Nota degli autori
La prima edizione di questo libro è stata pubblicata nel 2010. Se, da un lato, ci è parso che
l’impianto analitico e la struttura alla base del testo, e in particolare l’organizzazione nelle tre
sezioni della politica come rappresentazione, governo e contestazione, continuassero a offrire
una solida prospettiva per l’esplorazione dei temi e dei problemi del campo interdisciplinare
di studio che allora decidemmo di denominare “geografia politica urbana”, dall’altro lato,
inevitabilmente, i dibattiti degli studi urbani e della geografia sono avanzati, facendo spazio a
nuove tendenze e sensibilità. Non si è trattato solamente di aggiornare i riferimenti bibliografici
più obsoleti, ma di aprire il testo ad alcune questioni assenti nella precedente edizione,
alleggerendo allo stesso tempo alcune parti che si rivelano oggi meno interessanti di un tempo.
Per fornire un esempio fra i molti possibili, la prospettiva globale che caratterizzava e
caratterizza il libro, cioè l’idea di prescindere dalla tradizionale distinzione fra città “del Nord”
e “del Sud” del mondo, è oggi tendenzialmente scontata in libri di questo tipo, e non merita
quindi particolare enfasi, pur continuando a innervare la struttura narrativa del testo.
Nel lavoro di revisione abbiamo cercato di utilizzare un linguaggio che limitasse l’uso del
maschile universale o visioni binarie del genere; in questo senso, si parla spesso
di cittadinanza, e non di cittadini, ma in vari casi, per non compromettere la leggibilità,
abbiamo optato per soluzioni di compromesso, per esempio raddoppiando le declinazioni
(cittadine e cittadini), pur consci dei limiti di questa scelta.
Infine, poiché il testo è stato spesso impiegato in questi anni in corsi universitari, si è scelto
di cambiare lo stile dei rimandi bibliografici. In questa nuova edizione, i nomi menzionati nel
corpo del testo si riferiscono sempre ad autrici, autori e lavori considerati in qualche misura
fondativi e di primaria importanza per gli studi urbani. Tutti gli altri rimandi, che pur si
riferiscono a lavori che riteniamo assai significativi, ma di interesse prevalente per chi vuole
confrontarsi con un livello più sofisticato della disciplina, sono stati invece inseriti nelle note a
fondo pagina. Infine, i riferimenti bibliografici sono stati inseriti al termine di ogni capitolo.
Introduzione
Lo scenario della globalizzazione e i conseguenti cambiamenti indotti nel capitalismo e nelle
strutture di regolazione politico-economica hanno portato a trasformazioni profonde
nell’esperienza urbana contemporanea: l’egemonia ancora senza rivali del neoliberalismo nel
modo di governare la società e l’economia, la rapida avanzata di un’emergenza climatica di
portata planetaria, il marchio impresso sulla vita quotidiana dalla transizione digitale sono, a
nostro avviso, i tratti caratteristici dell’epoca in cui ci troviamo a vivere. Le città e i più ampi
spazi urbani e metropolitani hanno acquisito un valore cruciale in questo scenario: il loro ruolo
resta intrecciato con il potere degli stati nazionali di cui sono parte, ma in una certa misura è
divenuto anche autonomo da essi. Questo libro offre un’interpretazione di tali trasformazioni
che attinge agli strumenti analitici della teoria politica critica e radicale, in un confronto serrato
con gli studi urbani critici contemporanei nell’ambito delle scienze sociali e umane: geografia,
sociologia, pianificazione urbana, antropologia culturale, scienza politica.
I percorsi di sviluppo urbano e i mutamenti economici e sociali a essi associati sono
certamente da comprendere nella loro specifica dimensione spazio-temporale, in quanto
espressioni di relazioni politiche, economiche e culturali intrattenute a diverse scale politicogeografiche (locale, regionale, nazionale, sovranazionale, globale) e in una certa congiuntura
storico-temporale da ciascuna città ed entità urbana e metropolitana. Al contempo, le
traiettorie urbane che oggi osserviamo mostrano un numero sempre crescente di tratti in
comune, legati per l’appunto agli effetti territoriali esercitati dalle forze della globalizzazione,
del neoliberalismo, della crisi climatica, della transizione digitale. Tali effetti condizionano in
misura decisiva la politica urbana, vale a dire tanto il modo di governare le città e gli spazi
urbani e metropolitani (le policy urbane) quanto il modo di agire politicamente dentro le città e
gli spazi urbani e metropolitani (la urban politics). Da questo punto di vista, si può osservare
come l’esperienza urbana al tempo della globalizzazione assuma forme differenti e comuni in
parti diverse del pianeta: nel dibattito della geografia critica e degli studi urbani, si fa ormai
largo uso del termine variegation per indicare come la logica globale che permea le traiettorie
di sviluppo economico venga sistematicamente a ibridarsi con le strutture istituzionali e
politiche locali, producendo un’incessante diversificazione dei processi urbani e regionali.
