legge che si voleva razzista iniva per
punire solo il cittadino e non il suddito, il bianco e non il nero.
Il p.m. Manfredini, sconitto in tribunale, continuò a sostenere la sua
interpretazione: riteneva, contro la giurisprudenza prevalente e contro la
lettera della legge, che dovesse essere punito non solo il cittadino ma anche
l’indigeno o la indigena corresponsabili della relazione di indole coniugale:
«or è da esaminare la questione del soggetto non cittadino: il r. d. dice, che è
punito il cittadino, ma trattandosi di reato necessariamente collettivo, l’altro
36
Ibidem.
G. Rosso, Il reato di madamismo nei confronti dell’indigena che abbia una relazione
di indole coniugale con un cittadino italiano, in Razza e Civiltà, anno I, n. 1, marzo 1940, p.
131. Rosso citava diverse sentenze che affermavano tale principio (vedi nota ivi ).
38
L’art. 110 del r. d. 19 ottobre 1930 n. 1398, pubblicato nella Gazzetta Uficiale del Regno
d’Italia del 26 ott. 1930, n. 251, stabiliva infatti: «Pena per coloro che concorrono nel reato.
Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per
questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti»; tutto il Capo III (artt. 110-119)
tratta il concorso di persone nel reato.
39
Cfr. la citata sentenza del Tribunale di Addis Abeba del 13 gennaio 1938 - Pres.ed Est.
Buongiorno – imputati Puccinelli e Ascalè, in Il diritto razzista, anno I, n. 1, p. 65.
40
Cfr. G. Gabrielli, La persecuzione, cit., p. 96.
37
Olindo De Napoli
133
agente deve ritenersi non punibile o dovrà subire sanzioni secondo la regola
generale del concorso?»
Il pericolo della nascita di meticci comportava una tutela che doveva colpire tutti i soggetti coinvolti nella relazione: Manfredini sottolineava come si
dovesse dubitare della soluzione messa in campo dalla pratica giurisprudenziale «dappoichè se deve raggiungersi eficacia di tutela occorre che la difesa
sia spiegata contro tutti gli elementi, che possano mettere in essere il temuto
pericolo». Contro questa interpretazione non ci si poteva più appellare ai
principi del differenzialismo:
Né qui ha ragione di considerazione lo statuto personale giacchè le unioni libere
non sono costumanze giuridicamente riconosciute nel diritto indigeno, e nemmeno
può farsi argomento di grado di civiltà o di imputabilità, perché è la questione generale che investe il problema già risolto con l’estensione dei nostri codici all’Impero
africano.
Per il magistrato la prova del nove del suo ragionamento si dava considerando il caso limite di una donna bianca che avesse una relazione con un
indigeno: in tal caso si sarebbe arrivati all’assurdo di punire la sola donna italiana e non anche il nero, vero responsabile di aver violato il conine razziale.
In questa argomentazione rileva con tutta evidenza l’intrecciarsi di razzismo
e maschilismo:
La norma di equità dell’art. 50 ricordato, per cui si può dal giudice scendere per
gli indigeni, a una misura di pena inferiore a quella edittale, contempererà il rigore
della legge; ma senza espressa norma di eccezione è arbitrio omettere applicazione
della disciplina generale del codice. Il che si fa più chiaro, se si tiene presente che
soggetti attivi del reato possono essere il cittadino (indicazione di genus, e quindi
anche la cittadina) e una persona (e quindi maschio o femmina): e che pertanto più
stridente sarebbe l’assurdo dell’interpretazione, che lasciasse impunito l’indigeno
amante di una nazionale41.
La possibilità che vi fosse un’unione tra una cittadina e un indigeno e che
fosse punita solo la cittadina destava lo stupore e la contestazione di alcuni
commentatori. Manfredini, nel criticare Aldo Casalinuovo42 sulla non punibilità del suddito, si richiamava all’esigenza di rispettare il ine della legge,
che era quello di evitare il meticciato, per cui l’azione del cittadino e quella
del suddito erano ugualmente pericolose. Rosso, al contrario, sosteneva con
realismo che tale opinione poteva avere un valore de iure condendo e non de
41
M. Manfredini, Il delitto di madamato, in La Scuola Positiva, Rivista di diritto e procedura penale, vol. XVIII, 1938, p. 14.
42
A. Casalinuovo, La tutela penale della razza, in Rivista penale, 1939, pp. 1171-1199.
134
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
iure condito, ossia come proposta di modiica legislativa, ma non come criterio
interpretativo della norma esistente43.
Per Manfredini, come in un primo momento il diritto coloniale aveva
impedito relazioni sessuali ‘premature’, così ora si vietavano le relazioni di
indole coniugale miste:
Il secondo aspetto del fenomeno e del pericolo sono appunto le relazioni di indole
coniugale, che, per la lor frequenza nei tempi ormai lontani dell’Abissinia, avevano
assunto isionomia di una istituzione e il nome di madamato. Come già rilevai, il
fenomeno è attenuato o presso che in desuetudine, nella forma tradizionale: si hanno invece frequenti associazioni a ini sessuali, che si possono designare di indole
coniugale o concubinaggio, ma impropriamente, e con riferimento soltanto ad alcuni
aspetti del fatto; mentre, con locuzione generica e corrispondente allo spirito della
norma che lo reprime, deve parlarsi di relazioni carnali costanti. Orbene codeste
relazioni si reprimono con le sanzioni di cui al Regio decreto legge 19 aprile 1936
[errore materiale, leggi: 1937, n.d.a.] n. 880, che dimostrammo insuficienti nel
nostro citato studio sul delitto di madamato, e tanto più quanto la interpretazione
giudiziaria ha potuto manifestarsi nel senso di ritenere punibile per tal titolo solo
il cittadino e non anche la indigena amante e non gli altri eventuali concorrenti nel
reato, disconoscendo le regole della partecipazione criminosa44.
La problematicità derivante dal considerare la non punibilità del suddito
fu messa in rilievo anche dal prof. Giovanni Leone45. Questi concordava con
l’interpretazione offerta dal tribunale di Gondar nel novembre del 1938 in occasione del primo processo qui celebrato in tema di madamato, interpretazione
secondo cui era punibile il solo cittadino. Leone, al contrario di Manfredini,
appoggiava l’orientamento giurisprudenziale di non punire il suddito: la scelta
del legislatore di punire il solo cittadino era dovuta alle esigenze di un lento
adattamento dei costumi indigeni ai principi giuridici della civiltà superiore,
secondo quello che era deinito «principio della dinamica legislativa in materia
coloniale»46. Spiegava:
43
Cfr. G. Rosso, Il reato di madamismo, cit., p. 138.
Ivi, pp. 363-364.
45
G. Leone, La non punibilità dell’indigena per il delitto di madamato, Nota a sentenza
del Tribunale di Gondar, 19 novembre 1938, in Rivista italiana di diritto penale, 1939, n. 1, pp.
85-89. Secondo la sentenza commentata, la legge «ha voluto punire penalmente tale relazione,
soltanto nei confronti del cittadino italiano, sia per mantenere elevato, nel campo morale, il
prestigio della razza di civiltà superiore di fronte alla razza di civiltà inferiore, evitando cioè
la promiscuità di vita fra il popolo conquistatore e il popolo conquistato; sia per difendere, nel
campo demograico, l’integrità isica della razza italiana, evitando cioè la procreazione di un
popolo di “meticci” che sarebbe, come è noto, isicamente inferiore e socialmente pericoloso».
46
Ivi, p. 87.
44
Olindo De Napoli
135
A questa esigenza di lento adattamento alla vita dei sudditi coloniali del diritto
e della civiltà dello Stato colonizzatore s’ispirano tutte quelle norme di diritto coloniale che decretano il rispetto delle consuetudini e tradizioni locali (entro certi limiti)
[…]. Ciò posto, è evidente che, mentre si poteva vietare, sotto minaccia di sanzione
penale, il madamato per i cittadini italiani, ai quali lo Stato italiano deve chiedere
più di quel che chiede ai sudditi coloniali […], non era conforme alle sane norme di
colonizzazione sradicare un’antica consuetudine con minaccia penale contro gente
che da questa consuetudine aveva tratta l’opinione della legittimità dell’istituzione
e, per la recente annessione dell’Impero, non possiede ancora la sensibilità per comprendere il valore di quel divieto47.
Proprio in forza del principio ‘evolutivo’ del diritto coloniale esposto, Leone
supponeva che si sarebbe arrivati ad una «fase futura e di maggiore evoluzione
del diritto coloniale» in cui si sarebbe punita anche la suddita48.
Stefano Maria Cutelli si dimostrava fortemente critico per l’aspetto della
punibilità del solo cittadino. Non era una critica rivolta alla giurisprudenza,
quanto alla «inadeguata formulazione della legge»49, in forza della quale non
si poteva fare diversamente. Egli voleva evidenziare gli aspetti paradossali
della legge: considerò che nel caso in cui la relazione di indole coniugale
coinvolgesse una donna bianca e un uomo nero, si sarebbe pervenuti all’assurda conclusione che quest’ultimo non sarebbe stato punito: «nel caso
meno comune che la donna mantenuta sia una bianca e l’uomo un nero, la
disgraziata donna ariana è condannata ed il ricco signore nero rimane…a
piede libero!»50.
Si sottolineava l’aspetto scandaloso della possibilità di una relazione tra
un suddito e una cittadina, che la norma non solo non avrebbe impedito, ma
avrebbe addirittura aggravato, stabilendo di punire la sola cittadina.
L’opposizione alla norma da parte di Cutelli era talmente vibrata da spingerlo a deinirla antirazzista, poiché accertava la razza dei soggetti coinvolti nella
relazione «solo per punire la persona dello stesso sangue nostro e lasciar libera
la persona d’altra razza, contro le cui subdole trame o… brame deve proprio
alzarsi la difesa della razza»51. Ipotizzava, allora, di modiicare la norma nel
senso di punire sempre l’uomo; ma doveva poi constatare l’inadeguatezza
anche di una norma siffatta, in quanto avrebbe eliminato il criterio razziale,
sostituendovi quello sessuale. La sua proposta, inine, era di punire entrambi i
soggetti, stabilendo anzi un’aggravante razziale della pena per il non ariano,
«dato che questi, in quanto subordinato, deve essere necessariamente punito
47
48
49
50
51
Ivi, pp. 87-88.
Ivi, p. 88.
S. M. Cutelli, Rassegna della dottrina, in Il diritto razzista, 1940, p. 244.
Ibidem.
Ivi, p. 245.
136
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
con pena più esemplare»52. Era, infatti, «di solare evidenza che la deroga di una
persona al prestigio del proprio rango è reato molto meno grave della offesa
che altre persone – persino di pari grado – arrechino al prestigio della stessa»53.
Per molti giuristi, dunque, le restrizioni dovevano essere accentuate. In
tal senso è da segnalare tutta l’intensissima azione svolta dal citato Cutelli.
Questi al momento dell’istituzione del reato di madamato, negli articoli e
nelle recensioni de Il diritto razzista, criticava la legislazione vigente, propugnando norme più rigide in senso discriminatorio e più penalizzanti verso
gli indigeni.
Le numerose voci dei giuristi levatesi a favore di un’ulteriore restrizione
della neonata disciplina razzista dovettero sicuramente incoraggiare il regime.
4. «L’animo dell’italiano si è turbato, ond’è tutto dedicato alla fanciulla
nera». Cosazione della donna indigena e «insabbiamento»
Se è vero che la giurisprudenza e la dottrina perlopiù escludevano la necessità
dell’accertamento dell’elemento dell’affetto dal punto di vista psicologico per la
contestazione del reato, è pur vero che tale elemento era insito nelle manifestazioni esteriori che tutti concordavano fosse necessario accertare. Erano, cioè, da
accertare e da valutare ai ini della condanna penale elementi quali l’aver fatto
dei regali, l’essersi mostrati in pubblico in atteggiamento affettuoso, ad esempio
fare una carezza, l’aver condiviso la stessa mensa o la consuetudine di mangiare
nello stesso piatto e dormire nello stesso letto, l’essersi presi cura l’uno dell’altra
durante una malattia. In sostanza era punita, la relazione che fosse caratterizzata
dall’affetto. Tutti concordavano (e qualcuno lo criticava), infatti, che non fosse
punibile di per sé il rapporto sessuale singolo, estemporaneo, né di per sé la
relazione sessuale continuata. Tale interpretazione giurisprudenziale del reato di
madamismo non poteva non contraddire, quindi, l’esposizione che della ratio legis
avevano fatto alcuni giuristi: erano in molti ad aver affermato che tra i ini della
legge vi fosse quello di rendere impossibile o almeno molto dificile la nascita di
meticci. Come affermava acutamente e con un’analisi originale Berlindo Giannetti,
la nascita di meticci era possibile anche qualora fosse consentito il semplice rapporto sessuale tra cittadini e sudditi, iguriamoci la relazione sessuale continuata;
in effetti, «i lamentati inconvenienti della creazione e della possibilità di creazione
54
di meticci restano ancora integri nella loro forza deleteria» . Giannetti indicava
quale direzione dovesse prendere la normativa, quella di condannare penalmente
qualsiasi rapporto sessuale “misto”:
52
53
54
Ibidem.
Ibidem.
B. Giannetti, Diritto penale, cit., p. 1064.
Olindo De Napoli
137
condizione di punibilità verrebbe ad essere non più la relazione di indole coniugale, cioè rapporti carnali e continuità di essi, ma il contatto momentaneo stesso,
atto lesivo del prestigio di razza, di cui la consuetudine coniugale non sarebbe evidentemente che un aspetto più grave55.
Vi è, quindi, uno scarto tra la rappresentazione diffusa della normativa, che
voleva che tra i suoi ini vi fosse quello di impedire la nascita di meticci, e la
sua applicazione pratica, che non era volta ad impedire rapporti sessuali, ma a
far sì che essi avvenissero all’interno di relazioni del tutto prive di affetto. Non
era comminata sanzione, infatti, in quei casi in cui i rapporti sessuali fossero
consumati a pagamento oppure in un modo che esprimesse disprezzo verso
la donna indigena (ad es. quando fossero consumati in un retrobottega); non
c’era sanzione, in breve, quando la donna indigena fosse usata come oggetto,
per la mera esplicazione dei bisogni sessuali, come sfogo, come si esprimevano
la giurisprudenza e la dottrina del tempo.
La donna indigena non doveva essere soggetto, capace di attirare e dare affetto, ma doveva essere usata come una cosa, perché nelle ristrettezze della vita
coloniale, in attesa del trasferimento di un ingente massa di donne italiane e in
56
assenza di case di tolleranza con prostitute bianche , si comprendeva bene che
in qualche modo i cittadini residenti in colonia avessero modo di esplicare il loro
bisogno di sesso. Ne risultava che era punito realmente il voler bene. Si indicava
poi la relazione in cui l’affetto fosse manifesto con la parola insabbiamento, termine usato con un signiicato diverso da quello attuale:
Nel caso di un nazionale il quale confessi di aver preso con sé un’indigena, di
averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre
mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere
fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie perché potesse
avere un iglio, di avere preso una indigena al suo servizio, di avere preparato una
lettera a S. M. il Re Imperatore per ottenere l’autorizzazione a sposare l’indigena
o almeno a convivere con lei, si veriica un fenomeno quanto mai macroscopico di
insabbiamento, perché qui non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera
e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l’animo dell’italiano
che si è turbato ond’è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d’ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita57.
55
Ibidem. L’autore faceva questo discorso in relazione alla successiva l. 1004 del 1939,
affermando che anche questa non migliorava la situazione.
56
Già dal marzo 1935 l’Alto commissario per l’Africa Orientale De Bono era all’opera
“per istituire una rete di postriboli segregati in Africa Orientale”; cfr. G. Barrera, Sessualità
e segregazione, cit. p. 31.
57
Sentenza della Corte d’Appello di Addis Abeba del 31 gennaio 1939, Pres. Guerrazzi,
rel. Nigro, imputato Seneca, riportata in Razza e civiltà, anno I, 1940, p. 548.
138
Oggetti di piacere e “insabbiati”. Reato di madamismo e...
Si usava il termine «insabbiamento» per intendere la situazione in cui il
cittadino fosse rimasto affascinato e intrappolato dalle sabbie d’Africa, perdendo, quindi, il senso della sua superiorità razziale. Era un termine che si
richiamava all’elemento dell’esotico, inteso ora in modo sempre più critico e
problematico dallo stesso regime.
Il regime fascista ritenne nel 1937 di poter legiferare in materia di sentimenti, imponendo ai coloni nazionali precisi comportamenti esteriori che corrispondevano ad atteggiamenti di chiaro disprezzo per quelle che dovevano essere
considerate meri oggetti di piacere. Ciò aveva un impatto a volte drammatico
sulla complessità delle relazioni intersessuali in colonia. Non era infrequente,
infatti, che alcuni italiani attribuissero alle loro relazioni con donne africane la
stessa dignità che avrebbero dato a una relazione con donne italiane58.
La complessità, anche dal punto di vista simbolico, di tali relazioni era
offuscata e negata dalle varie forme di rappresentazione fascista delle donne
indigene, dall’antropologia al romanzo coloniale, così intriso di disprezzo:
come ha rilevato Riccardo Bonavita, non si rinviene nel romanzo coloniale del
tempo un bianco che ami una donna nera o meticcia59. Ciò era coerente con il
fatto che rispetto al discorso antiebraico, permeato di elementi “spiritualistici”
e culturali, verso i neri il discorso razzista era meramente biologico. Al contrario di queste convenienti stereotipizzazioni, bisogna mettere in evidenza da
una parte il fatto che gli italiani coinvolti attribuivano a seconda dei casi a tali
relazioni i signiicati più vari, non necessariamente quello di una relazione di
comodo per il periodo coloniale o di mero sfogo sessuale; dall’altro, le capacità relazionali, di iniziativa e in genere la posizione attiva e non meramente
passiva delle donne eritree che intrattenevano relazioni con italiani60, che del
resto risulta ben evidente dalla lettura delle sentenze sul reato di madamismo.
La gran parte dei giuristi fu propensa ad interpretare il divieto di madamismo come norma volta a ridurre o addirittura evitare la nascita di meticci,
secondo quello che fu un netto cambio di paradigma in senso razzistico, ostile
alla promiscuità sessuale e legato alla valutazione negativa del meticcio per
motivi biologici, morali e sociali. In realtà, il ine della legge (ine raggiunto)
58
Cfr. G. Barrera, Sessualità e segregazione, cit., pp. 41-43.
R. Bonavita, Lo sguardo dall’alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e
nella narrativa esotica, in Studi culturali, 1, 2006, pp. 5-32, particolarmente pp. 10-11, dove
si sottolinea l’assimilazione delle donne nere a «cose», o la loro associazione più o meno
esplicita al mondo animale.
60
Un chiaro esempio di ciò è rinvenibile in G. Barrera, Memorie del colonialismo italiano
fra le donne eritree: la storia di Frewini, in Genesis, IV/1, 2005. R. Iyob sottolinea il ruolo
sociale multiplo delle madame: “confort wives” subordinate, ma anche persone che guadagnavano un salario e sviluppavano una particolare posizione basata sulla prossimità ai detentori
del potere; interlocutori tra i soldati/coloni e i capi locali, cui spesso riferivano le richieste
del “padrone” alla comunità indigena; Ruth Iyob, Madamismo and Beyond. The construction
of Eritrean Women, in Italian Colonialism, a cura di Ruth Ben Ghiat, Mia Fuller, New York
2005, p. 237.
59
Olindo De Napoli
139
non era tanto stabilire in colonia un regime di apartheid sessuale (relazioni
sessuali continuavano, così come la nascita di meticci), quanto l’umiliazione
delle donne indigene che intrattenevano relazioni di convivenza con gli italiani
nelle colonie. L’aspetto più rilevante del controllo della sessualità era il controllo dell’affettività. Non si voleva proporre il divieto ai coloni di relazioni
sessuali con le donne indigene. Solo si voleva che queste avvenissero in una
relazione di mera subordinazione, al di fuori di qualsiasi segno di rispetto o
affetto, quali potevano essere la coabitazione, il mostrarsi in pubblico insieme,
o altro.
La vicenda legata al divieto di madamismo e alla sua applicazione fu, forse,
una delle più signiicative tra quelle riguardanti il processo di assorbimento
della sfera privata nella sfera pubblica61, in un periodo in cui, ha scritto Stoler,
«il personale era altamente politico, invocando una serie di associazioni tra
convinzioni sulla mascolinità europea, l’appartenenza razziale, la moralità
sessuale e la gestione dell’impero»62. Anche da questo punto di vista le relazioni di madamato rappresentano una igura chiave per la comprensione di
uno spaccato delle relazioni sociali e del potere in colonia.
61
Cfr. G. Barrera, Sex, citizenship and the State: The Construction of the Public and
Private Spheres in Colonial Eritrea, in Gender, Family and Sexuality: The Private Sphere in
Italy 1860-1945, P. Wilson (ed.), New York 2004, pp.157-172.
62
A.L. Stoler, Carnal knowledge and imperial power:race and the intimate in colonial
rule, Los Angeles 2002, p. 6. Il fascismo, come via italiana al totalitarismo, tendeva, più in
generale, alla «politicità integrale dell’esistenza»: cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma 2008, p. 18.
Ruggero Taradel
LA SAnTA SEdE E LE LEGGI RAzzIALI
In ITALIA In EURoPA
L’elaborazione e la promulgazione delle leggi razziali in Italia nel 1938 fa
parte di un contesto storico e politico preciso che si conigura come un continuum di respiro e proporzioni europee. Non vi era infatti stato solo l’Arienparagraph del 1933 seguito dalle leggi di Norimberga nel 1935 in Germania.
Contestualmente all’approvazione delle leggi razziali in Italia si era infatti
avuta la promulgazione di una legislazione discriminatoria e antiebraica in
Ungheria nel 1938, seguita da più rigide legislazioni antisemite nel 1939 e
nel 1941. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, vennero promulgate poi
legislazioni discriminatorie e persecutorie nella Francia di Vichy nel 1940, nel
1941 e nel 1942, la legislazione antisemita della Croazia di Ante Pavelic promulgata il 30 aprile del 1941, e il Codex Judaicum promulgato il 9 settembre
1941 in Slovacchia.
Se si desidera dunque prendere in esame la problematica delle leggi razziali
dal punto di vista della Santa Sede, occorre innanzitutto considerare che questa
non era semplicemente una questione italiana e fascista, ma una grave e generale
questione di proporzioni europee. In questa relazione intendo dunque analizzare
la reazione della Santa Sede alle leggi razziali in Italia inquadrandola all’interno
di questo più ampio contesto. Fu Papa Pio XI, Achille Ratti, che stipulò concordati prima con Mussolini nel 1929 e con Hitler nel 1933, il ponteice che
dovette misurarsi con la promulgazione delle leggi razziali in Italia nel 1938.
È opportuno ricordare che Achille Ratti, prima di salire al soglio pontiicio, era
stato nunzio apostolico in Polonia dal 1915 al 1920. Un periodo per sua stessa
ammissione cruciale nella sua formazione religiosa e diplomatica. È stato recentemente ritrovato e reso accessibile agli studiosi dall’Archivio Segreto Vaticano
un faldone di proprietà dell’allora Monsignor Achille Ratti dedicato al problema
dell’antisemitismo in Polonia che testimonianza dell’interesse e della sensibilità del futuro ponteice a questo riguardo. Il faldone contiene una miscellanea
di testi tedeschi, testi polacchi, una nota scritta in francese senza data e senza
142
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
indicazione dell’autore in cui si rileva che la presenza di tanti ebrei in Polonia
rappresenta un grave problema per la comunità nazionale e internazionale e si
rileva anche una presenza spropositata di ebrei nelle professioni liberali, nel
giornalismo, nelle lettere, nel teatro e così via1. Non sappiamo, né possiamo
con sicurezza ipotizzare cosa Monsignor Ratti pensasse di questi testi che andava leggendo e raccogliendo in questo periodo (1915-1919), ma certamente
le carte e i documenti custoditi nell’Archivio Segreto Vaticano indicano una
precoce attenzione e un notevole interesse per la tematica relativa alla polemica antiebraica europea e mitteleuropea. Alcuni anni dopo Achille Ratti, salito
al soglio pontiicio nel 1921, avrebbe avuto l’arduo compito di misurarsi con
legislazioni razziali e antisemite promulgate e poste in atto da diversi stati. Nel
periodo in cui la macchina propagandista fascista cominciava a mobilitarsi per
preparare e plasmare l’opinione pubblica in vista dell’approvazione e promulgazione delle leggi, Pio XI aveva già scritto, nel marzo del 1937, l’encliclica
Mit brennender Sorge sulla situazione della Chiesa cattolica in Germania. Nel
documento aveva attaccato frontalmente il tentativo di trasformare il razzismo
del movimento nazionalsocialista in una nuova religione civile che, secondo
la denuncia del ponteice, puntava o a subordinare a sé o a perseguitare ed
eliminare qualunque altro tipo di credenza religiosa in Germania. La Mit brennender Sorge conteneva, come ben noto, una decisa condanna del razzismo e
del tentativo di ediicare su di esso una religione civile in Germania. Il testo
non menzionava esplicitamente però né l’antisemitismo né la condizione degli
ebrei nel Reich, concentrandosi sulla denuncia delle violazioni del Concordato
e sulle aggressioni contro la Chiesa cattolica in Germania2. Che riguardo alle
problematiche sollevate dal razzismo e dall’antisemitismo la Santa Sede avesse
in questo periodo un atteggiamento complesso, tanto complesso da sconinare
nell’ambiguità e nell’ambivalenza, è dimostrato dal fatto che, pochi mesi dopo
la promulgazione dell’enciclica, Pio XI approvò una relazione del cardinale
Domenico Jorio, prefetto della Congregazione dei Sacramenti, secondo cui era
lecito, ed anzi doveroso, che la Chiesa Cattolica collaborasse con lo stato italiano, nelle colonie recentemente conquistate, alle campagne per la sanità della
razza per mezzo dei propri ministri e missionari, al ine di «dissuadere unioni
tra persone di diversa razza [...] appunto per evitare le nascite dei mulatti che
sono dei degenerati». Nella relazione di Jorio si affermava che queste «ibride
unioni» dovevano essere attivamente dissuase ed impedite dalla Chiesa seguendo
«i saggi motivi igienico-sociali intesi dallo Stato», e che la «sconvenienza di un
coniugio fra un bianco e un negro» andava prevenuta per sventare «le accresciute deicienze morali della prole nascitura». La relazione, con approvazione di
1
Archivio Segreto Vaticano, Archivio di Monsignor Ratti, Varsavia (Warszawa), 19181921, 1/205; 1/206.
2
V. In proposito il classico studio di A. Rhodes, The Vatican in the Age of Dictators,
1922-1945, London 1973.
Ruggero Taradel
143
Pio XI, fu trasmessa alla nunziatura il 21 agosto 1937, e fu accolta con grande
soddisfazione dal Ministro Lessona3.
Questo clima, in cui la Chiesa cattolica sembra lanciare segnali contraddittori è ben rappresentato, in questo periodo, dalla Civiltà Cattolica, il
massimamente autorevole organo uficioso della Santa Sede. La rivista, tra il
1936 e il 1937, pubblicò una serie di lunghi e ben congegnati articoli in cui
si denunciava la gravità della questione ebraica in Europa e si riproponevano
tutte le possibili accuse contro gli ebrei in quanto religione e nazione: da quella di aspirare al dominio del mondo a quella di essere i segreti manovratori
del comunismo e del capitalismo. In questi articoli si ripeteva che gli ebrei,
costituenti al tempo stesso una religione e una nazione, non potevano essere
considerati a tutti gli effetti cittadini dei paesi dove vivevano a causa della
loro degenerazione religiosa e sociale e che costituivano una minaccia, grave
e costante, per il benessere dei popoli che li ospitavano. La Civiltà Cattolica
arrivò, nel 1937, a caldeggiare esplicitamente l’adozione di leggi discriminatorie contro gli ebrei che mettessero in atto quella che veniva deinita una
segregazione amichevole, una segregazione presentata come una politica
mirante sia al bene dell’organismo segregante, la nazione, lo stato, sia al
bene dell’organismo segregato, ovvero la comunità ebraica4. Lo scenario è
apparentemente paradossale: la Santa Sede, nello stesso momento in cui attaccava frontalmente il razzismo nazista in Germania, offriva, neanche troppo
indirettamente, sostegno ed argomenti alla propaganda antiebraica proprio in
un periodo situato tra la promulgazione delle leggi razziali di Norimberga e
quelle fasciste. I motivi addotti dalla propaganda dei fascismi europei alla
discriminazione della loro popolazione ebraica erano infatti la denuncia della
pericolosità degli ebrei e la loro intrinseca estraneità alle rispettive comunità
nazionali. Il caso dell’Ungheria è sotto questo punto di vista emblematico, e negli studi su questo argomento tuttora sottovalutato. Il 29 maggio del 1938 entrò
infatti in vigore una legge antiebraica volta ad «una più eficace salvaguardia
dell’equilibrio della vita sociale ed economica». La legge era stata elaborata
con l’aperto appoggio e il sostegno dell’Azione Cattolica ungherese, che al
punto 9 del proprio programma sociale, intitolato Soluzione della questione
giudaica secondo gli interessi del popolo ungherese esplicitamente affermava:
«I giudei, che non hanno accettata sinora la concezione ideale storica della
3
Il testo è citato in L. Ceci, Pio XI, il Vaticano e l’Impero del fascismo, relazione presentata al convegno “Religione e politica in Italia dal Risorgimento al Concilio Vaticano II”,
organizzato dalla Fondazione Salvatorelli a Marciano (Perugia), dal 5 all’8 novembre 2008.
Cfr. S. Luzzatto, Pio XI e quel razzismo d’Africa, in Corriere della Sera, 5 novembre 1938.
4
V. in particolare: La dottrina della razza impugnata da un acattolico, in Civiltà Cattolica,
1936, vol. II, p. 68 e ss.; La questione giudaica e il sionismo, in Civiltà Cattolica, 1937, vol.
II, p. 420 e ss.; La questione giudaica e le conversioni, in Civiltà Cattolica, 1937, vol. II, p.
502 e ss.; La questione giudaica e l’apostolato, in Civiltà Cattolica, 1937, vol. III, p. 32 e ss.
144
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
nazione ungherese, non hanno il diritto di inluire sulla vita intellettuale del
paese, né della stampa, né della letteratura né della vita artistica»5.
La legge, elaborata su iniziativa di Kálmán Dárany e Béla Imrédy, anche
sull’onda del Congresso Eucaristico Internazionale svoltosi a Budapest nello
stesso anno, fu approvata con il voto favorevole dei rappresentanti di tutte le
chiese d’Ungheria. La legge XV/1938 era la prima legge europea, al di fuori
della Germania nazista, che discriminasse i propri cittadini ebrei, istituendo
un rigido numerus clausus del venti per cento per l’accesso alle Università e
alle professioni liberali. Il primate d’Ungheria, Justinian Serédi, dopo essersi
assicurato in sede di commissione legislativa che gli ebrei convertiti al cattolicesimo non sarebbero stati colpiti dai provvedimenti se battezzati prima
del primo agosto 1919, votò anche lui a favore della legge, subito dopo aver
tenuto un discorso in cui si premurò di condannare il razzismo, di ispirazione
nazionalsocialista, delle Croci Frecciate6.
In questo periodo Pio XI aveva continuato a rilettere alla problematica,
sempre piú pressante, del razzismo in Europa. Il primo segnale della volontà del
Ponteice di ripensare a fondo e mettere mano alla questione è rappresentato, in
questo periodo, dalla sua decisione di afidare a Padre John LaFarge SJ l’incarico di preparare il testo dell’enciclica Humani Generis Unitas, un’enciclica che
avrebbe dovuto chiarire in modo inequivocabile la posizione della Santa Sede
su razzismo e antisemitismo. LaFarge ricorda così il suo incontro con Pio XI il
22 giugno a Castelgandolfo: «Fui ricevuto dal Santo Padre con molta cordialità.
Non tardai a capire che voleva discutere di questioni riguardanti il razzismo,
che in Italia e in Germania era all’ordine del giorno. Mi disse che non faceva
che pensare e ripensare a quel problema e che era sempre più convinto che il
razzismo e il nazionalismo si confondevano»7. Impressionato dalla presentazione
fatta da LaFarge sul problema del razzismo negli Stati Uniti, Pio XI gli disse:
«Su questi problemi pubblicheremo un’enciclica, che lei preparerà»8.
La pubblicazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938
allarmò non poco il Ponteice, che temeva, e giustamente, che si potessero dare
iniltrazioni ideologiche di stampo nazista all’interno della dottrina e delle politiche fasciste. Il punto 3 del documento affermava infatti: «il concetto di razza
è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni
che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose». Il punto 7 ribadiva: «la questione del
5
La traduzione italiana di questo punto del programma sta in M. Barbera, La questione
dei giudei in Ungheria, in Civiltà Cattolica, 1938, vol. III, pp. 146-153.
6
V. In proposito P.A. Hanebrink, In Defense of Christian Hungary. Religion, Nationalism
and Antisemitism, 1890-1944, Ithaca and London 2006, pp. 160-163.
7
G. Passelecq, B. Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata della
Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, Milano 1997, p. 41. Il passo è tratto dal libro di memorie di LaFarge, The Manner is Ordinary, New York NY 1954.
8
Ivi, p. 44.
Ruggero Taradel
145
razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico,
senza intenzioni ilosoiche o religiose»9. Nei giorni successivi Pio XI si scagliò
senza mezzi termini contro il «razzismo e il nazionalismo esagerati» elevanti
barriere «tra uomini e uomini, gente e gente, popoli e popoli»10, e dichiarò
di non aver mai pensato « intorno a queste cose con tale precisione, con tale
assolutismo, si direbbe quasi con tanta intransigenza di formule»11. Che la
genuina preoccupazione del Ponteice per le derive razzistiche che si stavano
palesando in Italia non implicasse il riiuto a priori, da parte della Santa Sede,
del principio secondo cui dei cittadini possono essere discriminati in base alla
propria confessione religiosa e appartenenza etnica è dimostrato da un evento
altrimenti inspiegabile. Il 16 luglio, la Civiltà Cattolica aveva pubblicato, con
eloquente tempismo, un lungo articolo di padre Barbera intitolato La questione
dei giudei in Ungheria in cui si esaltava la legislazione antiebraica ungherese
recentemente approvata: «L’antisemitismo dei cattolici ungheresi non è perciò
né l’antisemitismo volgare fanatico, né l’antisemitismo razzista, è un movimento di difesa delle tradizioni nazionali e della vera libertà e indipendenza
del popolo magiaro [...]. Si vuole, insomma, la difesa della nazione, contro
il pericolo presente di una più numerosa invasione giudaica dalla Germania,
dall’Austria e dalla Romania, e contro il liberalismo favoreggiatore del giudaismo e del suo nefasto predominio, senza persecuzioni, ma con mezzi energici
ed eficaci»12. Barbera, dopo aver stimato forse troppo generoso il numerus
clausus al venti per cento («Questo numero non è, a dir vero, tanto ristretto in
relazione al 5 per cento dei giudei in tutta la popolazione») nota che le leggi
sono chiaramente «ispirate alle nobili tradizioni magiare di cavalleresca e leale
ospitalità, restringendosi solo al puro necessario, che molti anzi stimano non
suficiente». L’unico punto su cui l’autorevole gesuita avanza delle riserve è il
fatto che «la legge considera come giudei anche coloro che si sono battezzati
dopo il 1 agosto 1919, eccetto gli ex-combattenti», cosa che potrebbe «porre
ostacolo a non poche conversioni sincere». Su di un’ imminente soluzione
del problema, comunque, Barbera si mostra ottimista, e conclude: «Essa potrà venire risolta in modo conforme alle tradizioni cristiane e cavalleresche
della nazione, la quale è ora sotto il governo di un uomo di qualità superiori,
il Presidente dei ministri Béla Imrédi, cattolico fervente ed insieme politico
avveduto e di mano forte»13.
9
Manifesto degli scienziati razzisti. Sta in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto
il fascismo, Torino 1961, pp. 555-556.
10
Discorso di Pio XI del 28 luglio 1938 agli alunni del Collegio Propaganda Fide, in
L’Osservatore Romano, 29 luglio 1938.
11
Discorso di Pio XI del 15 luglio 1938 alle suore di Nostra Signora del Cenacolo. Cit.
in G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah,
Milano 2000, p. 311.
12
M. Barbera, La questione dei giudei in Ungheria, in Civiltà Cattolica, cit., p. 152
13
Ivi, p. 153.
146
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
Con il chiaro intento di stabilire un preciso distinguo tra una legislazione
antiebraica come quella ungherese e quella che sembrava proilarsi in Italia,
la Civiltà Cattolica pubblicò, nel suo quaderno successivo, un commento al
discorso di Pio XI in cui si notava che alcune formulazioni del Manifesto degli scienziati razzisti erano oggettivamente inquietanti e che avrebbero forse
portato «a interpretazioni e applicazioni che potrebbero in deinitiva combaciare con il razzismo tedesco»14. Il 28 luglio 1938 Pio XI fece riferimento alla
problematica con un lungo discorso nel corso di un ricevimento per gli allievi
della Propaganda Fide: «Ci si può quindi chiedere come mai, disgraziatamente,
l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania [...]. I latini non
dicevano razza, né qualche cosa di simile. I nostri vecchi italiani hanno parole
più belle, più simpatiche: gens italica, italica stirps, Iapeti genus»15. Queste
esternazioni del ponteice irritarono non poco la dirigenza fascista, e dal momento che i segnali che giungevano da Oltretevere sembravano contraddittori,
ci si preoccupò immediatamente di vagliare e valutare la situazione.
In una lettera indirizzata da Farinacci a Mussolini in data 3 agosto del 1938
si trova scritto: «Mentre cerco con abilità di attaccare il contegno del Vaticano
tengo però contatto con una parte di Cardinali, i quali con Della Puma (Segretario Generale delle Congregazioni) in testa non fanno mistero della loro avversione ai discorsi che si fanno fare all’ormai stravecchio Papa. Da qualcuno
di questi ho saputo: A) Il discorso del Ponteice è stato ispirato da Monsignor
Pizzardo e dal Conte Della Torre, il quale però ha dichiarato che dato il suo
passato non intende fare una campagna antirazzista sull’Osservatore Romano;
B) Il discorso è stato reso più acido con aggiunte e riferimenti a precedenti
dichiarazioni del Ponteice dalla Segreteria di Stato; C) Al Papa è stato detto
che la campagna razzista del Fascismo porterà al divorzio, all’annullamento
dei matrimoni tra i ebrei e cattolici, alla sterilizzazione degli ebrei; D) Sul problema razzista, i cattolici sono nettamente divisi. [...]. Caro Presidente, è vero
che la madre del papa è un’ebrea? Se fosse vero, sarebbe un vero spasso»16.
La giustezza dell’analisi di Farinacci è dimostrato dal fatto che pochi giorni
dopo, il 14 agosto, L’Osservatore Romano pubblicò un articolo irmato da
Padre Francesco Capponi Gli ebrei e il Concilio Vaticano in cui si ricordava
che in passato era stata politica della chiesa proibire agli ebrei «di coprire
ogni pubblica carica, civile e militare [...] e che «le precauzioni riguardavano
gli esercizi professionali, l’insegnamento e persino il commercio». Questi
provvedimenti, sottolineava comunque L’Osservatore, «non provenivano da
14
Civiltà Cattolica, 1938, vol. III, p. 270.
Discorso di Pio XI del 28 luglio 1938 agli alunni del Collegio Propaganda Fide, in
L’Osservatore Romano, 29 luglio 1938
16
Sta in R. De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, cit., p. 560. La voce
secondo cui Pio XI aveva una madre ebrea olandese era stata creata dalla propaganda nazista
e fatta circolare in Germania a partire dal 1936.
15
Ruggero Taradel
147
ostracismo di razza [...] ma costituivano una difesa della religione e dell’ordine
sociale, che si vedeva minacciato dall’ebraismo»17.
Il 5 settembre 1938 vennero emanati i provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista che istituivano il numerus nullus per gli studenti ebrei
nelle scuole elementari, medie e superiori pubbliche e nelle università. Pio XI,
pur astenendosi da una presa di posizione uficiale sul provvedimento, toccò
il tema dell’antisemitismo di fronte ad un gruppo di pellegrini belgi il giorno
successivo, il 6 settembre: «L’antisemitismo è un movimento odioso con cui
noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. No, non è lecito per i
cristiani prendere parte a manifestazioni di antisemitismo. Noi riconosciamo
a tutti il diritto di difendersi e di adottare misure per proteggersi da coloro che
minacciano i legittimi interessi di ciascuno. Ma l’antisemitismo è inammissibile.
Spiritualmente noi siamo semiti»18. L’Osservatore Romano omise prudentemente
queste dichiarazioni, ma Pio XI chiese esplicitamente che le sue parole venissero
pubblicate subito su La libre belgique di Padre Picard, e l’autorevole rivista dei
gesuiti francesi La Croix le pubblicò a sua volta il 17 settembre. Per Mussolini,
ormai determinato a dare all’Italia una legislazione razzista, diventava imperativo capire in che modo andassero intese le parole del Pio XI. Il Ponteice si
stava forse preparando a condannare apertamente la legislazione che si stava
preparando? Quale sarebbe stato il senso, quali i limiti di una sua opposizione?
Nelle corrispondenze di questo periodo troviamo degli interessanti rapporti redatti a questo proposito da Galeazzo Ciano. Il primo è datato 10 ottobre 1938.
Il ministro degli Esteri nota: «negli ambienti vaticani si tiene atteggiamento
di riserva intorno alle deliberazioni prese dal Gran Consiglio circa la difesa
della razza. Si notano alcuni lati buoni delle deliberazioni stesse, mentre non
si nasconde qualche preoccupazione circa le disposizioni per il matrimonio».
Ciano prosegue riferendo che in Vaticano «nella elencazione dei motivi di discriminazione per gli ebrei di cittadinanza italiana si è notato un grande spirito di
moderazione e così pure per le limitazioni poste all’attività degli ebrei». Questo
atteggiamento cauto e potenzialmente accomodante della Santa Sede trova però
il suo limite, a suo parere, di fronte al «caso del matrimonio quando si tratta di
ebrei convertiti i quali, di fronte alla Chiesa, sono cattolici come tutti gli altri,
mentre la legislazione progettata continua a considerarli ebrei»19. In un altro
rapporto del 13 ottobre Ciano riprende la sua analisi, forte questa volta di una
conversazione diretta con monsignor Montini: «Da Monsignor Montini, sostituto
per gli Affari Ordinari alla Segreteria di Stato ho avuto conferma [...] che le
maggiori per non dire uniche preoccupazioni della Santa Sede si riferiscono al
caso dei matrimoni degli ebrei convertiti». Ciano non ha ormai dubbi sul fatto
che il maggiore, forse unico punto autenticamente problematico per i rapporti
17
18
19
L’Osservatore Romano, 14 agosto 1938.
La Documentation catholique, XX, T. 39, n 855, 5 dicembre 1938.
Sta in R. De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, cit., pp. 561-562.
148
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
tra Vaticano e stato italiano, sarà quello relativo ai matrimoni misti, e ricorda
che già l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede gli aveva fatto notare «che
il diritto canonico riconosce valido il matrimonio tra battezzati (canone 1012)
all’infuori di qualsiasi altra considerazione»20.
In questo periodo di elaborazione della legislazione razziale non erano
dunque mancate, da parte fascista, discrete ma attente ricognizioni e indagini
presso il Vaticano, e realistiche valutazioni del possibile impatto che una
promulgazione della legislazione razzista avrebbe avuto sui rapporti tra stato
e Chiesa. Quando inine la legislazione giunse in dirittura di arrivo, e si ebbe
conferma che le tanto temute disposizioni sui matrimoni misti con molta probabilità sarebbero state approvate, Pio XI decise di intervenire direttamente
e scrisse due lettere: la prima rivolta a Mussolini e una seconda rivolta al Re
Vittorio Emanuele III. La prima lettera è del 4 novembre del 1938, e in essa il
Ponteice fa riferimento ai precedenti negoziati segreti durante i quali la Santa
Sede faceva con chiarezza sapere cosa giudicasse inaccettabile nel progetto
della legislazione: «L’articolo 7 del disegno di legge che lunedì prossimo
dovrà essere presentato ad approvazione del Consiglio dei Ministri viene
evidentemente a ledere quel solenne patto [il Concordato]. Un tale vulnus
può facilmente evitarsi qualora, invece del testo del predetto articolo pronto
per l’approvazione, si ammetta quello che non si è mai mancato per nostro
desiderio di far conoscere ai Tuoi alti collaboratori, ma che purtroppo non
siamo stati consolati di vedere accettato. Te lo inviamo pertanto qui unito, nella
speranza che lo vedremo accolto dalla tua saggezza con la quale già sapesti
scorgere quanto sarebbe riuscito importante e proicuo al bene dell’Italia regolare l’istituto del matrimonio secondo le leggi della Religione che è pure la
religione uficiale dello Stato»21. Sconcertato e sorpreso dal gelido silenzio di
Mussolini, e dalla sua mancata risposta, il giorno dopo Pio IX inviò un’altra
lettera a Vittorio Emanuele III, esprimendo la sua costernazione e chiedendogli di «intervenire» presso il Duce: in fondo, spiegava nella missiva, la Santa
Sede stava solo chiedendo che all’articolo 7 venisse prevista la legittimità del
matrimonio «nel caso in cui ambedue i contraenti, sebbene di razza diversa,
professano la religione cattolica»22. Mussolini scrisse immediatamente al Re
che non aveva nessuna intenzione di soddisfare la richiesta del Papa perché
ne sarebbe risultata «vulnerata la legge»23. A Vittorio Emanuele non rimase
che rispondere a Pio XI con una lettera, breve e imbarazzata, poco più che un
cortese riscontro, in cui si assicurava che della sua lettera si sarebbe «tenuto
il massimo conto ai ini di una soluzione conciliativa dei due punti di vista»24.
20
21
22
23
24
Ivi, p. 563.
Ivi, p. 564.
Ivi, pp. 564-565.
Ivi, p. 565.
Regio decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728 (GU. N. 264 del 19.11.1938).
Ruggero Taradel
149
Il 9 novembre padre Tacchi Venturi scrisse a Mussolini implorandolo di
modiicare l’articolo 7 assecondando la richiesta del Ponteice. In fondo, argomentava, i casi dei matrimoni misti «tra un coniuge ariano e uno di razza ebrea
professante la religione cattolica» che la Santa Sede voleva veder riconosciuti
come legittimi sarebbero stati pochissimi, «una vera goccia d’acqua in mezzo
al mare», e metteva in guardia il Duce dagli effetti disastrosi ed esiziali di una
violazione del Concordato così clamorosa e umiliante per la Chiesa25. Come
ben noto, la legislazione razziale fu promulgata il 17 novembre 1938, a questo
riguardo nella forma testardamente voluta da Mussolini: l’articolo 1 vietava il
matrimonio tra cittadini italiani «di razza ariana con persona appartenente ad
alta razza» e dichiarava nullo «il matrimonio celebrato in contrasto con tale
divieto», mentre l’articolo 6 vietava la trascrizione sui registri dello stato civile
qualunque matrimonio celebrato in violazione dell’articolo 1, includendovi
i matrimoni celebrati con battezzati considerati di razza ebraica dalla nuova
legislazione. L’articolo 8 era a questo proposito chiarissimo: « a) è di razza
ebraica colui che è nato da genitori di razza ebraica, anche se appartenga a
religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che
è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e uno di nazionalità straniera;
c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica
qualora sia ignoto il padre»26. Nel periodo in cui venivano elaborate le leggi
razziali in Italia, il parlamento ungherese, cedendo alla pressione della destra
e dei movimenti fascisti, che avevano giudicato da subito assolutamente insuficiente la legge XV/1938 aveva messo in cantiere una nuova legge che
venne approvata il 5 maggio 1939. La nuova legge era frutto di un faticoso
compromesso tra le componenti antisemite più radicali della società ungherese e quelle più ancorate ad un approccio tradizionalista. Il numerus clausus
per gli ebrei veniva portato dal 20 per cento della precedente legge al 6 per
cento, estendendo il provvedimento a molti settori lavorativi. Cosa molto importante, la legge del 1939 colmava una lacuna della XV/1938 che non dava
alcuna deinizione stringente e chiara su chi dovesse essere considerato ebreo:
all’articolo 1, infatti, deiniva ebreo colui che al momento della promulgazione della legge A) apparteneva alla confessione israelita B) aveva un genitore
appartenente alla confessione israelita C) aveva due nonni appartenenti alla
confessione israelita. L’espressione “razza ebraica” veniva deliberatamente
evitata, e venivano previste lunghe e complicate esenzioni per coloro che
fossero “buoni ungheresi”: sacerdoti, membri del clero, decorati al valore,
25
Lettera di Padre Tacchi Venturi a Mussolini del 9 novembre 1938. Sta in R. De Felice,
Storia degli ebrei Italiani sotto il fascismo, cit., p. 566.
26
Raccolta Nazionale delle leggi: [legge n. 4/1939], A zsidòk köléti és gazdasàgi térfoglalàsànak korlàtozàsàròl (Sulla limitazione dell’espansione economica e sociale degli ebrei). V.
R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. La Civiltà Cattolica e la questione ebraica
1850-1945, Roma 2000, pp. 141-142.
150
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
vedove o orfani di caduti in guerra, campioni sportivi etc. La legge, inoltre,
consentiva di considerare non ebrei coloro che avessero genitori o nonni di
stirpe israelitica che si fossero convertiti ad una confessione cristiana. Anche
questa legge venne approvata dai rappresentanti delle chiese al parlamento
ungherese, e dalla Santa Sede non giunse alcun segnale di dissenso o di particolare preoccupazione27. Nel frattempo, padre LaFarge aveva completato
la sua fatica, e la bozza dell’Humani Generis Unitas arrivò a Pio XI, ormai
gravemente ammalato, il 21 gennaio 1939. Secondo La Farge il testo era stato
redatto seguendo le indicazioni, fornite in grandi linee, dello stesso Pio XI. Il
Ponteice morì poche settimane dopo, ma la progettata enciclica rimane una
preziosa testimonianza di un travagliato percorso interrotto. È infatti chiaro
che Pio XI, pur rimanendo ancorato alla tradizionale posizione della Chiesa,
secondo cui era in linea di principio lecito ad uno stato emanare leggi d’eccezione e discriminatorie contro gli ebrei, qualora essi minacciassero il bene
comune, aveva cominciato ad avvertire un sempre maggiore disagio, una
crescente angoscia riguardo ad una situazione che prima in Germania, poi
in Italia e in altri paesi europei minacciava di saldare in un tutto compatto e
coerente razzismo, nazionalismo e antisemitismo.
La progettata enciclica mostra quindi tutta la dificoltà e tutte le tensioni
irrisolte che il tentativo di spezzare l’empasse dottrinale e politico in cui il
Ponteice si vedeva costretto implicava. La sezione in cui queste contraddizioni irrisolte sono patenti è infatti il capitolo V (paragrai 131-152) della II
parte dell’enciclica. Il testo oscilla continuamente, infatti, tra la difesa della
tradizionale teologica e della politica ecclesiastica nei confronti degli ebrei,
contro i quali vengono riprese e reiterate le vecchie accuse di materialismo,
accecamento religioso e morale, pericolosità religiosa, culturale e politica
per il cristianesimo, e la denuncia e la condanna dell’antisemitismo e delle
persecuzioni antiebraiche. Il testo mostra anche dei paurosi ondeggiamenti tra
considerazioni eminentemente teologiche e analisi di tipo storico-sociale28.
Alcuni storici vedono nella bozza dell’Humani Generis Unitas la prova evidente di una vera e propria svolta nel pensiero e nell’azione di Pio XI riguardo
all’antisemitismo. Più che di svolta vera e propria, a mio avviso, si può parlare
di una fase luida e dinamica in cui l’ormai anziano e malato Ponteice stava
cercando di elaborare, senza pienamente riuscirvi, un mutamento di paradigma dottrinale nei confronti dell’ebraismo e dell’antisemitismo che si sarebbe
realizzato solo molti anni dopo con il Concilio Vaticano II. Che in questo
27
V. R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. La Civiltà Cattolica e la questione
ebraica 1850-1945, cit., pp. 129-145. Cfr. P.A. Hanebrink, In Defense of Christian Hungary.
Religion, Nationalism and Antisemitism, 1890-1944, cit., pp. 154-180.
28
Per questa parte del testo dell’enciclica v. G. Passelecq-B. Suchecky, L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata della Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, cit.,
pp. 238-251.
Ruggero Taradel
151
tentativo Papa Ratti fosse in parte isolato e osteggiato all’interno della Curia
e in ambienti della stessa Societas Iesu può considerarsi un dato storicamente
acquisito29. Il suo successore, Pio XII, avrebbe rinviato sine die iniziative di
simile incerta e rischiosa portata, cristallizzando la politica della Santa Sede
nei confronti delle legislazioni razziali emanate nel periodo bellico nella forma
ereditata dal suo predecessore, e congelando ogni sua possibile trasformazione.
Dopo la morte di Pio XI, l’analisi della politica della Santa Sede durante
il pontiicato di Pio XII, in merito alle legislazioni antisemite varate dopo
l’inizio della Seconda guerra mondiale, è resa particolarmente complessa da
una serie di fattori quali il diverso tipo di sovranità e autonomia dei paesi
che le posero in atto, le contingenze diplomatiche e politiche di ogni singola
area, e soprattutto dall’inizio dello sterminio degli ebrei d’Europa avviato nel
1941 con l’invasione dell’Unione Sovietica. Un quadro relativamente chiaro
e coerente sembra nondimeno emergere dall’analisi comparativa dei casi della
Francia di Vichy, della Croazia, della Slovacchia, dell’Ungheria e dell’Italia.
La Francia di Vichy fu il primo paese a emanare una legislazione antiebraica
dopo l’inizio della guerra; il primo Statut des Juifs fu promulgato il 3 ottobre 1940. Alcuni mesi prima l’assemblea dei vescovi di Francia, riunitasi a
Lione il 31 agosto aveva già deciso quale linea seguire: «Gravi disposizioni
verranno senza dubbio assunte prossimamente contro gli ebrei. [...] l’esistenza
di una comunità ebraica internazionale, alla quale gli ebrei di tutte le nazioni
appartengono e che fa sì che essi non siano degli stranieri ordinari accolti
in un paese, ma della gente inassimilata, può obbligare uno stato a prendere
misure di protezione in nome del bene comune». Il documento si concludeva
deinendo come «legittimo» il «predisporre, da parte di uno stato, uno statuto
legale particolare per gli ebrei (come il papato aveva fatto a Roma)»30. Lo
Statut des Juifs del 3 ottobre 1940 individuava con criteri razziali chi dovesse
essere considerato ebreo, ma non conteneva alcuna disposizione riguardante i
matrimoni misti, cosa che rassicurò non poco l’episcopato francese, che aveva
peraltro già dato il suo nihil obstat di massima ad una legislazione antiebraica31.
Nel corso dello stesso mese Léon Bérard, l’ambasciatore della Francia di
Vichy presso la Santa Sede, inviò al maresciallo Pétain un articolato rapporto
in cui valutava il tipo di reazioni che ci si potevano attendere dal Vaticano
riguardo alla legislazione antiebraica che sarebbe stata emanata il 2 giugno del
1941. La premessa storico-critica al rapporto, preparata forse da padre Gillet,
29
V. G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e
Shoah, cit., pp. 308-324.
30
F. Delpech, L’episcopat et les juifs d’après les process-verbaux del l’Assemblée des
cardinaux et archevêques. Documents, in Eglises et Chrétiens dans la IIe guerre mondiale.
La France, a cura di X. De Montclos, M. Luirand, F. Delpech, P. Bolle, Lyon 1982, p. 283.
31
V. R.H. Weisberg, Vichy Law and the Holocaust in France, New York, NY, 1996, pp.
37-40. La legge stabiliva che era da considerarsi ebreo colui che aveva tre nonni appartenenti
alla razza ebraica, o colui che aveva due nonni ebrei se il coniuge era ebreo.
152
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
notava innanzitutto che, sebbene la Chiesa avesse condannato in modo chiaro
e netto il razzismo di matrice biologistica, questa condanna non si estendeva
necessariamente a «ogni misura particolare presa dall’uno o dall’altro stato
contro quella che si chiama la razza ebraica». Bérard mostra di avere ben presente il contrasto sorto tra Pio XI e Mussolini sulla questione dei matrimoni
misti, e si affretta a rassicurare Pétain: «Noi non abbiamo da temere contrasti
del genere, dal momento che la legge sugli ebrei non presenta nessuna disposizione comparabile a quella che è stata causa delle dificoltà sorte tra l’autorità
pontiicia e il governo italiano»32. Nel rapporto Bérard spiega anche quanto
gli è stato comunicato in camera caritatis da quella che deinisce «una fonte
autorizzata del Vaticano»: a patto che la legislazione non contenga disposizioni
concernenti il matrimonio «non ci sarà mossa alcuna protesta per lo statuto
degli ebrei»33. Non venivano previste eccezioni per i battezzati, ma la legge non
vietava in nessun modo i matrimoni misti. Per quanto odiose e comprensive
fossero le discriminazioni cui venivano assoggettati gli ebrei nella Francia di
Vichy, non era vietato, né considerato nullo un matrimonio celebrato tra dei
cattolici che la legge identiicava come di razza ebraica.
Alcuni mesi prima della promulgazione del secondo Statut des Juifs di
Vichy, la Croazia, sotto la guida di Ante Pavelic, aveva anch’essa emanato la
propria leglislazione antisemita, che fu promulgata il 30 aprile 1941. La legge
sulla cittadinanza, fortemente voluta dal Poglavnik stabiliva: «Una persona di
origine ariana è una persona che discende da due avi che sono membri della
comunità razziale europea, o che discendano da avi della detta comunità al di
fuori dell’Europa». La legge speciicava poi: «persone che discendono da tre
avi di secondo grado (nonni) che siano di razza ebraica sono considerate ebree
[...]»34. La legge stabiliva che erano da considerarsi ebrei, a parte casi speciali
da valutarsi singolarmente, anche individui che avessero «due nonni ebrei».
L’unico punto della legislazione che sollevò proteste da parte cattolica fu il
seguente: «a ebrei e non ariani è vietato unirsi in matrimonio con persone di
discendenza ariana»; anche perché la legge sulle conversioni religiose promulgata il 6 maggio dello stesso anno vietava di considerare ariani individui che
si fossero convertiti al cattolicesimo35. In questo senso la legislazione croata
assomigliava a quella italiana promulgata nel 1938. L’arcivescovo Stepinac,
già il 23 aprile 1941, aveva espresso il suo parere: pur non opponendosi ad una
legislazione antiebraica, temeva che essa avrebbe colpito anche persone convertite al cattolicesimo. Il 30 maggio 1941 Stepinac, che pure aveva plaudito
alla nascita dello stato croato e avrebbe continuato a sostenerlo attivamente
32
Cit. in G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale
e Shoah, cit., p. 392.
33
Ivi, p. 393.
34
Narodne Novine, n. 16, Zagreb, 30 aprile 1941.
35
Ibidem.
Ruggero Taradel
153
sino alla sua caduta, scrisse al ministro Artukovič chiedendo che «i cristiani
non ariani, in particolare i cattolici» venissero distinti «dai non ariani di religione ebraica»36. Non operare questa distinzione, osservava, avrebbe messo
fuorilegge matrimoni che la Chiesa considerava perfettamente legittimi: «confondere non ariani che non sono cristiani con non ariani cattolici danneggia
seriamente l’autorità della Chiesa a beneicio di quelle ideologie, ad esempio il
comunismo, contro cui sta combattendo lo stato»37. Stepinac chiedeva anche di
modiicare la legge al ine di assicurare il riconoscimento dei matrimoni misti:
«se questi matrimoni sono stati propriamente celebrati dalla Chiesa cattolica,
in quanto rappresentante della Chiesa cattolica, in virtù del mio sacro dovere, devo qui levare la mia voce e oppormi fermamente all’interferenza dello
stato nella materia di matrimoni legittimi che non possono essere infranti, a
prescindere dall’origine razziale dei coniugi»38. A questo sforzo negoziale si
unì anche l’inviato del papa in Croazia, Ramiro Marcone che chiese assieme a
Stepinac un’udienza al primo ministro croato Nikola Mandič, che però respinse
le pressanti richieste di emendamento della legge39.
Una preziosa cartina di tornasole che mostra una sostanziale coerenza,
nella politica della Santa Sede e dei diversi episcopati nazionali rispetto alle
legislazioni antisemite varate nel periodo bellico, è fornito dall’evoluzione
della situazione in Ungheria. Nel corso del 1940 e del 1941 il primo ministro Teleki aveva subito pesanti e continue pressioni da parte di Berlino e
delle Croci Frecciate perché si trasformasse in senso decisamente razziale
la legislazione ungherese. La nuova legge (XV/1941) «Per la protezione
della purezza razziale della nazione ungherese» era esemplata sul modello
delle leggi di Norimberga del 1935 e deiniva come ebreo a tutti gli effetti
chi avesse due o più nonni ebrei a prescindere dalla sua o loro confessione
religiosa. L’unica eccezione era prevista per una persona che fosse cristiana
e i cui genitori fossero entrambi cristiani dalla nascita40. Uno scenario del
genere poteva darsi solo se i nonni, nati all’interno della comunità israelita, si
fossero convertiti al cattolicesimo, o all’ortodossia, o al protestantesimo prima
di avere una prole. La legge vietava tassativamente i matrimoni tra cittadini
ungheresi e cittadini “ebrei” e dichiarava nulli e illegali matrimoni celebrati
tra cristiani di cui uno o entrambi coniugi ricadessero nella deinizione di
ebreo stabilita dalla legge. Il primate d’Ungheria Justinian Serédi protestò
36
Cit. in M. Bulajić, Jasenovac. Jewish-Serbian Holocaust. The Role of the Vatican in
Nazi-Ustasha Croatia, 1941-1945, Beograd, Fund for Genocide Research Stručna Knjiga,
2002, p. 320.
37
Ivi, p. 319.
38
Ibidem.
39
Per il rapporto di Marcone sulla trattativa del 13 marzo 1943 v. Actes et Documents du
Saint Siege relatif a la seconde guerre mondiale, Roma 1967-1975, n. 98, p. 187.
40
V. P.A. Hanebrink, In Defense of Christian Hungary. Religion, Nationalism and Antisemitism, 1890-1944, cit., pp. 164-170.
154
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
aspramente contro una simile legislazione in un lungo discorso alla camera
alta del parlamento: «Il progetto istituisce tre impedimenti del matrimonio:
quello della tubercolosi e delle malattie veneree contagiose e quello dell’origine ebraica. Essi riguardano il matrimonio civile, ma indirettamente rendono
impossibile anche il matrimonio celebrato dal sacerdote secondo il sacramento
ecclesiastico. Il sacramento del matrimonio appartiene integralmente alle
attribuzioni della Chiesa che non ha mai riconosciuto il diritto dello stato di
ingerirsi in esso. Ogni individuo per cui non sussiste un impedimento di matrimonio derivante dal diritto divino o ecclesiastico, ha il diritto di contrarre
un matrimonio. I membri della Chiesa non possono riiutarsi di amministrare
loro il sacramento»41. I rappresentanti cattolici e protestanti delle Chiese in
Ungheria votarono compattamente contro la nuova legge, che passò con
65 voti contro 53. Inine, a completare questo quadro, occorre menzionare
brevemente il lungo, complesso e spesso cervellotico Codex Judaicum del 9
settembre 1941 promulgato in Slovacchia. I criteri di classiicazione erano,
ancora una volta, razziali ed esemplati sulle leggi di Norimberga. Anche in
questo caso, malgrado l’estremo imbarazzo e disagio della Santa Sede di
fronte al governo collaborazionista guidato da Monsignor Josef Tiso, come
asciuttamente rilevato da Giovanni Miccoli, «gli interventi dei vescovi si
attestarono sostanzialmente su una linea di difesa degli ebrei cattolici, non
senza pesanti concessioni [...] alle ragioni che ispiravano la discriminazione
e la persecuzione degli ebrei, non senza pesanti concessioni, soprattutto da
parte di alcuni, alle ragioni che ispiravano la discriminazione e la persecuzione degli ebrei»42. Le preoccupazioni di Maglione riguardavano «soprattutto
circa l’atteggiamento degli Ecc. vescovi slovacchi per salvaguardare i diritti
della gioventù cattolica, sia pure di stirpe “non-ariana”, ad una educazione
conforme alla loro fede»43. I vescovi slovacchi si limitarono infatti a chiedere
a Tiso di esentare dalle disposizioni del Codex Judaicum coloro che, anche
se di origine ebraica, appartenevano alla Chiesa cattolica. La Santa Sede, in
una nota del 12 novembre 1941 espresse poi a Tiso il proprio rammarico e
dolore nel constatare che la legislazione razziale adottata conteneva «vari
provvedimenti in aperto contrasto con i principî cattolici»44.
In Italia la partita tra Santa Sede e stato italiano sulla questione dei matrimoni misti e sulla deinizione operativa di chi dovesse essere considerato ebreo
era tutt’altro che chiusa, e si sarebbe svolta lungo due direttrici fondamentali:
41
Cit. in R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. La Civiltà Cattolica e la
questione ebraica 1850-1945, cit., p. 143. Il testo integrale del discorso in traduzione italiana
sta in Rassegna d’Ungheria, anno I, n. 7, settembre 1941.
42
V. G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e
Shoah, cit., p. 363.
43
Actes et Documents du Saint Siege relatif a la seconde guerre mondiale, cit., vol. VI,
n. 3, p. 410.
44
Ivi, vol. VIII, n. 153, p. 284.
Ruggero Taradel
155
quella, altamente teorica e accademica di un chiarimento e rideinizione del
concetto di razza e quella, eminentemente pratica e operativa, di una modiica della legislazione del 1938. I due livelli sono strettamente correlati ed è
possibile esporre la loro iterazione in modo succinto. Nel 1939 padre Messineo, sulla Civiltà Cattolica, in un lungo articolo intitolato Alla ricerca di una
soluzione, notava che la questione del razzismo e delle leggi razziali poneva
problemi di tre ordini. Il primo problema, scriveva, era di ordine squisitamente scientiico, un ordine in cui la Chiesa intendeva lasciare agli scienziati
piena libertà d’indagine e di discussione; il secondo problema era di ordine
scientiico, che per la Chiesa si risolveva nel fatto che se le leggi razziali
erano effettivamente utili al bene comune potevano essere accettate; il terzo
problema era di ordine religioso, perché la legislazione razzista pone, per sua
stessa natura, questioni di natura mista, al crocevia tra religione e altri ambiti.
Per questo, scriveva Messineo, la Chiesa rivendica a sé il diritto, il dovere di
discutere, intervenire, valutare, veriicare e far sentire la propria voce sulla
questione45. Nel 1940 Giacomo Acerbo pubblicò I fondamenti della dottrina
fascista della razza in cui il concetto di razza biologicamente inteso veniva
depotenziato, ponendolo in correlazione con altri fattori, di tipo culturale,
ambientale e storico. Fu proprio padre Antonio Messineo che recensì entusiasticamente il testo sull’organo uficioso della Santa Sede. Alla luce dei chiarimenti di Acerbo, proclamava Messineo, «la politica della razza del fascismo»
si rivelava inalmente «ispirata» da un concetto di razza «integrale, il quale
[...] considera in modo prevalente i valori culturali e spirituali della nazione
e questi si preigge di preservare e potenziare [...]. Siamo così di fronte ad un
concetto di razza che anche il più meticoloso assertore dei valori spirituali
e trascendenti potrà accettare senza riserve»46. Riconoscimento di non poco
rilievo, e segnale molto chiaro lanciato al governo italiano. Dell’aspetto pratico
e legislativo della questione si stava intanto occupando Tacchi Venturi. In una
lettera del 22 maggio 1940 il direttore della Demorazza, Antonio Le Pera, lo
descriveva intento a preparare «opportuni emendamenti a questa parte della
legge al ine di stabilire che i igli nati da un ebreo e un’ariana o viceversa,
se sono cristiani vengano tutti dichiarati ariani senza alcun riguardo al tempo
nel quale fu loro amministrato il battesimo»47. Nell’agosto 1940 la direzione
generale della Demograia e Razza consegnò a Mussolini un rapporto riservato
sulla «situazione degli ebrei dopo oltre un anno di applicazione delle leggi
razziali», con proposte di nuovi provvedimenti correttivi: «Recentemente la
45
A. Messineo, Alla ricerca di una soluzione. Chiarimenti e distinzioni, in Civiltà Cattolica, 1939, vol. I, pp. 203-205.
46
A. Messineo, I fondamenti della dottrina fascista della razza, in Civiltà Cattolica, 1940,
vol. III, p. 218.
47
Cit. in G. Sale, Progetti di riforma della legge fascista sulla purezza della razza, in
Civiltà Cattolica, 2009, vol. III, p. 227.
156
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
Santa Sede ha prospettato la dolorosa situazione di molte famiglie nelle quali,
pur essendo il coniuge ebreo da molti anni convertito al cristianesimo con tutto
il resto della famiglia cristiana, la perdita dell’impiego o del posto di lavoro
del capo famiglia ha determinato la più assoluta miseria». Il rapporto notava
poi che le famiglie miste di questo tipo erano 6820, di cui 3400 «hanno dato ai
igli educazione cristiana e cattolica». Al ine di risolvere il contenzioso con la
Santa Sede e meglio gestire una situazione complessa, il rapporto, recependo
le indicazioni di Tacchi Venturi, proponeva la «pariicazione giuridica degli
ebrei che per matrimonio con ariani, per educazione cristiana della prole, per
conversione religiosa e per attività politica consone alle direttive del Regime
etc. offrono garanzia suficiente di svolgere senza pericolo la loro attività»48.
Il rapporto si concludeva notando che con la sanatoria della situazione di
circa 9000 ebrei convertiti, unitamente all’«eliminazione assoluta di tutti gli
altri ebrei dalla Nazione» (id est con l’espulsione di tutti i rimanenti ebrei, sia
stranieri sia italiani distribuita in un periodo di cinque anni), si sarebbe potuta
«avere nel 1945 la risoluzione deinitiva della questione ebraica»49. Alcuni
mesi dopo, il 25 maggio 1941 Tacchi Venturi scrisse alla Segreteria di stato
una lettera in cui non faceva mistero del proprio ottimismo: «Colgo questa
occasione per parteciparle la molto lieta notizia della prossima presentazione
del decreto legge che accorderà l’arianità alle famiglie miste e provvede anche
per quegli ebrei che hanno abbracciato la religione cattolica e non potrebbero
essere discriminati secondo la vigente legge; siano essi in stato matrimoniale o
no»50. Quella che Renzo De Felice ironicamente deinì l’idea di una soluzione
inale all’italiana rimase sul tavolo di Mussolini per parecchio tempo. La
discussione e la messa in opera del progetto furono prima rinviate nel luglio
del 1941 e successivamente, dopo esitazioni ed incertezze, deinitivamente
abbandonate agli inizi del 1942. Gli sforzi da parte della Santa Sede per risolvere e sanare la crisi apertasi con le leggi razziali del 1938 non si erano
però esauriti. A testimonianza dell’acuto interesse per la problematica di tipo
teorico stanno infatti una serie di articoli apparsi sulla Civiltà Cattolica tra
19 dicembre 1942 e il 15 marzo 1943, scritti da padre Barbera e interamente
dedicati alla positiva valutazione e calda ricezione del Trattato di Biotipologia umana di Nicola Pende, lo scienziato le cui tesi ormai incarnavano ed
esprimevano, in correlazione con la dottrina elaborata da Giacomo Acerbo,
la linea uficiale del Regime sulla questione della razza51.
48
Il testo integrale della relazione sta in R. De Felice, Storia degli ebrei Italiani sotto il
fascismo, cit., pp. 584-588. Per i passi citati v. p. 587.
49
Ibidem.
50
Cit, in G. Sale, Progetti di riforma della legge fascista sulla purezza della razza, cit.,
p. 232.
51
Per un’analisi dettagliata dell’argomento v. R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. La Civiltà Cattolica e la questione ebraica 1850-1945, cit., pp. 98-123.
