Epigramma longum
Da Marziale alla tarda antichità
From Martial to Late Antiquity
Atti del Convegno internazionale
Cassino, 29-31 maggio 2006
A CURA DI
ALFREDO MARIO MORELLI
TOMO I
EDIZIONI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO
2008
Copyright © 2008 – Università degli Studi di Cassino
Via G. Marconi 10 – Cassino
ISBN 978-88-8317-045-4
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EDIZIONI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CASSINO
COLLANA SCIENTIFICA
21
STUDI ARCHEOLOGICI, ARTISTICI, FILOLOGICI,
FILOSOFICI, LETTERARI E STORICI
Comitato scientifico:
Ferruccio Bertini
Francis Cairns
Mario Citroni
Paolo De Paolis
Marco Fantuzzi
Leopoldo Gamberale
Giancarlo Mazzoli
Alfredo M. Morelli
Oronzo Pecere
† Roberto Pretagostini
Antonio Stramaglia
Alla cara memoria di
Roberto Pretagostini
SILVIA MATTIACCI
Gli epigrammi lunghi attribuiti a Seneca,
ovvero gli incerti confini tra epigramma ed elegia
Il corpus degli epigrammi attribuiti a Seneca costituisce un nucleo
importante dell’Anthologia Latina, trasmessoci quasi interamente
dal codice Voss. Lat. Q. 86 del sec. IX (= V), cui si aggiungono
pochi componimenti conservati in altri codici1 . L’attribuzione al
filosofo Seneca, dovuta a filologi moderni a partire dall’età umanistica e fondata su ragioni contenutistiche e stilistiche, trae origine
dal fatto che la silloge del Vossianus, pur essendo tramandata anonima, si apre con dei versi sull’esilio in Corsica che in altri manoscritti, tra cui il celebre Salmasianus (VIII-IX sec. = A) e il
Thuaneus (IX sec. = B), sono assegnati a Seneca2 .
1
Gli epigrammi sono citati secondo la numerazione delle seguenti edizioni: C. PRATO, Gli
epigrammi attribuiti a L. Anneo Seneca. Introduzione, testo critico, traduzione, commento, indice
delle parole, Roma 19642 (= P.); A. RIESE, Anthologia Latina, I 1-2, Lipsiae 1894-19062 (= R.2);
D.R. SHACKLETON BAILEY, Anthologia Latina, I 1, Stutgardiae 1982 (= Sh.B.). Tra le edizioni
più recenti cfr. anche: Lucio Anneo Seneca, Epigrammi, introduzione e traduzione di L.
CANALI, note di L. GALASSO, Milano 1994; Anthologia Vossiana, recognovit L. ZURLI,
traduzione di N. SCIVOLETTO, Roma 2001.
2
Si tratta di otto distici che i codd. ABV tramandano uniti e che sono stati divisi in
due epigrammi di quattro distici ciascuno dagli editori moderni: 2-3 P. = 236-237 R. 2 =
228-229 Sh.B. In AB (come pure in W = Vindobonensis 9401, copiato di mano del
Sannazaro e utilizzato per la prima volta, come testimone della tradizione dell’Anthologia
Latina, da Shackleton Bailey) precede l’inscriptio Senecae, mentre in V si ha il titolo De
Corsica senza indicazione dell’autore. ABW ci tramandano anche, con l’inscriptio Senecae
de qualitate temporis, 1 P. = 232 R. 2 = 224 Sh.B. che non compare in V. Nelle edizioni
dell’Anthologia Latina gli epigrammi 2-3 P. sono separati dagli altri, ugualmente tramandati dal Vossianus (6-70 P. = 396-463 R. 2 = 392-461 Sh.B.), perché presenti nel
Salmasianus che costituisce la prima raccolta dell’AL. L’attribuzione a Seneca si è svolta
per tappe, a partire dagli Umanisti (XVI-XVII sec.) quando furono per la prima volta
SILVIA MATTIACCI
Il problema della paternità della raccolta, sia nel suo complesso sia per gruppi o singoli epigrammi, rimane tuttora aperto. Un
esempio evidente è la divergente posizione che si riscontra in due
recenti edizioni commentate del componimento più lungo della
silloge, il De spe (24 P. = 415 R. 2 = 413 Sh.B.): pubblicato nel
1988 come opera di Seneca da Domenico Romano, convinto assertore della paternità senecana della produzione epigrammatica3 ,
è stato ripubblicato come pseudo-senecano nel 1998 da Michael
S. Armstrong, che si dichiara altrettanto scettico sull’attribuzione
del resto della raccolta 4 . In questa sede non ci occuperemo specificatamente di tale questione, tuttavia dobbiamo osservare che la critica
attribuzionistica, a lungo esercitatasi pressoché esclusivamente e talvolta vanamente sulla raccolta, ha ceduto in tempi più recenti alla più
proficua esigenza di definire il valore letterario e l’ambiente al quale
essa risale. Da questo punto di vista si segnalano, oltre alle due menzionate edizioni del De spe, gli importanti contributi di Vincenzo
attribuiti al filosofo 9 epigrammi (1; 2; 3; 6; 14; 18; 19; 21; 49 P. = 232; 236; 237;
396; 405; 409; 410; 412; 441 R. 2), fino alla seconda metà del XIX sec. quando si arrivò ad assegnare a Seneca l’intero corpus, soprattutto per opera di E. BAEHRENS, Zur lateinischen Anthologie, IV, Studien zum Vossianus L. Q. 86, «RhM», 31 (1876), 254-262; ID.
(ed.), Poetae Latini Minores, IV, Lipsiae 1882; O. ROSSBACH, Disquisitionum de Senecae
filii scriptis criticarum capita II, Vratislaviae 1882; AE. HERFURTH, De Senecae epigrammatis quae feruntur. Pars prior, Vimariae 1910. Per la storia della questione cfr. M.S.
A RMSTRONG (ed.), «Hope the Deceiver»: Pseudo-Seneca De Spe (Anth. Lat. 415 Riese),
Hildesheim-Zürich-New York 1998, 10-30 con bibliografia precedente. Sulla tradizione manoscritta degli epigrammi cfr. per ultimi ARMSTRONG, ibid., 6-10; L. ZURLI, Gli
epigrammi attribuiti a Seneca, I, La tradizione manoscritta, «GIF», 52 (2000), 185-221;
ID., Anthologia (cit. n.1), VII-XXXV.
3
D. R OMANO (ed.), Seneca, La speranza (De Spe), Palermo 1988 (in partic., per il
problema della paternità senecana, App. I, 59-63); cfr. anche ID., L’«Epitaphium Senecae» (Anth. Lat. 667 R.) e l’ultimo Seneca, «Orpheus», n.s., 4 (1983), 384-390; ID., Tardius ista doles. Seneca e Corduba, «Pan», 8 (1987), 75-81; e infra, n. 7. Per quanto
riguarda il De spe, egli lo mette in stretto rapporto col tormentato periodo dell’esilio in
Corsica (41-49), sottolineandone le numerose corrispondenze con la produzione prosastica e drammaturgica del filosofo: un metodo indubbiamente suggestivo, che restituisce al carme – talora liquidato come un «centone» (PRATO, Gli epigrammi [cit. n. 1],
156) – senso unitario e Stimmung, ma che d’altra parte non si sottrae al dubbio che
quelle corrispondenze possano scaturire «da una zelante imitatio Senecae fiorita, più
probabilmente, nella stessa ‘bottega’ degli Annei» (G. MAZZOLI, Seneca e «La Speranza»,
«QCTC», 9 [1991], 113-115: 114).
4
ARMSTRONG (ed.), Hope (cit. n. 2), su cui vd. infra, n. 7.
132
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
Tandoi degli anni ’60 e di Rita Degl’Innocenti Pierini degli anni ’80 e
’90, che affrontano il problema non in blocco, bensì esaminando
separatamente gruppi di epigrammi con tematiche analoghe e mostrandone i profondi legami concettuali ed espressivi con l’ambiente
degli Annei, quindi rivendicandone la validità letteraria e opponendosi all’idea che questa poesia debba esser liquidata tout court come poesia di scuola, di epoca tarda5 . In tal modo si sono evidenziati singoli
componimenti che potrebbero essere assegnati a Seneca o a un imitatore a lui vicino nel tempo, una sorta di ‘falsario perfetto’6 dai lineamenti difficilmente distinguibili da quelli di un autore per cui è
comunque testimoniata un’attività poetica minore7 . Questo presup5
I contributi di Tandoi – comparsi in «ASNP», 31 (1962), 105-126; «SIFC», n.s.,
34 (1962), 83-129 e 137-168; ibid., 35 (1963), 69-106 e 243-249; ibid., 36 (1964),
169-189 – sono raccolti nel seguente volume da cui citeremo: V. TANDOI, Scritti di
filologia e di storia della cultura classica, I-II, Pisa 1992; importante è anche la recensione
all’edizione di Prato in «A&R», n.s., 10 (1965), 29-39, che non compare nel sopra citato volume. Per i contributi della studiosa si veda: R. DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra Ovidio
e Seneca, Bologna 1990, in partic. 135-143 e 161-166 (dove sono ripresi con molti ampliamenti e aggiornamenti due studi pubblicati in «SIFC», n.s., 53 [1981], 225-232 e in
«Prometheus», 13 [1987], 23-27); EAD., Tra filosofia e poesia. Studi su Seneca e dintorni,
Bologna 1999, 81-176 (già in «Prometheus», 18 [1992], 150-172; ibid., 21 [1995],
161-186 e 193-227); EAD., «La cenere dei vivi». Topoi epigrafici e motivi sepolcrali applicati all’esule (da Ovidio agli epigrammi ‘senecani’), «InvLuc», 21 (1999), 133-147.
6
Cfr. S. TIMPANARO, Nuovi contributi di filologia e storia della lingua latina, Bologna
1994, 461 n. 3.
7
Le testimonianze di un Seneca epigrammista o elegiaco (cfr. in partic. Plin. epist.
5,3,5; Prisc. II 333,14-16 Hertz; cfr. anche Quint. inst. 10,1,129; Tac. ann. 14,52,3)
sono discusse da DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 110-117; a questa
attività alluderebbe lo stesso Seneca con leviora studia, cui dall’esilio confessa alla madre
di indulgere (Helv. 20,1). A RMSTRONG (ed.), Hope (cit. n. 2), 10-30, ripercorrendo
dall’età umanistica fino alla fine del XX sec. la questione dell’attribuzione, afferma che
nella critica italiana, cui si deve il maggior numero di contributi sulla silloge negli ultimi
decenni, prevale un atteggiamento di prudente scetticismo. Tuttavia della bibliografia
italiana Armstrong mostra una conoscenza parziale: egli cita (cfr. 28-30) le edizioni di
PRATO (cit. n. 1), di M.G. BAJONI (Milano 1987), di CANALI – GALASSO (cit. n. 1), gli
articoli di GAGLIARDI (cit. n. 67) e DEGL’INNOCENTI PIERINI (cit. n. 5), rispettivamente
del 1984 e del 1987, mentre ha notizia solo indiretta (cfr. 26 n. 120) dei numerosi e
fondamentali studi di TANDOI (citt. n. 5); di R OMANO non conosce né gli articoli (citt.
n. 3), né l’edizione del De spe (certo non facile da reperire), uscita dieci anni prima della
sua. Come si è accennato (vd. supra nel testo e n. 3), Romano reagisce allo scetticismo
prevalente e, sulla base di riscontri tematici e formali con la produzione filosofica e tragica del Cordovese, ribadisce la paternità senecana della produzione epigrammatica,
inserendola nell’iter biografico e spirituale dello scrittore latino. Uno scetticismo totale
mostra invece Armstrong, che conclude la sua rassegna sull’attribuzione con queste
133
SILVIA MATTIACCI
pone ovviamente l’eterogeneità della raccolta, che si sarebbe agglutinata nel corso del tempo, secondo vicende quanto mai varie8 .
Diversa è invece l’ipotesi formulata in un recente studio da
Niklas Holzberg, che ha sottolineato l’unità tematica degli epigrammi, tali da poter «essere paragonati nella loro totalità a un
liber carminum romano»9 . La silloge presente nel Vossianus sarebbe
per lui una copia – o più probabilmente un estratto in cui è stata
preservata la successione originaria dei carmi – di un liber epigrammatum di un unico autore; questi, tuttavia, non può essere
identificato con il Seneca dell’epoca dell’esilio, sia perché dimostra
di conoscere l’intera opera del filosofo, da cui attinge materiale di
recupero per far apparire ‘autentici’ i suoi testi, sia perché presuppone Marziale. L’anonimo autore non sarebbe vissuto, dunque,
anteriormente al primo terzo del II secolo d.C.: egli si presenterebbe in veste di Seneca exul 10 , a sua volta reincarnazione
dell’Ovidius exul – Ovidius exul in Corsica, come suona appunto il
titolo del suo contributo – in una sorta di doppio gioco di mascheparole: «Senecan authorship… is still a possible hypothesis, but it is no more… The poems
are anonymous in the MSS, and anonymous they still are in fact» (30). Sulla rilevanza, non
sempre stringente, delle argomentazioni addotte da Armstrong per negare a Seneca
l’attribuzione del De spe, cfr. la recensione di F. CITTI in «Gnomon», 74 (2002), 136-142:
137-138. L’ultimo assertore della paternità senecana della raccolta è P. LAURENS, su cui vd.
infra, n. 16; mentre in linea con il prevalente scetticismo si mostra A.A. BARRETT, The Laus
Caesaris: its History and its Place in Latin Literature, «Latomus», 59 (2000), 596-606, riferendosi
in partic. al ciclo 28-34 P. (= 419-426 R.2 = 417-424 Sh.B.) che celebra la vittoria di Claudio
sui Britanni (43-44 d.C.), considerato comunque contemporaneo degli eventi narrati.