È evidente allora come per comprendere le modalità di governo delle città e degli spazi
urbano-metropolitani non sia sufficiente limitarsi allo studio “a tavolino” dei vari indicatori
sociali, economici e politici, ma occorra esplorare “sul campo” le realtà storiche, sociali,
culturali e istituzionali di ciascuna esperienza urbana. Strategie di sviluppo urbano, da una
parte, e forme di resistenza e di rivendicazione di “diritti alla città”, dall’altra, hanno la capacità
di mobilitare soggetti, reti di attori, coalizioni di interessi di segno anche opposto che sfuggono
a ogni modellizzazione preordinata. L’esperienza urbana rappresenta, in questa ottica, un
terreno cruciale nel quale il processo di globalizzazione assume modalità concrete e
riconoscibili di realizzazione, in costante evoluzione e caratterizzate da una spiccata
differenziazione spazio-temporale.
L’essenza della globalizzazione – il riposizionamento di scala di molti fenomeni,
l’ampliamento delle relazioni economiche e sociali a una dimensione tendenzialmente
planetaria, la percezione che la nostra realtà sia sempre più legata a eventi che si originano in
altre parti del globo per poi migrare “altrove” – impone pertanto importanti cambiamenti nel
modo di intendere l’esperienza urbana. Per citare il più evidente, è ormai impossibile
concepire gli spazi urbani e metropolitani quali entità “pure” nella loro modalità di
funzionamento, definibili dentro la cornice di confini certi e metabolismi stabili nel tempo,
come nelle metafore classiche delle città come “organismo” o come “sistema” che hanno a
lungo ispirato gli studi urbani, a partire da quelli geografici. Gli spazi urbani e metropolitani (o
meglio, i frammenti urbani che compongono ciascuno di esse) si configurano piuttosto come
nodi di una moltitudine di reti, siti per la circolazione di flussi che operano a scale diverse e
delineano spazialità multiformi. Da questo punto di vista, da ormai molti anni si discute come
l’urbanizzazione sia un fenomeno planetario dagli esiti multiformi: non solo città
convenzionalmente intese e altre agglomerazioni urbane di varia natura, come spazi
industriali, spazi di estrazione di risorse, spazi turistici, enclave di consumo, territori
urbanizzati artificialmente creati, ma anche spazi caratterizzati da modalità discontinue e
centrifughe di insediamento antropico.
Osservare la globalizzazione dall’angolo visuale dell’urbanizzazione planetaria consente di
cogliere nella sua materialità l’articolazione concreta dei fatti sociali, mettendo in evidenza
problematiche di rilevanza globale e locale, definite da relazioni di interconnessione e di
distanziamento, di cooperazione e di conflitto che mobilitano temporalità e spazialità
differenziate, se non di segno opposto. Nelle pagine che seguono, concentreremo l’attenzione
su una specifica prospettiva di analisi, la politica urbana, considerata nelle sue diverse e
interrelate dimensioni: rappresentazione, governo, contestazione. Se fino a qualche decennio
fa il governo del territorio e la politica dello sviluppo urbano erano di dominio esclusivo della
scala nazionale e di quelle a essa subordinate di livello locale e regionale, negli anni Novanta
dello scorso secolo si è preso consapevolezza del fatto che le trasformazioni indotte dalla
globalizzazione e dal neoliberalismo abbiano attribuito un significato inedito alla politica
urbana (la new urban politics, nella definizione di Kevin Cox, 1993). Definizioni che sono
entrate a far parte stabilmente del lessico delle scienze sociali, oltreché degli studi urbani,
come “città globale” o “città imprenditoriale”, sono venute alla luce proprio in quella fase di
passaggio.
Si è fin qui affermata l’idea secondo cui la percezione generalizzata dell’avvento della
globalizzazione a partire dagli anni Novanta abbia dato origine a trasformazioni di portata
epocale nell’esperienza urbana. Diventa dunque necessario in via preliminare definire l’idea di
globalizzazione, da cui discende la comprensione delle altre forze-chiave che abbiamo
identificato quali tratti distintivi della contemporaneità, come neoliberalismo, crisi climatica,
transizione digitale. Senza voler offrire qui una definizione completa, è utile ai nostri scopi
distinguere due valenze del termine: la globalizzazione come fenomeno sociale e come pratica
discorsiva.
In primo luogo, la globalizzazione può essere intesa come un processo sociale caratterizzato
dalla crescente interdipendenza tra attori che, pur operando “a distanza” in aree diverse del
pianeta, hanno la coscienza di trovarsi in una dimensione di vita in qualche misura comune. È
bene sottolineare come vi sia ampio consenso, sia in ambito accademico sia nell’immaginario
comune, intorno all’idea che la globalizzazione non sia da intendersi alla stregua di uno “stadio
finale” della civilizzazione umana, bensì come un processo in costante evoluzione che investe
una moltitudine di sfere distinte e al tempo stesso interrelate tra loro della vita associata:
politica e amministrativa, economica e sociale, culturale e ambientale. Il processo di
globalizzazione è un fenomeno connotato da caratteri di diseguaglianza ed eterogeneità: non
tutto il mondo partecipa in eguale misura ai suoi benefici così come alle sue conseguenze
negative. Sotto il profilo delle traiettorie di sviluppo urbano, è per esempio evidente come
l’esperienza della globalizzazione di Rio de Janeiro abbia punti di contatto e al contempo di
divergenza con quella di New York.