Ruggero Taradel
157
Barbera giudica la dottrina di Pende, come «obiettiva», «scientiicamente
accertata» e risolventesi in «equilibrato concetto di razza». Alle teorie e alle
applicazioni potenziali delle teorie di Pende, scrive Barbera, «non può negarsi
originalità e genialità» ed esse risultano «sostanzialmente concordi» con la
«retta ilosoia» e con la «dottrina cattolica» sotto il punto di vista «religioso,
morale e pedagogico»52. Ancora una volta un riconoscimento non da poco,
per un testo in cui l’autore deiniva la nazione italiana, forgiata dalla romanità,
come «un’unità che oggi si avvia rapidamente, mercé la politica uniicatrice
e biologica-spirituale possente del regime mussoliniano, alla sua vetta ideale,
al perfetto ed armonico nazionalismo biologico»53.
La caduta di Mussolini, l’avvento del governo Badoglio, la Shoah in pieno
svolgimento non sembrano aver impresso alla linea sin qui seguita dalla Santa
Sede nei confronti delle leggi razziali particolari torsioni o mutamenti: il 24
agosto 1943 Tacchi Venturi scrisse a Maglione riferendo sulla conduzione delle
trattative in atto con il governo Badoglio sulle leggi razziali: «Ho ricevuto
la sua venerata del 27 c.m., e con essa l’esposto del sig. X sulla situazione
dei cittadini considerati di razza ebraica in generale e le famiglie miste in
particolare. La ringrazio per avermelo comunicato poiché il conoscerlo se ha
potuto essermi utile per l’uficio che fui autorizzato a compiere, torna bene a
proposito per conoscere di ciò che si desidera e si vorrebbe attuato dagli israeliti
d’Italia, vale a dire il perfetto ritorno alla legislazione introdotta dai regimi
liberali rimasta in vigore ino al novembre 1938. Nel trattare la cosa con sua
Eminenza, il Ministro per l’Interno, mi limitai, come dovevo, ai soli tre punti
precisati nel foglio di vostra eminenza del 18 agosto n° 5077/43 guardandomi
bene, dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge la quale secondo i
principi della tradizione della Chiesa cattolica ha bensì disposizioni che vanno
abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma»54.
Questa lettera rappresenta in un certo senso il suggello del periodo e
dell’argomento che si è preso in esame. Se si guarda all’insieme degli interventi e agli atti espressi sia dalla Santa Sede sia dagli episcopati e dei primati
dei paesi in cui vennero promulgate e poste in atto legislazioni antisemite e
razziali dal 1933 e il 1943 emerge un quadro certamente complesso, ma in
cui possono essere individuati due elementi costanti, tra loro apparentemente
contraddittori ma in realtà intimamente correlativi. Da una parte nette, esplicite,
reiterate e chiarissime condanne del razzismo biologistico e dell’antisemitismo
a sfondo e ispirazione razzista e nazista, ma dall’altra tolleranza, sconinante
52
M. Barbera, Biotipologia, orientamento professionale ed eugenica, in Civiltà Cattolica,
1943, vol. II, p. 233.
53
N. Pende, Trattato di biotipologia umana: individuale e sociale, con applicazioni alla
medicina preventiva, alla clinica, alla politica biologica, alla sociologia, Milano 1939, p. 579.
54
Per il testo integrale della lettera v. R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole.
La Civiltà Cattolica e la questione ebraica 1850-1945, cit., p. 151.
158
La Santa Sede e le leggi razziali in Italia in Europa
nell’acquiescenza o nell’accettazione del principio secondo cui uno stato
può discriminare, in base ad una legislazione speciale un gruppo dei propri
cittadini se identiicati in base a criteri di tipo etnico-religioso in vista del
bene comune. Da questi due elementi, tra loro in costante tensione dinamica,
scaturì la tenace e ostinata difesa delle prerogative della Chiesa e della sua
missione religiosa e pastorale, una difesa che si dispiegò in particolare attorno
ai due sacramenti direttamente minacciati dalle dottrine e dalle legislazioni
razziste, ovvero battesimo e matrimonio. Nel suo recente libro The Catholic
Church and the Holocaust 1930-1965, Michael Phayer ha così riassunto le
sue conclusioni sul “silenzio” di Pio XII: «È corretto parlare del silenzio
di Pio XII? Sì, se intendiamo dire che il Papa non fece udire la sua voce in
modo inequivocabile contro l’assassinio degli ebrei. No, se intendiamo dire
che il Papa mancò di usare le risorse del Vaticano (the Vatican’s ofices) per
contribuire a soccorrere gli ebrei»55. Al termine di questo excursus possiamo
rispondere in modo analogo ad un altra domanda: la Santa Sede si oppose alle
leggi antisemite in Europa? Sì, se intendiamo dire che la Santa Sede si oppose
al razzismo di tipo biologico e ai provvedimenti legislativi che direttamente
vi si ispiravano. No, se intendiamo dire che la Santa Sede si oppose al principio e alla prassi secondo cui era lecito e forse auspicabile discriminare gli
ebrei d’Europa, se identiicati e deiniti in base criteri etnici e confessionali,
in vista del bene comune. Quello che manca, e che invano storici e apologeti
hanno senza successo cercato tra gli atti, i documenti, le dichiarazioni e le
note diplomatiche della Santa Sede nel decennio che va dal 1933 al 1943, è
un atto che forse non esiste: ovvero un testo che mostri in modo inequivocabile e probante che la Santa Sede, in questo periodo drammatico, maturò ed
espresse in modo aperto e inequivocabile l’idea secondo cui non è lecito né
legittimo ad una entità statale o politica discriminare la propria popolazione
su base non solamente o semplicemente razziale, ma anche etnica e religiosa,
e che l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è un valore assoluto che
deve prescindere da qualunque considerazione, religiosa, etnica, nazionale o
razziale che sia. Ciò che la documentazione e le vicende che si sono analizzate
rivelano è proprio l’opposto, ovvero l’incapacità della Santa Sede, in questo
tragico periodo della storia europea, di liberarsi ed emanciparsi da elementi,
precisi e storicamente determinati, del proprio retaggio dottrinale e ideologico: non solo del proprio radicato e vetusto sistema di pregiudizi antiebraici
teologicamente e politicamente argomentati, ma anche – e forse soprattutto –
della sua dichiarata e aperta ostilità contro liberalismo e società aperta, aventi
entrambi alla propria base il principio secondo cui les hommes naissent et
demereux libres et égaux en droit.
55
M. Phayer, The Catholic Church and the Holocaust, 1930–1965, Bloomington IN,
2000, p. xv.
Silvia Falconieri
TRA “SILEnzIo” E “MILITAnzA”.
LA LEGISLAzIonE AnTIEBRAICA
nELLE RIvISTE GIURIdIChE ITALIAnE (1938-1943)
1. Stampa giuridica periodica e fascismo. Alcune note preliminari.
Nell’ultimo decennio la storiograia e la storiograia giuridica italiana hanno iniziato ad interrogarsi sempre più a fondo sulle ripercussioni dei decreti
antiebraici del ’38 in campo squisitamente giuridico e sulle ricadute che tale
legislazione ebbe nel settore speciico della scienza giuridica italiana1. Soltanto
di recente, tuttavia, si è iniziato a focalizzare l’attenzione sull’atteggiamento
assunto dai giuristi di fronte al processo di costruzione della diversità giuridica
dell’ebreo, sul loro eventuale contributo al consolidamento ed al funzionamento della dicotomia ebreo/ariano nell’ordinamento italiano di ine anni Trenta e
sulle modalità attraverso le quali si andò costruendo un vero e proprio dibattito
attorno alla nuova qualiicazione di “cittadino italiano di razza ebraica”.
In tale prospettiva, la rivista giuridica si rivela una lente estremamente
eficace attraverso la quale guardare, da una differente angolazione, in quale
maniera fu recepita dalla cultura giuridica l’introduzione della dicotomia ebreo/
ariano, in un periodo in cui era stata oramai raggiunta una completa integrazione degli ebrei nella vita culturale italiana e nomi di chiara origine ebraica
iguravano tra quelli dei più insigni studiosi del diritto2. La rivista, infatti, offre
il grande vantaggio di cogliere le singole fasi del processo attraverso il quale
1
Tale problematica si inserisce nel quadro più ampio dell’analisi del rapporto tra cultura
giuridica italiana e regime fascista. Sulla possibilità di parlare di “cultura giuridica fascista”,
A. Mazzacane, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, in Diritto, economia
e istituzioni nell’Italia fascista a cura di Mazzacane, Baden-Baden 2000, pp. 1-19.
2
Sul processo di integrazione degli ebrei, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo
italiano, Firenze 1974; S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto della prima emancipazione all’età
della Repubblica, in Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, Annali 11, a cura di C.
Vivanti, Torino 1997, pp. 1765-1827; E. Capuzzo, Gli ebrei nella società italiana. Comunità
e istituzioni tra Ottocento e Novecento, Roma 1999.
160
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
quella coppia dicotomica si insinuò nel discorso giuridico e permette non
solo di individuare in maniera più agevole le questioni maggiormente dibattute attorno alla concreta attuazione della legislazione antiebraica, ma anche
di ricostruire in maniera più precisa la dimensione e i caratteri del dibattito
sviluppatosi attorno ad essa3.
Negli anni ’30 del Novecento, lo stato della stampa giuridica periodica era
considerevolmente mutato rispetto alla seconda metà del secolo precedente,
periodo in cui aveva conosciuto il suo apogeo4: da un lato, si era assistito ad
un considerevole aumento del numero delle pubblicazioni periodiche che,
seppur in atto già nel primo dopoguerra, era stato fortemente incentivato dalle intense riforme legislative avviate dal fascismo in ogni settore del diritto
italiano5; dall’altro, erano considerevolmente mutati i margini di autonomia
dei quali la stampa giuridica godeva rispetto ad un regime che, soprattutto
nella seconda metà degli anni Trenta, in concomitanza con la fondazione
dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, si mostrava sempre più desideroso
di uscire da quell’“ibridismo culturale” che lo aveva caratterizzato durante il
primo decennio, per disegnare in maniera più decisa i contorni sfuggenti della
“cultura fascista”6.
Nell’ambito della storiograia giuridica europea, si segnalano alcuni contributi che si sono
preoccupati di analizzare il rapporto tra i periodici giudici ed i regimi nazionalsocialista e di
Vichy: G.T. Heine, Juristische Zeitschriften zur NS-Zeit, in Recht und Unrecht im Nationalsozialismus, a cura di S. Peter, Münster 1985, pp. 272-293; G. Bigot, La revue de droit public
dans l’oeil de Vichy e M. Fabre, La doctrine sous Vichy. Analyse systématique des revues de
droit privé de juin 1940 à juin 1944, in Le droit sous Vichy, a cura di B. Durand, Frankfurt
am Main 2006, pp. 375-401 e pp. 415-435.
4
Sulla centralità del ruolo assunto dalla rivista nella costruzione e diffusione della scienza
giuridica italiana, nella seconda metà del XIX secolo, C. Vano, «Ediizio della scienza nazionale». La nascita dell’Enciclopedia giuridica italiana, in Enciclopedia e sapere scientiico.
Il diritto e le scienze sociali nell’Enciclopedia giuridica italiana, a cura di A. Mazzacane e P.
Schiera, Bologna, 1990, pp. 15-66. Paolo Grossi ha utilizzato la felice formulazione di “cultura delle riviste”, P. Grossi, Chiarimenti preliminari, in La “cultura” delle riviste giuridiche
italiane, a cura di P. Grossi, “Per la storia del pensiero giuridico moderno”, 13, Milano 1984,
pp. 13-19; Riviste giuridiche italiane (1865-1945), a cura di P. Grossi, “Per la storia del pensiero giuridico moderno”, 16, Milano 1987. Un esperimento analogo è stato realizzato per le
riviste francesi, La culture des revues juridiques française, a cura di A.J. Arnaud, “Per la storia
del pensiero giuridico moderno”, 29, Milano 1987. Con particolare riferimento all’esperienza
tedesca, M. Stolleis, Juristische Zeitschriften. Die neuen Medien des 18.-20. Jahrhunderts,
Frankfurt am Main 1999. Sulla centralità della rivista giuridica nell’organizzazione e diffusione di precisi indirizzi di scuola, C. Vano, “Il nostro autentico Gaio”. Strategie della Scuola
storica alle origini della romanistica moderna, Napoli 2000.
5
M.S. Giannini, Introduzione ai lavori, in La “cultura” delle riviste, cit., pp. 21-38. Sul
considerevole aumento dei periodici giuridici in Italia, nel periodo del secondo dopoguerra,
A. Grisoli, (a cura di), La proliferazione delle riviste giuridiche in Italia dopo il 1945, Milano,
1966.
6
M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista,
Torino 1979; R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna 2000; G. Turi, Lo Stato educatore.
Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Roma Bari 2002.
3
Silvia Falconieri
161
In quasi completa assenza di studi speciici sull’argomento, alcune forti
indicazioni possono essere ricercate nelle pagine delle stesse riviste e nella
documentazione d’archivio. Gli episodi di controllo preventivo e censura, i
cambiamenti in seno ai comitati direttivi – intensiicatisi soprattutto nel corso
degli anni Trenta – lasciano semplicemente intuire la profondità del controllo
che, attraverso l’Uficio per la stampa prima e il Minculpop poi, il regime
esercitava anche sulla stampa giuridica7. Fu eclatante la vicenda nella quale
incorse, nel 1925, la famosa effemeride di Luigi Lucchini, la Rivista penale8
che, sin dall’avvento del regime, non aveva mai fatto mistero della propria
avversione nei confronti delle pesanti riforme avviate dal governo in materia
di stampa. Fu in seguito alla pubblicazione di un articoletto del direttore,
ritenuto offensivo della persona del duce, che la rivista si trovò coinvolta in
un ennesimo episodio di sequestro, mentre un procedimento penale a carico
dello stesso Lucchini e dell’allora vice-direttore Battaglini, veniva avviato
davanti alla Corte di Giustizia9. Nel corso degli anni Trenta, in seguito a due
cambiamenti in seno al suo comitato direttivo, avvenuti rispettivamente nel
1930 e nel 1938, la Rivista penale mutò completamente volto, mostrando un
progressivo allineamento alla politica del regime ed una maggiore condivisione
delle riforme legislative che questo aveva avviato nel settore del diritto penale.
L’esperienza del periodico di Lucchini non si rivelò un caso isolato: cambiamenti radicali in seno ai comitati direttivi di quei periodici giuridici furono
un tratto comune a diverse riviste giuridiche che avevano visto la luce in epoca
anteriore al fascismo. Alcuni di essi, peraltro, andavano a coincidere esattamente con l’anno di promulgazione dei primi decreti antiebraici e venivano
giustiicati con l’inadeguatezza o l’incompatibilità della tradizionale impostazione scientiica del periodico con le innovazioni che i tempi imponevano
alla scienza giuridica. Si pensi, ad esempio, al caso della Rivista di diritto
commerciale, diretta da Angelo Sraffa e Cesare Vivante ino al 1937, anno in
cui, “per incarico della Casa editrice” Vallardi di Milano, i professori Asquini,
7
V. Castronovo, N. Tranfaglia, La stampa italiana nell’età fascista, Roma Bari 1980; Id.,
La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Roma Bari 1991; R. Cassero, Le veline del duce:
come il fascismo controllava la stampa, Milano 2004.
8
Sulla rivista di Lucchini durante il periodo liberale, sulla sua fondazione, il suo programma, i rapporti con la penalistica del tempo e sulla persona del suo fondatore, si veda M.
Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La Rivista penale di Luigi Lucchini (1874-1900), in Riviste
giuridiche italiane, cit., pp. 105-184; sul rapporto tra penalistica italiana e regime fascista,
Id., Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli ani del fascismo,
in Quaderni iorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 28, 1999, Continuità e
trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, a cura di P. Grossi,
pp. 817-850.
9
Dell’episodio di censura nel quale era incorsa la rivista di Lucchini, nel 1925, a causa
della pubblicazione di un articoletto, Segno dei tempi, del quale era autore lo stesso direttore,
si rendeva conto in apertura dell’annata del ’26. La Rivista penale, Agli amici e lettori della
Rivista, in Rivista penale, CIV (1926), pp. 5-12.
162
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
Valeri e Mossa ne ereditavano la direzione10. Alla morte dell’amico e collega
Sraffa, Vivante prendeva congedo dalla direzione del periodico, sottolineando
come le nuove problematiche poste dalle continue riforme avviate dal governo
fascista nel settore del diritto commerciale italiano richiedessero l’attenzione
di colleghi più giovani ed inaugurava, così, una “nuova fase della Rivista”11.
Gli episodi di controllo preventivo e di censura, a carico dei periodici
giuridici, si intensiicarono ancor più nella seconda metà degli anni Trenta,
con l’istituzione del Ministero della cultura popolare12. Nel 1942, Alberto
Luchini, capo dell’Uficio studi e propaganda sulla razza, scriveva al direttore de La Difesa della Razza Telesio Interlandi e gli intimava di impedire la
pubblicazione di un articolo, irmato dal giurista Baccigalupi, sulla questione
dei matrimoni misti, ritenendo le tesi ivi avanzate eccessive, intransigenti
e scomode dal punto di vista politico13. Nella primavera del ’43, fu Il Foro
Italiano a trovarsi nell’occhio del ciclone del Minculpop. Sul celebre periodico cadde il pesante sospetto che, a dispetto delle disposizioni di legge che
imponevano l’allontanamento di tutti gli “appartenenti alla razza ebraica” dai
comitati direttivi di riviste e quotidiani italiani, giuristi di origini israelitiche
avessero continuato a prestare costantemente la propria collaborazione. In un
trailetto pubblicato nelle pagine del Corriere Adriatico, il 13 marzo del ’43,
si riferiva che un “assiduo lettore” aveva avuto modo di notare come Il Foro
Italiano avesse pubblicato con costanza solo quelle decisioni e sentenze che
fornivano un’interpretazione ed un’applicazione dei decreti del ’38 “in senso favorevole agli ebrei”14. Tale attitudine veniva spiegata come una diretta
conseguenza della costante e perdurante presenza di collaboratori di origini
ebraiche alla redazione del periodico:
(...) ma la spiegazione è facile, facilissima. Non era Il Foro Italiano sino al
1938-39 largo di ospitalità agli ebrei, giuristi e avvocati come ha documentato La
Difesa della Razza? Non è forse redattore, o comunque addetto al Foro Italiano
quell’avvocato Ottolenghi, ebreo già attivissimo e diligente consulente legale capo
dell’Istituto Nazionale Fascista infortuni operai sul lavoro15?
10
A. Asquini, G. Valeri, L. Mossa, La nostra consegna, in Rivista di diritto commerciale,
1-2 (1938), pp. 3-5.
11
C. Vivante, Congedo, in Rivista di diritto commerciale, 1-2 (1938), pp. 1-2, qui p. 2.
12
Sull’istituzione e l’organizzazione del Ministero della cultura popolare (Minculpop),
all’interno della collana diretta da Guido Melis, L’amministrazione centrale dall’Unità alla
Repubblica. Le strutture e i dirigenti, si veda il volume di P. Ferrari, M. Giannetto, Il Ministero
della Cultura popolare. Il Ministero delle poste e telegrai, Bologna 1982. P.V. Cannistraro,
Burocrazia e politica culturale nello Stato fascista: il Ministero della cultura popolare, in
Storia contemporanea, 1 (1970), pp. 273-297.
13
Acs, Minculpop, b. 139, Baccigalupi.
14
Acs, Minculpop, b. 142, fasc. 151, Il Foro Italiano. Ottolenghi Carlo.
15
Ibidem.
Silvia Falconieri
163
Fu sulla base di questa segnalazione che il Ministero della cultura popolare
diede il via ad un’indagine volta ad accertare la fondatezza delle accuse mosse
nei confronti della rivista ed avente ad oggetto, principalmente, le modalità
di gestione della direzione del periodico e le persone degli allora direttori,
l’avvocato Luigi Busatti ed il senatore Antonio Scialoja. Il problema di fondo veniva individuato nella costante e regolare presenza dell’avvocato Carlo
Ottolenghi nei luoghi della direzione che, tuttavia, si provò non partecipare
direttamente alla gestione del periodico. La vicenda non si concluse con il
sequestro del periodico, ma la direzione della rivista veniva formalmente
difidata dal riportare decisioni analoghe.
Se da un lato, però, si cercava di fuggire il controllo penetrante del
regime, “facendo scivolare” le note più critiche nelle pagine delle riviste
meno sospette16; dall’altro si registravano dei veri e propri tentativi di autosottomissione, messi in atto da chi riteneva che la stampa giuridica fosse
coinvolta meno direttamente, rispetto a quella politica e quotidiana, nel
processo di consolidazione delle istituzioni fasciste. Per tale ragione, ad
esempio, Montefusco, in un suo intervento nelle pagine de La vita italiana,
si era sforzato di delineare la “nuova funzione” della stampa giuridica, adattando ad essa le direttive che il duce aveva impartito alla stampa politica
e quotidiana17. Al contempo, degli strenui tentativi di ottenere il consenso
e la piena approvazione del regime, nonché inanziamenti ed agevolazioni,
venivano messi in atto dai fondatori di alcuni giovani periodici: il professore
Gastone Bolla scrisse ripetutamente al duce per ottenere consensi e sostegni
per la sua Rivista di diritto agrario18. La stessa vicenda de Il diritto razzista
– rivista sulla quale si avrà modo di tornare più avanti – è testimonianza di
una simile diffusa tendenza19.
2. Le “riviste del silenzio”. L’estraneità della legislazione antiebraica
all’impianto civilistico italiano
Dallo spoglio di alcune tra le più note riviste giuridiche, effettuato per
il periodo compreso tra il 1938 ed il 1943, si ha la forte sensazione che i
giuristi abbiano manifestato una certa titubanza nell’abbandonarsi allo studio
e all’approfondimento delle conseguenze giuridiche connesse alla nuova
A. Galante Garrone, Ricordi e rilessioni di un magistrato, in La Rassegna Mensile
d’Israel, LIV.1-2 (1988) pp. 19-35.
17
V. Montefusco, Problemi del Diritto (Stampa e propaganda). Funzioni della stampa
giuridica, in La vita italiana, CCCX (1939), pp. 471-475.
18
Acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, b. 1487, fasc. 515.561.
19
Acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, b. 1339, Cutelli Stefano
Mario-Il diritto razzista.
16
164
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
qualiicazione razziale. Da un lato, si può osservare come sia estremamente
raro reperire nelle pagine delle riviste contributi a carattere monograico
relativi alla legislazione antiebraica: è il caso di alcuni tra i maggiori periodici italiani che – come la Rivista di diritto pubblico, la Rivista italiana
di diritto penale, la Giustizia penale, Il Foro Italiano – furono fondati a
cavallo tra il XIX ed il XX; i decreti del ’38 venivano espulsi dalle sezioni
tradizionalmente consacrate ai contributi dottrinali, per venir relegati nelle
rassegne giurisprudenziali, nei notiziari legislativi, nei bollettini bibliograici o, ancora, nelle sezioni di varietà, nelle quali si fornivano informazioni
relative all’organizzazione di eventi di diversa natura. Da un altro lato, lo
spoglio dei periodici mostra bene come non furono poche le riviste che
tacquero – o meglio, forse, decisero di tacere – completamente, o quasi, a
proposito della legislazione antiebraica; si pensi alla Rivista di diritto processuale civile, Rivista di diritto commerciale, Rivista italiana per le scienze
giuridiche, Rivista di diritto privato e Rivista di diritto civile. Una prima
forte sensazione che, dunque, avverte il lettore che si avventuri nelle pagine
delle riviste giuridiche italiane, alla ricerca delle tracce dei decreti del ’38,
è quella che tale legislazione, in Italia, non sia mai esistita e che i giuristi
di ine anni Trenta abbiano continuato a svolgere il loro lavoro di sempre,
prestando scarsissima attenzione ad una qualiicazione che, come quella di
“appartenente alla razza ebraica”, coinvolgeva, e minacciava di sconvolgere,
ogni singolo settore della scienza giuridica italiana.
Penetrare il signiicato più recondito di quei silenzi, totali o parziali, si rivela
un’operazione quanto mai ardua che potrebbe rischiare facilmente di sfociare
in uno sterile processo alle intenzioni. Alcuni studi realizzati per esperienze
vicine a quella italiana hanno ben mostrato come sia impossibile far coincidere
automaticamente il silenzio con una reazione di disapprovazione e disappunto
nei confronti della legislazione razziale. Dominique Gros, ad esempio, ha prestato attenzione alla maniera nella quale la legislazione antiebraica di Vichy del
1940 e 1941 aveva trovato spazio nei manuali giuridici in uso presso le facoltà
di giurisprudenza francesi del periodo, rilevando come, in molti casi, fossero
proprio quei giuristi convinti sostenitori della politica del maresciallo Pétain a
decidere di non affrontare le questioni giuridiche connesse alla promulgazione
del nuovo Statut des juifs20. Ciò appare vero anche per l’esperienza italiana:
si pensi alla Rivista italiana per le scienze giuridiche che, al momento della
promulgazione della legislazione antiebraica, era diretta da Pietro De Francisci, notoriamente simpatizzante del regime e direttamente implicato nella
costruzione del “nuovo ordine giuridico” fascista.
20
D. Gros, Le “statut des juifs” et les manuels en usages dans les facultés de droit (19401944): de la description à la légitimation (1940-1944), in Cultures & Conlits, 9-10 (1993),
pp. 139-171.
Silvia Falconieri
165
Tuttavia, possono essere avanzate alcune ipotesi, partendo dal caso di due
periodici, la Rivista di diritto civile e la Rivista di diritto privato21, che ruppero
il silenzio sporadicamente e in occasione di determinati avvenimenti giudiziari. Seppur afferenti al medesimo settore disciplinare, si tratta di due riviste
abbastanza distanti tra loro, tanto per quel che attiene al periodo della loro
fondazione, quanto per quel che concerne il programma e le linee scientiiche
seguite. Riguardo alla politica antiebraica e alle sue potenziali implicazioni nel
settore civilistico, però, i due periodici sembrarono mettere a punto delle strategie piuttosto analoghe, adottando una reazione straordinariamente omogenea
e decidendo di rompere il silenzio in occasione di un determinato avvenimento
giudiziario. Si trattava di una sentenza, ampiamente nota, emessa dalla Corte
d’Appello di Torino nel maggio 1939, le cui statuizioni e motivazioni, insieme
con la profonda ed accurata analisi che il magistrato torinese Alessandro Galante Garrone aveva pubblicato nella Rivista del diritto matrimoniale italiano22,
divennero un riferimento quasi obbligato nel dibattito che iniziava ad aprirsi
attorno alle modalità di applicazione delle disposizioni legislative contenute
nei decreti del 1938.
La Corte torinese era stata chiamata ad affrontare delle questioni delicatissime che, come quella della determinazione della competenza ad emettere
la declaratoria di appartenenza alla razza ebraica, rischiavano di rimettere in
questione gli assetti consolidati dell’impianto civilistico italiano, ed aveva
affermato la necessità di vincolare l’interpretazione delle disposizioni del ’38
ai principi tradizionali dell’ordinamento giuridico di matrice liberale23. La
Rivista di diritto civile, attraverso una brevissima recensione del suo direttore Cicu alla nota di Galante Garrone, coglieva l’occasione per aderire a tale
tipologia di lettura dei decreti del ’38 e per ribadire come quelle disposizioni
non potessero in alcun modo derogare ai principi civilistici consolidati24.
21
Sui due periodici, si vedano i saggi di G. Furgiuele, La «Rivista di diritto civile» dal
1909 al 1931. «Un organo speciale del movimento scientiico, legislativo e pratico del più
importante ramo del diritto positivo» e di «indirizzo» dello stesso nell’Italia giolittiana e del
terzo decennio del nuovo secolo, e U. Santarelli, «Un illustre e appartato foglio giuridico».
La rivista di diritto privato, in Riviste giuridiche italiane, cit., pp. 519-630 e pp. 667-715.
22
A. Galante Garrone, Questioni sull’appartenenza alla razza ebraica – Competenza
dell’autorità giudiziaria e amministrativa – I nati da matrimonio misto – I catecumeni, in
Rivista del diritto matrimoniale italiano, VI (1939), pp. 409-418. Sul magistrato Galante
Garrone e sulla sua attività durante gli anni del fascismo, P. Borgna, Un paese migliore. Vita
di Alessandro Galante Garrone, Roma Bari 2006.
23
Sulle problematiche affrontate dalla Corte torinese, v. G. Speciale, Giudici e razza, cit.,
pp. 65 ss.; G. Fubini, La legislazione razziale nell’Italia fascista: normativa e giurisprudenza,
in La legislazione razziale in Italia e in Europa, a cura della Camera dei Deputati, Roma,
Camera dei Deputati, 1989, pp. 17-31; O. Camy, La doctrine italienne, in Le genre humain,
30-31 (1994), pp. 477-539.
24
A. Cicu, Recensione a Galante Garrone, Questioni sulla appartenenza alla razza ebraica – Competenza dell’autorità giudiziaria e amministrativa – I nati da matrimonio misto – I
catecumeni, in Rivista di diritto civile, XXXII (1940), p. 169.
166
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
Anche il periodico di Rotondi, ricorrendo ad una strategia ancor più soisticata ed elegante, nell’annata del 1940, ruppe il silenzio, attraverso la pubblicazione di una nota a sentenza con la quale venivano raccordate due pronunce,
quella della Corte d’Appello di Torino ed una sentenza emessa dal Tribunale
di Roma, che avevano risolto in maniera diversa la questione della determinazione dell’appartenenza alla “razza ebraica”25. L’anonimo autore della nota non
si limitava semplicemente a mostrare la propria adesione all’interpretazione
fornita dalla Corte torinese, ma, attraverso un’operazione di confronto tra la
legislazione del ’38 e le norme relative al riordino delle comunità israelitiche
del 1930, operava una sorta di neutralizzazione della legislazione antiebraica: la sovrapposizione di criteri e norme legislative differenti rendeva quasi
impossibile poter parlare di uno status di ebreo nell’ordinamento italiano26.
A differenza di quanto accadde per la Rivista di diritto civile, nelle pagine
della quale non si ritrovano ulteriori riferimenti alla nuova qualiicazione di
“appartenente alla razza ebraica”, nella Rivista di diritto privato, la rubrica
“razza” tornava ad essere impiegata nel 1943, sempre e soltanto nella sezione
giurisprudenziale. Essa rinviava, a sua volta, alla voce “donazione”, quasi a
voler convogliare l’attenzione del lettore sul fatto che l’oggetto principale
dell’attenzione degli studiosi non concerneva tanto le legislazione antiebraica
in sé, quanto piuttosto un istituto tradizionale del diritto civile italiano – quello
della donazione, per l’appunto – che da essa rischiava di essere intaccato nelle
sue fondamenta.
Il caso preso in considerazione aveva ad oggetto il divieto di donazioni
tra coniugi, già sancito dal codice civile del 1865 e mantenuto in vigore
dall’art. 781 del nuovo codice del 1942. La legislazione antiebraica rischiava
di metterlo in discussione, in quanto l’articolo 6 del R.D.L. 126/’39, con il
quale si erano dettate le disposizioni relative ai limiti di proprietà immobiliare
per i cittadini di razza ebraica, prevedeva la possibilità che l’ebreo donasse
i propri beni al coniuge o ai discendenti che non fossero di razza ebraica.
Nelle pagine della rivista di Rotondi veniva ripercorso, nei suoi tre gradi di
giudizio – di fronte al Tribunale di Genova, alla Corte d’Appello di Genova
e alla Corte di Cassazione del Regno27 – il caso Polli/Guggenheim: tutti i
25
Nota alle sentenze della Corte d’appello di Torino, 5 maggio 1939, Rosso/Artom e
del Tribunale di Roma, 19 giugno 1939, Pantani/Comunità israelitica di Roma, in Rivista di
diritto privato, pp. 29-30.
26
Le strategie messe a punto dai due periodici, in occasione della pubblicazione della
sentenza della Corte torinese e della nota di Galante Garrone sono state oggetto di più ampia
analisi in un altro lavoro al quale mi permetto di rinviare, S. Falconieri, La scienza giuridica
italiana tra ricordo e oblio della legislazione antiebraica, in Erinnern und Vergessen. Remembering and Forgetting, a cura di O. Brupbacher u.a., München 2007, pp. 135-156.
27
Tribunale di Genova, 24 luglio 1941, Polli/Guggenheim; Corte di Appello di Genova,
3 febbraio 1942, Guggenheim/Polli; Corte di Cassazione del Regno, 15 marzo 1943, Guggenheim/Polli, in Rivista di diritto privato, pp. 120-127; pp. 181-192.
Silvia Falconieri
167
giudici che avevano esaminato la questione si erano dimostrati concordi nel
ritenere che la deroga consentita dall’art. 6 del R.D.L. 126/’39 fosse operativa
soltanto in relazione alla normativa razziale e, quindi, esclusivamente nel caso
in cui la donazione avesse avuto ad oggetto quella “quota eccedente” che il
“cittadino italiano di razza ebraica” era obbligato a trasferire all’EGELI28.
Dal momento che, nel caso di specie, tale ipotesi non si veriicava, non era
assolutamente ammissibile prevedere una violazione così profonda delle
disposizioni codicistiche e si doveva, pertanto, concludere che la donazione
del Guggenheim alla moglie “ariana” fosse colpita da nullità per violazione
dell’art. 781 del codice civile.
La rivista di Rotondi non si limitava a riportare semplicemente le massime delle sentenze, ma vi pubblicava in margine una nota di Enrico Allorio,
giovane studioso simpatizzante del regime, che aveva però già dato ampia
dimostrazione di tenere enormemente al ruolo centrale assegnato alla legge in
seno all’ordinamento giuridico italiano29. Allorio approvava incondizionatamente la posizione dei giudici genovesi: la normativa antiebraica non poteva
in alcun modo introdurre una deroga così forte ad una disposizione codicistica,
ma doveva necessariamente trattarsi di una deroga valida esclusivamente nel
contesto della normativa razziale30.
A ben vedere, le due pronunce alle quali la rivista di Rotondi aveva prestato attenzione, nel ’40 e nel ’43, seppur avessero ad oggetto problematiche
estremamente distanti, sembravano essere accomunate da una sorta di disinteresse nei confronti del fatto che la decisione resa dai giudici fosse più o meno
favorevole alla persona assoggettata alla normativa antiebraica. L’attenzione
della rivista sembrava focalizzarsi, piuttosto, sull’esigenza di ribadire il rispetto
delle regole e dei principi consacrati dalla tradizione civilistica italiana, di
garantirne la loro assoluta inderogabilità, mentre la scelta di non pubblicare
studi a carattere dottrinale sembra voler porre ancor più in risalto il carattere
contingente e transitorio di quella legislazione, la sua completa inadeguatezza
a costituire oggetto di discussione scientiica.
28
Il R.D.L. 9 febbraio 1939, n. 126, Norme di attuazione ed integrazione delle disposizioni di cui all’art. 10 del R. decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, relative ai
limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani
di razza ebraica, divideva il patrimonio dei cittadini di razza ebraica in due parti, la “quota
eccedente” e la “quota consentita”, obbligandoli ad alienare la prima all’EGELI. I. Pavan,
Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (19381970), Firenze, 2004.
29
E. Allorio, Giustizia e processo nel momento presente, in Rivista di diritto processuale
civile, I (1939), pp. 220-231.
30
E. Allorio, Legge razziale e donazione fra coniugi, in Rivista di diritto privato, II (1943),
pp. 120-127.
168
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
3. Tra diritto e scienze biologiche: costruire il sostrato teorico del
corpus normativo razziale
Una delle principali conseguenze di quei silenzi, totali o parziali, sembrerebbe esser stata quella di stimolare o, perlomeno, incentivare una sorta di
delocalizzazione dello studio e dell’approfondimento della legislazione antiebraica all’interno di organi specializzati, appositamente creati per sostenere,
legittimare e fondare da un punto di vista teorico lo sviluppo della politica
razziale di regime. Una delle caratteristiche essenziali di questa tipologia di
periodici era rappresentata, indubbiamente, dalla pluridisciplinarietà e dal
tentativo di conciliare l’approccio giuridico al “problema della razza” con le
scienze biologiche, gli studi antropologici, l’analisi della storia culturale dei
diversi gruppi etnici. Di qui la presenza di collaboratori di differente estrazione
disciplinare, la pubblicazione di articoli afferenti a diversi settori scientiici
ed il tentativo di mettere in piedi un discorso giuridico unitario attorno al problema razziale che, sulla scia della dichiarata unitarietà della politica razziale
coloniale e di quella antiebraica, si rivelasse funzionale al prosieguo ed al
perfezionamento della legislazione razziale31. I giuristi che prendevano parte a
tale iniziativa – nella maggior parte dei casi si trattava di nomi non troppo noti
negli ambienti della scienza giuridica italiana – si mostravano perfettamente in
linea con le scelte operate dal regime e, spesso, erano direttamente coinvolti
nella politica di governo. Si è già avuto occasione di menzionare Baccigalupi
i cui articoli sul rapporto tra razza e diritto comparivano con frequenza e costanza ne La difesa della razza, la più nota rivista divulgativa della dottrina
razzista italiana32. Accanto ad essa igurava Razza e civiltà che, fondata nel
1940 e direttamente gestita dalla Direzione generale per la demograia e per
la razza, consacrava un’intera sezione alla pubblicazioni di sentenze emesse
in materia razziale, di frequente annotate da Giovanni Rosso.
In questo quadro, merita particolare attenzione il caso della rivista Il diritto
razzista, che aveva visto la luce a Roma, il 9 maggio del 1939, ad opera di un
avvocato, Stefano Mario Cutelli, già noto alle sfere uficiali per la sua devozione – quasi maniacale, oserei dire – alla causa fascista e alla stessa persona
del duce33. Sin dagli esordi della proprio attività, Cutelli si era premurato di far
31
Sull’unitarietà tra politica razziale coloniale e politica antiebraica, E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma Bari 2006. Inoltre, mi permetto di rinviare
a S. Falconieri, L’élaboration de la catégorie de «juif» dans l’Italie fasciste. Une hypothèse
autour de la «fascination» italienne pour la doctrine coloniale française, in Actes des journées
internationales de la Société d’Histoire du Droit, Leuven 2008, pp. 297-308.
32
Su La difesa della razza, F. Cassata, «La Difesa della razza». Politica, ideologia e
immagine del razzismo fascista, Torino 2008; V. Pisanty, La difesa della razza: antologia
1938-1943, Milano 2007.
33
La devozione di Cutelli a Mussolini è testimoniata dalle ripetute richieste di attenzione
del duce nei confronti del nuovo periodico, nonché dalle incessanti richieste di udienza. Acs,
Silvia Falconieri
169
conoscere i propri contributi e le proprie intransigenti proposte direttamente
al capo del fascismo, inviandogli con costanza gli estratti dei propri articoli
e le copie del periodico La nobiltà della stirpe del quale era stato fondatore
e direttore sin dagli inizi degli anni Trenta. Il diritto razzista potrebbe essere assunto come l’estremo opposto rispetto alle riviste del silenzio, come il
simbolo del più completo engagement dei giuristi nella causa fascista e nella
politica di difesa della razza italiana.
Sembra rilevante il fatto che l’avvocato Cutelli decise di perseguire i propri
obiettivi attraverso la fondazione di una nuova rivista che egli deiniva come
squisitamente giuridica. A Cutelli non erano certamente mancate le occasioni
di far conoscere le proprie intransigenti posizioni in materia razziale, tanto
attraverso le pagine de La nobiltà della stirpe, quanto attraverso altri contributi
pubblicati nelle pagine de La Vita Italiana di Preziosi. Sembrerebbe, quindi,
che proprio attraverso la creazione di una rivista specializzata si andasse ad
attuare un vero e proprio tentativo di scientiicizzazione del “diritto razzista”,
inalizzato ad attribuire legittimità scientiica a quella che Cutelli deiniva chiaramente e decisamente come una nuova “branca del diritto” italiano. Questo
disperato tentativo doveva passare attraverso il più tradizionale strumento di
comunicazione scientiica, la rivista giuridica, per l’appunto. Non è un caso
che, inaugurando il primo numero, Cutelli denunciasse come “strano” il fatto
che in Italia, ino a quel momento, non si fosse provveduto alla creazione di un
periodico di “diritto razzista” e riconducesse tale assenza al forte disinteresse
manifestato dai più insigni studiosi italiani, totalmente incapaci di avvicinarsi
allo studio di una disciplina che esulasse dalla tradizione giuridica italiana:
Fra tante riviste giuridiche (di diritto privato, di diritto pubblico, diritto civile,
diritto commerciale, marittimo, aereonautico, matrimoniale, corporativo, agrario,
degli appalti, della responsabilità civile, ecc. ecc) era strano che non sorgesse ancora,
malgrado la profonda rivoluzione legislativa razziale voluta da Benito Mussolini,
una rivista di diritto razzista: strano, abbiamo detto; tanto più strano perché l’utilità
scientiica e divulgatrice di una rivista giuridica razzista sfuggiva a quel mondo tanto
sensibile di studiosi che aveva sentito l’urgente bisogno di creare cento riviste per
commentare e…goniare anche le più modeste leggine (…)34.
Intransigenza ed estremismo costituivano i tratti salienti tanto del programma della rivista, quanto dell’atteggiamento del direttore che non perdeva
Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 1339, Cutelli Stefano Mario - Il diritto
razzista. Sulla rivista, si veda I. Pavan, Prime note su diritto e razzismo. L’esperienza della
rivista “Il diritto razzista”(1939-1943), in Culture e libertà. Studi in onore di Roberto Vivarelli,
a cura di D. Menozzi, R. Pertici, M. Moretti, Pisa 2006, pp. 371-418.
34
S. M. Cutelli, Ai Lettori. Come e perché nasce “Il diritto razzista” e come è accolto…,
in Il diritto razzista, 1-2 (1939), pp. 1-7, qui p. 1.
170
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
occasione per utilizzare ogni intervento giurisprudenziale e dottrinale in materia razziale ad affermazione e sostegno delle proprie posizioni, come ben
dimostrato, ad esempio, dall’uso e dalla manipolazione che fu fatta della nota
di Galante Garrone proprio nelle pagine della rivista di Cutelli: il testo originale venne qui limato e rivisitato, soprattutto nella parte in cui il magistrato
aveva mosso un’aspra critica al sistema giudiziario nazionalsocialista, dal
direttore che lo utilizzò in maniera funzionale all’affermazione delle proprie
posizioni e soluzioni: il problema dell’attribuzione della competenza, poteva
esser facilmente risolto con l’introduzione di una “Magistratura per la razza”
che avrebbe seguito “all’ottima Magistratura del Lavoro”35.
Una delle prime preoccupazioni di Cutelli e dei suoi collaboratori fu quella
di delineare il sostrato teorico sul quale il legislatore avrebbe dovuto continuare a lavorare nel progressivo perfezionamento della legislazione razziale. Un
ruolo centrale veniva assegnato al concetto di “stirpe”, segnale della profonda
continuità ideologica che univa il nuovo periodico alla precedente rivista,
La nobiltà della stirpe, della quale, peraltro, era nato come supplemento: il
razzismo fascista veniva indissolubilmente legato alla politica di tutela delle
famiglie nobiliari italiane e deinito come “la generalizzazione ed il massimo
sviluppo del principio aristocratico gentilizio”36. La politica razziale coloniale e
la legislazione antiebraica si ponevano come il logico completamento di “quel
principio genealogico del «sangue»” che, inizialmente applicato in via esclusiva
alle case regnanti, aveva trovato la sua estensione “a tutte le classi sociali”37.
Dal punto di vista giuridico, ne derivava l’automatica applicabilità dei
metodi e dei principi alla base delle leggi nobiliari anche nell’ambito della
legislazione razziale. Nel 1941, Pier Antonio Romano, elogiato da Cutelli per
aver brillantemente discusso una tesi di laurea attorno alla nuova qualiicazione
giuridica di ebreo, pubblicava nelle pagine de Il diritto razzista i risultati del
proprio studio38. Tra le diverse problematiche approcciate, l’autore si interrogava sui limiti temporali connessi all’applicazione dell’art. 8 del R.D.L.
1728/’38, con il quale si era fornita la deinizione di “appartenente alla razza
ebraica”. Sarebbe stato legittimo coinvolgere nell’applicazione dell’art. 8 anche gli antenati del soggetto del quale occorreva determinare l’appartenenza
razziale, nel caso in cui questi fossero deceduti? Per Romano, si trattava, evidentemente, di un problema di irretroattività della legge stessa: non essendo
35
Nota alla sentenza della Corte d’Appello di Torino, 5 maggio 1939, Rosso/Artom, in Il
diritto razzista, 2-3-4 (1940), pp. 139-158.
36
P. Fedele, La nobiltà del sangue, in Il diritto razzista, 1-2 (1939), pp. 10-12, qui p. 10.
37
Ibidem.
38
Pier Antonio Romano aveva conseguito la laurea con lode in giurisprudenza, presso la
Regia università di Roma, sotto la direzione del prof. Giuseppe Messina, discutendo la tesi
davanti ad una commissione presieduta dal prof. Pier Silverio Leicht, peraltro membro del
comitato scientiico de Il diritto razzista. P. A. Romano, I criteri legislativi per la qualiicazione
razziale, in Il diritto razzista, 1-4 (1941), pp. 44-77.
Silvia Falconieri
171
pensabile che essa spiegasse i propri effetti così a ritroso nel tempo, si sarebbe
dovuti arrivare a prendere in considerazione la persona di famiglia più anziana
ancora in vita; per la determinazione dell’appartenenza razziale degli antenati
defunti, invece, si sarebbe dovuto far ricorso al diritto ebraico.
Proprio su questo aspetto interveniva con un richiamo in nota il direttore
del periodico che non nascondeva le proprie riserve in merito alla soluzione
prospettata dal giovane Romano: nel diritto ebraico, infatti, il fattore “razza”
risultava spesso nascosto da quello religioso e, pertanto, un’applicazione del
diritto ebraico non avrebbe condotto a dei “risultati razzialmente veridici”.
Trattandosi di una problematica afferente alla “materia genealogica”, ritornava
piuttosto utile il ricorso al concetto di “eredità biologica”, e quindi un impiego
dei sistemi di ricerca genealogica adottati propriamente negli ordini nobiliari
e nel diritto nazionalsocialista39.
Nelle pagine del neonato periodico, così, iniziarono ad essere pubblicati i
primi contributi monograici sulla nuova “condizione razziale”. Alla “disuguaglianza razziale d’origine” veniva assegnata la funzione di principio generale
al quale l’ordinamento giuridico italiano si sarebbe necessariamente dovuto
informare; per tale ragione, Cutelli si premurava di ricordare l’impellente necessità di provvedere all’inserimento della nozione di “razza” nel testo della
Carta del Lavoro40.
Una grande attenzione fu tributata alla deinizione dello status razziale. Tale
formulazione era quanto mai ricorrente negli interventi dei giuristi allineati,
dei giuspubblicisti ed esperti di diritto coloniale, in modo particolare, che
la utilizzavano in maniera funzionale al progressivo perfezionamento della
legislazione razziale italiana e alla costruzione di una cittadinanza fondata
sull’appartenenza etnica41. All’indomani dell’entrata in vigore del I libro del
codice civile, il riferimento allo status razziale era divenuto una sorta di postulato per i civilisti maggiormente implicati nella politica del regime42.
Il concetto di status razziale, la deinizione dei suoi contenuti e delle sue
implicazioni rappresentarono uno dei punti focali attorno ai quali si concentrò l’attenzione dei collaboratori di Cutelli. Tra gli studi in materia, vi
39
Ivi, p. 70.
S. M.Cutelli, Verso la dichiarazione dei principi del diritto fascista. Per l’inserimento
delle nozioni di “razza” e “partito” nella Carta del “Lavoro”, in Il diritto razzista, 5-6 (1940),
pp. 161-164; Id., Contro Giuda e il vitello d’oro. Per l’inserimento delle nozioni di “razza” e
“partito” nella Carta del “Lavoro”, in Il diritto razzista, 1-4 (1941), pp. 3-14.
41
In particolare, R. Sertoli Salis, Le leggi razziali italiane (legislazione e documentazione),
Roma, Quaderni della Scuola di Mistica Fascista 1939, pp. 31-32. Sul rapporto tra razza e cittadinanza, P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. 4, L’età dei totalitarismi
e delle democrazie, Roma Bari, 2001.
42
Sul punto, si veda, in particolare, F. Treggiari, Questione di stato. Codice civile e discriminazione razziale in una pagina di Francesco Santoro-Passarelli, in Per Saturam. Studi
per Severino Caprioli, a cura di G. Diurni, P. Mari, F. Treggiari, Spoleto, Centro italiano di
studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 821-868.
40
172
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
era quello di Alfredo Ciofi che il direttore del periodico aveva salutato con
maggior entusiasmo, deinendolo come pionieristico. L’autore si era mostrato
fortemente convinto della possibilità di asserire l’esistenza di uno status razziale nell’ordinamento giuridico italiano e si era interrogato circa l’interesse
dell’impiego di simile nozione, chiedendosi, in particolare, quali fossero le
conseguenze che ne derivavano sul piano processuale. A questo proposito,
l’autore ritornava su uno dei più delicati problemi relativi all’applicazione
della legislazione antiebraica: quello della natura della competenza, giurisdizionale o amministrativa, ad intervenire nella soluzione delle controversie
relative all’applicazione della legislazione antiebraica e razziale. Ciofi non
negava che la dichiarazione di appartenenza alla razza ebraica rientrasse
tra le competenze del Ministero dell’interno ma rilevava un’inadeguatezza
legislativa riguardo alla tutela giurisdizionale: considerare la condizione
razziale come un nuovo stato della persona richiedeva di pensare a speciiche
e corrispondenti forme di tutela giurisdizionale43. A chiusa dell’intervento, il direttore del periodico invitava “gli studiosi fascisti a portare il loro
contributo all’esame e al perfezionamento” di quella legislazione che egli
deiniva come una “nuovissima conquista della Rivoluzione”, ma soprattutto
indicava nuovamente quale, a suo avviso, sarebbe stata la via da seguire per
risolvere il problema dell’attribuzione della competenza: l’istituzione di una
magistratura specializzata in materia razziale che avrebbe potuto dichiarare
d’uficio l’appartenenza alla razza ebraica44.
4. dialoghi con “Il diritto razzista”: sviluppi del dibattito giuridico
attorno alla legislazione antiebraica
Tra il tentativo di rimozione messo in atto da periodici come la Rivista di diritto civile e quello di costruzione del “diritto razzista” operato dai collaboratori
di Cutelli, lo spoglio dei periodici rivela una reazione composita ed eterogenea
quanto alle attitudini manifestate dai giuristi italiani nei confronti dei decreti
del ’38. In via generale, sembra possibile asserire che si rivelarono maggiormente votati al commento e allo studio della legislazione razziale quelle riviste
giovani, in particolare, quelle dirette da pratici del diritto, o quei periodici che
avevano conosciuto dei cambiamenti radicali in seno ai propri comitati direttivi
in epoca fascista. Nell’eterogeneità di tali posizioni, si andò delineando, seppur
in maniera timida e atipica, un dibattito attorno alla nuova condizione razziale
introdotta in Italia.
43
Su questo punto, lo stesso autore si esprimeva ampiamente in Lo stato razziale e le sue
guarentigie nel diritto italiano, Empoli 1942.
44
Ivi, p. 199.
Silvia Falconieri
173
La nuova creatura di Cutelli, pur non avendo ottenuto i consensi e le attenzioni
sperate da parte delle più alte sfere politiche, se non attorno al 194145, e pur non
avendo assunto un ruolo di guida nella costruzione di una vera e propria dottrina
giuridica del razzismo italiano, contribuì, in qualche modo, ad alimentare il dibattito attorno alle modalità applicative della legislazione antiebraica e razziale, insinuandosi tanto nelle pagine di quei periodici che mostravano di condividere delle
posizioni più radicali in tema di attuazione della normativa antiebraica, quanto di
quelli che, seppur velatamente, mostravano delle remore nell’aderire alle posizioni
di Cutelli. Due riviste, in particolare, intrattennero dei rapporti abbastanza intensi
con Il diritto razzista: la Rivista penale, all’epoca diretta dall’avvocato Filippo
Ungaro e dal procuratore Antonio Albertini e la Rivista del diritto matrimoniale
italiano, nelle pagine della quale era stata pubblicata la tanto discussa nota di
Galante Garrone. In entrambi i periodici, le rubriche “razza” e “razza ebraica”
comparivano con costanza negli indici generali delle annate.
Nel primo caso era la concomitante partecipazione a entrambi i periodici di
alcuni giuristi notoriamente ingaggiati nella politica di difesa della razza, come
Mario Manfredini e Domenico Rende, a tradire una forte condivisione di idee
e scambi tra la Rivista penale ed Il diritto razzista. Manfredini era autore di
numerosi contributi aventi ad oggetto principalmente le problematiche giuridiche connesse alla politica di tutela della razza in territorio coloniale. Il giurista
era apprezzato da Cutelli ed è frequente ritrovare delle sue pubblicazioni nelle
pagine de Il diritto razzista. Peraltro, Cutelli e Manfredini ebbero occasione di
confrontarsi a proposito delle lacune legislative presentate dal testo di legge
1004/’39, relativo alla tutela del “prestigio della razza italiana” nel territorio
dell’AOI, mostrando di condividere una certa intesa sull’adozione di posizioni
estreme ed intransigenti nel prosieguo della politica razziale46.
Il secondo, Rende, aveva da subito aderito al comitato scientiico di Cutelli,
deinendo la pubblicazione del nuovo periodico come “indispensabile per lo
studio e l’approfondimento dei problemi giuridici nascenti dalla legislazione razziale” che costituiva, a suo dire, “una delle basi giuridiche dello stato
fascista”47. Autore di qualche pubblicazione comparsa nel periodico di Cutelli48,
45
A partire dal 1942, Cutelli sembra maggiormente coinvolto nell’organizzazione della propaganda razziale. Il suo nome, peraltro, igura tra quello di alcuni esperti incaricati dall’Uficio
studi e propaganda sulla razza di una serie di conferenze radiofoniche sulla questione ebraica
in Italia. Acs, Minculpop, Gabinetto, b. 138, fasc. 181, Propaganda razziale.
46
Tra le pubblicazioni di Manfredini: Il diritto imperiale d’Italia, in Rivista penale, I
(1938), pp. 792-804; La difesa della razza in A.O., la nozione del delitto di madamato e il
concorso dell’indigena nel reato, in Rivista penale, I (1938), pp. 1294-1297; Ancora alcune
questioni in tema di madamato, in Rivista penale, I (1939), pp. 611-613; In tema di preteso
abuso di correzione, in Il diritto razzista, 2-3-4 (1940), pp. 137-139; Gerarchia di razza o
reciprocità egualitaria penale?, in Il diritto razzista, 1 (1940), pp. 5-12.
47
Cutelli, Ai lettori,.cit., p. 5.
48
D. Rende, La famiglia e la razza nel nuovo codice civile italiano, in Il diritto razzista, 1-2
(1939), pp. 24-31; Id., Per la razza ario-romana-fascista, in Il diritto razzista, 2-3-4 (1942), pp. 73-87.
174
Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste...
nella Rivista penale si era di frequente occupato della problematica giuridica
connessa alla qualiicazione del reato permanente, tornata alla ribalta nella rilessione penalistica di ine anni Trenta, in concomitanza con la pubblicazione
di un decreto di amnistia riguardante, tra le altre, anche le fattispecie previste
nel R.D.L. 1728/’3849.
Nelle pagine della Rivista del diritto matrimoniale italiano, invece, l’attenzione nei confronti delle tesi di Cutelli si manifestò con maggiore costanza
nella sezione consacrata allo “Spoglio delle riviste”, nella quale la nascita de Il
diritto razzista era stata peraltro prontamente segnalata nel 193950. La scelta di
dedicare la sezione in questione dell’annata del ’42 proprio alla recensione di
alcuni tra i più importanti studi pubblicati nelle pagine del periodico di Cutelli
non sembra completamente casuale; a ben guardare, infatti, la quasi totalità
delle recensioni, non irmate, aveva ad oggetto articoli pubblicati nelle pagine
de Il diritto razzista, raccordati da un comune ilo tematico51: le problematiche poste dalla nuova qualiicazione di ebreo, tanto per quel che atteneva al
proilo sostanziale, quanto per le implicazioni che ne derivavano dal punto di
vista strettamente processuale. Occasione che offre al periodico la possibilità
di ribadire la propria posizione in materia, ancora una volta attraverso il rinvio
alla nota di Galante Garrone e di criticare l’uso sconsiderato che della nota
del magistrato torinese era stata fatta tanto dal giovane Pier Antonio Romano
quanto dalla rivista stessa.
L’anonimo autore delle recensioni dimostrava di voler prendere le distanze
dall’impiego della nozione di status razziale. Osservando come quell’argomento
avesse assunto rinnovata importanza in Italia soltanto da un tempo relativamente
recente, criticava le argomentazioni del Ciofi, che aveva portato “nella discussione
il profondo senso giuridico e la cultura di cui è dotato”52. Soprattutto, però, si
trattava di una nuova occasione per ribadire la posizione del periodico riguardo
alle questioni di ripartizione della competenza. L’esplicito rinvio alla nota di
Galante Garrone, che era stata deinita in precedenza come la linea alla quale la
rivista si uniformava, stava a sottolineare, indirettamente, la natura futile della
discussione attorno alla natura giurisdizionale o amministrativa della competenza
del Ministro: le questioni afferenti alla capacità giuridica dovevano essere attribuite in via esclusiva all’autorità giurisdizionale ordinaria. Non solo, sottolineando
come Romano avesse provveduto a citare ripetutamente lo studio del magistrato
torinese, l’autore della recensione faceva garbatamente rilevare come quella nota
fosse stata utilizzata in maniera scorretta tanto dallo stesso Romano, che pur ci-
49
R.D. 24 febbraio 1940, n. 56, Concessione di amnistia e di indulto, in Gazzetta Uficiale
del Regno d’Italia, 47 (1940), pp. 825-828.
50
Sezione “Le riviste”, in Rivista del Diritto Matrimoniale italiano, 1939, pp. 331-332.
51
Si vedano le recensioni nella sezione “Le riviste”, in Rivista del diritto matrimoniale
italiano, 1942, pp. 126-127.
52
Ivi, p. 127.
Silvia Falconieri
175
tandola diverse volte non aveva mai rinviato alla sua versione integrale, quanto
dalla rivista Il diritto razzista dove il testo era stato riprodotto.
Il “silenzio” da un lato e la “militanza” dall’altro costituiscono i due estremi
all’interno dei quali oscillò la reazione dei giuristi italiani nei confronti della
legislazione antiebraica e dell’impiego della nozione di “razza” nel campo giuridico. Tali reazioni costituiscono i poli all’interno dei quali prese lentamente
corpo un dibattito attorno alla nuova qualiicazione di “cittadino italiano di
razza ebraica”. Si trattava di un dibattito timido e atipico che, intensiicatosi
fortemente tra il ’40 ed il ’42, si alimentò principalmente di note a sentenza,
citazioni di contributi comparsi nelle riviste specializzate, brevi resoconti legislativi o recensioni, mentre in luoghi specializzati, come la rivista di Cutelli, si
andava costruendo il “diritto razzista” italiano: qui i decreti antiebraici venivano
spogliati della loro dimensione di “specialità” per divenire un nuovo specialismo
disciplinare, una nuova branca del diritto italiano.
Antonella Meniconi
IL Mondo dEGLI AvvoCATI
E LE LEGGI AnTIEBRAIChE
1. Premessa
È stato Robert Badinter a ricordare l’importanza, nel 1997, di studiare le
modalità concrete dell’applicazione amministrativa e giudiziaria delle norme
antisemite alle vicende degli avvocati ebrei, perché altrettanto, se non più,
signiicative delle leggi stesse1.
La documentazione consente oggi per l’Italia una prima ricostruzione del
procedimento amministrativo abbattutosi sugli avvocati ebrei. Le fonti qui utilizzate sono state rinvenute nei locali dell’attuale Consiglio nazionale forense in
tre scatole con sopra l’iscrizione «Avvocati ebrei»2. Sono documenti riguardanti
il ruolo del sindacato nazionale, ma attraverso i quali è anche possibile comprendere quanto avvenne nelle singole realtà locali e che tipo di orientamento
fu scelto dal Consiglio superiore forense: insomma si possono così enucleare
le scelte (e le responsabilità) dei tre principali attori di questa vicenda.
2. La normativa
Nell’ottobre del 1938 il direttorio nazionale del sindacato fascista avvocati e procuratori3 prospettò autorevolmente la «possibilità che, sulla base di
1
R. Badinter, Un antisémitisme ordinaire. Vichy et les avocats juifs (1940-1944), Paris
1997, p. 13.
2
Qui ringrazio ancora il Cnf per l’aiuto offertomi.
3
Sulla storia degli avvocati nel periodo fascista mi permetto di rinviare a A. Meniconi,
La «maschia avvocatura». Istituzioni e professione forense in epoca fascista (1922-1943),
Bologna 2006; in particolare riprendo qui, con nuova documentazione e aggiornamenti, parte
delle considerazioni svolte nel capitolo sulle leggi antiebraiche.
178
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
principii razziali, non si [desse] luogo alla ammissione degli ebrei agli albi»4.
Era un via libera che «precorreva» i tempi della futura normativa5, infatti, nel
giugno dell’anno successivo (1939) sarebbe stata emanata la legge di «Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica»6.
I professionisti ebrei furono suddivisi in due gruppi, a seconda del possesso
o meno del requisito della discriminazione dall’applicazione della normativa,
che poteva essere concesso agli appartenenti ad alcune categorie meritevoli
di tutela in quanto «benemerite della Patria»7 secondo il giudizio di una commissione speciale8 e gli accertamenti compiuti dalla nuova direzione generale
per la demograia e la razza («demorazza») presso il Ministero dell’interno9.
Il primo gruppo di professionisti era dunque formato da coloro che, avendo
ottenuto la discriminazione, erano iscritti in «elenchi aggiunti» (che sarebbero
stati istituiti in appendice agli albi) e avrebbero potuto, «salvo le limitazioni» che comunque sarebbero state loro imposte, continuare ad esercitare il
proprio lavoro10. Nel secondo gruppo furono compresi invece i professionisti
non discriminati, che erano costretti a iscriversi in altri elenchi denominati
«speciali»11 e che avrebbero potuto lavorare solo per clienti «appartenenti alla
razza ebraica», salvo casi di comprovata necessità e urgenza12. Inoltre, tutti
i professionisti ebrei (senza distinzione questa volta tra le due categorie di
discriminati e non) subirono il divieto (anticipato da una circolare del 1938)13
4
Problemi della categoria forense-riunione del direttorio nazionale-13 ottobre 1938-XVI,
in Rassegna del sindacalismo forense (d’ora in poi Rass. sind.for.), a. V, fasc. I, novembre
1938, p. 4.
5
Cfr. F. Tacchi, Gli avvocati italiani dall’Unità alla Repubblica, Bologna 2002, pp. 535 ss.
6
L. n. 1054 del 29 giugno 1939. La legge riguardò le professioni di giornalista, medicochirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente
in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra,
perito agrario, perito industriale (art.1).
7
Queste eccezioni furono applicate ai componenti delle famiglie dei caduti o agli stessi
mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle «guerre libica, mondiale,
etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista»; agli iscritti al Pnf prima del 1922, ai
«legionari iumani» e, inine, a coloro che avessero acquisito «eccezionali benemerenze»
(art. 14 del rdl). Com’è stato più volte rilevato dalla storiograia, ben presto si instaurò un
vero e proprio mercato sulla concessione delle benemerenze necessarie alla concessione della
discriminazione.
8
La commissione era istituita presso il Ministero dell’interno e formata dal sottosegretario
di Stato all’Interno, dal vicesegretario del Partito e dal capo di Stato maggiore della Milizia
volontaria sicurezza nazionale (Mvsn); i provvedimenti emanati non erano soggetti a ricorso,
né giurisdizionale né amministrativo (art. 26 del citato decreto-legge).
9
La direzione «demorazza» fu istituita il 17 luglio 1938, ma il decreto relativo, n. 1531,
fu del 5 settembre, cfr. G. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna 2009, p. 209 n.
10
Art. 3 della legge n. 1054 del 1939.
11
Art. 4.
12
Art. 21.
13
Circolare n. 9270/Demograia e Razza del 22 novembre 1938.
Antonella Meniconi
179
di ricoprire incarichi che comportassero lo svolgimento di funzioni come
pubblico uficiale, né poterono più esercitare attività (anche di consulenza) per
conto di «enti pubblici, fondazioni, associazioni e comitati di cui agli articoli
34 e 37 del Codice civile e in locali da questi dipendenti». Il riferimento ai
«locali» (lo si è ritrovato nelle carte preparatorie del provvedimento presso
l’Archivio centrale dello Stato) era stato espressamente inserito nella legge per
impulso del Ministero dell’educazione, che in questo modo intendeva evitare
che «istituti scientiici o universitari dessero ospitalità per scopi professionali
o per speciali lavori ai professori ebrei»14. Altri, ulteriori, divieti riguardarono
la possibilità non più ammessa di essere nominati amministratori giudiziari,
revisori uficiali dei conti e periti15. Da segnalare la norma – probabilmente
non casuale, vista l’attenzione del sindacato fascista per questo settore – che
vietava agli ebrei l’iscrizione negli albi speciali per l’infortunistica, con la
conseguente eliminazione di concorrenza per gli avvocati «ariani» in un campo
di attività solitamente molto lucroso16. Fu inoltre proibita la collaborazione
professionale (di qualunque tipo) tra professionisti ebrei e non ebrei17.
Anche il procedimento di accertamento dell’appartenenza «alla razza ebraica»
era stato (ovviamente) studiato per risultare particolarmente gravoso e umiliante.
Competenti a raccogliere la denuncia di appartenenza (cui erano tassativamente
tenuti tutti i professionisti ebrei) furono gli organi professionali, che, in caso
di mancata denuncia da parte degli interessati, dovevano procedere d’uficio ai
necessari accertamenti. Indipendentemente dalla richiesta di discriminazione,
eventualmente avanzata da chi ne avesse avuto titolo, i sindacati fascisti delle
diverse categorie (responsabili della tenuta degli albi) dovevano procedere
direttamente alla cancellazione dei professionisti ebrei. Quindi, in attesa della
discriminazione (vagliata dal Ministero dell’interno) e della (conseguente)
iscrizione negli elenchi aggiunti per i discriminati, l’interessato, in quanto cancellato dall’albo, non poteva più esercitare alcuna attività professionale. Inoltre
era data la possibilità al cliente non ebreo di revocare l’incarico al professionista
non discriminato anche prima della cancellazione dall’albo18.
La scelta del regime di operare una distinzione, all’interno dei meccanismi
della persecuzione, tra discriminati e non discriminati non può naturalmente
14
Archivio centrale dello Stato (AcS), Presidenza del Consiglio dei ministri (Pres. Cons.),
Atti Consiglio dei ministri, 1938-39, Ministero dell’interno, b. 83, nota del gabinetto dell’Educazione nazionale, 28 aprile 1939.
15
La normativa antiebraica italiana sui beni e sul lavoro (1938-1945), in Commissione
per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione
dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, Rapporto generale, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2001,
pp. 61-87 e 89-114.
16
Cfr. A. Meniconi, La «maschia avvocatura», cit., pp. 45 ss.
17
Artt. 22-26.
18
Artt. 6 e 27.
180
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
celare il dato di fatto che ci si trovava di fronte a due forme – la seconda, certo,
più grave della prima – di limitazione dei diritti e di emarginazione sociale,
alla cui base (come ha sottolineato Guido Fubini nel 1978) si ritrovava la
stessa logica dello sterminio (si «creava una categoria di ebrei diversi dagli
altri ebrei»)19.
In questa vicenda alcuni avvocati parteciparono convintamente all’esclusione dei propri colleghi dalla professione e si congratularono – come fecero
i dirigenti del sindacato di Milano – con il duce per le scelte del fascismo, che
avrebbero restituito «piena dignità agli albi professionali»20.
3. L’atteggiamento dei sindacati locali
La legge del 1939 – come si è detto – prevedeva una distinzione nella
posizione degli avvocati tra «discriminati» e non. Questi ultimi – i non
discriminati – dovettero iscriversi in appositi elenchi («speciali») presso la
Corte d’appello entro un termine tassativo dall’entrata in vigore (centottanta
giorni). Alla domanda di iscrizione – si stabilì inoltre – essi avrebbero dovuto
allegare una documentazione paragonabile a quella presentata da chi si fosse
iscritto per la prima volta ad un albo professionale (ad es. oltre ai certiicati
anagraici e penali, i titoli di abilitazione richiesti per la iscrizione nell’albo
professionale)21.
Non stupisce se (anche ovviamente per ragioni più generali) molti avvocati ebrei, subito dopo l’emanazione della legge, preferirono cancellarsi
direttamente dall’albo, prima di esserne radiati e costretti a subire la traila (e
l’umiliazione) di una nuova iscrizione nell’elenco speciale, per accedere alla
ine ad un esercizio professionale dimezzato22.
Tutto il procedimento di cancellazione dagli albi – aveva stabilito la legge
– avrebbe dovuto concludersi entro il febbraio del 1940. Nei mesi di novembre
e dicembre del 1939 si procedette dunque a spron battuto alle cancellazioni
dagli albi delle diverse circoscrizioni giudiziarie da parte dei sindacati locali.
Questi – una volta esaurite le formalità relative alle notiicazioni dei provvedimenti agli interessati – dovevano comunicare all’istanza nazionale i nomi degli
avvocati cancellati che fossero anche iscritti all’albo speciale dei cassazionisti,
in modo che si procedesse anche a quella ulteriore cancellazione.
19
G. Fubini, La legislazione razziale. Orientamenti giurisprudenziali e dottrina giuridica,
in Il Ponte, nn. 11-12, pp. 1412-1427, p. 1419.
20
Tribuna forense, a. X, 2, marzo-maggio 1939.
21
Art. 11 della l. n. 1054.
22
Come, ad esempio, Cino Vitta, l’illustre amministrativista e professore universitario,
appartenente al foro di Firenze, Raffaello Melli di Ferrara e Giuseppe Colombo di Torino
(cfr. Archivio Consiglio nazionale forense (ACnf), Sindacato nazionale fascista avvocati e
procuratori, b. 14).
Antonella Meniconi
181
La fase successiva a livello locale comportava, da un lato, l’iscrizione
automatica degli avvocati discriminati all’elenco aggiunto, e, dall’altro, la
valutazione della domanda di iscrizione all’elenco speciale per i non discriminati, demandata, a questo punto, ad una speciale commissione distrettuale
costituita presso ciascuna Corte d’appello23. Ma anche quest’iscrizione non
doveva essere considerata, un diritto dei richiedenti, essendo «subordinata –
precisò il segretario del sindacato di Torino Carlo Majorino24 – al fatto che [gli
interessati] ne fossero meritevoli»25 e condizionata all’attento scrutinio della
loro «condotta morale, politica, professionale attraverso notizie ed informazioni
pervenute agli Organi sindacali»26.
E la commissione torinese evidentemente seguì le indicazioni, se chiuse
l’accesso anche all’elenco speciale a ben 9 avvocati27. Lo stesso sindacato di
Torino avrebbe dimostrato il suo zelo espellendo dall’avvocatura l’avvocato
Salvatore Fubini, peraltro già discriminato, «reo» di aver pubblicato «nei
giornali una lettera-circolare a colleghi ebrei di altre città per l’inizio di
rapporti di collaborazione professionale» (il professionista fu poi riammesso
dal Consiglio superiore forense, per poi essere deinitivamente cancellato dagli albi dopo la revoca della discriminazione da parte del Ministero
dell’interno)28.
A Torino, il 27 dicembre 1939 furono espulsi senza discriminazione 25
avvocati (compresi quattro procuratori), 10 furono discriminati29, mentre 15
avvocati avevano preferito chiedere la cancellazione dall’albo30.
23
La commissione (che durava in carica tre anni e poteva essere riconfermata) era
nominata dal Ministero della giustizia, era presieduta dal presidente della Corte d’appello
ed era composta da sei membri in rappresentanza dei dicasteri dell’Interno, dell’Educazione nazionale, dei Lavori pubblici, nonché dal segretario federale del Pnf e del presidente
provinciale della Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti. Cfr. artt. 12-13
della l.n. 1054, nonché AcS., Pres. Cons., Atti Consiglio dei ministri, 1938-39, Ministero
dell’interno, b. 83.