8
Cfr. H. BARDON, Les épigrammes de l’Anthologie attribuées à Sénèque le philosophe,
«REL», 17 (1939), 66-70; DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 105-106.
9
N. H OLZBERG, Ovidius exul in Corsica. Il liber epigrammaton dello Pseudo-Seneca,
in R. GAZICH [cur.], Fecunda licentia. Tradizione e innovazione in Ovidio elegiaco,
Milano 2003, 151-172: 153-154; ma cfr. anche ID., Martial und das antike Epigramm, Darmstadt 2002, 55-58. L’articolo del 2003, da cui citeremo, è stato ripubblicato in inglese: Impersonating the Banished Philosopher: Pseudo-Seneca’s Liber
Epigrammaton, «HSPh», 102 (2004), 423-444.
10
Analoga soluzione viene prospettata da H OLZBERG, Martial (cit. n. 9), 53-55 per
il Catalepton pseudo-virgiliano (su cui cfr. in partic. ID., Impersonating Young Vergil: The
Author of the Catalepton and his libellus, «MD», 52 [2004], 29-40) e per il l. III del corpus
Tibulliano (cfr. anche ID., Ovidius exul [cit. n. 9], 162): tali raccolte costituirebbero
capitoli della vita dell’Io-parlante (un Virgilio giovane neoterizzante e un Tibullo che si
trasforma da panegirista in poeta erotico), influenzate entrambe da Marziale.
134
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
re offerto al riconoscimento dei lettori. Inoltre nella seconda parte
del liber – accanto alla tematica filosofica, dell’esilio e panegiristica –
la persona del poeta epigrammatico, che vuole essere identificato
come Seneca, avrebbe recuperato dal primo Ovidio il tema erotico
e da Marziale quello scoptico-osceno, divertendosi ad attribuirli al
severo filosofo morale11 . Vista la fitta rete di rimandi intertestuali a
Ovidio (soprattutto dell’esilio) sia nei nostri epigrammi sia in
quelli di Marziale12 , proprio da quest’ultimo lo pseudepigrafo potrebbe aver tratto – secondo Holzberg – l’idea di comporre poesia
dell’esilio in forma di epigramma, rifacendosi per la struttura
dell’intera raccolta al modello di liber marzialiano con epigrammi
di argomento vario ordinati sistematicamente e collegati tra loro
attraverso riferimenti tematici13 . Ovviamente il problema del rapporto con Marziale è fondamentale per la nostra silloge e meriterebbe uno studio approfondito e sistematico14 ; ma in ogni caso è
sicuramente un problema di difficile soluzione, perché – come ri11
Come fa la persona di Ovidio nei nove libri dei Tristia e delle Epistulae ex Ponto,
anche nel nostro caso la persona del poeta epigrammatico in veste di Seneca riprodurrebbe un’evoluzione cronologica: la vita di Seneca durante l’esilio e poi dopo il ritorno a
Roma, quando è possibile riprendere la vita normale, filosofeggiare e godere dell’amore
(cfr. HOLZBERG, Martial [cit. n. 9], 57; ID., Ovidius exul [cit. n. 9], 157-158 e 169).
12
Sulle riprese di Ovidio in Marziale cfr. A. ZINGERLE, Martials Ovid-Studien, Innsbruck
1877; E. SIEDSCHLAG, Ovidisches bei Martial, «RFIC», 100 (1972), 156-161; J.P. SULLIVAN, Martial: the unexpected classic. A literary and historical study, Cambridge 1991, 105107; R.A. PITCHER, Martial’s Debt to Ovid, in F. GREWING [hrsg. von], Toto notus in orbe.
Perspektiven der Martial-Interpretation, Stuttgart 1998, 59-76; H. SZELEST, Ovid und Martial, in W. SCHUBERT [hrsg. von], Ovid: Werk und Wirkung. Festgabe für Michael von Albrecht
zum 65. Geburtstag, Frankfurt a. M.-Berlin et al. 1999, 861-864; C. WILLIAMS, Ovid, Martial, and Poetic Immortality: Traces of Amores 1.15 in the Epigrams, «Arethusa», 35
(2002), 417-433; N. H OLZBERG, Martial, the book, and Ovid, «Hermathena», 177-178
(2004-2005), 209-224; S. HINDS, Ovid’s Martial and Martial’s Ovid (di prossima pubblicazione). In partic. sull’influsso dell’Ars amatoria cfr. S. HINDS, Allusion and intertext.
Dynamics of appropriation in Roman poetry, Cambridge 1998, 129-135 e S. CASALI, Il
popolo dotto, il popolo corrotto. Ricezioni dell’Ars (Marziale, Giovenale, la seconda Sulpicia),
in L. LANDOLFI – P. M ONELLA [curr.], Arte perennat amor. Riflessioni sull’intertestualità
ovidiana. L’Ars Amatoria, Bologna 2005, 13-55: 19-36.
13
HOLZBERG, Ovidius exul (cit. n. 9), 163-164.
14
Esigenza già rilevata da DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 110, che
cerca con alcuni esempi di puntualizzare tale rapporto, optando – seppur con prudenza –
per la priorità del ciclo ‘senecano’ (cfr. 137, 159-166, 173-176).
135
SILVIA MATTIACCI
conosce lo stesso studioso tedesco – «non si può dimostrare in
modo cogente ... che sia Marziale a dare e lo Pseudo-Seneca a ricevere» 15 . Per fare un solo esempio, si potrà qui ricordare che, partendo da un’eclatante coincidenza testuale, come quella tra 37,2
P. (= 429,2 R. 2 = 427,2 Sh.B. ludere, Musa, iuvat: Musa severa, vale!) e Mart. 8,3,2 (quid adhuc ludere, Musa, iuvat?), Holzberg e
Degl’Innocenti Pierini approdano, sulla base di diverse argomentazioni, a posizioni divergenti quanto alla priorità16 . Né si può negare il diverso assetto metrico della silloge del Vossiano, costituita
quasi esclusivamente di componimenti in distici elegiaci (solo tre
componimenti sono in faleci), rispetto ai libri marzialiani dove la
presenza di questo metro è sicuramente predominante (73,1%),
ma si ha anche una consistente presenza di epigrammi in endecasillabi faleci (19,4%) e in coliambi (6,4%)17 .
Il problema del rapporto con Marziale risulta importante anche
per la questione che più da vicino ci interessa, ovvero la presenza
nella silloge di epigrammi lunghi: si tratta di deroghe alla norma della brevità, propria del genere, sulla scorta di Marziale che compose
molti epigrammi lunghi18 , oppure detta presenza rientra in quel solet
cui si appella il poeta di Bilbilis per difendere la sua scelta di fronte
15
HOLZBERG, Ovidius exul (cit. n. 9), 164.
DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 173-174; H OLZBERG, Ovidius
exul (cit. n. 9), 164-165. Dando per scontata la paternità senecana dell’intero corpus, P.
LAURENS, L’abeille dans l’ambre. Célébration de l’épigramme de l’époque alexandrine à la fin
de la Renaissance, Paris 1989, 326, interpreta affinità stilistiche e tematiche con Marziale come prova dell’influsso di Seneca sull’epigrammista («C’est selon nous l’exemple de
Sénèque qui risque d’avoir le plus influencé Martial»); sull’autenticità della silloge lo
studioso è tornato più diffusamente di recente nell’articolo Martial et Sénèque: affinités
entre deux Latins d’Espagne, «RELat», 1 (2001), 77-92, in partic. 87-92.
17
Per i dati cfr. J. LUQUE MORENO, Los versos del epigrama de Marcial, «Myrtia», 10
(1995), 35-65 (e successivamente Epigrammata longa. La brevidad como norma, in
Hominem pagina nostra sapit. Marcial, 1900 años después, Zaragoza 2004, 75-114); J.
SCHERF, Untersuchungen zur Buchgestaltung Martials, München-Leipzig 2001, 120; M.
CITRONI, Martial, Pline le jeune, et l’identité de genre de l’épigramme latine, «Dictynna», 1
(2004), 125-153: 141-143.
18
Cfr. SCHERF, Untersuchungen (cit. n. 17), 109, dalle cui tavole si ricava agevolmente che 36 epigrammi superano i 20 versi, 14 i 25 versi e 6 i 30 versi; gli epigrammi
più lunghi sono 3,58 (51 coliambi) e 1,49 (42 versi giambici: trim. ia. + dim. ia.). Vd.
anche infra e nn. 24 e 26.
16
136
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
alle critiche di un interlocutore (6,65,3 «Sed tamen hoc – scil. epigramma – longum est.» Solet hoc quoque, Tucca, licetque: / si breviora
probas, disticha sola legas)? Ai fini della nostra indagine, dunque, interesserebbe stabilire non tanto la paternità senecana degli epigrammi,
quanto la loro datazione, se essi siano – come prodotto dell’età degli Annei e dintorni – una premessa, oppure – in qualità di prodotto
più tardo – una conseguenza della liceità, decisamente e programmaticamente rivendicata da Marziale, di scrivere epigrammi che ne
eccedano la consueta estensione.
Ma quanti e quali sono gli epigrammi lunghi attribuiti a Seneca? Qui ci imbattiamo subito in un altro problema. Nell’edizione
di Prato la silloge consta di 72 epigrammi; tuttavia, in molti casi
ci sono gravi problemi di divisione dei componimenti, in quanto
– come possiamo ‘visivamente’ constatare nella recente edizione di
Loriano Zurli dell’Anthologia Vossiana, dove viene adottata una numerazione che rende conto sia della tradizione manoscritta sia della
suddivisione dovuta a intervento editoriale19 – interi gruppi di versi
sono tràditi nel Vossianus unitariamente e ciò complica ovviamente
la questione dell’estensione dei singoli componimenti. Come nota
Tandoi, «quello del ricongiungimento, o della separazione, di gruppi
di versi allo scopo di costituire nell’originaria unità i singoli carmi è
in effetti uno dei problemi più delicati che impegnino l’editore moderno di questa produzione elegiaco-epigrammatica»20 ; su di essa,
infatti, si è esercitata nei secoli passati una sorta di libido seiungendi
– sollecitata anche dalla norma del genere e dallo stile predominante dei carmi, improntato a brevitas concettosa – che ha portato
19
ZURLI (ed.), Anthologia (cit. n. 1), assegna lo stesso numero ai versi tràditi unitariamente dal codice, distinguendo con lettere la suddivisione dovuta all’editore. Si
noterà che sono tramandati unitariamente i versi relativi allo stesso argomento: 7, 7a,
7b = 7, 8, 9 P. su Catone; 8, 8a, 8b = 10, 11, 12, 13 P. su Pompeo; 11, 11a = 16, 17
P. de vita humiliori (non si accoglie l’ipotesi dell’unitarietà sostenuta da Tandoi, su
cui cfr. infra); 20, 20a = 26, 27 P. sull’immortalità della poesia; 21, 21a, 21b, 21c,
21d, 21e, 21f = 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34 P. su Claudio (in 21a, sulla scorta di Prato, si trovano uniti 420-421 R. 2 = 418-419 Sh.B., mentre non si accoglie la proposta
di Tandoi di unire 21-21a); 46, 46a, 46b = 61, 62, 63 P. su Pompeo; 52, 52a = 69,
70 P. sulla guerra civile.
20
Cfr. TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 31.
137
SILVIA MATTIACCI
a suddividere, sempre contro l’autorità di V, anche carmi certamente unitari. Ne consegue che il numero dei componimenti della
silloge è fluttuante: l’edizione di Prato ne conta 72, corrispondenti
a 77 epigrammi di Riese, ulteriormente ridotti a 70 da Zurli21 .
Partendo dall’edizione di Prato – e senza comunque dimenticare quanto osservava Tandoi nel recensirla, che cioè essa presenta
«una acquiescenza press’a poco completa al vecchio razionalismo
notomizzante del Riese e predecessori»22 – possiamo subito notare
che sono di gran lunga predominanti gli epigrammi di due (17), tre
(13) e quattro (14) distici, cui vanno aggiunti i carmi 67 e 53 P. in
faleci, rispettivamente di sette e nove versi; gli epigrammi di cinque
distici sono in totale sette, sei quelli costituiti di un solo distico:
dunque 59 componimenti su 72 non eccedono i dieci versi. Ancora
sette componimenti comprendono dai 12 ai 14 versi, uno è di 16
versi, due di 18 versi, uno di 20 versi, uno di 36 versi e infine il
lunghissimo De spe di 66 versi23 . Tutti i componimenti sono in
distici elegiaci, tranne tre in endecasillabi faleci (52, 53 e 67 P.),
rispettivamente di 14, 9 e 7 versi; quindi, sono in metro elegiaco
i 6 componimenti più lunghi, per cui si va dai 16 ai 66 versi: in
partic. 18 P. (16 vv.); 21 e 35 P. (18 vv.); 70 P. (20 vv.); 69 P.
(36 vv.); 24 P. (66 vv.). Se facciamo qualche calcolo statistico,
confrontandolo con Marziale e altre raccolte di epigrammi, notiamo quanto segue:
21
ZURLI (ed.), Anthologia (cit. n. 1) unisce 12-13 P. (= 403-404 R.2 = 399-400
Sh.B.) in 8b; 42-43 P. (= 434-435 R. 2 = 432-433 Sh.B.) in 29; 45-46 P. (= 437-438
R.2 = 435-436 Sh.B.) in 31; ma suddivide 21 P. (= 412 R. 2) in 15-15a (= 408-409
Sh.B.). Si ricordi inoltre che, pur lasciandone traccia nella numerazione (4 e 53 = 4 e 71
P. = 238-238a e 667 R. 2), Zurli espunge i due epigrammi corrispondenti, accolti da
editori precedenti nel corpus, per le ragioni esposte nella prefazione ( XIII sg. e XXV sg.).