Se poi si vanno a scomporre i complessi universi sociali degli spazi urbani e metropolitani
contemporanei, si arriva a scoprire una molteplicità di differenze e diseguaglianze sociali,
economiche e culturali che investono trasversalmente e in modo intersezionale i diversi fattori
di appartenenza collettiva, come per esempio genere, classe sociale, provenienza, credo
religioso, età, residenza, caratteristiche dei corpi, orientamento sessuale. Una donna della
diaspora filippina, di fede cattolica, impiegata come lavoratrice domestica in una città italiana,
si trova ad affrontare percorsi di inserimento nella società di arrivo che sono simultaneamente
differenti e simili rispetto a quelli di cui può avere esperienza un uomo turco di religione
musulmana che lavora come operaio manifatturiero in una città tedesca, o a quelli di un cinese
impegnato a gestire un’attività commerciale a San Francisco.
La globalizzazione ha generato tratti di esperienza comune, come quelli segnati dalle
condizioni di esclusione e diseguaglianza che connotano la cosiddetta underclass urbana
nelle città capitalistiche, o al contrario dalle situazioni di opulenza di cui godono le élite globali,
del settore finanziario o immobiliare ad esempio. Al tempo stesso, pur in uno scenario di
uniformizzazione delle forme di vita alla scala planetaria, nell’epoca in cui viviamo i confini tra
le appartenenze sociali si fanno sempre più incerti, le identità di gruppo mutano
costantemente e si evolvono in maniera ibrida: un individuo può riconoscersi in appartenenze
distinte e partecipare a più reti sociali e politiche contemporaneamente; alcune aree di una
città possono rivelarsi fortemente esposte alle forze della globalizzazione, mentre altre della
stessa città restano relegate in una posizione di marginalità ed esclusione rispetto alle
geografie dominanti della rigenerazione urbana. La consapevolezza della natura
eminentemente processuale della globalizzazione è fondamentale, perché sottolinea la
dimensione politica e inevitabilmente situata e contingente sotto il profilo spazio-temporale
che deve assumere la nostra prospettiva di analisi: la globalizzazione disegna un mondo di per
sé instabile, dove il presente e il futuro delle città e dell’urbanizzazione sono esposti a
traiettorie evolutive in larga misura imprevedibili. Il mondo “globale” può assumere i tratti di
un’arena dominata da fenomeni di individualismo incontrollato, di competizione senza regole
e di capitalismo predatorio, o al contrario di uno spazio di eguaglianza, democrazia e capacità
di autogoverno dal basso. È la determinazione politica e sociale dei fenomeni e dei processi
economico-territoriali, molti dei quali prendono forma alla scala urbana, a imprimere il segno
a una realtà che non può che essere provvisoria e di fatto imprevedibile.
Una seconda accezione del termine intende invece la globalizzazione come una serie di
narrazioni e rappresentazioni attraverso cui il significato e la percezione di questo fenomeno
sono incessantemente modulati e negoziati. Il valore che si attribuisce alla globalizzazione
come forza positiva o negativa è da tempo oggetto di contesa: da un lato, vi sono le visioni
entusiastiche, particolarmente diffuse nei primi anni Novanta, che suggeriscono l’avvento di
un mondo “senza confini” e di un universo sociale ancora in larga parte inesplorato di
opportunità a beneficio dei più poveri; dall’altro lato, vi sono le sempre più diffuse visioni
critiche e disincantate che mettono in luce i limiti della linea ortodossa di politica economica
prevalente negli organismi internazionali che governano l’economia globale. Da ormai diversi
anni, le visioni critiche della globalizzazione asseriscono l’inevitabilità di un’incipiente
“deglobalizzazione” del mondo contemporaneo, trovando conferma nelle molteplici crisi
(economiche, sociali, politiche e ambientali) che affliggono il nostro pianeta. Ciascuna di
queste visioni è espressione di forze culturali, politiche ed economiche, anche in aperto
conflitto tra loro, che intervengono nel dibattito scientifico e intellettuale allo scopo di
modificare il corso degli eventi e le stesse modalità di governo della globalizzazione: dalle élite
politico-economiche di ferme convinzioni neoliberali, insediate alla guida dei più influenti
organismi internazionali, ai rappresentanti delle organizzazioni non governative fino alle
attiviste e agli attivisti dei “nuovi movimenti sociali”. La globalizzazione non rappresenta
dunque un fenomeno le cui qualità sono unanimemente accettate da parte di commentatori e
attori politici, economici e sociali. Si tratta, al contrario, di una categoria discorsiva, da un lato,
costruita e celebrata da voci esperte, studiosi e studiose che si sono fatte portavoce degli
interessi delle emergenti élite globali e, dall’altro lato, contestata e decostruita da coloro che
si riconoscono in schieramenti alternativi a quelli dominanti.