24
Majorino ricoprì la carica di segretario del Sindacato di Torino dal 1929 al 1941 e dal
1935 al 1941 fu anche presidente dell’Unione provinciale professionisti e artisti (M. Missori,
Gerarchie e statuti del Pnf. Gran Consiglio, Direttorio nazionale, federazioni provinciali:
quadri e biograie, Roma, 1986, p. 233).
25
Rass.sind. for., a. VI, fasc. III, gennaio 1940, p. 178.
26
Cfr. D. Adorni, Modi e luoghi della persecuzione, in L’ebreo in oggetto. L’applicazione
della normativa antiebraica a Torino, a cura di F. Levi, Torino 1993, pp. 39-117, p. 73.
27
Ivi, p. 75.
28
Consiglio superiore forense, 18 marzo 1943, in Giurisprudenza italiana, 1943, p. I. sez.
II, cc. 200-202. c. 200.
29
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, fasc. 20.
30
P. De Benedetti, Una legge, una professione, una città e quarantacinque ebrei, in La
rassegna mensile di Israel, 1-2, volume monograico 1938. Le leggi contro gli ebrei, a cura
di M. Sarfatti, 1988, pp. 275-277.
182
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
A Milano, dove il sindacato locale aveva esultato al grido di «Epurazione!»31,
vi furono complessivamente 25 avvocati discriminati e 38 cancellati dall’albo32.
Tra questi ultimi, i non discriminati, Eucardio Momigliano, in origine sansepolcrista, ma poi presto divenuto, prima del deinitivo avvento della dittatura,
deciso antifascista e animatore dell’Unione democratica di Giovanni Amendola33.
Il 26 settembre 1939 il sindacato di Bologna34 aveva proceduto all’esclusione di 12 tra avvocati e 1 procuratore, di cui 5 discriminati trasferiti
nell’elenco aggiunto35. Tra i non discriminati igurava nell’elenco Marcello
Finzi, professore di diritto e procedura penale dell’Università di Ferrara e
decano della stessa dal 1920 al 1925 (e ora escluso dalla cattedra), avvocato
penalista a Bologna. Finzi emigrò in Argentina, dove avrebbe insegnato presso
l’Università di Cordoba dal 1940, prima derecho comparado e poi derecho
penal comparado. Sarebbe rientrato in Italia nel 1956, per morirvi lo stesso
anno a Ferrara36. Anche Vittorio Neppi, docente di istituzioni di diritto privato
(dal 1937 a Urbino, ma negli anni Trenta libero docente a Bologna e Ferrara),
emigrò a Buenos Aires, per tornare ad insegnare a Ferrara solo nel 195737.
Mario Jacchia, in un primo momento cancellato, ottenne di essere dichiarato «non appartenente alla razza ebraica» (perché il padre non fu considerato ebreo) e fu perciò reintegrato nell’albo il 30 novembre 193938. Figlio di
Eugenio (stimato e famoso avvocato bolognese e massimo esponente della
massoneria locale)39, a sua volta antifascista, cui era stato distrutto lo studio
dagli squadristi nel 1925, Mario Jacchia avrebbe poi aderito (all’inizio del
31
Il riferimento è a un titolo della Tribuna forense del Sindacato milanese; cfr. F. Tacchi,
Dalla Repubblica cisalpina alla Repubblica italiana, in Avvocati a Milano. Sei secoli di storia,
a cura di A. Gigli Marchetti, A. Riosa e F. Tacchi, Ordine degli avvocati di Milano, Milano
2004, pp. 39-153, p. 60.
32
Ibidem.
33
R. De Felice, Gli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961, p. 85.
34
Sul tema cfr. in generale N.S. Onofri, Ebrei e fascismo a Bologna, Crespellano 1989.
35
Più altri due avvocati, uno trasferito e uno cessato a domanda dall’esercizio professionale.
Cfr. ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, fasc. 4.
36
Cfr. Marcello Finzi giurista a Modena. Università e discriminazione razziale tra
storia e diritto. Atti del convegno di studi, Modena, 27 gennaio 2005, a cura di E. Tavilla,
Firenze, 2006.
37
Vittorio Neppi morì nel 1963. Cfr. Appendice, a cura di S. Salustri, in Il dificile rientro.
Il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra, a cura di D. Gagliani, Bologna
2004, pp. 204-205.
38
Archivio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna (ACOAB), Verbali adunanze 1938-1942, 30 novembre 1939.
39
In occasione della morte di Eugenio Jacchia, avvenuta nel 1939, necrologi sui giornali e
commemorazioni «improvvisate» nelle aule del Tribunale di Bologna infastidirono le autorità
fasciste al punto di inviare al conino (anche se il provvedimento fu poi ritirato) l’avvocato
RobertoVighi. Cfr. la breve biograia contenuta in La vita di Roberto Vighi, in R. Vighi, Per il
socialismo, l’antifascismo, le autonomie. Scelta di scritti e discorsi dal 1914 al 1970, a cura di
L. Arbizzani, F. Bonazzi del Poggetto e N.S. Onofri, Bologna, 1984, pp. 21 ss.; A. Meniconi,
La «maschia avvocatura», cit., pp. 316-317.
Antonella Meniconi
183
1943) al Partito d’azione e partecipato attivamente alle azioni militari nel
nord dell’Emilia, ino alla sua cattura e uccisione da parte dei nazifascisti40.
Sulla cacciata degli ebrei dalla professione la posizione del sindacato bolognese non sarebbe potuta essere più chiara: già nel luglio del 1939 (subito
dopo l’emanazione della nuova legge) il direttorio provinciale aveva ritenuto
opportuno per gli avvocati fascisti «astenersi dall’assumere il patrocinio dei
clienti ebrei»41. E dopo l’espulsione dei professionisti «di razza ebraica» si
riaffermò che non poteva assolutamente «consentirsi la sublocazione ad avvocati o procuratori ebrei di vani adibiti ad uso studio»42.
A Firenze il 16 gennaio 1940 furono discriminati solo 4 avvocati ebrei ed
espulsi 22 (compresi i procuratori)43. Tra di essi spiccavano i nomi degli antifascisti Mario Paggi e Dino Lattes, arrestati nel corso del 194044. Quest’ultimo
era stato qualiicato dalla demorazza come appartenente a Italia libera e «ebreo
pericoloso»45, e per questo arrestato. Come scrisse il iglio Franco Fortini, contò
in quella circostanza «l’aver preso la parola nei processi politici del 1922-25,
le bastonature subite, il suo arresto per supposta collaborazione al giornaletto
di Gaetano Salvemini», il «Non mollare», anche se poi l’avvocato Lattes si
era ritirato dall’attività politica, ma non aveva mai voluto prendere la tessera46.
Particolarmente lunga ed emblematica fu la vicenda relativa a Enrico Finzi47
che, ottenuta la discriminazione nel luglio del 1941, sarebbe stato ammesso
solo dal novembre dello stesso anno nell’elenco aggiunto di Firenze. Non
così avvenne per l’elenco dei cassazionisti (da cui Finzi era stato cancellato
il 5 marzo del ’40). In una sua lettera al sindacato nazionale precedente alla
cancellazione (del 9 febbraio del 1940) egli aveva chiesto in che modo dovesse
comportarsi «allo scopo di assicurare ai miei clienti ed a me la possibilità di
discutere i ricorsi presentati, e di continuare, nell’orbita della legge, l’esercizio presso la Corte Suprema»: ma l’unica risposta ricevuta era stata appunto
la cancellazione. Ma anche dopo aver ottenuto la discriminazione, e ulteriori
missive al segretario del sindacato Aldo Vecchini, l’avvocato iorentino dovette
40
Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), a cura
di A. Albertazzi, L. Arbizzani e N. S. Onofri, Comune di Bologna, Istituto per la storia della
Resistenza e della societa contemporanea nella provincia di Bologna «Luciano Bergonzini»
(ISREBO), Bologna 1985-2003, ad vocem.
41
Cfr. E. Proni, Bologna: la nascita dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori. Storia dell’ordine degli avvocati di Bologna. 1874-1945, in Quaderni della Fondazione forense bolognese,
5, 2006, p. 99.
42
ACOAB, Verbali adunanze 1938-1942, 26 gennaio 1940.
43
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, fasc. 11.
44
Su Firenze, cfr. F. Tacchi, Gli avvocati italiani, cit., pp. 544-545.
45
Cfr. R. De Felice, Gli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 426.
46
F. Fortini, I cani del Sinai, Macerata 2002 [1ª ed. Bari 1967]¸ pp. 45-47.
47
Enrico Finzi, docente di diritto privato, fondatore della facoltà di giurisprudenza di
Firenze, da cui era stato già estromesso, cfr. R. Finzi, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Roma 1997.
184
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
attendere ino al gennaio del 1942 per la nuova iscrizione nell’elenco aggiunto
presso l’albo speciale dei cassazionisti48.
A Roma il 13 dicembre 1939 su un totale di circa 1844 avvocati iscritti
all’albo49 ne furono cancellati 67, di cui solo 10 discriminati (e come tali iscritti
all’albo aggiunto)50. Tra questi, alcuni, sebbene discriminati, non avevano atteso la decisione del sindacato: Tullio Ascarelli, Giorgio Del Vecchio e molti
altri, già nell’ottobre del 1940, risultavano irreperibili51.
Ascarelli, nato a Roma il 6 ottobre 1903, si era laureato in giurisprudenza
nel 1923. Allievo di Cesare Vivante (anch’egli, sebbene già professore emerito,
«depennato» dagli annuari dell’Università di Bologna)52 si era dedicato come
il maestro allo studio del diritto commerciale, che aveva insegnato tenendo
cattedra nelle Università di Ferrara, Catania, Parma, Padova, Bologna e Roma.
Anch’egli (come Lattes) aveva a suo tempo aderito al gruppo formatosi intorno
al giornale clandestino «Non Mollare» e poi al movimento di Giustizia e Libertà. Nel 1938 Ascarelli emigrò prima in Inghilterra (a Londra dall’ottobre dello
stesso anno, stando ad un rapporto di polizia)53, poi in Francia e, in seguito,
in Brasile, a San Paolo, dove avrebbe insegnato diritto commerciale e svolto
con fortuna la professione di avvocato. Quando nel 1947 sarebbe tornato in
Italia, avrebbe ripreso l’insegnamento del diritto commerciale a Bologna, per
essere poi chiamato nel 1953 all’Università di Roma, sulla cattedra prima di
diritto industriale e poi di diritto commerciale54.
48
Dopo un’ulteriore lettera del 29 dicembre 1941, il 13 gennaio 1942 inalmente Vecchini
comunicò all’avvocato l’esito positivo della sua iscrizione all’albo aggiunto dei cassazionisti.
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 15, fasc. 3.
49
Dati del 1935: cfr. Appendice, a cura di F. Orlandi e F. Tacchi, cit., p. 219.
50
I nomi dei discriminati: Eugenio Artom; Tullio Ascarelli; Luigi Cavalieri; Gastone Cavallieri; Michele Attilio Coen; Giorgio Del Vecchio; Silvio Ottolenghi; Mario Ghiron; Gino
Luzzatti; Giorgio Zevi. I non discriminati furono: Ugo Ayò; Riccardo Amati; Bruno Ascarelli;
Aldo Ascoli; Enrico Bises; Giorgio Bolafi; Cesare Cagli; Dante Calò; Gino De Benedetti
Bonaiuto; Umberto Della Rocca; Alceste Della Seta; Odoardo Della Torre (che sarà poi ucciso alle Fosse Ardeatine); Vittorio Del Vecchio; Ugo Di Segni; Marcello Fiano; Ermanno
Funaro; Giorgio Funaro; Ferruccio Liuzzi; Carlo Ottolenghi; Simone Ottolenghi; Ubaldo
Pergola; Giacomo Piazza; Valerio Pontecorvo; Guido Porto; Paolo Porto; Gualtiero Ravenna;
Carlo Rimini; Giorgio Sacerdoti; Alberto Sonnino; Pio Sabatino Tagliacozzo; Arrigo Tedeschi;
Guido Tedeschi; Giorgio Tesoro; Alfredo Zevi (ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati
e procuratori, b. 14, fasc. 18).
51
Agli avvocati Michele Attilio Coen; Carlo Rimini; Giorgio Tesoro; Ubaldo Pergola;
Tullio Ascarelli; Giorgio Del Vecchio; Cesare Cagli e Enrico Bises il provvedimento fu infatti
notiicato sul Foglio degli annunzi legali della Provincia di Roma 25-X-1940 n. 86 e «essendo
il domicilio e residenza ignoti». ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b.
14, f. 18, Corte d’appello di Roma.
52
Appendice, a cura di S. Salustri, cit., pp. 185-186.
53
AcS, Ministero dell’interno, Direzione generale Demograia e razza, Divisione razza,
fascicoli personali 1938-1944, b. 20.
54
Dopo la caduta della dittatura Ascarelli fece parte del gruppo Unità popolare e del Partito socialista italiano; morì a Roma il 20 novembre 1959. Cfr. S. Rodotà, Ascarelli, Tullio, in
Antonella Meniconi
185
Tutt’altro percorso quello di Giorgio Del Vecchio55, più noto peraltro come
professore universitario che come avvocato. Dal 1930 fu, infatti, preside della
facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, dove dal 1925 al 1927
aveva anche ricoperto la carica di rettore e successivamente quella di preside
di scienze politiche. Nel 1938 Del Vecchio fu allontanato da tutti gli incarichi,
pur potendo vantare molte «benemerenze fasciste» come le medaglie conquistate durante la prima guerra mondiale e la qualiica di «antemarcia» (aveva
aderito al fascismo sin dal 1921)56. Dopo la Liberazione, egli sarebbe stato
per breve tempo reintegrato nella cattedra, per essere però sospeso di nuovo
dall’insegnamento ed essere sottoposto a giudizio di epurazione57. Solo all’esito del giudizio da parte della commissione per l’epurazione del personale
universitario, che nel 1945 lo sospese per un anno dall’insegnamento, nel 1947
egli sarebbe rientrato all’Università di Roma58.
4. L’azione del sindacato nazionale contro gli avvocati di «razza ebraica»
Tra i non discriminati alcuni, come Umberto Sternberg Montaldi e Giuseppe Bolafio del foro di Trieste59, presentarono ricorso allo stesso sindacato
nazionale. Essi si appellarono ai principi generali del diritto per chiedere la
sospensione in attesa della decisione sulla discriminazione. Infatti – questa
fu la loro argomentazione – essendo le leggi razziali un’eccezione alla legge
generale vigente per gli avvocati (vale a dire la legge professionale), la loro
Dizionario biograico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 4, 1962,
pp. 371-372.
55
Giorgio Del Vecchio era nato a Bologna il 26 agosto 1878; laureatosi a Genova, insegnò
nel 1903 ilosoia del diritto a Ferrara, poi alle Università di Sassari, Messina e Bologna (ino
al 1920). Rettore dell’Università di Roma dal 1925 al 1927, fondò la Rivista internazionale di
ilosoia del diritto (nel 1921, poi soppressa a causa delle leggi razziali), l’Istituto di ilosoia
del diritto sempre a Roma, (1933) e la Società italiana di ilosoia del diritto (1936); diresse,
rilanciandolo, l’Archivio giuridico (dal 1921). Vastissima la sua produzione scientiica che
riprese, dopo essersi convertito al cattolicesimo nel 1941 e negli anni successivi al ritorno
all’università. Morì a Genova il 28 novembre 1970. Cfr. V. Frosini, Del Vecchio Giorgio,
in Dizionario biograico degli italiani, vol. 38, 1990, pp. 391-396; Appendice, a cura di S.
Salustri, cit., pp. 183-184.
56
Nel primo ventennio del secolo, Del Vecchio scrisse molti articoli a favore della guerra
e della grandezza nazionale; nel 1921 si iscrisse al Fascio di Bologna, compiendo tutta la traila all’interno delle organizzazioni di partito e sindacali, divenendo segretario del sindacato
fascista dei professori universitari di Roma (Appendice, cit., p. 183).
57
Sul punto R. Finzi, Il triplice colpo subito dagli universitari di «razza ebraica», in Il
dificile rientro, cit., pp. 21-52, p. 21.
58
Del Vecchio avrebbe poi ripreso anche l’attività di pubblicista, collaborando con riviste
e giornali dell’estrema destra; cfr. V. Frosini, Del Vecchio Giorgio, cit., p. 395; G. Del Vecchio,
Una nuova persecuzione contro un perseguitato, Roma 1945.
59
A Trieste i radiati dall’albo furono 22 e solo 4 ebbero la discriminazione, cfr. F. Tacchi,
Gli avvocati italiani, cit., p. 543,
186
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
applicazione avrebbe dovuto essere intesa in senso restrittivo. Si sarebbe
dovuta cioè garantire la possibilità di sospensione prevista in caso di ricorso
contro una decisione del sindacato locale (espressamente prevista dall’art. 37
dell’ordinamento professionale del 1933). Era una ine questione di diritto: ma
il ragionamento degli avvocati triestini non fu preso in minima considerazione
dal sindacato nazionale60.
Intanto dallo stesso sindacato nazionale provenivano alle diramazioni periferiche continue ingiunzioni afinché fossero comunicate al centro le cancellazioni effettuate, in modo da poter procedere, entro i termini stabiliti dalla legge
(ine febbraio 1940), alle radiazioni anche dall’albo speciale dei cassazionisti.
Nella circolare del 23 gennaio Aldo Vecchini61, segretario del sindacato nazionale, sollecitò i sindacati locali che ancora non avessero provveduto a eseguire
sollecitamente e improrogabilmente entro i primi giorni di febbraio, onde evitare – scrisse – «eventuali responsabilità»62. Tutti obbedirono, provvedendo a
inviare tempestivamente le copie delle decisioni assunte: tranne il sindacato di
Napoli presieduto da Nicola Sansanelli63, che il 29 gennaio scrisse a Vecchini
per spiegare come non fossero stati presi i dovuti provvedimenti perché si era
voluto attendere l’esito di numerose domande di discriminazione. Inine, dopo
ulteriori e pressanti solleciti, anche Napoli cancellò dall’albo (il 16 febbraio)
4 avvocati non discriminati, precisando però nella delibera che il direttorio
non aveva potuto sospendere la radiazione, perché ogni decisione dipendeva
dal Ministero dell’interno64.
60
Acnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, fasc. 21.
Aldo Vecchini, iglio del celebre avvocato Arturo, nacque ad Ancona l’11 febbraio
1884. Medaglia al valore nella guerra, legionario iumano; iscritto al Partito liberale, poi al
Pnf, console della Mvsn, segretario federale dell’Urbe dal 1930 al 1932, ispettore della confederazione fascista dei professionisti e degli artisti (Cfpa), Vecchini fu deputato nella XXIX
legislatura. Sarebbe stato nominato,in virtù dei «meriti» acquisiti alla guida degli avvocati
fascisti, presidente di quel Tribunale speciale straordinario di Verona nel 1944. Morì in circostanze misteriose nel gennaio del 1946. Cfr. AcS, Alto commissariato per le sanzioni contro
il fascismo, X, fasc. 162; A. Meniconi, La «maschia avvocatura», cit., passim.
62
Acnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, circolare n. 14, 23
gennaio 1940.
63
Nicola Sansanelli, nato a S. Arcangelo di Basilicata nel 1890, fu tra i fondatori del Fascio
di Napoli, dal 1920 aveva fatto parte del direttorio del Pnf, ed era stato il primo segretario
generale del Partito (nel 1923). Deputato nelle XXVII e XXVIII legislature; secondo le veline
della polizia del 1927, non avrebbe mai esercitato la professione, ma si sarebbe impegnato solo
in politica e in altri incarichi (come il giornale Il Mattino) e la presidenza di diverse Società.
Cfr. Acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato 1922-1943, b. 92. Primeggiò nel
foro di Napoli, invece secondo T. Consiglio (Verso l’unità nazionale degli Ordini, in Napoli
e i suoi avvocati, a cura di M. Pisani Massamormile, Napoli 1975, pp. 231 ss.) e fu difeso,
alla caduta del regime, come «fascista tollerante» da Giovanni Porzio e Enrico De Nicola (cfr.
Massimo Di Prisco, La Toga nel ciclone, ivi, pp. 288-297, pp. 299 ss.).
64
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, f. 14. Gli avvocati
cancellati furono: Gustavo Del Monte; Ugo Forti; Alessandro Graziani; Augusto Graziani;
Raffaele Archinvolti, mentre in precedenza lo erano già stati Del Monte (perché non aveva
61
Antonella Meniconi
187
Tra i quattro avvocati napoletani, vi era anche il professor Ugo Forti. Avvocato amministrativista di fama, era (prima delle leggi razziali) condirettore
della importante rivista «Il Foro Italiano»65. Nella pratica a suo nome presso
la demorazza, mancava il placet del Ministero dell’educazione nazionale per
la concessione della discriminazione, perché Forti non era iscritto al Pnf e per
di più aveva, nel 1925, irmato il Manifesto di Croce, anche se si ammetteva
che in realtà ricorressero tutte le altre «benemerenze»: la partecipazione alla
guerra e l’essere «uno dei maggiori cultori del Diritto pubblico italiano», che
aveva creato «intorno alla sua cattedra di diritto amministrativo a Napoli una
scuola di docenti e discepoli che si [erano] distinti nel campo professionale,
forense, nella magistratura»66.
La domanda era stata presentata nel marzo del 1939, ma solo l’8 giugno
del 1940 la Commissione presso la demorazza avrebbe riconosciuto le benemerenze ad Ugo Forti. E nel luglio successivo (il 12) egli avrebbe inalmente
ottenuto la nuova iscrizione nell’albo speciale dei cassazionisti67. Per ottenere
questo risultato, decisivo sarebbe risultato però l’impegno personale di Carlo
Scialoja68, direttore de «Il Foro italiano», nei confronti di Vecchini, per ottenere che l’avvocato napoletano potesse riprendere le sue difese davanti al
Consiglio di Stato69.
Emerge dalle fonti, anche dalle più minute, un’attenzione quasi spasmodica
ai passaggi formali che tutti i provvedimenti discriminatori avrebbero dovuto
seguire (la legalità formale – verrebbe da annotare incidentalmente – era in
questo caso direttamente proporzionale all’ingiustizia sostanziale). Una minuziosa, pedante contabilità accompagnò tutti i procedimenti: ciascun sindacato
locale venne rimborsato da quello nazionale per le spese di notiica sopportate
e questo, ovviamente, sulla base di calcoli molto meticolosi.
presentato la domanda di discriminazione); Eugenio Randegger e Leone Senigallia (a sua
istanza il 22 settembre 1939).
65
Per la biograia di Forti, cfr. G. Caravale, Forti, Ugo, in Dizionario biograico degli
italiani, vol. 49, 1997, pp. 181 ss.; G. Focardi, Storia dei progetti di riforma della pubblica
amministrazione: Francia e Italia 1943-1948, Bologna 2004, pp. 122 ss.; La scienza del diritto
amministrativo nella seconda metà del XX secolo, a cura di L. Torchia, E. Chiti, R. Perez, A.
Sandulli, Napoli 2008, ad indicem.
66
AcS, Ministero dell’interno, Direzione generale Demograia e razza, Divisione razza,
fascicoli personali, b. 214.
67
Cfr. ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 15, fasc. 8.
68
Dopo il fascismo Carlo Scialoja fu nominato sottosegretario e poi ministro dell’Aeronautica nei governi Bonomi del 1944 e del 1944-45. cfr. M. Missori, Governi, alte cariche
dello Stato e prefetti del Regno d’Italia, Roma, Ministero dell’Interno. Archivi di Stato, 1973,
ad indicem.
69
Sulle Commissioni c.d. Forti per la riforma amministrativa negli anni 1944-1946, cfr.
G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna 1996, pp. 437 ss.; G.
Focardi, Storia dei progetti della pubblica amministrazione, cit.; G. Focardi e G. Melis, Le
fonti culturali: le Commissioni Forti, in Valori e principi del regime repubblicano, a cura di
S. Labriola, Roma Bari 2006, 4 tomi, t. I, pp. 3 ss.
188
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
La vessazione non sdegnava poi di accompagnarsi ad un guadagno economico a spese degli avvocati ebrei. Al professionista discriminato veniva
infatti chiesto di pagare 400 lire di tassa al sindacato nazionale per essere
iscritto nell’albo aggiunto (dunque come se si fosse iscritto di nuovo all’albo
dei cassazionisti)70. Agli avvocati non discriminati, per l’iscrizione agli elenchi
speciali, furono invece imposte una serie di tasse da pagare all’inizio di ciascun
anno e poi intervenne un decreto che aumentò tutti i contributi71.
Una complessa ma al tempo stesso inesorabile macchina burocratica, insomma, si mise in moto in pochi mesi e concluse, almeno in parte, i propri
lavori in tempi rapidissimi.
Il 29 febbraio del 1940 (ultimo giorno utile) in una sola seduta del direttorio
nazionale furono cancellati dall’albo dei cassazionisti 85 avvocati (non discriminati), mentre 125 discriminati sarebbero stati iscritti nell’elenco aggiunto72
su 6245 iscritti (al 31 maggio 1939)73. Assenti il segretario Vecchini, Pietro
Cogliolo, Bartolo Gianturco ed Enrico Redenti, i componenti del direttorio
presenti in quella seduta furono Francesco Andriani, Giorgio Bardanzellu,
Vittorio Emanuele Fabbri, Saverio Fera, Giambattista (Titta) Madia, Carlo
Maria Maggi, Angelo Manaresi, Antonio Orlandi, Guido Pesenti, Vincenzo
Tecchio e Valerio Valeri74.
Oltretutto il destino dei professionisti non discriminati era rimasto molto
oscuro circa la possibilità di continuare a difendere (solo i clienti ebrei, però)
dinanzi alla Cassazione. Infatti nella legge del 1939 non era prevista la formazione di un elenco speciale nazionale, come invece avveniva per gli albi
circondariali. Si sarebbe potuto colmare questa lacuna (certo non involontaria)
anche in via amministrativa, applicando analogicamente al livello nazionale
ciò che era previsto in sede locale. Così però non fu.
Sul punto le fonti sono particolarmente laconiche: nel 1940 il segretario
Vecchini si limitò a scrivere una lettera sull’argomento al ministro della
Giustizia, il quale rispose che l’Interno stava predisponendo un testo di
integrazione della legge del 193975. Di questo testo tuttavia non si sarebbe
saputo più nulla.
L’anno successivo (1941), davanti, di nuovo, ai numerosi ricorsi di avvocati che sollevavano la questione, come Giuseppe Bolafio di Trieste e
70
All’inizio, nel 1940, erano 250 lire.
Dm 30 luglio del 1940, «Determinazione dei contributi a carico dei professionisti di
razza ebraica».
72
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, Rubrica «Avvocati di
razza ebraica».
73
Ivi, b. 14, “Albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte di
cassazione ed alle altre giurisdizioni superiori aggiornato al 31 maggio 1939-XIII”.
74
Ivi, b. 14. Cfr. per le biograie dei componenti del direttorio A. Meniconi, La «maschia
avvocatura», cit., ad indicem.
75
Ivi, b. 14, fasc. 5, lettera del Ministero della giustizia, 25 giugno 1940.
71
Antonella Meniconi
189
Emanuele Sacerdote di Torino76 il direttorio nazionale preferì dichiarare la
propria incompetenza. Secondo questa interpretazione pilatesca la legislazione
razziale aveva inteso sottrarre alla normale competenza degli organi sindacali
di categoria tutto ciò che riguardava l’esercizio professionale degli avvocati
e procuratori di razza ebraica non discriminati (comprese quindi le iscrizioni
e la tenuta degli albi) per demandarlo ad organi speciali. Per questo motivo
– argomentò il direttorio – l’iscrizione agli «elenchi speciali» distrettuali per
circoscrizione di Corte d’appello era stata demandata ad una commissione
distrettuale presieduta dal presidente della Corte stessa. Il vuoto normativo
sull’iscrizione all’albo speciale avrebbe dovuto essere colmato – sempre
secondo il direttorio nazionale – da un’interpretazione basata su un’analogia
(ma in senso sfavorevole agli interessati): si sarebbe dovuta sottrarre anche
questa competenza all’organo normale, cioè allo stesso direttorio, per afidarla
ad un’autorità esterna77.
Intanto, in attesa di eventuali provvedimenti, il supremo organo sindacale
non fece nulla per soddisfare la richiesta degli avvocati ebrei. In un ricorso
diretto al Consiglio superiore forense l’avvocato Giuseppe Bolafio, con uno
stile che intendeva mostrarsi rispettoso delle norme che peraltro «avevano
così duramente inciso sui diritti acquisiti dei singoli», argomentò che l’intento
del legislatore era stato evidentemente quello di stabilire come compenso per
gli avvocati discriminati che almeno «potessero svolgere liberamente la loro
attività professionale in tutti i gradi di giurisdizione»78. Ma questa possibilità
non sarebbe mai stata data.
5. Il ruolo del Consiglio superiore forense
Nel dicembre del 1940 il Consiglio superiore forense affrontò i ricorsi che
quasi tutti gli avvocati non discriminati avevano proposto contro i provvedimenti del sindacato. La decisione-tipo del Consiglio fu redatta secondo uno
«stampone» standard, uguale per tutti i ricorsi.
Innanzitutto, il Consiglio provvide a riaffermare la propria competenza
a deliberare in merito, stabilendo che, poiché la legge del 1939 nulla aveva
precisato, doveva essere applicato – come del resto sostenuto da molti avvocati – l’ordinamento professionale del 193379.
76
ACnf, Sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, b. 14, fasc. 21. Sui ricorsi
in materia cfr. D. Adorni, Modi e luoghi della persecuzione, cit., pp. 75-76.
77
Ivi, fasc. 11, decisione direttorio del 28 novembre 1941; furono presenti, oltre a Vecchini,
Bardanzellu, Fera, Madia, Manaresi, Orlandi, Tecchio e Valeri.
78
Ivi, fasc. 21, ricorso di Bolafio, 22 marzo 1940.
79
Il rdl n. 1578 del 27 novembre 1933, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e
procuratore, la legge di conversione n. 36 del 22 gennaio 1934 e il regolamento di attuazione
(rd n. 37 del 22 gennaio 1934).
190
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
Quest’ultimo prevedeva la possibilità di ricorso contro tutti i provvedimenti
di cancellazione dei sindacati, e tale diritto non poteva essere negato neppure
ai professionisti ebrei80. Era però un’affermazione in netta controtendenza rispetto al coevo indirizzo della Corte di cassazione81, che aveva invece negato
nettamente la possibilità di ricorrere contro le decisioni adottate per motivi
razziali dagli organi professionali competenti, sostenendo che le leggi razziali
non prevedevano la possibilità di ricorsi con effetti sospensivi. Le decisioni
degli organi competenti avevano – secondo la Corte – eficacia immediata: da
quel momento, infatti, in attesa dell’iscrizione in elenchi aggiunti o speciali, «i
cittadini di razza ebraica non potevano più esercitare alcuna attività professionale e si intendeva esaurita qualsiasi prestazione da parte di questi cittadini a
favore di clienti di razza non ebraica»82. La norma speciale derogava – sempre
nell’interpretazione della Cassazione – alla legge professionale generale83.
Eppure, nel concreto, ben altro metro di giudizio avrebbe dimostrato proprio
la Corte di cassazione, nella persona del suo presidente Mariano D’Amelio,
solo poco dopo, nel marzo 1941. Fu allora, infatti, che si pose in dibattimento
il problema della difesa davanti al supremo consesso da parte di un avvocato
ebreo non discriminato. Cosa era accaduto? L’avvocato Dino Viterbo, iscritto
nell’elenco speciale del foro di Trieste, aveva chiesto a D’Amelio di poter
continuare a difendere un cittadino arabo, «persona gratissima» al governo
italiano», residente a Massaua e dunque a causa della guerra impossibilitato a
comunicare con un nuovo legale. Nella sua argomentazione Viterbo aveva chiesto di potersi avvalere – come previsto dalla legge del 193984 – della clausola
della «necessità e urgenza» per ottenere l’esenzione dal divieto di difendere
cittadini «non appartenenti alla razza ebraica» che avrebbe dovuto rispettare
in quanto avvocato non discriminato. E il presidente D’Amelio, proprio in
base alla disposizione richiamata, lo aveva autorizzato. Ferma restando la
speciicità (e i limiti) del caso, questo episodio consente forse una rilessione
più generale su quanto avrebbe potuto fare – e non fece –la Cassazione a
80
ACnf, Decisioni Consiglio superiore forense, n. 6/1940 R.G.
Sulla giurisprudenza: A. Spinosa, Le persecuzioni razziali in Italia, in Il Ponte, nn.
7-8-11, 1952, rispettivamente pp. 964 ss., pp. 1078 ss., pp. 1604 ss., n. 7, 1953, pp. 950 ss.;
G. Fubini, La legislazione razziale. Orientamenti giurisprudenziali e dottrina giuridica, in Il
Ponte, nn. 11-12, pp. 1412-1427; M.R. Lo Giudice, Razza e giustizia nell’Italia fascista, in
Rivista di storia contemporanea, 1, 1983, pp. 72 ss.; A. Cannarutto, Le leggi contro gli ebrei
e l’operato della magistratura, in La rassegna mensile di Israel, cit., pp. 219 ss.; A. Galante
Garrone, Ricordi e rilessioni di un magistrato, ivi, pp. 19-35, in particolare pp. 27 ss.; S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto dalla prima emancipazione all’età repubblicana, cit., pp. 1786-1794.
82
Cfr. Corte di cassazione, Sez.III-17 dicembre 1940, in La Giustizia Penale, 1941, II,
coll. 41-42, in cui nota a sentenza in senso contrario di A. Di Fortunato che citava a proprio
favore la Nota della Redazione del Il Foro Italiano, 1941, II, c. 74.
83
In generale cfr. O. Abbamonte, La politica invisibile. Corte di Cassazione e magistratura
durante il Fascismo, Milano 2003.
84
Art. 21, comma primo, lett. a), della l.n. 1054 del 1939.
81
Antonella Meniconi
191
livello interpretativo per garantire agli avvocati ebrei almeno la possibilità di
esercitare la professione85.
Per quanto riguarda l’organo centrale dell’avvocatura, solo sul punto della
possibilità di ricorso degli avvocati espulsi l’orientamento si mosse lungo la
linea interpretativa più favorevole indicata dal Consiglio di Stato86 e dalla
giurisprudenza di merito87, in special modo, della Corte d’appello di Torino,
che aveva sostenuto che le leggi razziali dovessero essere considerate come
«deroghe al vigente ordinamento giuridico, da interpretare in maniera esclusivamente restrittiva»88. Anche il Consiglio di Stato, in un obiter dictum,
aveva escluso che potesse essere negato il ricorso agli organi giurisdizionali
che costituivano «garanzia fondamentale concessa dall’ordinamento giuridico
ad ogni soggetto di diritto”89. In particolare, secondo il Consiglio superiore
forense, la legge riguardante i professionisti non conteneva l’espresso divieto
di ricorso in via amministrativa e in via giurisdizionale così come era presente
nel decreto-legge del 193890.
Al tempo stesso la rivendicazione operata dal Consiglio superiore forense
di applicare strettamente la legge professionale signiicò anche osservare –
come infatti fece l’organo – tutte le altre formalità previste dall’ordinamento
forense. Il che comportò, ad esempio, che molti dei ricorsi, presentati oltre il
termine previsto dal giorno della delibera dei direttòri (quindici giorni) fossero
senz’altro respinti91. O che nel caso dell’avvocato Salvatore Fubini, il ricorso
contro la cancellazione dall’albo da parte del direttorio di Torino fosse rigettato in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, a sua volta in attesa della
decisione della Corte di cassazione92.
Vi fu, poi, un alto tasso di rinunce al proseguimento del giudizio davanti al
Consiglio, a causa di diversi motivi. Il primo era che alcuni avvocati, avendo
ottenuto la discriminazione, nel corso del procedimento si erano ritirati93; altri,
85
Cfr. AcS, Corte di Cassazione, b. 42.
Ad. es. Consiglio di Stato, IV Sezione, decisione 24 settembre 1941, in Il Foro italiano,
1942, III, cc. 97 ss., sui professori universitari, con Nota adesiva di V.E. Orlando.
87
Cfr. G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007.
88
A. Patroni Grifi, Il Consiglio di Stato ed il regime fascista. Il commento, in Le grandi
decisioni del Consiglio di Stato, a cura di G. Pasquini, A. Sandulli, Milano 2001, p. 276.
89
Cfr. G. Melis, Il Consiglio di Stato durante la dittatura fascista. Note sulla giurisprudenza, in Atti in onore di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari,
Soveria Mannelli 2008, 2 tomi, t. II, pp. 143-212. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 giugno 1942,
pres. Rocco, est. Vetrano, Fubini c. Ministero dell’interno, in Il Foro italiano, 1942, III, cc.
194-199 (con nota di U. Forti, Questioni pregiudiziali di stato nei giudizi amministrativi).
90
ACnf, Decisioni Consiglio superiore forense, n. 168/1940 R.G., in cui si citava l’art.
14 del Rdl n. 1728.
91
ACnf, Decisioni Consiglio superiore forense, n. 62/1940 e n. 149/1940 R.G.
92
Consiglio superiore forense, 18 marzo 1943, cit.
93
Come ad esempio il citato Ugo Forti, che rinunciò al ricorso ottenuta la discriminazione:
ivi, 44-78-163/1940 R.G.
86
192
Il mondo degli avvocati e le leggi antiebraiche
come il processualcivilista Enrico Tullio Liebman, avevano preferito, per ovvi
motivi, nel frattempo espatriare94.
Tutte le decisioni sui ricorsi degli avvocati non discriminati furono adottate
in un’unica serie di sedute tra il 17 e il 19 dicembre 1940. I componenti del
Consiglio presenti furono: Filippo Vassalli, presidente, Fabrizio Gregoraci
(estensore della decisione), Arturo Rocco, Carlo Alberto Cobianchi, Roberto
Roberti, Daniele Bertacchi, Guido Pesenti, Lombardo Indelicato, Mario Venditti e Remigio Tamaro.
Sul punto più importante il Consiglio rigettò tutti i ricorsi.
La delibera di cancellazione – si sostenne da parte dell’organo giurisdizionale – era stata adottata dal sindacato sulla base di una norma (la legge n. 1054
del 1939) avente carattere imperativo, che aveva ordinato la cancellazione in
presenza del requisito dell’appartenenza «alla razza ebraica» risultante dai
documenti dello stato civile. Non potevano dunque essere accolti i motivi
proposti dai ricorrenti per la nullità della decisione di cancellazione. Essi
vertevano sul fatto che i direttòri dei sindacati avrebbero dovuto sentire gli
interessati prima della cancellazione (come imponeva la legge professionale)
e – secondo argomento – gli stessi organi avrebbero dovuto sospendere il
provvedimento di cancellazione in attesa della decisione di discriminazione.
Ma il Consiglio rispose alle argomentazioni sostenendo che si era trattato di
una conseguenza automatica imposta espressamente dalla legge del 1939: la
norma escludeva «manifestamente» che spettasse al direttorio ascoltare gli
interessati e che si sospendesse la decisione per attendere la discriminazione,
stabilendo che la cancellazione dovesse avvenire «improrogabilmente» entro
il febbraio del 194095.
Su questo punto, e con queste argomentazioni, la giurisprudenza del
Consiglio fu del tutto costante96. Al contrario del Consiglio di Stato97 e delle
sentenze di alcune Corti d’appello98, il Consiglio superiore forense non volle
o non seppe discostarsi in alcun modo dall’aderire ai principi ispiratori della
politica razziale del regime99.
94
Liebman (14 gennaio 1903-8 settembre 1986) emigrò in Brasile, dove fondò una scuola
di processualcivilisti; ACnf, Decisioni Consiglio superiore forense, n. 59/1940, R.G.
95
Ivi, n.168/1940 R.G.; n. 28/1940 R.G. contro Dino Lattes, in cui veniva citata a supporto
della decisione la circolare del guardasigilli del 6 aprile 1940 (n. 86/4040).
96
Ivi, nn. 70/1939 e 6-8-26-27-29-30-52-56-58-72-79-157-161-178/1940 R.G.
97
A. Patroni Grifi, Il Consiglio di Stato ed il regime fascista, cit., pp. 174 ss.
98
S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto dalla prima emancipazione all’età repubblicana,
cit., p. 1794.
99
Ivi, n. 57/1939 R.G. contro Ugo Ajò.
Angelo d’orsi
RAzzISTI SoTTo LA MoLE
Un giudizio corrente attribuisce alla magistratura italiana un usbergo contro le vessazioni del regime totalitario; un’opinione diffusa, ancorché ormai
un po’ sottotono, sulla base dell’adagio bobbiano della cultura naturaliter
antifascista, specie a Torino1, vuole che sotto la Mole gli addetti alla cultura, accademica o giornalistica o d’altro genere, siano stati tendenzialmente
freddi quando non tetragoni addirittura davanti alle seduzioni provenienti dal
fascismo; tanto più davanti alle aberrazioni razzistiche. E, in campo giuridico, si menzionano volentieri – e a ragione – nomi quali Domenico Peretti
Griva e Alessandro Galante Garrone2. Ma davvero è andata così? Stanno in
questi termini, assolutori e perlopiù, va precisato, autoassolutori, le cose? La
mia impressione, come tenterò di spiegare in un rapido percorso rapsodico,
bisognoso naturalmente di altre prove e di analitiche disamine, è piuttosto
diversa; e cioè che la magistratura si sia mossa naturaliter entro l’alveo di
una cultura già impregnata non tanto di teorie razziste, quanto piuttosto di un
senso comune che aveva con una certa facilità assorbito, pur magari diluiti,
1
Cfr. N. Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino, Torino 1977, nuova ed. a
cura di A. Papuzzi, Torino 2001; per la contestazione dell’impostazione e della tesi di Bobbio,
A. D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000; e per le questioni più generali: Id., Intellettuali e fascismo. Appunti per una storia (ancora) da scrivere, in Annali della
Fondazione L. Einaudi, XXXII (1998), pp. 305-336; Id., Intellettuali nel Novecento italiano,
Torino 2001; Gli intellettuali e il fascismo. Una proposta di analisi storica, in Tra Roma e
Bolzano. Nazione e Provincia nel ventennio fascista. Zwischen Rome und Bozen. Staat und
Provinz im italienischen Faschismus, a cura di/ herausgegeben von A. Bonoldi, H. Obermair,
Città di Bolzano/Stadt Bozen 2006, pp. 105-115; Id., Sulla “Resistenza” degli intellettuali,
in Sotto il regime. Problemi, metodi e strumenti per lo studio dell’antifascismo, a cura di G.
Albarani, A. Osti Guerrazzi e G. Taurasi, Milano 2006, pp. 121-36.
2
V. da ultimo, O. De Napoli, La prova della razza. Cultura giuridica e razzismo in Italia
negli anni Trenta, Milano 2009.
194
Razzisti sotto la Mole
lacerti di quelle teorie. E che i magistrati formatisi nell’Ateneo cittadino,
nella Facoltà di Giurisprudenza, leggendo libri e giornali che si stampavano,
frequentando individui, gruppi, istituzioni pubbliche e ritrovi privati che quel
senso comune diffondevano, ben dificilmente avrebbero potuto discostarsi
dall’idem sentire, che accettò quasi senza colpo ferire le leggi del 1938, come
in precedenza non aveva battuto ciglio – se non, al limite, per piangere di
commozione davanti alla proclamazione dell’Impero nel 1936 – davanti alla
legislazione coloniale che rappresentò la prova generale del razzismo di stato
nell’Italia mussoliniana3.
In tale ottica, Torino non si discosta dal panorama nazionale, di un paese
passivamente o talora attivamente intrinseco alle politiche discriminatorie, o
addirittura persecutorie, messe in atto dal fascismo nei confronti di determinati
gruppi sociali, e speciicamente, sul territorio nazionale, degli israeliti, ma
sulla base di messe a punto, giuridiche e politiche, e di prove pratiche, per così
dire, effettuate in Africa, a danno delle popolazioni indigene.. E, aggiungo,
tale adesione era favorita non soltanto da un sostrato ideologico propenso alla
discriminazione su base “razziale” (la lunga semina nazional-imperialista tra
ine Ottocento e Grande guerra aveva ben prodotto dei risultati in tale direzione4), e che, ancor peggio, ricorreva agli elementi ideologico-propagandistici
di quel genere, per perseguire scopi politici, economici, di status.
Qui, ad ogni modo, non discuterò né esaminerò il ruolo messo in essere
dall’ordine giudiziario: i «razzisti» di cui al titolo sono distribuiti nello schieramento intellettuale, da cui – com’è ovvio – fuoriuscivano anche i magistrati,
o con cui essi si confrontavano, su diversi piani. Sono dunque, quei razzisti,
professori, letterati, giornalisti, editori, variamente presenti nel dibattito
culturale e politico torinese, e variamente collocabili nell’orizzonte politicoideologico, da un fascismo feroce sino a un vago antifascismo, ma tutti pronti
a pagare un tributo al razzismo, talora anche mostrando di sottovalutarne il
peso oltre che il signiicato5.
Per cominciare, può essere utile un lash back:
Ravà come Del Vecchio appartengono all’indirizzo ilosoicamente teoretico. Io
invece intendo la ilosoia del diritto nel senso che si debba studiare la ilosoia e i
sistemi ilosoici nella relazione che hanno avuto e possono avere con la vita giuridica.
Ed era questo l’indirizzo del Carle, salvo che in lui [era] scarsa la cultura ilosoica.
3
4
2007.
In tal senso rinvio ancora a De Napoli, La prova della razza, cit.
Cfr. A. D’Orsi, Da Adua a Roma. La marcia del nazionalfascismo (1896-1922), Torino
5
Sulla compromissione del ceto intellettuale con il razzismo fascista v. per esempio R.
Finzi, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, Roma 1997; G. Fabre, L’elenco. Censura
fascista, editoria e autori ebrei, Torino 1998; A. Capristo, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino 2002; G. Rota, Intellettuali dittatura razzismo di Stato, Milano 2009.
Angelo D’Orsi
195
Vi è dunque tra me e Ravà profonda diversità di indirizzo e quindi possibilità di
disparità di giudizio sull’opera reciproca, che nel R[avà] è scarsissima6.
Chi scrive così, liquidando un suo coetaneo, Adolfo Ravà, e un maestro
degli studi giusilosoici ormai defunto, Giuseppe Carle, è niente meno che
Gioele Solari, a sua volta maestro, e, in quel di Torino, considerato il «maestro
dei maestri»7, avendo creato una scuola di eccezionale valore: da Piero Gobetti
ad Alessandro Passerin d’Entrèves (i primi a laurearsi con lui, nel 1922) sino
a Filippo Barbano, che è forse l’ultimo dei grandi allievi, la scuola solariana
comprende nomi come Norberto Bobbio, Renato Treves, Bruno Leoni, Aldo
Garosci, Paolo Treves, Ettore Passerin d’Entrèves, Felice Balbo, Giorgio Colli,
Franco Antonicelli, Mario Einaudi, Luigi Firpo; e molti altri studiosi, non solo
giuristi, ma storici, ilosoi, sociologi, scienziati politici; e, ancora, politici pratici, e persino letterati. Un personaggio, Solari, che ha lasciato, dunque, una vasta
orma impressa nel suolo della cultura subalpina, inluenzando direttamente
o indirettamente due generazioni almeno di allievi, senza contare i discepoli
indiretti. Si aggiunga che il nome di Solari è associato di regola alle ragioni e
alle virtù dell’antifascismo. E, più in generale, è divenuto quasi sinonimo di
moralità austera e di esemplare dedizione alla «vita degli studi»8, espressione
che egli usa in una lettera al suo allievo prediletto, Norberto Bobbio, che gli
succederà sulla cattedra torinese di Filosoia del diritto nel 1948. Eppure anche
la vita degli studi implica compromissioni, reticenze e sacriici anche della
propria dignità di uomini. Sarà lo stesso Solari, riferendosi a certuni di tali
comportamenti compromissori da lui stesso tenuti, a esprimere, in una lettera a
Bobbio, il proprio «rimorso», in una nobilissima ammissione di responsabilità
(giacché, sia chiaro, con tutti i loro limiti, costoro erano dei giganti, forse non
in termini assoluti, ma di sicuro rispetto ai nanerottoli venuti dopo), per «il
molto che non ho fatto e che in tempi tristissimi avrei dovuto fare»9.
Solari allude naturalmente in particolare, ritengo, al giuramento del ’31, a
cui egli si piegò, pare anche su consiglio esplicito di Benedetto Croce, il quale,
nondimeno, un certo disprezzo per tutti i giuranti l’ebbe10. E forse si riferisce,
il maestro Solari, ad altri episodi di piccoli e grandi cedimenti e, mi spingo a
6
G. Solari a L. Einaudi, s. d. [ma 1918], in Archivio della Fondazione Einaudi – Archivio
Einaudi, “Solari, G.”, b. 2.
7
Cfr. F. Barbano, Gioele Solari, il maestro dei maestri, in Il Pensiero Politico, XXXI,
1998, pp. 356-361.
8
G. Solari a N. Bobbio, 28 luglio 1932, ora in La vita degli studi. Carteggio Gioele Solari - Norberto Bobbio. 1931-1952, a cura e con un saggio introduttivo di A. D’Orsi, Milano
2000 [recte: 1999], pp. 96-98 (98).
9
Solari a Bobbio, 3 febbraio 1949, ora ibidem, p. 215.
10
Cfr. H. Goetz, Il giuramento riiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Milano
2000 (ed. or. 1993); ma anche, con cautela, per le imprecisioni e gli errori v. G. Boatti, Preferirei
di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Torino 2001.
196
Razzisti sotto la Mole
credere, alla più generale sua fedeltà alla dimensione accademica – ricerca,
insegnamento, studio, riproduzione di cattedre – che gli fece spesso smarrire
il senso del tempo presente, con le sue terribili ingiustizie e nefandezze: la ine
delle libertà individuali e collettive, la distruzione del movimento operaio, le
violenze, le incarcerazioni, il conino, l’eliminazione di una qualsiasi dialettica
democratica, le aggressioni militari ai danni di stati sovrani, le guerre, le persecuzioni. Il silenzio di Solari, davanti a tutto ciò – ossia all’ediicazione dello
stato totalitario e imperialista – non appare diverso dal silenzio dei chierici, di
quella fetta dell’intellettualità che si chiuse nel silenzio per non aderire, ma
senza avere il coraggio di far sentire una pur timida voce di dissenso. Accanto a costoro, ai silenti, ci furono i parlanti, coloro che si esprimevano per il
duce e il suo regime, a voce spiegata, non di rado aggiungendo volgarità, e,
soprattutto, un eccesso di zelo poco encomiabile.
Tra loro, gli universitari furono quelli che più tranquillamente aderirono,
tacendo: essi erano convinti, come scrisse Cesare Pavese, che parlava in generale degli uomini di cultura, che bastasse «scavare una nicchia e accucciarvisi
dentro attendendo ai fatti propri», ossia, nella migliore delle ipotesi, aspettando
che la bufera passasse»11. Nel mondo accademico, come fece il buon Solari, si
privilegiò la ricerca, l’insegnamento, la costruzione della scuola, in una parola
la carriera. E l’ediicazione della carriera comincia di lontano, e deve portare
alla meta, costi quel che costi. Facciamo così ritorno alla citazione d’esordio,
tratta da una lettera di autoraccomandazione di Gioele Solari a Luigi Einaudi,
igura eminente nell’Adunanza dei professori (l’attuale consiglio di facoltà)
della facoltà giuridica torinese, una delle più prestigiose del regno. Solari,
all’epoca docente a Messina, dopo esserlo stato a Cagliari, aspirava – legittimamente, va da sé – a ritornare a Torino, ossia nella sua sede naturale, in
quella facoltà in cui aveva a suo tempo eletto a maestro Giuseppe Carle, pur
ripudiato, almeno nel passaggio citato; e dire che di lui Solari amò sempre
considerarsi ed essere considerato «seguace e […] continuatore»12.
Le successive righe della lettera appaiono ancor più imbarazzanti, per non
dire francamente spregevoli. Tra i docenti che ambivano alla sede torinese, vi
era appunto Adolfo Ravà. Ecco che cosa aggiungeva Solari, nel ritrattino velenoso che di Ravà egli disegnava per Einaudi, in modo che da questi giungesse
ad altri autorevoli esponenti della facoltà. Per allontanare lo spettro temuto di
una preferenza accordata a Ravà, Solari non trovò di meglio che ricorrere al
sempre eficace argomento antigiudaico: «Ravà è la quintessenza dello spirito
ebraico, anche nell’aspetto. Tu sai che ha per moglie un’austriaca, ischiata
a Parma per austroilia, esponente del neutralismo ebraico». Qui addirittura,
oltre alla facies judaica, emerge il dato politico, in una crasi tra ebraismo e
11
C. Pavese, Il fascismo e la cultura (1945), ora in Id., Saggi letterari, Torino 1968, p. 205.
N. Bobbio, L’opera di G. Solari (1952-1953), in Id., Italia civile. Ritratti e testimonianze,
Firenze 1986, pp. 146-179 (153), (I ed. Lacaita, Manduria 1964).
12
Angelo D’Orsi
197
neutralismo, che sembra richiamare i peggiori topoi della propaganda nazionalista e poi fascista, e addirittura hitleriana. Bizzarramente, poi, lo stesso Solari,
per la sua chiamata a Torino, si afidò, oltre che a Einaudi, all’ebreo Loria.
Se questo costituisce un retroterra in cui troviamo quali soggetti personalità
di altissimo livello, che si caratterizzarono più avanti per rigore morale e intellettuale, e comunque rimasero orientate in senso antifascista (Solari, come del
resto Einaudi, ambedue giuranti nel ’31, non presero mai la tessera del Fascio:
l’uno come l’altro, rara avis, nell’Ateneo subalpino e nella Facoltà giuridica
in specie), non ci si può stupire, quando il fascismo è ormai divenuto regime,
di imbattersi in esempi successivi di adesione alle politiche di «tutela della
razza», negli anni Trenta-Quaranta. Non si tratta di un censimento, né di un
percorso organico, ma soltanto di un’incursione a volo d’uccello. Mi soffermo
soltanto su alcuni episodi e igure, davvero rapsodicamente.
Il primo caso è quello di Luigi Colombo, alias Fillia, il leader riconosciuto del futurismo sotto la Mole, letterato, pittore, scultore, organizzatore di
cultura: un personaggio di notevolissimo interesse, animato da una passione
furiosa per la creazione che egli portò in ogni campo e settore, bruciando
un’esistenza incredibilmente attiva e produttiva in poco più di trent’anni.
Nella sua ultima stagione, nella prima metà degli anni Trenta, quando ormai
era aflitto dalla tubercolosi, forse per un contrappasso, Fillia rivelò un interesse di tipo ambientalistico, che egli declinava in chiave di «naturismo»,
ma aggiungendo immediatamente l’aggettivo esornativo «fascista». E la
speciicazione che egli forniva rinvia al riiuto dell’internazionalismo, del
paciismo, del socialismo; e in qui siamo nell’alveo canonico dell’ideologia
politica del futurismo italiano. Ma questo ex simpatizzante socialista, che
aveva frequentato per qualche tempo – a mala pena diciottenne – il gruppo
ordinovista, in particolare l’esperimento dell’Istituto di cultura proletaria,
sezione del russo Prolet’kult, la fugace istituzione che imitava quella sovietica, non si peritava di aggiungere un’ulteriore connotazione al proprio
naturismo futurista, in senso razzista. Come altro si può deinire il proclama
che attribuisce al «naturismo» fascista che «esalta […] il patriottismo, la
virilità, il perfezionamento isico e spirituale della razza», oltre che, naturalmente, futuristicamente, «la macchina considerata come apportatrice
di benessere, la velocità…», e considera la guerra «un fenomeno cosmico
decongestionante»13. Fillia moriva nel 1936, trentaduenne, lamentando di non
poter andare in Etiopia, volontario, non senza aver sparato le sue ultime cartucce verbali contro le «inique sanzioni»: non sarebbe andato in quella terra
africana in cui il regime mussoliniano stava sperimentando, giuridicamente
13
Fillia, Il naturismo futurista e la mostra del futurismo in Piemonte, in Stile Futurista,
13-14, 1935, ora in A. D’Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?,
Roma 2009, pp. 318-320 (319). Sulla igura di Fillia, nel contesto torinese, v. anche Id., La
cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000.
198
Razzisti sotto la Mole
e politicamente, il razzismo di stato, di lì a poco, nel ’38, raggrumatosi nella
legislazione razziale, con l’avvio di pratiche di esclusione, di conculcazione
di diritti, e inine di persecuzione, che toccò prima i diritti, poi i beni, inine le
vite delle persone. In una indifferenza generale del popolo italiano, e sovente
nella complicità del ceto dei colti, quello che avrebbe dovuto insorgere come
un sol uomo contro quella nefandezza giuridica, politica, morale.
Razzismo, un razzismo franco e tranquillo, per così dire, si rintraccia in
varie iniziative culturali cittadine, specie a partire da quella guerra di Etiopia
alla quale il malato Fillia, ormai in in di vita, si rammaricava di non poter
partecipare. Si pensi alla rivista «Vent’anni», e alla consorella «Il Lambello», due testate universitarie, che non possono essere liquidate con un’alzata
di spalle, essendo comunque semenzai della futura classe dirigente locale:
la prima nasceva nel decennale del fascismo, nel 1932, animata da Guido
Pallotta, interessante igura di fascista coerente e intransigente, che avrebbe
trovato la bella morte cercata nella guerra mondiale14. Se la prima testata ebbe,
inizialmente, velleità pur vagamente critiche, e si spinse ad esprimere giudizi
pesanti sul nazismo appena giunto al potere, per poi allinearsi completamente,
e aderire alla campagna razzista; la seconda, nata dopo la campagna d’Africa,
nell’ottobre ’36, non ebbe esitazioni: «Lo scopo del nostro giornale sarà quello
di valorizzare, esaltare la romanità e la latinità della nostra razza»15. Razzismo
spirituale è stato sovente deinito quello fascista, magari contrapposto a quello
biologico nazista: sono distinzioni che valgono poco, a dire il vero; e comunque, in un modo o nell’altro, una penetrazione razzista avviene capillarmente
negli ambienti universitari, “guini” e non. E i giornali studenteschi ne sono
il primo strumento.
Rimanendo nel mondo universitario, se ripercorriamo i discorsi inaugurali
dei diversi anni accademici, troviamo non rade espressioni di un’adesione de
plano agli orientamenti razzisti dell’Italia che si avviava all’abbraccio mortale con la Germania, all’Italia che aveva proclamato il suo ritardato impero,
escogitando e attuando politiche biecamente razziste ai danni degli abissini. Il
rettore Azzo Azzi, ad esempio, precisamente inaugurando l’anno accademico
1938-39, avendo precisato in esordio che era tempo di adattarsi «al nuovo
ordine sociale ed ottemperare alle nuove esigenze create e volute dal fascismo», inseriva addirittura la battaglia «per la purezza dei nostri altari, per la
difesa della razza», in una più ampia e generale campagna igienica del paese16.
Campagna igienica! Azzi era un anatomo-patologo di non grandi prospettive
scientiiche, ma che per il suo zelo fascistico fu onorato ben più di personaggi
di incomparabile levatura quali Benedetto Morpurgo, allievo del grande Giulio
14
Su di lui e la rivista rinvio all’accuratissimo studio di M. Barillà, Guido Pallotta, un
mistico dell’azione, in Quaderni di Storia dell’Università di Torino, X (2005), n. 8, pp. 121-201.
15
Corsivo n. 1, in Il Lambello, I, 1 (25 ottobre 1936).
16
Cfr. Annuario della R. Università di Torino, 1938-39, pp. 9-15.
Angelo D’Orsi
199
Bizzozero: costui, Morpurgo, che nel ’31 si prestò al giuramento, nel ’35 lasciò
l’Italia per l’Argentina. E così facendo salvò la vita e la disciplina17.
Si trattò comunque di un caso eccezionale. La quasi totalità degli ebrei
impiegati nel mondo accademico, e più in generale operanti sui terreni della
cultura, aspettò iduciosamente gli sviluppi del regime, e molti tra loro, a Torino come altrove, non ne colsero per tempo le conseguenze devastanti. Specie
coloro che, avendo aderito al fascismo, si ritenevano al sicuro. Si aprirebbe qui
un capitolo particolarmente doloroso e insieme imbarazzante di questa storia,
quello degli ebrei fascisti, o addirittura fascistissimi, come non pochi tra loro
si dichiararono scrivendo alle autorità, a cominciare dallo stesso Duce. Sotto
la Mole questo capitolo è particolarmente pesante, essendo Torino sede della
sola rivista di israeliti fascisti prodotta nel Ventennio: «La Nostra Bandiera»
nacque nel 1934 per dimostrare infondata l’equazione antifascismo/ebraismo,
suggerita dalla stampa e avallata dagli inquirenti, a seguito della prima, e poi
della seconda (del ’35), ondata di arresti che falcidiarono il gruppo dirigente
di Giustizia e Libertà, in cui caddero personaggi – ebrei e antifascisti – come
Leone Ginzburg, Mario Levi, Vittorio Foa e altri. La rivista ebbe un ruolo
importante sul piano nazionale, e fu lo specchio di una cecità impressionante
davanti al regime, che alcuni dei suoi animatori pagarono col prezzo più alto,
al punto che si è parlato di masochismo e autolesionismo18. Casi siffatti vanno
ben oltre l’esperienza della «Nostra Bandiera», che cessò ovviamente nel ’38:
basti menzionare i nomi di Arturo Foà, Mario Attilio Levi, Dino Segre, in arte
Pitigrilli: tutti ebrei, tutti fascisti convinti, l’ultimo addirittura informatore
dell’Ovra. E tutti variamente soggetti al rigore della legislazione “razziale”
del 1938: al povero Foà, deportato ad Auschwitz, toccò la sorte più tragica19.
Impressiona poi la serenità olimpica con cui nei consigli di facoltà venissero accolte le comunicazioni, del resto algidamente burocratiche, relative
alla forzosa uscita di scena di docenti a seguito dell’applicazione della nuova
normativa. Non un commento, non una parola di commiato, non un segnale
di vergogna, da parte di coloro che restavano20. Eppure a Torino la falcidie fu
17
Cfr. G. Pareti, Laboratorio e moschetto. La scuola torinese di patologia e la propaganda
fascista, in Quaderni di Storia dell’Università di Torino, II-III (1997-98), n. 2, pp. 117-148.
18
Cfr. A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, Roma 1982, pp. 173-194; ma cfr. D’Orsi,
La cultura a Torino, cit., p. 345 e ss.
19
Cfr. D’Orsi, La cultura a Torino, cit., pp. 350-51; ma più distesamente Id., Un poeta
nella bufera. Il caso di un ebreo fascista cuneese, in Astragalo, 1982, 3-4, pp. 19-23 (che è il
primo in assoluto dedicato a questo personaggio tragico); molto dopo è giunto la monograia
di F. Levi (che ignora il mio scritto), e usa fonti di famiglia, anche orali, soprattutto del nipote
di Arturo, Franco, per ricostruire la vicenda del padre Emilio, e tocca tangenzialmente la
igura di Arturo, L’identità imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini,
Torino 1996.
20
Per esempio, su Giurisprudenza (oltre che, come per Lettere, i verbali delle Adunanze
dei professori) ho la testimonianza registrata di Silvio Romano, iglio di Santi, autorevole
docente della Facoltà.
200
Razzisti sotto la Mole
assai più grave che in altri atenei italiani. E le facoltà scientiiche, da Medicina
a Scienze, furono le più colpite: le conseguenze di quella epurazione si pagarono nei decenni seguenti, e ancora oggi si pagano, essendosi perso il meglio
della ricerca scientiica nazionale. Per esempio, i matematici – le due grandi
scuole torinesi, quella di Peano e quella di Corrado Segré, ebreo – furono
coloro che soffersero forse più pesantemente la situazione21.
Per guardare verso altri esempi, un cenno ancora, considerato il contesto in
cui questo mio scritto compare, alla facoltà giuridica. Qui, con l’applicazione
delle leggi del ’38, tra coloro che vengono estromessi è Giuseppe Ottolenghi:
la cattedra da lui tenuta di Diritto internazionale fu voluta da Alessandro Passerin d’Entrèves, che quei titoli non aveva, ma che da Pavia, dove insegnava
Filosoia del diritto, reduce da Messina (vincitore nel 1935, del primo concorso
di Storia delle dottrine politiche, ma anche, in contemporanea di Filosoia del
diritto), desiderava ritornare a Torino. E qui il maestro Solari, che aveva pensato al D’Entrèves come al suo naturale successore sulla cattedra di Filosoia
del diritto (ma già nel ’35 avendo vinto anche questo concorso il D’Entrèves
optò per Storia delle dottrine, deludendo il maestro, passando poi nell’ateneo
pavese a Filosoia del diritto), gli espresse il suo doppio disappunto: in primo
luogo, non per aver preso il posto di un collega cacciato solo per la sua «razza»,
ma per pretendere un insegnamento per il quale non era competente. Certo
non mancava, nella campagna anti-D’Entrèves che il Solari fece tra allievi e
colleghi, il rimprovero relativo all’occupazione del posto dell’ebreo scacciato,
ma veniva comunque dopo la constatazione della incompetenza scientiica. Si
conidò l’amareggiato Solari, con Norberto Bobbio, che ebbe beneicio dalla rinuncia del D’Entrèves, diventando egli stesso il successore di Solari, nel 1948,
dopo aver, tra l’altro, occupato a Padova la cattedra di Ravà, quello studioso
che aveva la “colpa” di essere ebreo, secondo quel che scriveva proprio Solari
a Einaudi, vent’anni avanti, come s’è detto, e che appunto nel ’38, come tutti
i suoi correi ebrei, fu estromesso dall’insegnamento. Solari contro D’Entrèves
sostenne un altro candidato, Riccardo Monaco, che di titoli ne aveva; e questo
rimase il suo cruccio fondamentale, dopo quello ancor più pesante, per lui, del
gran riiuto dell’allievo di succedergli. La questione dell’arraffare un posto
di un ebreo in fondo apparve anche a lui, che pure insistè, con Bobbio, sulla
propria fede alla «morale del dovere», del tutto secondaria22.
21
Cfr. L. Rinaldelli, In nome della razza. L’effetto delle leggi del 1938 sull’ambiente matematico torinese, in Quaderni di Storia dell’Università di Torino, II-III (1997-1998), n. 2, pp.
149-208, dove si trova altresì un elenco completo di tutto il personale universitario (professori,
liberi docenti, assistenti, aggregati) che fu espulso con le leggi razziali.
22
Per tutta la vicenda, cfr. La vita degli studi cit., ad indicem (la citazione è dalla lettera di
Solari a Bobbio del 12 giugno 1942, p. 148), e A. D’Orsi, Da studente a professore. Alessandro
Passerin d’Entrèves all’Università di Torino, in Quaderni di Storia dell’Università di Torino,
VII (2002), n. 6, pp. 73-87 e Id., Alessandro Passerin d’Entrèves e l’Università di Torino, in
Angelo D’Orsi
201
Eppure, sull’antifascismo di Solari possiamo essere certi; meno certi su
quello del D’Entrèves, un “gobettiano” che, in verità, al fascismo si avvicinò; peraltro lo stesso Bobbio, com’è noto, può essere collocato semmai nella
categoria degli «afascisti», intento – del resto seguendo il modello tracciato
dal maestro Solari – a costruire la carriera innanzi tutto. Evidentemente, il
razzismo iniva per essere considerato come una scelta di non grave peso
politico, quasi un peccato veniale. E anche nel mondo antifascista ci si poté
scoprire “naturalmente” razzisti, aderenti alle campagne di “igiene” razziale
con una certa scioltezza e tranquillità.
Con altrettanta, se non maggiore, facilità sulla stampa quotidiana e periodica
cittadina si propongono, a partire dalla metà degli anni Trenta, manifestazioni
di razzismo: prima antiafricano, quindi antiebraico, non senza puntate verso
i popoli angloamericani, e quello francese, nel periodo delle sanzioni, e poi,
naturalmente, una volta entrata in guerra l’Italia, accanto alla Germania. A quel
punto anche coloro che individualmente o come gruppi – vedi alcune riviste
– avevano espresso dubbi assai forti sull’hitlerismo tacciono o invertono addirittura la rotta, diventando zelatori dell’alleanza, e sostenendo a spada tratta il
razzismo italico, sia pure sotto specie “spirituale”. Del resto non dimentichiamo
che un personaggio eminente della cultura giornalistica e letteraria cittadina,
traghettato senza alcun problema dal fascismo al postfascismo fu quel Lorenzo Gigli, autore già nel 1928 di un’encomiastica monograia di Arthur De
Gobineau (al quale era capitato di morire precisamente nella città della Mole,
nell’anno 1882). Lo stesso Gobineau, con altre igure, più o meno note, delle
teoriche delle razze elette, compariva dieci anni più tardi, ossia precisamente
nel fatidico anno ’38, in una galleria realizzata sul quotidiano «La Stampa»:
segno dei tempi, evidentemente; come lo erano, a maggior ragione, le vignette
squisitamente e volgarmente antisemite ospitate, a partire da settembre ’38,
sulla «Gazzetta del Popolo», foglio a carattere più popolare23.
Ci sono poi casi che non posso che etichettare come odiosi, di delazioni
di ebrei da parte di personaggi in vista ieri o divenuti tali oggi. Mi limito a
citare un caso che ho scoperto – ne ho dato già notizia con la relativa documentazione – qualche anno fa e che merita attenzione quasi un esempio
provinciale di banalità del male. Si tratta di Francesco Cognasso, storico
eminente, monarchico-sabaudista, igura importante dell’ateneo, vicinissimo
sempre alle direttive del regime. Si era posto in luce nell’anno dello scop-
Alessandro Passerin d’Entrèves (1902-19085). Politica, ilosoia, accademia, cosmopolitismo
e “piccola patria”, a cura di Gian Mario Bravo, Milano 2004, pp. 33-42.
23
Per i riferimenti, cfr. D’Orsi, La cultura a Torino cit., p. 346. Una scelta di immagini
si trova in L’ebreo in oggetto. L’applicazione della normativa antiebraica a Torino. 1938-43,
a cura di F. Levi, Torino 1991, p. 191 e ss. Per la igura di Gigli v. F. Pompa, Preistoria di
un intellettuale. Lorenzo Gigli nazionalista, prefazione di A. d’Orsi, Fondazione Salvatorelli,
Marsciano (PG) 2004.
202
Razzisti sotto la Mole
pio della guerra, con una relazione sullo stato degli Istituti universitari di
Torino nell’anno XVII dell’Era Fascista, ossia nel 1939, quando Cognasso
era preside di magistero. Si tratta di un testo apologetico, di totale allineamento a Mussolini e al regime, alla vigilia dell’improvvido ingresso italiano
nel conlitto mondiale, che si conclude con la dichiarazione di impegno di
docenti e studenti dell’ateneo a seguire il duce e a partecipare alle sue «battaglie», sia quelle «paciiche» sia quelle «cruenti» (sic), «pronti a qualsiasi
sacriicio»24. Cognasso avrebbe ottenuto nel 1967 il titolo di emerito, dopo
essere stato ino al 1957, titolare di cattedra di Storia medievale e moderna
nella Facoltà di Lettere e Filosoia, dove si era trasferito dal magistero. Un
uomo rispettato, dunque, e onorato, anche dopo la ine del regime e dopo la
morte, avvenuta a cento anni di età, nel 1986. Ebbene, nel 1941, il professor
Cognasso non si peritava di segnalare alla questura che nello stabile signorile
dove egli aveva dimora, «con altre nove famiglie tutte non ebree», risultava
essere amministratore condominiale un tale che essendo stato richiamato
alle armi quale maggiore dell’aeronautica «pur conservando l’incarico», si
legge nell’informativa della Questura, aveva delegato «in via temporanea e
provvisoria durante la sua assenza per servizio», un ebreo: peraltro «di buona
condotta morale e politica», «discriminato» e, inine, «ex maggiore del R.
Esercito e già ingegnere del Genio Civile». Ma evidentemente o il povero
amministratore temporaneo non era persona grata al Cognasso, o costui era
preso da zelo razzistico (come sarei propenso a credere); tanto che non si
limitò a chiedere la cacciata del suo amministratore ebreo, ma segnalò un
caso analogo in altro stabile, e anche in questo caso traspare l’imbarazzo
del funzionario di polizia: il soggetto in questione «gode la stima e la iducia degli inquilini. Sarà tuttavia provveduto a richiamarlo alla osservanza
delle vigenti disposizioni che gli vietano tale uficio». Sicché dal ministero
dell’Interno, naturalmente dalla direzione generale per la Demograia e la
Razza, opportunamente informata, giungeva una nota (si suppone a tutte
le prefetture del regno), in cui si ribadiva, citando proprio lo zelantissimo
Cognasso, «che agli appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati,
non può consentirsi l’attività di amministratori di case o di condomini anche
parzialmente di proprietà di ariani e da questi abitate»25.