22
TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 31.
23
In ordine crescente di versi abbiamo: 7, 12, 13, 23, 40, 44 P. (2 vv.); 6, 10, 22,
28, 30, 42, 43, 45-47, 50, 57, 60-63, 66 P. (4 vv.); 4, 8, 11, 27, 29, 31-33, 36, 49,
55, 58, 71 P. (6 vv.); 67 P. (7 vv.); 1-3, 5, 9, 15, 17, 20, 38, 41, 51, 54, 56, 64 P. (8
vv.); 53 P. (9 vv.); 19, 25, 26, 34, 39, 65, 68 P. (10 vv.); 14, 16, 48 P. (12 vv.); 37, 52,
59, 72 P. (14 vv.); 18 P. (16 vv.); 21, 35 P. (18 vv.); 70 P. (20 vv.); 69 P. (36 vv.); 24
P. (66 vv.).
138
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
a) Gli epigrammi di oltre 10 versi (13) sono il 18% dell’intera
raccolta, a fronte del 36,7% dei carmi brevi di Catullo, del
40% del Catalepton pseudo-virgiliano e del 20,4% dei libri IXII di Marziale; mentre nelle tre raccolte di epigrammi greci
di Gow – Page si ha solo l’1,5%.
b) Gli epigrammi di oltre 14 versi (6) costituiscono l’8,33%
del totale, a fronte del 24,8% dei carmi brevi di Catullo, del
20% del Catalepton e del 7,6% dei libri I-XII di Marziale;
nelle edizioni di Gow – Page abbiamo invece l’1% per gli
Hellenistic Epigrams, 0% per la Corona di Filippo e 0,3% per i
Further Greek Epigrams24 .
Naturalmente balza subito agli occhi da un lato la stretta vicinanza con le percentuali di Marziale, dall’altro la sostanziale differenza tra tradizione latina e tradizione greca. I critici con cui
polemizza spesso Marziale, e che richiedevano da lui epigrammata
breviora25 , dovevano dunque basarsi su una tipologia meno aperta,
più conforme a quella dell’epigramma greco; ma in ambito latino,
almeno a partire dalla prima età imperiale – escludendo cioè Catullo che presenta un’alta concentrazione di componimenti lunghi
solo nei polimetri (vd. n. 24) –, si stava evidentemente imponendo
una tipologia più libera, come testimonia lo stesso Marziale con il
citato solet di 6,65,3 e invocando espressamente a sua difesa, in
24
I dati sono ricavati da CITRONI, Martial, Pline (cit. n. 17), 149, il quale precisa
tuttavia (n. 26) che nei carmi brevi di Catullo le composizioni di più di 10 versi rappresentano la maggioranza (60%) tra i polimetri, mentre sono relativamente rare (8%) tra
gli ‘epigrammi’ in distici; nel Catalepton, invece, i carmi superiori a 10 versi sono in numero uguale tra i polimetri e i componimenti in distici. Per i dati relativi all’epigramma
greco cfr. A.S.F. G OW – D.L. PAGE (edd.), The Greek Anthology: The Garland of Philip
and Some Contemporary Epigrams, I, Cambridge 1968, XXXVII. Dei 112 epigrammi di
Posidippo recentemente scoperti, tutti in distici, solo 3 superano i 10 versi (2,6% del
totale), arrivando a una lunghezza massima di 14 versi: cfr. G. BASTIANINI – C. GALLAZZI
(edd.), Posidippo di Pella, Epigrammi, con la collab. di C. AUSTIN, Milano 2001, 18-19.
Sulle ‘misure’ dell’epigramma longum vd. in questo volume A.M. M ORELLI, Introduzione, 25-28; F. CAIRNS, The Hellenistic Epigramma Longum, 55-57; A. CANOBBIO, Epigrammata longa e breves libelli. Dinamiche dell’epigramma marzialiano, 169-173; A.
FUSI, Marziale 3,82 e la Cena Trimalchionis, 268 sg. n. 4; E. MERLI, Cenabis belle.
Rappresentazione e struttura negli epigrammi di invito a cena di Marziale, 299 sg.
25
Cfr. 3,83,1 Ut faciam breviora mones epigrammata, Corde.
139
SILVIA MATTIACCI
2,77,5-6, Domizio Marso e Albinovano Pedone quali autori di
numerosi epigrammi che occupavano due colonne di papiro (ovvero oltre 30/40 versi)26 .
Tuttavia il lunghissimo carme De spe (24 P. = 415 R.2 = 413
Sh.B.), con i suoi 66 versi, difficilmente può essere considerato un
‘epigramma lungo’, e chi – come Holzberg – considera la nostra
silloge un Liber epigrammatum di carattere unitario e opera di un
solo autore, dovrebbe porsi il problema della presenza in esso di
una composizione che esula sicuramente dai confini del genere.
Pur non affrontando in modo specifico il problema e adottando la
generica definizione di «carme», Romano sottolinea subito,
all’inizio della sua edizione, la singolarità del componimento, da
ritenersi «un unicum nell’ambito dei 72 epigrammi che costituiscono la silloge poetica senecana» 27 ; mentre Armstrong, che – come si è detto – ha recentemente ripubblicato il De spe come
pseudo-senecano, parla di «elegy... among the ‘epigrams’ attributed (dubiously) to the younger Seneca»28 . Analogamente Giovanni
Polara ne tratta all’interno di un discorso, in cui prende in esame
una serie di componimenti dell’Anthologia Latina appartenenti al
genere dell’elegia politica e morale29 . Il carme, infatti, consiste
nell’elaborato svolgimento di un tema proprio della sfera etica,
quello della speranza; e all’interno della tematica morale resta tut26
Disce quod ignoras: Marsi doctique Pedonis / saepe duplex unum pagina tractat opus.
Per la polemica di Marziale sulla brevitas, oltre ai citt. 2,77; 3,83 e 6,65, si veda anche
1,110 e 10,59; M. CITRONI, Motivi di polemica letteraria negli epigrammi di Marziale,
«DArch», 2 (1968), 259-301: 269-270; H. SZELEST, Ut faciam breviora mones epigrammata, Corde… Eine Martial-Studie, «Philologus», 124 (1980), 99-108. Sulla ‘durata’ dell’epigramma in Marziale in relazione ai vari temi e alla struttura compositiva, cfr.
R. CIOCCI, Le ‘durate’ dell’epigramma in Marziale e nella tradizione. Lettura di Mart. III
58, «AFLM», 18 (1985), 185-200; cfr. anche supra, nn. 18 e 24.
27
R OMANO (ed.), La speranza (cit. n. 3), 5.
28
ARMSTRONG (ed.), Hope (cit. n. 2), 5. Di ‘elegia’ parlano per lo più studiosi antichi e recenti (cfr. e.g. Burman e Birt citt. da A RMSTRONG, ibid.; TANDOI, Recensione [cit.
n. 5], 36); parlano invece di ‘epigramma’ CANALI, Epigrammi (cit. n. 1), 7 e A. RUTA,
Lucio Anneo Seneca, Epigrammi, Palermo 1996, 10.
29
G. POLARA, I distici elegiaci dell’Anthologia Latina, in G. CATANZARO –
F. SANTUCCI [curr.], Tredici secoli di elegia latina. Atti del convegno internazionale (Assisi,
22-24 aprile 1988), Assisi 1989, 145-182: 165-167.
140
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
ta la trattazione dell’anonimo autore30 che raccoglie una serie di
valutazioni generiche e non troppo coerenti, con esempi tratti dalla vita quotidiana, dalla storia e dal mito, sulle possibilità di conservare la speranza, anche nelle situazioni più disperate.
Sicuramente elegiaci sono i modelli poetici del componimento,
che appare come un’amplificazione di un breve excursus tibulliano
sulla speranza (2,6,19-28) e di uno più lungo ovidiano sullo stesso
tema nelle Epistulae ex Ponto (1,6,29-46)31 ; e all’interno del genere
elegiaco, ampliando i modelli antichi con contenuti nuovi, rimane
30
Considerazioni di tipo storico-politico si trovano invece in AL 649 R.2, dove pure
ha parte il tema della Fortuna (cfr. POLARA, I distici [cit. n. 29], 165-166).
31
Le coincidenze formali e tematiche sono tali che non si può parlare di semplice
casualità: cfr. Tib. 2,6,21-22 = De spe 51; Tib. 2,6,23-24 = De spe 53-54; Tib. 2,6,2526 = De spe 21-22; Ov. Pont. 1,6,31-32 = De spe 21-22; Ov. Pont. 1,6,33-34 = De spe
19-20; Ov. Pont. 1,6,35-36 = De spe 59; Ov. Pont. 1,6,37-38 = De spe 31-32 + 23-24;
Ov. Pont. 1,6,39-40 (ma anche 41-42) = De spe 6; come in Ovidio (vv. 43-44), alla fine
del nostro componimento (vv. 63-66) la Speranza parla in prima persona. Nel De spe
viene offerta della speranza una valutazione ambigua fin dal primo verso, dove l’epiteto
fallax, che rinvia al topos della speranza ingannatrice, è seguito dall’ossimoro dulce malum
e l’ulteriore connotazione negativa spes summa malorum è accompagnata dalla definizione di segno opposto solamen miseris; ma tutto il testo presenta contraddizioni che forse
vogliono sottolineare l’incoerenza della Speranza stessa, la sua duplice funzione, che è
positiva e negativa insieme (cfr. anche vv. 8-10 mentitur… / improba, mentis inops,
rebus gratissima laesis, / quas fovet et verti fata subinde docet). Secondo R OMANO (ed.), La
speranza (cit. n. 3), 12, che collega la composizione del carme – come si è detto (vd. n.
3) – col tormentato periodo dell’esilio in Corsica, tutto ciò corrisponderebbe
«all’impossibilità per Seneca di trovare una soluzione al conflitto dialettico, che egli avverte e vive, tra l’esigenza vitale della speranza e il rifiuto ideologico della stessa per coerenza con i principi della filosofia stoica». Secondo POLARA, I distici (cit. n. 29), 166167, invece, l’autore sembrerebbe dare della Speranza una valutazione complessivamente negativa, soprattutto con il riferimento a Catone, personaggio esemplare che
mostra di non piegarsi alle illusorie promesse della dea (vv. 41-42 Spes uni numquam
potuit dare verba Catoni, / mendacisque deae non tulit ille dolos), marchiando di ingenuità
e debolezza le diverse scelte di altri personaggi della storia o del mito, come Mario, Pompeo, Priamo, Orfeo. Il carme si chiude all’insegna dell’imprevedibilità della Fortuna,
«che è al tempo stesso complice e giustificazione della Speranza» (POLARA, ibid., 167):
vv. 65-66 incerto ludit casu Fortuna per orbem / et semper constat, quae fugit atque redit
(così leggono Prato e Romano il problematico v. 66, guasto in V e corretto in vari modi,
tra cui si ricordi almeno <n>ec semper contra <est>, quae fugit atque redit di TANDOI, Recensione [cit. n. 5], 35-36, lettura adottata nell’edizione di CANALI – GALASSO [cit. n.
1]). Altro problema è se si debba considerare l’ultimo distico appartenente al discorso
della Speranza (così gli editori più recenti, da Prato in poi, e Tandoi, ibid.), o sia una
considerazione finale del poeta, come supponeva Riese.
141
SILVIA MATTIACCI
tutto il componimento che resta estraneo alle tonalità ironiche e
sarcastiche, all’incisività tipica dell’epigramma32 .
Più proficua per la nostra indagine può risultare invece l’analisi
dei versi che il Vossiano intitola De malo belli civilis, in cui la critica
ha distinto due diversi componimenti, rispettivamente di 36 e 20
versi, da cui possiamo trarre qualche utile considerazione sui confini, spesso impercettibili, tra ‘elegia breve’ ed ‘epigramma lungo’:
Venerat Eoum quatiens Antonius orbem
et coniuncta suis Parthica signa gerens
dotalemque petens Romam Cleopatra Canopo.
Hinc Capitolino sistra minata Iovi,
hinc invicta deo fidebat Caesare Roma,
quae tunc paene suo pondere lapsa ruit.
Deserta est tellus, classis contexerat aequor,
omnia permixti plena furoris erant.
Fratribus heu fratres, patribus concurrere natos
impia sors belli fataque saeva iubent.
Hic generum, socerum ille petit, minimeque cruentus
qui fuit, <is> sparsus sanguine civis erat.
Maevius, a castris miles melioribus, ausus
hostilem <in> saltu praecipitare ratem,
in damnum felix et victor ut impius esset,
nescius occiso fratre superbus erat.
Dum legit exuvias hostiliaque arma revellit,
fraternos vultus oraque maesta videt.
Quod fuerat virtus, factum est scelus: haeret in hoste
miles et a manibus mittere tela timet.
Ille ferox: «Quid lenta manus? nunc denique cessem?
Iustius hoste tibi qui moriatur adest.
Fraternam res nulla potest defendere caedem;
mors tua sola potest; morte luenda tua est.
Scilicet ad patrios referes spolia ampla penates:
ad patrem victor non potes ire tuum,
sed potes ad fratrem. Nunc fortiter utere telo!
Impius hoc telo es, hoc potes esse pius.
32
5
10
15
20
25
Sulle divergenze di tono e di stile dell’elegia rispetto all’epigramma cfr. A. SABOT,
L’élégie à Rome: essai de définition du genre, in Hommages à Jean Cousin. Rencontres avec
l’antiquité classique, Paris 1983, 133-143: 138-139.
142
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
Vivere si poteris, potuisti occidere fratrem!
Nescisti: sed scis: haec mora culpa tua est.
Viximus adversis, iaceamus partibus isdem».
Dixit et in dubio est utrius ense cadat.
«Ense me<o> moriar maculato morte nefanda?