Il dibattito sul legame controverso che viene a stabilirsi tra globalizzazione e governo urbano
è inevitabilmente condizionato da posizionamenti soggettivi, non solo di natura strettamente
politico-ideologica, ma anche legati al ruolo concreto che ciascun commentatore svolge nella
realtà. Illuminanti a riguardo sono le discussioni sulle “ricette” di rigenerazione urbana oggi
maggiormente in voga: per esempio, il discorso sulle capacità di attrazione della cosiddetta
“classe creativa” da parte delle città contemporanee (capitolo 2) ha incontrato ampi consensi
e originato esperimenti di applicazione in diverse realtà urbane per iniziativa di amministratori
locali e policy maker, mentre sia i movimenti sociali urbani, sia gli studi critici delle città non
hanno esitato a esprimere il proprio dissenso rispetto a una politica di sviluppo urbano che, a
loro avviso, ha soprattutto l’effetto di rendere più allettanti e digeribili i fenomeni di
rampantismo sociale e di gentrification dei quartieri del centro città (capitolo 5). Non esiste
dunque una prospettiva in sé condivisa o universalmente valida di evoluzione di una città o di
una regione urbana: l’individuazione di una strategia di sviluppo è l’esito alternativamente (o
congiuntamente) di una decisione operata “dall’alto” o di un processo di negoziazione delle
scelte tra una pluralità di attori. In quest’ottica, la globalizzazione non deve essere vista come
uno scenario storico-geografico dato in partenza, ma come una metanarrazione dai molteplici
significati che ha la capacità di orientare l’agire degli attori nelle direzioni che essi prediligono:
a seconda della posizione di potere ricoperta, i soggetti urbani possono chiamare in causa la
globalizzazione come dispositivo retorico utile a sostenere progetti egemonici di
accumulazione capitalistica e produzione di un immaginario dominante; oppure, nel caso dei
movimenti sociali per la giustizia globale, evocare la globalizzazione come spazio di
convergenza per azioni collettive di protesta, o per la sperimentazione di pratiche
solidaristiche e di economie cooperative.
1. La triade della politica urbana
Sebbene negli ultimi decenni le cosiddette politiche pubbliche abbiano attirato fortemente
l’attenzione all’interno della geografia, dell’urbanistica e di altri campi di studio dei fenomeni
territoriali come la politologia e la sociologia, in Italia e in altri paesi europei come la Francia,
oltre naturalmente a quelli di lingua inglese, non sono solo le politiche territoriali a definire la
sfera di interesse della politica dello spazio e dei luoghi in ambito urbano, ossia della “politica
urbana” per dirla brevemente. Il campo della politica deve essere considerato in un’accezione
più ampia, comprendendo le iniziative ufficiali intraprese a diverse scale geografiche (le
politiche urbane propriamente dette), i processi di mobilitazione dal basso della società e dei
soggetti non rappresentati (nella forma di associazioni e movimenti sociali), i rapporti di
dominanza e di egemonia costruiti a livello materiale, simbolico e immaginario, le pratiche
socio-territoriali che si realizzano nella vita quotidiana e al di fuori della sfera pubblica ufficiale.
Su un piano più sostanziale, volendo identificare un nucleo essenziale della politica urbana
contemporanea, si può fare riferimento ai seguenti fenomeni chiave: le progettualità di
rigenerazione urbana; lo sfruttamento capitalistico del settore immobiliare e il problema delle
abitazioni per i ceti subalterni; il ruolo ambivalente della cultura come ambito di mercificazione
o di contestazione dell’ordine sociale vigente; il multiculturalismo e la posizione delle
minoranze etniche e religiose nel campo di relazioni urbane; le lotte per il riconoscimento delle
diversità socio-culturali e per i diritti di cittadinanza delle comunità più deboli o discriminate
(per esempio donne, minoranze non-cisgender, persone senza fissa dimora); la domanda di
“sicurezza” e le misure di sorveglianza degli spazi pubblici e residenziali; le rivendicazioni di
uno sviluppo urbano ecologicamente sostenibile; l’applicazione di tecnologie digitali
intelligenti (smart) alla vita urbana e alle infrastrutture che ne consentono il funzionamento.
Come si è già accennato, al fine di orientarsi in un campo di indagine inevitabilmente
complesso e variegato, questo lavoro identifica tre modalità, variamente complementari,
dipendenti o antinomiche tra loro, di esercizio e manifestazione della politica urbana: la
politica come rappresentazione, come governo e come contestazione.
1.1. La politica come rappresentazione
In primo luogo, la politica dello spazio può essere compresa in un’ottica di rappresentazione.
Tale linea di interpretazione affonda le proprie radici negli scritti fondativi di Michel Foucault
(1971) sui dispositivi capaci di creare un “ordine del discorso” e in quelli sulla critica del
linguaggio e sul metodo della “decostruzione” nell’analisi del testo sviluppate in particolare da
Jacques Derrida (1967). Da queste riflessioni è scaturito il convincimento secondo cui le
rappresentazioni hanno una intrinseca natura “performativa”, generando nei nostri universi
mentali e culturali modi differenti di immaginare fenomeni e problemi, aprendo così la strada
a una varietà di interventi e “tattiche discorsive”, secondo il linguaggio di Foucault.
Quello appena sommariamente illustrato è un filone di pensiero che ha ricevuto
un’applicazione ampia e feconda nelle scienze umane e sociali. Un punto di partenza
fondamentale in tal senso può essere identificato nella pubblicazione di Orientalismo da parte
di Edward Said (1978), un libro che ha incontrato una straordinaria fortuna accademica, in cui
si mostra come la categoria concettuale dell’“Oriente” sia di per sé inconsistente e abbia
acquisito significato esclusivamente in termini “negativi” rispetto all’immaginario occidentale
(ossia “ciò che non è Occidente”) durante l’esperienza del colonialismo europeo in Medio
Oriente. Il lavoro di Said e quello delle altre voci della critica post-coloniale che ne hanno
seguito le suggestioni originarie aiutano a comprendere come le rappresentazioni abbiano
l’effetto di relegare i propri oggetti discorsivi a immagini di negatività, inferiorità o pericolosità.