Inine, un ultimo personaggio che contribuisce più che a sfatare i miti
della cultura naturaliter antifascista, specie sotto la Mole, a mostrare a quale
24
Ho pubblicato il documento in Quaderni di Storia dell’Università di Torino, II-III
(1997-1998), n. 2, pp. 83-90.
25
Tutta la documentazione relativa (reperita da Daniela Marendino, che ringrazio, nei Fondi
dell’Archivio di stato di Torino, sezioni riunite, gabinetto di prefettura), fu da me pubblicata
in Quaderni di Storia dell’Università di Torino, VII, 2002, n. 6, pp. 195-201, con uno scritto
di G. Sergi, Lo storico e il cittadino. Una triste testimonianza di Francesco Cognasso, a cui
rinvio anche per riferimenti bibliograici su Cognasso.
Angelo D’Orsi
203
punto di abbrutimento si possa arrivare sotto un regime totalitario e con quale
tranquillità tanti italiani si siano trasformati in delatori. Il personaggio in
questione è un editore, un piccolo editore, che tuttavia ha svolto un ruolo
importante sul piano culturale, sia per i bei libri che ha stampato, sia perché
sotto le sue insegne si erano radunati intellettuali di notevole valore, a cominciare da Franco Antonicelli che fondò e diresse, ino alla rottura nel 1936,
la bellissima “Biblioteca Europea”, che ospitò, in nome di un europeismo
culturale che rinviava a Piero Gobetti, alla sua apologia dell’Illuminismo,
testi di straordinario valore, da Kafka a Babel’, da O’ Neill a Melville, con il
Moby Dick tradotto da Cesare Pavese in pochi giorni di lavoro matto e disperatissimo… Si è parlato della casa editrice Frassinelli – ad essa sto facendo
riferimento – come di un crogiuolo di antifascismo, un raduno di resistenti26.
E Pavese del resto, come Antonicelli, inirono nello stesso anno, al conino
di polizia, uno in Calabria, a Brancaleone, l’altro in Campania, ad Agropoli.
E dello stesso Frassinelli si sa che avrebbe collaborato – qui le tracce documentarie sono più soggettive che oggettive – all’attività partigiana27. Eppure
lo ritroviamo nello stesso tempo palesarsi come delatore. Anzi, la delazione
di Frassinelli pare avere un carattere particolarmente odioso, essendo stata
fatta direttamente all’occupante nazista, al punto da suscitare una protesta da
parte dell’autorità fascista, anche perché i tedeschi non tenevano alcun conto
delle disposizioni italiane in materia di «discriminazione». Sicché, Giorgio
Donato Levi, «ex combattente col grado di capitano nei reparti d’assalto [gli
arditi], volontario di guerra». Per di più, il Levi, prosegue la nota del funzionario italiano – il capo della provincia di Torino, che si lamentava con il
capo della polizia a proposito del comportamento dei nazisti – era «coniugato
con ariana, padre di due igli ariani cattolici», dunque ebreo discriminato (e
perciò non sottoponibile ai rigori della persecuzione); ma, aggiungeva, la
polizia germanica fece «chiaramente intendere che non si sarebbe attenuta
alle disposizioni italiani vigenti in merito razziale». Sicché, il Levi fu invece
arrestato. Aggiunge ancora il funzionario che il povero Levi era stato «segnalato al Comando Germanico» – si noti la delicatezza della formulazione
– «a sfogo di un rancore personale», da parte del Frassinelli. Era l’epoca in
cui si offrivano 5.000 lire per ogni ebreo denunciato. Ma dificile credere
che il tipografo-editore amico di israeliti eccellenti quali Leone Ginzburg e
Giacomo Debenedetti (che aveva sostituito Franco Antonicelli, dopo l’arresto
26
Rinvio oltre che a D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, cit., p. 116 e ss., a Id.,
Il sodalizio con Carlo Frassinelli: un’ avventura editoriale nella Torino degli anni Trenta,
in Il coraggio delle parole. Franco Antonicelli, la cultura e la comunicazione nell’Italia del
secondo dopoguerra, a cura di E. Mannari, Livorno 1996, pp. 89-136.
27
Ho ripreso l’informazione, segnalandone la non certissima attendibilità, in Frassinelli,
Carlo, in Dizionario Biograico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol.
L (1998), pp. 323-325.
204
Razzisti sotto la Mole
di questi), dificile credere che avesse venduto un essere umano; ma, certo,
è altrettanto dificile pensare a qualsiasi altra motivazione. Quel che ci resta
è la nuda constatazione di un dato: l’ebreo denunciato, arrestato, deportato.
Donato Giorgio Levi morì ad Auschwitz il 2 agosto 194428.
E qui conviene fermarsi, tra pietà e orrore.
Cfr. M. Franzinelli, Delatori. Spie e conidenti anonimi: l’arma segreta del regime
fascista, Milano 2001, p. 190 (ivi anche la documentazione relativa).
28
Giuseppe Speciale
L’APPLICAzIonE dELLE LEGGI AnTISEMITE:
GIUdICI E AMMInISTRAzIonE (1938-2010)
1. Leggi (1938-1943)
Tra il luglio e il novembre del 1938 l’Italia avvia la legislazione antiebraica.
Un’eficace campagna di stampa prepara l’opinione pubblica1. Il 15 luglio viene
pubblicato il manifesto degli scienziati razzisti, presentato il 25 dello stesso mese
al Duce e pubblicato il 5 agosto nel primo numero de La difesa della razza. Il
22 agosto il censimento degli ebrei presenti in Italia rileva circa 37.000 italiani
di origine ebraica e circa 9.500 stranieri (pari all’incirca all’1,1 per mille della
popolazione italiana e al 3 per mille della popolazione ebraica mondiale).
Il 5 settembre si provvede all’espulsione degli ebrei da tutte le scuole del
regno2, alla istituzione presso il Ministero dell’Interno della Direzione generale
per la Demograia e la Razza3 e del Consiglio Superiore per la Demograia e
la Razza4. Il 7 settembre si intima agli ebrei stranieri di lasciare i territori del
regno, della Libia e dell’Egeo entro 6 mesi dalla pubblicazione del decreto5.
Il 23 settembre si istituiscono le scuole elementari riservate agli ebrei6.
1
Per tutti cfr. Alessandra Scarcella, Il ruolo della stampa nella campagna razzista e antiebraica fascista (1937-1943), in Clio (2000) III, pp. 467-96.
2
R.D. 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola
fascista (GU n. 209, 13 settembre 1938). Convertito, senza modiiche, nella Legge 5 gennaio
1939, n. 99 (GU n. 31, 7 febbraio 1939).
3
R.D. 5 settembre 1938, n. 1531, Trasformazione dell’Uficio centrale demograico in
Direzione generale per la demograia e la razza (GU n. 230, 7 ottobre 1938).
4
R.D. 5 settembre 1938, n. 1539, Istituzione, presso il Ministero dell’Interno, del Consiglio
superiore per la demograia e la razza (GU n. 231, 8 ottobre 1938). Convertito, senza modiiche,
nella Legge 5 gennaio 1939, n. 26 (GU n. 24, 30 gennaio 1939).
5
R.D. 7 settembre 1938, n. 1381, Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri (GU n. 208,
12 settembre 1938). Non fu convertito in legge, ma fu sostanzialmente ripreso dal Decreto 1728/1938.
6
R.D. 23 settembre 1938, n. 1630, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza
ebraica (GU n. 245, 25 ottobre 1938). Convertito, senza modiiche, nella Legge 5 gennaio 1939,
n. 94 (GU n. 31, 7 febbraio 1939).
206 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Il 6 ottobre il Gran Consiglio del fascismo approva la “Dichiarazione sulla
razza”, pubblicata sul Foglio d’ordine del Partito Nazionale Fascista il 26
ottobre 1938.
Il 15 novembre si interviene nuovamente nel campo della scuola per coordinare le norme precedentemente emanate7. Il 17 novembre il R.D. 1728,
“Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, convertito nella Legge 5
gennaio 1939 n. 2748, segna la tappa fondamentale della prima fase della
legislazione antiebraica9.
Il 21 novembre si dispone che non possano essere iscritti al P.N.F. i cittadini italiani che, a norma delle disposizioni di legge, debbano considerarsi
di razza ebraica10. Il 22 dicembre 1938 sono collocati in congedo assoluto
uficiali, sottuficiali, graduati, e militari di truppa, appartenenti alla razza
ebraica, di tutte le forze armate e di polizia11. Tra febbraio e marzo del
1939 si speciicano regole, si istituiscono enti e si creano procedure per
dare attuazione alle norme sulla limitazione della proprietà immobiliare e
dell’attività industriale e commerciale degli ebrei12. Nel mese di giugno si
vieta o si limita (prevedendo l’istituzione di albi speciali) l’esercizio della
professione di notaio, giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario,
7
R.D. 15 novembre 1938, n. 1779, Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme
già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana (GU n. 272, 29 novembre 1938).
Convertito, senza modiiche, nella Legge 5 gennaio 1939, n. 98 (GU n. 31, 7 febbraio 1939).
8
Il R.D. è pubblicato nella GU n. 264 del 19 novembre 1938; la Legge, di conversione
senza modiiche, nella GU n. 48 del 27 febbraio 1939.
9
Impressiona la coincidenza temporale tra l’affermazione della legislazione razziale
in Italia e gli avvenimenti della Germania, in cui SA e SS ispirarono una serie di pogrom:
tristemente celebri gli avvenimenti della notte tra il 9 e il 10 novembre, chiamata sarcasticamente dai nazisti “notte dei cristalli”, che videro la completa distruzione di settantasei
sinagoghe, l’incendio di altre centonovantuno, la devastazione di oltre settemilacinquecento
negozi, l’assassinio di trentasei ebrei (questa la stima iniziale, destinata a crescere con il
passare dei giorni ino a raggiungere un numero superiore a novanta), l’arresto di oltre diecimila ebrei (cfr., per tutti, L. Poliakov Il nazismo e lo sterminio degli ebrei (Torino 1955),
in particolare, pp. 36 e ss.).
10
R.D. 21 novembre 1938, n. 2154, Modiicazioni allo statuto del Partito Nazionale
Fascista (GU n. 36, 13 febbraio 1939).
11
R.D. 22 dicembre 1938, n. 2111, Disposizioni relative al collocamento in congedo
assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze armate dello
Stato di razza ebraica (GU n. 30, 6 febbraio 1939). Convertito, senza modiiche nella Legge 2 giugno 1939, n. 739, Conversione in legge, con approvazione complessiva, dei Regi
decreti-legge emanati ino al 10 marzo 1939-XVII e convalida dei Regi decreti, emanati ino
alla data anzidetta, per prelevazioni di somme dal fondo di riserva per le spese impreviste
(GU n. 131, 5 giugno 1939).
12
R.D. 9 febbraio 1939, n. 126, Norme di attuazione ed integrazione delle disposizioni
di cui all’art. 10 del R. decreto-legge 17 novembre 1938 XVII, n. 1728, relative ai limiti di
proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza
ebraica (GU n. 35, 11 febbraio 1939). Convertito, con modiiche, nella Legge 2 giugno 1939,
n. 739 sopra citata (GU n. 131, 5 giugno 1939); R.D. 27 marzo 1939, n. 665, Approvazione
dello statuto dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (GU n. 110, 10 maggio 1939).
Giuseppe Speciale
207
ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e
commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra,
perito agrario, perito industriale13.
A luglio si interviene per disciplinare alcuni aspetti in materia testamentaria sancendo la nullità delle disposizioni che sottopongano l’acquisto
dell’eredità o del legato alla condizione che il beneicato appartenga alla
religione ebraica e di quelle che prevedano la perdita dell’eredità o del legato
nel caso di abbandono della religione israelitica da parte del beneicato14.
Con la stessa legge si consente agli italiani non ebrei di cambiare il proprio
cognome quando questo sia “notoriamente diffuso” tra gli ebrei; si consente,
inoltre, agli italiani non ebrei, igli di padre ebreo e di madre non ebrea, di
acquisire il cognome della madre; si obbligano gli ebrei non discriminati che
abbiano cambiato il proprio cognome con uno che non ne rivela le origini,
a riacquistare l’originario cognome. Nello stesso mese di luglio si integra
il decreto 1728/1938, si disciplina la composizione della commissione ministeriale prevista nello stesso decreto e si prevede che, su parere conforme
della stessa commissione, il Ministro dell’interno possa dichiarare la non
appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti
dello stato civile15; si modiica l’organico del Ministero dell’interno per il
capo uficio della Demorazza16.
Nel 1940 si prevede un’indennità aggiuntiva per i dipendenti statali inamovibili che siano stati dispensati dal servizio per ragioni razziali17; si abroga
a decorrere dal luglio 1938 il contributo statale a favore degli asili infantili
israelitici previsto da una legge del 189618; si interviene nuovamente in materia
testamentaria e di cognomi19 e nel campo dell’esercizio delle professioni20.
13
Legge 29 giugno 1939, n. 1054, Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei
cittadini di razza ebraica (GU n. 179, 2 agosto 1939).
14
Legge 13 luglio 1939, n. 1055, Disposizioni in materia testamentaria nonché sulla
disciplina dei cognomi, nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica (GU n. 179, 2
agosto 1939).
15
Legge 13 luglio 1939, n. 1024, Norme integrative del R. decreto-legge 17 novembre
1938-XVII, n. 1728, sulla difesa della razza italiana (GU n. 174, 27 luglio 1939).
16
Legge 13 luglio 1939, n. 1056, Variazioni al ruolo organico del personale di gruppo A
dell’Amministrazione Civile del Ministero dell’interno (GU n. 179, 2 agosto 1939).
17
Legge 23 maggio 1940, n. 587, Concessione di una indennità in aggiunta alla pensione
ai dipendenti statali per i quali è prevista la inamovibilità, dispensati dal servizio in esecuzione del R. decreto-legge 17 novembre 1938 XVII, n. 1728, sino al raggiungimento del limite
massimo di età per il collocamento a riposo (GU n. 143, 19 giugno 1940).
18
Legge 28 settembre 1940, n. 1403, Abrogazione del contributo statale a favore degli asili
infantili israelitici contemplati dalla legge 30 luglio 1896, n. 343 (GU n. 245, 18 ottobre 1940).
19
Legge 23 settembre 1940, n. 1459, Integrazioni alla legge 13 luglio 1939-XVII, n. 1055,
contenente disposizioni in materia testamentaria, nonché sulla disciplina dei cognomi, nei
confronti degli appartenenti alla razza ebraica (GU n. 256, 31 ottobre 1940).
20
D.M. 30 luglio 1940, Determinazione dei contributi a carico dei professionisti di razza
ebraica (GU n. 12, 16 gennaio 1941).
208 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Nel 1941 si ritorna a legiferare sulla liquidazione delle proprietà immobiliari21, nel 1942 sulle professioni22 e sulla capacità giuridica degli ebrei libici23.
Dopo il 25 luglio del 1943 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, nel
gennaio del 1944, inalmente, tutte le norme antisemite vengono espunte dall’ordinamento italiano rimasto, sia pure solo formalmente, sotto il controllo del re24.
2. Giudici (1938-1943)
Il rapporto tra giudici e leggi razziali ci riporta direttamente al periodo
compreso tra il 1938 e il 1943. Dopo il 25 luglio del 1943, infatti, i giudici non
si occuperanno più degli ebrei: non nel meridione d’Italia, dal momento che
dal gennaio 1944 un decreto legislativo luogotenenziale abroga la legislazione
razziale25; neppure nel settentrione della penisola, occupato dall’ex alleato
nazista e presidiato dalla Repubblica Sociale Italiana, dato che in quest’area
geograica la soluzione del “problema” degli ebrei è afidata ormai all’autorità di polizia e, più in generale, all’autorità amministrativa, non residuando
alcuno spazio di tutela giurisdizionale per gli interessi, e le vite, degli ebrei.
In un contesto diverso, con le leggi razziali il giudice, il giudice della nostra
Repubblica, dovrà fare i conti, poi, a partire dal 1955, ino ai nostri giorni, per
stabilire se, e in che misura, ai cittadini italiani, che subirono atti di violenza
in ragione dell’appartenenza alla razza ebraica, spetti il beneicio economico
previsto, al ricorrere di determinate condizioni, dalla legislazione risarcitoria26.
Come, dopo il 1938, la giurisprudenza, la scienza giuridica, si atteggiò nei
confronti della legislazione razziale? Quale fu la reazione dell’ordine giuridico
all’introduzione delle leggi razziali? Si può provare o misurare la resistenza,
il grado di plasticità, che i dogmi, le forme, le esperienze su cui si era fondato
ino a quel momento l’ordine giuridico opposero alle nuove regole razziali?
21
Legge 24 febbraio 1941, n. 158, Autorizzazione all’Ente di gestione e liquidazione immobiliare a delegare agli Istituti di credito fondiario la gestione e la vendita degli immobili
ad esso attribuiti (GU n. 79, 2 aprile 1941).
22
Legge 19 aprile 1942, n. 517, Esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo
(GU n. 126, 28 maggio 1942).
23
Legge 9 ottobre 1942, n. 1420, Limitazioni di capacità degli appartenenti alla razza
ebraica residenti in Libia (GU n. 298, 17 dicembre 1942).
24
R.D. 20 gennaio 1944 n. 25, Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici
dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica
(GU 9 febbraio 1944 n. 5) convertito nel D.L.L. 19 ottobre 1944 n. 306 (GU 16 novembre
1944 n. 82).
25
Complesse le vicende legate al regio decreto legge n. 26 del 20 gennaio 1944 la cui
pubblicazione fu disposta solo nell’ottobre successivo col decreto legislativo luogotenenziale,
5 ottobre 1944, n. 252. Cfr. in questo volume il contributo di P. Caretti.
26
Sul punto rinvio al mio Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007, e al contributo
di S. Di Salvo in questo volume.
Giuseppe Speciale
209
È proprio dall’ordinamento giuridico che intendo prendere le mosse. Comincio con una breve rassegna delle norme che ho scelto come le più signiicative per il discorso che intendo condurre. La prima norma che riveste un
ruolo importante nella nostra vicenda è quella contenuta nell’art. 26 del R.D.
1728/1938 del 17 novembre 1938. Il decreto costituisce il nucleo principale
del corpus legislativo razziale antisemita: dà piena attuazione alle direttive che
sono contenute nella Dichiarazione sulla razza licenziata dal Gran Consiglio
il 6 ottobre del 1938. Limitiamo la nostra attenzione al dettato del solo art.
26 del RD 1728/1938
Art. 26. Le questioni relative all’applicazione del presente decreto saranno
risolte, caso per caso, dal Ministro per l’interno, sentiti i Ministri eventualmente
interessati, e previo parere di una Commissione da lui nominata. Il provvedimento non è soggetto ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via
giurisdizionale.
Il testo normativo non sembra lasciare spazio a invenzioni interpretative.
Con l’art. 26 l’ordinamento prevede che sia devoluta al Ministro dell’Interno la
risoluzione delle questioni che eventualmente nascano dall’applicazione della
legislazione razziale e che la decisione presa dal Ministro sia sottratta a qualunque forma di gravame. Appare evidente che una disposizione di tal genere
lacera profondamente la trama del tessuto ordinamentale privando il gruppo di
soggetti dell’ordinamento, destinatario di tale disposizione, dei mezzi di tutela
amministrativa e giurisdizionale ordinariamente disponibili per i consociati.
È evidente, cioè, che l’art. 26 introduce una norma di carattere ‘eccezionale’
nell’ordinamento, istituendo quasi una giurisdizione speciale in capo al Ministro
dell’interno e devolvendo al Ministro la soluzione, caso per caso, delle questioni
relative all’applicazione del decreto razziale. Tale lettura del signiicato della norma è sorretta anche dalla circolare del Ministero dell’interno, Direzione Generale
Demograia e Razza, del 22 dicembre 1938 n. 9270, che così spiega l’art. 26:
«Art. 26. Questo articolo stabilisce la competenza del Ministro dell’interno a risolvere le questioni relative all’applicazione del provvedimento. Nessuna controversia,
pertanto, nella quale sia in discussione l’applicabilità o meno, in singoli casi, dei
principi razzistici affermati dal provvedimento può essere sottratta alla competenza
del Ministro dell’interno e risolta da autorità diverse dal Ministro stesso, il quale
ha alle proprie dipendenze l’unico organo specializzato nella materia: la Direzione
Generale per la Demograia e la Razza. La disposizione, peraltro, non si riferisce a
quelle questioni o controversie che, pur sorgendo dall’applicazione della legge di cui
trattasi, siano deferite, dalle norme vigenti, ad altri organi e che non implichino, comunque, alcun giudizio su questioni razzistiche: tali sono, ad esempio, le controversie
attinenti al trattamento di quiescenza o di licenziamento del personale dispensato a
termini dell’art. 20 della legge»;
210 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Per quanto si tratti solo di una circolare, nella sostanza si tratta di un documento riferibile al Ministro dell’interno, cioè al capo del governo e duce
del fascismo27.
Un’altra norma centrale per l’itinerario che propongo è quella contenuta
nell’art. 1 del codice civile del 1942. Il 15 dicembre del 1938 nella Gazzetta
Uficiale del Regno veniva pubblicato il regio decreto 1852 del 12 dicembre
contenente il primo libro del Codice Civile. Il codice si apriva all’art. 1,
«le limitazioni della capacità civile derivanti dall’appartenenza a determinate
razze sono stabilite da leggi speciali»
con una previsione di limitazione della capacità giuridica sulla base dell’appartenenza a determinate razze che consacrava al più alto livello l’irrompere
del concetto di razza nell’ordinamento italiano. Al più alto livello per la sedes
(il Codice civile) e per la materia (la capacità giuridica, pietra angolare della
stessa soggettività giuridica).
Non era la prima volta che la razza assumeva funzione e valore giuridici:
già il 19 aprile 1937 con il regio decreto n. 880 si era istituito il reato di madamato e si era issata la pena della reclusione ino a cinque anni per coloro
che avessero intrattenuto una “relazione d’indole coniugale con persona suddita”; nel 1938, da settembre, almeno, si era dato il via alla legislazione in
difesa della razza, alla articolata, dettagliata e invasiva legislazione antisemita.
Assolutamente disumana, isola dalla società nazionale gli ebrei, ne comprime
fortemente i diritti, ne mortiica la dignità escludendoli dalle scuole, dal lavoro,
dalla vita civile, tuttavia non commina loro pene capitali né prevede, almeno
nel momento del suo esordio, deportazioni che si concludano con stermini. Non
prevede, cioè, soluzioni che avrebbero potuto più facilmente suscitare gesti
generosamente eroici, o comunque prese di posizione ‘meta-giuridiche’, quali
quelli che si ebbero a partire dalla seconda metà del 1943, quando fu chiaro
a tutti, almeno nei territori controllati dai nazisti e dai fascisti della RSI, che
per gli ebrei si erano chiusi anche i residui spazi di tutela e che iniziava per
loro un cammino verso la distruzione collettiva. Ma la norma di cui all’art.
1 del nuovo codice aveva ben altro rilievo. Collegava la capacità giuridica,
il grado di pienezza della capacità, all’appartenenza a determinate razze e riservava alle leggi speciali il compito di issare le limitazioni della capacità28.
27
Sul potere del duce di interpretare autenticamente la legge cfr. A. Jamalio (consigliere di
Appello addetto alla Corte di Cassazione), L’“interpretazione autentica” del Duce, in Rivista
di Diritto pubblico 31, 1939, pp. 302-325 e la nota di A.C. Jemolo apposta alla sentenza Consiglio di Stato, sez. V, 11 luglio 1941 (Pres. Fagiolari, est. Barra Caracciolo), Falco c. Banco
di Napoli, ne Il Foro Italiano 66, 1941, III, coll. 249-250.
28
Sul punto cfr., in particolare, P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 4.
L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma Bari 2001, pp. 213-306. e il contributo di F.
Treggiari in questo volume, a cui devono aggiungersi la letteratura citata in Speciale, Giudici
Giuseppe Speciale
211
L’art. 1 del codice costituiva una cesura, una cesura forte, rispetto alla tradizione codicistica che da Napoleone in poi non aveva conosciuto limitazioni
della capacità ancorate all’appartenenza alla razza e il nitido dettato testuale
rivelava un signiicato che non si prestava, non si sarebbe potuto prestare, a
interpretazioni equivoche: in presenza di una norma di tal fatta, collocata, in
apertura del Codice civile, non si sarebbe potuto sostenere in alcun modo che
il concetto di razza era estraneo all’ordinamento italiano.
Concludendo questa rassegna di norme, sia pure solo incidentalmente, merita ricordare una norma di qualche anno successiva, una norma che nasce dalle
ceneri dell’esperienza oggetto del nostro studio, e che è consacrata nell’art.
113 della nostra Costituzione.
L’incipit dell’articolo 113, quel “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi
legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”, quel
“sempre”, in particolare, sono dettati quando l’esperienza delle leggi razziali
è ancora viva, bruciantemente viva. E qui, sia pure sempre incidentalmente,
possono ricordarsi le parole pronunciate il 30 giugno 1946 da Ferdinando
Rocco, estensore della Relazione della Commissione speciale all’Adunanza
Generale del Consiglio di Stato. La Commissione, presieduta da Meuccio
Ruini, incaricata dello studio per la riforma del Consiglio di Stato, era stata
nominata con decreto presidenziale il 10 maggio 1946 ed era composta, oltre
che dallo stesso Rocco, dai presidenti di sezione Oliviero Savini Nicci, Arnaldo De Simone, Efrem Ferraris, Renato Malinverno, Carlo Petrocchi, Arnaldo
Petretti e dai consiglieri Antonino Papaldo, Carlo Bozzi, Luigi Miranda,
Antonio Sorrentino, Agostino Maccchia, Gaetano Vetrano, Giuseppe Rohersfen, Luigi Aru. Ho ricordato i magistrati che componevano la commissione
perché ho incontrato alcuni di loro nel corso dei miei studi e furono proprio
tra i magistrati italiani che, ricorrendo ad artiizi interpretativi, riuscirono a
contenere gli effetti eversivi, da loro ritenuti eversivi, della legislazione razziale: mi riferisco in particolare a Ferdinando Rocco, Savini Nicci, Miranda,
Malinverno, Vetrano, Bozzi.
Ascoltiamo alcuni passi del discorso di Rocco:
«…Preliminarmente può, con sicurezza, affermarsi che la già rilevata iducia dalla
quale è da ogni parte circondato il nostro Istituto deriva soprattutto dalle prove di
coraggiosa indipendenza costantemente offerte al pubblico proprio dalla giurisdizione del Consiglio di Stato, non mai smentite neppure durante il regime dittatoriale,
indipendenza non inferiore a quella di nessuna altra magistratura italiana, come
pubblicamente ebbe a proclamare il più insigne maestro di diritto pubblico vivente
e razza nell’Italia fascista, cit, e in E. De Cristofaro, Codice della persecuzione. I giuristi e
il razzismo nei regimi nazista e fascista, Torino 2009.
212 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
e venerato statista – Vittorio Emanuele Orlando – onde mai l’esperienza italiana
simili riforme potrebbe suggerire… Premesso che nessun atto di potere esecutivo in
un perfetto sistema di guarentigie giuridiche deve, per ragione alcuna, sfuggire ad
un permanente controllo giurisdizionale, è facile constatare che, a questo riguardo,
la legislazione italiana presenta due oggettive deicienze, non riparabili se non in
sede di riforma costituzionale dello Stato. La prima, di carattere più generale, consiste nella possibilità, purtroppo, con frequenza tradotta in atto, che il Governo, in
forza di poteri legislativi assunti anche senza delegazione del Parlamento, escluda
o limiti tale controllo. A questa pericolosa ed infrenabile tendenza dei Governi le
Magistrature, e all’avanguardia il Consiglio di Stato, hanno vigorosamente reagito
mediante la restrittiva interpretazione dei provvedimenti legislativi che ne sono stati
antigiuridico frutto, ma urgentemente si impone un rimedio radicale: il tassativo
divieto, da sancirsi in una norma costituzionale, di siffatti attentati al sacro diritto di
difesa del cittadino, da parte almeno del potere esecutivo in veste di legislatore»29.
Le parole di Rocco riassumono assai eficacemente lo sforzo prodotto dalla
magistratura, da tutta la magistratura, sia pure con qualche eccezione, per
limitare gli effetti ritenuti eversivi della legislazione razziale.
Qui ritengo opportuno issare un altro punto.
Qualunque sia stata la ragione che ha indotto il fascismo all’adozione della
legislazione razziale, qualunque sia stata la ratio delle norme che tutelano la
razza italiana, è importante innanzitutto capire quale reazione ha suscitato la
legislazione razziale nella comunità nazionale. Nel cuore della civilissima
Europa, nel secolo XX, il legislatore limitò la capacità giuridica dei cittadini
in base alla loro appartenenza ad una razza-religione e produsse un articolato
corpus di norme che condusse al compiuto e perfetto isolamento – ancor prima
che all’annientamento della vita – dei membri della minoranza ebraica; lo stato
mise in moto una complessa e invasiva macchina amministrativa per attuare
tale legislazione; l’opinione pubblica, adeguatamente preparata da un’attenta
e ben orchestrata campagna di stampa, accolse nella sua larga maggioranza le
novità legislative con acquiescenza cinica, opportunistica, timorosa, convinta
o anche solo conformista. Quanto è successo in quegli anni è un elemento costitutivo della nostra identità di italiani ed europei. La reazione della comunità
nazionale può essere misurata, semplicisticamente ed esempliicativamente,
con una scala ideale i cui gradi corrispondano al dissenso, all’acquiescenza,
all’adesione. Adesione acquiescenza e dissenso esprimono comunque una scelta, se non sempre convinta e consapevole, sempre voluta. Pertanto, utilizzando
ora il termine consenso in un’accezione lata, comprensiva dell’acquiescenza
e dell’adesione, non mi sembra arrischiato sostenere che le norme razziali
29
F. Rocco, Il Consiglio di Stato nel nuovo ordinamento costituzionale, Relazione della
Commissione speciale all’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, in Il Foro Amministrativo 22, 1946, parte IV, coll. 1-26 (le citazioni sono tratte dalla col. 14 e dalle colonne 18-20).
Giuseppe Speciale
213
riscossero un qualche consenso della comunità nazionale, consenso talvolta
convinto, talvolta imposto, talvolta indotto da una eficace campagna di stampa,
talvolta, inine, dovuto a ragioni di opportunistica convenienza30. Comunque la
legislazione antiebraica non suscitò un aperto dissenso, anzi in alcuni casi gli
italiani ariani si mossero a licenziare i loro dipendenti ebrei anche in casi in
cui la legge non imponeva il licenziamento. Il regime si avvalse dell’adesione
di pochi per consolidare l’acquiescenza dei molti e gli intellettuali – molti, non
tutti – si prestarono volentieri all’operazione. In questo senso non mi sembra
arrischiato sostenere che le norme razziali godevano di un diffuso consenso
e potevano presentarsi come un rilesso del comune sentire degli italiani31.
Tuttavia i giudici, naturalmente non tutti, non interpretarono quelle norme
alla luce del comune sentire, alla luce di una sorta di “sentimento comune nazionale”, presunto o rispondente al vero; si attennero, invece, ad una rigorosa
30
Non si vuole di certo disconoscere o sottovalutare il capillare controllo dello stato totalitario nei termini esemplari ricordati da E. Rossi in una sua conferenza romana del 23 giugno
1963, ora in Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, conino. Scritti e
testimonianze, a cura di G. Armani, Parma 1975, p. 202: «Lo stato totalitario moderno dispone
di mezzi per condizionare i cervelli, e per imporre l’obbedienza ai dissenzienti, enormemente
più eficaci di quelli di cui disponevano i regimi assoluti del passato. Chi non può dimostrare
«buona condotta» si trova chiuso dentro le frontiere come un topo dentro la trappola... l’oppositore non ha alcuna possibilità di entrare nella pubblica amministrazione, non ottiene i
permessi, le licenze, le autorizzazioni necessarie per svolgere una qualsiasi attività redditizia;
ogni impresa gli viene stroncata dagli accertamenti tributari; le banche gli negano il ido; la
clientela l’abbandona; non trova alcuno disposto a compromettersi, assumendolo al lavoro... è
una pecora segnata; sa di essere continuamente spiato in ogni sua mossa, in ogni suo pensiero,
dal portiere, dai conoscenti, dalle persone di servizio... La polizia, l’esercito, la magistratura
costituiscono i pezzi di un gigantesco meccanismo che può schiacciarlo in ogni suo momento,
senza che nessuno se ne accorga, come la macchina schiaccia un chicco di grano...». Si vuole
qui affermare che l’impopolarità dei provvedimenti razziali, la reazione della chiesa e il mugugno di parte della popolazione non frenò e tanto meno arrestò il programma del regime. Per
le reazioni dell’opinione pubblica alle leggi razziali cfr. C. Schwarzenberg, Diritto e giustizia
nell’Italia fascista, Milano 1977, in particolare, pp. 158-161 e S. Colarizi, L’opinione degli
italiani sotto il regime. 1929-1943, Roma Bari 1991, in particolare, pp. 242-256.
31
In questa prospettiva non stupisce la corsa di molti intellettuali, impegnati ad accreditarsi
come razzisti per procurarsi popolarità e garantirsi i favori del regime. Così forse può spiegarsi
l’uso (l’abuso) del termine razza nei titoli di alcune pubblicazioni edite tra il 1938 e il 1945:
spesso il termine ricorre in pubblicazioni che riguardano, per esempio, l’igiene ‘bucco dentale’
o la pedagogia infantile... Oppure può succedere che un noto botanico si impegni a indagare
le origini della razza italiana con la pretesa di issare i fondamenti della politica razzista e
che un illustre letterato scriva la prefazione del volumetto. Non mi sembra che tale tipo di
atteggiamento degli intellettuali nei confronti del potere avvenga solo nelle dittature e non
mi sembra che possa sempre, sic et simpliciter, attribuirsi ad opportunismo o liquidarsi con il
termine piaggeria. Non può infatti escludersi che alcuni di essi siano stati dei convinti razzisti
e poi siano tornati sulle proprie convinzioni. Non sempre, poi, gli studiosi che si dedicano
oggi a ricostruire le biograie intellettuali di chi durante il fascismo aderì convintamente o
comunque espresse il suo consenso al regime, sono del tutto esenti da pruderie scandalistiche:
cfr., da ultimo, M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte (1938-1948), con pref.
di S. Romano, Milano 2005.
214 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
lettura delle norme alla luce dei principi generali dell’ordinamento, nell’ambito del quale cercarono di ricondurre le norme stesse con un’impegnativa
opera di sistematizzazione32. I giudici italiani, in breve, non abdicarono al
loro ruolo di interpreti dell’ordinamento per abbracciare quello di sacerdoti
del sentimento del popolo. Proprio tra la ine degli anni Trenta e i primi anni
Quaranta nella Germania nazista si teorizzava la ine del giudice interprete
del diritto e la nascita del giudice ritrovatore del diritto, la ine del giudice
“funzionario”, affermatosi con la recezione del diritto romano in Germania, e
la nascita, la rinascita, del giudice “popolare”, che “ritrova” il diritto, guidato
dalla “conoscenza degli uomini”, dei “sentimenti umani” e dei “procedimenti
vitali”33. In quegli anni il sottosegretario alla giustizia tedesco Kurt Rothenberger affermava:
«Il ritrovamento del diritto non è un processo intellettuale costruttivo o scientiico, ma è in primo luogo l’arte di conoscere gli uomini, di interpretare i sentimenti
umani e di rendersi conto dei procedimenti vitali. Il metodo odierno di istruzione,
invece, induce all’astrattezza del pensiero e all’estraneamento dal mondo. Il tanto
criticato giurista concettuale, che non vede l’uomo e la particolarità di ogni singolo
procedimento vitale, ma solo i concetti, deve sparire... Dal giudice apolitico, neutrale,
che si teneva in disparte nello Stato liberale dei partiti, si deve giungere al Nazionalsocialista dall’istinto sicuro che abbia una sensibilità per le grandi mete politiche
del movimento. Il giudice costituisce il legame tra il diritto e la politica. Soltanto
attraverso il giudice l’abisso fatale tra il popolo e il diritto, tra la concezione del
mondo e il diritto, può essere colmato. Quanto più subiettivamente ed esclusivamente
il giudice è legato alle idee del Nazionalsocialismmo, tanto più obiettive e giuste
saranno le sue sentenze»34.
32
Per tutti cfr. D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Torino 1955, pp. 17-39:
la testimonianza di Peretti Griva è assolutamente credibile proprio perché è suffragata dalle
sentenze e dalle note scritte proprio in quegli anni. Nel caso del giudice Peretti Griva, come
vedremo, non siamo di fronte ad una tardiva e autoassolutoria testimonianza. Signiicativamente
egli ricorda il variegato atteggiamento dei giudici.
33
Proprio nel 1938 si conclude il processo, iniziato nel 1933, di graduale trasformazione
del concetto e della prassi dell’interpretazione del diritto nella giurisdizione tedesca. Al diritto, ai principi generali dell’ordinamento – che costituivano i cardini intorno ai quali i giudici
tedeschi imperniavano l’interpretazione e l’applicazione delle norme, anche di quelle razziali
– si sostituisce l’ideologia nazista che informa di sé l’ordinamento, anche contro la lettera e
il senso originari dell’ordinamento stesso: cfr. E. Fraenkel, Il doppio stato. Contributo alla
teoria della dittatura, Torino 1983, pp. 119-129.
34
Ecco alcuni passi di Kurt Rothenberger (per 16 mesi tra il 1942 e il 1943 sottosegretario di Stato del Reich al Ministero della Giustizia e ideatore del cosidddetto Rothenberger System, un sistema per rendere assolutamente eficace il controllo della politica sulla
magistratura, che doveva essere formata da pochi giudici), La situazione della giustizia in
Germania, in Rivista di diritto pubblico 35, 1943, pp. 1-8: «La concezione nazionalsocialista
del diritto va ancora più in là. Essa chiede dal giudice che nella interpretazione egli si ponga
contro il testo e contro lo scopo della legge quando l’applicazione di una legge antiquata
Giuseppe Speciale
215
Nelle sentenze italiane che ho studiato, invece, i motivi, i sentimenti, le
convinzioni che costituiscono il comune sentire e che muovono e guidano in
giudizio gli attori e i convenuti e che perciò nel giudizio si rilettono, sono
rimasti, come dovevano, fuori dai ragionamenti e dalle decisioni dei giudici,
inendo per essere, come dovevano, irrilevanti per i giudizi resi dai giudici.
Punto di riferimento del giudice italiano rimane l’ordinamento giuridico, con
le sue astratte e complesse architetture. Quali sono poi i sentimenti umani e
i procedimenti vitali con cui il giudice italiano avrebbe dovuto fare i conti?
L’ebreo, italiano o straniero, convenuto o attore o imputato, in questo
contesto sembra essere assolutamente marginale. Marginale è la posizione
dell’ebreo rispetto a quella del giudice, che applica, costretto per ragioni d’uficio, eventualmente anche al di là di un’intima convinzione, le norme razziali.
Marginale è la posizione dell’ebreo rispetto all’ordinamento sostanziale, alla
comunità nazionale, da cui proprio a causa di quelle norme è stato escluso.
Eppure l’ebreo, il discriminato, il perseguitato, il diverso da espellere, l’oggetto
della legislazione razziale meticolosamente dettagliata, inisce, al di là di ogni
sua intenzione, per costituire e incarnare l’elemento scandaloso che costringe
contrasterebbe con il sano sentimento del diritto nel popolo e in ispecie con l’idea della
comunità nell’ordinamento giuridico. Ciò vale in modo particolare per circostanze di una
nuova fattispecie, che non sono state ancora tenute presenti dalla legge. Il giudice odierno
non deve essere perciò un “applicatore” della legge, ma un ritrovatore del diritto. Per di più
l’odierno legislatore allarga egli stesso la igura del giudice per dargli la nuova posizione
di plasmatore e di creatore del diritto; una tendenza che è particolarmente chiara nel campo
della giurisdizione volontaria. Sano sentimento giuridico del popolo, decoro e costume,
onorabilità e concezione nazionalsocialista del mondo sono, accanto a molte altre clausole
generali, quelle che la legge presenta al giudice e che questi deve spontanemente comprendere
e vivere...». In Italia il dibattito si era già aperto da parecchi anni: al proposito interessanti
le rilessioni di A.C. Jemolo, Il nostro tempo e il diritto, in Archivio giuridico 23, 1932, pp.
149 e 157 e P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in Rivista di diritto processuale civile,
1939, I, p. 121, nonché le osservazioni di A. Baratta, Positivismo giuridico e scienza del
diritto penale. Aspetti teoretici e ideologici dello sviluppo della scienza penalistica tedesca
dall’inizio del secolo al 1933, Milano 1966, in particolare pp. 23-48. Sul dibattito apertosi
in Germania sul ruolo dei giudici cfr. anche H. Schorn, Der Richter im Dritten Reich: Geschichte und Dokumente, Frankfurt am Main 1959; H. Weinkauff, Die deutsche Justiz und
der Nationalsozialismus: Ein Uberblick, in Die deutsche Justiz und der Nationalsozialismus,
Quellen und Darstellungen zur Zeitgeschichte, vol. 16, I, pp. 18-188, Stuttgart 1968; O.P.
Schweling, Die deutsche Militärjustiz in der Zeit des Nationalsozialismus, Marburg 1978,
e i contributi di M. Stolleis: Gemeinwohlformeln im nationalsozialistischen Recht, Berlin
1974; Justizalltag im Dritten Reich mit Beitragen von W. Benz [et al.], herausgegeben von
B. Diestelkamp und M. Stolleis, Frankfurt am Main 1988; Recht im Unrecht. Studien zur
Rechtsgeschichte des Nationalismus, Frankfurt am Main 1994; The law under the swastika:
studies on legal history in nazi Germany, transl. Th. Dunlap, foreword M. Zimmermann,
Chicago 1998; Reluctance to glance in the mirror: The Changing Face of German Jurisprudence after 1933 and post-1945, in Darker Legacies of Law in Europe. The Shadow of
National Socialism and Fascism over Europe and its Legal Traditions, a cura di Ch. Joerges
N. Singh Ghaleigh, Oxford Portland, Oregon 2003) pp. 1-18.
216 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
l’altro, il non ebreo, il giudice a rilettere, prima di tutto su se stesso, sulla
propria storia, sulla propria identità35.
E l’ariano? L’italiano non ebreo, attore o convenuto in giudizio perché
vuole avvantaggiarsi della legislazione razziale? Anche lui nella prospettiva
di questo lavoro riveste un ruolo assolutamente marginale. Ma anche lui
scandalosamente costringe ad una rilessione. Egli infatti ha capito forse il
signiicato essenziale della legislazione razziale, il signiicato più vero, che è
nascosto dietro la trama intessuta delle dettagliatissime regolamentazioni dei
diritti e degli ‘spazi’ consentiti agli ebrei. Il legislatore si è cimentato nella
costruzione di un insieme di regole che da un lato sanciscono meticolosamente
esclusioni (dalla scuola, dal pubblico impiego, dalla proprietà, dalle professioni, etc.), dall’altro pongono limiti a tali esclusioni e prevedono garanzie
per gli ebrei: si prevedono le scuole e gli albi professionali per gli ebrei; si
issano i limiti entro cui è possibile per gli ebrei continuare a possedere terreni
e fabbricati e si statuisce la cartolarizzazione delle quote eccedenti tali limiti;
si stabilisce che gli ebrei licenziati a causa delle leggi razziali possano godere
della pensione anche se abbiano maturato un’anzianità di servizio inferiore
rispetto a quella prevista dal diritto comune. Una legislazione siffatta è stata
percepita dall’ariano, dall’italiano non ebreo, nel suo nucleo essenziale. Forse
l’ariano ha colto supericialmente e rozzamente il senso che il legislatore ha
attribuito alle norme in difesa della razza, ma ha lucidamente capito gli effetti
ultimi e più veri che la legislazione razziale persegue: l’ebreo non è più un
soggetto di diritti.
Ma per i giudici italiani non avviene il rovesciamento auspicato da Rothenberger. Essi non abdicano alla loro funzione, continuano a fare i conti con
i concetti giuridici, più che con il sentimento comune. Del corpus normativo
razziale essi ammettono il valore eccezionale, ma negano il valore rivoluzionario. Così, la legislazione razziale, che pure concorre a costituire l’ordinamento,
viene applicata in misura e in modo da non sconvolgere del tutto le complesse e
astratte architetture dell’ordinamento. I giudici riconoscono che la legislazione
razziale, al pari di qualunque provvedimento legislativo legittimamente posto,
modiica l’ordinamento, ma negano sempre e sistematicamente che abbia la
forza di sconvolgere l’ordinamento ab imis fundamentis. In questo senso, come
vedremo, può spiegarsi, per esempio, l’interpretazione dell’art. 26 del decreto
1728/1938 – che riserva al ministro dell’Interno la decisione delle questioni
relative all’applicazione del decreto stesso, escludendo qualsiasi forma di
gravame, amministrativa e giudiziaria – o dell’art. 6 del decreto 126/1939,
E anche in questo reciproco rilettersi l’ebreo porta la propria condizione esistenziale –
mi riferisco a quella descritta da W. Jankélévitch, La coscienza ebraica, Firenze 1995 –: egli
è indeinibile perché è qualcosa e allo stesso tempo qualcosa d’altro, ma non accettando di
essere come gli altri, né un altro dagli altri... «accetta di essere un altro da sé sviluppandosi
all’ininito, sfuggendo a sé stesso».
35
Giuseppe Speciale
217
che prevede la possibilità che il coniuge ebreo doni parte del suo patrimonio
al coniuge non ebreo.
Il riconoscimento del carattere eccezionale della legislazione razziale favorisce un’interpretazione programmaticamente restrittiva delle norme che
la costituiscono e ne frena la potenzialità espansiva. Al contrario, se si fosse
riconosciuto il carattere rivoluzionario del corpus razziale, e si fosse ammesso
che lo stesso corpus costituisse un microsistema autonomo interno all’ordinamento e portatore di principi propri, l’interprete avrebbe avuto maggiore
dificoltà ad appellarsi ai principi generali dell’ordinamento per arginare e
limitare la portata della legislazione razziale36.
Inoltre, i giudici tengono a precisare che la legislazione razziale non ha il
rango di legge costituzionale. La Dichiarazione sulla razza, infatti, solennemente proclamata il 6 ottobre del 1938 dal Gran Consiglio – così come il R.D.
1728/1938 (che non è, neppure formalmente, una legge, bensì un decreto) – non
possiede i crismi che l’ordinamento prevede per le leggi costituzionali (art.
12 della legge 2693/1928)37. Essa ha solo «valore di principio, proveniente
dal più alto consesso costituzionale, invocabile nei casi dubbi ed in mancanza
di norme di diritto positivo», ma nulla di più. Pertanto la disciplina del R.D.
1728/1938 e gli stessi principi contenuti nella Dichiarazione possono validamente essere innovati con una norma di legge successiva38.
36
L’indagine sulla condotta e sulla linea interpretativa della magistratura e della cultura
giuridica, sia che queste appaiano consolidate in una tendenza uniforme sia che si differenzino
in distinti orientamenti, potrebbe contribuire signiicativamente al dibattito sulla ‘autonomia’
e sulla ‘originalità’ della cultura giuridica fascista e sul rapporto tra magistratura e regime.
Cfr., sul punto, i contributi di P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento
storiograico sui rapporti tra codiicazione civile e regime, in Quaderni iorentini per la storia
del pensiero giuridico moderno 28, 1999, pp. 175-292; di A. Somma, Fascismo e diritto: una
ricerca sul nulla?, in Rivista trimestrale di Diritto e Procedura civile, 2001, pp. 597-663; di A.
Mazzacane, La cultura giuridica del fascismo: una questione aperta, e di G. Melis, La storiograia giuridico-amministrativa sul periodo fascista, entrambi pubblicati in Diritto economia e
istituzioni nell’Italia fascista, a cura di A. Mazzacane, Baden Baden 2002, rispettivamente alle
pp. 1-20 e 21-50; di O. Abbamonte, La politica invisibile. Corte di Cassazione e magistratura
durante il fascismo, Milano 2003.
37
«Deve essere sentito il parere del Gran Consiglio su tutte le questioni aventi carattere
costituzionale. Sono considerate sempre come aventi carattere costituzionale le proposte di
legge concernenti: 1) la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della corona; 2) la
composizione e il funzionamento del Gran Consiglio, del Senato del Regno e della Camera dei
deputati; 3) le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo, primo ministro segretario di
stato; 4) la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; 5) l’ordinamento sindacale
e corporativo; 6) i rapporti tra lo Stato e la Santa Sede; 7) i trattati internazionali, che importino
variazione al territorio dello Stato e delle colonie, ovvero rinuncia all’acquisto di territori».
38
Così Consiglio di Stato, sez. IV, 31 luglio 1940 (Pres. Rocco, est. Siragusa), Jona c.
Ministero della Guerra, in Rivista di diritto pubblico 32, 1940, II, pp. 603-604; pubblicato
anche ne Il Foro Italiano 66, 1941, III, coll. 18-21. Nel caso speciico il giudice ribadisce che
né la Dichiarazione, né il R.D. 1728/1938 sono leggi di rango costituzionali per concludere
che il R.D. 2111 del 22 dicembre 1938 (art. 5) può ben escludere, anche dal servizio militare
218 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
L’atteggiamento dei giudici può riassumersi nell’espressione che talora essi
usano: «rimane ferma la regola». Quasi che le norme razziali siano sentite
come qualcosa di estraneo, totalmente estraneo, all’ordinamento giuridico.
Nonostante l’art. 1 del nuovo codice civile i giudici continuano a sostenere
che la razza è un concetto estraneo all’ordinamento giuridico italiano.
Uno dei nodi cruciali che deve essere sciolto dai giudici è proprio l’interpretazione dell’art. 26 del RD 1728 del 1938. La lettera dell’articolo 26
«Le questioni relative all’applicazione del presente decreto saranno risolte, caso
per caso, dal Ministro per l’interno, sentiti i Ministri eventualmente interessati, e
previo parere di una Commissione da lui nominata. Il provvedimento non è soggetto
ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale».
chiaramente si riferisce a tutte le questioni relative all’applicazione del
decreto (almeno a quelle che non siano regolate espressamente) ed esclude
nettamente qualunque forma di gravame nei confronti del provvedimento ministeriale. Appare evidente, come abbiamo già detto, che una disposizione di
tal genere lacera profondamente la trama del tessuto ordinamentale e introduce
una norma di carattere ‘eccezionale’ nell’ordinamento. Ma il giudice si guarda
bene dall’impostare così il proprio ragionamento. Anzi, anche in questo caso
«invertendo i termini della questione»39 in modo assolutamente consapevole,
assume che l’art. 26 non può volere escludere dalle ordinarie garanzie giurisdizionali un campo che «intacca la stessa fondamentale capacità giuridica
delle persone»40: pertanto le ‘questioni’ disciplinate dall’art. 26 non possono
che essere solo quelle (anzi solo quella) relative all’appartenenza alla razza
ebraica. Per tale via il giudice pone un primo ostacolo all’irruzione di una norma ‘eccezionale’ all’interno dell’ordinamento, ne limita gli effetti dirompenti.
Chi, contro la giurisprudenza che si va consolidando, propugna l’estensione
della competenza esclusiva del ministro a ogni questione razziale, e quindi
anche alle questioni di stato e patrimoniali, fonda tale estensione sulla natura
politica del decreto 1728/1938. Da tale natura politica sarebbe derivata
di leva, gli ebrei discriminati, innovando, sul punto, il disposto del R.D. 1728/1938 (art. 14 e
art. 10) che disponeva l’esclusione solo per gli ebrei non discriminati. Accenna alla sentenza
G. D’Agostini, rilevando che con tale decisione si scongiurò il «paradosso di obbligare cittadini di religione ebraica a combattere a ianco dei nazi-fascisti», v. Rocco Ferdinando, in
G. Melis, Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia. Le biograie dei magistrati (1861-1948),
Milano 2006, pp.1317-1318.
39
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, ne Il Diritto ecclesiastico 53, 1942, pp. 296-304. Con nota di U. Bassano, Annullamento
di trascrizione di matrimonio concordatario per disparità di razza. Anche ne Il Foro Italiano
68, 1943, I, coll. 301-305. Si cita qui questo caso solo a tiolo esempliicativo e si rinvia per
questo e altri esempi al mio Giudici e razza nell’Italia fascista, cit.
40
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli
Lalatta, cit.
Giuseppe Speciale
219
«come rispondente alle intenzioni del legislatore la riserva di ogni decisione
al Ministro dell’interno, in quanto tutte le decisioni comporterebbero un giudizio
squisitamente politico»41.
Il giudice dimostra che tale tesi è insostenibile da un punto di vista logicogiuridico. Egli condivide l’idea che il decreto 1728 abbia una natura squisitamente politica e pertanto deinisce «indubbiamente vera la premessa» da cui muove
chi sostiene l’estensione della competenza esclusiva del Ministro. Ma aggiunge:
«non sembra invece esatta la conseguenza circa il giudizio politico inevitabile
nelle decisioni in materia di razza, colla successiva esclusione della sindacabilità da
parte degli organi giurisdizionali, giacché tale conseguenza non si riscontrerebbe
neanche se fosse indiscutibilmente stabilito ciò che si vorrebbe dimostrare, e cioè
la competenza esclusiva del Ministro dell’interno anche per le decisioni relative ai
diritti personali e patrimoniali»42.
Il giudice muove il suo ragionamento assumendo come vero ciò che i sostenitori della tesi estensiva vogliono dimostrare, cioè la competenza esclusiva
del ministro dell’interno e la conseguente imprescindibile natura politica dei
relativi provvedimenti. Afferma il giudice:
«Invertendo i termini della questione e considerando per ipotesi come ammessa
la competenza esclusiva del Ministro dell’interno, il giudizio politico sulle decisioni
di cui sopra, e quindi la natura di atti politici dei relativi provvedimenti, dovrebbe
ugualmente escludersi in applicazione dei principi sugli atti politici concordemente
affermati dalla giurisprudenza, secondo la quale sono atti politici «quei provvedimenti
della pubblica amministrazione che sono direttamente connessi coi superiori interessi
dello Stato» e «l’indagine sul concetto politico del provvedimento deve essere fatta
in relazione al singolo e concreto atto della pubblica amministrazione e non già nei
rapporti dell’esercizio, nel suo complesso, di quel potere di cui il provvedimento in
discussione è una manifestazione»43.
E, deinitivamente, conclude:
«Non si vede infatti come la singola decisione delle questioni su un diritto
patrimoniale, o personale, derivante dall’appartenenza alla razza ebraica potrebbe
ritenersi direttamente connessa coi superiori interessi dello Stato, tanto più che nes-
41
42
43
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
220 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
suna facoltà discrezionale è stata lasciata al Ministro dell’interno per le decisioni di
dette questioni»44.
Con quest’ultimo assunto il giudice prova che – se si assume come vera
e dimostrata la tesi della estensione della competenza esclusiva del ministro
– si giunge inevitabilmente a conclusioni insostenibili e irrazionali dal punto
di vista giuridico; pertanto egli torna a proporre la tesi opposta, consapevole
anche della coerenza di questa rispetto al quadro ordinamentale complessivo:
«Non resta quindi menomamente scossa la interpretazione limitatrice data dalla
giurisprudenza all’art. 26 del regio decreto legge citato, la quale anzi trova elementi
di conferma tratti dai principi generali sugli atti amministrativi»45.
Ma con queste argomentazioni demolisce nella sua struttura portante la
legislazione razziale. Affermare che
«non si vede infatti come la singola decisione delle questioni su un diritto patrimoniale, o personale, derivante dall’appartenenza alla razza ebraica potrebbe ritenersi
direttamente connessa coi superiori interessi dello Stato»
equivale a negare l’essenza stessa della legislazione razziale. Come, infatti,
la legislazione razziale potrebbe e dovrebbe realizzare il superiore interesse
dello stato alla difesa della razza, il superiore interesse a eliminare le pericolose commistioni, se non anche attraverso le singole decisioni del potere
esecutivo su un diritto patrimoniale o personale? Riconoscere natura politica al
provvedimento legislativo e negare la stessa natura alla decisione dell’esecutivo che nel concreto attua il provvedimento serve a negare l’estensione della
competenza esclusiva del Ministro dell’interno. La legislazione razziale con
l’art. 26 del decreto 1728/1938 e con gli articoli 4 e 5 della legge 1024/1939
sembra volere riservare al potere esecutivo, al Ministro dell’interno, ogni
questione relativa all’applicazione delle leggi razziali (almeno ogni questione
che non sia sussumibile sotto una regola generale) e, con la ripetuta sanzione
dell’insindacabilità e dell’esclusione di ogni gravame, sembra volere escludere
in linea di massima l’intervento del potere giudiziario. L’argomentazione del
giudice che qui si è cercato di esporre è il grimaldello attraverso il quale il
potere giudiziario scardina l’impalcatura che il legislatore ha costruito per
blindare l’attività del potere esecutivo nell’esecuzione delle leggi razziali.
Demolita l’impalcatura, gli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale tornano
a essere disponibili per i destinatari delle leggi razziali.
44
45
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
Giuseppe Speciale
221
Ma, continua il giudice, ribadendo la ratio dell’interpretazione che costantemente è stata data all’art. 26,
«la giurisprudenza, spinta anche dalla necessità di limitare al massimo le rilevantissime eccezioni alla garanzia giurisdizionale in un campo che intacca la stessa
fondamentale capacità giuridica delle persone, ha inteso la parola «questione» non
come sinonimo di controversia, ma nel senso proprio e più stretto del punto incidentale pregiudiziale dalla cui soluzione discendono effetti previsti dalla legge (nullità
di trascrizione del matrimonio, licenziamento da pubblico impiego, ecc.). Di conseguenza, poiché unica questione pregiudiziale circa gli effetti personali e patrimoniali
derivanti dall’appartenenza alla razza ebraica è quella relativa alla appartenenza
alla razza ebraica, solo questa si è ritenuto riservare alla competenza del Ministro
dell’interno in virtù dell’art. 26 innanzi citato»46.
L’orientamento giurisprudenziale che qui si è per rapidi cenni ricostruito si afferma come assolutamente dominante e nasce per mano di Arturo
Carlo Jemolo, sua è una brevissima nota sul Foro Italiano a una sentenza
su una pensione negata a una maestra, la signora Moscati, nel 1939. Sarà
poi sostenuto da quasi tutta la giurisprudenza, Domenico Riccardo Peretti
Griva e Alessandro Galante Garrone in testa, e anche dalla dottrina, Piero
Calamandrei e altri47.
La lettura, vincente, di Jemolo, non era l’unica possibile e sostenibile e,
tuttavia, ebbe successo. Considerato che fu adottata non in pronunce isolate
ma in tante sentenze che concorsero a formare l’orientamento assolutamente
prevalente (quelle di senso contrario sono rarissime); considerato, ancora,
che i limiti del ragionamento del giudice che qui si sono evidenziati non sembrano di dificile individuazione, si ricava l’impressione che i giudici stiano
impegnando l’esecutivo, e il legislatore, in un braccio di ferro. La ratio della
legislazione sulla razza, a cui i giudici per ragioni d’uficio devono comunque
dare applicazione, viene, quasi sistematicamente, generosamente tradita48.
Il riconoscimento della natura eminentemente politica di tale legislazione (ma quale legislazione, poi, non ha natura eminentemente politica?)
diventa lo stratagemma retorico, a metà tra la strategia discorsiva e il gioco
di prestigio, attraverso il quale la magistratura rassicura il potere politico
garantendogli il rispetto (almeno formale) delle norme razziali; e proprio
la (troppo) ripetutamente asserita natura politica della legislazione razziale legittima in qualche modo i giudici a considerare la legislazione stessa
come un quid di extra-giuridico, di giuridicamente irrilevante, di estraneo
all’ordinamento, tale, comunque, da dovere essere interpretato, nel momento
46
47
48
Tribunale, Milano, 6 luglio 1942 (Pres. Parrella, est. Console), Pennati c. Pettorelli Lalatta, cit.
Cfr. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, cit., 51-60 e ad indic.
Cfr. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, cit., 59-171.
222 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
dell’applicazione giurisprudenziale, nel modo più restrittivo possibile, nel
modo cioè meno invasivo per l’ordinamento. La legislazione razziale non
è una testata d’angolo dell’ordinamento giuridico italiano – come invece si
sarebbe potuto, forse dovuto, valutare, considerato, tra l’altro, l’art. 1 del
codice civile non ancora in formale vigore, ma già sostanzialmente illuminante –, bensì una legislazione, di natura “eminentemente” politica, che si
preigge lo scopo di evitare pericolose commistioni razziali. L’“ingegnosità”
del “pretesto dialettico” a cui ricorrere per contrastare, limitare il più possibile, gli effetti della legislazione razziale, è tutta qui: la legislazione razziale
non può informare di sé tutto l’ordinamento, ma, al contrario, va interpretata
e applicata senza sconvolgere le igure fondamentali dell’ordinamento oltre
la misura strettamente indispensabile all’applicazione delle norme in essa
contenute. Facendosi scudo dell’ordinamento, il giudice limita gli effetti
potenzialmente espansivi e invasivi delle norme razziali. Il richiamo al
principio di legalità e al formalismo legale costituisce lo strumento per il
“generoso tradimento”.
Vorrei ricordare un caso fra i tanti, a proposito del ruolo svolto dal Consiglio di Stato. È un caso interessante per lo status degli ebrei stranieri in Italia.
Il tedesco Dietrich Thomas – battezzato prima del I settembre 1938, iglio di
madre ebrea e di padre ariano (per la legislazione tedesca Mischling, “meticcio” o “bastardo” di I o II grado, a seconda che abbia due nonni o un solo
nonno ebreo) – conviene in giudizio l’università di Bologna e il Ministero degli
esteri italiano che gli hanno revocato il già concesso nulla osta all’iscrizione
all’università di Bologna, perché, in quanto iglio di madre ebrea, ancorché
di padre ariano e battezzato, in Germania gli sarebbe stata vietata l’iscrizione
all’università49.
Il Consiglio di Stato richiama l’art. 147 del testo unico delle leggi sulla
istruzione superiore (Regio Decreto 31 agosto 1938, n. 1592) che stabilisce
che gli stranieri possono essere ammessi a frequentare le Università nel Regno,
qualora siano ritenuti suficienti i titoli di studio conseguiti all’estero. Proprio
nella valutazione dei titoli riconosce l’esercizio di un potere discrezionale in
capo all’autorità amministrativa (nella specie il Ministero degli esteri e quello
dell’educazione nazionale). Senza dubbio l’autorità amministrativa nell’esercizio di tale potere discrezionale opera una valutazione di merito e pertanto
l’esercizio di tale potere è sottratto al sindacato del giudice amministrativo.
Ma, aggiunge il Consiglio di Stato:
49
Consiglio di Stato, sez. IV, 2 giugno 1943 (Pres. Rocco, est. Bozzi), Thomas Dietrich c.
Università di Bologna e Ministero degli esteri, in Rivista di diritto pubblico 35, 1943, II, pp.
319-320; anche ne “Il Foro Amministrativo” 19, 1943, I.I, pp. 130-132. Cfr. anche D’Agostini,
v. Rocco Ferdinando, in Melis, Il Consiglio di Stato, cit., pp.1317-1318.
Giuseppe Speciale
223
«la fattispecie presenta due peculiarità, che vanno messe in evidenza: la prima si
è che il potere discrezionale era stato già esercitato, mediante la richiesta di iscrizione tardiva del Thomas, fatta proprio dal Ministero degli Affari Esteri a quello della
Educazione Nazionale. L’atto impugnato rappresenta, perciò, esercizio del potere
di revoca: ora, per quanto non possa negarsi, in linea astratta, all’Amministrazione
il potere di revocare i propri atti, illegittimi o inopportuni, è, però, insegnamento
costante che l’esercizio di questo potere, specie quando, come nel caso in esame, si
è costituita una situazione giuridica, debba essere quanto mai oculato e, sopratutto,
soggetto al controllo attraverso la sua motivazione. Poiché altro è la valutazione discrezionale diretta ad ammettere o meno un candidato, altro è la revoca di questo atto,
con la quale, in sostanza, si toglie a chi lo possiede lo stato di studente universitario.
Ora, senza voler escludere la esistenza di un tale potere, deve, però, riconoscersi che
l’esercizio di esso si veriichi in circostanze assolutamente eccezionali, di comprovata, cioè, violazione di legge, o di mancata valutazione di gravi elementi di fatto, o
di sopravvenute esigenze di ordine pubblico. Senonché nessuno di questi elementi
sussiste nel caso in esame, in cui si è revocato il già concesso nulla osta soltanto
per la ragione – ed è questa la seconda peculiarità della fattispecie – che, secondo
la legge razziale tedesca, il Thomas, iglio di madre ebrea, ma di padre ariano, non
potrebbe frequentare le Università del suo paese»50.
Il Consiglio di Stato nettamente sancisce che nella questione oggetto della
causa vige – e «spiega i suoi effetti in confronto di tutti, italiani e stranieri»
– esclusivamente il diritto italiano poiché si tratta di «materia, non solo di
ordine, ma di diritto pubblico... in cui la sovranità dello Stato non può subire
attenuazioni o deroghe». Non può qui applicarsi il principio, pure in questo
caso invocato dall’Avvocatura dello Stato, che dovrebbe considerarsi e applicarsi la legge nazionale dello straniero poiché la causa riguarda questioni di
status e di capacità. Se si accettasse tale principio di personalità della legge,
si potrebbe giungere a conseguenze paradossali: «il cittadino ebreo di uno
Stato nel quale le disposizioni razziali non fossero in vigore potrebbe chiedere
ed ottenere la iscrizione nelle Università del Regno; il che, come si è visto,
è contro la lettera e lo spirito della legge». Dietrich Thomas poteva ottenere, come ha ottenuto, il nulla osta per l’iscrizione all’Università. La revoca
del nulla osta è inammissibile considerato che non ricorrono le circostanze
ricordate (violazione di legge, mancata valutazione di gravi elementi di fatto,
sopravvenute esigenze di ordine pubblico). Il giudice rivendica a sé il potere di
accertare se il provvedimento amministrativo è conforme alle norme di legge
dentro la cui sfera doveva formarsi per valutarne la rispondenza a giustizia ed
alle emergenze dell’istruttoria amministrativa.
Concludo ricordando le parole che Jemolo pronuncerà a Messina nel 1947:
50
Consiglio di Stato, sez. IV, 2 giugno 1943 (Pres. Rocco, est. Bozzi), Thomas Dietrich
c. Università di Bologna e Ministero degli esteri, cit.
224 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
«Giuristi e non giuristi, sopratutto nelle parti d’Italia che hanno subito l’occupazione tedesca, ci siamo resi conto che la vita morale non si può ridurre a
formule, paiano esse le più sicure. Avevamo forse dubbi, negli anni felici, della
illiceità, per qualsiasi causa, di mentire, di deporre il falso dinanzi ad un giudice,
di giurare il falso? La menzogna a in di bene non era esclusa? Eppure per mesi,
in certe regioni per anni, coscienze timoratissime, squisite anime sacerdotali, per
salvare perseguitati ogni giorno attesero a formare documenti falsi, atti notori falsi,
deposero quante volte occorse il falso, senza con ciò neppure pensare di commettere peccato. E sentiamo che questa esperienza non ci porta affatto a rivedere la
base profonda della nostra morale, le nostre nozioni di bene e di male; non ci porta
nemmeno alla conclusione (che sarebbe di particolare pericolosità) che l’agire bene
possa sbocciare da un istinto buono, e non da una legge razionale; ci porta solo a
comprendere ciò che già molte volte avevamo del resto sospettato, che l’ininita
varietà, la complessità della vita non consente di arginare l’agire dentro formule.
Per molti anni non ho mai delesso dal principio dell’interpretazione schietta della
legge, anche quando essa portava a conculcare i valori politici che mi erano cari.
Mi consentivo soltanto di tacere là dove la battaglia tra due interpretazioni era
aperta, e l’interpretazione che a me sembrava la vera consacrava una soluzione
che sentimento politico o morale deiniva cattiva, e che poteva venire evitata con
l’interpretazione che io ritenevo errata. Ma vennero delle forme di persecuzione
che giudicavo particolarmente odiose – alludo a quella razziale – e qualche nota
ho scritto, per sostenere interpretazioni della legge che sapevo contro la voluntas
legis, errate, cioè»51.
3. Macchina amministrativa (1938-1943)
Il decreto legge 126 del 9 febbraio 1939 contiene “norme di attuazione ed
integrazione delle disposizioni di cui all’art. 10” del decreto 1728/1938
che prevede che i cittadini italiani di origine ebraica non discriminati non
possono: «essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione..., e di aziende di qualunque natura
che impieghino cento o più persone, né avere di dette aziende la direzione
né assumervi comunque, l’uficio di amministrazione o di sindaco; essere
proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire
cinquemila; essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila». Il lungo decreto 126/1939,
51
A.C. Jemolo, Confessioni di un giurista, Messina 27 febbraio 1947, Milano 1947, pp.
18-19.
Giuseppe Speciale
225
80 articoli, disciplina il procedimento attraverso il quale si realizza concretamente la limitazione della proprietà immobiliare (artt. 1-46) e dell’attività industriale e commerciale (artt. 47-71) dei cittadini italiani ebrei. Le
pronunce giurisdizionali, almeno nella vigenza della legislazione razziale,
riguardano quasi esclusivamente il patrimonio immobiliare e non anche
le attività industriali e commerciali. Per il legislatore gli ebrei dovevano
autodenunciare gli immobili posseduti, indicando, eventualmente, quali di
quegli immobili era nelle loro intenzioni donare al coniuge e ai discendenti
non ebrei e quali desideravano che venissero imputati alla quota consentita; poi, l’uficio distrettuale delle imposte doveva valutare la consistenza
dei patrimoni tenendo conto dell’estimo dei terreni e dell’imponibile dei
fabbricati dei ruoli delle imposte sui terreni o sui fabbricati per l’anno
1939 e, in difetto, degli «accertamenti eseguiti ai ini dell’applicazione
dell’imposta straordinaria sulla proprietà immobiliare di cui al R. decretolegge 5 ottobre 1936-XIV, n. 1743» (art. 17). In mancanza di tali elementi
la valutazione veniva effettuata dall’Uficio tecnico erariale attraverso criteri indicati anche nella legge.
Per quanto riguarda la quota del patrimonio eventualmente eccedente, da
liquidare al titolare ebreo in titoli nominativi trentennali al 4%, l’uficio
tecnico erariale «ripartisce i beni fra la quota consentita e quella eccedente
tenendo conto, nei limiti del possibile, delle preferenze manifestate dagli
interessati» e valuta i beni imputati alla quota eccedente attraverso il meccanismo automatico previsto nell’art. 20: moltiplicando, cioè, per ottanta
l’estimo dei terreni, comprese le aree fabbricabili, e per venti l’imponibile
dei fabbricati.
L’art. 19, per evitare un dannoso frazionamento degli immobili, prevede,
nella determinazione della quota consentita e della quota eccedente, un
limite di oscillazione del 10% in più o in meno rispetto ai limiti stabiliti
dalla legge.
Per l’art. 22, l’Egeli (Ente gestione e liquidazione immobiliari), a cui l’uficio tecnico erariale rimette i dati così ottenuti,
«notiica al denunziante, a mezzo di uficiale giudiziario, con le modalità stabilite
per la notiica delle citazioni: a) la indicazione dei beni costituenti la quota consentita;
b) la indicazione dei beni eccedenti e del relativo valore, nonché delle detrazioni da
effettuarsi per la determinazione del corrispettivo di cui al secondo comma dell’articolo precedente; c) nel caso di immobile indivisibile, la indicazione del valore
complessivo e delle relative detrazioni, a termini della precedente lettera b)».