Cui moreris, ferrum quo moriare dabit».
Dixit et in fratrem fraterno concidit ense.
Victorem et victum condidit una manus.
30
35
(69 P. = 462 R.2 = 460 Sh.B.)
Sicine componis populos, Fortuna, furentis
ut vinci levius, vincere sit gravius?
Occisum credens gaudebat Maevius hostem:
infelix fratris vulnere laetus erat.
Nec licuit non nosse: ferox dum membra cruenti
nudat, in exuvias incidit ipse suas.
Et scelus et fratrem pariter cognovit et amens
«Hoc age» ait «maius nunc tibi restat opus.
Vincere victorem debes, defendere fratrem.
Cessas? ad facinus quam modo fortis eras!
Terram, iura, deos, bellum iam polluis ipsum:
quod civile fuit, sic quoque culpa gravis.
His manibus patriae tu tam pia signa sequeris
miles, in Antoni dignior ire rates?
Eripuit virtus pietatem, reddere virtus
debet: qua rapuit, hac reparanda via est.
Quid moror absolvi?» Dixit, gladioque cruento
incubuit, iungens fratris ad ora sua.
Sic, Fortuna, regas semper civilia bella
ut victor victo non superesse velit.
2
(70 P. = 463 R. = 461 Sh.B.)
5
10
15
20
33
33
I due componimenti corrispondono ai nn. 52-52a dell’edizione ZURLI (cit. n. 1). Mi
sono discostata dal testo di PRATO (cit. n. 1) nei seguenti punti: in 69,11 con Shackleton
Bailey e Zurli accolgo ille dello Scaligero; in 69,14 con Zurli accolgo l’integrazione di
Shackleton Bailey <in> saltu; in 69,25 seguo l’interpunzione di Shackleton Bailey che
elimina l’interrogativa; infine in 69,33 accolgo con Shackleton Bailey la correzione dello
Scaligero maculato (iaculatus V conservato da Zurli, iugulatus Prato).
143
SILVIA MATTIACCI
Il tema della Fortuna, su cui si era chiuso il De spe (vv. 64-66),
offre un opportuno collegamento con il carme 70 che, in forma di
Ringkomposition, si apre e si chiude con un’apostrofe alla dea bendata34 , assoluta protagonista degli orrori della guerra civile. Sicine
componis populos, Fortuna, furentis / ut vinci levius, vincere sit gravius?
(70,1-2): con questo distico sentenzioso si introduce il paradigmatico episodio di Mevio che uccide, senza accorgersene, il fratello
schierato tra i nemici e poi, riconosciutolo dum membra cruenti
nudat (vv. 5-6), si suicida per vendicarne la morte. Il componimento costituisce una variazione più concisa di quello immediatamente precedente, che presenta, in un numero quasi doppio di versi,
un più ampio sviluppo narrativo35 . In 69,1-8 si descrive, infatti,
l’antefatto della tragica vicenda, riproponendo il clima da ‘guerra
santa’ con cui la propaganda augustea aveva avvolto e trasmesso il
ricordo di Azio, il fatale scontro tra Oriente e Occidente, l’assalto
di Antonio e Cleopatra a Giove Capitolino e all’invitta Roma
fiduciosa nel deus Caesar. Ma i vv. 9-12, con il richiamo all’impia
sors belli fataque saeva responsabili di fratricidi e parricidi, ne svelano – a differenza dei noti referenti poetici augustei – la tragica
identità di guerra di Romani contro Romani36 e preparano il pas34
Sugli esiti paradossali della Fortuna, cui solo il sapiens sa opporsi (52,14 P. =
444,14 R. 2 = 442,14 Sh.B.), cfr. anche 10,3-4 P. (= 401 R. 2 = 397 Sh.B.); 45 P. (=
437 R. 2 = 435,1-4 Sh.B.); 46,1-2 P. (= 438,1-2 R.2 = 436 Sh.B.).
35
A meno che non si consideri 69,1-12 – possibilità cui accenna TANDOI, Scritti
(cit. n. 5), 681 – come enunciato del tema proposto a scholastici, cui seguirebbero due
componimenti svolti a gara, o due diversi saggi declamatori di uno stesso poeta. Sembrerebbe questo il motivo per cui Riese (seguito da Zurli, che menziona in apparato
l’ipotesi di Tandoi) lascia uno spazio prima del v. 13.
36
Nei primi otto versi sono state evidenziate reminiscenze da Properzio (in partic.
3,11,29-46; 4,6,15-24) e da Virgilio (Aen. 8,675-703), ma una differenza vistosa è che
qui (oltre 69,9-12, cfr. 69,31; 70,12 e 19) il conflitto tra Ottaviano e Antonio è
presentato come guerra civile (TANDOI, Scritti [cit. n. 5], 688; GALASSO [ed.],
Epigrammi [cit. n. 1], 111), conformemente a quanto troviamo attestato in r. gest. div.
Aug. 34,1; Liv. perioch. 133; Vell. 2,87,1; Flor. epit. 4,12,1. Si osservi anche la topicità
dell’affermazione che identifica la guerra civile come lotta tra fratelli, con rinvio
all’archetipo mitico della vicenda, e come lotta tra suocero e genero per influsso della
lotta tra Cesare e Pompeo o di quella tra Sabini e Romani: cfr. e.g. Lucan. 4,802 et gener
atque socer bello concurrere iussi; Mart. 9,70,3-4 cum gener atque socer diris concurreret armis
/ maestaque civili caede maderet humus.
144
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
saggio all’episodio di Mevio, che presenta esso stesso un maggiore
sviluppo drammatico-narrativo: Mevio è presentato come soldato
dell’esercito migliore (v. 13 a castris miles melioribus, l’esercito di Ottaviano che combatteva per la giusta causa) e la scena è situata su una
nave della flotta di Antonio (v. 14), dove avviene l’inconsapevole fratricidio; scoperta la verità e riconosciuta la virtus come scelus, la reazione del protagonista è affidata – come nel carme 70 – al monologo
patetico con analogo alternarsi di prima (69,21 cessem; 69,33 moriar;
70,17 moror) e seconda persona (cfr. e.g. tibi in 69,22 e 70,8); si
noterà tuttavia nel carme 69 la reduplicazione del monologo patetico (vv. 21-31 e 33-34), la maggior sottolineatura dell’indugio (vv.
19-21 e 30), l’evocazione dell’immagine del padre comune (v. 26),
la cerebrale incertezza sull’arma del suicidio che si risolve nella
decisione drammatizzata di mutare spada (vv. 32-34) e, infine, la
presenza di una forma di composizione del dramma con
l’immagine della comune sepoltura del vincitore e vinto (v. 36 victorem et victum condidit una manus, che riprende il v. 31 iaceamus
partibus isdem).
Tandoi definisce questi due componimenti «brevi elegie»37 e
Polara li ritiene appartenenti al genere dell’elegia politica, aggiungendo che «la condanna della guerra, e in particolare di quella civile, era stato un luogo obbligato nell’elegia, con toni diversi da
Tibullo a Properzio ad Ovidio»38 . In essi però l’avversione al militarismo rientrava in una precisa scelta di poetica e di vita (Prop.
3,5,1 Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes) e si rivolgeva a
un lettore partecipe di quei fatti39 , tutti elementi che determinano
37
TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 680, collegandole all’epigramma 64 P. (= 457 R. 2 =
455 Sh.B.) che celebra la morte dei due fratelli Casca, i quali avevano preso parte alla
congiura contro Cesare e si uccisero a Filippi dopo la sconfitta dei repubblicani. Il concettismo finale che i due Casca sarebbero stati celebrati dai poeti, se fossero stati gemini
«meno che nello schierarsi dalla stessa parte» (secondo l’interpretazione di Tandoi, ibid.), rinvia alla vicenda dei Mevii, come pure l’immagine del comune sepolcro per i due
fratelli (cfr. 64,6 con 69,31 e 36).
38
POLARA, I distici (cit. n. 29), 163.
39
Per la scelta pacifista di Properzio cfr. in partic. 3,5 e 3,12; sulle interferenze in Ovidio elegiaco tra deprecazione delle guerre civili e guerra d’amore, cfr. M. LABATE, L’arte
di farsi amare. Modelli culturali e progetto didascalico nell’elegia ovidiana, Pisa 1984, 74.
145
SILVIA MATTIACCI
una sostanziale diversità di trattazione rispetto a un autore più
tardo come il nostro (o i nostri?): questi, infatti, per rendere la
vicenda attuale e commovente, ricorre a monologhi patetici e
insiste su tinte forti, su particolari macabri di sapore lucaneo40 ,
laddove Properzio, nelle due brevi elegie finali del I libro (21 e 22)
dominate dalla tragedia del bellum Perusinum e dal doloroso
ricordo del parente morto e rimasto insepolto, limita i toni cupi e la
consueta spinta espressionistica, mirando soprattutto all’essenzialità
e all’intensità del dramma, cui contribuisce la struttura compositiva
epigrammatica delle due elegie41 . Anche nel nostro caso, comunque, l’influsso più o meno presente dello schema epigrammatico
può essere responsabile del diverso trattamento e risultato di uno
stesso tema. Nel carme 70 è assente l’articolato sviluppo narrativo
del carme 69, mentre la sciagurata vicenda di Mevio è trattata in
funzione della gnome che le fa da cornice sotto forma di apostrofe
alla Fortuna: l’episodio, pur collegato alla vicenda aziaca (vv. 1314), assume quindi il significato di exemplum etico perennemente
valido e di segno negativo fino alla fine. Mevio resta legato a
quell’immagine di follia (v. 7 amens) e di sanguinaria violenza che lo
caratterizza fin dall’inizio (cfr. la ricorrenza di cruentus ai vv. 5 e 17),
e nel ribrezzo per la propria empietà si concentra il suo dramma,
fino alla delirante impressione di contaminare l’universo intero con
la sua colpa (v. 11 terram, iura, deos, bellum iam polluis ipsum); il desiderio di assoluzione del protagonista (vv. 15-17 eripuit virtus pietatem, reddere virtus / debet... quid moror absolvi?), non trova eco nel
commento dell’epigrammista: così, al riscatto cui allude l’immagine
del comune sepolcro nel verso finale del carme 69, subentra qui una
pesante maledizione contro tutti i combattenti delle guerre civili:
70,19-20 sic, Fortuna, regas semper civilia bella, / ut victor victo non
40
Cfr. 69,11-12; 17-18; 32; 35; 70,4-6; 17-18. Cfr. anche P RATO (ed.), Gli epigrammi (cit. n. 1), 5: «Il motivo ispiratore dei carmi 69 e 70 sembra comune a passi
del poema lucaneo, dove la condanna delle guerre civili aveva trovato la sua più vibrata ispirazione» (cfr. anche 8); per i riferimenti specifici cfr. passim nel comm. ad
locc., 228-237.
41
Cfr. A. LA PENNA, L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio, Torino 1977, 45-46.
146
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
superesse velit. Il secondo componimento seleziona e in certo senso
esaspera le potenzialità patetiche dell’episodio, eliminando anche
l’artificiosa incertezza per l’arma a favore di un più immediato ed
efficace dixit, gladioque cruento / incubuit (70,17-18: si getta non
sulla spada del fratello, ma sulla sua, quella insanguinata): è evidente
l’intento di mirare a una maggiore sinteticità e incisività che dia risalto alla norma morale. In questo si rivela, a mio avviso, la maggiore incidenza sul carme 70 dello schema dell’epigramma epidittico,
che sfrutta la rievocazione di eventi di particolare significatività per
ricavarne riflessioni morali, mentre il più lungo carme 69, non direttamente finalizzato a una morale esplicita, presenta uno sviluppo
narrativo di tipo più elegiaco.
Il confronto con Marziale può rendere più plausibile la collocazione del primo componimento sul versante dell’elegia e del
secondo su quello dell’epigramma. In Marziale non troviamo epigrammi al di sopra dei 26 versi che siano in distici; 4,64 di 36
versi come il primo dei nostri componimenti è in faleci, quasi a
segnare con un metro tipico della tradizione epigrammatica latina l’appartenenza a quel genere che la lunghezza poteva mettere
in dubbio. D’altra parte considerazioni sui giochi e le incertezze
della Fortuna sono frequenti in contesti di epigramma epidittico,
come in Mart. 1,12, dove si narra del celebre avvocato Aquilio
Regolo miracolosamente scampato alla morte, essendo passato
con il suo carro sotto un portico crollato subito dopo: i due distici finali forniscono l’interpretazione dell’episodio in chiave adulatoria e morale, facendo appello all’intervento prudente della
Fortuna, la quale ha evitato una morte che avrebbe suscitato
grande risentimento, e sottolineando con un ossimoro il carattere
prodigioso e insieme provvidenziale dell’evento: vv. 11-12 nunc et
damna iuvant... / stantia non poterant tecta probare deos. Un richiamo finale al ruolo, questa volta impietoso, della Fortuna si ha
anche in 4,18 a proposito della paradossale morte di un fanciullo:
v. 7 quid non saeva sibi voluit Fortuna licere? In altri epigrammi
epidittici Marziale presenta rievocazioni di suicidi esemplari: si
tratta di rielaborazioni in forma epigrammatica di temi cari alla
147
SILVIA MATTIACCI
retorica e alla declamazione contemporanea, spesso legati
all’atmosfera dell’opposizione stoica al principato 42 ; data la loro
notorietà Marziale non ritiene di dover accennare all’antefatto,
ma si concentra sul momento culminante del dramma, facendo
precedere il suicidio dagli extrema verba morientis: è il caso di Arria Maggiore, moglie di Cecina Peto, che con virile fermezza si
trafigge per prima e poi porge al marito la spada, esortandolo a
fare altrettanto (1,13); oppure il caso di Porcia, la figlia di Catone, che, appresa la morte a Filippi del marito Bruto, decide
sull’esempio del padre di suicidarsi e ingoia i carboni ardenti dopo che le era stata sottratta la spada (1,42). È evidente il carattere stoicheggiante e filorepubblicano di questi componimenti, che
trova riscontro nei numerosi epigrammi sulla morte di Catone e
Pompeo presenti nella nostra silloge43 . In particolare il suicidio
di Porcia è, con ogni probabilità, un’invenzione della tradizione
letteraria, tra le cui fonti compare Valerio Massimo (4,6,5)44 .