Una situazione del genere si è presentata in modo esemplare nei mesi successivi agli attentati
terroristici dell’11 settembre 2001, quando le persone di fede islamica e soprattutto quelle di
origine asiatica (in particolare del Medio Oriente e dell’Asia meridionale) si trovarono
improvvisamente a essere destinatarie di un atteggiamento diffuso di sospetto preventivo.
I meccanismi di identificazione e riconoscimento dell’alterità (sociale, culturale o spaziale)
hanno un potere “performativo” che forgia l’iniziativa politica a una molteplicità di scale
geografiche, da quella globale a quella locale. Si pensi per esempio all’operazione, oggi
ricorrente, di ordinamento delle città sulla base della loro capacità competitiva, stilando
classifiche che tengono conto di indicatori riguardanti l’entità degli investimenti ottenuti da
ciascun centro urbano. I dati contenuti in una classifica, per quanto possano essere
corrispondenti alla realtà, sono incorporati in un discorso – quello sulla competitività –
tipicamente neoliberale, che dà per assunta la pretesa secondo cui le città debbano essere
considerate come attori collettivi omogenei (capaci di comportarsi come individui o imprese)
e giudica il successo urbano secondo un criterio prestabilito, identificato nel grado di
attrazione dei capitali, in particolar modo delle grandi imprese multinazionali. Altrettanto
strumentali, d’altra parte, possono essere discorsi incentrati su indicatori cui si attribuisce un
valore intrinsecamente positivo nelle democrazie liberali, senza coglierne ambiguità e utilizzi
strumentali, come partecipazione, eguaglianza di opportunità, coesione sociale, qualità della
vita, innovazione. In tale ottica, studiosi e studiose critiche delle politiche di sviluppo nei paesi
del Sud del mondo, come per esempio Arturo Escobar (1995), hanno puntato l’accento sui
processi di “invenzione della povertà” atti più a giustificare investimenti economici, interventi
assistenziali e programmi di gestione del territorio promossi dagli organismi internazionali che
a porre le popolazioni destinatarie nella condizione di poter definire autonomamente il proprio
quadro di “bisogni” e aspettative, in modo indipendente dai modelli di vita occidentali. Più
recentemente, le riflessioni critiche sulle geografie decoloniali hanno messo in evidenza come
le istituzioni egemoniche deputate alla produzione di conoscenza, comprese le discipline
accademiche delle scienze umane e sociali, riproducano spesso implicitamente ideologie e
geometrie di potere razziste, patriarcali e coloniali. Da tale constatazione deriva la richiesta di
un ampio progetto di decolonizzazione delle scienze sociali, comprese quelle discipline dove
già oggi prevale una visione progressista del mondo, come la geografia.
In ambito urbano, ogni rappresentazione della realtà con una pretesa normativa sul modo in
cui le città dovrebbero essere o comportarsi, prescindendo dal concreto contesto storico,
politico e socio-economico locale, conduce alla selezione di un modello ritenuto “vincente” di
sviluppo e quindi si trova a imporre scelte sovradeterminate. Per riferirsi agli esempi
precedenti, i territori non competono tra loro in senso stretto e le città non sono mai veramente
attori collettivi: si tratta di narrazioni e rappresentazioni strumentali a specifiche visioni del
mondo, al servizio di precisi interessi egemonici sul politico-economico. In tal senso, gli studi
di geografia politica critica offrono indicazioni utili all’analisi delle narrazioni, delle
rappresentazioni e delle metafore, sia “scientifiche” sia “popolari”, che fanno emergere
l’inconscio politico presente in ciò che appare altrimenti oggettivo e naturalmente dato nei
comportamenti di entità territoriali “legittime” come stati nazionali, regioni e città. In una
prospettiva simile, la geografia critica ha indagato la crisi della “razionalità cartografica” in età
moderna e contemporanea, evidenziando i legami esistenti tra le rappresentazioni geografiche
convenzionali e le relazioni di potere a esse sottese in modo più o meno visibile o invisibile.
Gli spazi urbani e metropolitani, per il fascino e la forza di attrazione che esercitano
nell’immaginario collettivo, sono destinatari di una complessa e per molti aspetti controversa
“politica di traduzione” di immagini, simboli e rappresentazioni della vita associata, che
attinge a svariati linguaggi e codici culturali: mass-mediatici e giornalistici, cinematografici e
letterari, per citare quelli più conosciuti. Le pratiche discorsive e comunicative di
rappresentazione e traduzione della realtà urbana possono avere tipicamente l’effetto di
divisione e selezione degli spazi urbani, scomponendo il territorio di una città tra quartieri
ritenuti attraenti e altri che sono oggetto di stigmatizzazione. Il processo di rappresentazione
ha un forte potere di condizionamento non solo sul governo urbano, ma anche sulle condotte
messe in campo dagli attori privati: per esempio, una ormai consolidata tradizione di studi
sulle discriminazioni nel mercato immobiliare negli Stati Uniti e altrove ha mostrato come le
banche e gli altri istituti finanziari, nel concedere mutui ipotecari per l’acquisto di una casa,
tendano a distinguere attentamente, sulla base delle rappresentazioni socialmente accettate
delle diverse aree urbane, tra i quartieri etichettati come off limits (per i quali vengono perlopiù
negati i mutui o concessi a condizioni penalizzanti) e quelli ritenuti economicamente appetibili.
In altre parole, le rappresentazioni hanno il potere “performativo” di creare specifici oggetti
discorsivi e al tempo stesso possono contribuire, più o meno volontariamente, a riprodurre e
ampliare le condizioni di svantaggio strutturale che caratterizzano alcuni quartieri e gruppi
sociali nelle città e metropoli contemporanee.