226 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Per l’art. 24, entro 30 giorni dalla notiicazione, il cittadino ebreo può
ricorrere alla commissione prevista dall’art 23 e costituita in ogni provincia – composta dal Presidente del Tribunale, o da un magistrato dello stesso
Tribunale da lui delegato con funzioni di Presidente; da un ingegnere dell’Uficio tecnico erariale; da un ingegnere designato dal Sindacato fascista degli
ingegneri – contro
«a) la determinazione del valore dei beni costituenti la quota eccedente; b)
la scelta dei beni attribuiti alla quota eccedente o avverso la decisione dell’Uficio tecnico erariale sulla indivisibilità di un immobile; c) la determinazione
dell’estimo o dell’imponibile, ai ini del computo delle quote consentite e di
quelle eccedenti».
Nel caso di cui alla lettera a) la Commissione procede alla stima diretta
degli immobili con riguardo alla media dei prezzi dell’ultimo quinquennio,
depurata dall’aliquota del 20%.
Si consideri, inine, che le spese relative al funzionamento della Commissione sono a carico del denunciante; che la decisione della Commissione deve
essere motivata ed è notiicata, a cura della segreteria, al ricorrente e all’Egeli
per mezzo di uficiale giudiziario; che avverso tale decisione è ammesso solo
ricorso per revocazione nel caso previsto dall’art. 494, n. 4 del codice di procedura civile (art. 24); che avanti la Commissione è ammessa la rappresentanza
e la difesa di procuratori legali e di avvocati (art. 25).
I vari momenti della procedura sono al centro di diverse pronunce delle
Commissioni provinciali, dei tribunali, della Cassazione. Naturalmente anche
in questo caso il giudice assume che
«Si tratta di legge a scopo eminentemente politico, intesa com’è a ridurre e
controllare nel massimo suo esponente, la proprietà immobiliare, la potenzialità
economica di una razza, che al di sopra dei diversi ambienti politici, sociali ed
intellettuali, in cui è nata e vive, ha una propria ideale unione di spiriti e di intenti,
una patria sognata, al cui divenire e alla cui fortuna ogni altra considerazione e ogni
altro legame dovrebbe sacriicarsi. Ma, una volta ottenuto il suo scopo di riduzione
e di controllo; una volta chiuso l’adito a ulteriori aumenti dei patrimoni immobiliari
ebraici, la legge non ha ulteriore ragione di restrizioni e di rigori, e soprattutto mancherebbe alla funzione sua di giustizia politica ed economica…»52.
Qui i toni usati dall’estensore lasciano trapelare un’adesione al progetto
politico ispiratore della legislazione. Tuttavia – sincera, entusiasta, cinica o
conformista che sia –, tale adesione non si spinge al punto da negare i prin52
Tribunale, Reggio Emilia, 21 marzo 1942 (Pres. ed est. Bocconi), Thovazzi c. Carmi
e Egeli, ne Il Foro Italiano 67 (1942) I, coll. 1136-1139. Anche in Temi Emiliana 19 (1942)
I, pp. 112-116. Appello, Bologna, 17 ottobre 1942 (Pres. Mantella, est. Gervasio), Egeli c.
Thovazzi e Carmi, in Temi Emiliana 20 (1943) I, pp. 74-76.
Giuseppe Speciale
227
cipi dell’ordinamento. Nel caso in questione si tratta di bloccare l’iniziativa
dell’Egeli che tende ad impedire che un creditore ipotecario, sia pure ariano,
dell’ebrea esproprianda Carmi, si possa soddisfare su un bene della stessa,
diverso rispetto a quello su cui era stata iscritta ipoteca prima dell’entrata in
vigore della legislazione razziale53.
La decisione della Commissione provinciale è favorevole agli espropriandi
anche in un altro caso. L’ebrea Anna Armida Rovighi possiede in territorio di
Correggio una vigna che nei ruoli delle imposte del 1939 ha un estimo superiore a quello corrispondente al massimo della quota consentita per i terreni.
Tuttavia, nel 1942 – a conclusione di un lungo iter, che vede coinvolti l’ispettorato dell’agricoltura, l’uficio distrettuale delle imposte e l’uficio tecnico
erariale –, l’estimo viene “abbassato” in dipendenza della “devastazione del
vigneto” iniziata nel 1928 a causa della ilossera. La Commissione ammette,
contro la volontà dell’Egeli, che si tenga conto del nuovo estimo del vigneto
di Anna Armida Rovighi, perché rappresenta la realtà catastale di estimo del
1939, ancorché sia stata riconosciuta successivamente: il nuovo estimo consentirà alla donna di conservare la proprietà dell’intero vigneto54.
Il procedimento di cartolarizzazione, almeno nel caso di patrimoni che superano la quota consentita, sembra offrire all’ebreo un’alternativa: o accettare
la stima calcolata dall’Uficio tecnico erariale con un criterio automatico presuntivo, o richiedere, a proprie spese, che la Commissione provinciale proceda
alla stima diretta degli immobili con riguardo alla media dei prezzi dell’ultimo
quinquennio, depurata dall’aliquota del 20%. Il punto, però, non è paciico:
la Commissione provinciale di Roma ammette senz’altro questa alternativa:
«Il sistema della legge è di tale chiarezza che le argomentazioni in contrario si
risolvono più in una critica al legislatore che in una confutazione persuasiva degli
argomenti che si traggono dalla interpretazione letterale e logica del sistema così
com’è positivamente sancito»55
53
La delicatezza della questione si coglie appieno se si pensa che preoccupazione del legislatore era anche quella di evitare che, in combutta con gli ebrei, e in frode alla legge, ariani
compiacenti simulassero crediti insoddisfatti nei confronti degli stessi ebrei per assicurarsene
il patrimonio e sottrarlo così all’incameramento da parte dell’Egeli.
54
Comm. Prov., Bologna, 21 settembre 1942 (Pres. ed est. Panepucci), Rovighi c. Egeli,
ne Il Foro Italiano 68 (1943) I, coll. 60-62.
55
Comm. Prov., Roma, 19 febbraio 1943 (Pres. ed est. Petruzzi), Sonnino c. Egeli, ne Il
Foro Italiano 68 (1943) I, coll. 370-373. Nello stesso senso Comm. Prov., Roma, 30 ottobre
1941 (Pres. ed est. Galizia), Jesi c. Egeli, ne Il Foro Italiano 66 (1941) I, coll. 1421-1424;
Comm. Prov., Siena, 12 agosto 1942 (Pres. ed est. Ori), Uzielli c. Egeli, ne Il Foro Italiano 67
(1942) I, coll. 1152-1154; Comm. Prov., Milano, 18 novembre 1942 (Pres. ed est. Parrella),
Colombo c. Egeli, ne Il Foro Italiano 68 (1943) I, coll. 118-119. Di contrario avviso, ma a ben
vedere solo per una questione procedurale, la soluzione data da Cassazione, sez. unite civ., 25
febbraio 1943 (Pres. Casati, est. Anichini, p.m. Cipolla), Sinigaglia c. Egeli, in Rivista di diritto
228 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Se l’espropriando ebreo ritiene
«di sua convenienza (prescindendo dai gravami relativi ad altre questioni) di
accettare la determinazione così come è stata stabilita dal valore dei beni che gli
vanno espropriati ed indennizzati, nessuna questione sorge. In caso contrario, ai ini
di accertare il valore reale dei beni e non quello presunto, l’interessato ha il diritto
di ricorrere ad un’apposita commissione giurisdizionale».
All’Egeli – che sostiene che la Commissione può procedere alla stima diretta del bene solo quando manchi l’estimo o l’imponibile – il giudice oppone
che per l’art. 24 è sempre possibile per l’espropriando esperire il gravame
contro la determinazione del valore dei beni compresi nella quota eccedente.
Se si accogliesse la tesi dell’Egeli
«il cittadino di razza ebraica non avrebbe nessun rimedio giurisdizionale contro
l’atto amministrativo ove la determinazione del valore dei beni della quota eccedente
fosse fatta a seguito dell’applicazione dei due primi criteri dell’art. 17 (estimo ed
imponibile ricavati dai ruoli delle imposte dirette o dagli accertamenti per l’imposta
straordinaria immobiliare) e cioè nella quasi totalità dei casi... Era quindi naturale
che per evitare il trattamento ingiusto che sarebbe potuto derivare nei singoli casi al
cittadino ebraico dall’applicazione pura e semplice dell’art. 20, gli si accordasse la
facoltà di opporsi alla valutazione legale dei suoi beni».
Ancora una volta il giudice, per affermare un diritto, nega apoditticamente
il carattere eccezionale della legislazione razziale. Il diritto al gravame accordato all’espropriando si
«spiega agevolmente per la considerazione che la legge riguardante i cittadini di
razza ebraica non ha carattere iscale, ma esclusivo carattere politico, sicché la parziale
espropriazione dei beni degli stessi si è voluto accompagnare dalla corresponsione
del loro giusto corrispettivo».
In un’altra occasione il giudice afferma:
«E per vero, la legislazione razziale non ha inteso affatto di compiere una conisca
dei beni di proprietà ebraica, ma vuole limitare il patrimonio immobiliare di ogni cittadino di razza ebraica, valutandone caso per caso la posizione razziale e patrimoniale,
allo scopo di impedire che l’appartenente alla razza ebraica possa esplicare una vasta
inluenza economica e sociale nell’ambito della nazione»56.
pubblico 35 (1943) II, p. 218. L’avv. di Sinigaglia è Jemolo. Massima nel Massimario de Il
Foro Italiano 14 (1943) coll. 110-111. Anche ne Il Foro Italiano 68 (1943) I, coll. 577-579.
56
Comm. Prov., Bologna, 21 settembre 1942 (Pres. ed est. Panepucci), Rimini c. Egeli,
ne Il Foro Italiano 67 (1942) I, coll. 1148-1152.
Giuseppe Speciale
229
e, limitata così la portata della legge, risolve il caso in modo favorevole
all’ebreo57. L’11 marzo 1942 l’Egeli notiicava il riparto dei beni (quota
consentita e quota eccedente) all’ebreo Rimini, avvertendolo che la legge
(art. 24 e 25 del decreto 126/1939) gli consentiva di ricorrere contro lo stesso
piano di riparto entro trenta giorni. Il 25 dello stesso mese Rimini muore. I
suoi due eredi si rivolgono alla Commissione perché ritengono che il piano
di riparto debba ora essere ricalcolato. Infatti ino a quando non sia decorso il
termine utile per inoltrare il ricorso non si realizza il trasferimento della quota
eccedente in capo all’Egeli e pertanto gli eredi di Rimini sono succeduti nella
stessa posizione patrimoniale del de cuius. La quota eccedente, eventuale,
ora deve calcolarsi rispetto al patrimonio di ciascuno dei due eredi e non
più rispetto al patrimonio del solo de cuius. La Commissione respinge, tra le
altre, l’obiezione dell’Egeli secondo la quale le quote devono determinarsi
in relazione allo stato patrimoniale riferito all’11 febbraio del 1939, data in
cui è entrato in vigore il decreto 126/1939, e accoglie il ricorso degli eredi
Rimini. Per la Commissione non è dificile opporre all’Egeli che la legge,
sino al momento dell’effettivo trapasso dei beni all’ente liquidatore, tiene
conto di ogni aumento che si veriica rispetto alla persona del proprietario
del patrimonio immobiliare (art. 44).
Il caso che vede la signora Rappaport invocare l’art. 19 del decreto
126/1939 per ottenere che tutto il suo patrimonio immobiliare rientri nella
quota consentita è uno degli altri casi signiicativi in cui il giudice opta, tra
le possibili soluzioni, per quella più favorevole all’ebreo. L’art. 19 ammette
una differenza del 10% in più o in meno rispetto ai limiti stabiliti dalla legge
nella determinazione della quota consentita e della quota eccedente quando
sia necessario evitare un dannoso frazionamento degli immobili. Applicando
l’art. 19 il patrimonio della signora Rappaport rientrerebbe integralmente nella
quota consentita. La signora invoca l’applicazione dell’articolo adducendo che
non sarebbe altrimenti possibile ripartire quota eccedente e quota consentita
senza arrecare un grave pregiudizio alla quota consentita. L’Egeli oppone che
la legge ammette la tolleranza solo «quando effettivamente si addivenga ad
una ripartizione e non quando si voglia evitare la stessa»: l’Ente propone di
imputare la quota eccedente o ad una parte ben distinta dell’immobile o ad una
57
In alcuni casi il giudice si spinge anche oltre i limiti che l’ordinamento gli consente:
la Cassazione cassa una decisione della Commissione provinciale di Gorizia del 21 dicembre
1940 per eccesso di potere (ha condannato l’Egeli a pagare in contante all’espropriando ebreo
la somma liquidata) e per vizio di incompetenza (invadendo il campo proprio dell’autorità
giudiziaria ordinaria, ha ritenuto di regolare preventivamente il rapporto di vicinato tra la
quota consentita, nella piena disponibilità del cittadino ebreo, e la quota eccedente, attribuita
all’Egeli). Cassazione, sez. unite civ., 16 aprile 1942 (Pres. Casati, est. Colagrosso, p.m. Terra
Abrami), Egeli c. Morpurgo, ne Il Foro Italiano 67 (1942) I, coll. 536-539. Cassa senza rinvio
Comm. Prov. Gorizia 21-12-40. Anche in Rivista di diritto pubblico 34 (1942) II, pp. 240-241.
Massima ne Il Foro Italiano 13 (1942) col. 245.
230 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
quota in comunione dello stesso. La commissione respinge la tesi dell’Egeli
e accoglie il ricorso58.
4. Giudici e amministrazione (1955-2010)
4a. due storie ordinarie: nella Padoa e Lili Magrini Ascoli
Nella Padoa è una bambina ebrea italiana che nel 1945 viene allontanata
dalla scuola pubblica perché ebrea, arrestata dalle SS. tedesche e internata nel
carcere di Modena, dal 19 marzo al 22 aprile, in attesa di essere deportata. Fortunatamente Nella sopravvive. Il 4 aprile 1956 la signora Nella Padoa chiede
di essere ammessa a godere dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto
dall’art. 1 della legge n. 96 del 10 marzo 195559.
Lili Magrini Ascoli è nata a Graz il 31 dicembre 1906 ed è morta a Ferrara nel
maggio 2011. L’ultracentenaria Lili ha vissuto due guerre mondiali, la dittatura
fascista, le leggi razziali, la nascita della Repubblica, il secondo dopoguerra.
Austriaca di nascita, cittadina italiana ebrea, appartiene a una famiglia che ha
subito pesantemente le leggi antisemite: sua madre Isa è morta il 10 agosto del
1944, il giorno in cui arrivò ad Auschwitz, dopo sei giorni di viaggio in treno,
58
Comm. Prov., Roma, 18 luglio 1942 (Pres. Petruzzi), Rappaport c. Egeli, ne Il Foro
Italiano 67 (1942) I, coll. 943-944. Ammette il ricorso, per motivi attinenti alla giurisdizione,
contro le pronunce delle commissioni provinciali e, altresì, ritiene che sia nella giurisdizione
delle stesse commissioni, nell’atto di divisione dei beni tra quota consentita e quota eccedente,
la decisione atta ad impedire, anche previo adeguato compenso, il formarsi di servitù a favore
di una quota e a danno dell’altra, con nocumento dell’economia nazionale e degli interessi
dei singoli, Cassazione, sez. unite civ., 25 febbraio 1943 (Pres. Casati, est. Anichini, p.m.
Cipolla), Poggi c. Egeli, in Rivista di diritto pubblico 35 (1943) II, pp. 218-219. Conferma
Comm. Prov. Firenze 17-3-42. L’avv. di Poggi è Calamandrei. Massima nel Massimario de Il
Foro Italiano 14 (1943) col. 111.
Merita qui ricordare un’altra decisione in cui il giudice utilizza argomenti non del tutto
inconfutabili: Tribunale, Roma, 17 aprile 1942 (Pres. Oggioni, est. Liquori), Jesi c. Egeli, ne
Il Foro Italiano 67 (1942) I, coll. 458-462. Per l’art. 3 del decreto 126/1939 sono esclusi dalla
procedura espropriativa i fabbricati appartenenti ad imprenditori edili e costruiti a scopo di
vendita. Nel caso in questione gli immobili dell’ebreo Jesi vengono esclusi dalla procedura
espropriativa nonostante la mancata denuncia dell’impresa edilizia all’Uficio delle corporazioni
della provincia, nonostante gli appartamenti, costruiti dal 1934, non siano stati venduti, nonostante siano afittati da lungo tempo. Il giudice non ritiene tutte queste circostanze suficienti
a escludere che il fabbricato sia stato costruito per essere venduto, o a provare che, in seguito
alla legislazione razziale, l’originaria intenzione di vendere fu mutata in quella di mantenere
la proprietà a scopo di investimento.
59
Su alcuni proili della complessa vicenda processuale di Nella Padoa, con riferimento
all’ultimo segmento, quello conclusosi con la pronuncia della Corte dei Conti sulla questione
di massima, cfr. M. Madonna, La legislazione razziale italiana e l’esclusione degli ebrei dalle
scuole pubbliche dal 1938 alla sentenza 25 marzo 2003 n. 8/SSRR/QM della Corte dei Conti,
in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2003, n. 3, pp. 877-889; G.Speciale, Giudici e
razza nell’Italia fascista, Torino, 2007, ad indic.
Giuseppe Speciale
231
dal campo di Fossoli; suo marito, Renzo Boniglioli, fu internato come ebreo ed
antifascista nel campo di concentramento di Urbisaglia nel periodo 1940-194160;
i suoi due igli, Gerio e Dori Boniglioli, furono esclusi dagli asili e dalle scuole
pubbliche in applicazione delle leggi del 1938.
Nel 1997, la signora Magrini Ascoli chiede di essere ammessa a godere
dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della legge 932 del
60
Proprio a Urbisaglia, più esattamente nel campo di concentramento che era situato
nella villa Giustiniani Bandini di Abbadia di Fiastra, Renzo Boniglioli, ebreo ferrarese
laureatosi a Firenze sotto la guida di Piero Calamandrei, avviato al campo perché ebreo e
antifascista, era stato introdotto da Bruno Pincherle al misterioso gergo dei cataloghi librari
dei biblioili e aveva cominciato l’appassionata ricerca di stampe e manoscritti rari che
condurrà alla costituzione, tra l’altro, della più completa raccolta ariostea, alla scoperta di
autograi di Tasso e Manzoni. L’attività di ricerca impegnerà Boniglioli ino alla sua morte,
nel 1963, e non esaurirà il suo impegno culturale. A lui si deve anche l’organizzazione della
Società ferrarese dei concerti. Anche la passione politica continuerà nel secondo dopoguerra:
sarà presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane dal 1952 al 1954. Impegnato
anche nel movimento sionista, attivo nel Partito comunista italiano, sindaco di Ferrara. Cfr.
la ricostruzione di Bruno Pincherle, Testimonianze su Renzo Boniglioli, Ferrara Palazzo
Paradiso, 23 febbraio 1964, Prem Tip. Sociale 1964, Ferrara, pp. 62-68, che ricorda che
abitavano la sofitta di villa Giustiniani Bandini «i milanesi Umberto Segre, Dino Luzzatto, Giorgio Ottolenghi, Eucardio Momigliano, i livornesi Renzo Cabib e Paolo Corcos, il
romano C. A. Viterbo, il genovese Peppino Levi Cavaglione, i triestini Alfredo Morpurgo e
Vittorio Macchioro, i cari amici ferraresi Ivo Minerbi, Renato Melli, Renzo Sinigallia, Carlo
Hanau con i due igli… Quando, sdraiato sul mio lettino, sfogliavo lentamente un catalogo,
dimenticavo quasi d’essere un prigioniero (e, per di più, appartenente ad una razza inferiore)
e l’impaziente attesa del libro richiesto mi ridava – per qualche giorno – quell’altalena di
speranze e timori che tutti i biblioili conoscono. Un pomeriggio, mi arrivò un pacchetto che
conteneva, un’opera lungamente, e invano, cercata per anni. Renzo, al vedere la mia gioia,
sentì che anche la bibliograia (o – se vogliamo usare la parola esatta – bibliomania) poteva
essere una forma di evasione, una maniera di andare (pur essendo rinchiusi) “à la chasse au
bonheur”. Così, egli mi chiese d’introdurlo nel misterioso gergo dei cataloghi e d’insegnargli
la maniera di trasformare quelle scarne informazioni in immagini vive. I primi libri che egli
acquistò furono di storia ferrarese, quasi sperasse di trovare in quei vecchi volumi una visione
serena da sovrapporre a quella della Ferrara che lo aveva perseguitato e messo al bando. E fu
aggirandosi nella magica rossa Ferrara del primo Cinquecento che Renzo incontrò (forse per
la prima volta dopo aver lasciato i banchi di scuola) il suo Ariosto. Ha il suo atto di nascita
nelle squallide sofitte di quel campo di internamento la sontuosa Raccolta Ariostea di Renzo
Boniglioli, oggi, forse, la più completa che esista perché comprende, a cominciare dalla
prima stampa ferrarese del Furioso, con poche esclusioni, tutte le successive edizioni del
poema ino ai più recenti testi critici. E accanto a questi esemplari – tutti di una eccezionale
bellezza – igurano in quella raccolta traduzioni nelle varie lingue e adattamenti nei diversi
dialetti, fonti e derivazioni del Poema e una collezione quasi completa delle stampe delle
Commedie e delle opere minori. Ma non è soltanto la Raccolta Ariostea che nacque in quei
mesi. Renzo cominciò, in d’allora, a collezionare edizioni originali dell’Ottocento italiano,
che ancora pochi ricercavamo e che sono poi diventate così rare. E fu – lo ricordo – un giorno
di festa per lui (e per me) quello in cui gli arrivò un esemplare unico de I Promessi Sposi
impresso su carta paglierina, fatto sontuosamente rilegare dal Manzoni stesso in marocchino
rosso e arricchito da una sua dedica alla nipote Luisa e da un ritrattino a matita tracciato da
Massimo d’Azeglio».
232 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
22 dicembre 198061 per i cittadini italiani che sono stati perseguitati a causa
della loro appartenenza alla razza ebraica.
4b. Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali
a) La legislazione
L’assegno vitalizio è una delle forme che il legislatore ha previsto, a partire
dal 1955, per risarcire in qualche modo gli ebrei che furono destinatari della
legislazione antisemita e gli antifascisti che furono vittime di persecuzioni politiche62. Talvolta la previsione normativa risarcitoria è rivolta congiuntamente
ai perseguitati per ragioni politiche e ai perseguitati per ragioni di appartenenza
razziale, talaltra le discipline sono distinte a seconda dei destinatari. Le forme
risarcitorie previste dall’ordinamento italiano per gli ebrei che patirono le leggi
razziali e i provvedimenti che ne conseguirono si concretizzano, in generale,
in assegni di benemerenza o in trattamenti previdenziali più favorevoli di
61
Per l’articolo 3 della legge 932/1980 cfr., infra.
Per tutti i proili che qui non si trattano speciicamente, relativi alla legislazione risarcitoria e all’applicazione della stessa, cfr. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, cit., in
particolare le pp. 142-169, e la letteratura ivi citata. Sulla legislazione risarcitoria in generale
è opportuno ricordare proprio quanto scrive il giudice Silvano Di Salvo nel suo contributo in
questo volume a proposito del termine “risarcimento”: «Il termine “risarcimento”, nel linguaggio
comune, ma anche nel suo signiicato più propriamente tecnico-giuridico, tende a porre in risalto
la possibilità di compensare, e tendenzialmente di annullare, un danno ingiusto mediante una
forma di ristoro satisfattiva, che può consistere in un rimedio integralmente ripristinatorio della
situazione antecedente al fatto lesivo, ovvero in una soluzione risarcitoria per equivalenza, sulla
base della differenza di valore tra bene integro e bene leso. Utilizzare questo termine per deinire
le forme della riparazione adottate dallo Stato italiano nei confronti degli appartenenti alla razza
ebraica vittime di persecuzioni e di discriminazioni “legalizzate” rischia dunque di non rendere
esattamente percepibile il carattere assoluto e irreparabile delle conseguenze individuali e collettive di tale attività persecutoria, che richiedono anzitutto una silenziosa, memore e duratura
presa di coscienza da parte di chiunque – partecipe o meno dell’esperienza amministrativa o
giudiziaria cosiddetta “riparatoria”– si trovi al cospetto dei segni e delle conseguenze di tanta
epocale sofferenza, che ha visto sacriicati e compromessi beni assolutamente infungibili per
effetto e quale conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento di uno speciico, mirato e cogente
complesso normativo discriminatorio e persecutorio. Il senso della legislazione …, al di là del
cavillare, del centellinare indennizzi e del frugare impietosi nelle vite e nei ricordi, va dunque
individuato più in una manifestazione concreta di attenzione e di memoria dello Stato verso le
vittime delle discriminazioni che nel tentativo di ricucire lacerazioni e risistemare sconquassi
con dosi più o meno consistenti di beneici personali e patrimoniali, nella specie, peraltro,
fortemente condizionati nella loro effettiva erogabilità e predeterminati nella loro modesta
entità. Parimenti la disamina dell’applicazione giurisprudenziale di tali norme non consiste in
un semplice excursus su sottigliezze interpretative, su piatte adesioni o su felici revirements,
ma è storia di sentimenti, di contraddizioni, di prodotti culturali e di tormenti interiori, vivi e
pungenti per taluni, retorici ed obsoleti per altri. Ritengo doverosa questa premessa per evitare
qualsiasi fraintendimento che rischi di banalizzare e di appiattire una materia che non può essere
accomunata a nessun’altra e che solo apparentemente si presta a venire freddamente catalogata
nell’ordinaria e “normale” attività giudiziaria».
62
Giuseppe Speciale
233
quelli ordinari. La legislazione, come si avrà modo di vedere, si è formata
attraverso un processo di stratiicazione alluvionale che ne rende poco agevole l’interpretazione e il coordinamento. La giurisprudenza, essenzialmente
quella della Corte dei conti, con qualche signiicativo intervento della Corte
costituzionale, ha cercato di mettere ordine nella articolata e complessa materia issando alcuni punti fermi. Tuttavia non sembra essersi consolidato un
orientamento nettamente prevalente e alcune pronunce sembrano rimettere in
discussione risultati faticosamente raggiunti.
Per quanto riguarda le forme risarcitorie destinate agli italiani ebrei, la giurisprudenza, in generale, ha distinto i beneici previsti dalla legge in due tipi:
quelli che devono concedersi agli ebrei in quanto tali, per il solo fatto, cioè di
essere stati destinatari della legislazione razziale, da quelli la cui concessione è
subordinata alla prova di un danno che concretamente e personalmente è stato
subito dagli ebrei in quanto destinatari dei provvedimenti legislativi antisemiti
loro rivolti e a causa dell’azione dei soggetti indicati dalla legge.
Al primo tipo appartengono, per esempio, i beneici che la legge riconosce
agli ebrei che hanno ottenuto la “qualiica di ex perseguitato razziale” (un
esempio per tutti: agli ebrei in possesso della qualiica di ex perseguitato si
estendono i beneici combattentistici di cui alla legge n. 336/1970).
A tal proposito è opportuno ricordare che l’art. 1 della Legge n. 17 del 16
gennaio 1978:
«Ai ini dell’applicazione della legge 8 luglio 1971, numero 541, la qualiica di
ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per
effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della
Repubblica Sociale Italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato
pregiudizio isico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche
dalla avvenuta annotazione di “razza ebraica” sui certiicati anagraici»
riconosce espressamente che il pregiudizio morale può provarsi anche solo
con l’avvenuta annotazione di “razza ebraica” sui certiicati anagraici.
Al secondo tipo appartengono i beneici previsti da disposizioni che
subordinano la concessione del beneicio all’aver subito, in conseguenza
dell’appartenenza alla razza ebraica, danni esplicitamente indicati dalla legge. Un esempio per tutti: la legge n. 96 del 10 marzo 1955, art. 1, lettera c),
subordina la concessione di un assegno di benemerenza ai cittadini italiani
che, a causa delle persecuzioni patite per motivi d’ordine razziale, abbiano
subìto una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per
cento causata da:
«atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all’estero ad opera di persone alle
dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o
di emissari del partito fascista».
234 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
La legge 932/1980, quella invocata da Lili Magrini Ascoli, agli stessi
cittadini (e ai familiari superstiti mediante reversibilità) che hanno subito gli
stessi atti di cui alla lettera c) dell’art. 1 della legge 96/1955, concede un assegno di benemerenza (di misura diversa rispetto a quello ex lege 96/1955 e
non cumulabile con quello) quando siano stati riconosciuti invalidi a proicuo
lavoro, o abbiano raggiunto l’età pensionabile.
Proprio dalle vicende della formazione della legge 96 del 1955, di cui la
legge 932 del 1980 è, per certi versi, un’appendice, è opportuno prendere
le mosse per chiarire l’origine dei problemi che ancora oggi impegnano i
giuristi.
Il testo della legge, originariamente pensata per i soli perseguitati politici,
fu modiicato, per iniziativa di Umberto Terracini, in fase di approvazione
parlamentare, con un ultimo comma aggiunto all’articolo 1, allo scopo di
estendere la disciplina anche ai perseguitati in ragione dell’appartenenza alla
razza ebraica. Guardiamo il testo dell’art. 1:
Testo vigente attualmente: in corsivo si
Testo originario della legge 96/1955:
indicano le parti che sono state modiicate, in corsivo si indicano le parti modiicate
rispetto al testo originario, riportato in dagli interventi legislativi speciicati in
colonna 2, dagli interventi legislativi tra colonna 1
parentesi speciicati
(art. 1 della legge n. 261 del 24 aprile
1967)
Ai cittadini italiani, i quali siano stati
perseguitati, a seguito dell’attività politica
da loro svolta contro il fascismo anteriormente all’8 settembre 1943, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in
misura non inferiore al 30 per cento, verrà
concesso, a carico del bilancio dello Stato,
un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C
annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648,
compresi i relativi assegni accessori per il
raggruppamento gradi: uficiali inferiori.
Ai cittadini italiani, i quali dopo il
28 ottobre 1922 siano stati perseguitati a
seguito dell’attività politica da loro svolta
contro la dittatura fascista e abbiano subito
una perdita della capacità lavorativa in
misura non inferiore al 30 per cento, verrà
concesso, a carico del bilancio dello Stato,
un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella d)
annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648,
compresi i relativi assegni accessori, per il
raggruppamento gradi: uficiali inferiori.
(art. 1 della legge n. 284 del 3 aprile
1961)
Tale assegno sarà attribuito qualora
Tale assegno sarà attribuito qualora
causa della perdita di capacità lavorativa causa immediata e diretta della perdita di
siano stati:
capacità lavorativa siano stati:
Giuseppe Speciale
a) la detenzione in carcere per reato
politico a seguito di imputazione o di condanna da parte del Tribunale speciale per
la difesa dello stato, o di tribunali ordinari
per il periodo anteriore al 6 dicembre 1926,
purché non si tratti di condanne inlitte per
i reati contro la personalità internazionale
dello stato, previsti dagli articoli da 241 a
268 e 275 del codice penale, le quali non siano state annullate da sentenze di revisione
ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo
luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 316;
235
a) la detenzione in carcere per reato
politico a seguito di imputazione o di condanna da parte del Tribunale speciale per
la difesa dello stato, o di tribunali ordinari
per il periodo anteriore al 6 dicembre 1926,
purché non si tratti di condanne inlitte per
i reati contro la personalità internazionale
dello stato, previsti dagli articoli da 241 a
268 e 275 del codice penale, le quali non siano state annullate da sentenze di revisione
ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo
luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 316;
(art. 1 della legge n. 932 del 22 dicemb) l’assegnazione a conino di polizia
bre 1980)
b) l’assegnazione a conino di polizia o a casa di lavoro, inlitta esclusivamente
o a casa di lavoro, inlitta in dipendenza in dipendenza dell’attività politica di cui
dell’attività politica di cui al primo com- al primo comma;
ma, ovvero la carcerazione preventiva
congiunta a fermi di polizia, causati dalla
stessa attività politica, quando per il loro
reiterarsi abbiano assunto carattere persecutorio continuato;
(art. 1 della legge n. 261 del 24 aprile
1967)
c) atti di violenza o sevizie subiti in
Italia o all’estero ad opera di persone alle
dipendenze dello Stato o appartenenti a
formazioni militari o paramilitari fasciste,
o di emissari del partito fascista;
c) atti di violenza o sevizie da parte
di persone alle dipendenze dello stato o
appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito
fascista.
(art. 1 della legge n. 932 del 22 dicembre 1980)
d) condanne inlitte da tribunali ordinari per fatti connessi a scontri avvenuti
in occasione di manifestazioni dichiaratamente antifasciste e che abbiano comportato un periodo di reclusione non inferiore
ad anni uno;
e) la prosecuzione all’estero dell’attività antifascista con la partecipazione alla
guerra di Spagna ovvero l’internamento in
campo di concentramento o la condanna al
carcere subiti in conseguenza dell’attività
antifascista svolta all’estero.
Un assegno nella stessa misura sarà atUn assegno nella stessa misura sarà attribuito nelle identiche ipotesi, ai cittadini tribuito nelle identiche ipotesi, ai cittadini
italiani che dopo il 7 luglio 1938 abbiano su- italiani che dopo il 7 luglio 1938 abbiano subito persecuzioni per motivi d’ordine razziale bito persecuzioni per motivi d’ordine razziale
236 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Gli interventi sull’art. 1 della legge n. 96 del 10 marzo 1955 hanno riguardato il rapporto di causalità tra la persecuzione e la perdita della capacità
lavorativa (art. 1 della legge n. 284 del 3 aprile 1961); i limiti temporali e
geograici entro i quali devono essersi veriicati gli episodi persecutori (art. 1
della legge n. 261 del 24 aprile 1967); le cause che hanno dato luogo alla perdita della capacità lavorativa (art. 1 della legge n. 932 del 22 dicembre 1980).
La stessa legge 932/1980 apporta un’altra signiicativa modiica, questa
volta alla legge 261/1967, ma come è evidente a tutta la disciplina della legge
96/1955, prevedendo, tra l’altro, che l’assegno di benemerenza sia reversibile
ai familiari superstiti.
Infatti l’art. 4 della legge n. 261 del 24 aprile 1967 che stabiliva:
«Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all’articolo
1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modiicazioni, verrà concesso, a
carico del bilancio dello stato, un assegno vitalizio di benemerenza pari al minimo
della pensione della previdenza sociale, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite di
età pensionabile e non usufruiscano di altra pensione o assegno a carico dello stato,
ivi compreso l’assegno di cui all’articolo 1»
viene così modiicato dall’art. 3 della legge 932/1980, invocato da Lili
Magrini Ascoli:
«Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all’articolo 1
della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modiicazioni, verrà concesso, a carico
dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, reversibile ai familiari superstiti ai sensi
delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo di pensione erogato
dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite
di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proicuo lavoro. L’assegno di
reversibilità compete anche ai familiari di quanti sono stati perseguitati nelle circostanze
di cui all’articolo 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modiicazioni, e non
hanno potuto fruire del beneicio perché deceduti prima dell’entrata in vigore della presente legge. L’assegno vitalizio di benemerenza non è cumulabile con l’assegno di cui
all’articolo 1 citato e la non cumulabilità è estesa ai rispettivi assegni di reversibilità».
Per completezza si ricorda che l’ultimo intervento sulla legge 96/1955 è
quello della legge n. 92 del 24 aprile 2003 che ne ha modiicato l’articolo 4
per proili che qui non interessano.
Può, inine, aggiungersi che la legge n. 361 del 28 marzo 1968 fornisce
l’interpretazione autentica dell’art. 1 della legge 96/1955 prevedendo che «i
beneici di cui alla presente legge vengano estesi a tutti quei cittadini italiani
perseguitati politici antifascisti o razziali, che abbiano subito persecuzioni in
conseguenza della loro attività politica antifascista o loro condizione razziale sui
territori, da chiunque amministrati, posti, dopo il giugno 1940, sotto il controllo
Giuseppe Speciale
237
della Commissione italiana di armistizio con la Francia (CIAF). Pertanto le
domande già inoltrate da detti cittadini, intese ad ottenere i beneici di cui alla
presente legge, verranno riprese in esame con effetto dalla loro presentazione».
4c. Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali
b) La giurisprudenza
La giurisprudenza ha fermato, tra l’altro, la sua attenzione sul «pregiudizio
isico o economico o morale» della legge 17/1978 e sugli «atti di violenza o
sevizie» della legge 96/1955 e ha affermato la volontà del legislatore di distinguere tra pregiudizio morale e danno morale. Così, nella vita quotidiana degli
ebrei italiani colpiti dalla legislazione razziale la giurisprudenza ha ritenuto di
distinguere gli atti che integrano il pregiudizio da quelli che integrano il danno.
Gli atti che integrano il mero pregiudizio sarebbero così quelli che consistono
nelle generiche (sic) limitazioni e restrizioni imposte dall’applicazione della
legislazione razziale63.
Coerentemente con questa impostazione la giurisprudenza ha negato che
possano qualiicarsi come atti di “violenza morale”, di cui all’art. 1 della legge
96/1955, quelli precipuamente collegati
«all’inibizione a frequentare la scuola pubblica e a disagi e traversie patite anche
dopo l’8 settembre 1943… a licenziamento da impiego pubblico, a congedo dei ruoli
del complemento delle forze armate, ad espulsioni da associazioni o formazioni vicine
al “regime”, a perdite di beni patrimoniali dovute a trasferimenti in Italia e all’estero
avvenuti sia prima che dopo l’8 settembre 1943» 64.
non ravvisando in questo tipo di atti
«elementi per individuare speciiche azioni persecutorie nei confronti del ricorrente, neanche sotto il proilo della violenza morale»65.
63
Una sentenza per tutte: Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27
gennaio 2003 (pres. De Rose, rel. Mastropasqua) Ministero economia c. Pavia, pubblicata, al
pari di tutte le altre sentenze della Corte che qui si citano, nel sito della Corte dei conti www.
corteconti.it. Impressiona sfavorevolmente come intere parti della sentenza siano pedissequamente copiate da una sentenza di poco precedente – Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale
centrale d’Appello, 11 novembre 2002 (Pres. Simonetti, rel. Arganelli) –: più che di un meditato
e critico processo di valutazione, la sentenza sembra il frutto di uno sbrigativo, pigro, quasi
distratto, consenso accordato al ‘precedente’. Inquieta il ripetersi degli stessi errori ortograici
(“pregressi periodo”) e degli stessi moduli conclusivi (“nulla più di tanto”): forse frutto di un
pessimo – non solo e non tanto dal punto di vista tecnico – uso del computer?
64
Corte dei conti – Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003 (pres. De
Rose, rel. Mastropasqua), Ministero economia c. Pavia – che richiama Corte dei Conti, Sez.
Riun., sent. n. 9/98 Q.M.
65
Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003, Ministero
economia c. Pavia, cit.
238 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
e concludendo:
«In mancanza di una provata determinante consistenza lesiva dei valori fondamentali della persona, gli accadimenti, cui furono sottoposti tutti i cittadini ebrei a
seguito dell’emanazione delle leggi razziali, possono essere considerati solo come
atti che avrebbero potuto esporre al pericolo di una compromissione di detti valori,
pericolo, peraltro, che, come tale, comporta solo il riconoscimento della qualiica di
perseguitato razziale a norma e ai ini della legge 8.7.71 n. 541, e non può, invece,
portare di per sé stessa, al conferimento dell’assegno»66.
Pertanto provare che si è stati allontanati dalla scuola, costretti a espatriare
in Svizzera, privati del lavoro, estromessi dall’esercito, esclusi, in una parola,
dalla vita nazionale, per usare l’espressione di Domenico Riccardo Peretti
Griva67, non basta a dimostrare che si è subito un danno morale:
«non può comunque soccorrere a detto ine la mera soggezione a discriminazioni
e/o impedimenti posti direttamente ed in via generale dalle leggi razziali, come ad
esempio l’inibizione a frequentare la scuola pubblica; l’allontanamento dal pubblico
impiego; trasferimenti nel territorio italiano e/o all’estero – in particolare quelli in
Svizzera che hanno costretto talvolta a permanere in campi profughi –; il congedo
dai ruoli del complemento delle forze armate; l’espulsione da associazioni o formazioni vicine al “regime”; lo stato di apolidia; le perdite di beni patrimoniali dovute
a trasferimenti in Italia e all’estero ancorché avvenuti prima dell’8 settembre 1943;
altre situazioni aflittive e discriminanti, sancite “in via generale e direttamente” dalle
leggi razziali; l’applicazione di misure di limitazione-discriminazione, poste in via
generale dalle dette leggi razziali, trattandosi di effetti di tali leggi e di applicazione
di esse a “tutti” i cittadini ebrei che si trovavano nelle condizioni previste (pregiudizi
di cui alla legge n. 17/1978)»68.
Per la scelta interpretativa del giudice tutte le restrizioni, le sofferenze e i disagi
descritti non danno luogo a violenza morale, bensì solo a un pregiudizio morale, pro-
66
Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003, Ministero
economia c. Pavia, cit.
67
«Esclusione dalla vita nazionale» è espressione usata dal Presidente della Corte d’Appello di Torino Domenico Riccardo Peretti Griva, nella nota alla Sentenza del Tribunale lavoro
Roma, Gasviner c. Ditta Viganò, ne La magistratura del lavoro, 1939, col. 1125: «Non una
sanzione penale si voleva inliggere alla razza esclusa dalla vita nazionale, sebbene si voleva
instaurare un ordine che eliminasse ogni pericolo di preoccupante commistione». Cfr. Speciale,
Giudici e razza, cit., ad indic.
68
Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003, Ministero
economia c. Pavia, cit.
Giuseppe Speciale
239
prio perché derivano «direttamente dalla soggezione stessa del cittadino e dell’intera
comunità ebraica alle norme discriminatici»69.
69
Nello stesso senso, ma con più ampia motivazione, Corte dei conti, sez. III giurisdizionale centrale d’Appello, 18 giugno 2004 (pres. Pellegrino, rel. Schlitzer), Cesana c.
Presidenza Consiglio dei Ministri, non pubblicata: «Una volta precisato, peraltro, che la
violenza consiste essenzialmente nella lesione del fondamentale diritto della persona, in uno
qualunque dei valori protetti, l’area dei potenziali beneiciari degli assegni va agevolmente
individuata in tutti i soggetti che abbiano subito gli effetti lesivi di essa; in tutti i soggetti,
cioè, che siano stati lesi nel fondamentale diritto della persona, quale si è sopra delineato.
Hanno titolo alle provvidenze in parola, dunque, non soltanto i soggetti direttamente colpiti
dagli atti violenti, ma anche quelli che da tali atti abbiano comunque ricevuto effetti lesivi
del diritto della persona, purché si tratti di effetti causalmente collegabili a quella violenza...
La violenza, in altri termini, non va ravvisata in quella situazione generalizzata di discriminazione, di persecuzione e di minaccia concreta, causata dalle autorità italiane e fasciste
dell’epoca nei confronti degli ebrei... Dalle persecuzioni ammissibili sono da escludere le
violenze morali alle quali, ad esempio, vennero sottoposti i cittadini italiani di origine ebraica
con disposizioni di carattere generale dalle autorità statali dal 1938 in poi, in conseguenza
della legislazione antirazziale in quanto l’allargamento della nozione di violenze e sevizie
alle violenze morali porterebbe ad estendere il beneicio a tutti gli appartenenti alla razza
ebraica, vissuti in quel determinato periodo storico, ancorché essa non abbia inciso in tutti
i soggetti con la stessa intensità... Si dovrebbe cioè ritenere, diversamente da quanto sopra
opinando, che il Legislatore avrebbe introdotto con la norma citata una sorta di presunzione
legale che darebbe titolo a tutti i cittadini appartenenti alla razza ebraica al richiesto assegno
vitalizio di benemerenza; mentre appare invece chiaro l’intento del legislatore di riservare
tale particolare beneicio soltanto a coloro che, oltre a patire le gravissime, ingiuste e mai
abbastanza deprecate vessazioni comuni a tutti gli ebrei, hanno dovuto subire particolari atti
persecutori o risentirne conseguenze differenziate ed ulteriori rispetto a quelle conseguenti
dalla semplice produzione degli effetti generalmente derivanti a danno di tutti i cittadini di
origine ebraica... Tra questi ultimi rientrano proprio quello evidenziato dall’appellante di
impossibilità ad iscriversi in scuole italiane di ogni ordine e grado e l’altro di più ampia
e generale portata nella interruzione delle relazioni sociali e delle amicizie che giunsero a
tradursi poi in vera e propria dificoltà di vita tradottasi in cambi d’identità, dimora presso
famiglie non ebree e attività svolte per sottrarsi ai rastrellamenti. Si tratta di atti tutti dimostrazione della creazione di uno stato esistenziale di enorme dificoltà la cui deprecazione e
condanna non possono che essere assolute ed assolutamente non di stile o di maniera. Eppure
esso, in disparte problemi probatori forse superabile con il ricorso ai fatti notori, ai principi
di prova ed agli indizi univoci e convergenti, inisce per essere la dimostrazione di uno stato generale e comune, in quel periodo, ad una vasta categoria di cittadini italiani. Oggetto
della normativa invocata è invece il ristoro di una situazione ancor più disagiata per effetto
di ulteriori speciici nocumenti. Soccorre a chiarire questo aspetto proprio il richiamo alla
fattispecie asseritamene analoga della sorella della ricorrente, signora Graziella, che è stata
a lei favorevolmente decisa dalla Sezione Lazio, la stessa da cui promana la sentenza oggi
in discussione, con altra pronuncia n. 2163 del 2000 non impugnata dall’amministrazione.
In realtà era presente nella fattispecie concernente la sorella della ricorrente, correttamente
risolta in modo diverso dalla medesima sezione, quell’elemento che differenziava i due casi
e quindi la loro soluzione. La signora Graziella Cesana infatti, pur subendo sostanzialmente
le medesime traversie della sorella, appellante in questo giudizio, veniva licenziata dal suo
datore di lavoro, proprio a causa della sua appartenenza alla razza ebraica, e subiva quindi un
concreto atto di esclusione dalla vita lavorativa. Vi era cioè proprio quell’elemento speciico
in cui si può individuare, nell’ambito dell’ampia interpretazione che precede, un atto persecutorio di violenza lesivo dei suoi diritti. La mancanza, nel caso in esame, di un elemento
240 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Continua il giudice:
«La scelta del legislatore è stata, invece, nel senso che per la concessione dell’assegno di benemerenza occorre non solo la sottoposizione alle leggi razziali, ma anche
fatti concreti attuativi di dette disposizioni integranti la previsione normativa. Il fatto è
che, perché possa ritenersi sussistente la «violenza morale», occorre qualcosa d’altro;
la qualiica di perseguitato razziale infatti non comporta il riconoscimento in re ipsa
di aver subito violenze morali. Peculiarmente rileva la forza di coercizione e la sua
intensità, cosicché come già detto è indispensabile il concorrente “apprezzamento”
caso per caso delle dedotte situazioni di “violenza morale”, per poter valutare, anche
sulla base di presunzioni, l’effettiva sussistenza o meno di connotazioni di violenza
nel caso speciico… Dette situazioni danno diritto ex se ad ottenere beneici diversi
dall’assegno vitalizio di cui al più volte citato art. 3 Legge 1980 n. 932, quali il riconoscimento della “qualiica” di perseguitato razziale e l’ammissione alla “copertura
assicurativa” presso l’INPS di pregressi periodi. Ma nulla più di tanto»70.
«Ma nulla più di tanto»: potrebbe essere l’epitafio scritto da un giudice sulla tomba della legislazione risarcitoria in nome di una fedele(?) interpretazione
dell’ordinamento alla luce di un’attenta(?) lettura dei suoi principi generali71.
All’attenzione del giudice della Corte dei conti chiamato a decidere circa la
concessione dell’assegno di benemerenza si pone un interrogativo che può ben
considerarsi la questione principale e preliminare rispetto alla decisione sulla
concessione: per l’ordinamento la concessione del beneicio risarcitorio spetta
sic et simpliciter a chi dimostri di essere ebreo e di essere stato destinatario
della legislazione razziale del 1938? Oppure la concessione del beneicio è
subordinata alla prova, a carico dell’istante, che da quella legislazione subì
del genere, al di là, si ripete di quegli atti generalizzati per l’intera cittadinanza di origine
ebraica, impone una diversa e non favorevole soluzione». Nel caso della signora Graziella il
giudice che concede il beneicio non tiene conto che l’evento lesivo non è stato causato da
persone legate allo stato o al fascismo.
70
Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 27 gennaio 2003, Ministero
economia c. Pavia, cit.
71
Opportunamente lo stesso giudice, sul punto che concerne il periodo in cui le violenze,
morali o isiche, devono rientrare, annota: «Occorre inine che la «violenza morale» nella
anzidetta conigurazione sia stata perpetrata e subita prima dell’8 settembre 1943 e dopo il 7
luglio 1938, essendo questo l’arco di tempo preso in considerazione dal legislatore, che ne
indica il termine iniziale nell’art. 1, ultimo comma, della Legge n. 96 del 1955 e ne issa il
termine inale con il richiamo all’identico termine previsto per i perseguitati politici al primo
comma stesso art. 1 (cfr. anche ordinanza Corte Cost. n. 231 del 3.7.1996 là dove è stato
ritenuto che la relativa disciplina vale a regolare solo i fatti accaduti prima dell’8 settembre
1943, dovendo i fatti successivi trovare la loro regolamentazione nella speciale legislazione
concernente gli internati e i deportati per motivi razziali: L. 1963 n. 40; D.P.R. 1963 n. 2043;
L. 1966 n. 646; L. 1980 n. 791, L. 1994 n. 94)»: Corte dei conti, Sez. I giurisdizionale centrale
d’Appello, 27 gennaio 2003 Ministero economia c. Pavia, cit. Sui termini temporali a cui si
riferisce la l. 96/1955 cfr. infra.
Giuseppe Speciale
241
concretamente e personalmente un danno? Meglio: la soggezione alle norme
razziali integra di per sé la violenza a cui l’ordinamento subordina la concessione del beneicio? Oppure è necessario che l’istante provi che dalla concreta
applicazione nei propri confronti della legislazione razziale sia derivato un
atto di violenza? La ricca e variegata giurisprudenza del magistrato contabile
è chiamata a dare risposte a questi interrogativi che costituiscono in qualche
modo la questione centrale e preliminare da risolvere per decidere circa la concessione dell’assegno. Nel 2003, preso atto della complessità della questione,
dell’ondivago orientamento assunto dalla Corte, della necessità di chiarire i
termini della questione per dare una soluzione coerente e omogenea ai tanti
casi che continuano a essere sottoposti al giudizio della Corte, le sezioni riunite
della Corte dei conti sono chiamate a risolvere la “questione di massima” che
è stata loro rimessa in occasione di un processo dalla I Sezione giurisdizionale
centrale d’Appello. I giudici della sezione ritengono che, rispetto al problema
principale che è oggetto del giudizio, cioè rispetto alla questione che concerne
la spettanza stessa del beneicio, sia preliminarmente necessario decidere
«se le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbano considerarsi mera soggezione alla legislazione razziale o, all’opposto, possano in astratto ritenersi idonee a
concretizzare una speciica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a
ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili»72.
4d. nella Padoa davanti ai giudici
Il caso all’esame della I sezione ha come protagonista Nella Padoa, la
bambina ebrea italiana, protagonista di una delle due storie ordinarie che qui
si vogliono raccontare, che nel 1945 viene allontanata dalla scuola pubblica,
arrestata e internata nel carcere di Modena in attesa di essere deportata.
Il 4 aprile 1956 la signora Nella Padoa chiede di essere ammessa a godere
dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 1 della legge n. 96 del
10 marzo 1955. La legge concede l’assegno, tra l’altro, ai «cittadini italiani
che dopo il 7 luglio 1938 abbiano subito persecuzioni per motivi d’ordine
razziale» che «abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura
non inferiore al 30%» quando «causa immediata e diretta della perdita della
capacità lavorativa siano stati» «atti di violenza o sevizie da parte di persone
alle dipendenze dello stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari».
L’istanza di Nella rimane senza esito, probabilmente perché non si prova la
perdita della capacità lavorativa. La legge n. 932 del 22 dicembre 1980, in
72
Corte dei Conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 21 gennaio 2004, Ministero
Economia c. Padoa, cit.
242 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
particolare l’art. 3, però, modiica la disciplina issata dalla legge 96/1955,
come modiicata anche dalla legge n. 261 del 24 aprile 1967, e, tra l’altro,
ammette a godere dell’assegno di benemerenza anche chi abbia raggiunto il
limite di età pensionabile, senza che abbia riportato una perdita della capacità
lavorativa. Nella Padoa il 16 marzo 1992 presenta nuovamente l’istanza per
essere ammessa a godere dell’assegno, ma la sua domanda viene rigettata
il 24 giugno 1992, con la deliberazione n. 80293, dalla Commissione per le
Provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri. Per la Commissione la marchiatura nei documenti
uficiali e l’allontanamento dalla scuola del regno come appartenente alla
razza ebraica, l’arresto per motivi razziali da parte delle SS. Tedesche e l’internamento nel carcere di Modena, dal 19 marzo al 22 aprile 1945, subiti da
Nella Padoa, non integrano gli atti di violenza richiesti dall’art. 1 lettera c)
della legge 96/1955 come modiicato dalla legge 261/1967:
«atti di violenza o sevizie in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze
dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari
del partito fascista».
La Commissione non accoglie la domanda perché ritiene che in capo alla
richiedente non sussistano i requisiti previsti dalla legge, neanche sotto il
proilo della violenza morale…
«Ciò atterrebbe, infatti, esclusivamente alla generale condizione di soggezione e
discriminazione dei cittadini ebrei che, come tale, comporterebbe solo il riconoscimento della qualiica di perseguitato razziale a norma e ai ini della legge 8.7.71 n.
541, e non potrebbe, invece, portare di per sé stessa, al conferimento dell’assegno,
per il quale dovrebbe concorrere almeno una delle speciiche azioni persecutorie
previste dal sopracitato art. 1, Legge 96/1955, nell’arco di tempo dal 7 luglio 1938
all’8 settembre 1943»73.
In sostanza, la Commissione ritiene che alla signora Padoa possa riconoscersi solo lo status di perseguitato razziale in base alla legge 541/197174.
Per quanto riguarda, poi, l’arco di tempo compreso tra il 7 luglio 1938 e l’8
settembre 1943, la Commissione si riferisce al I e all’ultimo comma dell’art.
1 della legge 96/1955 come modiicato dalla legge 261/1967.
73
Corte dei Conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 21 gennaio 2004 (pres. De
Rose, est. Maggi), Ministero Economia c. Padoa.
74
«Articolo unico. La legge 24 maggio 1970, n. 336, recante beneici a favore dei dipendenti pubblici ex combattenti ed assimilati, si applica anche agli ex deportati ed agli ex
perseguitati, sia politici che razziali, assimilati agli ex combattenti».
Giuseppe Speciale
243
Nella Padoa, contro la deliberazione della Commissione, presenta ricorso
alla Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Emilia Romagna. La Corte, con la sentenza n. 1375 del 6 febbraio-2 agosto 2001, accoglie
il ricorso proposto da Nella Padoa e la ammette al godimento dell’assegno
nella considerazione che negli atti subiti dalla ricorrente si concretizzano le
violenze previste dalla legge concessiva, anzi, richiamando il I comma dell’art.
unico della legge 361 del 1968, ammette la stessa signora a godere dei relativi diritti già a decorrere dal 4 aprile 1956, data di presentazione della prima
domanda della istante.
Il Ministero dell’economia si appella alla sezione giurisdizionale centrale
d’Appello della Corte dei Conti sostenendo che sussiste errore di diritto nel
riconoscimento dell’assegno vitalizio e della sua decorrenza. In particolare,
l’appellante lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1 della legge
96/1955, dell’art. 1 della legge 261/1967 e dell’art. 1 della legge 932/1980,
perché, nella fattispecie,
«l’impugnata sentenza avrebbe erroneamente applicato le norme sopracitate
considerando le restrizioni cui fu sottoposta la Sig.ra Nella Padoa, in seguito all’emanazione delle leggi razziali del 1938, come elemento suficiente per integrare gli
estremi delle persecuzioni in base al dettato normativo. In dette restrizioni non si
ravviserebbero, infatti, elementi per individuare speciiche azioni persecutorie nei
suoi confronti, neanche sotto il proilo della violenza morale nell’accezione estensiva
dell’ipotesi sub c) del testé citato articolo 1, cui fa riferimento la più recente giurisprudenza (cfr. Corte dei conti, Sez. Riun., sent. n. 9/1998/QM)»75.
In sintesi il Ministro e l’Avvocatura dello Stato ritengono che sia necessario un quid pluris rispetto alla mera soggezione alla legislazione antiebraica
perché si concretizzi l’azione lesiva alla cui sussistenza la legge subordina la
concessione dell’assegno. Nello stesso senso si erano pronunciate le sezioni
riunite della Corte dei Conti l’1 aprile 1998 per risolvere la questione di massima n. 9 loro rimessa dal Procuratore generale. Inoltre, l’appellante rileva la
violazione dell’art. unico della legge 361/1968: tale articolo infatti estende i
beneici previsti dalle leggi 96/1955, 1317/1956 e 284/1961 ai cittadini italiani
che hanno subito persecuzioni politiche e razziali sui territori posti dopo il
giugno del 1940 sotto il controllo della Commissione Italiana di Armistizio
con la Francia (CIAF). Pertanto tale articolo non può applicarsi in alcun modo
al caso della signora Padoa poiché, come risulta dagli atti, ella non si è mai
allontanata dall’Italia settentrionale. Quanto a quest’ultimo punto, relativo
alla legge 361/1968, l’avvocato della signora Padoa nel giudizio d’appello
75
Corte dei Conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 21 gennaio 2004, Ministero
Economia c. Padoa, cit.
244 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
aveva avuto modo di chiarire, con una spiegazione a mio parere assai poco
convincente, che il richiamo all’art. unico della legge 361 trovava una sua
giustiicazione non per l’ambito territoriale a cui esplicitamente si riferiva,
che era assolutamente estraneo alle vicende della signora Padoa, bensì per
la previsione della retroattività delle domande già inutilmente presentate.
In sostanza, l’avvocato della signora Padoa – anche sulla base del disposto
dell’art. 7 della legge 261/1967 che stabilisce «le domande... sono ammesse
senza limiti di tempo» – sostiene la tesi che la norma della legge 361/1968 –
per la quale le domande già inoltrate, intese ad ottenere i beneici di cui alle
leggi 96/1955, 1317/1956 e 284/1961, verranno riprese in esame con effetto
dalla loro presentazione – non si rivolga esclusivamente ai soggetti che hanno
subito le persecuzioni politiche e razziali nei territori soggetti al CIAF, ma in
generale a tutti coloro che, anche in altri ambiti territoriali, siano stati oggetto di
persecuzione. Un’interpretazione diversa – sostiene l’avvocato – «segnerebbe
un’incongrua discriminazione tra persone in identica situazione».
4e. Ancora sul caso di nella Padoa. Corte dei conti, questione di massima
n. 8 del 2003: il punto più alto della rilessione dei giudici
Questo è il quadro complessivo della questione e lo stato della rilessione
della giurisprudenza quando la I Sezione giurisdizionale centrale d’Appello è
chiamata a risolvere il caso di Nella Padoa. I giudici della sezione, pur rilevando l’importanza e la delicatezza delle questioni riguardanti il tipo di beneicio,
l’individuazione del momento dal quale può ammettersi il godimento dello
stesso, investono le sezioni riunite della questione di massima.
Le sezioni riunite della Corte dei Conti risolvono positivamente la questione
pregiudiziale loro rimessa con la sentenza n. 8/2003/QM del 25 marzo 2003
affermando
«il diritto dei cittadini italiani che abbiano subito persecuzioni politiche a carattere antifascista e razziale in forma di violenze e sevizie ad opera di agenti dello
Stato Italiano ovvero di appartenenti al partito fascista, all’assegno di benemerenza
previsto e disciplinato dall’art. 1 L. 10 marzo 1955 n. 96, come modiicato dalla
legislazione successiva e, da ultimo, dall’art. 1 L. 22 dicembre 1980 n. 932, quando
essi siano stati assoggettati a misure amministrative di esclusione dalla vita politica
e sociale in applicazione delle cc.dd. leggi razziali nel periodo dal 7 luglio 1938 al
25 aprile 1945»76.
76
Corte dei Conti, sezioni riunite, 25 marzo 2003, questione di massima n. 8 (Pres. Castiglione Morelli, est. Di Salvo, P.M. Tranchino), Padoa c. Ministero Economia, integralmente riportata in Corte dei Conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 21 gennaio 2004, Ministero
Economia c. Padoa, cit. Nella sentenza redatta dal magistrato Silvano Di Salvo riscontro uno
dei momenti più alti della rilessione dei giuristi degli ultimi anni sulla legislazione razziale.
Giuseppe Speciale
245
Il giudice, la sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei
Conti, recepisce integralmente la sentenza delle sezioni unite che risolve la
questione di massima, rilevante ai ini dell’attribuzione alla signora Padoa
dell’assegno di benemerenza. Ma prima di affrontare la questione centrale
dell’ammissibilità della signora Padoa al godimento dell’assegno, il giudice
risolve le questioni relative all’applicabilità al caso della legge 361/1968
contestata dall’amministrazione appellante.
Correttamente, a mio parere, la I Sezione giurisdizionale centrale d’Appello
esclude che nel caso possa trovare applicazione la legge 361/1968, neppure
limitatamente alla parte in cui la norma prevede la possibilità di riprendere
in considerazione le domande presentate in precedenza. Tale possibilità è infatti limitata ai cittadini, già esclusi dal godimento dei beneici, e legittimati
a goderne per effetto della interpretazione autentica della legge n. 96/1955,
e successive modiicazioni, introdotta con la citata legge 361/1968. D’altro
canto, la Signora Padoa il 16 marzo 1992 ha presentato istanza di ammissione
al godimento dell’assegno ai sensi dell’art. 3 della legge n. 932/1980 che così
modiica l’art. 4 della legge 24 aprile 1967, n. 261:
«Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all’art.
1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modiicazioni, verrà concesso,
a carico dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, reversibile ai familiari
superstiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo
di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui
abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano riconosciuti invalidi a proicuo lavoro...».
Quest’ultima norma non prevede la possibilità di attribuire decorrenze
anteriori alla sua entrata in vigore cosicché è solo all’istanza presentata nel
marzo 1992 che deve aversi riguardo ai ini della ricorrenza del beneicio. Il
giudice precisa, concludendo sul punto, che neppure
«è signiicativo, nel caso, il richiamo all’art. 7 della legge n. 261/1967 che così
recita: «Le domande per ottenere i beneici previsti dalle leggi 10 marzo 1955, n.
96, 8 novembre 1956, n. 1317, 3 aprile 1961, n. 284 e dalla presente legge, sono
ammesse senza limiti di tempo» in quanto tale norma non include la possibilità di
retrodatare i beneici con riferimento a domande precedentemente presentate con
riferimento ad altri beneici previsti per le categorie di cui trattasi».
Per quanto poi riguarda il punto centrale della decisione, se cioè alla
signora Padoa spetti il beneicio richiesto, il giudice si attiene alla sentenza
delle Sezioni riunite che ha risolto la proposta questione di massima. Le Sezioni riunite, la cui decisione è riportata integralmente nella sentenza della I
sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei Conti, affrontano
246 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
compiutamente ed esaustivamente la questione loro rimessa sviluppando un
ragionamento lungo distinte direzioni.
Sotto il proilo più strettamente attinente all’iter processuale, al rapporto
con il giudice che ha rimesso la questione di massima e all’ambito entro il
quale contenere la decisione della questione stessa, in primo luogo le Sezioni
riunite riassumono in termini lucidi la questione di massima, se la generalizzata
e pedissequa applicazione delle leggi razziali sia suficiente a produrre in capo
ai destinatari delle stesse quelle violenze e quelle sevizie alla cui sussistenza
la legge concessiva subordina il diritto al godimento dell’assegno di benemerenza, oppure se sia necessario, perché possa affermarsi il diritto al godimento
dell’assegno, provare caso per caso la concreta ricorrenza di un quid pluris
rispetto alla «semplice produzione degli effetti generalmente derivanti a danno
di tutti i cittadini di religione ebraica»:
«Nell’evidenziare il contrasto giurisprudenziale realizzatosi nella subiecta materia,
il giudice remittente ha fatto riferimento, da un lato, a una pronuncia che ha ritenuto
il riiuto di iscrizione alla scuola pubblica azione lesiva utile sic et simpliciter a concretizzare uno dei presupposti previsti dalla legge per il conferimento dell’assegno di
benemerenza (Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, 27 novembre 2002, n°
418), e ha richiamato – sul contrapposto versante restrittivo – pronunce che, pur non
escludendo parimenti e con uguale fermezza la lesività (“gravissima” e “deprecabile”)
di valori inviolabili della persona derivante dalla generalizzata applicazione delle cc.dd.
“leggi razziali” (ivi inclusi i provvedimenti di espulsione dalla scuola pubblica), tuttavia
hanno escluso la rilevanza di tale “generica” lesività al ine pratico del riconoscimento
del diritto all’assegno di benemerenza previsto dalla legge in favore dei perseguitati
razziali, ravvisando la necessità che a tale scopo sia comprovato caso per caso un quid
pluris rispetto alla “semplice produzione degli effetti generalmente derivanti a danno
di tutti i cittadini di religione ebraica”, così negando l’allargamento della nozione di
violenze e di sevizie prevista dalla legge alle violenze morali derivanti dalla pedissequa,
ancorché isicamente non lesiva, esecuzione della normativa antiebraica da parte di
persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a organi dello Stato o del regime
fascista (Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, 1° novembre 2002, n° 392
e 15 luglio 2002, n° 240; Sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, 26 febbraio
2002, n° 57, menzionate nell’ordinanza di remissione)».
Poi il giudice precisa che alla questione di massima rimessa alle sezioni
riunite darà una soluzione «processualmente utile nonché motivata anche sotto
i peculiari e controversi proili storico-cronologici che necessariamente attengono alla questione stessa». Sottolinea che l’ordinanza di remissione non può
in alcun modo limitare o pregiudicare la decisione della questione di massima
e che anche i punti – primo fra tutti quello che riguarda il limite temporale
compreso tra l’8 luglio 1938 e l’8 settembre 1943 – ritenuti nell’ordinanza
paciicamente risolti, saranno oggetto di accurato riesame:
Giuseppe Speciale
247
«Ciò premesso, va osservato che, per il suo contenuto valutato nel contesto degli
atti del giudizio originante, pendente in grado di appello, il quesito di cui innanzi
postula una disamina d’ordine applicativo che, oltre all’astratta questione posta dal
remittente in ordine alla scelta della qualiicazione da attribuire alle “misure concrete
di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle
scuole pubbliche)”, non può che essere estesa in via mediata anche all’eventuale idoneità o meno di tali “misure” aflittive, in quanto tali, a fondare il controverso diritto
della cittadina appellata all’assegno di benemerenza di cui all’art. 4 della legge 24
aprile 1967 n° 262 (così come sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n°
932), incluso il connesso punto di diritto – che invero il giudice remittente sostiene
essere già stato paciicamente risolto dalla giurisprudenza ma che va qui esaminato
in quanto imprescindibile per un’esauriente soluzione della proposta questione di
massima – relativo alla sussistenza del limite temporale dell’8 settembre 1943 quale
data ultima di consumazione degli atti di violenza che possono essere fatti valere da
cittadini italiani perseguitati per motivi d’ordine razziale al ine del conseguimento
del predetto assegno di benemerenza. Infatti i pur marcati caratteri di astrattezza e
di generalità che lo stesso giudice remittente individua nel quesito formulato e pone
a base del deferimento, non escludono, anzi, presuppongono, al ine di una positiva
delibazione in punto di ammissibilità, che la soluzione richiesta risulti sul piano operativo concretamente funzionale alla deinizione del giudizio nel quale la questione è
stata sollevata (Sezioni riunite, 4 ottobre 1999, n° 24), dovendo fornire dunque queste
Sezioni riunite, nella fattispecie, una risoluzione della proposta questione di massima
processualmente utile nonché motivata anche sotto i peculiari e controversi proili
storico-cronologici che necessariamente attengono alla questione stessa, la quale –
giova ricordare – non può ritenersi in questa sede pregiudicata dalle argomentazioni
contenute nell’ordinanza di remissione, per sua natura priva di valenza decisoria».
Per quanto riguarda il merito della questione il giudice rileva che il contrasto interpretativo che è chiamato a risolvere – cioè se la mera applicazione
delle leggi razziali sia suficiente ad integrare gli estremi delle violenze e
delle sevizie a cui i testi legislativi subordinano la concessione dei beneici
– nasce dal fatto che in nessuno dei testi legislativi che prevedono beneici
per i perseguitati politici e razziali ricorre un riferimento esplicito alle leggi
razziali. Da qui la necessità che sia l’interprete a stabilire se la mera applicazione della legislazione razziale in capo ad un determinato soggetto possa
integrare la previsione della lettera c) dell’art. 1 della legge 96/1955 («atti di
violenza o sevizie subiti in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste,
o di emissari del partito fascista»), previsione che descrive la sola fattispecie,
tra quelle previste dall’ordinamento, in astratto applicabile ai destinatari delle
leggi razziali in quanto tali. Nel merito il giudice aggiunge che il fatto stesso
che la legislazione preveda una “riparazione” solo per quegli atti di violenza
o sevizie di provenienza pubblica – escludendo che possa applicarsi la norma
248 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
in presenza di atti di violenza o sevizie di provenienza privata – evidenzia di
per sé «l’ontologica intensità della vis persecutoria» a cui si riferisce la legge:
«Tuttavia può sin d’ora essere osservato che la scelta legislativa dell’inequivoca limitazione della legge n° 96 del 1955 alla provenienza “pubblica” e “politica”
degli atti di violenza per i quali lo Stato offre riparazione (con esclusione, quindi,
di quegli atti di violenza compiuti da cittadini privi di rapporto organico o politico
con pubbliche istituzioni nel generale clima di antisemitismo indotto proprio dalla
propaganda di regime e dalle leggi razziali), vale già di per sé a qualiicare l’assolutezza, la coercibilità e, quindi, l’ontologica intensità della vis persecutoria presa
in considerazione nella predetta legge, in quanto dispiegata da pubblici poteri che
furono istituzionalmente legittimati ad attuare le misure persecutorie».
Inoltre, il giudice per meglio connotare l’assolutezza della predetta vis persecutoria, mette in risalto come lo status di appartenente alla comunità ebraica
si conseguisse in modo assolutamente necessario ed automatico in dipendenza
della qualità di israelita e di residente nel territorio della comunità stessa:
«Il concetto di violenza preso in considerazione nella menzionata disposizione
va dunque rapportato <...> al carattere di generalità, di ineluttabilità e di autoritarismo istituzionale degli atti “pubblici” di persecuzione in quanto così legittimati
dall’ordinamento... In questo contesto normativo, la discriminazione razziale si
è manifestata con caratteristiche peculiari, sia per la generalità e la sistematicità
dell’attività persecutoria, rivolta contro un’intera comunità di minoranza, sia per
la determinazione dei destinatari, individuati come appartenenti alla razza ebraica
secondo criteri legislativamente stabiliti (art. 8 r.d.l. n° 1728 del 1938… “ (Corte
costituzionale, 17 luglio 1998, n° 268)».
Sull’interpretazione da attribuire alla locuzione “atti di violenza” riportata
nella lettera c) dell’art. 1 della legge 96/1955, il giudice, senza smentire la
sentenza relativa alla questione di massima n. 9 del 1998 (caso Cesana), ritiene che «alla luce della peculiarità del quesito attualmente posto dal giudice
remittente, e in base alla problematica evoluzione della cospicua e più recente
giurisprudenza di questa Corte nella subiecta materia» siano opportune ulteriori considerazioni.
Richiama allora la sentenza del 1998 per affermare che nella previsione
degli “atti di violenza” di cui alla lettera c) del citato art. 1 devono comprendersi tutti «gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto
della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti», quindi anche
gli atti che hanno prodotto violenza morale non essendo giuridicamente possibile «isolare, nell’ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello
dell’integrità isica), trascurando tutti gli altri che completano il diritto della
personalità».