Anche per l’episodio dei due Mevii difficilmente siamo di fronte a un fatto storico45 : nessun’altra fonte fa il nome dei due personaggi, ma un episodio simile è riferito ad altro momento storico
dallo stesso Valerio Massimo, che lo cita come esempio di summa
erga fratrem suum pietas: i due innominati fratelli che vengono a
contesa militano uno nell’esercito di Pompeo, l’altro in quello di
Sertorio; l’uccisore riconosce il fratello mentre lo spoglia delle armi, bestemmia contro gli dei per avergli dato quell’empia vittoria e
porta il cadavere all’accampamento, dove lo ricopre di un manto
prezioso e lo pone sul rogo, su cui si getta dopo essersi trafitto eo42
Sui legami di Marziale con gli ambienti stoici nei primi anni del suo soggiorno a
Roma, quando si appoggiava alle famiglie dei Seneca e dei Pisoni (cfr. 4,40 e
12,36,8), si veda M. CITRONI (ed.), M. Valerii Martialis Epigrammaton liber I, Firenze 1975, 43 e 58.
43
Cfr. 7-13; 15; 22-23; 40; 46; 61-63 P. (= 397-404; 406; 413-414a; 432; 438;
454-456 R. 2). Per Marziale cfr. anche 3,66 e 5,69 (sulla morte di Cicerone voluta da
Antonio, paragonata a quella di Pompeo); 6,32 (sul suicidio di Otone paragonato a
Catone) e infra, n. 85.
44
Cfr. CITRONI (ed.), Martialis (cit. n. 42), 136.
45
Cfr. TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 680 n. 15.
148
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
dem gladio quo illum interemerat (come nel caso del carme 70)46 .
La letteratura di scuola era evidentemente ormai ghiotta di episodi
del genere, che si prestavano ad essere variamente rielaborati e
ambientati in contesti di guerra civile, temi ormai triviali cui Lucano accenna con malcelato fastidio, rifiutandosi di quaerere... quis
pectora fratris / caedat et, ut notum possit spoliare cadaver, / abscisum
longe mittat caput, ora parentis / quis laceret nimiaque probet spectantibus ira, / quem iugulat, non esse patrem (7,619 e 626-630). E un
prodotto di scuola saranno da considerare verosimilmente anche i
nostri due componimenti. La probabile dipendenza da essi di un
analogo episodio di tragici errori con uccisioni di congiunti, narrato nei Punica di Silio Italico (9,66-177) – quello del Sulmonese
Satrico e dei suoi due figli Mancino e Solimo –, ci riporta alla
scuola dell’età dei Flavi, dove Silio potrebbe aver conosciuto i nostri versi durante le sue esperienze di declamatore47 ; si tratta di un
46
Val. Max. 5,5,4 Sed omnis memoriae clarissimis imperatoribus profecto non erit ingratum, si militis summa erga fratrem suum pietas huic parti voluminis adhaeserit: is namque in
castris Cn. Pompei stipendia peragens, cum Sertorianum militem acrius sibi in acie instantem
conminus interemisset iacentemque spoliaret, ut fratrem germanum esse cognovit, multum ac
diu convicio deos ob donum impiae victoriae insecutus, prope castra transtulit et pretiosa veste
opertum rogo inposuit. Ac deinde subiecta face protinus eodem gladio, quo illum interemerat,
pectus suum transverberavit seque super corpus fratris prostratum communibus flammis cremandum tradidit. Licebat ignorantiae beneficio innocenti vivere, sed ut sua potius pietate quam
aliena venia uteretur, comes fraternae neci non defuit. Il patetico episodio, riportato anche da
Livio (perioch. 79), si riferisce al bellum Cinnanum (87 a.C.), quando si scontrarono a Roma
gli eserciti di Pompeo Strabone da un lato, di Cinna, Mario, Sertorio e Carbone dall’altro. A
Livio – il quale a sua volta sembra dipendere da Sisenna (ap. Tac. hist. 3,51,2 = frg. 129
P.) – potrebbero risalire, oltre che Valerio Massimo, Gran. Lic. 35,24-26 Criniti (su cui si
veda il comm. di B. SCARDIGLI, Grani Liciniani reliquiae, Firenze 1983, 71-72 e 76); Oros.
hist. 5,19,12-13; Aug. civ. 2,25.
47
Per questo episodio dei Punica, in cui la critica riconosce concordemente, non
dipendendo da Livio, la rielaborazione di temi declamatori, e in particolare per la
dipendenza dai carmi 69 e 70 della silloge pseudo-senecana, cfr. TANDOI, Scritti (cit.
n. 5), 687; M. FUCECCHI, La vigilia di Canne nei Punica e un contributo allo studio dei
rapporti fra Silio Italico e Lucano, in P. ESPOSITO – L. NICASTRI [curr.], Interpretare
Lucano. Miscellanea di studi, Napoli 1999, 305-342: 316-322. Nell’episodio di Silio il
peligno Satrico è un disertore dalle fila dei Cartaginesi che, fatto prigioniero durante
la prima guerra punica, era stato ricondotto in Italia al seguito di Annibale per fungere da interprete; giunto in prossimità della patria Sulmona, approfitta della notte per
evadere dal campo cartaginese e tornare alla sua città. Durante la fuga si imbatte nel
cadavere del figlio Mancino, ucciso in uno scontro che precede la battaglia di Canne,
non lo riconosce e ne indossa le spoglie (cfr. vv. 85-89 con 69,17-18 e 70,5-6). Nel
149
SILVIA MATTIACCI
periodo che aveva sperimentato i lutti civili del 69 d.C. e, cosa per
noi più importante, non distante da Marziale. Le due variazioni
sul tema dei Mevii, allora, mostrandoci concretamente la possibilità di oscillare, con impercettibili variazioni, tra elegia ed epigramma, costituiscono una testimonianza significativa di
quella tendenza a comporre epigrammi eccedenti i limiti consueti che Marziale recepisce e sviluppa con consapevolezza
nuova, nell’ambito di un più vasto programma di definizione e
canonizzazione del genere epigrammatico latino.
Analoga tendenza a sviluppare uno stesso tema ora nelle forme più distese che risentono del genere elegiaco, ora nei modi
più concisi e linguisticamente più audaci dell’epigramma, offrono
i componimenti 35 e 67 P. Il carme 35, con cui si apre la seconda parte della silloge dove il tema erotico e scoptico diviene preminente48 , può esser definito, con i suoi 18 versi, un epigramma
longum ed è il più lungo degli epigrammi erotici. Il componimento è purtroppo sfigurato da ampie lacune dovute alla manus pudica di un monaco, o comunque di un lettore medievale, che ha
eraso quanto poteva offendere la sensibilità sua o di altri lettori,
nell’ambiente monastico in cui il codice doveva trovarsi; una
buona metà dei versi o non si legge o va recuperata attraverso un
frattempo il gemello Solimo esce dal campo romano in cerca del fratello, per dargli
sepoltura; si imbatte nel padre e, scambiandolo per un nemico, lo apostrofa come un
vile sciacallo (cfr. vv. 114-116 con 69,25-26) e poi l’uccide; infine, accortosi del
tragico errore, si suicida (cfr. vv. 157-158 sicine te nobis, genitor, Fortuna reducit / in
patriam? con 70,1). Ma significativo è anche il confronto – che non mi sembra sia
stato notato – di 70,2 ut vinci levius, vincere sit gravius con Sil. 13,867 nec leviora lues
quam victus crimina, victor, un verso che, seppure in altro contesto, si riferisce alle
guerre civili ed ha grande evidenza alla fine della sezione in cui la Sibilla presenta a
Scipione, durante la catabasi, gli spiriti di coloro che avrebbero determinato
un’atroce svolta nella storia di Roma (vv. 850-867). Per una interpretazione complessiva dell’episodio di Satrico e più in generale sulla vigilia di Canne nei Punica, in
rapporto al modello lucaneo, rinvio al citato contributo di Fucecchi.
48
Cfr. H OLZBERG, Ovidius exul (cit. n. 9), 157 n. 18, che qualifica come erotici
35-39; 42-43; 56; 58-60; 65-67 P. (= 427-431; 434-435; 448-449; 451-453;
458-460 R. 2 ), come scoptici 44; 47; 51; 54; 57; 64 P. (= 436; 439; 443; 446;
450; 457 R. 2 ). Ma dubbi interpretativi (e quindi di classificazione tematica) presentano i componimenti 36 e 64 P., su cui si vedano i comm. ad locc. di P RATO e
G ALASSO (citt. n. 1) e supra, n. 37.
150
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
vaglio paleografico delle tracce, cui ha dedicato un fondamentale
studio Tandoi nel 196349 :
Sic et ames, mea lux, et rursus semper ameris,
mutuus ut nullo tempore cesset amor.
Solis ad occasus, solis sic <semper> ad <or>tus
Hesperus hoc uideat, Lucifer hoc videat.
Si das saepe negas, si das < ˜ ˜> saepe recusas
et pede praeda tuo ........... l .. o ... s
Nox mihi tota data est h... dampna peribunt
ambiguis debet vel modus esse iocis.
Promittis, mea vita, semel non amplius una
.... alisietd .... od .......
Dum iaceam tecum permixtus corpore toto
. tib .... sat ..... n ..... d ..
Nempe quod ad .... a ... t mille
malit h .......... ti
Lentus ...... pe .... l .... arte
fe ........ semel, sed sine fine semel.
O certe numero vinces me . rera i a–
......... lit ... b . s .. p .. ego.
5
10
15
(35 P. = 427 R.2 = 425 Sh.B.)50
Nonostante le lacune, l’epigramma si può così ricostruire nelle
sue linee generali: i primi due distici sono dedicati al noto motivo
del mutuus amor come condizione di un amore felice cui aspira il
poeta (vv. 1-4); la donna, dopo lunghe schermaglie, ha concesso
all’innamorato una notte d’amore che lo ripaga degli affronti subiti, anche se – secondo l’integrazione di Tandoi del v. 8 ambiguis
debet vel modus esse iocis 51 – alle schermaglie dovrebbe esserci un
limite (vv. 5-8); al poeta è stata promessa una sola notte, ma unito
a lei corpore toto avrà un piacere senza fine (vv. 9-16); la donna (o
49
V. TANDOI, Anth. Lat. 427 R., «SIFC», 35 (1963), 243-249 (= Scritti [cit. n. 5],
691-695, da cui citeremo).
50
Per il testo, corrispondente al nr. 22 dell’edizione ZURLI (cit. n. 1), ho seguito essenzialmente Prato e Zurli, tranne al v. 8 per cui vd. infra.
51
TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 693.
151
SILVIA MATTIACCI
un rivale?) può ben vincere nel numero di notti d’amore, ma lui
risulterà comunque superiore nel piacere (vv. 17-18). Echi neoterici di tono contrastante (Cinna frg. 6 Blänsdorf te matutinus flentem conspexit Eous / et flentem paulo vidit post Hesperus idem)52 si
fondono nei primi versi con concetti topici della poesia erotica,
come il mutuus amor 53 e l’alba che trova gli amanti uniti
nell’amplesso54 ; anche le schermaglie, l’alternarsi di compiacenza e
ritrosia (vv. 5-6) fanno parte della topica erotica55 , ma il modello
dominante è sicuramente quello dell’elegia augustea, in particolare
Ovidio arricchito di note di passionalità properziana56 : da Prop.
2,14-15 e da Ov. am. 1,5 è infatti ripreso il tema dell’incontro
d’amore felice, esaltante che vale da solo la vita intera57 . Anche il
carme 67 – forse dello stesso autore – si apre con l’apostrofe mea
52
Il frammento appartiene all’epillio Zmyrna, che è ovviamente il soggetto di questi
versi: la fanciulla, cacciata dal padre a causa del suo amore incestuoso, fugge e piange
da mattina a sera. Cfr. anche Ov. met. 5,440-441 illam (scil. Cererem) non udis veniens
Aurora capillis / cessantem vidit, non Hesperus (anche qui il tono flebile si oppone a quello
gioioso del nostro epigramma).
53
Cfr. Tib. 1,2,65; 1,6,76 (nella stessa sede metrica: mutuus absenti te mihi servet
amor); [Tib.] 4,5,7; Hor. epod. 15,10; carm. 2,12,15-16 etc. Cfr. anche [Sen.] epigr.
49,4 P. (nella stessa sede metrica, ma non in contesto erotico) e 56,2 P. mutuus ignis.
54
Cfr. Meleag. AP 5,172-173 = XXVII-XXVIII G.-P.; 12,114 = LXXV G.-P. dove
il sopraggiungere del mattino è temuto come dusevrasto"; il motivo è sviluppato da Ov.
am. 1,13.
55
Cfr. Ov. ars 3,579-610 e in ambito epigrammatico AP 5,42; 12,200; Mart. 1,57;
4,42,11; 5,83; Aus. epigr. 39-40 Green. Cfr. anche [Sen.] epigr. 66 P., oltre che 67 P.,
su cui vd. infra.
56
Cfr. il commento ad loc. di PRATO e di GALASSO (citt. n. 1); TANDOI, Scritti (cit. n.
5), 695.