1.2. La politica come governo
La politica della rappresentazione, quella perlomeno “ufficiale” o “legittima” di una città, di
uno spazio urbano o di una regione metropolitana, è intimamente legata alla sfera e
all’esercizio pratico del governo. In quest’ottica, la politica dello spazio si trova a essere
alimentata dalle “tecnologie” politiche e dagli “strumenti” di governo cui le amministrazioni
centrali e locali attingono per migliorare la funzionalità e il benessere di una comunità urbana.
Il governo del territorio e dello spazio mobilita, infatti, conoscenze tecnico-scientifiche (studi
commissionati a esperti e consulenti di vario tipo, indagini statistiche) e strumenti operativi
(politiche pubbliche, piani e programmi di pianificazione del territorio, processi di
consultazione degli attori coinvolti) che rendono possibile dispiegare gli effetti di una certa
“razionalità governamentale”, come definita da Michel Foucault, nell’intento di adattare le
condotte degli individui e della popolazione nel suo complesso ai propositi definiti dalle azioni
di governo. La combinazione e realizzazione di tali procedure e pratiche politicoamministrative, conoscitive e di ordinamento morale dei comportamenti sociali e istituzionali
danno forma alla “politica dello spazio come governo”.
L’approccio all’analisi della “politica come governo” appena tratteggiato si ispira alle
riflessioni sulla “analitica del potere” proposte originariamente da Foucault e rielaborate da
coloro che sulla sua scia hanno ripreso e sviluppato l’importante tema della
“governamentalità”, a partire dal sociologo britannico Nikolas Rose, o hanno approfondito la
sua visione relazionale dell’esercizio del potere in un’ottica spaziale e territoriale. Grazie a
Foucault e ai contributi “neofoucaultiani”, oggi vi è consapevolezza di come il potere si sviluppi
e sia esercitato tramite una moltitudine di agenti e di meccanismi istituzionali non
necessariamente riconducibili alla sfera della pubblica amministrazione e dei poteri legittimi.
Anche lo stato, secondo tale visione, non deve essere visto come un’entità uniforme e
monolitica, ma come una costellazione mobile di istituzioni, agenti e gruppi. La nozione di
“governamentalità”, in quest’ottica, è giunta a costituire un contenitore fondamentale delle
riflessioni contemporanee sull’esercizio del potere e dell’arte di governo: in particolare, essa
è utilizzata per analizzare il processo politico e istituzionale che fa sì che una certa entità
sociale o spaziale diventi destinataria di un’attività sistematica di governo, con la conseguente
mobilitazione di tecniche di intervento, strumenti operativi, procedure amministrative e
repertori discorsivo-ideologici.
La pratica di governo non consiste dunque soltanto nell’esecuzione di leggi e altre
disposizioni normative, ma si serve di specifiche modalità (ossia di saperi, tecniche,
procedure) nel presentare le disfunzioni economiche e sociali, nell’interagire con la
popolazione e gli attori pubblici e privati, nel prospettare le condizioni di progresso collettivo e
la risoluzione dei problemi che affliggono la società. Tale prospettiva di analisi si addice
particolarmente al funzionamento delle società contemporanee. Secondo vari autori e autrici,
tra i quali spicca appunto Nikolas Rose, una caratteristica della globalizzazione e delle società
di “liberalismo avanzato” consiste nell’affermarsi di una nuova anatomia del potere che segna
la crisi delle forme consuete di rappresentanza politica e di costruzione del legame sociale (la
coscienza di classe, la fornitura esclusiva dei servizi alla collettività da parte della pubblica
amministrazione) e impone una responsabilizzazione sempre più marcata delle comunità
locali nella risoluzione dei problemi individuali e nel miglioramento della condizione
individuale e collettiva.
Ad esempio, le politiche economiche e sociali che pongono enfasi sulla valorizzazione del
“capitale umano” come ricetta per lo sviluppo dei quartieri e dei gruppi sociali disagiati,
tramite un accesso “selettivo” e “meritocratico” all’istruzione superiore, presuppongono una
visione responsabilizzante e competitiva degli individui nelle società contemporanee. Proprio
Michel Foucault individuò con grande tempismo, già alla fine degli anni Settanta, nell’idea di
“capitale umano” il tratto distintivo delle allora emergenti forme neoliberali di governo della
società. La visione neoliberale trova espressione nel lavoro influente di un economista urbano
contemporaneo come Edward Glaeser (2012) che nel suo bestseller Il trionfo della
città raccomanda ai governi di “aiutare le persone povere”, investendo nel loro “capitale
umano” (per esempio creando istituti per la formazione tecnico-scientifica o fornendo voucher
per corsi professionalizzanti), anziché impiegare risorse (sperperarle, nella sua ottica) per
rivitalizzare, tramite investimenti infrastrutturali o produttivi, spazi urbani che si trovano in
situazioni di declino strutturale, come Detroit o New Orleans nella sua analisi, a suo modo di
vedere, di fatto irrecuperabili. Queste concezioni sono all’origine delle politiche urbane oggi
dominanti che insistono sulla capacità di attrazione da parte delle città di persone in possesso
di elevate competenze tecnologiche, professionali e creative. Politiche di questo tipo sono
divenute un mantra applicato a tutte le città, a dispetto della loro collocazione economicopolitica nella geografia economica contemporanea, dunque indipendentemente dalla loro
effettiva capacità di sviluppare industrie creative o imprenditorialità tecnologica. Inoltre, come
già accennato, tali indirizzi di politica urbana sono all’origine dei processi di gentrification e
della più ampia crisi abitativa che affligge le città e metropoli contemporanee, contrariamente
a quanto sostengono gli economisti urbani mainstream che invece attribuiscono il problema
della scarsità di alloggi a prezzi accessibili a strozzature del mercato causate dalle politiche
restrittive di sviluppo residenziale imposte da misure di controllo delle rendite urbane (per
esempio, i calmieri degli affitti) o da obiettivi ecologisti di riduzione del consumo di suolo.