Giuseppe Speciale
249
Richiama, ancora una volta, la sentenza del 1998. Il giudice allora aveva
sottolineato la funzione solidaristica e l’intento risarcitorio della normativa,
ma, proprio sulla considerazione che per l’art. 1 della l. 96/1955 gli atti di
violenza dovessero provenire da persone, aveva escluso che la mera soggezione
alla legislazione razziale potesse integrare la fattispecie della violenza e aveva
concluso che l’assegno di benemerenza doveva essere concesso ai soggetti che,
«per la loro condizione razziale, nell’arco di tempo dal 7 luglio 1938 all’8 settembre 1943, avessero subito atti persecutori di violenza, dai quali siano derivati,
direttamente o indirettamente, effetti lesivi del diritto della persona in uno qualunque
dei suoi valori costituzionalmente protetti, allorché gli atti di violenza stessi siano
stati posti in essere da persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni
militari o paramilitari fasciste, o da emisssari del partito fascista, ovvero siano stati
da essi ordinati o promossi o quando gli stessi – avendone avuta la possibilità – non
li abbiano impediti»77.
Ma il giudice del 2003 sulla questione di massima non si ferma qui.
Considerato che nella giurisprudenza si sono avute «contrapposte interpretazioni applicative», egli ritiene di dovere «formulare ulteriori precisazioni
al riguardo». Ed è proprio in queste «ulteriori precisazioni» che il giudice
risolve deinitivamente la questione di massima che gli è stata rimessa. Egli
utilizza una inventio argomentativo-retorica che si rivela di straordinaria eficacia perché gli consente di andare oltre la linea giurisprudenziale tracciata
dai giudici del 1998 senza però smentirne i principi. Ho l’impressione – e fra
poco la mia impressione potrà trovare un fondamento in ciò che il giudice
sostiene – che il nostro giudice avverta il rischio che il principio – che pure è
certamente incontrovertibile da un punto di vista logico-giuridico e che egli
stesso condivide e sostiene – secondo cui la mera soggezione alla legislazione
razziale non integra la fattispecie della violenza alla cui sussistenza la norma
subordina la concessione del beneicio può inire, assunto sic et simpliciter,
per dar luogo nella prassi a “contrapposte interpretazioni applicative” che si
traducano in uno stravolgimento sostanziale dell’intento risarcitorio e della
funzione solidaristica della normativa in questione. E voglio precisare che la
mia impressione può trovare una sua giustiicazione proprio in ciò che il giudice afferma. Il giudice lucidamente vuole affermare una interpretazione che,
fatto salvo il principio sopra enunciato, non possa prestarsi ad una applicazione
che inisca con l’eludere lo scopo solidaristico e risarcitorio proprio della normativa. Così egli muove il suo ragionamento ribadendo per l’ennesima volta
che non si ha diritto al beneicio per il solo fatto di appartenere alla minoranza
Corte dei Conti, sez. riunite, 1 aprile 1998 (Pres. f.f. De Mita, est. Zuppa, p.m. Barrella),
Cesana c. P.G. e Ministero del Tesoro, in Rivista della Corte dei Conti, 1998, 51.3, II p. 115.
77
250 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
destinataria delle norme razziali, cioè per il solo fatto di essersi trovati in una
situazione soggettiva passiva di svantaggio potenziale. E a questo proposito,
a scanso di equivoci, precisa che non si consegue il diritto al beneicio per il
solo fatto di essere destinatari delle norme razziali, non perché il legislatore
sia “neutrale” o “indifferente” «rispetto all’applicazione “legittima” e incruenta delle leggi razziali quanto piuttosto» per il «carattere di astrattezza tipico
delle norme giuridiche, che rappresentano volontà preliminare all’azione e
non volontà concreta riferita ad un’azione particolare o al comportamento di
uno speciico soggetto». In questo quadro il giudice introduce la sua inventio
retorico-argomentativa, tanto semplice nella sua architettura logica, quanto
eficace nella sostanza. Egli con una intelligente ed eficace inzione logica
individua nell’unitaria vicenda umana dei destinatari delle norme razziali distinti segmenti autonomi: egli inventa un “algoritmo” che consente in qualche
modo di “spezzettare” la storia, le storie, degli ebrei colpiti dalle leggi razziali.
Egli afferma che riguardo all’ebreo, naturale destinatario delle norme razziali,
deve distinguersi uno stato di soggezione potenziale dallo stato di soggezione
concreta e attuale. A partire dal momento in cui le norme razziali sono poste
in essere, l’ebreo, naturale destinatario di tali norme, si trova in una sorta di
“situazione passiva di attesa” perché potenzialmente nei suoi confronti può
trovare puntuale applicazione la previsione normativa posta in essere in via
generale ed astratta. Nei casi in cui, poi, la previsione normativa, posta in essere in via generale e astratta, trovi concreta, individuale e attuale applicazione
nei confronti di un determinato soggetto, in capo a tale soggetto la situazione
passiva di attesa, lo stato di soggezione potenziale, cessa e si tramuta in uno
stato di attuale e concreta soggezione.
Adottando questo algoritmo, questo schema argomentativo, il giudice raggiunge almeno tre risultati importanti.
Primo risultato: il giudice “salva” la sentenza relativa alla questione di
massima n° 9 del 1998 affermando nella sostanza che la “mera soggezione”
coincide con la “situazione passiva di attesa”:
«La “soggezione” (vieppiù se “mera”), quale categoria giuridica, costituisce infatti
solo quella situazione nella quale vengono a trovarsi soggetti nei confronti dei quali
l’esercizio del potere ha l’astratta possibilità di produrre modiicazioni mediante atti
giuridici, e non lo stato di concreta modiicazione o estinzione di situazioni giuridiche
soggettive determinato dal venire in essere dell’attività del titolare della situazione di
vantaggio. Solo in questo contesto e in questa accezione può ritenersi estranea alla
richiamata previsione legislativa del 1955 la “mera soggezione alle leggi razziali”
cui si sono riferite queste Sezioni riunite nella sentenza citata, da intendersi dunque,
nella fattispecie, esclusivamente quale situazione passiva di attesa nella quale vennero a trovarsi gli appartenenti alla minoranza ebraica dopo che nell’ordinamento
dello Stato italiano era stata introdotta una normativa discriminatrice in danno della
comunità cui essi appartenevano e prima della concreta e individuale applicazione di
Giuseppe Speciale
251
tali disposizioni nei loro confronti. Sotto tale aspetto va confermato che il legislatore
ha sostanzialmente sancito l’impossibilità di riconoscimento automatico del beneicio economico di che trattasi in virtù della sola dimostrazione dell’appartenenza
del richiedente l’assegno di benemerenza alla minoranza ebraica collettivamente
destinataria di norme generali e astratte di tipo persecutorio».
Secondo risultato: il giudice esclude che il beneicio economico previsto
dalla legislazione risarcitoria debba riconoscersi automaticamente ai destinatari
delle norme razziali in quanto tali, cioè per il solo fatto di essere ebrei, e per
il solo fatto di essersi trovati in una situazione di soggezione potenziale. E in
tal senso egli richiama la decisione della Corte costituzionale del 17 luglio
1998 n° 268, con la quale la Corte ritenne
«costituzionalmente illegittimo l’art. 8 della legge 10 marzo 1955 n° 96 nella
parte in cui non prevede che, della Commissione istituita per esaminare le domande
per conseguire i beneici che la legge stessa prevede in favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali, faccia parte anche un rappresentante dell’Unione delle
comunità ebraiche italiane, avendo la Corte posto a base di detta declaratoria di
incostituzionalità considerazioni in ordine alla complessità delle valutazioni richieste
dalla legge, “che implicano anche l’apprezzamento di situazioni in base alla diretta
conoscenza ed esperienza delle vicende che hanno dato luogo agli atti persecutori”,
così implicitamente escludendo un aprioristico automatismo valutativo».
Terzo risultato: lo schema logico adottato, come si è detto, consente al giudice di concludere che nel momento della concreta applicazione delle norme
razziali lo stato di potenziale attesa passiva cessa e si tramuta in uno stato di
concreta e attuale soggezione.
Ma tale conclusione, pur fondata sul piano della logica formale, non è suficiente da sola a risolvere il punto cruciale, cruciale anche sul piano sostanziale,
della questione che al giudice è stata rimessa, se, cioè, le «misure discriminatorie
quali concretamente poste in essere da “persone” in applicazione delle cc.dd.
“leggi razziali”» siano idonee «a costituire – anche qualora prive di surplus vessatorio o persecutorio – “atti di violenza” ricadenti nella previsione normativa
di cui alla lettera c) del menzionato art. 1 della legge n° 96 del 1955».
Per valutare tale idoneità sul piano sostanziale il giudice assume un criterio comparativo. La comparazione – egli afferma – deve avere riguardo, da
un lato, agli scopi che la legge razziale si preigge e ai beni che essa tutela,
dall’altro, ai diritti e ai valori individuali che per l’attuazione della legge
razziale vengono sacriicati. Il giudizio comparativo del giudice del 2003 è
posto negli stessi termini che abbiamo visto nelle sentenze dei casi Gasviner,
Gughenheim, etc78. Ma se i termini della questione sono gli stessi, diverso è
78
Cfr. Speciale, Giudici e razza, cit., ad indic.
252 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
ora il metro che si assume per misurare gli scopi politici della legge e i diritti
individuali che la legge stessa sacriica. Ora il giudice, proprio perché applica
una legislazione risarcitoria, promulgata sotto il vigore dei principi costituzionali – e che proprio perché risarcitoria non può essere neutrale rispetto ai
contenuti della legislazione razziale –, misura scopi e diritti alla luce della carta
costituzionale. Così il giudice chiude il cerchio. Dal giudizio comparativo tra
lo scopo perseguito dalle leggi razziali e i diritti da esse sacriicati emerge
una tale sproporzione che rende superlua, a parere del giudice, qualsiasi ulteriore indagine sul quid pluris persecutorio. Per il giudice, la violenza, alla
cui sussistenza il legislatore del 1955 subordina la concessione del beneicio,
è proprio in questa sproporzione, è proprio nella lacerante e abietta offesa ai
valori fondamentali dell’individuo:
«La vis publica esercitata con la normativa antiebraica si esplicò attraverso una
serie di atti coercitivi esteriori programmaticamente e dichiaratamente diretti a realizzare un “bene politico” precisamente e univocamente individuato: la “difesa della
razza italiana, in quanto pura e appartenente alla millenaria civiltà degli ariani”, come
evincesi dalle rubriche, dai titoli e dal contenuto delle “leggi razziali”, fra le quali,
non esaustivamente, ma speciicamente per quanto qui particolarmente rileva, cfr.
r.d.l. 5 settembre 1938 n° 1390, recante “provvedimenti per la difesa della razza nella
scuola fascista”; r.d.l. 15 novembre 1938 n° 1779, recante “integrazione e coordinamento in testo unico delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola
italiana”; r.d.l. 17 novembre 1938 n° 1728, recante “provvedimenti per la difesa della
razza italiana”). Tale inalità, di per sé considerata, comporta, all’esito del giudizio di
comparazione fra il contenuto del valore pubblico difeso e l’inviolabilità dei valori
individuali e collettivi corrispettivamente sacriicati, che ciascuno dei singoli provvedimenti amministrativi di esecuzione della normativa discriminatrice – ancorché
adottato senza alcun quid pluris persecutorio da parte dei soggetti incaricati di tale
esecuzione nell’esplicazione di funzioni pubbliche e politiche – va considerato come
un’offesa per i valori fondamentali dell’individuo talmente lacerante e così abiettamente motivata da non richiedere alcun altro attributo per ricadere a pieno titolo
nell’accezione di “atto di violenza” presa in considerazione dal legislatore del 1955».
Può aggiungersi, per completezza, che nella sentenza egli affronta anche
il problema del limite temporale di riferimento della normativa. Con acribia
e lucidità il giudice afferma:
«il richiamo del legislatore nell’ultimo comma dell’art. 1 della legge 10 marzo
1955 n° 96 alle “identiche ipotesi” già previste con riferimento alle cause di perdita
della capacità lavorativa di cittadini italiani perseguitati per aver svolto attività politica contro il fascismo, è sintatticamente e logicamente limitato alla sola descrizione
delle fattispecie persecutorie ivi elencate e non si estende ai limiti temporali posti nei
confronti dei perseguitati politici, sia perché per i perseguitati “per motivi di razza”
Giuseppe Speciale
253
lo stesso ultimo comma introduce una previsione cronologica autonoma secondo il
senso fatto palese dal signiicato proprio delle parole secondo la loro connessione
(art. 12, primo coma, delle disposizioni sulla legge in generale), sia perché l’elemento
temporale in sé, per come abbinato nella consecutio del contesto lessicale alle singole
categorie di beneiciari in ciascuna delle due diverse fattispecie considerate nella
norma, più che limitare in realtà qualiica e deinisce le due categorie di soggetti
perseguitati nella loro precisa, autonoma e differente collocazione storica»
Ma il giudice Silvano Di Salvo, estensore della sentenza, si spinge oltre. In
chiusura della sua serrata, convincente ed esaustiva motivazione, quando già
ha risolto deinitivamente la questione nei suoi termini sostanziali, rifacendosi
correttamente ai valori costituzionali e ai topoi propri del ragionamento giuridico, egli getta lo sguardo anche oltre la Carta costituzionale e alza, inalmente,
un grido liberatorio in cui si appella anche al diritto naturale:
«Invero le concrete e individuali misure di attuazione della normativa antiebraica
(tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) non solo realizzarono
in via immediata la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti
(all’istruzione, alla vita di relazione, all’esercizio delle professioni, al matrimonio, ecc.) nel senso deteriore già posto in luce dalla Corte costituzionale con la
richiamata sentenza 17 luglio 1998, n° 268, ma racchiudevano in loro lo scopo,
mediato e tuttavia immanente ed essenziale, di annientare completamente e sotto
ogni possibile proilo della vita civile e di relazione – in quanto costituente “minaccia per la purezza e l’integrità della razza italiana” – l’ancor più presupposto
diritto naturale dei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica alla loro identità
socio-culturale, preesistente alla stessa formazione dello Stato ed essenziale per
qualsiasi comunità civile».
Nell’economia del discorso del giudice, proprio perché posto alla ine del
ragionamento, e quando già sono state risolte ampiamente tutte le questioni
poste dal caso, il richiamo al diritto naturale all’identità socio-culturale ha
proprio un signiicato conclusivo: il giudice chiude deinitivamente l’analisi
del caso79.
79
Io penso che il richiamo della Corte dei Conti del 2003 al diritto naturale segni il
valore, e il limite del valore, dell’interpretazione dei giudici che applicarono la legislazione
razziale. All’interno del quadro legislativo e ordinamentale dell’Italia fascista in cui esercitarono la giurisdizione i giudici non gridarono– se lo avessero fatto sarebbero stati degli
eroi, ma non avrebbero potuto concretamente incidere sull’applicazione delle norme – l’abiezione di quelle disposizioni, pur legittimamente poste; le applicarono, invece, perché
legittimamente poste, limitando, per quanto possibile, la deformazione e lo stravolgimento
che esse producevano sulle forme, sui dogmi, sulle esperienze su cui sino a quel momento
si era fondato l’ordine giuridico. E le applicarono proprio rifacendosi a quelle forme, a quei
dogmi, a quelle esperienze.
254 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
4f. Lili Magrini Ascoli davanti ai giudici. Un imbarazzante passo indietro della giurisprudenza (Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale
d’Appello, 19 maggio 2006)
Torniamo alla vicenda di Lili Magrini Ascoli. La signora, che ha raggiunto l’età pensionabile, chiede, già ultranovantenne, ex art. 3 della l. 932 del
1980, che le venga concesso l’assegno di cui alla l. 96 del 1955. Nel 1998 la
Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri riiuta la concessione dell’assegno perché l’istante, pur soggetta a provvedimenti e restrizioni conseguenti
all’emanazione delle leggi razziali in Italia, non risultava che avesse subito le
persecuzioni espressamente richieste dall’art. 1 della legge 96/1955, né che
avesse svolto attività antifascista prima dell’ 8 settembre 194380. La signora
impugna la deliberazione della Comissione davanti alla Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna: il 13 ottobre 2004 la Corte
le riconosce il diritto all’assegno81.
Nel giudizio innanzi alla Corte dei conti il Ministero dell’economia e delle
inanze si costituisce e chiede che il ricorso di Magrini Ascoli sia respinto perché,
“assolutamente generico”, non indica “quali siano stati gli effetti lesivi” della
normativa razziale nei confronti dell’istante; perché «non vi è alcuna prova
nella specie della concretizzazione di effetti lesivi del diritto alla persona in uno
qualunque dei suoi valori costituzionalmente protetti»; perché, comunque, «la
mera soggezione alla normativa “antiebraica” non è suficiente ad integrare la
fattispecie non tipizzata degli atti di violenza, che comunque debbono essere
posti in essere nell’arco di tempo dal 7 luglio 1938 all’8 settembre 1943».
Il giudice, preso atto di quanto indicato da Magrini Ascoli nella domanda,
chiede al Ministero di provvedere «all’acquisizione di tutta la relativa documentazione probatoria idonea ad accertare la veridicità o meno e l’esatta
consistenza dei fatti stessi in relazione a ciascuna delle tre fattispecie» indicate
dall’istante. Il Ministero conferma la veridicità dei fatti dichiarati dall’istante
e cioè che il marito di Lili Magrini Ascoli, Renzo Boniglioli, fu avviato come
ebreo ed antifascista al campo di concentramento di Urbisaglia nel periodo
1940-1941; che i due igli, Gerio e Dori Boniglioli, furono esclusi dagli asili
e dalle scuole pubbliche; che la madre Isa Magrini fu uccisa nel campo di
sterminio di Auschwitz nello stesso giorno, 10 aprile 1944, in cui arrivò dal
campo di concentramento di Fossoli (all’istante per la morte della madre era
stato concesso l’indennizzo previsto dal DPR 2043/1963).
80
Il riferimento all’attività antifascista e alla data dell’8 settembre rende evidente l’errore
del giudice che tratta indistintamente perseguitati politici e perseguitati in ragione dell’appartenenza alla razza ebraica.
81
Corte dei conti, Sez. giurisdizionale per l’Emilia Romagna, 13 ottobre 2004, comp.
mon. De Maria, Magrini Ascoli c. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per
le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali.
Giuseppe Speciale
255
«Palesemente illegittima, contraddittoria ed erronea» secondo la Corte dei conti
è la deliberazione della Commissione che ha negato l’assegno a Magrini Ascoli.
Innanzitutto il giudice rileva che la Commissione ha fatto confusione tra
«coloro “che abbiano subito persecuzioni in conseguenza della loro attività
politica antifascista”, da quella dei perseguitati razziali, indicati questi ultimi
come coloro “che abbiano subito persecuzioni in conseguenza della… loro
condizione razziale”» ignorando che la legge distingue nettamente le due categorie quanto ai presupposti per la applicazione dei beneici, subordinando
la concessione degli stessi alla prova dello svolgimento di concrete attività
politiche antifasciste per i primi e alla sola condizione razziale – e alle persecuzioni che il possesso di tale condizione razziale di fatto ha comportato – per
i secondi. Prosegue il giudice:
«È storia che gli ebrei furono perseguitati sia prima che dopo l’8.9.1943 non per la
loro attività ma semplicemente per la loro condizione razziale, ossia per il solo fatto
di essere tali… Era la stessa legislazione razziale che marchiava i cittadini ebrei prevedendo nei loro confronti discriminazioni certamente lesive dei diritti fondamentali
della persona umana, con un complesso di provvedimenti che hanno disciplinato i più
diversi settori della vita sociale: le persone, la scuola, l’esercizio delle professioni,
le limitazioni in materia patrimoniale e nelle attività economiche, ecc. Discriminazione, fondata sulla condizione razziale, che si è manifestata con caratteristiche del
tutto peculiari mediante una sistematica attività persecutoria rivolta contro una intera
comunità di minoranza, passando dalla persecuzione di diritti fondamentali umani alla
persecuzione della vita stessa. Se tale fu l’invadenza della legislazione antiebraica nei
riguardi di tale categoria di cittadini, appare di tutta evidenza come nel concetto di
violenza possa e debba comprendersi anche quella morale (v. Corte Costituzionale n.
268/1998 e Corte Conti I Sez. Centrale n. 229/99). Non possono ritenersi irrilevanti,
ai ini del beneicio richiesto, le vicende subite dai perseguitati razziali successivamente all’8.9.1943, quando appunto (v. Corte Costituzionale n. 268/1988 e Corte dei
conti I Sez. Centrale n. 229/99) alla persecuzione dei diritti si innesta la persecuzione
delle vite. Un tale assunto contrasterebbe con la legge 16.1.1978 n. 17 che all’art.
1 condanna la ininterrotta continuità del periodo persecutorio, che raggiunge la sua
massima espressione con la caccia agli ebrei di parte dei militi della RSI in ottemperanza all’ordinanza 30.11.1944 del Ministero degli Interni della RSI che disponeva
l’arresto di tutti gli ebrei e il loro internamento in “appositi campi di concentramento”
(in Italia) e la conisca di tutti i loro beni, in attesa peraltro di essere riuniti in altri
campi di concentramento speciali appositamente attrezzati per lo sterminio di massa.
Perciò, l’essere stati oggetto “ex-lege” di un siffatto trattamento già concreta “ex se”
il concetto di violenza di cui all’art. 3 della legge n. 932/1980»82.
82
Corte dei conti, Sez. giurisdizionale per l’Emilia Romagna, 13 ottobre 2004, Magrini
Ascoli c. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per le provvidenze ai perseguitati
politici antifascisti o razziali, cit.
256 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
Tuttavia il giudice, richiamandosi alla questione di massima n. 8 del 2003,
risolta dalle sezioni riunite della Corte dei conti, non ritiene che all’istante
debba riconoscersi l’assegno perché, in quanto destinataria della legislazione
razziale, è stata oggetto di violenza morale, bensì perché nei suoi confronti
l’applicazione delle leggi razziali ha prodotto concreti e documentati atti di
violenza (arresto e deportazione del marito, espulsione dalla scuola dei igli,
arresto, deportazione e uccisione della madre).
Ma la storia non si chiude così. Il Ministero dell’economia e inanze impugna il giudizio reso dalla sezione della Corte dei conti dell’Emilia Romagna
dinanzi alla I sezione centrale giurisdizionale d’appello della Corte stessa. Il
Ministero lamenta, tra l’altro, l’inadeguata e insuficiente motivazione della
sentenza.
La decisione del giudice, del 19 maggio 2006, che accoglie il ricorso del
Ministero, lascia perplessi, se non esterrefatti. In sostanza il ragionamento
del giudice muove, ancora una volta dalla famosa sentenza con cui le sezioni
riunite della Corte dei conti avevano risolto la questione di massima n. 8 nel
2003. Il giudice chiamato a pronunciarsi sul caso Magrini Ascoli, riprendendo
la sentenza delle sezioni riunite, afferma che
«gli atti di violenza considerati dalla legge, “identiicati in tutti gli atti che
abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei
suoi valori costituzionalmente protetti”, comprendono le ipotesi di violenza morale,
per “l’esigenza di non isolare, nell’ambito dei diritti della persona, un unico valore
(quello dell’integrità isica) trascurando tutti gli altri che completano il diritto della
personalità”. È stato in detta sentenza ritenuto che “il legislatore ha sostanzialmente
sancito l’impossibilità di riconoscimento automatico del beneicio economico di che
trattasi in virtù della sola dimostrazione di appartenenza del richiedente l’assegno di
benemerenza alla minoranza ebraica collettivamente destinataria di norme generali
ed astratte di tipo persecutorio”»83.
Poi il giudice richiama l’art. 3 della legge 932/1980 e afferma che l’assegno
vitalizio di benemerenza è concesso
«al cittadino italiano che ha direttamente subito detti atti persecutori e, solo nell’ipotesi del decesso del medesimo prima dell’entrata in vigore della legge n. 932 del
1980, detto assegno può essere concesso ai familiari, quale assegno di reversibilità».
In tal modo depotenzia, ino a svuotarla completamente di signiicato,
l’interpretazione che il giudice della sezione romagnola aveva dato, a mio
parere correttamente, della sentenza sulla questione di massima n. 8/2003. Per
83
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 19 maggio 2006 (pres. Simonetti, est. Arganelli), Ministero Economia c. Magrini Ascoli.
Giuseppe Speciale
257
il giudice della sezione romagnola gli atti documentati di violenza sul marito,
sui igli e sulla madre di Lili Ascoli Magrini integrano la violenza morale nei
confronti della stessa Lili che, da moglie, madre e iglia, li ha subiti. Per il
giudice d’appello, invece, nella documentata violenza sui familiari dell’istante
non si può leggere la violenza morale ai danni della stessa istante. E conclude
infelicemente:
«Nella sentenza viene riconosciuto che i precitati atti di violenza morale subiti
dai familiari della ricorrente possono costituire atto di violenza nei confronti dell’interessata, il che comporterebbe – teorizzando tale interpretazione – che, la ricorrente,
per gli stessi accadimenti, potrebbe richiedere l’assegno vitalizio di benemerenza
quale vedova di deportato per motivi razziali, come orfana della madre uccisa ad
Auschwitz, quale madre di due igli allontanati dalla scuola statale, acquisendo in
tal modo quattro assegni di benemerenza. Detta interpretazione è però in contrasto
con quanto disposto dal citato art. 3 della legge 932/80, che prevede la concessione di un unico assegno vitalizio di benemerenza (eventualmente ripartibile tra
i famigliari superstiti) in presenza di fattispecie persecutoria. Gli atti persecutori
concretizzatisi, nell’internamento del campo di concentramento di Urbisaglia per il
periodo 1940/1941 di Boniglioli Renzo, coniuge della ricorrente, nella espulsione
dalla scuola pubblica del iglio Boniglioli Gerio, e nella morte della madre Ascoli
Magrini Isa nel campo di sterminio avvenuta nel 1944 (accadimento avvenuto dopo
l’8 settembre 1943, cioè in data non speciicamente contemplata nella legge invocata,
riguardante atti persecutori avvenuti prima dell’8 settembre 1943, cfr. sent. n. 9/98
Q.M. Corte dei Conti a Sezioni Riunite) non possono perciò costituire direttamente
atti di violenza nei confronti della signora Ascoli Magrini Lili. Né, peraltro, è stata
data alcuna motivazione circa l’effettiva concretizzazione di tale “violenza morale”
nei confronti del ricorrente che abbia comportato la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti (all’istruzione, alla vita di relazione, all’esercizio
di professioni, ecc.) né da tali atti suindicati abbia comunque ricevuto effetti diretti
causalmente collegati a quella violenza. Tanto precisato, l’appello va accolto nei
termini sopra detti»84.
Come può il giudice deinire «atti di violenza morale subiti dai familiari
della ricorrente» l’arresto del marito dell’istante, l’espulsione dalle scuole dei
igli, l’uccisione in un campo di sterminio della madre? Il riferimento, poi, alla
teorica possibilità di richiedere quattro assegni di benemerenza è fuori luogo:
innanzitutto perché la ricorrente ha chiesto la concessione di un solo assegno,
poi, e soprattutto, proprio per il disposto del richiamato art. 3. Il giudice poi
issa l’8 settembre 1943 come data ultima prevista dall’ordinamento per gli
84
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 19 maggio 2006, Ministero
Economia c. Magrini Ascoli, cit.
258 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
atti di violenza rientranti nella disciplina della legge 932/1980 ignorando le
motivazioni – sia pure, sul punto, sbagliate – che avevano spinto ad un diverso
avviso il giudice della sezione emiliano-romagnola e quelle che nella questione
di massima n. 8 del 2003 aveva esposto il giudice Di Salvo.
La conclusione della vicenda crea sconcerto nella pubblica opinione per
i rilessi emotivi che inevitabilmente comporta: lo stato si accanisce contro
un’ultracentenaria che ha perso la madre nel campo di sterminio, ha visto i
suoi igli allontanati dalle scuole e il marito internato in un campo di concentramento. Ma la sentenza risulta incomprensibile anche ai giuristi che non
si spiegano perché il giudice di ultima istanza con una decisione assurda e
supericiale si sia allontanato dalla meditata soluzione a cui era approdata la
giurisprudenza della Corte dei conti e che era stata consacrata nella questione
di massima n. 8 del 2003. Senza dubbio la sentenza della sezione centrale
giurisdizionale d’appello segna un passo indietro della giurisprudenza sulla
complicata questione dell’applicazione della legislazione risarcitoria.
4g. Un ricorso in revocazione, tardi e in modo inconsueto, salva il salvabile
(Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008)
La pretesa di Lili Magrini Ascoli non ha trovato accoglimento nei processi
che scandiscono i gradi del giudizio: agli avvocati non resta che la strada del
giudizio in revocazione per provare a modiicare l’esito sconcertante, tanto
per il proilo giuridico quanto per quello umano, a cui sono approdati i giudici
contabili dell’ultima istanza.
Ormai non è più utile gridare l’assurdità e l’infondatezza giuridica dell’assunto sostenuto dai giudici dell’ultima istanza. Per affermare nella sostanza
la pretesa di Lili Magrini Ascoli può invece utilmente esperirsi il ricorso per
revocazione85. Gli avvocati intendono far valere il fatto che i giudici hanno
ignorato due documenti che pure erano stati allegati dall’istante: l’uno, che
riguarda e prova l’emigrazione forzata in Svizzera della signora avvenuta nel
marzo 1944; l’altro, che prova «la restrizione della libertà personale consistente nell’obbligo di visitare solo una volta al mese il proprio marito durante il
periodo di internamento»86. L’omessa valutazione, da parte dei giudici, di tali
documenti, pure allegati dalla signora, rende la pronuncia affetta da un errore
di fatto: da qui la richiesta della revoca della sentenza ai sensi dell’art. 395 n. 4
c.p.c. e della conferma del dispositivo della sentenza del 2004 della Corte dei
conti per l’Emilia Romagna e, comunque, del riconoscimento del diritto alla
85
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008 (pres. Minerva, est. Loreto) giud. revoc. avverso la sentenza n. 195/2006/A della Corte dei conti, Sezione
Prima Giurisdizionale di Appello del 19 maggio 2006, Magrini Ascoli c. Ministero Economia.
86
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
Giuseppe Speciale
259
corresponsione dell’assegno di benemerenza ex art. 3 L. 392/1980 a decorrere
dal 10 novembre 1997. Al Ministero dell’Economia che chiede che il giudizio
per revocazione sia dichiarato inammissibile – «in quanto le prospettazioni addotte dalla parte ricorrente non possono essere inquadrate nelle ipotesi previste
dall’art. 395 c.p.c. e, pertanto, non sussisterebbe errore in punto di fatto» – gli
avvocati della signora replicano che il presupposto della revocazione
«nel caso di specie, deve necessariamente ravvisarsi nell’aver ritenuto inesistenti
fatti e circostanze che invece potevano agevolmente evincersi dagli atti, in quanto
in dal deposito del ricorso in appello era stato allegato dalla propria assistita il
fatto determinante della emigrazione in Svizzera, che può essere considerato “atto
di violenza” direttamente subito dalla signora Ascoli Magrini, come chiarito dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri con circolare del 22 luglio 2005, pure versata
agli atti di causa»87.
Proprio sulla circolare si fonda la richiesta di revocazione. Infatti, il fatto
che il giudice non abbia preso in considerazione l’allegata documentazione
che prova l’emigrazione forzata in Svizzera, assunta dalla circolare, parimenti
allegata, come “atto di violenza” ai ini dell’applicazione della legge 96/1955,
produce inevitabilmente una “erronea percezione della realtà processuale” che
ha condotto ad affermare l’inesistenza di un fatto decisivo ai ini del giudizio.
La Corte accoglie in toto la linea della difesa della signora. Forse anche per
l’eco che tutta la vicenda suscita sulla stampa la Sezione prima giurisdizionale
centrale della Corte dei conti l’8 febbraio 2008 accoglie il ricorso in revocazione proposto dalla signora Ascoli Magrini avverso la sentenza della Corte
dei conti del 19 maggio e riconosce alla ricorrente il diritto alla corresponsione dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della legge n.
932/1980, con effetto dal 10 novembre 1997, data della istanza iniziale.
Il giudice si impegna nel sottolineare la speciicità del giudizio di revocazione:
«Per giurisprudenza e dottrina incontroverse l’errore di fatto deducibile a ini
di revocazione della sentenza, di cui al richiamato art. 395 n. 4 c.p.c., consiste in
una erronea percezione della realtà processuale, obiettivamente ed immediatamente
rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo,
incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto
decisivo, che dagli stessi atti e documenti risulti positivamente accertato, incidendo
in maniera determinante sulla decisione inale...
Pertanto non è conigurabile l’errore revocatorio per i vizi della sentenza che
investono direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, come
87
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
260 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
nel caso in cui tali vizi attengano all’interpretazione della domanda, poiché gli eventuali errori di interpretazione che investono l’attività valutativa del giudice rilevano
non quali errori di fatto, ma quali errori di diritto, inidonei come tali ad integrare gli
estremi dell’errore revocatorio contemplato dall’art. 395, numero 4, c.p.c...
In altri termini tale errore è conigurabile allorché il giudice non abbia avuto contezza dell’esistenza di un documento e non già quando, avendolo esaminato, abbia
escluso che esso attestasse un determinato fatto rilevante ai ini della decisione...
Il che comporta che il giudice della revocazione non procede a nuove valutazioni
di merito degli stessi fatti ma ad una valutazione per la prima volta di fatti nuovi
non controversi e non più controvertibili nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza
impugnata in revocazione»88.
L’insistenza con cui il giudice ribadisce le peculiarità della revocazione – che si giustiica quando vi sia stata un’erronea percezione della realtà
processuale, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che non consiste
in una nuova valutazione di merito degli stessi fatti ma in una valutazione
per la prima volta di fatti nuovi non controversi e non più controvertibili nel
giudizio che ha dato luogo alla sentenza impugnata – serve a rendere chiaro
che non è conigurabile l’errore revocatorio «per i vizi della sentenza che investono direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico».
Insomma, lo strumento della revocazione non consente al giudice di censurare
la sentenza impugnata perché si sono commessi errori di valutazione che
attengono al processo logico-giuridico-argomentativo, bensì perché l’erronea
o omessa valutazione di un elemento di fatto immediatamente rilevabile ha
condotto ad un’erronea percezione della realtà processuale.
Senza dubbio prudenza ed equilibrio muovono il giudice quando afferma:
«Conclusivamente, l’errore di fatto revocatorio deve avere il carattere di assoluta
immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità e presuppone il contrasto tra due
diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti l’una dalla sentenza e l’altra dai documenti processuali, che abbia portato il giudice ad affermare o supporre
l’esistenza di un fatto decisivo ed essenziale, incontestabilmente escluso dagli atti
o dai documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto che dagli atti stessi risulti
positivamente accertato, sempre che il fatto stesso non costituisca punto controverso
su cui il giudice abbia pronunciato e la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di
supposizione e non di valutazione o giudizio…
Ne consegue che la erronea supposizione del fatto ha effetto immediatamente
rescissorio, dal momento che la decisione è incompatibile con il falso presupposto,
purché non controverso, del revocando giudizio»89.
88
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
89
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
Giuseppe Speciale
261
ma resta evidente che, l’ineccepibile adozione dello strumento della revocazione – che non investe «direttamente la formulazione del giudizio sul piano
logico-giuridico», che non conduce «a nuove valutazioni di merito degli stessi
fatti ma ad una valutazione per la prima volta di fatti nuovi non controversi e
non più controvertibili nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza impugnata
in revocazione» – nella sostanza è utilizzata dal giudice per smentire (inalmente!) la decisione impugnata proprio nei proili sostanziali che più direttamente
sono coinvolti nel processo logico-giuridico-argomentativo.
Quali sono, infatti, gli elementi che il giudice della sentenza impugnata
ha omesso di conoscere (giungendo così a conclusioni errate)? Quali sono
gli elementi che se avesse conosciuto lo avrebbero indotto ad una diversa (e
corretta) conclusione? Tali elementi sono costituiti da un documento che prova
la permanenza forzata di Lili Magrini Ascoli in Svizzera e da un documento
che prova le limitazioni delle visite al marito ristretto nel campo di Urbisaglia.
L’emigrazione forzata in Svizzera è considerata “atto di violenza” da una
circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 22 luglio 2005. Il
giudice ritiene «decisiva» la presenza all’interno del fascicolo processuale di
un documento attestante l’internamento in territorio elvetico:
«Venendo alla fattispecie all’esame, il Collegio rileva che, effettivamente, dalla
documentazione processuale versata in atti si evince che nella sentenza di appello n.
195/2006/A questa Sezione, nel valutare concretamente le persecuzioni cui è stata
sottoposta la signora Magrini, non ha avuto contezza dell’esistenza di un documento
di natura decisiva, allegato dalla ricorrente. Si tratta, cioè, dell’ estratto del fascicolo
conservato nell’Archivio Federale Svizzero, riguardante la posizione della signora
Ascoli Magrini Lili e comprovante l’internamento cui la stessa venne sottoposta,
nel periodo dal marzo 1944 all’aprile 1945, in un campo svizzero. Nel fascicolo è
riportato integralmente il questionario che la ricorrente compilò, nel posto di raccolta
presso la polizia di Bellinzona, all’atto dell’internamento in Svizzera.
Ebbene, la mancata valutazione di tale documento essenziale, in quanto attestante
in maniera inoppugnabile il fatto storico della emigrazione forzata in Svizzera della
ricorrente, ha indotto il giudice a supporre la inesistenza di atti persecutori che potessero considerarsi atti di violenza diretti nei confronti della signora Ascoli Magrini;
fatti che, invece, come si evince dalla documentazione allegata e menzionata dall’interessata già con la memoria del 28 aprile 2006, risultavano positivamente accertati ed
emergevano dagli atti di causa con caratteristiche di evidenza, obiettività e immediata
rilevabilità, senza necessità, cioè, di particolari indagini ed argomentazioni.
Tale circostanza, da sola, induce il Collegio a riconoscere la sussistenza in
concreto del denunciato e rilevante vizio percettivo in ordine alla documentazione
essenziale versata agli atti del giudizio. Ciò è suficiente per ritenere in fase rescindente ammissibile l’istanza di revocazione»90.
90
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
262 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
È evidente che il giudice sta utilizzando la presenza di questo documento
come un escamotage per ribaltare la sostanza del giudizio impugnato. Non si
vede come nella complessa e tormentata vicenda umana della signora e nel suo
documentato rilesso processuale possa attribuirsi natura decisiva al documento
che prova l’emigrazione forzata in Svizzera. Se il giudice del 2006 avesse
correttamente condiviso le rilessioni della QM n. 8 del 2003, non avrebbe
avuto bisogno della prova dell’internamento in Svizzera per riconoscere a
Lili Magrini Ascoli – iglia di Isa, uccisa ad Auschwitz; moglie di Renzo,
ristretto a Urbisaglia; madre di Gerio e Dori, espulsi dalle scuole – di essere
stata oggetto di violenza isica e morale.
È evidente che il giudice del 2008 è ben consapevole che il giudizio di
revocazione è l’unico strumento che può utilizzare per rimediare ad un vero
e proprio scivolone della giurisprudenza91. Tanto che, esaurita la fase rescin91
Che la decisione vergata dal giudice Arganelli costituisse un grave scivolone della
giurisprudenza della Corte dei conti si rileva anche nella sostanza e nei toni con cui la sezione giurisdizionale per l’Emilia Romagna della stessa Corte con provvedimento del giudice
monocratico (De Maria, lo stesso che aveva redatto la sentenza favorevole alla sinora Magrini
Ascoli nel 2004) del 13 giugno 2007 accoglie il ricorso presentato dai legali della signora
Magrini Ascoli avverso il provvedimento con cui si intimava alla stessa di rifondere all’erario la somma di euro 45362,19. Si riporta qui la sentenza (in corsivo le parti che ritengo più
signiicativamente indicative delle convinzioni del giudice):
«… Osserva questo giudice che la Sezione è chiamata in questa sede a pronunciarsi unicamente sulla legittimità o meno dell’impugnato provvedimento di recupero dell’importo di
Euro 45.362,19 emesso dalla D.P.S.V. (Direzione Provinciale Servizi Vari, presso la Direzione
Provinciale del Tesoro, NdA) di Ferrara nei confronti della ricorrente con nota raccomandata
prot. nr. 17575 del 24.11.2006, nell’assunto che “l’articolo 2033 del codice civile statuisce
l’obbligo della restituzione delle somme riscosse e non dovute la cui mancata rifusione
costituirebbe un indebito arricchimento senza causa a danno della collettività.” Secondo la
D.P.S.V. di Ferrara, nella specie non può essere invocata la buona fede da parte della ricorrente,
perché l’interessata “era perfettamente a conoscenza che nei propri confronti era stato emesso il provvedimento concessivo di pensione della sentenza nr. 2123/04/G, ma era a perfetta
conoscenza altresì del fatto che contro la stessa sentenza era in corso il giudizio di appello
non ancora deinito”. La tesi sostenuta dalla D.P.S.V. di Ferrara non può essere condivisa. La
buona fede della ricorrente, nella fattispecie, non può in alcun modo essere messa in dubbio,
così come non può dubitarsi che la ricorrente– centenaria, impossidente, che vive in afitto,
con la sola pensione sociale– abbia destinato la somma erogatale ai bisogni primari della vita,
per il proprio sostentamento ed assistenza e per le proprie esigenze alimentari ed abitative.
Non va dimenticato che nella specie il pagamento del trattamento pensionistico all’interessata
ha avuto luogo in forza della sentenza nr. 2123/04/G di questa Sezione Giurisdizionale che,
in accoglimento del ricorso proposto dall’interessata medesima avverso il diniego oppostole
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per le provvidenze ai perseguitati
politici o razziali, ha riconosciuto (inalmente!) ad Ascoli Magrini Lili il diritto a vedersi
corrisposto l’assegno vitalizio di benemerenza previsto dalla legge. L’eloquente signiicato,
per l’interessata, di tale (sperato) riconoscimento giudiziale è del resto apertamente ammesso
dalla stessa D.P.S.V. di Ferrara, la quale però ritiene che a vaniicare tale profonda consapevolezza possa bastare la circostanza che l’interessata fosse “a conoscenza altresì del fatto
che contro la stessa sentenza era in corso il giudizio di appello non ancora deinito”. Anzi la
prevalenza di quest’ultima circostanza sarebbe, secondo l’Amministrazione, decisiva al punto
Giuseppe Speciale
263
dente, continuando nella stesura della sentenza, giunto alla fase rescissoria,
il giudice non rinuncia a riconoscere che gli atti discriminatori e persecutori
che hanno colpito Lili Magrini Ascoli integrino la nozione di violenza morale:
«In fase rescissoria il Collegio rileva dalla citata documentazione che la signora
Ascoli Magrini ha subito, per motivi di ordine razziale, una serie di fatti discriminatori
e di persecuzioni, quali l’internamento in Svizzera, la limitazione della libertà individuale, l’obbligo di residenza in appositi campi, l’obbligo del lavoro ed altri disagi,
che integrano la nozione di violenza morale, suficiente anche sulla base della più
recente giurisprudenza per la concessione dell’assegno vitalizio di cui all’art. 3 della
L. n. 932/1980. Ad ulteriore conferma dell’assunto, si deve aggiungere che anche la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, organismo da cui dipende la Commissione per
le Provvidenze ai Perseguitati Politici e Razziali, ha dettato, con circolare 22 luglio
2005, gli “indirizzi per la soluzione di alcuni problemi applicativi della normativa in
favore dei perseguitati politici e razziali”. In tale atto di indirizzo, parimenti versato
in giudizio dalla ricorrente e destinato alla Commissione competente per l’esame
delle domande di riconoscimento dell’assegno vitalizio di benemerenza, viene
da indurre la D.P.S.V. ad affermare di ritenere che per tali considerazioni “non possa essere
invocata la buona fede da parte della ricorrente”. Ma tale assunto, già di per sé privo di
fondamento, si rivela ancora più gratuito ed infondato ove si tenga conto che, al contrario, al
momento del disposto pagamento dell’assegno (marzo 2006), la buona fede da parte dell’interessata si era se mai ulteriormente rafforzata a seguito dell’ordinanza del 10.06/05.08.2005
(favorevole all’appellata) con la quale la Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello
respinse (sic!) l’istanza dell’appellante Amministrazione Centrale tendente ad ottenere la
sospensione dell’esecuzione della suddetta sentenza nr. 2123/04/G di riconoscimento del
diritto all’assegno vitalizio. Insomma si deve onestamente ammettere che, al momento della
riscossione della somma di Euro 45,362,19, la Sig.ra Ascoli Magrini Lili – avendo già ottenuto
ben due provvedimenti giudiziali a Lei favorevoli (la sentenza nr. 2123/04/G del giudice di
primo grado e l’ordinanza citata del 10.6/5.8.2005 del giudice di appello) – non aveva proprio
alcun reale motivo di temere che il giudice di appello non avrebbe confermato il suo buon
diritto già accertato e dichiarato dalla sentenza di primo grado. Ciò, del resto, appare tanto
più vero se si considera anche che proprio la stessa Sezione Prima Giurisdizionale Centrale
d’Appello, con sentenza del 2.12.2005/31.3.2006, decidendo un caso analogo (iscritto al nr.
20753 del Registro di Segreteria), si era recentemente pronunciata deinendo il giudizio di
merito in senso favorevole all’appellata, confermando la sentenza di primo grado nr. 1066/03/G
emessa della Sezione Giurisdizionale per l’Emilia Romagna e rigettando l’appello interposto
dall’Amministrazione. Pertanto, essendo nella specie la riscossione della somma avvenuta
in assoluta buona fede dell’interessata, per essere destinata al soddisfacimento dei bisogni
essenziali della vita, il provvedimento di recupero qui impugnato emesso dalla D.P.S.V. di
Ferrara deve essere dichiarato illegittimo, dando atto nel contempo che l’art. 2033 cod. civ.
nel caso di specie non trova applicazione trattandosi di pagamento che, nel momento in cui è
stato disposto dall’Amministrazione e riscosso da Ascoli Magrini Lili, era dovuto in forza di
sentenza giudiziale esecutiva. P.Q.M. La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per l’Emilia
Romagna, deinitivamente pronunciando, accoglie il ricorso di Ascoli Magrini Lili avverso
l’impugnato provvedimento… e per l’effetto dichiara l’illegittimità del disposto recupero,
dando atto che la ricorrente non è quindi tenuta ad ottemperare all’intimazione notiicatale di
restituzione di detta somma».
264 L’applicazione delle leggi antisemite: giudici e amministrazione (1938-2010)
espressamente individuato il fatto storico della “emigrazione forzata in Svizzera”
quale “atto di violenza”» 92.
Quanto poi, al fatto che l’internamento in Svizzera avvenne dopo il settembre del 1943, tra il 1944 e il 1945, il giudice, riprendendo la QM n. 8 del
2003 non esita a ribadirne le conclusioni:
«Accertato quanto sopra, il Collegio tiene a precisare che la circostanza che
l’emigrazione forzata della ricorrente risulti avvenuta dopo l’8 settembre 1943 non
può indurre questo organo giudicante ad escludere che tale speciico fatto storico di
internamento costituisca, comunque, applicazione diretta della normativa antiebraica
nei confronti della signora Magrini, come tale rilevante ai ini della concessione
dell’assegno vitalizio. Tali conclusioni, infatti, non solo sono smentite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nella circolare precedentemente menzionata, ma sono
totalmente disattese dalla giurisprudenza della Corte dei conti, che ha invece precisato
in più occasioni che la menzione della data dell’8 settembre 1943 in provvedimenti
normativi relativi ai perseguitati per motivi di ordine razziale è costantemente riferibile al presupposto dell’intensiicazione degli atti persecutori che vennero posti in
essere dopo quella stessa data nei confronti della minoranza ebraica, dal momento che
anche dopo l’ 8 settembre 1943 le “leggi razziali” erano ancora pienamente in vigore.
In proposito la Corte dei conti ha avuto modo di chiarire che “le misure concrete di
attuazione della normativa antiebraica debbono ritenersi idonee a concretizzare una
speciica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona
colpita nei suoi valori inviolabili, ma che la delimitazione temporale dell’ 8 settembre
1943 non è affatto diretta a individuare la data ultima di consumazione degli atti di
violenza che possono essere fatti valere da cittadini italiani perseguitati per motivi
d’ordine razziale al ine del conseguimento del predetto assegno di benemerenza”
(Sezioni Riunite, 25 marzo 2003 n. 8/QM). L’assunto è stato ulteriormente ribadito
da questa Sezione di appello, che con decisione n. 17/A in data 21 gennaio 2004
ha precisato che, diversamente opinando, rimarrebbero irrazionalmente esclusi dal
possibile riconoscimento del diritto a tale assegno quei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica che, pur scampati alle misure persecutorie inalizzate allo sterminio,
abbiano tuttavia subito, anche dopo l’8 settembre 1943, le persecuzioni previste dalle
leggi razziali nonché la continuazione di atti di violenza e di fattispecie persecutorie
collegabili all’ideologia vessatoria, anche laddove non inalizzati allo “sterminio”
(Corte dei conti, Sez. I Centrale, 21 gennaio 2004 n. 17/A)»93.
92
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
93
Corte dei conti, sez. I giurisdizionale centrale d’Appello, 8 febbraio 2008, Magrini
Ascoli c. Ministero Economia, cit.
Giuseppe Speciale
265
Certo, è paradossale che dopo decenni di tormentato lavorìo della giurisprudenza sull’interpretazione della legge 96/1955 – quando ormai con la lucida
ed equilibrata soluzione prospettata nella questione di massima n. 8 del 2003
sembrava essersi inalmente individuato un orientamento pienamente fedele al
dettato e ai valori costituzionali e rispettoso delle esigenze di continuità giurisprudenziale –, alla ine di una sconcertante vicenda processuale, al giudice
non resti altra arma che una circolare per stabilire in concreto cosa integri
la violenza isica e morale di cui alla lettera c) dell’art. 1 della legge 96 del
1955, della legge, cioè, con cui il nuovo ordinamento costituzionale italiano
si propose di risarcire i perseguitati antifascisti e i perseguitati razziali: due
tra i gruppi che più caro hanno pagato il prezzo per la costruzione della nuova
Italia e le cui esperienze più direttamente rilettono i valori costituzionali su
cui si fonda il nuovo ordinamento che ha nella negazione di tutta l’esperienza
fascista e nell’affermazione del principio di uguaglianza e di libertà di religione
alcune tra le sue pietre angolari.
Giovanna d’Amico
LA LEGGE «TERRACInI» E I SUoI PRodRoMI
Introduzione
Nella primavera del 2003 la Corte dei Conti emanava un’importante sentenza che, facendo riferimento alla legge «Terracini», considerava l’applicazione
delle leggi razziali un atto di violenza in sé, dilatando l’interpretazione del
provvedimento in precedenza limitato alle vittime del fascismo che a causa
delle persecuzioni (politiche e razziali) avessero subito un danno isico1.
Quella norma era stata approvata il 23 febbraio 1955 dalla I commissione
interni della camera dopo un dibattito parlamentare durato oltre due anni e
in nove articoli racchiudeva – tra le altre – una delle più importanti richieste
avanzate dai diretti interessati sin dall’immediato dopoguerra2: un «assegno
1
Il riferimento è alla sentenza n. 8 del 25 marzo 2003. Per una sua sintetica ricognizione
cfr. Intervista a Giulio Disegni. Perseguitati e persecutori. La Legge Terracini (10.3.1955,
n.96) compie cinquant’anni, in Hakeillah, n. 2, aprile 2005. Per il dibattito sulla legge Terracini
cfr. E. Corradini, Il dificile reinserimento degli ebrei. Itinerario e applicazione della legge
Terracini n. 96 del 10 marzo 1955, Torino 2012.
2
La legge era stata presentata dai proponenti alla presidenza del senato nel gennaio 1952
e da questa rimessa in sede referente per competenza alla I commissione, che l’aveva approvata a larga maggioranza, apportandovi solo alcune modiiche. Lo scioglimento precoce del
senato aveva però impedito che la discussione proseguisse. Cfr. Atti parlamentari, Senato
della Repubblica, legislatura II, 1953, disegni di legge e relazioni, in Archivio centrale dello
stato (d’ora in poi ACS), ministero di Grazia e Giustizia, gabinetto, Camera dei Deputati, II
legislatura, disegni e proposte di legge (dal n. 1226 al n. 1400), 2/9, n. 1379. Il 20 ottobre 1953
i proponenti ripresentavano la norma, assegnata nuovamente per competenza alla commissione
interni del senato che l’avrebbe discussa in sede legislativa il 31 marzo, il 27 aprile, il 4 maggio,
il 1° luglio e il 22 luglio 1954. Nei giorni 15, 16, 20 e 21 dicembre 1954 essa sarebbe stata
invece sottratta alla deliberazione della commissione e dibattuta in sede assembleare, dove il
21 sarebbe stata approvata. Alla Camera dei Deputati venne invece approvata il 23 febbraio
1955. Per l’iter parlamentare cfr. in Archivio della Camera dei Deputati (d’ora in poi ACD),
II legislatura della repubblica – la legislazione italiana dall’8 giugno 1953 al 25 maggio 1958.
268
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
vitalizio di benemerenza» a favore dei perseguitati politici e razziali che avessero subito «una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al
30%» a seguito della prigionia imposta dal regime, dell’assegnazione a conino
di polizia o a casa di lavoro, della detenzione in carcere o nei campi di concentramento italiani3. Era una novità, ma si inseriva in un solco consolidato:
la matrice di un simile provvedimento risaliva, infatti, ad almeno il primo
dopoguerra. Al combattente invalido della prima guerra mondiale era stata
concessa la pensione di guerra; al combattente invalido della seconda guerra
mondiale il beneicio era stato esteso nei primi anni Quaranta, dal regime.
Circa cinque anni dopo, i governanti dell’Italia democratica decidevano
da un lato di estendere il provvedimento ai partigiani, l’emblema della nuova
Italia, e ad altre vittime del nazifascismo (1943-1945) cui veniva però concessa una somma meno cospicua e, dall’altro, di escludere i reduci di Salò.
Essi mantennero tuttavia i criteri del passato: occorreva avere riportato una
invalidità e/o una mutilazione per beneiciarne4.
Fino a quando il patto tra moderati e progressisti sull’assunzione del partigiano quale incarnazione della repubblica e sull’ostracismo a Salò resse, le
acque non si smossero; quel tacito accordo permise ai governanti di affrontare
il problema della riparazione dei diritti violati da Salò, ma allo stesso tempo
impedì di fare i conti con ciò che era successo prima del 1943, nel cuore del
fascismo: il regime monarchico-fascista.
Dopo la rottura della coalizione fra DC e sinistre (1947) i settori del ceto
politico moderato iniziarono un lento processo di «recupero» del passato salodiano che avrebbe portato alla legge 14/1955, con cui si concedeva il beneicio
della pensione di guerra ai reduci della RSI che a causa della guerra avessero
subito danni isici5. Essa fu conseguenza di un accordo tra tutte le forze politiche, o meglio il compromesso che i progressisti dovettero accettare per far
passare la legge «Terracini». Volendo usare le parole dello stesso Umberto
Terracini, l’intesa consisteva in questo:
Il disegno di legge per le provvidenze a favore degli invalidi, delle vedove e
degli orfani dei combattenti della repubblica di Salò non [doveva] essere esaminato
e approvato prima del disegno di legge per le provvidenze a favore dei perseguitati
3
Si tratta della legge 10 marzo 1955, n. 96 la cui versione integrale è riscontrabile anche
in M. Toscano (a cura di), L’abrogazione delle leggi razziali (1943-1987). Reintegrazione dei
diritti dei cittadini e ritorno ai valori del Risorgimento, Roma 1988, pp. 187-190.
4
Cfr. d.lgsl.c.p.s. 16 settembre 1946 n. 372, Estensione ai partigiani combattenti ed alle
vittime delle forze nazi-fasciste delle disposizioni vigenti in materia di pensioni di guerra.
5
È attribuibile a Fabio Levi l’osservazione precoce che la legge «Terracini» fosse stata
«la risposta alla legge 5 gennaio 1955 n. 14, portante provvidenze per i mutilati ed invalidi e
per i congiunti dei caduti che appartennero alle forze armate della sedicente repubblica sociale
italiana». Mutuo l’informazione da G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano,
Torino 1998, p. 105, nota 2.
Giovanna D’Amico
269
politici, antifascisti e razziali e i loro familiari, e ciò per evitare che un disegno
[passasse] e l’altro no6.
In sintesi la norma travolgeva in un colpo solo due capisaldi dell’Italia
repubblicana. Da un lato il «privilegio» dell’indennizzo per i danni isici alla
persona – ino a quel momento concesso solo ai perseguitati successivamente
all’8 settembre 1943 – veniva esteso, come si è detto, a quanti avessero sofferto i soprusi del Ventennio. Dall’altro il provvedimento si accompagnava
alla parallela norma predisposta a favore dei reduci di Salò, anch’essi a quella
data tenuti lontani dalla Repubblica7. Probabilmente la legge «Terracini» non
sarebbe sorta al di fuori del patto di paciicazione cui si videro costretti i suoi
proponenti; in qualche misura essa ne fu un parto derivato ed amaro, peraltro
assai diminuito rispetto alle premesse iniziali.
Difatti, mentre la discussione sul provvedimento che favoriva i combattenti di Salò si svolgeva in aula, la legge «Terracini» veniva dibattuta parallelamente, all’interno della prima commissione permanente del senato. Ben
presto, tuttavia, si sarebbe deciso di far sfociare anche questa discussione in
un dibattito assembleare, a causa del contrasto insanabile che si era aperto
tra i progressisti ed il ministro del Tesoro. Uno dei punti focali del contrasto
consisteva in ciò: Terracini proponeva di dare una pensione di guerra ai perseguitati politici e razziali dal regime monarchico-fascista ponendoli sullo stesso
piano dei partigiani; invece il ministro del Tesoro, sostenuto dallo schieramento
dei moderati, intendeva subordinare l’elargizione alla presenza del «bisogno
economico». Si trattava della stessa clausola usata nel provvedimento discusso
a favore dei reduci di Salò, un paragone che ferì profondamente Terracini, il
quale – tra l’altro – qualiicava la rivendicazione come richiesta di «un diritto
alla pensione» e non «all’assistenza»8.
L’intera discussione sulla legge risentì sia del cruciale momento politico attraversato dall’Italia repubblicana, centrista e con forti componenti
monarchiche al suo interno, sia della antica concezione giuridica del diritto
alla pensione di guerra, percepita quale risarcimento per lesioni corporee
dovute ad eventi bellici responsabili di diminuite capacità lavorative. Da ciò
sorgeva un «diritto» della persona – la cui integrità isica era stata lesa – a
una qualche compensazione. La forza di un simile presupposto «dogmatico»
sarebbe stata tale da diminuire enormemente la portata iniziale del provve6
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, I commissione (Affari della Presidenza del
Consiglio e dell’interno), giovedì 1° luglio 1954, p. 150.
7
Sulle associazioni salodiane e per alcuni accenni alla richiesta di pensione in beneicio a
quanti tra i reduci di Salò avessero subito invalidità a causa della guerra cfr. A. Bistarelli, La
storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino 2007, p. 184.
8
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, I commissione (Affari della Presidenza del
Consiglio e dell’interno), giovedì 1° luglio 1954, p. 151. Ed anche Atti parlamentari, Senato
della Repubblica, CCXXXII seduta, martedì 21 dicembre 1954, p. 9275.
270
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
dimento, pensato dai proponenti quale riproduzione a tutti gli effetti della
pensione di guerra9. In altre parole, la circostanza che le persecuzioni del
Ventennio fossero nate al di fuori della guerra creava un problema nuovo,
non sussumibile nella lunga tradizione giuridica che aveva accompagnato l’erogazione della pensioni. Il «diritto» si convertiva quindi in «benemerenza»
e l’assegno vitalizio incondizionato in una misura da elargire solo a persone
economicamente disagiate. Un risultato anche più radicale di questa premessa
fu la totale cancellazione dell’articolo di legge che in origine disponeva la
possibilità, per i perseguitati «politici e razziali» del Ventennio di ottenere
un risarcimento per i danni ai beni perpetrati dal fascismo. L’articolo venne
spazzato via dalla strenua e congiunta opposizione del governo e di larga
parte dello schieramento moderato, ambedue compatti nel sostenere l’impossibilità di indennizzare sequestri e/o danneggiamenti ai beni avvenuti al di
là di ogni conlitto bellico. Insomma, al di fuori della guerra lo stato fascista
era pur sempre uno stato legale e le lotte contro il regime erano lotte di una
parte contro un’altra: dell’ingaggio di simili battaglie non poteva farsi carico
lo stato, che si sarebbe dovuto sentire responsabile di contese afidate alla
coscienza di ciascuno. Quelle che si mettevano in campo a sostegno delle
proprie ragioni diventavano quindi in prima istanza interpretazioni distinte
del passato fascista: nella sua veemente difesa del principio giuridico da cui
discendevano il diritto alla pensione ed al risarcimento ai beni per danni alle
persone o alle cose, ecco come argomentava il ministro del Tesoro Silvio
Gava il 20 dicembre 1954, nel corso della penultima discussione al senato
sul disegno di legge:
Sull’opportunità di un’iniziativa che riconosca le benemerenze di quanti lottarono
contro la dittatura fascista per il ripristino delle libertà democratico-parlamentari,
e nella lotta soffrirono la perdita, parziale o totale, della loro capacità lavorativa o
addirittura affrontarono la morte, non vi è dissenso […]. Le divergenze scoppiano
sulla natura della prestazione […], sui soggetti della prestazione e sull’estensione
della medesima. […] Mentre il ministro del Tesoro prevede prestazioni per i soli
danni alle persone, la proposta del senatore Terracini la estende esplicitamente anche ai danni alle cose […]. La pretesa del risarcimento ai danni alle cose è fondata
sull’equiparazione di essa ai danni di guerra. A prescindere dalla disamina circa la
natura dei risarcimenti dei danni di guerra […] sta di fatto che non vi sono precedenti
nella nostra storia che possano comunque spiegare, se non giustiicare, l’accettazione
della singolare proposta10.
9
Non era stato così per i perseguitati dopo l’8 settembre che avevano potuto godere di un
vitalizio erogato indipendentemente dalle condizioni economiche di ciascuno.
10
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, CCXXXI seduta, lunedì 20 dicembre 1954,
p. 9230.
Giovanna D’Amico
271
E in merito alle pensioni da erogare per danni patiti dai perseguitati sulla
loro persona osservava:
Le considerazioni che precedono spiegano il testo proposto dal Governo che,
senza ipotizzare l’esistenza di un diritto che non può essere in alcun modo conigurato – almeno mi lusingo di averlo dimostrato – concede tuttavia un assegno vitalizio
a quanti, perseguitati per l’attività politica svolta contro la dittatura fascista al ine
di promuovere il ripristino delle libertà politiche e delle istituzioni democratiche,
abbiano, a causa di tali attività, subito la perdita della capacità lavorativa in misura
non inferiore al 30 per cento e versino in stato di bisogno. Si badi che la perdita
della capacità lavorativa, nella misura anzidetta, è un requisito di tutti i progetti. È il
titolo della prestazione che muta. Titolo della prestazione è un diritto per l’onorevole
Terracini, è, per il Governo, la riconoscenza nazionale verso quanti hanno sofferto
nell’integrità isica per restituire alla collettività quei beni essenziali che sono le
libertà civili e politiche e le istituzioni democratiche11.
Questo continuo argomentare sul fondamento giuridico delle prestazioni
da erogare ai perseguitati aveva investito gran parte del dibattito, tanto da
venire percepito come una scusa dai mentori della legge «Terracini» dietro
cui celare profondi disagi nei confronti della norma. Ne era la prova – a parere dei senatori Emilio Lussu, Enrico Molè e Umberto Terracini – l’assenso
che verso di esso al contrario avevano manifestato in passato l’ex presidente
del consiglio Alcide De Gasperi e lo scorso ministro del Tesoro Giuseppe
Pella: l’impressione era che il nuovo governo (un tripartito DC-PSDI-PLI
presieduto da Mario Scelba) avesse assunto direzioni politiche diverse, che si
concretavano in ostilità verso la norma prima sconosciute12. Per tutta risposta
Gava si difendeva declamando all’assemblea passi signiicativi del carteggio
governativo seguito alla analisi del disegno di legge presentato nel gennaio
1952, data di inizio del suo lungo iter:
Ristabiliamo dunque i nostri connotati, ossia la verità – diceva. Presentata il
23 gennaio 1952 la proposta Terracini, il ministro del Tesoro Pella espresse il
suo parere con lettera 26 luglio 1952, indirizzata alla Presidenza del consiglio
dei ministri, al ministero di Grazia e Giustizia, al ministero dell’Interno, e alla
Direzione generale delle pensioni di guerra […]
E reso conto dei principi giuridici su cui si basavano le pensioni di guerra
osservava che:
Tali presupposti mancano viceversa per il riconoscimento del diritto a pensione
e al risarcimento dei danni a favore dei predetti cittadini, in quanto il danno subito
11
12
Ivi, p. 9234.
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, CCXXIX seduta, giovedì 16 dicembre 1954.
272
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
dagli interessati nella persona o nei beni, fu conseguenza della loro partecipazione ad
una lotta politica per il trionfo delle loro idee avverse al regime fascista. Ammettendo
il riconoscimento di tali diritti a favore degli interessati, si verrebbe ad affermare un
nuovo principio nei rapporti tra lo Stato e i cittadini, in quanto il danno subito dagli
interessati nella persona o nei beni, fu conseguenza della loro partecipazione ad una
lotta politica per il trionfo delle loro idee avverse al regime fascista13.
Una simile assunzione avrebbe affermato «un nuovo principio nei rapporti
tra lo Stato e i cittadini» e portato a «riconoscere che lo Stato dovesse intervenire mediante la concessione di pensione o col risarcimento dei danni a favore
di coloro che comunque [fossero rimasti] vittime […] nelle lotte a carattere
individuale o contingente sostenute nel campo politico»14.
Quando aveva iniziato a farsi strada – allora – l’affermazione che i diritti
violati dal regime monarchico fascista non fossero sussumibili nella concezione
dei «danni di guerra» così come essa veniva intesa? E il caso italiano era un
caso isolato o rappresentava un modo di concepire i danni alla persona e alle
cose diffuso anche su scala europea? Gli esempi francese, austriaco e italiano mostrano considerevoli punti di contatto sia nella rappresentazione delle
minorazioni isiche quali ratio cui far risalire il diritto alle pensioni, sia nella
tipologia di norme miranti a far risarcire i danni ai beni patiti dalle vittime a
causa delle persecuzioni sofferte. In altre parole le riparazioni per lesioni alle
persone o alle cose venivano inserite nel solco dei «danni di guerra», dunque
quali patimenti conseguiti in qualche modo ad eventi bellici.
L’11 maggio del 1945, subito dopo la guerra, il governo francese aveva
emanato una serie di provvedimenti a sostegno della generalità delle vittime
di guerra, dei lavoratori coatti e dei deportati nei campi di concentramento
nazisti. Una legge del 6 agosto 1948 aveva issato lo status dei deportati e dei
partigiani che avevano militato nella resistenza (les deportés et internés de la
Résistence); un mese dopo sarebbe stato emanato un provvedimento a favore
dei deportati ed internati politici (les deportés et internés politiques). In questo gruppo altamente eterogeneo venivano presi in considerazione tutti quegli
oppositori al regime che non avevano imbracciato le armi, come per esempio
i deportati ebrei, la componente maggioritaria all’interno dell’universo delle
vittime. La divisione categoriale dei due gruppi portava a livelli diversi di
reintegrazione: i partigiani non solo si collocavano a un gradino più alto della
generalità dei «politici» per l’impegno morale che avevano sostenuto nella lotta,
ma ricevevano materialmente anche maggiori compensi. Ai semplici deportati
politici veniva infatti concesso un vitalizio di minore entità15, proprio come
13
Ivi, p. 9228.
Ibidem.
15
Cfr. rispettivamente le leggi 6 agosto 1948 n. 48-1251 e 9 settembre 1948 n. 48-1404.
C. Moisel, Pragmatischer Formelkompromiss: das deutsch-französische Globalabkommen von
14
Giovanna D’Amico
273
nel caso dell’Italia. E come in Italia i vitalizi venivano calibrati sul modello
della legislazione di guerra16, concezione che accompagnava anche le norme
sui danni alle «cose», la cui soglia di riparazione mutava a seconda dell’entità
del danno, senza mai in ogni caso raggiungere il valore complessivo del bene,
che quindi veniva risarcito solo in parte17. Identico era il caso austriaco, dove
le pensioni venivano elargite sulla base di minorazioni isiche non inferiori al
50% e di altri18 svariati parametri e i beni danneggiati sulla scia della tradizionale legislazione attorno ai danni di guerra»19. In Italia, in Francia e nella stessa
Austria il modello normativo era in sintesi rappresentato dalla legislazione sui
combattenti e sulle vittime civili del conlitto mondiale e il fondamento giuridico
sotteso alle erogazioni delle prestazioni mostrava di conseguenza signiicativi
punti di contatto. A cambiare era la valutazione politica che delle persecuzioni
si faceva: per gli austriaci per esempio le vittime dell’austro-fascismo erano
da indennizzare paritariamente a quelle successive alla svolta rappresentata
dall’Anschluß20, per gli italiani le cose stavano diversamente: l’8 settembre
aveva inciso profondamente nella repubblica e scavava un solco profondo tra
i perseguitati dal regime monarchico-fascista e i perseguitati da Salò.
1. L’erogazione delle pensioni ai perseguitati della RSI e le richieste
di estensione alle vittime del ventennio
Quando – dunque – il governo italiano aveva iniziato a discutere sulla
possibilità di vitalizi alle vittime del Ventennio quali riconoscimenti di «benemerenze» e non di diritti veri e propri?
1960, in Grenzen der Wiedergutmachung. Die Entschädigung für NS-Verfolgte in West- und
Osteuropa 1945-2000, a cura di H.G. Hockerts, C. Moisel e T. Winstel, Göttingen 2006, pp.
245-246 e p. 261.
16
Ibidem.
17
Per una rappresentazione sintetica della legislazione attorno agli indennizzi per danni ai
beni cfr. Mission d’étude sur la spoliation des juifs de France, Rapport général, Paris 2000,
pp. 149-162.
18
Cfr. K. Berger et alii, Vollzugpraxis des «Opferfürsorgegesetzes». Analyse der praktischen Vollziehung des einschlägigen Sozialrechts, Wien München 2004, pp. 13-14.
19
Cfr. G. Greif, Die österreichische Rückstellungsgesetzgebung. Eine juristische Analyse,
Wien München 2003, pp. 465-469.
20
Al di là delle innegabili somiglianze con l’Italia e la Francia, l’Austria mise in atto
una normativa di riparazione ben più incisiva rispetto a quella emanata negli altri due paesi,
basti pensare al fatto che ad essere risarciti non furono solo i danni materiali, ma anche quelli
morali, come quelli ad esempio dovuti all’interruzione involontaria del lavoro, patita a causa
delle persecuzioni. L’equiparazione tra le vittime dell’austro-fascismo e quelle del periodo
successivo avveniva quantomeno sul piano degli indennizzi; relativamente all’equiparazione
per gli indennizzi miranti a risarcire i danni ai beni cfr. Greif, Die österreichische Rückstellungsgesetzgebung, cit., p. 465. Per quella relativa ai danni alle persone cfr. Berger et alii,
Vollzugpraxis des «Opferfürsorgegesetzes», cit., p. 13.
274
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
A ben vedere la linea di Gava si inseriva in un solco di pensiero consolidato;
si può addirittura adombrare l’ipotesi che l’ostilità del Tesoro a far rientrare
nel novero dei «danni di guerra» i danni alle persone e alle cose precedenti l’8
settembre 1943 possa aver fatto naufragare l’idea – presa in considerazione
nell’immediato dopoguerra – di contemplare nella legislazione sulle pensioni
di guerra tanto le vittime di Salò quanto quelle del Ventennio. Per comprendere di fronte a quale bivio si sia trovato il provvedimento di legge pensato
originariamente a favore dei perseguitati successivamente l’8 settembre ad un
certo punto del suo cammino, è opportuno fare qualche passo indietro.