57
L’intensità dell’esperienza emozionale dell’incontro amoroso è soprattutto sottolineata da Properzio, che presenta molteplici punti di contatto con il nostro testo: la fanciulla apostrofata con un mea lux (2,14,29: cfr. v. 1; in entrambi i casi in posizione di
rilievo, alla fine o all’inizio del componimento); l’aspirazione all’amore eterno (2,15,2526 atque utinam haerentis sic nos vincire catena / velles, ut numquam solveret ulla dies: cfr. v.
2); la ragazza si concede dopo molti rifiuti (2,14,13 e 20 nec mihi iam fastus opponere
quaerit iniquos... sic hodie veniet, si qua negavit heri: cfr. v. 5); il rilievo dato a nox (2,15,1
O me felicem! o nox mihi candida: cfr. v. 7); l’intensità dei gaudia di una sola notte che
può rendere immortali (2,14,9-10 quanta ego praeterita collegi gaudia nocte: / immortalis ero, si altera talis erit; 2,15,39-40 si dabit et multas (scil. noctes), fiam immortalis
in illis: / nocte una quivis vel deus esse potest: cfr. i vv. 10 sgg. in cui si può supporre una
tematica analoga).
152
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
lux e il motivo è quello dell’incontro d’amore, questa volta non
concesso ma perennemente rimandato:
Cur differs, mea lux, rogata semper?
Cur longam petis advocationem?
Primum hoc artificis scelus puellae est,
deinde est difficile et laboriosum
in tentigine tam diu morari.
Nil est praeterea, puella, nil est
deprensa melius fututione.
5
(67 P. = 460 R.2 = 458 Sh.B.)58
Come in 35,5-6 il poeta-amante esprime le sue rimostranze di
fronte ai dinieghi e agli indugi della puella 59 . Ma il tono è più schiettamente epigrammatico, come mostra la brevitas e l’uso di un metro
diverso, il catulliano falecio, cui si accompagna una catulliana libertà
di linguaggio: il termine osceno fututione, eraso per la consueta
pruderie e reintegrato dai moderni editori60 , chiude con una sorta di
fulmen in clausula l’apostrofe all’amata che si era aperta con un romantico ed elegiaco mea lux («o luce dei miei occhi... niente è meglio di una scopata improvvisa»). Questo diverso trattamento di un
tema in parte simile, sottolinea il carattere ‘elegiaco’ dell’epigramma
35, che, anche per estensione, non è lontano dalla breve elegia ovidiana sopra menzionata di 26 versi.
Ancora il confronto con l’elegia ci porta a ravvisare un epigramma lungo in quelli che sono generalmente considerati dalla
critica due variazioni epigrammatiche su uno stesso tema. Sotto il
titolo De vita humiliori troviamo infatti, riportati unitariamente
58
Le lettere in corsivo dei vv. 5-7 sono erase in V; le integrazioni, che risalgono a
Scaligero e L. Müller, sono comunemente accolte dagli editori (così anche nella recente
edizione di ZURLI [cit. n. 1], dove il componimento corrisponde al nr. 50). Per altri esempi di erasione in V, cfr. TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 678 n. 7.
59
Cfr. in partic. 35,6, se con TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 692 leggiamo et pede praeda
tuo nectis acerba moras; ma – come avverte lo studioso – si tratta di una proposta exempli
gratia per orientare sul senso dei vv. 5-6.
60
Vd. supra, n. 58.
153
SILVIA MATTIACCI
nel Vossianus, 20 versi che gli editori assegnano concordemente a
due componimenti diversi:
«Vive et amicitias regum fuge». Pauca monebas:
maximus hic scopulus, non tamen unus, erat.
Vive et amicitias nimio splendore nitentes
et quicquid colitur perspicuum, fugito.
Ingentes dominos et famae nomina clarae
inlustrique graves nobilitate domos
devita et longe vivus cole; contrahe vela
et te litoribus cymba propinqua vehat.
In plano semper tua sit fortuna paresque
noveris: ex alto magna ruina venit.
Non bene cum parvis iunguntur grandia rebus:
stantia namque premunt, praecipitata ruunt.
5
10
(16 P. = 407 R.2 = 403 Sh.B.)
«Vive et amicitias omnes fuge»: verius hoc est
quam «regum» solas «effuge amicitias».
Et mea mors te<s>tis: maior me afflixit amicus
deseruitque minor, turba cavenda simul.
Nam quicumque pares fuerant, fuge<re> fragorem,
necdum conlapsam deseruere domum.
<I> nunc et reges tantum fuge! Vivere doctus
uni vive tibi; nam moriere tibi.
5
(17 P. = 408 R.2 = 404 Sh.B.)61
Vale la pena ricordare che nelle più antiche edizioni di Giuseppe Scaligero, Burman e Meyer il solo carme 16 risulta addirittura
61
A due distinti componimenti (corrispondenti ai nrr. 11-11a) pensa anche ZURLI
(ed.), Anthologia (cit. n. 1). A proposito di 16,7 longe vivus cole (longe sarà da unire a cole,
ma vivus nel senso di «finché vivi» fa difficoltà ed è stato variamente corretto, mentre
Shackleton Bailey in appar. lo spiega «i. e. mortem effugiens, quod ad vive supra respicit»), cfr. PRATO (ed.), Gli epigrammi (cit. n. 1), 139 e DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra
filosofia (cit. n. 5), 102 n. 65. Su 17,3 – dove si accoglie con Zurli il testo tràdito et mea
mors – vd. infra. [Come mi suggerisce A. Fusi, vivus di 16,7 andrebbe visto in antitesi a
mors di 17,3 («tienti lontano, da vivo», cioè se vuoi evitare la morte che è toccata a me
con l’esilio); le due lezioni del codice, dunque, si suffragherebbero a vicenda in una
prospettiva di lettura unitaria.]
154
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
frantumato in ben tre componimenti: evidentemente il gusto che gli
editori antichi avevano della stilizzata concisione epigrammatica,
poteva portare a moltiplicare le separazioni congetturali, una volta
che si era perduta di vista la stretta dipendenza del carme 17 da tutto ciò che precede. Sulla questione richiamò per primo l’attenzione
Tandoi, recensendo l’edizione di Prato62 , ed ha scritto poi pagine
convincenti la Degl’Innocenti Pierini63 .
Com’è stato osservato64 , il motto iniziale del primo epigramma (vive et amicitias regum fuge) parafrasa, con la significativa omissione del motivo del vivere sibi, il consiglio che Ovidio dà all’amico
fedele in trist. 3,4,4 vive tibi et longe nomina magna fuge65 : al posto
di nomina magna, che sarà ripreso più avanti con famae nomina
clarae (v. 5), l’autore inserisce il più concreto ed esplicito richiamo
all’amicizia con i potenti (reges) di probabile derivazione oraziana
(epist. 1,10,32-33 fuge magna: licet sub paupere tecto / reges et regum
vita praecurrere amicos)66 , e, con una sorta di audace identificazione
tra destinatario dell’epigramma e modello letterario, inizia «un
62
TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 32: «In pauca monebas (407,1) è preannunciato, a
considerar bene, qualcosa che diventerà esplicito soltanto con 408,1 verius hoc est; fin
allora, con amicitias ... nitentes, con ingentes dominos ecc. (1-6) non s’è fatto che chiosare
reges. Gli è che il poeta tendeva al suo caso (408,3-6), per oggettivarlo drammaticamente e
farne discendere commosso, quasi da realtà sofferta, il monito finale».
63
Nell’articolo «Vivi nascosto»: riflessi di un tema epicureo in Orazio, Ovidio, Seneca, «Prometheus», 18 (1992), 150-172, ripubblicato con aggiornamenti in
DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 81-107 da cui citeremo (cfr. in partic.
100-106).
64
Cfr. PRATO (ed.), Gli epigrammi (cit. n. 1), 138 e soprattutto DEGL’INNOCENTI
PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 101.
65
Nell’elegia 3,4 (generalmente distinta dagli editori da 3,4b per il brusco distacco
tra il v. 46 e il v. 47 e per l’appello prima a uno solo e poi a più amici) Ovidio si rivolge
dall’esilio a un amico innominato che gli è rimasto vicino nella sventura, consigliandogli
di vivere nell’ombra, perché i potenti possono giovare, ma anche nuocere. Anche per i
carmi 16-17 la situazione presupposta è quella dell’esilio.
66
Sul tema epicureo del ‘vivi nascosto’ in Orazio, Ovidio e Seneca, compresi gli epigrammi pseudo-senecani, rinvio al contributo di DEGL’INNOCENTI PIERINI (cit. n. 63). Il
nesso amicitias regum è comunque senecano (epist. 94,14 alia regum amicitias sequenti,
su cui vd. infra); per il sintagma famae nomina clarae si può rinviare con PRATO (ed.),
Gli epigrammi (cit. n. 1), 138 a Lucan. 5,468 tantae... nomina famae e 10,544 perpetuae
... nomina famae, senza dimenticare che il frequente nesso clara fama (da cui l’italiano
«chiara fama») trova anch’esso attestazione in Ovidio (her. 17,17).
155
SILVIA MATTIACCI
polemico dialogo a distanza» con Ovidio67 , dichiarando che il suo
consiglio era insufficiente (pauca monebas). Ora tutto lo svolgimento dell’epigramma 16 illustra il precetto ovidiano che mette in
guardia dal maximus scopulus68 , ovvero dal maggiore pericolo che è
rappresentato dalle amicizie dei potenti: amicitias regum è glossato
da amicitias nimio splendore nitentes del v. 3 e reges non sarà diverso
da ingentes dominos et famae nomina clarae del v. 5. Il verso ovidiano, che dà l’avvio all’epigramma, risulta così scisso in due parti e
inserito in una trama di immagini ed espressioni mutuate
dall’intera elegia ovidiana: cfr. ancora v. 3 amicitias nimio splendore
nitentes... fugito e vv. 6-7 inlustrique graves nobilitate domos / devita
con Ov. v. 5 quantumque potes praelustria vita (si noti la Steigerung
dell’imitatore che enfatizza l’imperativo ricorrendo al composto e
all’audacia dell’enjambement); v. 7 contrahe vela con Ov. v. 32 propositi... contrahe vela tui; v. 8 et te litoribus cymba propinqua vehat
con Ov. v. 16 haec mea per placidas cumba cucurrit aquas69 ; v. 9 in
plano semper tua sit fortuna con Ov. v. 17 qui cadit in plano; vv. 910 paresque / noveris con Ov. v. 44 amicitias et tibi iunge pares; infine
al v. 10 ex alto ripropone, rispetto al precedente in plano e concentrandola all’interno di un distico, la contrapposizione ovidiana tra
qui cadit in plano (v. 17) e delapsus ab alto (v. 19). E il distico finale
non fa che offrire una spiegazione della precedente esortazione a
cercare l’amicizia inter pares, rivelando i pericoli di chi a questa
norma si oppone: vv. 11-12 non bene cum parvis iunguntur grandia
67
Così DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 101, che sottolinea anche (cfr. ibid., 90) come Ovidio intenda verosimilmente richiamarsi a Hor. epist.
1,18,67 protinus ut moneam, si quid monitoris eges tu con l’espressione di trist. 3,4,13
ego si monitor monitus prius ipse fuissem, quasi a lamentare la mancanza di una adeguata azione parenetica all’interno di una precisa tradizione letteraria – quella appunto del ‘vivi nascosto’ – che Orazio, prima di lui, aveva affrontato in epist. 17 e 18.
Sulla «sottile polemica a distanza con Ovidio» cfr. anche D. GAGLIARDI, Anth. Lat.
408 R., «CCC», 5 (1984), 201-206: 203.
68
Il senso traslato di scopulus è frequente in Cicerone (cfr. e.g. Pis. 41 vos, geminae
voragines scopulique rei publicae), ma cfr. anche Sen. epist. 31,2; 70,3.
69
Le metafore nautiche sono comunque di derivazione oraziana: cfr. Hor. carm.
2,10,1-4 e 23-24; Sen. Ag. 104-107; Herc. Oe. 694-699; Prop. 3,3,22-24 che applica
la metafora all’opera poetica.
156
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
rebus: / stantia namque premunt, praecipitata ruunt: la frase ha sapore
proverbiale70 , ma il lessico è ancora ovidiano, seppure in contesti
diversi (trist. 1,6,28 grandia si parvis adsimulare licet; ibid. 3,11,2324 s u b r u e r e est arces et s t a n t i a moenia virtus: / quamlibet
ignavi p r a e c i p i t a t a p r e m u n t ). Fin qui l’epigrammista ha
seguito Ovidio, riprendendo e illustrando quella che è la norma
fondamentale dell’amicizia, la parità, precetto verso cui converge
tutta l’elegia dei Tristia: vv. 43-44 vive sine invidia... amicitias et tibi
iunge pares. Se l’epigramma finisse qui, risulterebbe difficile capire
il senso del pauca monebas e del fatto che l’amicizia coi potenti
rappresenti il maximus scopulus, non tamen unus. Quale sarebbe
l’altro scopulus, da cui Ovidio non si è premunito di mettere in
guardia? La risposta viene dal carme 17 che non andrà pertanto
staccato dal precedente, ma letto in continuità com’è nel codice
che ce lo tramanda71 .
Invocando la sua drammatica esperienza dell’esilio come morte, l’epigrammista arriva a formulare un’altra e ben più pessimistica
parenesi in cui omnes sostituisce il limitativo reges, che lasciava ancora uno spazio positivo all’amicizia inter pares: se l’amico potente
lo ha abbattuto (v. 3 maior me afflixit amicus), quello minor – rispetto a maior, ma evidentemente par rispetto a lui – lo ha abbandonato nella sciagura. Il tema è ancora ovidiano, come pure la
metafora del crollo della casa per indicare la sciagura dell’uomo
(vv. 5-6 fugere fragorem, con efficace allitterazione, e conlapsam
deseruere domum): cfr. soprattutto trist. 1,9,17-20 dum stetimus,
turbae quantum satis esset, habebat... domus; / at simul impulsa est,
omnes timuere ruinam / cautaque communi terga dedere fugae72 ; ma
70
Cfr. PRATO (ed.), Gli epigrammi (cit. n. 1), 140-141.