Le città e le metropoli contemporanee riflettono in modo efficace l’affermarsi di una
“razionalità governamentale” come quella appena descritta: esse, infatti, sono chiamate a
costituirsi come attori collettivi e in quanto tali a responsabilizzarsi rispetto agli obiettivi
convenzionali di crescita economica (ossia di incremento del prodotto interno lordo),
adottando comportamenti “imprenditoriali” di competizione e cooperazione con altre città a
livello nazionale e internazionale e mettendo in campo a tale scopo strategie di rigenerazione
urbana e attrazione di “capitale umano” e investimenti esteri e ogni altra iniziativa progettuale
tesa a rafforzare il proprio posizionamento materiale e immaginario nello spazio delle relazioni
economiche e culturali globali.
1.3. La politica come contestazione
A differenza di Foucault e degli autori e autrici che si richiamano al suo insegnamento, secondo
il filosofo francese Jacques Rancière (1995, 1998), la politica non ha a che vedere con
l’esercizio del potere, che rimane un’attività prima di tutto mentale. Rancière piuttosto invita a
distinguere tra la “polizia” (la police) e la “politica” (la politique): la prima si riferisce allo sforzo
di preservazione di un ordine sociale prestabilito e alla posizione “naturalmente” assegnata a
ciascun membro della comunità in tal quadro, secondo un criterio di ripartizione razionale
dello spazio di opportunità; la politica propriamente detta è invece il processo di contestazione
dell’ordine definito dalla “polizia”, di per sé controverso e dunque modificabile, condotto in
nome dell’eguaglianza e della risoluzione di una situazione di ingiustizia sociale di cui è vittima
una parte più o meno ampia della collettività. Secondo Rancière, la politica non è dunque da
identificarsi con l’insieme di relazioni di potere descritto da Foucault, bensì con lo spazio
comune creato dalla contestazione dell’ordine definito dalla “polizia”, ossia attribuibile al
sistema di governo vigente. L’ordine costituito dalla “polizia” corrisponde quindi a un
“contenitore organizzato” che assegna ai diversi membri della comunità il posto che compete
loro, in modo che possano essere governati. La “politica come contestazione” mette in
discussione questa disposizione fisica e relazionale, in nome dell’eguaglianza e del
pronunciamento democratico da parte di coloro che subiscono un’ingiustizia sociale, ossia un
“torto”. Dalla contestazione dell’ordine costituito può scaturire una “geografia minore” fatta
di pratiche socio-spaziali e rivendicazioni visibili e invisibili, potenzialmente maggioritaria ed
espressione di un progetto più o meno implicito di democrazia “assoluta”.
La prospettiva qui delineata si distingue dalle precedenti per il fatto di reintegrare la
dimensione egualitaria ed emancipatoria nella riflessione sulle forme della politica urbana,
quest’ultima altrimenti ridotta a mero esercizio di capacità di rappresentazione e riproduzione
dell’immaginario dominante (la “politica come rappresentazione”) o di amministrazione
dell’esistente (la “politica come governo”). Essa inoltre segna anche una differenza
sostanziale rispetto alle interpretazioni più consuete dei movimenti di protesta e mobilitazione
collettiva: ritiene, infatti, che i fenomeni di contestazione non sorgano soltanto allo scopo di
rivendicare identità specifiche, come affermano i teorici post-moderni (a partire da Manuel
Castells, 1997), né solo per rivendicare l’accesso ai servizi negati (casa, assistenza sanitaria,
istruzione ecc.), come voleva l’analisi “funzionalista” dei movimenti sociali, ma anche per
affermare il “diritto alla città”, più ampiamente inteso, di minoranze e gruppi subalterni nella
sfera pubblica e a partire da essa per ricostruire su basi democratiche e paritarie l’ordine
politico. In quest’ottica, lo spazio di contestazione smette di apparire come una nicchia o
un’eccezione, come nelle rappresentazioni convenzionali che ne danno mass media e poteri
costituiti, in quanto promosso da settori marginali e per lo più invisibili della società: il
proletariato giovanile arrabbiato delle periferie urbane, le popolazioni immigrate straniere
escluse dai diritti di cittadinanza, studenti e studentesse di paesi autoritari che dissentono dai
regimi che opprimono la libertà politica e culturale, lavoratrici e lavoratori senza tutele che
manifestano nelle strade delle città. Lo spazio di contestazione assume, piuttosto, una
valenza costituente e fondativa di un “nuovo inizio”, nel quale ricevono accoglienza le
rivendicazioni di emancipazione espresse dai gruppi subalterni della città capitalistica
contemporanea. In tal senso, esso esemplifica una determinazione qualitativa della politica
urbana in tutto alternativa a quella delineata dalla “politica come governo”, che da parte sua
si sviluppa intorno all’obiettivo di migliorare le relazioni tra governanti e governati nella cornice
dell’ordine politico-spaziale esistente. Nei confronti della “politica come rappresentazione”,
lo spazio di contestazione esprime invece una posizione variabile a seconda delle circostanze
e degli obiettivi che si danno di volta in volta: come si vedrà, infatti, i movimenti “dal basso”
alternano la denuncia e il rifiuto delle rappresentazioni dominanti della realtà con pratiche e
controstrategie comunicative ed espressive, più o meno organizzate o spontanee, di
testimonianza e affermazione della propria presenza nel campo urbano.