In un appunto del dicembre 1945, attraverso una commissione dell’uficio
legislazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, Fernaudo mandava al
presidente una lunga relazione sull’opportunità di estendere «anche [ai] danneggiati politici per fatti anteriori all’8 settembre 1943 che [avessero] subito
lesioni personali o perdite in famiglia» le provvidenze elargite a favore delle
vittime di Salò, nel disegno di legge ancora in corso predisposto dalla commissione di studio per le pensioni di guerra che era stata istituita, con decreto
presidenziale del 1º aprile 1945, proprio col compito di rinnovare la normativa
in materia di pensioni di guerra21. Dopo aver passato in rassegna la legislazione sui danneggiati contemplati dall’ordinamento giuridico italiano nelle
diverse fasi storiche d’Italia22, si formulavano alcune proposte: 1) segnalare
alla commissione di studio per le pensioni di guerra l’opportunità – come si
diceva – di inserire nello schema anche i perseguitati in oggetto; 2) segnalare
al ministero del Tesoro la possibilità di indicare come danni di guerra anche
quelli precedenti al settembre 1943; 3) per i danneggiati politici che non
avessero subito lesioni personali o perdite in famiglia doveva essere deciso se
fosse da corrispondere una forma di risarcimento, sia pure in misura limitata,
ma indiscriminata. Occorreva in sintesi stabilire se conferire un assegno una
tantum o un assegno vitalizio e se il danno dovesse essere considerato solo
«materiale» o anche «morale»23. L’Italia si trovava in deinitiva di fronte ad
un bivio cruciale: includere o no le vittime del Ventennio nel provvedimento
in corso di discussione? Considerare o no il danno morale e non soltanto materiale patito dalle vittime a causa delle persecuzioni?
In due diverse comunicazioni di qualche mese dopo il capo di gabinetto
della presidenza mandava ai ministri del Tesoro e dell’Assistenza post-bellica
un prospetto ipotetico sulle categorie di perseguitati da prendere in consi21
Il decreto istitutivo della commissione è in ACS, PCM, 1944-1947, 1.1.26 (da 16501 a
26000), busta n. 3249.
22
Dalle riparazioni previste in favore dei partecipanti ai moti del ‘48, alla legislazione
fascista, alla legge repubblicana 1945 n. 467, che nel 3º articolo disponeva l’estensione della
legislazione di guerra alle vittime di Salò e che si sarebbe concretizzata nel provvedimento
in corso di discussione, il futuro d.l.l. 372/1946, del quale si commentava la seconda bozza.
23
Cfr. ACS, PCM, 1946-1947, Atti legislativi, ministero del Tesoro (fascicoli da 88 a
125), n. 120.
Giovanna D’Amico
275
derazione24. Interessante è la risposta del ministro del Tesoro del 29 ottobre
1946 che, dopo aver ripercorso le proposte della presidenza25, nel soffermarsi
sulla possibilità di emanare un provvedimento mirato a risarcire i danni ai
beni dei perseguitati perpetrati dal regime monarchico-fascista, sottolineava
il loro porsi al di fuori della tradizionale legislazione attorno ai «danni di
guerra». Il ministro restava in ogni caso in attesa di conoscere le decisioni
della presidenza «in ordine alla nomina dell’apposita commissione […], per
un completo ed esauriente studio della questione al ine di designare i propri
rappresentanti», commissione proposta dalla presidenza nella missiva, della
quale a suo avviso avrebbero dovuto far parte propri rappresentanti, esponenti dell’alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo (al momento
soppresso), del ministero del Tesoro e della commissione per la riforma
della legislazione sulle pensioni di guerra26. La questione tuttavia tardava a
trovare soluzione se in un apposito appunto del luglio 1947 della Presidenza
del Consiglio alla Confederazione nazionale dei perseguitati antifascisti si
poteva ancora leggere che:
Non può disconoscersi che la richiesta ha un valido fondamento morale ed è
meritevole della più attenta considerazione, nel quadro delle provvidenze in favore
degli antifascisti e delle loro famiglie. Il problema presenta, tuttavia, delicati aspetti,
sia per quanto riguarda la delimitazione della sfera delle persone e delle situazioni da
contemplare, sia per quanto attiene alle modalità pratiche per il riconoscimento della
pensione. Se può ovviamente prescindersi dalla valutazione degli oneri inanziari che
deriverebbero dalla suddetta provvidenza. Questa Presidenza ha, frattanto, interpellato al riguardo il Ministro del Tesoro, nella cui competenza rientra la materia delle
pensioni. Si fa, pertanto, riserva di ulteriori comunicazioni al riguardo27.
E ancora in un appunto del gabinetto della Presidenza al ministero dell’Interno del 19 agosto 1948 si scriveva che:
[…] circa la proposta estensione delle disposizioni sulle pensioni di guerra ai
danneggiati politici che subirono lesioni personali o perdite in famiglia per fatti anteriori all’8 settembre 1943, si è già provveduto a segnalare al Ministero del Tesoro
la esigenza profondamente sentita di un provvedimento in tal senso. Le questione è
24
La comunicazione al ministro dell’Assistenza post-bellica è del 21 maggio 1946 e quella
al ministro del Tesoro del 6 agosto 1946. Cfr. ivi.
25
Tra queste – come si è detto – vi era anche la richiesta del beneicio della pensione ai
danneggiati politici che avessero subito lesioni personali o danni ai beni precedentemente al
settembre 1943.
26
Cfr. ACS, PCM, 1946-1947, Atti legislativi, ministero del Tesoro (da 88 a 125), n. 120,
cit.
27
Cfr. ivi.
276
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
per ora all’esame della Commissione che attende alla riforma tecnico-giuridica della
legislazione sulle pensioni di guerra28.
L’estensione delle pensioni e dei risarcimenti per i beni danneggiati nel
corso del Ventennio alle vittime del regime monarchico-fascista non era dunque potuta avvenire in precedenza, né sembrava in procinto di veriicarsi, né
si sarebbe veriicata prima dell’emanazione della «legge Terracini». Le pressanti, tenaci richieste dei perseguitati, portate avanti – come si è visto – sin
dall’immediato dopoguerra, non avevano potuto concretizzarsi in una qualche
norma e l’occasione di una loro canalizzazione nel provvedimento pensato a
favore delle vittime di Salò era chiaramente naufragata. Una analisi ravvicinata della genesi del d.l.l. 372/1946 mostra quali responsabilità quella legge
si portò dietro, sia nella deinizione del quadro categoriale di riferimento, sia
del fondamento giuridico posto a capo del diritto alla «pensione di guerra»,
sia ancora del rapporto che venne ad instaurarsi tra il grado di retribuzione
materiale da conferire al partigiano e quello da attribuire ai perseguitati che
non avessero preso parte alla resistenza. I partigiani poterono ottenere un
vitalizio la cui entità andava calibrata in corrispondenza dei gradi conseguiti
nell’esperienza resistenziale29, ai secondi vennero invece concessi vitalizi,
modulati sulle pensioni attribuite ai civili danneggiati dalla guerra, equiparati
tradizionalmente al soldato semplice. Per le «benemerenze» guadagnate in virtù
delle sofferenze patite, rispetto alla pensione goduta dal soldato essi poterono
tuttavia ottenere una maggiorazione del 20 %.
Le aliquote di maggiorazione dei vitalizi da concedere ai perseguitati che
non avessero preso parte alla resistenza vennero ridotte sensibilmente dal
ministero del Tesoro, preoccupato di risparmiare risorse inanziarie: l’ipotesi
originaria era stata infatti quella di aumentare gli assegni base concessi ai soldati semplici del 50%. Tutto questo si sarebbe fatto sentire sulla legge Terracini,
dove pure le retribuzioni avvenivano sulla base di raffronti tra le esperienze
dei perseguitati e quelle dei civili danneggiati e dove il solco che si era scavato
tra i partigiani e le altre vittime del fascismo non poté essere colmato.
2. Genesi e caratteristiche della legge sulle pensioni di guerra elargite
a favore delle vittime della RSI
La genesi del primo provvedimento mirato ad estendere le pensioni di
guerra alle vittime di Salò può farsi risalire agli inizi del 1945, quando era in
corso di preparazione la norma che disponeva l’equiparazione dei partigiani,
dei deportati in KL (Konzentrationslager, campi di concentramento nazisti)
28
29
Cfr. ivi.
Cfr. l’art. 1 del d.l.l. 372/1946.
Giovanna D’Amico
277
e degli internati a vario grado in luoghi di prigionia della RSI ai combattenti
e ai prigionieri di guerra, per una serie di beneici economici, tra i quali era
prevista anche la suddetta misura del vitalizio30. L’articolo 3 del provvedimento disponeva infatti che «Le disposizioni concernenti le pensioni di guerra
[venissero] estese ai patrioti combattenti ed ai congiunti dei caduti per la lotta
di liberazione»31, e quindi ai resistenti, ai deportati in lager e a quanti dopo
l’8 settembre 1943 fossero stati internati in luoghi di prigionia all’interno del
territorio nazionale. Per una deinizione più particolareggiata del problema, la
legge rimandava a un ulteriore provvedimento da predisporsi ad hoc, e cioè
al futuro d.l.l. 372/1946, per concepire il quale la macchina amministrativa
aveva cominciato ad entrare in azione tra il gennaio ed il febbraio 1945.
Allora dalla Presidenza del Consiglio erano partite una serie di missive indirizzate ai ministeri militari32 e del Tesoro da un lato, e ai rappresentanti delle
associazioni partigiane, dell’Opera nazionale combattenti, dell’Associazione
nazionale combattenti, dell’Opera nazionale invalidi di guerra, dell’Associazione nazionale mutilati ed invalidi di guerra e dell’Opera nazionale orfani di
guerra33 dall’altro. L’obiettivo era sollecitare la nomina di delegati da inserire
nella «commissione per la revisione delle pensioni di guerra» che si aveva in
30
Cfr. il d.l.l. 467/1945, per la genesi del quale mi permetto di rimandare al mio Quando
l’eccezione diventa norma. La reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfascista, Torino 2006,
pp. 316-338.
31
Ivi, p. 324, nota n. 43: questa la dizione della bozza da me numerata 17B, diramata
dalla presidenza il 30 luglio 1945.
32
Il 30 gennaio 1945 l’uficio studi e legislazione mandava ai ministeri del Tesoro, della
Guerra, della Marina e dell’Aeronautica la sollecitazione a nominare un proprio membro per
partecipare alle sedute della commissione per la revisione delle pensioni di guerra. Il 6 febbraio
1945 il ministro del Tesoro rispondeva di designare Manlio Felici, primo referendario della
corte dei conti, e Antonio Capozio, direttore capo divisione nella Direzione generale delle
pensioni di guerra. Il 9 febbraio 1945 il ministero della Marina rispondeva di voler designare Loreto Castaldi. Il 17 febbraio 1945 era la volta del ministero della Guerra che faceva il
nome di Pietro Rameri, funzionario presso la Direzione generale dei servizi amministrativi.
Si chiedeva poi la possibilità di insediare quale «componente medico legale» anche Virginio
De Bernardis; il 10 marzo 1945 il ministro rettiicava la missiva precedente comunicando di
optare per la nomina del presidente del collegio medico legale di quel ministero. Il 19 febbraio il ministero dell’Aeronautica osservava di designare quale membro della commissione il
tenente Giovanni Cajazzo. Il tutto è in ACS, PCM, 1944 – 1947, 1.1.26 (da 16501 a 26.000),
busta 320, f. 25654/sf. 1.
33
La missiva veniva mandata il 20 febbraio 1945. Il 26 successivo rispondeva l’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra, che designava Canio Panetta. Qualora questi non
avesse potuto partecipare alle riunioni avrebbe dovuto essere sostituito dall’ingegner Giuseppe
Natale. Il 28 febbraio rispondeva anche l’Opera nazionale invalidi di guerra che individuava
in Luigi Maspero il rappresentante delegato. Il 2 marzo 1945 l’Opera nazionale combattenti
comunicava di aver designato Giovanni Mira, che peraltro era stato tra i consulenti individuati
per l’emanazione della legislazione pensionistica scaturita dagli eventi legati alla prima guerra
mondiale. Cfr. ivi. Per l’Associazione nazionale combattenti veniva invece scelto il colonnello
Vincenzo Ruggiero, per l’Opera nazionale orfani di guerra Nicola Falanga. Il 28 marzo 1945
l’Alto commissariato per i reduci comunicava alla presidenza di voler designare quale suo
278
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
animo di costruire. Nei tempi lunghi la commissione avrebbe dovuto ripensare
l’intera legislazione pensionistica di guerra, nei tempi brevi avrebbe dovuto –
invece – semplicemente adattare e rimodulare l’impianto delle vecchie norme
al nuovo spettro di «reduci» scaturito dalla seconda guerra mondiale.
Con decreto del 1º aprile 1945 la commissione veniva formalmente costituita e fattualmente insediata il 16 successivo con la convocazione dei suoi
membri34. La discussione fu lunga, gli incontri itti e l’impegno costante a valutare dalla frequenza delle riunioni e dalla densità delle discussioni, fortemente
animate da tre questioni di fondo: 1) su quale fondamento giuridico sarebbe
dovuta poggiare l’erogazione delle pensioni di guerra ai «nuovi reduci»?; 2)
come affrontare la questione delle quantiicazioni delle pensioni e a quanto
esse dovevano ammontare?; 3) come era da trattare lo spinoso problema delle
vittime civili diverse da quelle partigiane, il cui grado di risarcimento era stato
in passato calibrato sui compensi disposti a favore del «soldato semplice»?
Il 30 novembre 1945 il Presidente della commissione mandava alla Presidenza del Consiglio una relazione riassuntiva sui nodi affrontati nel corso
della discussione. L’opinione prevalente tra i membri della commissione era
che la pensione di guerra avesse carattere di risarcimento per i danni isici
che avevano diminuito l’abilità di lavoro degli interessati, un presupposto che
pur escludendo una diretta responsabilità dello stato negli eventi che avevano prodotto il danno, gli conferiva pur tuttavia una sorta di «responsabilità
oggettiva». La pensione di guerra discendeva in ogni modo dal diritto dei
singoli a essere risarciti.
Sciolta la prima questione occorreva far fronte al problema della quantiicazione del danno, normalmente calibrata sul grado militare rivestito e sulla
percentuale di invalidità subita. Se si fosse voluto operare in maniera puntuale,
si sarebbe dovuto calcolare per ciascuno il danno lavorativo effettivamente
derivato dalla «menomazione», solo che per giungere ad un simile risultato
sarebbero occorse risorse e procedure assai onerose per lo stato: come valutare
inoltre casi anomali come quello dello studente e del disoccupato? Si era quindi
issato uno standard medio della «capacità del lavoratore» e del «grado militare». Rispetto alle questioni legate all’ammontare dei compensi il problema
che si poneva era se continuare a mantenere i gradi militari come parametri
di riferimento o se non livellare maggiormente le retribuzioni. Le soluzioni
prospettate erano state le più disparate e la più estrema «tendeva ad abolire
rappresentante l’avvocato Nino Angelantonio. Il 14 marzo 1945 rispondeva l’Associazione
nazionale partigiani, che designava l’avvocato Felice Salivello. Cfr. ivi.
34
Cfr. lettera del 4 maggio 1945 mandata dal presidente della commissione sulla revisione delle pensioni di guerra Giuseppe Castelli Avolio, alla Presidenza del Consiglio in cui
questi osservava che la commissione era stata insediata il 16 aprile 1945 dal sottosegretario
alla presidenza Giuseppe Spataro. Cfr. ACS, PCM, 1944-1947, 1.1.26 (da 16.501 a 26.000),
busta n. 3249, f. 25654/sf. 1.2.
Giovanna D’Amico
279
tutti i gradi commisurando l’assegno al salario base e stabilendo l’obbligo del
lavoro ai limiti della residua capacità lavorativa dell’individuo». Nel complesso
la commissione aveva però ritenuto che le «virtù militari» andassero salvaguardate e i gradi, per conseguenza, mantenuti – pur riconoscendo la necessità
di attenuare le differenze che correvano tra l’uno e l’altro.
Vi era poi il problema delle sperequazioni nelle retribuzioni tra militari e
civili: questi ultimi venivano equiparati tout court al «soldato semplice»; si
discusse a lungo se non adottare anche nei loro confronti uno sventagliamento
nei gradi su cui calibrare le pensioni, ma non si riuscirono ad individuare rimedi
eficaci: i casi da considerare parevano così articolati che per ciascuno di essi si
sarebbe dovuta congegnare una strategia a parte. Si decise quindi di lasciare le
cose come stavano equiparando i perseguitati che non avessero preso parte alla
resistenza ai soldati semplici – come del resto si stava facendo nei confronti
della generalità dei civili danneggiati dalla guerra – pur col beneicio di una
aliquota maggiorata rispetto a questi ultimi, per le benemerenze guadagnate
a causa delle persecuzioni35.
In deinitiva, la montagna aveva partorito un topolino e lo stesso tentativo
di premiare le vittime con una aliquota «forte» – scaturito dalla prima e dalla
terza bozza di legge presentata dalla commissione alla presidenza – cozzava
contro gli interessi inanziari del Tesoro36, che l’avrebbe ridimensionata dal
50% al 20%37. Nella quinta versione dello schema, predisposto di suo pugno
l’aliquota era difatti scesa ino a quel punto38. Nella stessa bozza il ministro
aveva inoltre suggerito di racchiudere sotto l’espressione sintetica «forze avverse nazifasciste» le categorie che il ministero dell’Assistenza post-bellica
(mentore delle due versioni precedenti) aveva esplicitamente elencato: «prigionieri politici, ostaggi, vittime per rappresaglia». La maggiore astrattezza della
formula sintetica avrebbe consentito a suo avviso «di poter regolare qualche
35
Cfr. ACS, PCM, 1944-1947, 1.1.26 (da 16.501 a 26000), busta n. 3249, f. 25654/sf. 5.
Il 29 maggio 1945 il Presidente della commissione comunicava alla Presidenza del Consiglio la prima bozza dello schema di legge che il 12 giugno 1945 veniva inoltrata ai ministri
del Tesoro, dell’Interno, della Guerra, della Marina, della Aeronautica e dell’Italia occupata.
Gli articoli 6 e 7 prevedevano a favore dei perseguitati politici una maggiorazione del 50%,
mentre per le vittime «razziali» e di «rappresaglie» l’aliquota era ridotta del 25%. Cfr. ACS,
PCM, 1944-1947, 1.1.26 (da 16501 a 26000), busta n. 3249, f. 25654/sf. 2.
37
Bozza diramata il 13 ottobre 1945. Cfr. gli articoli 2 e 3. ACS PCM, 1944-1947, 1.1.83
(dal n. 30.001 al n. 36.000), busta n. 3237, f. 35567. Mentre nello schema successivo – la
terza bozza – sarebbero risalite del 50% per gli oppositori politici: al resto dei perseguitati –
invece – la maggiorazione veniva del tutto sottratta. La sperequazione tra la prima e la seconda
tipologia di perseguitati aveva però generato alcune perplessità nel corso della discussione e
portato il ministero dell’Assistenza post-bellica – mentore di quella versione – a issare per
tutti la maggiorazione del 50%. Cfr. quarta bozza, diramata dalla Presidenza il 18 marzo 1946.
ACS, PCM, 1946-1947, Atti legislativi, ministero del Tesoro (da 88 a 125), f. 120.
38
Cfr. relazione alla quinta bozza di legge, diramata dalla presidenza il 20 aprile 1946 in
ACS, PCM, 1946-1947, Atti legislativi, ministero del Tesoro, (da 88 a 125), f. 120.
36
280
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
caso non considerato dalla stessa elencazione speciica»39. L’articolazione dei
perseguitati, così come risultava dalla versione di legge predisposta dal ministero dell’Assistenza post-bellica nel febbraio 1946 risultava già meno chiara
rispetto a quella scaturita dai testi precedenti, in particolare dal secondo, che
oltre a una elencazione speciica delle vittime: «vittime politiche», «colpiti
per rappresaglia», «perseguitati razziali», vi aveva incluso anche i «lavoratori
coatti»40. In particolare non appariva chiaro se i lavoratori coatti fossero rimasti
o meno nello schema. La formula sintetica adottata dal Tesoro accrebbe quella confusione. La Presidenza del Consiglio arrivò a pensare che la versione
deinitiva della legge avesse modiicato il testo elaborato dalla commissione
istituita per la revisione delle pensioni di guerra anche sotto quel proilo: la
nozione di vittima politica risultava – a suo avviso – più restrittiva, contemplando unicamente i partigiani41. Ma si trattava di un’impressione sbagliata:
con una missiva del 23 febbraio 1947 l’Unione delle comunità israelitiche
italiane comunicava ai propri membri l’emanazione del d.l.l. 373/1946, tra i
cui beneiciari erano inclusi anche gli ebrei42.
3. La legge «Terracini» e i danni ai beni dei perseguitati del ventennio
Pur fallita nelle sue premesse di fondo, la battaglia per assimilare i perseguitati del Ventennio ai reduci e ai partigiani per la concessione di un vitalizio
aveva pur condotto all’ottenimento di un «assegno di benemerenza», sia pure
degradato al rango di misura assistenziale da erogare a vantaggio dei bisognosi.
A nulla valse invece il tentativo dei promotori del disegno di legge «Terracini»
di promuove un provvedimento che risarcisse i danni patiti dalle vittime del
regime monarchico-fascista: qui l’opposizione del governo e di buona parte
dello schieramento moderato sarebbe stata – come si è visto – insuperabile.
Il destino dell’articolo a favore di un indennizzo per i beni saccheggiati nel
Ventennio venne segnato irreversibilmente dalla discussione sul disegno di
legge al senato del 16 dicembre 1954, quando non solo i mentori della legge
«Terracini» si trovarono di fronte a tre testi diversi – quello da essi formulato,
quello della I commissione interni in cui la discussione aveva avuto luogo
e un testo del governo -, ma dovettero anche far fronte (uscendone peraltro
39
Ibidem.
Cfr. relazione al secondo schema di legge in ACS, PCM, 1944-1947, 1.1.8.3 (dal n.
30001 al n. 36000), busta n. 3237, f. 35567.
41
Appunto dell’uficio studi e legislazione del 27 agosto 1946, in ACS, PCM, 1944-1947,
1.1.26 (da 16501 a 26000), busta n. 3249, f. 25654/sf. 2.
42
Cfr. richiesta di chiarimenti in proposito da parte del presidente della comunità ebraica
di Venezia in una lettera del 27 marzo 1947 reperibile in Archivio dell’unione delle comunità
israelitiche italiane (d’ora in poi AUCEI), UCII, 1934-1947, Leggi e decreti 1944-1948, busta
65 B.
40
Giovanna D’Amico
281
perdenti) a un ordine del giorno proposto dal senatore Umberto Merlin che
stilò una proposta di accordo tra le parti centrata su alcuni punti. Le premesse
da cui non si sarebbe dovuto prescindere erano le seguenti: 1) annullamento
dell’articolo proposto dai mentori della legge sull’indennizzo per i danni ai beni
dei perseguitati del Ventennio; 2) accoglimento dell’ipotesi di un assegno di
benemerenza alle vittime e del riconoscimento del periodo in cui a causa delle
persecuzioni esse non avevano potuto partecipare ai concorsi per i beneici di
carriera; 3) il terminus a quo del provvedimento avrebbe dovuto essere l’ottobre
1922 e non il marzo 1919, data di fondazione dei «fasci di combattimento»,
come invece avrebbero voluto Terracini e gli altri sostenitori del disegno di
legge43. Gli eventi così sfavorevoli alla legge che sempre più prendevano forma
nel corso delle discussioni generavano un carico di amarezza che Terracini
non si curava di contenere. Ecco cosa egli osservava in uno stralcio della sua
lunga arringa a favore della legge:
[…] Inine noi discutiamo in Aula per richiesta del Governo […]. E quale discussione! Richiamando per una volta anch’io l’insegnamento del Vangelo, dirò che
esso testimonia davvero che gli ultimi sono i primi, poiché i primi nel merito sono
divenuti, non per volontà nostra, gli ultimi nel premio […]. In questi ultimi anni voi
vi siete doverosamente ricordati di tutti: dei combattenti di leva e di quelli volontari,
dei deportati militari e civili, delle vittime civili di guerra, dei profughi, degli sfollati
– a non parlare della milizia volontaria per la difesa dello Stato, dei migliori soldati
della Repubblica di Salò e degli epurati od epurandi […]. Né me ne stupisco: quando
un popolo passa attraverso alle spaventose avventure che l’Italia ha vissuto, esso vi
è travolto nel suo intero. Comunque ogni gruppo aveva trovato i suoi patrocinatori,
vuoi per idealismo, vuoi per interesse sia pure lecito e degno. Ma noi parliamo oggi
di coloro che non avevano trovato qui, mai ancora, interpreti e difensori […]44.
In effetti nella stesura dei provvedimenti a favore dei perseguitati la repubblica aveva mostrato propensioni molto più forti nei confronti delle vittime di
Salò che non di quelle della fase precedente, verso le quali – come si è visto
– non solo era tardata l’emanazione di una norma che mirasse ad indennizzarli
per i danni isici subiti, ma addirittura si stentava a concepire la possibilità di
un risarcimento anche per i beni sequestrati o danneggiati a causa delle persecuzioni. Anche sul versante delle riparazioni nei confronti dei perseguitati
dopo l’8 settembre i cui averi fossero stati rovinati dalle violenze fasciste, i
governanti erano stati relativamente precoci. Già nel 1946 un provvedimento
di legge aveva esteso a loro vantaggio l’esistente normativa sui «danni di
43
Cfr. l’intera discussione in Atti parlamentari, Senato della Repubblica, CCXXIX seduta,
giovedì 16 dicembre 1954.
44
Ivi, p. 9117.
282
La legge «Terracini» e i suoi prodromi
guerra»45. La legge era stata a lungo richiesta tanto dai perseguitati politici,
quanto da quelli razziali, che numerosi avevano scritto all’«Unione delle comunità israelitiche» per avere notizie sui provvedimenti in merito, al ine di poter
avanzare richieste di indennizzo alle intendenze di inanza locali46. L’Unione
aveva accolto la norma con un entusiasmo forse eccessivo, poiché nel corso
del tempo l’interpretazione datane dal ministero del Tesoro sembrava essere
divenuta assai restrittiva, al punto che la sottrazione di beni mobili operata
dai nazisti non veniva più considerata quale ragione suficiente a garantire un
indennizzo: nella misura in cui essa non discendeva direttamente da un «fatto
bellico», le conseguenze che provocava diventavano irrisarcibili47.
Ad ogni modo, tra alterne vicende i perseguitati del regime monarchicofascista poterono vedersi riconosciute le riparazioni per i danni ai propri beni
generati dalle violenze fasciste, per gli altri invece non ci fu nulla da fare. Nel
dare il proprio assenso a una legge di molto depotenziata rispetto alle premesse
iniziali ecco cosa osservava Emilio Lussu:
A conclusione del dibattito su questo disegno di legge che avrebbe dovuto essere
il solenne riconoscimento delle benemerenze nazionali e democratiche dell’antifascismo, ho il dovere di fare, a nome del Gruppo del Partito socialista italiano, una
dichiarazione politica. Questa discussione ha avuto dei momenti estremamente penosi
che, signori della maggioranza e del Governo, non vi fanno onore. Molto penosa è
stata già la discussione in Aula quando, da parte nostra, fu avanzata la richiesta di
inversione dell’ordine del giorno, di modo che si discutesse prima questo disegno di
legge che tocca l’antifascismo e successivamente l’altro sulle provvidenze a favore
dei repubblichini di Salò. Votando contro, voi avete preso netta posizione politica per
gli uni contro gli altri […]. A rigor di logica noi dovremmo votare contro questo disegno di legge che offende l’antifascismo. Votiamo a favore esclusivamente iduciosi
che la Camera dei deputati possa modiicare le parti più insultanti di questa legge e
con la certezza che un Governo democratico e repubblicano di domani modiicherà
questa legge48.
45
D.lgsl.c.p.s. 6 settembre 1946, n. 226, Deinizione dei fatti di guerra ed equiparazione
delle formazioni partigiane alle forze armate ai ini del risarcimento dei danni di guerra.
46
Cfr. ad esempio il carteggio delle singole comunità ebraiche con l’Unione in AUCEI,
UCII, 1934-1947, Leggi e decreti 1944- 1948, busta 65 A.
47
In effetti dopo una richiesta dell’Unione al ministero del Tesoro per capire il signiicato
della circolare del 23 ottobre 1946, n. 89683 che disciplinava – per l’appunto – la questione,
il 20 marzo 1947 il sottosegretario al Tesoro Giovanni Braschi rispondeva che «[…] la legge
sul risarcimento dei danni di guerra concede[va] indennizzi soltanto per i danni dipendenti
da azioni compiute dalle formazioni militari». Non contemplava invece i danni «perpetrati da
esponenti di partiti politici», tra i quali erano compresi anche «quelli conseguenti alla politica
razziale». Il carteggio è in AUCEI, UCII, 1934-1947, Leggi e decreti 1944-1948, busta 65 D.
48
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, I commissione (Affari della Presidenza del
Consiglio e degli interni), giovedì 1° luglio 1954, p. 151. Ed anche Atti parlamentari, Senato
della Repubblica, CCXXXII seduta, martedì 21 dicembre 1954, p. 9298.
Giovanna D’Amico
283
Invece il tentativo di far passare dalla inestra quel che era uscito dalla porta
non riuscì: gli emendamenti volti a recuperare lo spirito iniziale della proposta
di legge suggeriti alla camera vennero tutti disapprovati nel corso della discussione che si sarebbe tenuta all’interno della I commissione permanente, il 23
febbraio 1945, per l’approvazione deinitiva del disegno di legge49.
49
Cfr. ACD, II legislatura, seduta deliberante della I commissione permanente del 23 febbraio 1955: approvazione della I commissione permanente alla camera, 2° volume, busta 60.
Silvano di Salvo
RISARCIRE GLI EBREI.
LEGGI RAzzIALI E CoSTITUzIonE
nELLE dECISIonI dEI GIUdICI (1956-2008)
Il termine “risarcimento”, nel linguaggio comune, ma anche nel suo signiicato più propriamente tecnico-giuridico, tende a porre in risalto la possibilità
di compensare, e tendenzialmente di annullare, un danno ingiusto mediante
una forma di ristoro satisfattiva, che può consistere in un rimedio integralmente ripristinatorio della situazione antecedente al fatto lesivo, ovvero in una
soluzione risarcitoria per equivalenza, sulla base della differenza di valore tra
bene integro e bene leso1.
Utilizzare questo termine per deinire le forme della riparazione adottate
dallo Stato italiano nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica vittime di
persecuzioni e di discriminazioni “legalizzate” rischia dunque di non rendere
esattamente percepibile il carattere assoluto e irreparabile delle conseguenze
individuali e collettive di tale attività persecutoria, che richiedono anzitutto
una silenziosa, memore e duratura presa di coscienza da parte di chiunque
– partecipe o meno dell’esperienza amministrativa o giudiziaria cosiddetta
“riparatoria” – si trovi al cospetto dei segni e delle conseguenze di tanta epocale sofferenza, che ha visto sacriicati e compromessi beni assolutamente
infungibili per effetto e quale conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento
di uno speciico, mirato e cogente complesso normativo discriminatorio e
persecutorio2.
1
Sui rapporti tra risarcimento del danno in forma speciica e quello per equivalente, cfr.
P.G. Monateri, Il risarcimento in forma speciica, in Trattato di diritto privato, diretto da M.
Bessone, vol. X, t. I, Torino 2005, pp. 261 e ss.
2
La dottrina ha peraltro evidenziato che una vera e propria responsabilità per atti legislativi può conigurarsi solo laddove sussista un sindacato di costituzionalità delle leggi, e che,
comunque, la materia non può che essere regolata in base a parametri con cui confrontare la
legge che tale responsabilità dovrebbe determinare. Vedi: A. Pizzorusso, La responsabilità dello
Stato per atti legislativi in Italia, ne Il Foro Italiano, V, 2003, c. 175; cfr. anche R. Bifulco, La
responsabilità dello Stato per atti legislativi, Padova 1999; C. Buonauro, Il risarcimento del
286
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
Il senso della legislazione di cui si discute nel presente lavoro, al di là del
cavillare, del centellinare indennizzi e del frugare impietosi nelle vite e nei
ricordi, va dunque individuato più in una manifestazione concreta di attenzione
e di memoria dello Stato verso le vittime delle discriminazioni che nel tentativo
di ricucire lacerazioni e risistemare sconquassi con dosi più o meno consistenti di beneici personali e patrimoniali, nella specie, peraltro, fortemente
condizionati nella loro effettiva erogabilità e predeterminati nella loro modesta
entità. Parimenti la disamina dell’applicazione giurisprudenziale di tali norme
non consiste in un semplice excursus su sottigliezze interpretative, su piatte
adesioni o su felici revirements, ma è storia di sentimenti, di contraddizioni,
di prodotti culturali e di tormenti interiori, vivi e pungenti per taluni, retorici
ed obsoleti per altri.
Ritengo doverosa questa premessa per evitare qualsiasi fraintendimento che
rischi di banalizzare e di appiattire una materia che non può essere accomunata a nessun’altra e che solo apparentemente si presta a venire freddamente
catalogata nell’ordinaria e “normale” attività giudiziaria. Aggiungo che la
delimitazione cronologica dell’oggetto di questo scritto deriva dall’esistenza,
nella legislazione riparatoria e nelle sue applicazioni giurisprudenziali, di una
sorta di spartiacque ravvisabile tra la produzione di norme abrogatrici, reintegrative e restitutorie da un lato, e la produzione di norme più dichiaratamente
“risarcitorie” e di imprinting costituzionale dall’altro.
La pressante necessità di reintegrare gli ebrei nella pienezza dei loro diritti
e di deinire gli aspetti patrimoniali immediati derivanti dal processo di abrogazione della legislazione razziale determinò infatti nell’immediato, tra l’altro
non senza polemiche e contraddizioni, l’emanazione di norme di contenuto
essenzialmente pragmatico, dirette a tentare di rimuovere sin dalla liberazione
e già ad opera del governo militare alleato gli ostacoli che si frapponevano
all’inserimento degli ebrei nella vita lavorativa e al reintegro degli stessi nella
situazione patrimoniale antecedente alla promulgazione delle leggi razziali3.
L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana coincise poi con l’avvio
di una lunga pausa nel processo di abbondante (e disorganica) produzione
legislativa, e, paradossalmente, fu seguita da una stasi nell’attenzione del legislatore verso le esigenze degli ebrei, nei cui confronti la classe politica riteneva
pressoché concluso l’impegno più speciicamente riparatorio dello Stato.
danno da atto legislativo, Milano 2004 e M.P. Lamè, L’esercizio della funzione legislativa:
l’(in)esistenza di una responsabilità del Legislatore, in I danni cagionati dallo Stato, dalla
Pubblica Amministrazione e dal Fisco, a cura di L. Viola, Matelica 2008, pp. 219 e ss.
3
In proposito esistono vari studi critico-storici, tra cui si segnala, per la completezza delle
argomentazioni e per la ricchezza dei richiami bibliograici : G.Y. Franzone, La legislazione
riparatoria e lo stato giuridico degli ebrei nell’Italia repubblicana (1945-1965) – Note sull’abrogazione delle norme antiebraiche, in La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra,
a cura dell’Archivio storico della Comunità Ebraica di Roma, Camera di Commercio, Industria,
Artigianato e Agricoltura di Roma, Roma, 2007.
Silvano Di Salvo
287
Tra l’altro, furono proprio gli anni successivi all’entrata in vigore della
Costituzione quelli della produzione giurisprudenziale più restrittiva in materia
di riparazione e di reintegrazione in favore di cittadini ebrei, potendosi ravvisare in ciò uno scarto tra la matrice antifascista e resistenziale degli organi
legiferanti e il mancato rinnovamento a livello burocratico e magistratuale4.
Sull’argomento non sono mancati studi approfonditi, basati sulla consultazione
dei repertori giurisprudenziali e anche sulla distribuzione statistica dei verdetti,
disaggregati in funzione della dislocazione territoriale degli organi giudicanti 5.
Nel 1955, dopo un lungo periodo di quasi assoluto silenzio normativo in
materia, riprese l’attività legislativa in favore degli ebrei perseguitati, venendo
al riguardo introdotta nell’ordinamento, dopo un complesso travaglio parlamentare, la c.d. legge Terracini, cioè la legge 10 marzo 1955 n° 96, recante
provvidenze in favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro
familiari superstiti.
In questa ripresa dell’attività legislativa può essere visto l’affacciarsi di una
nuova concezione del rapporto tra lo Stato e la cittadinanza ebraica vittima
delle persecuzioni, frutto di una lettura in chiave costituzionale degli eventi
persecutori, e fondata essenzialmente su principi solidaristici nonché sulla
coscienza pubblica della assoluta ingiustiicabilità morale e giuridica della
sopraffazione e del sopruso consumati, demolitori di beni e di valori infungibili.
Tuttavia, come è stato giustamente osservato, è mancata una piena e solenne presa di coscienza e di riconoscimento del “torto commesso dallo Stato
italiano ai danni di tanti cittadini e di tanti individui anche al di fuori della
cittadinanza”6, mentre va considerato che anche il legislatore post-costituzionale
ha sostanzialmente introdotto nella materia di che trattasi limiti alla tutela risarcitoria che appaiono conliggenti con la pienezza che deve connotare tale tutela
qualora rivolta verso diritti e interessi dichiarati fondamentali dalla Costituzione7.
4
G.Y. Franzone, La legislazione riparatoria, cit., p. 45.
G.Y. Franzone, La legislazione riparatoria, cit., p. 2; I. Pavan, Gli incerti percorsi della
reintegrazione. Note sugli atteggiamenti della magistratura repubblicana, 1945-1964, in Gli
ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, a cura di I. Pavan e G.
Schwarz; M. Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali, in Il ritorno alla vita: vicende e
diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Firenze
1998, pp. 72 e ss.
6
E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma Bari 2003, p. 152.
7
Corte costituzionale, sentenze 30 giugno 1986, n° 184 e 18 dicembre 1987, n° 561.
La stessa denominazione dell’assegno di benemerenza risente di questa iniziale e non più
mutata prospettiva “elargitoria”, ben diversa da quella – espressamente fondata sulla inalità
risarcitoria, sul doveroso riconoscimento e sulla solidarietà da parte dello Stato – che connota, sia pure a conclusione di un lungo iter evolutivo, la legislazione pensionistica di guerra
(vedasi art. 1 del d.P.R. 23 dicembre 1978 n° 915). Interessante è anche la recente posizione
assunta in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale dalla Corte di cassazione, che ha
considerato i pregiudizi di tipo esistenziale risarcibili, purché conseguenti alla lesione di un
diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto (sentenze 11 novembre 2008, nn.
26972, 26973, 26974 e 26975).
5
288
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
Senza alcuna pretesa di completezza, va in proposito ricordato che, inizialmente, la legislazione risarcitoria prevedeva esclusivamente l’erogazione
di un assegno vitalizio di benemerenza in favore di soggetti che avessero
subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30% a
causa diretta e immediata di fatti e atti persecutori (art. 1 della legge 10 marzo
1955 n° 96), mentre solo nel 1961 venne introdotto l’istituto della revisione
per aggravamento e fu istituzionalizzata la giurisdizione della Corte dei conti
sulle controversie in materia di detto assegno (legge 3 aprile 1961 n° 284).
Fondamentale va poi considerata, al ine di comprendere l’effettiva volontà
del legislatore quale può essere oggi più propriamente riconosciuta e interpretata, la successiva previsione normativa dell’erogazione di un assegno vitalizio
di benemerenza pari al minimo della pensione della previdenza sociale anche
a prescindere dalla sussistenza di un danno incidente sulla capacità lavorativa,
dapprima richiedendosi il raggiungimento del limite di età pensionabile (art. 4
della legge 24 aprile 1967 n° 261), indi ammettendosi anche solo l’alternativa
sussistenza di una condizione di invalidità a proicuo lavoro (art. 4 predetto,
quale sostituito dall’art. 3 della legge 22 dicembre 1980 n° 932).
Occorre peraltro chiarire che con la legge n° 261 del 1967 (peraltro emanata a circa trent’anni di distanza dalla promulgazione delle leggi razziali),
si è andati oltre la valorizzazione del solo danno immediato e diretto, con la
chiara, univoca ed espressa volontà di poter anche prescindere in sede riparatoria dalla sussistenza di una compromissione della capacità lavorativa delle
vittime della persecuzione razziale, dando dunque preminenza allo status di
perseguitato in quanto tale.
A prescindere dalla pur possibile valutazione di incompletezza di una legislazione che si rivolge agli ebrei che sono sopravvissuti alle persecuzioni e
allo sterminio introducendo macchinose limitazioni a carico di coloro (verosimilmente ormai tanto pochi da non comportare un apprezzabile pregiudizio
alle pubbliche inanze anche nel caso di omessa introduzione delle suddette
limitazioni soggettive) che sono riusciti a conservare integra o quasi la capacità lavorativa e non hanno (rectius: avevano) raggiunto l’età pensionabile, è
evidente l’evoluzione della voluntas legis verso una forma di riconoscimento
essenzialmente morale, legato più alla presa di coscienza dell’abiezione che
fu consumata dal 1938 in poi che all’esigenza di risarcire effettivamente i
danni arrecati, di cui evidentemente si cominciava – alla luce dei principi
costituzionali – a comprendere l’irreparabilità.
In questa sede non occorre dilungarsi né sull’evoluzione delle predette
norme, né sulla congerie di altre disposizioni che hanno inciso sulla predetta
legislazione riparatoria, in quanto, al ine di incentrare questo scritto sulle
problematicità più signiicative delle decisioni dei giudici nella materia in
argomento, è suficiente esaminare i principali temi di contrasto fondati sulle
varie interpretazioni di alcune delle norme innanzi citate, relativamente alle
quali non sembra purtroppo ancora raggiunta una visione giurisprudenziale
Silvano Di Salvo
289
unitaria e deinitiva. Va peraltro osservato che la giurisprudenza da prendere
in esame in relazione alla legge Terracini e alla serie di disposizioni normative
che la hanno modiicata e integrata, o che comunque ne hanno condiviso il signiicato risarcitorio, ha risentito negli anni sia di talune carenze deinitorie che
hanno appesantito ab origine il lavoro interpretativo e applicativo dei giudici,
sia delle dificoltà probatorie che lo iato temporale tra data di consumazione
degli atti persecutori e disamina giudiziaria delle singole posizioni soggettive
ha pressoché sistematicamente determinato.
Con riferimento alla focalizzazione che si è poi veriicata in sede giurisdizionale su taluni speciici gangli interpretativi della predetta normativa va
invece detto che la produzione giurisdizionale riveste un aspetto più complesso,
emblematico della coesistenza di varie modalità di approccio ermeneutico,
acutamente individuate e, direi quasi vivisezionate, in un recente studio critico,
ove si è operata una sorta di stratigraia dei più signiicativi provvedimenti
giurisdizionali, di estremo interesse non solo giuridico, ma anche umano e
sociologico8.
Rimanendo entro i conini di queste rilessioni è dunque interessante esaminare alcune decisioni emblematiche sia della Corte dei conti, sia della Corte
costituzionale, che hanno segnato i punti salienti di una “storia ininita”, non
ancora approdata al suo deinitivo punto d’arrivo.
In tema di giurisdizione della Corte dei conti sulla materia risarcitoria introdotta dalla legge Terracini, sorsero subito questioni di estrema rilevanza, non
essendo chiaro se la materia potesse rientrare a pieno titolo tra le attribuzioni
contenziose della Corte dei conti quale giudice delle pensioni. La questione
venne inizialmente risolta in sede giurisprudenziale con la sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti 4 agosto 1958, n° 9, ove venne affermato
che, pur a voler attribuire natura pensionistica all’assegno di benemerenza
previsto dalla legge n° 96 del 1955, la particolare causa che lo caratterizza e
la mancanza di un sottostante rapporto di impiego o di servizio non consentono di annoverarlo né tra le pensioni ordinarie né tra le pensioni di guerra, in
quanto il danno subìto trova causa non in un evento bellico, bensì in un fatto
politico; di conseguenza – statuirono le Sezioni riunite – il predetto assegno
va classiicato tra le altre pensioni straordinarie, rispetto alle quali la giurisdizione della Corte dei conti è insuscettibile di estensione in via analogica, non
potendo essere attribuita che per legge.
Come si vede, la peculiarità della natura dell’assegno di benemerenza,
avulsa da un diretto collegamento con lo status lavorativo o di servizio dei
possibili beneiciari, ha sin dall’inizio determinato problemi applicativi, rallentando di fatto il già lungo e faticoso percorso risarcitorio anche nella fase
del contenzioso giurisdizionale.
8
G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Torino 2007.
290
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
La questione di giurisdizione è stata comunque poi normativamente risolta
dall’art. 5 della legge 3 aprile 1961 n° 284, che ha inserito nella legge n° 96
del 1955 l’art. 8-bis, per il quale, avverso le deliberazioni della Commissione
indicata nel “precedente articolo 7” sulle domande per la concessione degli
“assegni di cui agli art. 1 e 2”, è ammesso il ricorso alla Corte dei conti. Va
peraltro precisato che in sede di interpretazione giurisprudenziale, e anche
successivamente all’entrata in vigore dell’art. 5 della legge n° 284 del 1961,
in stretta adesione al detto normativo sono state escluse dai giudici contabili
dall’ambito di cognizione della Corte stessa le controversie relative all’applicazione dell’art. 5 della legge n° 96 del 1955, concernente il riconoscimento
di periodi utili ai ini dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la
vecchiaia9, mentre detta giurisdizione risulta estesa ratione materiae in sede
interpretativa anche alle controversie concernenti la concessione dell’assegno
vitalizio di benemerenza successivamente introdotto dall’art. 4 della legge
24 aprile 1967 n° 261, cioè dell’assegno di benemerenza non condizionato, a
differenza di quello previsto dagli artt. 1 e 2 della legge n° 96 del 1955, dalla
sussistenza di un danno psico-isico collegabile in via immediata e diretta alla
persecuzione subita10.
Quanto alle dificoltà relative all’acquisizione delle prove, vanno segnalati
i casi di superamento delle ovvie carenze dovute non solo alla obiettiva irreperibilità di atti formali comprovanti le persecuzioni, ma anche al decorso del
tempo e alle conseguenti dispersioni delle possibili fonti di prova11, tenendo
peraltro presente che nel giudizio pensionistico innanzi alla Corte dei conti
(cui è assimilato il giudizio nella materia di cui stiamo trattando), l’appello
è consentito per soli motivi di diritto (art. 1, comma quinto, ultima parte, del
decreto-legge 15 novembre 1993 n° 453 convertito, con modiicazioni, nella
legge 14 gennaio 1994 n° 19), sicché decisivo si rivela l’approccio probatorio
innanzi al giudice di primo grado12.
A proposito del regime probatorio in argomento e delle dificoltà incontrate dai richiedenti l’assegno di benemerenza, occorre dire che l’art. 6 della
legge n° 261 del 1967 ha introdotto al riguardo un regime di favore, stabilendo che l’apposita Commissione, in sede di applicazione della legislazione
in favore dei perseguitati politici italiani antifascisti o razziali, “può ritenere
9
Corte dei conti, Sezione I per le pensioni di guerra, 3 novembre 1964, n° 228453; Sezione
II per le pensioni di guerra, 27 marzo 1969, n° 91184; Sezione I per le pensioni di guerra, 13
gennaio 1971, n° 253951; Sezione III per le pensioni di guerra, 19 giugno 1971, n° 82073;
Sezione giurisdizionale per il Veneto, 20 maggio 2003, n° 642.
10
Corte dei conti, Sezione V per le pensioni di guerra, 1° dicembre 1975, n° 41670; Sezione
III per le pensioni di guerra, 26 aprile 1988, n° 113864.
11
Vedasi a esempio Corte dei conti, Sezione II centrale, 11 luglio 2006, n° 263; Sezione
giurisdizionale per la Lombardia, 9 giugno 2005, n° 423 e 17 marzo 2004, n° 424; Sezione
giurisdizionale per il Lazio, 23 dicembre 2004, n° 3146.
12
Corte dei conti, Sezione I centrale, 13 giugno 2005, n° 196 e 15 giugno 2005, n° 202.
Silvano Di Salvo
291
validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti
notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di
documenti uficiali”, e di tale norma è stata fatta applicazione in diversi casi
anche in sede giurisdizionale13. A ciò va però aggiunto che nella giurisprudenza della Corte dei conti appare non molto utilizzata l’acquisizione d’uficio di elementi probatori fondati sul contenuto della domanda giudiziale,
mentre proprio la peculiarità della materia sembra richiedere l’utilizzazione
quanto più intensa possibile di tutti i poteri istruttori del giudice al ine di
ricercare, laddove ancora possibile, fonti di prova presso archivi e raccolte
documentarie, ricomponendo almeno nella fase giurisdizionale la dicotomia
tra l’eficienza e la solerzia dell’apparato burocratico statale all’epoca della
promulgazione e dell’applicazione delle leggi razziali persecutorie, e la
sconfortante penuria di dati e di documenti uficiali addotta da quello stesso
apparato al momento dell’esame delle domande avanzate dai soggetti perseguitati, spesso vanamente chiamati a soddisfare, magari in nome e per conto
di familiari ormai deceduti, una probatio diabolica, spesso paradossale e,
ancora una volta, tanto mortiicante per i diretti interessati quanto eclatante
presso i mass media 14.
In ogni caso non va trascurato al riguardo che la Corte costituzionale,
proprio scrutinando la suddetta disposizione che prevede l’appello in materia
pensionistica limitato ai soli motivi di diritto, ne ha riconosciuto la compatibilità con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione affermando che i giudizi
di prime cure “si conigurano come riesame di un complesso procedimento
amministrativo improntato ai principi della trasparenza e del contraddittorio e
riguardano essenzialmente il problema dell’insorgenza del diritto, veriicabile
con la piena garanzia dell’impiego di tutti i mezzi istruttori per la ricerca
della verità”15.
13
Ex multis, cfr. Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Lazio, 22 luglio 2008, n°
1240; Sezione giurisdizionale per la Toscana, 16 ottobre 2008, n° 626; Sezione giurisdizionale
per la Lombardia, 9 giugno 2005, n° 423 e 18 novembre 2002, n° 1903; Sezione giurisdizionale
per l’Emilia Romagna, 28 marzo 1997, n° 192.
14
Vedansi, a titolo di esempio, tra la sterminata produzione giornalistica al riguardo, M.
Smargiassi, Il calvario degli ebrei dimenticati dallo Stato, in Repubblica, 6 luglio 2002; R. Levi,
I solerti burocrati inventori di cavilli, in Shalom, n° 7/2002; A. Custodero, Ebrea perseguitata
e centenaria – E lo Stato rivuole il vitalizio, in Repubblica, 13 novembre 2006. Da valutare
con attenzione ed emozione anche la trasposizione in chiave teatrale della sofferenza che può
generare nelle nuove generazioni il gelido rapporto tra genitori perseguitati e normativa risarcitoria, rappresentato in Dimmi – una storia mai scritta, opera di L. Forti commissionata per
la Giornata della Memoria della Shoah (27 gennaio 2003) dal Comune di Firenze, che ha vinto
nel 2003 il primo premio al concorso letterario Le storie del Novecento indetto dall’Istituto
Storico della Resistenza di Alessandria (Isral) nonché il premio di drammaturgia indetto dalla
European Association for the Jewish Culture di Londra.
15
Corte costituzionale, 12-27 marzo 2003, n° 84; vedasi anche Corte dei conti, Sezioni
riunite, 22 novembre 2007, n° 10/QM.
292
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
Può essere dunque interessante esaminare taluni snodi interpretativi della
legislazione in argomento, alcuni dei quali oggetto anche di approfondimento
da parte di un’apposita Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e contemplati in una direttiva di detta Presidenza datata 22
luglio 2005, epigrafata Indirizzi per la soluzione di alcuni problemi applicativi
della normativa in favore dei perseguitati politici e razziali e degli ex deportati
nei campi di sterminio nazisti.
In proposito va anzitutto osservato che la mancanza di un esplicito riferimento alle “leggi razziali” nella legge n° 96 del 1955 ha comportato la necessità
di individuare in sede interpretativa, tra le fattispecie persecutorie previste
dall’art. 1 della legge stessa, quella atta a ricomprendere le vessazioni cui
furono sottoposti i cittadini ebrei per effetto della promulgazione del corpus
normativo razzista del 1938. Tra le varie previste dalla legge, la fattispecie che
più si attaglia a deinire tali vessazioni è certamente quella indicata alla lettera
c) dell’art. 1 della legge n° 96 del 1955, cioè “atti di violenza o sevizie subiti
in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito
fascista”. Tuttavia, mentre su tale questione identiicativa non si sono veriicate
oscillazioni giurisprudenziali, sull’attitudine degli atti di violenza “indiretti”
nonché, speciicamente, della “violenza morale” subita dai perseguitati a ricadere nella suindicata tipologia vi sono state nel tempo pronunce divergenti.
In taluni casi16 è stato negato che la violenza quale normativamente deinita
sussista in “tutti quei casi in cui l’applicazione della normativa persecutoria
abbia inciso sui singoli soggetti soltanto in maniera generica ed indiretta”,
mentre con altre pronunce17 è stata individuata una deinizione più ampia
dell’atto di violenza, inteso come “atto che agisce sull’animo delle persone
avente l’effetto di determinare nel soggetto passivo sofferenza psichica, provocando timore indotto dall’azione o dall’azione esterna, mortiicando lo spirito,
soggiogando, annullando o limitando la volontà del soggetto medesimo”.
Tale contrasto ha dato luogo ad un intervento delle Sezioni riunite della
Corte dei conti in sede di risoluzione di questione di massima, con una pronuncia (Corte dei conti, Sezioni riunite, 1° aprile 1998, n° 9/QM) nella quale è
stato affermato che “hanno titolo alle provvidenze in parola […] non soltanto
i soggetti direttamente colpiti dagli atti violenti, ma anche quelli che da tali
atti abbiano comunque ricevuto effetti lesivi del diritto della persona, purché si tratti di effetti causalmente collegabili a quella violenza”, includendo
16
Es.: Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia, 11 settembre
1996, n° 247; 30 agosto 1996 n° 212 e 18 settembre 1996, n° 267; Sezione giurisdizionale per
la Lombardia, 12 settembre 1996, n° 1441.
17
Es.: Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia, 12 febbraio 1998, n°
194; Sezione I centrale, 29 luglio 1997, n° 162; Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia
Giulia, 13 novembre 1996, n° 363.
Silvano Di Salvo
293
nella deinizione di atti di violenza anche le violenze morali, pur delimitando
cronologicamente al dies ad quem dell’8 settembre 1943 il periodo temporale
entro cui dovessero risultare consumati detti atti di violenza per dar luogo alla
concessione dell’assegno di benemerenza, e precisando altresì, interpretando la deinizione di cui alla predetta lett. c) dell’art. 1 della legge n° 96 del
1955, che “la necessità che gli atti di violenza provengano da persone, già
consente un primo risultato esegetico: essa, infatti, esclude che, ad integrare
la fattispecie di violenza, sia suficiente la mera soggezione alla normativa
antiebraica. Occorre, infatti, che la normativa anzidetta, ed i pregiudizi razziali
che la ispiravano, si siano concretamente realizzati in azioni lesive, poste in
essere dai soggetti di cui sopra”. È interessante rilevare che in detta sentenza
viene, fra l’altro, richiamata la sentenza della Corte costituzionale n° 561 del
1987, concernente il tema della risarcibilità di danni non patrimoniali patiti
dalle vittime di violenze carnali subìte in occasione di fatti bellici, a ulteriore
dimostrazione della impervietà e della estrema lunghezza del cammino dell’ordinamento verso una compiuta soluzione delle questioni risarcitorie connesse
a vicende storiche remote, con la paradossale conseguenza che dette questioni
e vicende, che dovrebbero essere ormai di pertinenza della storia del diritto,
sono invece ancora materia per la cronaca giudiziaria.
Comunque, nemmeno il contenuto della sentenza risolutrice del 1998
ha determinato una successiva univocità giurisprudenziale, in quanto sono
proseguite nella giurisprudenza della Corte dei conti signiicative divergenze
interpretative. In particolare, anche dopo il 1998 è proseguito un radicale contrasto giurisprudenziale in ordine all’idoneità o meno delle misure aflittive
previste dalle leggi razziali (anche in materia di espulsione di studenti ebrei
dalle scuole pubbliche) a fondare il diritto a conseguire l’assegno di benemerenza, in quanto, mentre per talune sentenze dette misure costituivano “mera
soggezione alla normativa antiebraica” insuscettibile di dar corso a misure
risarcitorie18, per un contrapposto orientamento – incentrato sulla considerazione che le concrete misure razziste conseguivano direttamente non dalla norma
ma da uno speciico provvedimento attuativo – nel momento in cui un soggetto
diveniva vittima di provvedimenti discriminatori non si era più in presenza
della mera soggezione alla normativa antiebraica, ma veniva a realizzarsi
concretamente un’azione lesiva della persona nei suoi valori individuali che
hanno valore costituzionale e conformazione di diritto soggettivo (Sezione I
centrale, 27 novembre 2002, n° 418).
Persisteva peraltro contrasto anche in ordine all’applicabilità nei confronti dei perseguitati razziali (con l’identica portata prevista nei confronti
dei perseguitati politici) della data-limite dell’8 settembre 1943, già reputata
18
Sezione I centrale, 2 luglio 2002, n° 240 e 1° novembre 2002, n° 392; Sezione III
centrale, 13 luglio 2001, n° 57.
294
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
insuficiente (e valicabile nella materia de qua) da talune decisioni del giudice contabile (vedasi ad es.: Corte dei conti, Sezione III per le pensioni di
guerra, 30 marzo 1987, n° 112236). Venivano dunque nuovamente investite
le Sezioni riunite, con il compito di chiarire in sede risolutiva “se le misure
concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti
di espulsione dalle scuole pubbliche) debbano considerarsi mera soggezione
alla legislazione razziale, o, all’opposto, possano in astratto ritenersi idonee
a concretizzare una speciica azione lesiva proveniente dall’apparato statale
e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili”.
Con la sentenza delle Sezioni riunite 25 marzo 2003, n° 8/QM, la Corte
dei conti forniva dunque ulteriori precisazioni, tentando di ridurre ad unità
gli orientamenti giurisprudenziali. In particolare, con detta sentenza è stato
conclusivamente affermato che le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche)
debbono ritenersi idonee a concretizzare una speciica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori
inviolabili, dando così soluzione al quesito proposto dal giudice remittente.
Nella sentenza n° 8/QM del 2003 il percorso argomentativo è stato peraltro
cadenzato da una serie di considerazioni da un lato integrative rispetto a quanto
affermato nella precedente sentenza n° 9/1998, e, dall’altro, reputate funzionali
ad una concreta deinizione processuale della controversia che aveva generato
la rimessione della questione di massima. In particolare, viene evidenziato
nella suddetta pronuncia che la scelta legislativa dell’inequivoca limitazione
della legge n° 96 del 1955 alla provenienza “pubblica” e “politica” degli
atti di violenza per i quali lo Stato offre riparazione (con esclusione, quindi,
di quegli atti di violenza compiuti da cittadini privi di rapporto organico o
politico con pubbliche istituzioni nel generale clima di antisemitismo indotto
proprio dalla propaganda di regime e dalle leggi razziali), vale già di per sé a
qualiicare l’assolutezza, la coercibilità e, quindi, l’ontologica intensità della
vis persecutoria presa in considerazione nella predetta legge, in quanto dispiegata da pubblici poteri che furono istituzionalmente legittimati ad attuare
le misure discriminatrici. Per le Sezioni riunite tale affermazione, unita alla
considerazione dell’automaticità dell’appartenenza alla Comunità ebraica degli
israeliti residenti nel territorio della Comunità stessa (Corte costituzionale, 30
luglio 1984, n° 239), porta a deinire il carattere di generalità, di ineluttabilità
e di autoritarismo istituzionale degli atti “pubblici” di persecuzione in quanto
conseguenza prevedibile e ineluttabile delle leggi razziali e ciò rilevando che
la stessa Corte costituzionale, peraltro, ha chiaramente affermato il carattere
aflittivo dell’istituzionalizzazione normativa delle attività persecutorie svolte
in danno degli ebrei (Corte costituzionale, 17 luglio 1998, n° 268).
Quanto alla inidoneità della “mera soggezione alla normativa antiebraica”
a comportare l’insorgenza del diritto a conseguire l’assegno di benemerenza,
nella sentenza in argomento non si pone in dubbio che le norme in esame
Silvano Di Salvo
295
non consentono ai soggetti perseguitati per motivi d’ordine razziale di poter
beneiciare dell’assegno di benemerenza solo in virtù della dimostrazione
dell’appartenenza alla minoranza oggetto delle disposizioni discriminatorie
(e, dunque, della sussistenza di una mera situazione soggettiva passiva di
svantaggio potenziale), ma ciò viene collegato, in detta pronuncia, non tanto
ad un’inverosimile “neutralità” o, addirittura, a una pretesa “indifferenza”
del legislatore – per di più proprio in sede di emanazione di norme riparatrici – rispetto all’applicazione “legittima” e incruenta delle “leggi razziali”,
quanto piuttosto al carattere di astrattezza tipico delle norme giuridiche, che
rappresentano volontà preliminare all’azione e non volontà concreta riferita
ad un’azione particolare o al comportamento di uno speciico soggetto. Viene infatti precisato in motivazione che la “soggezione” (vieppiù se “mera”),
quale categoria giuridica, costituisce infatti solo quella situazione nella quale
vengono a trovarsi soggetti nei confronti dei quali l’esercizio del potere ha
l’astratta possibilità di produrre modiicazioni mediante atti giuridici, e non lo
stato di concreta modiicazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive
determinato dal venire in essere dell’attività del titolare della situazione di
vantaggio. Solo in questo contesto e in questa accezione – precisano le Sezioni
riunite – può ritenersi estranea alla richiamata previsione legislativa del 1955
la “mera soggezione alle leggi razziali” cui si riferisce la sentenza n° 9 del
1998, da intendersi dunque, nella fattispecie, esclusivamente quale situazione
passiva di attesa nella quale vennero a trovarsi gli appartenenti alla minoranza
ebraica dopo che nell’ordinamento dello Stato italiano era stata introdotta una
normativa discriminatrice in danno della comunità cui essi appartenevano e
prima della concreta e individuale applicazione di tali disposizioni nei loro
confronti. Al riguardo, nella sentenza n° 8/QM del 2003 viene precisato che
la necessità di una valutazione speciica e di merito delle singole posizioni
soggettive può desumersi anche dal contenuto della sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 1998, n° 268, laddove il giudice delle leggi ha ritenuto
costituzionalmente illegittimo l’art. 8 della legge 10 marzo 1955 n° 96 nella
parte in cui non prevede che, della Commissione istituita per esaminare le domande per conseguire i beneici che la legge stessa ha introdotto in favore dei
perseguitati politici antifascisti o razziali, faccia parte anche un rappresentante
dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, avendo la Corte posto a base di
detta declaratoria di incostituzionalità considerazioni in ordine alla complessità
delle valutazioni richieste dalla legge, “che implicano anche l’apprezzamento
di situazioni in base alla diretta conoscenza ed esperienza delle vicende che
hanno dato luogo agli atti persecutori”, così implicitamente escludendo un
aprioristico automatismo valutativo.
Ciò premesso, la sentenza n° 8/QM del 2003 prosegue affermando che “la
concreta applicazione delle leggi razziali nei confronti dei singoli soggetti
passivi, a opera della pubblica amministrazione e a mezzo dei soggetti titolari
del relativo potere, interruppe la soggezione quale ‘stato d’attesa’ e determinò
296
Risarcire gli ebrei. Leggi razziali e Costituzione nelle decisioni dei giudici
l’avvio uti singuli delle attività persecutorie che incisero sulle posizioni giuridiche soggettive dei destinatari delle norme discriminatici concretizzando
speciiche azioni lesive provenienti dall’apparato statale e intese a ledere
le persone colpite nei loro valori inviolabili”, ribadendo la portata lesiva di
ciascuno dei provvedimenti amministrativi di esecuzione delle leggi razziali
senza necessità di un quid pluris persecutorio, attesa la già compiuta concretizzazione, a mezzo di ciascuno di quei provvedimenti, di un’offesa per i valori
fondamentali dell’individuo talmente lacerante e così abiettamente motivata da
non richiedere alcun altro attributo per ricadere a pieno titolo nell’accezione
di “atto di violenza” presa in considerazione dal legislatore del 1955, e ciò
anche con richiamo al “diritto naturale dei cittadini appartenenti alla minoranza
ebraica alla loro identità socio culturale, preesistente alla stessa formazione
dello Stato ed essenziale per qualsiasi comunità civile”.
Circa poi il già menzionato limite temporale dell’8 settembre 1943, nella
sentenza in esame viene affermata l’erroneità dell’interpretazione che identiica
le coordinate temporali della persecuzione politica e quelle della persecuzione
razziale, e ciò in base ad una stretta interpretazione del dettato normativo, dei
principi dell’ordinamento, della complessiva disciplina riparatoria e pensionistica, nonché delle pronunce della Corte costituzionale 3 luglio 1996, n° 231
e 17 luglio 1998, n° 268.
Tuttavia nemmeno questa pronuncia risolutrice di questione di massima ha
posto termine ai contrasti interpretativi, persistendo nella giurisprudenza della
Corte dei conti orientamenti nel senso della irrilevanza ex se dei provvedimenti
amministrativi esecutivi della discriminazione razziale (Sezione giurisdizionale
per la Lombardia, 9 settembre 2003, n° 1005), dell’impossibilità di prendere
in considerazione avvenimenti successivi all’8 settembre 1943 (Sezione I
centrale, 5 dicembre 2007, n° 499), e, comunque, di considerare integranti
violenza morale nei confronti del soggetto richiedente accadimenti brutalmente
persecutori, e anche tragici, occorsi non direttamente a tale soggetto bensì ai
familiari dello stesso19, nonché di considerare necessario, oltre all’esistenza
delle conseguenze della discriminazione razzista (impossibilità ad iscriversi
in scuole italiane di ogni ordine e grado, interruzione delle relazioni sociali,
cambi d’identità, dimora presso famiglie non ebree e attività svolte per sottrarsi ai rastrellamenti), un quid pluris consistente in una “situazione ancor
più disagiata per effetto di ulteriori speciici nocumenti” (Sezione III centrale,
28 gennaio 2005, n° 29 cit.).
Questa, in estrema e non certo completa sintesi, è la situazione attuale
della giurisprudenza a settanta anni di distanza dalla promulgazione delle
leggi razziali.
19
Sezione II centrale, 13 maggio 2008, n° 156; Sezione I centrale, 6 ottobre 2006, n° 195;
Sezione III centrale, 28 gennaio 2005, n° 29.
Silvano Di Salvo
297
Tutti ci auguriamo – in verità taluni solo per dovere di forma, altri per intima
e suprema aspettativa di giustizia – che le annose vicende legate all’applicazione della normativa risarcitoria nei confronti degli ebrei perseguitati trovino
quanto prima termine e soluzione deinitiva, ma il persistere di contrastanti
orientamenti giurisprudenziali rende tuttora incerto il risultato inale di detta
deinizione, e ciò con sempre maggior tormento dei soggetti sottoposti alle
persecuzioni, ormai avanti negli anni, e degli eredi di coloro che purtroppo
non potranno personalmente vedere l’epilogo delle loro personali vicende
burocratiche e giurisdizionali.
Sicuramente la collaborazione tra organi istituzionali e gli enti esponenziali delle Comunità ebraiche, e la stessa evoluzione della giurisprudenza
delle Sezioni riunite della Corte dei conti hanno consentito nel tempo una
maggiore uniformità di trattamento delle singole posizioni soggettive, ma
ciò evidentemente non si è rivelato suficiente per raggiungere un livello di
certezza adeguato alla particolare natura delle controversie di cui si è parlato.
A ciò va aggiunto che l’aspetto singolare della materia di cui trattiamo in
questa sede, è che la legislazione riparatoria prende atto di una persecuzione,
cioè di un’attività traumaticamente prevaricatrice posta in essere dallo Stato,
e, dunque, da parte di quello stesso organo che, dopo circa venti anni, e dopo
gli stravolgimenti storici e politici che hanno fatto seguito alla promulgazione
delle leggi razziali, ha cominciato a porsi quale critico di se stesso, al punto
di introdurre nell’ordinamento, in aggiunta alle norme meramente abrogatrici
di quelle nefaste norme persecutorie, norme risarcitorie ispirate anche da una
esigenza di riscatto istituzionale.
Lo Stato, nella sua continuità storico-giuridica, deve dunque davvero rimeditare su ciò che è stato, senza correre il rischio di rinnovare ancora oggi,
con aridi e artiiciosi percorsi burocratici, le sofferenze di un tempo.
Considerata la predetta continuità istituzionale dello Stato-ordinamento,
è evidente che anche la formazione del convincimento del giudice non può
prescindere dalla necessità che in questa materia – più che in altri complessi
normativi – la vera affermazione della supremazia dello Stato (che i destinatari della legislazione riparatoria ben conoscono avendola subita nel suo
aspetto più deteriore), consista nell’applicazione giusta e serena dell’effettiva
volontà normativa, da valorizzare alla luce delle matrici etiche del legislatore
post-costituzionale, espressione della stessa collettività nazionale nel cui nome
la giustizia è amministrata.
È invece impensabile che detta supremazia possa manifestarsi con ulteriori
manifestazioni di umiliazione verso quanti, dopo aver avuto la propria esistenza
vilipesa e perseguitata, se non annientata, per effetto di una precisa volontà
normativa dello Stato, dignitosamente si sono rivolti a quello stesso Stato che
ha solennemente proclamato l’abiura della trascorsa persecuzione per ottenere
una manifestazione concreta se non di integrale risarcimento, quanto meno di
coerente solidarietà.
Michele Sarfatti
LE vICEndE dELLA SPoLIAzIonE dEGLI EBREI
E LA CoMMISSIonE AnSELMI (1998-2001)*
Dalla tarda estate del 1938 gli ebrei italiani furono colpiti da una dura normativa persecutoria: la legislazione antiebraica, che, assieme alla normativa
antinera avviata nel 1936, costituì la legislazione razzista dell’Italia fascista.
Prima di tale data, l’Italia presentava una situazione del tutto inusuale nel
continente: vi era una presenza ebraica ininterrotta da oltre duemila anni, il
processo ottocentesco di indipendenza e unità nazionale si era intrecciato alla
deinitiva emancipazione giuridica degli ebrei (e non al maturare di nuove
discriminazioni), il partito reazionario-dittatoriale al governo non era (ancora) uficialmente antisemita e aveva sia iscritti ebrei sia iscritti antisemiti, gli
ebrei inine da un lato possedevano una profonda identità italiana e dall’altro
(anche a seguito di essa) avevano scelto chi il campo fascista, chi il campo
antifascista, chi quello ‘afascista’1.
Nel 1935-1936 Mussolini decise di procedere verso la persecuzione generalizzata dei diritti degli ebrei. Ciò avvenne non a seguito di pressioni esterne (della
Germania nazista) o per una sorta di necessaria afinità con la contemporanea
normativa contro gli abitanti delle colonie africane e il meticciato, bensì – come
generalmente accade per le legislazioni antisemite – perché il dittatore riteneva
giunto il momento di colpire gli ebrei del paese, emarginarli, eliminare dal
contesto nazionale le persone isiche e il contributo da esse apportato.
*
Questo saggio rielabora il mio precedente studio La “Commissione Anselmi” (1998-2001)
sui beni degli ebrei durante la persecuzione 1938-1945, in A. Chiappano e F. Minazzi, Pagine
di storia della shoah. Nazifascismo e collaborazionismo in Europa, Milano, 2005, pp. 51-74.
1
Gli enti ebraici mantenevano ovviamente relazioni con il governo; ciò però non può
portare a sostenere l’esistenza di un “rapporto tra ebrei e fascismo” (né tantomeno “tra
ebraismo e fascismo”), trattandosi in entrambi i casi di una coppia di elementi dissimili. Cfr.
le affermazioni in S. Dazzetti, L’autonomia delle comunità ebraiche italiane nel novecento.
Leggi, intese, statuti, regolamenti, Torino, 2008, pp. 40, 54.
300
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
La legislazione fu strettamente imperniata sul principio razzistico biologico2 e contenne norme che – in alcuni limitati ma importanti casi – furono per
qualche tempo maggiormente persecutorie di quelle vigenti nel Terzo Reich3.
Per quanto concerne l’ambito dei beni mobiliari e immobiliari e quello
complessivo delle attività lavorative, lo svolgimento della persecuzione antiebraica può essere riepilogato nel seguente modo4.
1. Nei mesi precedenti il varo della legislazione antiebraica del settembre
1938, vari ebrei cercarono di prevenirne gli effetti. Essi vendettero, o più
spesso svendettero, case, imprese (ad esempio, il quotidiano di Trieste “Il
Piccolo”)5 e azioni. Inoltre alcune agenzie pubbliche e imprese cessarono di
assumere nuovi dipendenti ebrei (qui ovviamente non interessa la complessa
vicenda di allontanamento degli ebrei da posizioni pubbliche, sviluppatasi sin
dall’inizio degli anni Trenta).