Cfr. DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 103: «Fino al v. 12 l’autore
di AL 407 segue i precetti ovidiani, che enunciano quindi la prima e suprema legge da
seguire nell’amicizia, la parità. Solo se consideriamo AL 408 come conclusione dello
stesso componimento poetico, comprendiamo lo svolgersi del ragionamento e l’intento
correttivo nei confronti del modello, esplicitato dall’iniziale pauca monebas».
72
Cfr. anche trist. 3,5,5-6 ut cecidi cunctique metu fugere ruinam / versaque amicitiae
terga dedere meae; 2,121-122 corruit haec... lapsa domus; Pont. 1,9,13 cum domus ingenti
subito mea lapsa ruina / concidit; 3,2,11-12 cumque dedit paries venturae signa ruinae, /
71
157
SILVIA MATTIACCI
si hanno anche consonanze col pensiero senecano di fuggire la
moltitudine: epist. 10,1 fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge
etiam unum; ibid. 7,1 quid tibi vitandum praecipue existimem quaeris? turbam.
Considerando il tessuto ovidiano di questi versi, vale la pena
soffermarsi sul problema testuale del v. 3. Il cod. V ha et mea mors
tetis (vulgo testis), corretto in est mea sors testis da Heinsius, a sua
volta seguito da Riese e Shackleton Bailey, mentre Prato accetta
sors, ma conserva et difeso da Rossbach. Lasciando da parte il
problema di et/est73 , concentriamoci sull’opzione mors/sors, ovvero
lezione tràdita vs. congettura assai fortunata almeno fino
all’edizione di Zurli. Il nesso mea sors ha certo la patente di ovidianità, in quanto ricorre spesso nelle ultime elegie con riferimento alla sorte dell’esiliato: Pont. 4,14,47 molliter a vobis mea
sors excepta, Tomitae; cfr. anche trist. 1,5,2; 2,552. Ma in realtà, se
la situazione presupposta è quella dell’esilio 74 , si dovrà tener conto dell’altrettanta frequenza in Ovidio esule dell’equiparazione
exilium = mors (Pont. 1,5,86; 2,3,42-44)75 ; mors farebbe anzi capire meglio, rispetto al generico sors, che qui si tratta di esilio,
sollicito vacuus fit locus ille metu. Si noti inoltre deseruere nella stessa sede metrica, in contesto affine, in trist. 1,5,64 me profugum comites deseruere mei.
73
Secondo TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 34 «col verbo in apertura risalta meglio
l’infelice esperienza autobiografica di un derelitto, presa a simbolo di quella verità universale verso cui il carme converge»; mentre l’edizione di ZURLI (cit. n. 1) segue il Vossianus sia per et, sia per mors (vd. infra).
74
Non affrontiamo qui il problema della paternità senecana di questi versi, per cui
sia TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 34, sia DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n.
5), 106-107, si pronunciano, pur cautamente, a favore (così anche P. GAGLIARDI, Due
epigrammi di Seneca? (AL 403-404 S.B.), «CCC», 13 [1992], 281-294, sulla base, tuttavia, di un’analisi piuttosto sommaria dei rapporti con le opere filosofiche di Seneca);
contrario è invece GAGLIARDI, Anth. (cit. n. 67), 203-206 che si occupa specificatamente del carme 17, evidenziandone il tono pessimistico e la ‘non senecanità’ delle
affermazioni finali (cfr. contra DEGL’INNOCENTI PIERINI, ibid., 105, e infra, n. 80). In
ogni caso, chiunque sia l’autore, la situazione qui presupposta è quella dell’esilio (cfr. anche
GALASSO [ed.], Epigrammi [cit. n. 1], 92; HOLZBERG, Ovidius exul [cit. n. 9], 155).
75
In trist. 1,3,22-23 e 89; Pont. 1,9,17 la partenza per l’esilio è assimilata a un funerale. Ma sui motivi sepolcrali diffusi in tutto il corpus delle elegie ovidiane dell’esilio e
negli epigrammi attribuiti a Seneca si veda più compiutamente l’articolo di
DEGL’INNOCENTI PIERINI, «La cenere dei vivi» (cit. n. 5).
158
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
preparando il passaggio al v. 8 «sulla solitudine spirituale di chi
muore, chiunque sia» 76 . Nella sua audacia e peculiarità tale metafora è certo più pregnantemente allusiva nei confronti dei versi
ovidiani dell’esilio, come mostra la sua presenza in altri due epigrammi del ciclo dell’esilio: nel carme 2 P. (= 236 R.2 = 228
Sh.B.) l’apostrofe alla Corsica si chiude con un distico in cui il
pathos, ricercato con la reiterata anafora del nome dell’isola,
sembra raggelarsi nel concettismo dell’equiparazione del relegatus
al sepultus e nello stravolgimento dei moduli delle iscrizioni tombali (vv. 7-8 parce relegatis, hoc est: iam parce sepultis. / Vivorum
cineri sit tua terra levis!)77 ; nel carme 18 P. (= 409 R. 2 = 405 Sh.B.)
è invece il solenne distico iniziale a riproporre la stessa immagine,
con l’invito a una Cordova personificata a manifestare i segni del
lutto per il proprio figlio esiliato: Corduba, solve comas et tristes
indue vultus, / inlacrimans cineri munera mitte meo. Quindi, a mio
avviso, sors è congettura che banalizza il testo ed è stata giustamente respinta da Zurli, il quale legge l’emistichio secondo la
lezione tràdita et mea mors testis78 .
Il forte richiamo allusivo a Ovidio, dato dall’audace metafora
mors, ben si inserisce nella fitta trama di legami intertestuali con
questo autore, utili anche per stabilire l’unità del testo. Una volta
riconosciuto in Ov. trist. 3,4 il modello sotteso a questi versi, che
iniziano con l’allusivo vive et amicitias regum fuge (16,1), ripreso
poi e corretto con vive et amicitias omnes fuge (17,1), che aprirebbe
la seconda metà del componimento contenente la specifica posizione dell’autore, mea mors testis riprenderebbe concettualmente
76
TANDOI, Recensione (cit. n. 5), 34.
Al v. 7 sarà da accogliere la variante sepultis di V, rispetto a solutis di ABW, quale
consapevole allusione alla famosa clausola virgiliana parce sepulto di Aen. 3,41: cfr.
DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra Ovidio (cit. n. 5), 161-163; TIMPANARO, Nuovi contributi (cit. n. 6), 464-468; L. ZURLI, Intorno ad alcuni carmi dell’«Anthologia Latina»,
«GIF», 49 (1997), 141-169: 164-166.
78
Analogamente L. GALASSO (ed.), P. Ovidii Nasonis Epistularum ex Ponto liber II,
Firenze 1995, 212 respinge sors (congettura dello stesso Heinsius) in Ov. Pont. 2,3,44 a
Stygia quantum mors mea distat aqua? (per l’assimilazione della regione dell’esilio al regno
dei morti cfr. anche Pont. 1,8,27; 3,5,56; 4,14,11-12).
77
159
SILVIA MATTIACCI
trist. 3,4,3 usibus edocto si … credis amico, ovvero l’avvertimento
che il precetto si fonda su esperienza di ‘vita vissuta’, per concludersi con l’invito a «vivere per sé» (uni vive tibi), che recupera
quanto all’inizio era stato omesso del consiglio ovidiano (v. 4 vive
tibi et longe nomina magna fuge). Dunque la parenesi di Ovidio risulta essere il motivo generatore di quello che supponiamo l’intero
componimento, ripresa circolarmente in incipit ed explicit, ma suddivisa nelle sue due componenti che consentono l’elaborazione di
contenuti nuovi, di scarti concettuali e correttivi rispetto al modello: così al consiglio di evitare l’amicizia dei potenti, subentra la
rinuncia di ogni amicizia, il cavere turbam, e si giustifica l’idea già
oraziana e ovidiana79 del sibi vivere con il sibi mori, una sententia
sulla cui ‘senecanità’ si è discusso in relazione al problema della
paternità di questi versi80 . Ma a noi interessa soprattutto osservare
il modo in cui la sententia finale è introdotta, in quanto rivendica la
natura epigrammatica del componimento.
La formula di dissuasione ironica i nunc, con la funzione di
rafforzare un altro imperativo legato per asindeto o polisindeto,
pur essendo impiegata in chiave patetica anche nell’elegia e nella poesia elevata 81 , ricorre con particolare frequenza negli epi79
Cfr. Hor. epist. 1,18,107-108 et mihi vivam / quod superest aevi; per Ovidio oltre
al menzionato trist. 3,4,4 vive tibi, cfr. anche ibid. v. 15 dum mecum vixi (dove mecum è
comunque correzione di Faber e di Heinsius del tràdito tecum).
80
Posizioni diverse sono state espresse sulla ‘senecanità’ della sententia finale: cfr. D.
GAGLIARDI, Anth. (cit. n. 67), 205; GALASSO (ed.), Epigrammi (cit. n. 1), 92-93;
DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 105. È innegabile che la sententia,
invalidando con il suo pessimismo il concetto stesso di filiva, contrasta con l’idea senecana che il saggio ricerca l’amicizia disinteressata (epist. 9,8-17), non per essere aiutato
ma per aiutare (cfr. in partic. § 10 ut habeam pro quo mori possim vs. moriere tibi), e che
sa conciliare il sibi vivere con la pratica dell’amicizia (epist. 62,2 cum me amicis dedi, non
tamen mihi abduco). Si dovrà tuttavia ricordare che il «tetro pessimismo» – come lo definisce D. GAGLIARDI, ibid., 202 – della pointe finale, se è estraneo al filosofo, non lo è al
poeta Seneca, trovando un interessante parallelo nella morte solitaria del coro del Tieste
(vv. 393-403), su cui ha richiamato opportunamente l’attenzione DEGL’INNOCENTI
PIERINI, ibid., 105. Parole simili, ma di segno opposto, troviamo in Plut. Cleom.
52(31),10 aijscro;n ga;r <kai;> zh'n movnoi" eJautoi'" kai; ajpoqnh/vskein; Paul. epist. Rom.
14,7 oujdei;" ga;r hJm w'n eJautw/' zh/', kai; oujdei;" eJautw/' ajpoqnh/vskei (su cui cfr. P. GAGLIARDI, Due epigrammi [cit. n. 74], 293-294).
81
Su questa formula, di probabile origine colloquiale, ma presente anche nell’epica
di Virgilio e Stazio, in Seneca tragico e prosatore, cfr. D. GAGLIARDI, I nunc... Per la storia
160
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
grammi di Marziale, sempre a conclusione del componimento:
spect. 23,6; 1,42,6; 2,6,1 e 17 (primo e ultimo verso: i nunc, edere me iube libellos); 8,63,3; 9,2,13; 10,96,13; 11,33,382 . Ma si
veda soprattutto Mart. 10,96, un elogio della vita semplice nella vagheggiata campagna natia in opposizione alle fatiche e alle
miserie della vita di cliente a Roma, che così si conclude: vv.
13-14 i, cole nunc reges, quidquid non praestat amicus / cum praestare
tibi possit, Avite, locus. L’analogia tra i due segmenti di verso è
stringente, ma ancora una volta il nostro i nunc et reges tantum
fuge sembra ‘correggere’ Marziale, concettualmente vicino a
Ovidio, in quanto mette in guardia s o l o contro i pericoli
dell’amicizia con i potenti, in opposizione all’amicizia ben più
affidabile del semplice locus natio (vera ‘amicizia’ inter pares):
alla prospettiva del cliens si oppone quella del filosofo (o di un
autore che ne ha assunto la maschera) angosciato dall’esilio, che
invita a rinunciare all’amicizia tout court e a vivere per sé nella
consapevolezza di dover morire per sé. È questo un altro punto
di forte contatto tra Marziale e la silloge attribuita a Seneca,
che si aggiunge al sopra citato caso di 37,2 e 14 P. ludere, Musa,
iuvat: Musa severa, vale! da mettere in relazione con Mart. 8,3,2
quid adhuc ludere, Musa, iuvat? 83 . È certo difficile stabilire chi
fra i due autori sia a dare e chi a ricevere84 ; in ogni caso i nostri
di uno stilema poetico, in E. LIVREA – G.A. PRIVITERA [curr.], Studi in onore di Anthos
Ardizzoni, Roma 1978, 373-379.
82
In genere la formula si trova, come nel nostro caso, all’inizio del distico finale, mentre in spect. 23,6 e in 1,42,6 nel pentametro finale. Nella raccolta ‘senecana’ ritroviamo la
stessa formula (al plurale), nella stessa posizione, a conclusione di un breve epigramma
epidittico: 46,3 P. (= 438,3 R.2 = 435,5 Sh.B.) ite, novas toto terras conquirite mundo.
83
Vd. supra, 136.