2. Dal settembre 1938 all’estate 1943, le circa 51.100 persone classiicate
“di razza ebraica” residenti nella penisola furono sottoposte al “periodo della
persecuzione dei diritti degli ebrei”, caratterizzato da una rigida normativa
antiebraica, ma dall’assenza di violenza isica6.
In questo periodo i lavoratori ebrei furono espulsi da tutti gli impieghi pubblici e da un numero crescente di impieghi privati. Gli ebrei stranieri vennero
espulsi dalla penisola e poterono portare con sé solo una piccola parte dei loro
beni. Le ditte di ebrei non poterono più lavorare per lo Stato o per conto dello
Stato (ad esempio, non poterono né vendere mobili agli ospedali né vendere
sigarette alla popolazione). A seguito di questa e di altre misure, circa un terzo
2
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, II edizione,
Torino, 2007, pp. 168-77. Le non rare affermazioni contrarie rimangono prive di basi documentarie; cfr. T. Dell’Era, Contributi sul razzismo e l’antisemitismo a settant’anni dalle leggi
razziali italiane. Introduzione, in Ventunesimo secolo, a. VII, n. 17 (ottobre 2008), pp. 12-13.
3
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 156.
4
Per la storia generale della persecuzione antiebraica in Italia cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei
nell’Italia fascista, cit.; L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia
(1943-1945). Ricerca della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea,
3° edizione, Milano, 2002; K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945,
2 voll., Firenze, 1993-96 (ed. or. Zulucht auf Widerruf. Exil in Italien 1933-1945, 2 voll.,
Stuttgart 1989-93). Cfr. anche I. Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche
delle leggi razziali in Italia 1938-1970, Firenze, 2004.
5
Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le
attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati,
Rapporto generale (d’ora in poi Rapporto generale) Presidenza del Consiglio dei ministri,
Roma, 2001, p. 64.
6
Per la storia della persecuzione in questo periodo cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia
fascista, cit., pp. 113 e ss.; per le disposizioni contro i beni e il lavoro degli ebrei nel 19381943 cfr. anche Rapporto generale, pp. 61-87.
Michele Sarfatti
301
dei negozi e delle piccole imprese di ebrei fu costretto alla chiusura7. Gli ebrei
non potevano essere proprietari di aziende aventi oltre 99 dipendenti; questa
misura colpì solo una decina di aziende8. Essi furono estromessi dai consigli
di amministrazione e dalla direzione delle società azionarie, ma poterono mantenere il possesso delle azioni. Essi furono obbligati a vendere a un’agenzia
governativa (Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare, Egeli) le case e i
terreni che eccedevano un determinato limite; questa misura colpì meno del
dieci per cento degli ebrei che possedevano case e terreni, inoltre essa fu applicata con grande lentezza: tra il 1939 e il 1943 l’agenzia aveva acquisito solo
265 proprietà. Essa iniziò subito a rivenderli; ino al 1943 aveva ricavato circa
30 milioni di lire da beni che aveva pagato agli ebrei circa 10 milioni di lire9.
Negli anni 1938-1945 quindi l’azione governativa verso la proprietà ebraica
immobiliare e azionaria fu molto blanda. I motivi di ciò potrebbero essere stati
il fatto che il fascismo intendeva espellere gli ebrei ma non i loro capitali, i
quali dovevano anzi rimanere in Italia sotto stretto controllo “ariano”, e forse
anche la dificoltà del governo fascista di intaccare il diritto di proprietà. Peraltro l’obiettivo principale di Mussolini ino all’inizio della guerra era quello
di espellere gli ebrei dalla penisola, e quindi di colpirli duramente soprattutto
negli ambiti della scuola e del lavoro.
I licenziamenti e le chiusure dei negozi provocarono un rapido impoverimento degli ebrei italiani; ma il Ministero dell’Interno stabilì che l’assistenza
agli ebrei poveri non era compito dello Stato bensì delle stesse Comunità
ebraiche10.
3. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 in Italia vi fu il “periodo della
persecuzione delle vite degli ebrei”, caratterizzato dalla loro deportazione ad
Auschwitz e dalla loro spoliazione generalizzata11.
La spoliazione fu attuata dalle autorità tedesche nei territori amministrati
direttamente dal Terzo Reich, ossia nella Zona di operazione Prealpi (Operationszone Alpenvorland), comprendente le province di Bolzano, Trento
e Belluno, e nella Zona di operazione Litorale Adriatico (Operationszone
Adriatisches Küstenland), comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Nel resto della penisola la spoliazione fu attuata
dalle autorità italiane del nuovo Stato fascista denominato Repubblica Sociale
Italiana. Quanto agli arresti, essi furono eseguiti solo dalle autorità tedesche
7
Rapporto generale, p. 78; I. Pavan, Tra indifferenza cit., pp. 138-39.
Rapporto generale, p. 73; I. Pavan, Tra indifferenza cit., pp. 113-23.
9
Rapporto generale, p. 81.
10
Rapporto generale, p. 86.
11
Per la storia della persecuzione in questo periodo cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia
fascista, cit., pp. 251 sgg.; per le disposizioni contro i beni degli ebrei nel 1943-1945 cfr. anche
Rapporto generale, pp. 89-114.
8
302
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
nelle due Zone di operazione e da entrambe le autorità nel resto della penisola; mentre solo le autorità tedesche gestirono la deportazione degli ebrei di
tutto il territorio. È interessante notare che il governo di Mussolini dette un
silenzio-assenso al fatto che i nazisti si appropriarono delle vite degli ebrei,
mentre protestò contro il fatto che essi si appropriavano dei beni degli ebrei
delle due zone di operazione12.
La Repubblica Sociale Italiana annunciò la prossima emanazione di una
legge di conisca di tutti i beni degli ebrei all’inizio del novembre 194313. Il
30 di quel mese il Ministro dell’Interno ne ordinò l’“immediato sequestro”
(misura a carattere di urgenza, che non modiicava la proprietà dei beni, ma
consentiva al governo di amministrarli)14. Inine il 4 gennaio 1944 venne varato
il decreto legislativo del Duce che stabiliva la conisca a favore dello Stato di
tutti i beni posseduti in Italia da persone “di razza ebraica”15. I beni dovevano
essere coniscati dai capi delle provincie e poi amministrati dall’Egeli.
Le conische comprendevano tutti i beni: denaro contante, azioni, titoli pubblici, depositi bancari, polizze assicurative, terreni, case, mobili, soprammobili,
argenteria, gioielli, quadri, tappeti, stoviglie, vestiario, lenzuola, automobili,
biciclette, macchine da scrivere, macchine fotograiche, generi commestibili,
arredi di negozi, merce di negozi, macchinari industriali, cauzioni per il noleggio di apparecchi telefonici, titoli dati come corrispettivo dei beni immobiliari
espropriati nel 1938-1943, valige, eccetera. All’inizio i decreti di conisca erano
pubblicati sulla “Gazzetta uficiale” della Repubblica Sociale Italiana. La popolazione poté così apprendere che al rabbino di Genova era stata coniscata
una bandiera d’Italia, che a un altro ebreo era stata coniscata una forma di
parmigiano (di grande valore economico, e assai rara all’epoca), che a un altro
ancora era stato coniscato uno spazzolino da denti. Dopo qualche tempo, le
autorità fasciste decisero di non pubblicare più gli elenchi dei beni coniscati16.
A causa dello svolgersi della guerra nella penisola, l’operazione di conisca
fu talora incompleta o addirittura quasi nulla, come a Roma. Per lo stesso
motivo, una parte dei beni venne rubata prima o dopo la conisca.
12
Rapporto generale, pp. 112-14.
Rapporto generale, p. 93.
14
Ministro dell’Interno ai capi delle province, Ordinanza di polizia n. 5, 30 novembre
1943; conservata in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale
della pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, Massime (parte non riordinata), R9, b. 80,
fasc. 19; pubblicata in M. Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica. Le circolari, in
La rassegna mensile di Israel, vol. LIV, n. 1-2, gennaio-agosto 1988, p. 198. Cfr. Rapporto
generale, pp. 94-95.
15
Decreto legislativo del Duce, 4 Gennaio 1944, n. 2, Nuove disposizioni concernenti i
beni posseduti dai cittadini di razza ebraica, in GU, n. 6, 10 gennaio 1944; testo completo in
facsimile in Michele Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica. I testi delle leggi, in
La rassegna mensile di Israel, vol. LIV, n. 1-2, gennaio-agosto 1988, dopo p. 65. Cfr. Rapporto
generale, pp. 96-98.
16
Rapporto generale, pp. 99-100.
13
Michele Sarfatti
303
Ovviamente gli ebrei non ebbero redditi da lavoro dopo l’8 settembre.
Durante la clandestinità, essi utilizzarono i propri beni residui per mantenersi
in vita: per comprare cibo, medicinali, legna per il fuoco, ecc.
Nel settembre 1943, nelle regioni dell’Italia centrale e settentrionale assoggettate alla Repubblica Sociale Italiana e all’occupazione tedesca vi erano
circa 43.000 persone classiicate “di razza ebraica”17; di esse, almeno 36.000
abitavano nell’area sotto amministrazione fascista.
Fino all’aprile 1945 l’Egeli ricevette dai capi delle province 7.847 decreti
di conisca, 7.116 dei quali provenivano dall’Italia settentrionale (escluse le
due Zone di operazione)18. In 7.187 casi su 7.847 la Commissione Anselmi ha
potuto rintracciare i testi dei decreti di conisca: essi concernevano in totale
7.920 persone e 230 ditte19. Dei 7.116 decreti di conisca pervenuti dall’Italia
settentrionale, 2.794 concernevano beni immobili e mobili (compresi gli oggetti
personali), 4.115 concernevano depositi bancari, 207 concernevano aziende20.
Né all’epoca della Repubblica Sociale Italiana, né nel dopoguerra, è stato
fatto un riepilogo del valore dei beni sequestrati. Tanto meno esistono riepiloghi
dei beni rubati o di quelli che non vennero né rubati né coniscati.
Le persone classiicate “di razza ebraica” abitanti nelle due Zone amministrate dal Terzo Reich erano 5/7.000. In ciascuna Zona le conische vennero
attuate in base ad un’ordinanza (Anordnung) del Commissario supremo
(Oberste Kommissar). L’ordinanza per il Litorale Adriatico fu emanata il 14
ottobre 194321; quella per la zona Prealpi non è stata rintracciata. I beni dovevano essere coniscati dalla polizia tedesca e dovevano essere amministrati
e venduti dal Dipartimento Finanze.
Alla ine di febbraio 1945, nel Litorale Adriatico erano state effettuate
1.420 conische, per un totale di 313.533 titoli azionari e di Stato (valutati
Lire 450.000.000), circa 400 abitazioni e 30 locali commerciali, circa 3.800
oggetti (o gruppi di oggetti) di valore; il provento netto delle rendite e delle
vendite già effettuate era di circa lire 23.000.00022.
Le autorità tedesche inoltre coniscarono deinitivamente e trasferirono a
Berlino e in Carinzia le masserizie e i colli spediti da ebrei dell’Europa cen-
17
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 252.
Rapporto generale, p. 100.
19
Rapporto generale, p. 51.
20
Rapporto generale, p. 100.
21
Der Oberste Kommissar in der Operationszone ‘Adriatisches Küstenland’. Triest, am
14.10.43. G.Zl.26/43. Anordnung über die Behandlung jüdischen Vermögens in der Operationszone ‘Adriatisches Küstenland’, copia dattiloscritta, allegata a lettera del Ministro delle
Finanze della Repubblica Sociale Italiana al Gabinetto del Ministero degli Affari Esteri della
Repubblica Sociale Italiana, 10 luglio 1944; Archivio storico del Ministero degli Affari Esteri, Fondo Repubblica Sociale italiana, Gabinetto, b. 164, fasc. IV.1, sfasc. 6. Cfr. Rapporto
generale, p. 108.
22
Rapporto generale, pp. 109-10.
18
304
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
trale e posti sotto sequestro nei magazzini del porto di Trieste dalle autorità
italiane nel maggio 1943; le masserizie erano contenute in 667 cassoni o
“liftvan”, misuranti ciascuno da 5 a 8 metri cubi, e nel 1939 erano assicurate
complessivamente per Lire 60.000.00023.
La spoliazione riguardò anche le biblioteche e gli archivi storici delle
Comunità ebraiche. I documenti e i libri di Alessandria e Ferrara vennero
rubati o dispersi da fascisti, quelli di Fiume vennero distrutti nel rogo della
sinagoga appiccato da nazisti; i libri di Trieste furono in gran parte distrutti o
portati in Austria. I nazisti inoltre “deportarono” integralmente le biblioteche
del Collegio Rabbinico Italiano di Roma e della Comunità Ebraica di Roma.
Le raccolte documentarie delle altre Comunità furono coniscate con grande
premura dalla Repubblica Sociale Italiana e furono trovate quasi intatte al
momento della sua sconitta24.
All’inizio del 1997, l’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi istituì
una Commissione di indagine su cinque colli contenenti oggetti prelevati ad
ebrei nel 1943-1945 dalle autorità naziste di occupazione di Trieste, colli che
erano ancora conservati dallo Stato, poiché nessuno degli ebrei triestini sopravvissuti alla Shoah li aveva riconosciuti come propri. La vicenda storica era
stata segnalata dalla Comunità Ebraica di Trieste e dall’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane. Nell’estate del 1997, terminati i lavori della Commissione,
venne approvata una legge che autorizzava lo Stato a consegnare all’Unione
delle Comunità tutti i beni da esso conservati, provenienti da spoliazioni effettuate a danno di ebrei dei quali non si conosceva più il nome o il destino25.
In base ad essa, i cinque colli vennero consegnati dallo Stato all’Unione delle
Comunità e da questa alla Comunità di Trieste; alcuni degli oggetti sono ora
esposti nel museo di quella Comunità e in quelli del campo di San Sabba a
Trieste e di Yad Vashem a Gerusalemme.
La legge del 1997 si era rivelata necessaria perché la vicenda triestina
non poteva essere risolta utilizzando la vecchia legge sui beni degli ebrei
uccisi. Quest’ultima, emanata nel 1947 dietro sollecitazione dell’allora presidente dell’Unione delle Comunità Raffaele Cantoni, con l’appoggio del
World Jewish Congress26, assegnava all’Unione delle Comunità – invece che
allo Stato, come previsto dalla legge generale – le eredità degli ebrei morti
23
Rapporto generale, pp. 86, 112.
M. Sarfatti, Contro i libri e i documenti delle Comunità israelitiche italiane. 1938-1945,
in La rassegna mensile di Israel, vol. LXIX, n. 2 (maggio-agosto 2003), pp. 369-85.
25
Legge 18 luglio 1997, n. 233, Disposizioni di solidarietà per gli appartenenti alle comunità ebraiche ex perseguitati per motivi razziali, ai ini della applicazione della legge 24
maggio 1970, n. 336, e successive modiicazioni ed integrazioni, in GU n. 171, 24 luglio 1997.
26
S. I. Minerbi, Un ebreo fra D’Annunzio e il sionismo: Raffaele Cantoni, Roma, 1992,
pp. 187-88; M. Toscano, Dall’ ‘antirisorgimento’ al postfascismo: l’abrogazione delle leggi
razziali e il reinserimento degli ebrei nella società italiana, in Id. (a cura di), L’abrogazione
24
Michele Sarfatti
305
nella Shoah e privi di eredi27. Essa però ha avuto pochissime applicazioni28,
innanzitutto perché concerne solo beni dei quali si conosca con certezza il
proprietario (infatti è una legge sulle eredità e non sulle spoliazioni), e in
secondo luogo perché stabilisce che spetta all’Unione delle Comunità informare lo Stato che un ebreo ucciso ad Auschwitz possedeva dei beni e non
aveva eredi, mentre queste notizie sono in genere note proprio allo Stato e
non all’Unione delle Comunità.
La legge del 1997 aveva per oggetto solo beni dei quali fosse nota la provenienza “ebraica”. Essa quindi non concerneva beni che erano stati coniscati
o rapinati ad ebrei, ma che oggi non erano più identiicati come “beni ebraici”.
Così, alla ine del 1997 la presidente dell’Unione delle Comunità Tullia Zevi
chiese la costituzione di una nuova Commissione, che conducesse un’indagine
complessiva su cosa era accaduto ai beni degli ebrei in Italia durante la persecuzione fascista e nazista e provvedesse alla restituzione dei beni eventualmente
ancora in possesso dello Stato. Zevi inviò la proposta al ministro Ciampi, che
nella primavera del 1998 la trasmise al presidente del Consiglio dei Ministri
Romano Prodi, raccomandandone l’attuazione. Questi approvò la proposta e
iniziò a preparare il relativo decreto, senza però poter terminare il lavoro a
causa delle dimissioni del suo Governo, avvenute nell’ottobre 1998. Il nuovo
presidente del Consiglio dei Ministri Massimo D’Alema riprese in mano il
dossier e il 1° dicembre 1998 irmò il decreto che ha istituito la Commissione
con il compito di ricostruire le vicende che hanno caratterizzato in Italia
le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi
pubblici e privati29. La Commissione quindi ha avuto l’incarico di svolgere
un’indagine storica, non di effettuare restituzioni o risarcimenti.
delle leggi razziali in Italia (1943-1987). Reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai
valori del Risorgimento, Senato della Repubblica, Roma 1988, pp. 56-59.
27
Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato, 11 maggio 1947, n. 364, Successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l’8 settembre 1943 senza
lasciare eredi successibili, in GU n. 119, 27 maggio 1947.
28
Rapporto generale, p. 282.
29
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 1 dicembre 1998. Come da art. 2, la
Commissione era composta da: on.le Tina Anselmi, presidente; dott.ssa Paola Carucci, sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato; dott. Piero Cinti, capo di gabinetto del Ministro
dell’industria, del commercio e dell’agricoltura; avv. Luigi Desiderio, direttore dell’Uficio
consulenza giuridica e cura delle pratiche legali dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (ISVAP); dott. Antonio Farrace, prefetto a riposo; avv.
Enrico Granata, direttore centrale dell’Associazione bancaria italiana (ABI); prof. Luigi Lotti,
presidente dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea; cons. Domenico
Marchetta, capo uficio legislativo del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica; avv. Francesco Nanni, direttore dell’Area normativa dell’Associazione nazionale
delle imprese di assicurazioni (ANIA); dott. Michele Sarfatti, coordinatore della Fondazione
Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano; avv. Dario Tedeschi, consigliere
dell’Unione delle comunità ebraiche italiane; - prof. Mario Toscano, ricercatore per la disciplina
di “Storia contemporanea” - Università La Sapienza di Roma; dott. Marino Viganò, incaricato
306
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
I suoi compiti erano tutto sommato simili a quelli della Mission d’étude
sur la spoliation des Juifs de France, detta Mission Matteoli dal nome del
suo presidente, istituita in Francia nel 1997. Ma va aggiunto che la Francia, a
differenza dell’Italia, due anni dopo dette vita anche a una Commission pour
l’indemnisation des victimes dépossédées de leurs biens du fait des législations antisémites e successivamente creò una Fondation pour la Mémoire de
la Shoah, alla quale sono afluiti gli importi dei risarcimenti e che è impegnata
nell’attività di ricerca e divulgazione.
La Commissione era composta da tredici membri: la presidente Tina Anselmi (ex-partigiana, ex-senatrice della Democrazia Cristiana, ex-presidente
della “Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2”
istituita nel 1981 ed ex-membro della “Commissione governativa di inchiesta
per i fatti di Somalia” istituita nel 1997), cinque persone indicate da altrettanti Ministeri (Interno, Affari Esteri, Beni Culturali, Industria e Tesoro), tre
persone indicate dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il presidente
dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, un rappresentante di un ente di vigilanza sulle aziende di assicurazione (ISVAP), due
rappresentanti delle associazioni delle aziende assicurative (ANIA) e bancarie (ABI). Nel marzo 1999 venne aggiunto un quattordicesimo membro,
designato dalla Banca d’Italia30. La Commissione divenne ben presto nota
come “Commissione Anselmi”.
Essa aveva una composizione mista: personalità autorevoli, dirigenti ministeriali, studiosi, rappresentanti di imprese. Considerando che la Banca d’Italia
aveva designato il responsabile del proprio Archivio storico, che il Ministero
dei Beni Culturali aveva designato il sovrintendente dell’Archivio Centrale
dello Stato, che l’Unione delle Comunità aveva indicato un professore universitario di storia contemporanea e me stesso (storico della Fondazione Centro
di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano), e inine che vi era il
presidente dell’Istituto storico nazionale, si può osservare che gli storici e gli
archivisti erano cinque su quattordici.
La Commissione Anselmi si è insediata il 17 dicembre 1998 e avrebbe
dovuto presentare la relazione conclusiva entro sei mesi (16 giugno 1999),
termine prorogato dapprima al 16 giugno 2000, poi al 31 marzo 2001, inine
al 30 aprile 2001. Poco prima di questa data, la Commissione ha consegnato
al nuovo presidente del Consiglio dei Ministri Giuliano Amato (subentrato
nell’aprile 2000 a D’Alema) il suo Rapporto Generale.
Nella conferenza stampa tenuta da Anselmi e Amato il 2 maggio 2001,
quest’ultimo ha dichiarato di non voler “far diventare res nullius, e dunque acunico per le ricerche in Italia della Commissione indipendente d’esperti “Svizzera - seconda
guerra mondiale” (Commissione Bergier)”.
30
Decreto del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 26 marzo
1999.
Michele Sarfatti
307
quisibili dallo Stato, beni che dello Stato non sono”31; ma non ha precisato quale
sviluppo avrebbe dovuto avere l’azione di restituzione e risarcimento. A questa
assenza di indicazioni operative ha fatto seguito l’assenza di decisioni da parte
del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, vincitore delle
elezioni politiche tenutesi il 13 maggio 2001. A tutt’oggi né il Governo, né il
Parlamento hanno avviato l’impegno complessivo di restituzione o risarcimento
che doveva seguire alle indagini della Commissione Anselmi.
Per completezza va segnalato che il 26 novembre 2002, con decreto del
presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, irmato dal sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta, è stata istituita una Commissione con
l’incarico di promuovere una ricerca approfondita al ine di ricostruire le
vicende relative al patrimonio bibliograico della Comunità ebraica di Roma
andato disperso a seguito delle razzie perpetrate negli ultimi mesi del 1943,
ovvero incaricata di ricercare la pregevole biblioteca della Comunità di Roma,
razziata da nazisti e non più ritrovata32. Questa Commissione sta terminando
i suoi lavori in questo autunno 2008, senza ahimè essere riuscita a ricostruire
la sorte della biblioteca razziata33.
Va anche segnalato che nel frattempo un Governo locale ha dato una soluzione positiva ad uno degli episodi indagati dalla Commissione: il 5 ottobre
2001 la Giunta della Provincia di Trento ha deciso di restituire una preziosa
collezione di 69 porcellane tedesche del XVIII secolo, che nel 1939 lo Stato
aveva coniscato a un ebreo tedesco e assegnato a un Museo di Trento34.
Ma come si è svolto il lavoro della Commissione Anselmi e quali sono state
le sue conclusioni? La Commissione ha chiesto agli Archivi provinciali dello
Stato di inviare copia della documentazione archivistica da essi posseduta sui
beni degli ebrei, e praticamente ciascun Archivio ha inviato serie documentarie
di diverso tipo. Ciò ha reso dificile l’opera di comparazione tra città e città,
ma ci ha permesso di avere un quadro largamente completo della spoliazione.
Essendo la Commissione nominata dal Governo, abbiamo potuto esaminare
anche la documentazione che dificilmente viene data in consultazione agli
studiosi, ossia proprio quella contenente notizie particolareggiate sulle persone
e sui beni. Ho così scoperto, dopo anni e anni di ricerche negli Archivi, che
questa documentazione è essenziale per ricostruire la storia complessiva della
persecuzione antiebraica. Basti pensare al signiicato del seguente episodio:
31
M. Galluzzo, Agli ebrei sottratti beni per duemila miliardi [di lire italiane], in Corriere
della Sera, 3 maggio 2001.
32
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 26 novembre 2002.
33
Il Rapporto inale della Commissione per il recupero del patrimonio bibliograico della
Comunità ebraica di Roma razziato nel 1943 è stato consegnato nel febbraio 2009 alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale lo inserirà nel proprio sito web.
34
Rapporto generale, pp. 146-47; M. Sarfatti, Il contesto del caso Kaumheimer, in
Geschichte und Region/Storia e regione, a. XI, n. 1, 2002, pp. 181-92. La collezione è stata
restituita il 15 giugno 2003.
308
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
nonostante la Repubblica Sociale Italiana avesse decretato che i beni coniscati
agli ebrei dovevano essere destinati alle persone colpite dai bombardamenti
aerei, all’inizio del 1944 il Ministro dell’Interno decise di distribuire 26.846
paia di calze e 1.900 paia di guanti sequestrate a un ebreo, del valore complessivo di circa un milione di lire dell’epoca, alle famiglie di fascisti uccisi
dalla Resistenza35.
Nella prima riunione, la Commissione Anselmi ha approvato, su mia proposta, di interpretare l’incarico ricevuto nel seguente modo:
– La deinizione “cittadini ebrei” comprendeva tutte le persone che il
governo fascista classiicò “di razza ebraica”, qualsiasi fossero la loro nazionalità e la loro religione (va infatti ricordato che in base all’impostazione
razzistico-biologica nulla poteva modiicare i “caratteri razziali” ricevuti
automaticamente dai igli di matrimoni “razzialmente omogenei”).
– La deinizione “attività di acquisizione dei beni” comprendeva, oltre alle
conische e ai furti, anche le distruzioni e le dispersioni dei beni, nonché gli
effetti della persecuzione nei comparti del lavoro dipendente e delle attività
imprenditoriali.
– Il termine “Italia” comprendeva tutto il territorio che all’epoca della
persecuzione faceva parte del Regno d’Italia, comprese quindi sia le province che negli anni 1943-1945 furono amministrate dal Terzo Reich (Trieste,
Bolzano, eccetera), sia le province che dopo la guerra hanno fatto parte nuovamente della Iugoslavia. Relativamente a queste ultime, va aggiunto che la
Commissione Anselmi ha indagato ciò che è accaduto a Fiume/Rijeka, ma non
potuto indagare (per motivi di tempo) ciò che è accaduto a Lubiana/Ljubljana
e Spalato/Split, annesse all’Italia nel 1941. Il termine “Italia” comprendeva
anche le colonie italiane in Africa, Rodi, l’Albania e i territori greci e francesi
occupati durante la guerra, ma anche in questi casi la Commissione non ha
avuto il tempo di compiere l’indagine.
La Commissione Anselmi ha lavorato per circa trenta mesi. Abbiamo consultato migliaia e migliaia di documenti, contenenti ininite notizie sui negozi
di vestiti di ebrei e sugli spazzolini da denti di ebrei, su ebrei ai quali fu vietato
di far parte di consigli di amministrazione delle società per azioni e su ebrei
ai quali fu vietato di smerciare “spilli a braccio” (ossia vendere scatolette di
spilli per le strade). In alcuni casi abbiamo potuto seguire una speciica vicenda
dall’inizio alla ine; in altri casi la documentazione si interrompeva, impedendo
di determinare con certezza cosa era accaduto. Tuttavia le linee generali della
vicenda storica sono emerse con chiarezza.
Il secondo impegno della Commissione Anselmi è stato quello di indagare
cosa era stato restituito o risarcito dopo la guerra. L’indagine è stata complessa
35
Rapporto generale, p. 104.
Michele Sarfatti
309
e i suoi risultati sono stati incompleti perché durante la spoliazione non era
stato realizzato alcun riepilogo generale. In particolare non è stato possibile
ricostruire gli elenchi completi dei beni sottratti e dei beni restituiti nelle Zone
di operazione Prealpi36 e Litorale Adriatico37. Per entrambe le Zone, la Commissione Anselmi ha potuto reperire solo una piccola parte della documentazione tedesca e inglese (nei primi anni dopo la guerra, le restituzioni nella
Zona di operazione Litorale Adriatico avvennero a cura del Jewish Property
Control Ofice, istituito dall’Allied Military Government)38.
Per quanto riguarda la restituzione dei beni espropriati o coniscati dalle
autorità fasciste, i principali risultati delle indagini compiute dalla Commissione Anselmi possono essere riepilogati nel seguente modo39.
Dogane (1938-1939). Al momento dell’emanazione delle leggi antiebraiche, alcuni ebrei cercarono di esportare clandestinamente valuta e preziosi.
La polizia di frontiera o di inanza effettuò dei sequestri. È molto probabile
che i beni sequestrati non siano mai stati restituiti.
Beni immobili (1939-1943). Le case e i terreni espropriati dall’Egeli nel primo periodo della persecuzione sono stati tutti restituiti o comunque compensati.
Beni immobili (1943-1945). Le case e i terreni coniscati dall’Egeli durante la Repubblica Sociale Italiana sembrano essere stati tutti restituiti. Al
momento della restituzione, l’Egeli ha chiesto ai proprietari il pagamento delle
“spese di gestione”, come se gli ebrei avessero scelto autonomamente di dare
in gestione i propri beni; alcuni proprietari hanno effettuato tali pagamenti,
altri si sono riiutati.
Beni mobili (1943-1945). Gli oggetti coniscati dall’Egeli nelle case degli
ebrei (in un numero imprecisabile di casi, le case coniscate nel 1943-1945
sono state rese senza mobilia o con i mobili completamente vuoti), o nelle loro
valige e tasche al momento dell’arresto, sono stati in parte restituiti e in parte
36
Cfr. Rapporto generale, pp. 163-200.
Cfr. Rapporto generale, pp. 201-40.
38
Rapporto generale, pp. 232-33.
39
Per il complesso processo di abrogazione della legislazione persecutoria si veda M.
Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano,
2003, pp. 251-75; ma soprattutto G. D’Amico, Quando l’eccezione diventa norma. La reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfascista, Torino, 2006; nonché A. G. Ricci (a cura di),
Verbali del Consiglio dei Ministri luglio 1943-maggio 1948. Edizione critica, vol. I: Governo
Badoglio 25 luglio 1943-22 aprile 1944, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma, 1994.
Vedi anche G. Fubini, Dalla legislazione antiebraica alla legislazione riparatoria. Orientamenti giurisprudenziali nell’Italia postfascista, in La Rassegna mensile di Israel, vol. LIV, n.
1-2 (gennaio-agosto 1988), pp. 477-93.
37
310
Le vicende della spoliazione degli ebrei e la Commissione Anselmi
no. Talora all’ebreo è stato restituito il ricavato della loro vendita che era stata
effettuata a valori di stima assai ribassati. È stato accertato che l’Egeli non ha
restituito e ha trasferito allo Stato l’ultimo gruppo di beni mobili rimasti in suo
possesso: si trattava di gioielli, libretti di risparmio, certiicati azionari, ecc.,
che nel 1943-1944 avevano un valore complessivo minimo di Lire 2.000.000.
Assicurazioni (1943-1945)/a. Sembra che l’Egeli non abbia mai incamerato
il controvalore di polizze assicurative sulla vita possedute da ebrei in Italia.
Assicurazioni (1943-1945)/b. La documentazione fornita alla Commissione
Anselmi dalle Assicurazioni Generali ha permesso di constatare che alcune
decine di polizze assicurative sulla vita intestate a ebrei residenti in Italia e
uccisi ad Auschwitz o a ebrei emigrati deinitivamente dall’Italia non erano mai
state liquidate; riguardo esse nel 2003 era vicina un’intesa tra Assicurazioni
Generali e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane40. Le altre due grandi
compagnie assicurative (INA e RAS) hanno comunicato alla Commissione
Anselmi che la documentazione da esse conservata non consente indagini
generali sulle polizze non liquidate; ma, successivamente alla conclusione
dei lavori della Commissione Anselmi, RAS ha reperito e – come già aveva
fatto Generali – consegnato alla International Commission on Holocaust Era
Insurance Claims un elenco di intestatari di polizze sulla vita, attive in quegli
anni e mai liquidate.
Banche (1943-1945). Quasi tutti i depositi bancari coniscati agli ebrei
furono lasciati in custodia dall’Egeli presso le banche. Subito dopo la Liberazione, le banche li misero nuovamente a disposizione dei titolari; così
gli ebrei usciti dalla clandestinità poterono subito utilizzarli. Ovviamente,
talora nessuno si è presentato a reclamare depositi che erano intestati a ebrei
morti in deportazione o a ebrei emigrati deinitivamente. La Commissione
Anselmi ha accertato che in tre banche esistevano depositi non reclamati
per importi complessivi di Lire 20.000, 220.000 e 520.00041 e che presso
le altre banche intorno al 1950 esistevano depositi non reclamati contenenti
denaro e titoli di Stato pari a circa Lire 4.000.000 e 6.650 titoli azionari di
valore imprecisato42. La mia opinione è che una piccola parte dei depositi
in lire sia stata successivamente reclamata e che la maggior parte sia stata
incamerata dalle banche.
40
Cfr. ora l’avviso pubblico Avviso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Polizze
emesse dalle Assicurazioni Generali - Ricerca di eredi, pubblicato a pagamento sul Corriere
della sera il 9 marzo 2009, con l’indicazione di 71 nominativi di (ex)assicurati.
41
Rapporto generale, pp. 234, 238, 434-35.
42
Rapporto generale, pp. 290-91.
Michele Sarfatti
311
Società per azioni (1943-1945). La questione dei titoli azionari è assai
complessa e richiede una ricerca minuziosa, per appurare quali azioni fossero
nominative e quali ‘al portatore’ e in quanti casi la vittima della conisca ha
abbandonato il documento cartaceo conservato dalla banca e ha chiesto alla
Società di emetterne uno nuovo. Questo problema è emerso con chiarezza
quando la Commissione Anselmi era ormai giunta alla ine dei lavori; non è
stato quindi possibile effettuare alcuna indagine.
Poste (1943-1945). Anche i depositi postali coniscati furono quasi sempre
lasciati in custodia dall’Egeli presso gli ufici postali, i quali dopo la Liberazione li misero nuovamente a disposizione degli ebrei. La documentazione
delle Poste non consente un’indagine generale nazionale sui depositi non
reclamati. La Commissione Anselmi ha accertato che in provincia di Parma,
su 19 depositi intestati ad ebrei, 10 erano stati incamerati dalle Poste perché
erano rimasti ‘inattivi’ per trenta anni dopo la Liberazione.
Musei. La Commissione Anselmi non ha compiuto un’indagine articolata
presso i musei pubblici e privati per appurare l’eventuale presenza di opere
d’arte prelevate a ebrei. La “Commissione interministeriale per il recupero
delle opere d’arte” ha assicurato che nella documentazione da essa conservata
non vi sono attestazioni di tale eventualità; la Pinacoteca di Brera ha assicurato
di non aver acquisito dopo la guerra “opere d’arte di proprietà ebraica”. La
Commissione Anselmi ha peraltro accertato che in alcuni casi le opere d’arte
asportate a ebrei non erano state incluse dopo la guerra negli elenchi nazionali di ricerca e che proprio la Pinacoteca di Brera aveva acquistato da terzi
un dipinto che nel 1999 un tribunale francese ha riconosciuto come sottratto
forzosamente al proprietario ebreo a Parigi.
Questo, in grande sintesi, è ciò che è avvenuto e ciò che ha attuato la Commissione Anselmi. Come si vede, venne prelevato pressoché tutto ed è stato
restituito sicuramente molto. Ma né le indagini storiche, né le restituzioni e i
risarcimenti possono essere considerati conclusi. Gli strumenti per assolvere
alle prime e ai secondi dovrebbero essere quelli stessi attivati nella vicina
Francia: una Commissione per i risarcimenti individuali, che operi laddove sia
possibile identiicare con esattezza uno speciico bene non restituito e il suo
legittimo possessore o erede, e una Fondazione per la memoria, che riceva e
utilizzi i risarcimenti concernenti beni o ex-proprietari oggi non identiicabili
con esattezza. L’Italia però non ha assunto decisioni in questo senso.
IndICE AnALITICo
Abbadia di Fiastra, 231
Abbamonte, O., 53, 190, 217
Abissinia, 134
Acerbo, G., 155, 156
Addis Abeba, 128, 130, 131, 132, 137
Adorni, D., 181, 189
Africa Orientale Italiana, 49, 76-77, 125 e
ss., 160, 173
Africa, 46, 77, 125 e ss., 194, 198, 308
Agropoli, 203
Al Husayn ibn Ali, 81
Albania, 308
Albarani, G., 193
Albertario, E., 112
Albertazzi, A., 183
Albertini, A., 173
Albisinni, F., 58
Alessandria, 291, 304
Alieri, D., 26
Allied Military Government, 309
Allorio, E., 167
Alpa, G., 44
Alto commissariato per i reduci, 277
Aly, G., 12
Amati, R., 184
Amato, G., 306
Amendola, G., 182
Andriani, F., 188
Angelantonio, N., 277
Anichini*, 227, 230
Anselmi, T., 303, 305 ss.
Antisémites, 306
Antonicelli, F., 195, 203
Arbizzani, L., 182, 183
Archinvolti, R., 186
Arena**, 130
Arendt, H., 18
Arganelli*, 237, 256, 262
Argentina, 182, 199
Ariosto, L., 231
Armani, G., 213
Arnaud, A.J., 160
Artom, E., 184
Artom**, 166, 170
Artukovič, A.,153
Ascalè**, 130, 132
Ascarelli, B., 184
Ascarelli, T., 184
Ascoli, Aldo, 184
Ascoli, Alfredo, 110
Asmara, 130
Asquini, A., 70, 113, 161, 162,
Assicurazioni Generali, 310
Associazione Bancaria Italiana (ABI),
305, 306
Associazione nazionale combattenti, 277
* L’asterisco segna i nomi dei magistrati (*) e delle parti processuali (**).
In corsivo i nomi dei luoghi.
314
Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA), 305, 306
Associazione nazionale mutilati e invalidi
di guerra, 277
Associazione nazionale orfani di guerra,
277
Associazione nazionale partigiani, 278
Astuto, R., 125, 126
Auschwitz, 10, 19, 199, 204, 230, 254, 257,
262, 301, 305, 310
Austria, 18, 39, 145, 273, 304
Ayass, W., 15
Ayò, U., 184, 192
Azara, A., 44, 110, 112
Azzariti, G., 108, 112
Azzi, A., 198
Babel’, I.E., 203
Baccigalupi, M., 106, 162, 168
Backes, U., 56, 57
Badinter, R., 177
Badoglio, P., 97, 98, 157
Balbo, F., 195
Baldo degli Ubaldi, 113
Balfour, A.J., 81
Balladore Pallieri, G., 102
Banca d’Italia, 306
Banco di Napoli**, 210
Baratta, A., 215
Barbano, F., 195
Barbera, M., 144, 145, 156, 157
Bardanzelli, G., 188, 189
Barile, P., 102
Barillà, M., 198
Barone, D., 110
Barra Caracciolo*, 210
Barrella*, 249
Barrera, G., 126, 137, 138, 139
Bartolo da Sassoferrato, 113
Bassano, U., 218
Battaglini, G., 161
Baumann, Z., 15
Baviera, G., 110
Bellinzona, 261
Belluno, 301
Ben Ghiat, R., 138, 160
Bensa, P.E., 110
Benz, W., 215
Bérard, L., 151, 152
Berger, K., 273
Indice analitico
Bergier, J.F., 306
Berlino, 21, 39, 53, 153, 303
Berlusconi, S., 307
Bertacchi, D., 192
Bessone, M., 285
Betti, E., 52
Bidussa, D., 124
Bifulco, R., 285
Bignami, M., 102
Bigot, G., 160
Binding, K., 13
Biscaro, G., 110
Bises, E., 184
Bistarelli, A., 269
Bizzozero, G., 199
Bloch, M., 58
Boatti, G., 195
Bobbio, N., 121, 193, 195, 196, 200, 201
Bocconi*, 226
Bolafi, G., 184
Bolafio, G., 185, 188, 189
Bolla, G., 163
Bolle, P., 151
Bologna, 89, 182, 183, 184, 185, 222, 223,
226, 227, 228
Bolzano, 301, 308
Bonavita, R., 138
Bonazzi del Poggetto, F., 182
Bonfante, P., 52, 110
Boniglioli, D., 231, 254
Boniglioli, G., 231, 254, 257
Boniglioli, R., 231, 254, 257
Bonicelli Della Vite, P., 112
Bonoldi, A., 193
Bonomi, I., 99, 100, 187
Borgna, P., 165
Bortolotto, G., 66
Bottai, G., 26, 40, 41, 42, 66, 69
Bottazzi, F., 89
Bozzi, C., 211, 222, 223
Bracher, K.D., 61, 74
Brancaleone, 203
Braschi, G., 282
Brasile 184, 192
Bravo, G.M., 201
Brennero, 39
Brera, Pinacoteca di, 311
Brindisi, 97
Broszat, M., 58
Indice analitico
Browning, R., 18
Brugi, B., 110
Brumlik, M., 21
Brunetti, G., 110
Brupbacher, O, 166
Budapest, 144
Buenos Aires, 182
Buffarini Guidi, G., 79, 94
Bulajić, M., 153
Buna-Monowitz, 13
Buonanno, C., 285
Buongiorno*, 128, 130, 132
Burgio, A., 61, 68, 124
Busatti, L., 163
Busnelli, F.D., 119, 121, 122
Cabib, R., 231
Cagli, C., 184
Cagliari, 196
Cajazzo, G., 277
Calabria, 203
Calamandrei, P., 92, 101, 103, 121, 215,
221, 230, 231
Caliendo, L., 112
Calò, A., 35
Calò, D., 184
Campania, 203
Camy, O., 165
Cannarutto, A., 190
Cannistraro, P.V., 162
Cantoni, R., 304
Cantucci, G., 50
Capobianco, G.L., 67
Capozio, A., 277
Cappellini, P., 103, 122, 217
Capponi, F., 146
Caprioli, S., 121, 122
Capristo, A., 194
Capuzzo, E., 159
Caravale, G., 187
Caretti, P., 93, 98, 208
Carinzia, 303
Carle, G.,
Carle, G., 194, 195, 196
Carmi**, 226, 227
Carnaroli*, 130
Carucci, P., 305
Casali, L., 61
Casalinuovo, A., 133
Casati*, 227, 229, 230
315
Cascione, C., 50
Cassata, F., 40, 168
Cassero, R., 161
Castaldi, L., 277
Castelgandolfo, 144
Castelli Avolio, G., 278
Castiglione Morelli*, 244
Castronovo, V., 69, 161
Catania, 8, 74, 184
Cavaglion, A., 106, 199
Cavalieri, G., 184
Cavalieri, L., 184
Caviglia, S., 88
Ceci, L., 143
Cereja, F., 104
Cesana**, 239, 248, 249
Chamberlain, H.S., 19
Cheli, E., 98, 101
Chiappano, A., 299
Chicago, 17
Chimenti, P., 66
Chiti, E., 187
Ciampi, C.A., 304, 305
Ciano, G., 147
Cicu, I., 165
Cinti, P., 305
Ciofi, A., 172, 174
Cipolla*, 227, 230
Cipriani, L., 41, 48
Cobianchi, C.A., 192
Coen, M.A., 184
Cogliolo, P., 188
Cognasso, F., 201, 202
Cogni, G., 124
Colagrosso*, 229
Colarizi, S., 213
Colli, G., 195
Colli, V., 9
Collotti, E., 23, 59, 77, 88, 93, 168, 287
Colombo, G., 180
Colombo, L., 197, 198
Colombo**, 227
Commission pour l’indemnisation des
victimes dépossédées de leurs biens du
fait des législations
Comunità ebraiche in Italia, 28, 33-36, 79,
82, 88, 101, 166, 231, 248, 251, 280,
282, 294-295, 297, 301, 304-307, 310
Consiglio, T., 186
316
Console*, 218, 219, 220
Consorzio delle comunità israelitiche italiane, vd. Comunità ebraiche in Italia
Corcos, P., 231
Cordoba, 182
Cordova, A., 130
Corradini, E., 267
Correggio, 227
Corso, R., 89
Cosentino, G., 112
Costa, P., 46, 49, 64, 65, 171, 210
Costamagana, C., 21, 49, 66, 69, 109, 114,
118, 124
Coviello, L., 110
Crisafulli, V., 102
Croazia, 141, 151, 152, 153
Croce, B., 21, 99, 187, 195
Croci Frecciate, 144, 153
Custodero, A., 291
Cutelli, S.M., 106, 131, 135, 136, 168, 169,
170, 171, 172, 173, 174, 175
D’Agostini, G., 218
D’Alema, M., 305, 306
D’Amelio, M., 44, 69, 70, 110, 112, 113,
115, 190
D’Amico, G., 309
D’Antonio, F., 66
D’Avack, P.A., 32
D’Azeglio, M., 231
D’Orsi, A., 193, 194, 195, 197, 199, 200,
201, 203
Dahm, G., 65
Dalla (Della) Torre del Tempio di Sanguineto, G., 146
Dallari, G., 109
Dalmazia, 88
Dárany, K., 144
Dazzetti, S., 35, 299
De Benedetti Bonaiuto, G., 184
De Benedetti, P., 181
De Bernardis, V., 277
De Blasi, V., 89
De Bono, E., 137
De Cristofaro, E., 110, 211
De Felice, R., 23, 58, 61, 74, 97, 145, 146,
147, 149, 156, 182, 183
De Francisci, P., 52, 67, 112, 164
De Gasperi, A., 271
De Gobineau, A., 201
Indice analitico
De Grand, A.J., 68
De Maria*, 254, 262
De Martino, F., 52
De Mita*, 249
De Montclos, X., 151
De Napoli, O., 21, 44, 47, 50, 193, 194
De Nicola, E., 186
De Rose*, 237, 242
De Ruggiero, R., 110
De Siervo, U., 101
De Simone, A., 211
Debenedetti, G., 203
Degni, F., 110
Del Boca, A., 57
Del Monte, G., 186
Del Vecchio, G., 184, 185, 194
Del Vecchio, V., 184
Dell’Era, T., 300
Della Rocca, U., 184
Della Seta, A., 184
Della Torre, O., 184
Delpech, F., 151
Demorazza, vd. Direzione generale per la
demograia e la razza
Desiderio, L., 305
Di Fortunato, A., 190
Di Prisco, M., 186
Di Salvo, S., 232, 244, 253, 258
Di Segni, V., 184
Dichiarazione sulla Razza del Gran Consiglio del Fascismo, vd. Gran Consiglio
del Fascismo
Diestelkamp, B., 215
Dietrich, Th.**, 222, 223
Diner, D., 10
Direzione generale per la demograia e la
razza, 40, 79, 89, 97, 155, 168, 178,
183, 187, 202, 205, 207, 209
Diurni, G., 105, 171
Dogliani, M., 101
Dollfuss, E., 39
Dunlap, Th., 215
Durand, B., 160
Egeo, 75, 81, 84, 205
Eichmann, A., 18, 21
Einaudi, L., 195, 196, 197, 200
Einaudi, M., 195
Eisenhower, D.D., 98
Emge, C.A., 64
Indice analitico
Emilia Romagna, 183, 243, 254, 255, 256,
258, 262, 263, 291
Ente Gestione e Liquidazione Immobiliare
(EGELI), 78, 79, 85, 90, 95, 98, 107,
167, 206, 208, 225-230, 301, 302, 303,
309, 311
Eritrea, 47, 76, 125, 131
Ermarth, F., 70
Etiopia, 30, 39, 48, 76, 123, 126, 197, 198
Europa, 7, 10, 11, 13, 19, 38, 39, 143, 144,
151, 152, 158, 212, 303
Evola, J., 41, 63, 64, 67
Fabbri, V.E., 188
Fabre, G., 30, 37, 116, 160, 194
Fadda, C., 110
Fagiolari*, 210
Falanga, N., 277
Falco, M., 34, 35, 36
Falco**, 210
Falconieri, S., 104, 166, 168
Falzea, A., 122
Farben, I.G., 13
Farinacci, R., 146
Farrace, A., 305
Faysal ibn al-Husayn ibn Ali, 81
Fedele, P., 170
Felici, M., 277
Fera, S., 188, 189
Ferrara, 112, 180, 182, 184, 185, 230, 231,
262, 263, 304
Ferrara, F., 110, 112
Ferrari, P., 162
Ferraris, E., 211
Ferri, G., 121
Ferri, G.B., 116, 122
Fiano, M., 184
Fillia, vd. Colombo, L.
Finzi, E., 183
Finzi, M., 182
Finzi, R., 183, 185, 194
Fioravanti, M., 65
Firenze, 89, 180, 183, 230, 231, 291
Firpo, L., 195
Fiume, 33, 301, 304, 308
Flores, M., 56, 58
Foa, A., 199
Foà, Arturo, 199
Foà, Emilio, 199
Foà, Franco, 199
317
Foa, Vittorio, 199
Focardi, G., 187
Fondation pour la Mémoire de la Shoah,
306
Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea, 305, 306
Fondazione Sicilia, 8
Forlì, 27
Forti, L., 291
Forti, U., 186, 187, 191
Fortini, F., 183
Fosse Ardeatine, 184
Fossoli, 231, 254
Fraenkel, E., 214
Francesco III d’Este, 121
Francia, 141, 151, 152, 184, 237, 243, 244,
273, 306, 311
Francoforte, 13
François, E., 19
Frank, H., 64
Franzinelli, M., 204
Franzone, G.Y., 286, 287
Frassinelli, casa editrice, 203
Fried, J., 57
Friedländer, S., 9, 11
Friuli Venezia Giulia, 292
Frosini, V., 185
Frugoni, C.,
Frugoni, C., 89
Fubini, G., 28, 101, 159, 165, 180, 181,
190, 268, 309
Fubini, S., 191
Fukuyama, F., 56
Fuller, M., 138
Funaro, E., 184
Funaro, G., 184
Furet, F., 57
Furgiuele, G., 165
Gabrielli, G., 126, 131, 132
Gaetano, G.P., 110
Gagliani, D., 182
Galante Garrone, A., 53, 163, 165, 166,
170, 173, 174, 190, 193, 221
Galgano, S., 110
Galizia, 11
Galizia*, 227
Gallo, N., 110
Galluzzo, M., 307
Garosci, A., 195
318
Gasviner**, 238, 251
Gatti, V., 131
Gava, S., 270, 271, 274
Genova, 89, 166, 185, 302
Gentile, E., 39, 58, 68, 139,
Gentile, G., 32, 41
Germania, 10, 12, 21, 23, 24, 36, 38, 39,
51, 52, 53, 56, 98, 124, 141, 142, 143,
144, 145, 146, 150, 198, 201, 206, 214,
215, 222, 299
Gerstenmeier, T., 71
Gerusalemme, 304
Gervasio*, 226
Ghigi, A., 89
Ghiron, M., 184
Ghisalberti, C., 65
Giacchi, O., 36
Giannetti, B., 123, 131, 136
Giannetto, M., 162
Giannini, M.S., 160
Gianturco, B., 188
Giaro, T., 63
Giedion, S., 17
Gigli Marchetti, A., 182
Gigli, L., 201
Gillet, M.S., 151
Gillette, A., 41, 53
Ginzburg, L., 199, 203
Gobetti, P., 195, 203
Goebbels, P.J., 64
Goetz, H., 195
Goglia, L., 76
Goltz, Graf von der, A., 70
Gondar, 129, 130, 134
Gorizia, 33, 229, 301
Gran Bretagna, 31, 37
Gran Consiglio del Fascismo, 42, 43, 92,
108, 109, 118, 147, 206, 209, 217
Granata, E., 305
Grandi, D., 70, 106
Graz, 230
Graziani, Alessandro, 186
Graziani, Augusto, 186
Grebing, V.H., 55
Gregoraci, F., 192
Greif, G., 273
Grisoli, A., 160
Gros, D., 164
Grossi, P., 24, 91, 160, 161
Indice analitico
Gruchmann, L., 16
Gruner, W., 17
Guarino, A., 58
Guazza, G., 70
Guerrazzi*, 136
Guerri, G.B., 26
Guerrieri, S., 101
Gugenheim**, 107, 166, 167, 251
Gürtner, F., 15
Habermas, J., 56, 57, 58
Hanau, C., 231
Hanebrink, P.A., 144, 150, 153
Haupt, H.G., 58
Hedemann, J.W., 64
Hegel, G.W.F., 21
Heine, G.T., 160
Heller, H., 14
Heydrich, R., 18, 21
Hijaz, 81
Hilberg, R., 11
Himmler, H., 18, 20, 21
Hitler, A., 10, 11, 12, 14, 15, 16, 20, 21, 37,
38, 39, 51, 141
Hoche, A., 13
Hockerts, H.G., 273
Imrédy, B., 144, 145
Inghilterra, 184
Interlandi, T., 40, 41, 80, 162
Isnenghi, M., 160
Israele, 103
Italia, passim
Iyob, R., 138
Jacchia, E., 182
Jacchia, M., 182
Jacobelli, J., 61
Jäger, G., 21
Jamalio, A., 210
Jankélévitch, W., 216
Jemolo, A.C., 36, 210, 215, 221, 224, 228
Jesi**, 227, 230
Jesse, E., 56, 57
Jewish Property Control Ofice, 309
Joerges, Ch., 215
Jona**, 217
Jorio, D., 142
Kaeble, H., 58
Kafka, F., 203
Kaltenbrunner, E., 18
Kaser, M., 52
Indice analitico
Kaufmann, E., 14, 15
Knütter, H.H., 58
Kocka, J., 58, 59
Koenen, A., 16
Koschaker, P., 52
Kühnl, R., 56
La (Della) Puma, V., 146
La Rovere, L., 108
Labriola, S., 187
LaFarge, J., 144, 150
Lamé, M.P., 286
Lampis, G., 112
Landra, G., 25, 26
Lattes, D., 183, 184, 192
Lazio, 239, 290, 291
Le Bras, H., 68
Le Pera, A., 97, 155
Leicht, P.S., 170
Leone, G., 129, 134, 135
Leoni, B., 195
Lessona, A., 49, 143
Letta, G., 307
Leuzzi, V.A., 88
Levi Castiglione, P., 231
Levi, F., 181, 199, 210, 268
Levi, G.D., 203, 204
Levi, M., 199
Levi, M.A., 199
Levi, P., 20, 21
Levi, R., 291
Libia, 75, 76, 78, 81, 84, 88, 109, 205
Liebman, E.T., 192
Lione, 151
Liquori*, 230
Lituania, 11
Liuzzi, F., 184
Livi, L., 89
Livorno, 88
Lo Giudice, M.R., 190
Lohmann, K., 71
Lombardi Indelicato, G., 192
Lombardia, 290, 291, 292, 296
Loreto*, 258
Loria, A., 197
Losurdo, D., 57
Lotti, L., 305
Lubiana, 301, 308
Lucchini, L., 161
Luchini, A., 162
319
Ludwig, E., 30
Luirand, M., 151
Lussu, E., 271, 282
Luzzatti, G., 184
Luzzatto, D., 231
Luzzatto, S., 143
Macchia, A., 211
Madagascar, 13
Madia, G.B., 188, 189
Madonna, M., 230
Maggi, C.M., 188
Maggi*, 258
Maglione, L, 154, 157
Magni, C., 36
Magrini Ascoli, I., 230, 254, 257, 262
Magrini Ascoli, L., 230 e ss., 254 e ss.,
258 e ss.
Maidanek, 19
Maiocchi, I., 62
Maione, G., 62
Maistro*, 130
Majorino, C., 181
Malinverno, R., 211
Malta, 98
Mammarella, G., 100
Manaresi, A., 188, 189
Mancini, P.S., 46
Mandič, N., 153
Manfredini, M., 124, 127, 130, 132, 133,
134, 173
Manifesto degli scienziati razzisti, 25, 26,
27, 38, 40, 42, 79, 80, 109, 116, 118,
144, 145, 146, 205
Mannari, E., 203
Mansfeld, W., 70
Mantella*, 226
Mantelli, B., 90, 104
Mantello, A., 50
Mantovani, C., 68
Mantovani, F., 93
Manzoni, A., 231
Marchetta, D., 305
Marchetti, V., 58
Marcone, R., 153
Margiotta Broglio, F., 80
Mari, P., 105, 171
Maroi, F., 71, 110, 111
Martone, L., 48
Maspero, L., 277
320
Massaua, 190
Mastai Ferretti, G.M., 148
Mastropasqua*, 237
Matard Bonucci, M.A., 23, 77, 79, 80
Matteotti, G., 40
Mattioli, A., 21
Mayda, G., 93
Mayer-Maly, T., 70
Mazzacane, A., 23, 35, 49, 50, 51, 55, 159,
160, 217
Mazzamuto, S., 28, 159, 190, 192
Mecca, 81
Meinl, S., 21
Melchionne**, 130
Melis, G., 162, 187, 191, 217, 218, 222
Melli, R., 180, 231
Melville, H., 203
Meniconi, A., 177, 179, 182, 186, 188
Menozzi, D., 169
Mentone, 88
Merano, 33
Merendino, D., 202
Merlin, U., 281
Mesnard, Ph., 21
Messina, 110, 185, 196, 200, 224
Messina, G., 110, 170
Messina, S., 67
Messineo, A., 155
Miccoli, G., 29, 145, 151, 152, 154
Michaelis, M., 38
Miglietta, M., 50
Milano, 161, 182, 227
Minazzi, F., 299
Minerbi, A., 88
Minerbi, I, 231
Minerbi, S.I., 304
Minerva*, 258
Ministero del tesoro**, 249
Ministero dell’economia**, 237, 238, 240244, 256-261, 264
Mira, G., 277
Miranda, L., 211
Miraulo, G., 110
Mission d’étude sur la spoliation des Juifs
de France (Mission Matteoli), 306
Missori, M., 181, 187
Modena, 230, 241, 242
Moisel, C., 272, 273
Molè, E., 271
Indice analitico
Momigliano, E., 182, 231
Mommsen, H., 57
Monaco, R., 200
Monateri, P.G., 63, 285
Montalenti, G., 109
Montefusco, V., 163
Montini, G.B., 147
Moretti, M., 169
Morpurgo, A., 231
Morpurgo, B., 198, 199
Morpurgo**, 229
Mortara, L., 36
Mosca, 21
Moscati**, 221
Mossa, L., 69, 162
Mussolini, B., 21, 23, 25, 26, 27, 30, 31,
33, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 49, 52, 63,
70, 78, 87, 89, 90, 91, 94, 95, 96, 108,
113, 114, 116, 117, 118, 119, 124, 126,
141, 146, 147, 148, 149, 152, 155, 156,
157, 161, 163, 168, 169, 180, 196, 199,
202, 205, 210, 299, 301, 302
Mutinelli, M., 123
Nanni, F., 305
Napoleone, 211
Napoli, 89, 90, 186, 187
Natale, G., 277
Natoli, C., 55, 57, 58, 61
Negri, G., 96
Neppi, V., 182
Nietzsche, F.W.,14, 19
Nigro*, 137
Noack, E., 64
Nolte, E., 56
Norimberga, 12, 16, 38, 141, 143, 153, 154
Novelli Glaab, L., 21
Nuzzo, L., 46
Nuzzo, M., 130
O’Neill, E.G., 203
Obermair, H., 193
Oggioni*, 230
Onofri, N.S., 182, 183
Opera nazionale combattenti, 277
Opera nazionale invalidi di guerra, 277
Opera nazionale organi di guerra, 277
Operationszone, vd. Zona di operazione
Orano, P., 41
Organizzazione Sionista Mondiale, 81
Ori*, 227
Indice analitico
Orlandi, A., 188, 189
Orlandi, F., 184
Orlando, V.E., 35, 191, 212
Ornaghi, L., 69
Osti Guerrazzi, A., 193
Ottolenghi, C., 162, 163, 184
Ottolenghi, Giorgio, 231
Ottolenghi, Giuseppe, 200
Ottolenghi, Silvio, 184
Ottolenghi, Simone, 184
Pacchioni, G., 110
Pacelli, E., 151, 158
Padoa, N., 230 e ss., 241 e ss.
Padova, 184, 200
Paggi, M., 183
Palestina, 31, 81
Pallotta, G., 198
Pandolfelli, G., 109, 112
Panepucci*, 227, 228
Panetta, C., 277
Pansini, M., 88
Panunzio, S., 114
Papaldo, A., 211
Papuzzi, A., 193
Pareti, G., 199
Parigi, 311
Parma, 184, 196, 311
Parrella*, 218, 227
Pasquini, G., 191
Passelecq, G., 144, 150
Passerin D’Entrèves, A., 195, 200
Passerin D’Entrèves, E., 195
Patroni Grifi, A., 191, 192
Pavan, I., 167, 169, 287, 300, 301
Pavelic, A., 141, 152
Pavese, C., 196, 203
Pavia, 200
Pavia**, 237, 238, 240
Pavone, C., 59
Peano, G., 200
Pella, G., 271
Pellegrino*, 239
Pelosi, D., 106
Pende, N., 26, 156, 157
Pennati**, 218, 219, 220, 221
Penso, G., 70
Perassi, T., 112
Peretti Griva, D.R., 53, 193, 214, 221, 238
Perez, R., 187
321
Pergola, U., 184
Pertici, R., 169
Pesenti, G., 188, 192
Pétain, H.P., 151, 152, 164
Peter, S., 160
Petragnani, G., 90
Petretti, A., 211
Petrocchi, C., 211
Petrosino, D., 68
Petruzzi*, 227, 230
Pettorelli Lalatta**, 218, 219, 220, 221
Phayer, M., 158
Piazza, G., 184
Picard, L., 147
Picciotto, L., 300
Pick, D., 17
Pierantoni, U., 89
Pincherle, B., 231
Pio IX, vd. Mastai Ferretti, G.M.
Pio XI, vd. Ratti, A.,
Pio XII, vd. Pacelli, E.
Pisa, 73, 112
Pisani Massamormile, M., 186
Pisanty, V., 168
Pitigrilli, vd. Segre, D.
Pizzardo, G., 146
Pizzorusso, A., 101, 285
Plum, G., 59
Poggi**, 230
Pola, 301
Polacco, V., 110
Poliakov, L., 206
Polli**, 107, 166
Polonia, 141, 142
Pompa, F., 201
Pontecorvo, V., 184
Porto, G., 184
Porto, P., 184
Porzio, G., 186
Preziosi, G., 41, 169
Prodi, R., 305
Proni, E., 183
Prussia, 18
Puccinelli**, 130, 132
Raggi, B., 149, 150, 154, 156, 157
Rameri, P., 277
Rameri, Pietro
Ramm, T., 70
Randegger, E., 187
322
Ranelletti, O., 21
Rappaport**, 229, 230
Rath, W., 65
Ratti, A. (Pio XI), 27, 44, 141-152
Ravà, A., 194, 195, 196, 200
Ravenna, G., 184
Redenti, E., 188
Reggio Emilia, 226
Regnoli*, 130
Rende, D., 173
Renz, W., 21
Repubblica Sociale Italiana, vd. Salò
Rescigni, Pietro
Rhodes, A., 142
Ricci, A.G., 309
Ricci, M., 26
Riccobono, S., 52
Rijeka, vd. Fiume
Rimini, C., 184
Rimini**, 228, 229
Rinaldelli, L., 200
Riosa, A., 182
Riunione Adriatica di Sicurtà (Ras), 310
Roberti, R., 192
Rocco, Alfredo, 28, 36, 37, 66, 69, 110
Rocco, Arturo, 192
Rocco, F., 191, 211, 212, 217, 222, 223
Rodi, 308
Rodotà, S., 184
Rohersfen, G., 211
Röhr, W., 60
Roma, 21, 25, 28, 33, 34, 48, 50, 51, 52,
53, 89, 90, 99, 100, 110, 111, 112, 117,
124, 151, 166, 168, 170, 184, 185, 227,
230, 238, 286, 302, 305, 307
Romagnani, G.P., 106
Romania, 145
Romano Di Falco, E., 69
Romano, P.A., 170, 171, 174
Romano, Santi, 35, 113
Romano, Sergio, 213
Romano, Silvio, 199
Rondinone, N., 113, 114, 115, 116, 117, 118
Rossi, E., 63, 213
Rossi, L., 110
Rosso, G., 131, 132, 133, 134, 168
Rota, G., 194
Rothenberger, K., 214, 216
Rotondi, M., 166, 167
Indice analitico
Rottleuthner, H., 19
Rovighi, A.A.**, 227
Rovigo, 33
Rückert, J., 52
Rufini, F., 34, 35, 37
Ruggiero, V., 277
Ruini, M., 211
Ruiz Zafon, C., 61
Rusconi, G.E., 56, 57
S. Arcangelo di Basilicata, 186
Sacerdote, E., 189
Sacerdoti, A., 34
Sacerdoti, G., 184
Sale, G., 155, 156
Salivello, F., 278
Salò, 7, 45, 93, 94, 95, 96, 97, 104, 116,
208, 210, 233, 255, 268, 269, 273,
274, 276, 277, 281, 301, 302, 303, 304,
308, 309
Saltelli, C., 69
Salustri, S., 182, 184, 185
Salvadori, M.L., 59
Salvemini, G., 63, 183
Salvi, G., 90
San Paolo, 184
San Sabba, 304
Sandulli, A., 187, 191
Sansanelli, N., 186
Santa Sede, 31, 32, 117, 141-158
Santarelli, U., 165
Santoro Passarelli, F., 121
Sarfatti, M., 23, 25, 27, 31, 32, 41, 79, 81,
86, 87, 88, 124, 181, 287, 300, 301, 302,
303, 304, 305, 306, 307
Sassari, 185
Savigny, F.K., 50
Savini Nicci, O., 211
Savoia, dinastia, 28
Savorgnan, F., 90
Sbriccoli, M., 161
Scarcella, A., 205
Scarpello, G., 109
Scelba, M., 271
Scheffer, Th., 65
Schiavone, A., 65
Schieder, W., 57
Schiera, P., 160
Schlitzer*, 239
Schmiechen-Ackermann, D., 58
Indice analitico
Schmitt, C., 14, 16, 21, 64, 67
Schorn, H., 215
Schulze, H., 19
Schwarz, G., 287
Schwarzenberg, C., 213
Schwelling, O.P., 215
Scialoja, A., 163
Scialoja, C., 187
Scialoja, V., 110, 111, 113
Segré, C., 200
Segre, D., 199
Segrè, G., 110
Segre, U., 231
Seneca**, 137
Senigallia, L., 187
Serédi, J., 144, 153
Serena, A., 26
Sergi, G., 202
Sergi, S., 90
Sermonti, A., 66
Serri, M., 213
Sertoli Salis, R., 171
Sicilia, 80
Siebert, R., 68
Siena, 227
Simon, D., 51
Simonetti*, 237, 256
Simoni, S., 96
Sinclair, U., 17
Singh Ghaleigh, N., 215
Sinigaglia**, 227, 228
Sinigallia, R., 231
Sion, 29
Siragusa*, 217
Slovacchia, 141, 151, 154
Slovenia, 88
Smargiassi, M., 291
Smend, R., 14
Solari, G., 195, 196, 197, 200, 201
Solmi, A., 44, 109, 112- 120
Somalia, 47, 125, 306
Somma, A., 50, 53, 55, 57, 59, 63, 217
Sonnino, A., 184
Sonnino**, 227
Sorrentino, A., 211
Spagna, 39, 235
Spalato, 308
Spano**, 130
Spataro, G., 278
323
Speciale, G., 11, 30, 44, 45, 53, 63, 103,
107, 165, 191, 210, 221, 230, 232, 238,
251, 289
Spinosa, A., 190
Spirito, U., 21
Sraffa, A., 161, 162
Sraffa, P., 36
Starace, A., 26, 27
Stati Uniti, 37, 144
Stella Richter, M., 109
Stepinac, A.V., 152, 153
Sternberg Montaldi, U., 185
Steward Chamberlain, H., 19
Stoler, A.L., 139
Stolleis, M., 15,19, 51, 55, 64, 160, 215
Stumpo, G., 112
Stürmer, M., 56
Suchecky, B., 144, 150
Sudre, F., 59
Susmel, D., 23
Susmel, E., 23
Svizzera, 238, 258, 259, 261, 262, 263,
264, 306
Tabet, A., 103
Tacchi Venturi, P., 149, 155, 156, 157
Tacchi, F., 178, 182, 183, 184, 185
Tagliacozzo, P.S., 184
Tamaro, R., 192
Taradel, R., 149, 150, 154, 156, 157
Tarli Barbieri, G., 101
Tasso, T., 231
Taurasi, G., 193
Tavernier, P., 59
Tavilla, E., 182
Tecchio, V., 188, 189
Tedeschi, A., 184
Tedeschi, D., 305
Tedeschi, G., 184
Teleki, P., 153
Terra Abrami*, 229
Terracini, U., 234, 267-271, 281, 287, 289
Terzulli, F., 88
Tesoro, G., 184
Teti, R., 113, 114, 117
Theresienstadt, 13
Thierack, O.G., 15
Thovazzi**, 226
Tiso, J., 154
Torchia, L., 187
324
Torino, 34, 80, 165, 166, 180, 181, 189,
191, 193-204, 238
Tosatti, G., 178
Toscana, 291
Toscano, M., 98, 100, 103, 268, 287, 304,
305, 309
Tranchino*, 244
Tranfaglia, N., 58, 59, 65, 161
Traverso, E., 56
Treggiari, F., 105, 171, 210
Trento, 50, 301, 307
Treves, P., 195
Treves, R., 195
Trieste, 33, 49, 124, 185, 188, 190, 300,
301, 303, 304, 308
Turati, A., 66
Turi, G., 160
Udine, 301
Ungari, P., 71
Ungaro, F., 173
Ungheria, 11, 141, 143, 144, 145, 151,
153, 154
Unione delle comunità ebraiche italiane,
vd. Comunità ebraiche in Italia
Unione delle comunità israelitiche italiane,
vd. Comunità ebraiche in Italia
Unione Sovietica, 151
Urbino, 182
Urbisaglia, 231, 254, 257, 261, 262
Uzielli**, 227
Valagussa, F., 90
Valeri, G., 162
Valeri, V., 188, 189
Valiani, L., 61
Vallardi, casa editrice, 161
Vano, C., 160
Varsori, A., 101
Vassalli, F., 110, 112, 192
Vecchini, Aldo, 183, 184, 186, 187, 188, 189
Vecchini, Arturo, 186
Venditti, M., 192
Veneto, 290
Venezia, 280
Venzi, G., 110, 112
Verona, 93, 186
Versailles, 20, 81
Vetrano*, 191, 211
Indice analitico
Vichy, 19, 141, 151, 152, 160, 164
Vienna, 109
Viganò, M., 305
Viganò**, 238
Vighi, R., 182
Villari, S., 65
Viola, L., 286
Visco, S., 26, 90
Viterbo, C.A., 231
Viterbo, D., 190
Vitta, C., 180
Vittorio Emanuele III, 44, 148
Vivante, C., 161, 162, 184
Vivanti, C., 28, 159
Voigt, K., 300
Vollrath, E., 18
Volpicelli, A., 21
Von Weinberg, A., 13
Wagner, P., 15
Wannsee, 11
Wehler, H.U., 55, 57, 59
Weimar, 14
Weinkauff, H., 215
Weisberg, R.H., 151
Weizmann, Ch., 81
White, J.R., 13
Wieacker, F., 51, 52
Wieviorka, M., 60
Wildt, M., 12, 18
Willing, M., 15
Wilson, P., 139
Winstel, T., 273
Wippermann, W., 56, 60, 61
World Jewish Congress, 304
Yad Vashem, 304
Zevi, A., 184
Zevi, G, 184
Zevi, T., 305
Zimmermann, M., 215
Zona di Operazione del Litorale Adriatico,
Operationszone Adriatisches Küstenland, 301 e ss., 309 e ss.
Zona di Operazione delle Prealpi, Operationszone Alpenvorland, 301 e ss.,
309 e ss.
Zunino, P.G., 68
Zuppa*, 249
Collana Quaderni di Historia et Ius
Diretta da Marco Cavina
1. Ciancio C., Mercanti in toga. I tribunali di Commercio nel Regno d’Italia
(1861-1888), 2012, pagg. 224
2. Di Stefano A.M., da Salò alla Repubblica. I giudici e la transizione dallo
stato d’eccezione al nuovo ordine (d.lgs.lgt. 249/1944), 2013, pagg. 238
3. Speciale G., Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano. Razza diritto
esperienze, 2013, pagg. 324