84
Secondo l’amico Alfredo Morelli, che mi scrive in data 17/01/2007, sarebbe
Marziale ad alludere a ‘Seneca’: «Se lui raccomandava di non avere amici né regali né
comuni perché tutti lo hanno portato (o abbandonato) all’esilio (cioè alla sua mors),
Marziale dice che è superfluo avere amici regali o comuni, se l’esilio non è la petrosa e
triste Corsica, ma la ricca e dolce Spagna». Rimango tuttavia nel dubbio se nel v. 13 di
Marziale si possa vedere una gradatio, che ‘condensa’ i due elementi del nostro carme,
coinvolgendo in un unico giudizio negativo l’amicizia con i potenti e quella con qualunque amico: chi parla è un ‘cliente’ amareggiato e in amicus del v. 13 sarei portata a ravvisare la figura di un ‘patrono’, in opposizione a quei pares amici che rientrano invece a
161
SILVIA MATTIACCI
versi, fortemente ma non banalmente e pedissequamente legati
alla tradizione augustea e a Seneca, non saranno un prodotto
troppo tardo 85 . Ed è significativo notare come l’elegia ovidiana
abbia non solo suggerito temi e modalità espressive alla poesia
epigrammatica, ma abbia verosimilmente influito anche sulla
tendenza ad ampliarne le dimensioni: Mart. 8,3, contenente una
recusatio della poesia alta nella tradizione dell’elegia augustea e
di Ovidio in particolare – un agone tra Talia e il poeta che ricorda quello tra elegia e tragedia di am. 3,1 –, è un epigramma
di 22 versi, quasi una breve elegia; i carmi 16-17, considerati
unitariamente, dialogano con la poesia dell’esilio dei Tristia e
delle Epistulae ex Ponto in un componimento di 20 versi,
anch’esso di natura oscillante tra breve carme elegiaco ed epigramma lungo, alle cui modalità di chiusura riconduce
senz’altro il distico finale con la sua parenesi ironica e la sua
sentenziosità. D’altra parte può essere interessante notare la
presenza, nel corpus callimacheo, di un epigramma anomalo (AP
7,89 = LIV G.-P. = 1 Pf.) per dimensioni (16 versi) e struttura,
pieno titolo nell’ideale di vita delineato da Marziale in 10,47,7. In ogni caso ha ragione
Morelli a sottolineare i tratti distintivi e originali di 16-17 P., la cui struttura è da epigramma longum, ma con tratti atipici (argomento posto all’inizio, corretto al centro e
ripreso alla fine, chiudendo il carme ad anello) rispetto a Marziale e al suo gusto per il
catalogo centrale negli epigrammata longa.
85
Certo è da scartare l’ipotesi di R.P.H. G REEN (ed.), The Works of Ausonius,
Oxford 1991, 434, che li vuole opera di un imitatore di Ausonio sulla base del
confronto con ecl. 19,31-33 Green vive et amicitias semper cole… hoc metuens igitur nullas cole (cfr. contra D EGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia [cit. n. 5], 106 n.
81). Altro interessante confronto con Marziale è dato dalla comune presenza del
tema dei sepolcri di Pompeo e dei suoi due figli, Cneo e Sesto, disseminati in Africa, Europa e Asia: il tema nella nostra silloge ha dato luogo a una serie cospicua di
variazioni (10-13 e 61-63 P. = 400-404 e 454-456 R. 2 = 396-400 e 452-45 4
Sh.B.) a fronte di un unico epigramma in Marziale: 5,74 Pompeios iuvenes Asia
atque Europa, sed ipsum / terra tegit Libyes, si tamen ulla tegit. / Quid mirum toto si
spargitur orbe? Iacere / uno non poterat tanta ruina loco (confrontabile soprattutto
con 63 P. Diversi<s> iuvenes Asia atque Europa sepulcris / destinet: infida, Magne,
iace[n]s Libya. / <D>istribuit Magnos mundo Fortuna sepultos, / ne sine Pompei o
terra sit ulla suo). Su questi componimenti e su 45-46 P. (= 437-438 R. 2 = 435436 Sh.B.) cfr. TANDOI, Scritti (cit. n. 5), 827-855 che, in base a una puntuale
analisi delle figure di Pompeo e Alessandro nel I secolo, li considera un prodotto
dell’ambiente degli Annei, precedenti a Lucano.
162
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
che svolge un tema morale per certi versi analogo al nostro
(almeno a quello della prima parte corrispondente al carme 16):
il consiglio richiesto da uno straniero al vecchio e saggio Pittaco
di Mitilene riguarda anche qui una scelta cruciale: se sia meglio
prendere in moglie una donna del proprio stato oppure di condizione sociale superiore. La risposta, che viene suggerita attraverso un vivace quadretto di ragazzi che giocano con le trottole
e attraverso la polivalenza espressiva del loro grido th;n kata;
sauto;n e[la («segui la tua via»), è un invito a iungere conubia
paria, ovvero alla moderazione: consiglio che alla fine si svela
rivolto a un amico, giustificando così la lunga esposizione
dell’aneddoto 86 . Il tradizionale richiamo a non superare i propri
limiti, che in Callimaco dà luogo a una composizione di lunghezza insolita e di andamento mimico-narrativo, è diversamente sviluppato nel nostro caso, dove si tinge di colori pessimistici
e autobiografici; tuttavia il confronto mostra la possibilità di
variazioni epigrammatiche e di ‘anomalie’ formali su tematiche
morali note, in cui l’io-poetico assume le vesti di monitor.
La labilità di confini tra genere epigrammatico ed elegiaco è
argomento noto, su cui non occorre insistere. Da tempo è stata
notata la presenza nell’elegia latina di motivi epigrammatici e
viceversa la tendenza ad accogliere nell’epigramma elementi tipici dell’elegia87 ; e se la distinzione risulta chiara ai poli (per es.
86
Giudizi sfavorevoli o limitatitivi, insieme a forti sospetti sull’autenticità, gravano
su questo epigramma che è invece decisamente rivendicato a Callimaco da E. LIVREA,
Da Callimaco a Nonno. Dieci studi di poesia ellenistica, Messina-Firenze 1995, 45-58; a
questo studio, che fornisce una penetrante esegesi del componimento, rimando per la
bibliografia, l’interpretazione complessiva e la spiegazione dell’ambigua espressione th;n
kata; sauto;n e[la (vv. 12 e 16), in cui si celerebbe una difesa della propria poetica. È
ovvio che, se accettiamo la tesi di Livrea, l’epigramma «lungi dall’essere una piatta narrazione aneddotica, si iscrive a pieno titolo fra i testi più rilevanti in cui Callimaco manifesta cosciente sentimento della novità della sua arte» (58). Su questo epigramma
callimacheo e la problematica ad esso connessa vd. anche, in questo volume, CAIRNS,
The Hellenistic Epigramma Longum (cit. n. 24), 75-78, anche per ulteriore bibliografia;
si ricordi inoltre che la tendenza moralizzante è indicata da CAIRNS, ibid., 79 e passim
come uno dei tratti tipici degli epigrammata longa ellenistici.
87
Cfr. LA PENNA, L’integrazione (cit. n. 41), 23-30 e 253-254; SABOT, L’élégie (cit.
n. 32), 137-140; G. GIANGRANDE, Motivi epigrammatici ellenistici nell’elegia romana, in
163
SILVIA MATTIACCI
tra il c. 68 e uno dei paignia in distici di Catullo), meno chiara lo è
nello spazio intermedio, in cui un epigramma lungo come il c. 76
di Catullo non si distingue più da una breve elegia come la 3,25 di
Properzio88 . Questa distinzione fluida si accentua in epoca imperiale, rientrando in quella generale e nota tendenza, che si affermerà pienamente in ambito tardoantico, dell’attenuazione – se
non addirittura della perdita – dell’identità di genere89 : all’epoca
di Plinio la produzione elegiaca si evolve verso forme assimilabili al più generale panorama di poesia ‘leggera’ neoterizzante 90 ;
nella poesia nugatoria e nello sperimentalismo metrico dei poetae novelli la componente lirica e quella epigrammatica si presentano strettamente unite, come avverrà più tardi nel ciclo per
Bissula e negli epigrammi di Ausonio, dove è presente una notevole ricchezza di metri vari91 . E ancora, la presenza
nell’Anthologia Latina di uno o più distici estrapolati dall’elegia
d’età augustea (soprattutto da Ovidio), che si prestavano ad
essere isolati come epigramma, testimoniano – come ha osservato Polara – la tendenza di un ‘ritorno’ dall’elegia verso
l’epigramma: si riducono le misure e l’argomento della composizione è delimitato a poche immagini, senza concatenazione e
senza sviluppo narrativo92 . Di questa tendenza a confondere i
confini di genere, a ridurre l’elegia ad epigramma o – potremmo
E. FLORES [cur.], Dall’epigramma ellenistico all’elegia romana, Napoli 1984, 29-58;
CIOCCI, Le ‘durate’ dell’epigramma (cit. n. 26), 197-200 (sulla struttura compositiva
dell’epigramma lungo marzialiano in relazione ad altri generi, tra cui l’elegia).
88
Così LA PENNA, L’integrazione (cit. n. 41), 26.
89
Cfr. F.E. CONSOLINO, Mutamenti e continuità nella cultura della tarda antichità latina, in F.V. CICERONE [cur.], Discipline classiche e nuova secondaria, II, Foggia 1986,
266-283: 270-271; EAD., Metri, temi e forme letterarie nella poesia di Ausonio, in F.E.
CONSOLINO [cur.], Forme letterarie nella produzione latina di IV-V secolo, Roma 2003,
147-194: 147-148.
90
Cfr. G. R OSATI, Elegy after the Elegists: from Opposition to Assent, «PLLS», 12
(2005), 133-150: 140-141.
91
Cfr. CONSOLINO, Metri (cit. n. 89), 156-160.
92
Cfr. POLARA, I distici (cit. n. 29), 147-150 che rinvia a AL 262 R.2 = 256 Sh.B.
(cfr. Ov. trist. 2,33-34); 264 R.2 = 258 Sh.B. (cfr. Prop. 2,34,65-66); 269 R. 2 = 263
Sh.B. (cfr. Ov. ars 3,65-66 e 73-74).
164
G LI EPIGRAMMI LUNGHI ATTRIBUITI A SENECA
ugualmente dire – ad ampliare la stilizzata dimensione della
brevitas dell’epigramma in direzione dell’elegia, facendone un
genere più duttile capace di accogliere contenuti nuovi, gli epigrammi lunghi della silloge ‘senecana’ offrono – come abbiamo
cercato di dimostrare – esempi significativi; tanto più che essi
sembrano collocarsi in un’epoca non troppo lontana da un autore, come Marziale, sensibile alle molteplici e innovative possibilità del genere epigrammatico, non escluso ovviamente
l’epigramma lungo93 .
93
Sugli epigrammi ‘senecani’ 37; 39; 72 P. (= 429; 431; 804 R.2 = 427; 429 Sh.B.)
che presentano tracce di una poetica decisamente debitrice dell’elegia augustea, in
relazione anche a Marziale, cfr. DEGL’INNOCENTI PIERINI, Tra filosofia (cit. n. 5), 138152 e 158-174.
165
INDICE
Premessa
Paolo De Paolis
Saluto
9
13
INTRODUZIONE
Alfredo M. Morelli
Epigramma longum: in cerca di una básanos per il genere epigrammatico
17
SEZIONE PRIMA. PRIMA DI MARZIALE
Francis Cairns
The Hellenistic Epigramma Longum
55
Alfredo M. Morelli
Gli epigrammi erotici ‘lunghi’ in distici di Catullo e Marziale
Morfologia e statuto di genere
81
Silvia Mattiacci
Gli epigrammi lunghi attribuiti a Seneca,
ovvero gli incerti confini tra epigramma ed elegia
131
SEZIONE SECONDA. MARZIALE E L’EPIGRAMMA LONGUM:
ASPETTI GENERALI
Alberto Canobbio
Epigrammata longa e breves libelli
Dinamiche formali dell’epigramma marzialiano
169
Johannes Scherf
Epigramma longum and the arrangement of Martial’s book
195
Craig Williams
Epigrammata longa e strategie metapoetiche in Marziale
217
SEZIONE TERZA. MARZIALE E L’EPIGRAMMA LONGUM:
T IPOLOGIE PARTICOLARI
Delphina Fabbrini
Epigramma lungo e celebrazione in Marziale
237
Alessandro Fusi
Marziale 3,82 e la Cena Trimalchionis
267
Elena Merli
Cenabis belle. Rappresentazione e struttura
negli epigrammi di invito a cena di Marziale
299
Marcello Nobili
Rus, seu potius domus. Note critiche agli epigrammi
di Marziale a Giulio Marziale (4,64; 7,17)
327
Tomo II
SEZIONE QUARTA. DOPO MARZIALE:
L’ EPIGRAMMA LETTERARIO LATINO
Regina Höschele
Longe longissimum. Il carmen 68 del Corpus Priapeorum
383
Luca Mondin
La misura epigrammatica nella tarda latinità
397
Ferruccio Bertini
Lussorio e l’epigramma letterario latino tardoantico
495
Marco Giovini
Lussorio fra modello epigrammatico ed echi cristiani
509
Daniele Di Rienzo
Epigramma longum tra tardoantico e altomedioevo:
il caso di Ennodio di Pavia
539
SEZIONE QUINTA. EPIGRAMMA LETTERARIO GRECO
TARDOANTICO E BIZANTINO
Enrico Magnelli
I due proemi di Agazia e le due identità
dell’epigramma tardoantico
559
Claudio De Stefani
L’epigramma longum tardogreco e bizantino
e il topos dell’arrivo della primavera
571
SEZIONE SESTA. EPIGRAMMA EPIGRAFICO GRECO E LATINO
Marco Fantuzzi
La doppia gloria di Menas (e di Filostrato)
603
Valentina Garulli
L’epigramma longum nella tradizione epigrafica sepolcrale greca
623
Gianfranco Agosti
Epigrammi lunghi nella produzione epigrafica tardoantica
663
Christer Henriksén
Dignus maiori quem coleret titulo
Epigrammata longa in the Carmina Latina epigraphica
693
APPENDICE. MARZIALE E BOCCACCIO A MONTECASSINO
Marco Petoletti
Il Marziale di Giovanni Boccaccio
727
INDICI
(con la collaborazione di Silvia Canale ed Enrico Maria Polizzano)
Index locorum notabilium
745
Indice delle fonti epigrafiche discusse
759
Indice delle testimonianze manoscritte discusse
761