2. Struttura del libro
Il libro è suddiviso sulla base della tripartizione delle accezioni di politica urbana appena
presentata. Prende dunque le mosse dalla “politica come rappresentazione”, a partire dal
seguente interrogativo: quali sono le visioni, le immagini e le narrazioni mobilitate allo scopo
di offrire una rappresentazione della città capace di conferire slancio ai processi di sviluppo
urbano? Il primo capitolo affronta tale tema ripercorrendo il recente succedersi di immaginari
urbani dominanti: dalla città post-fordista e post-moderna a quella globale e imprenditoriale,
fino al discorso sulla smart city. Il secondo capitolo entra nel vivo di una delle retoriche di
maggior successo tra policy maker e amministratori locali contemporanei: il discorso sulla
“città creativa” e sull’uso della cultura come leva di rigenerazione urbana. Come si vedrà nel
corso del testo, le rappresentazioni urbane operano da espedienti discorsivi da cui traggono
ispirazione e legittimità i progetti messi in campo dalle élite politico-economiche, le direzioni
di sviluppo di una città, il modo di individuare e gestire priorità e problemi di governo locale, e
in tal senso costituiscono un ottimo punto di partenza per l’analisi e la decostruzione della
politica urbana.
La seconda parte del libro si sofferma sulla dimensione della “politica come governo”. In
particolare, il terzo capitolo ricostruisce l’ascesa e la recente crisi del modello neoliberale di
governo dello sviluppo urbano, con l’enfasi da esso posta sull’imperativo della crescita e sulla
necessità per le città di agire come “attori collettivi” in grado di competere nello spazio
economico e politico della globalizzazione. Il quarto capitolo esplora la dimensione più oscura
e inquietante del governo urbano di segno neoliberale: la militarizzazione degli spazi urbani, la
produzione e regolamentazione della violenza e in generale la politica di “difesa” della città dai
“nemici esterni” della civiltà urbana, siano essi il crimine, le forme più estreme di devianza
sociale o le minacce di attentati terroristici.
La terza parte, la “politica come contestazione”, vuole infine dare senso a ciò che può essere
considerato il rovescio della “politica come governo”, ossia la politica urbana condotta in
nome della democrazia, dell’uguaglianza e del riconoscimento, che ha come protagonisti
movimenti sociali e gruppi minoritari, impegnati in questo modo ad affermare la propria
presenza nel campo urbano. Il quinto capitolo rivisita una tematica classica degli studi critici
urbani: quella delle lotte per la giustizia sociale e spaziale, in riferimento ai conflitti che si
sviluppano intorno alla rigenerazione dei quartieri popolari nelle città e metropoli
capitalistiche, alla rivendicazione di una politica ridistributiva alternativa a quella neoliberale
incentrata sull’imperativo della crescita, alla denuncia del legame tra fenomeni di degrado
ambientale e diseguaglianze sociali e territoriali alla scala urbana e planetaria. Il sesto
capitolo, infine, esplora il variegato universo di politica urbana che si origina dalle
rivendicazioni e dalle pratiche sociali messe in campo da gruppi svantaggiati o discriminati per
appartenenza e posizionamento sociale, per i quali la cittadinanza urbana costituisce il terreno
possibile di emancipazione e riconoscimento dei propri diritti.
I temi affrontati compongono una prospettiva di studio della politica urbana inevitabilmente
parziale. Una rassegna completa sarebbe d’altro canto impossibile, in quanto in linea di
principio qualsivoglia tematica può essere analizzata dal punto di vista della politica che si
sviluppa alla scala urbana intorno all’affermazione o alla negoziazione di interessi materiali, di
immaginari geografici e di discorsi pubblici e alle relative implicazioni socio-spaziali.
Soprattutto la sfera della vita quotidiana evidenzia tematiche che possono essere interpretate
da tale prospettiva: da quelle che investono le relazioni degli individui e delle comunità urbane
con la “natura”, o con le tecnologie, a quelle che chiamano in causa le condotte sociali e le
relazioni di potere che scaturiscono dalle nostre azioni più ricorrenti e apparentemente banali
quando ci alimentiamo, trascorriamo il tempo libero o perfino quando riposiamo. Questo libro
non affronta che lateralmente la dimensione “micropolitica” dell’agire quotidiano, che pure
oggi attira l’interesse di coloro che abbracciano una visione della politica “espansiva”,
pluralistica e inclusiva, attenta, appunto, alle “piccole cose” della vita di ogni giorno e ai
rapporti tra gruppi umani, tecnologie ed entità ambientali, nonché alle geografie di animali,
piante, oggetti inanimati, codici digitali o atmosfere, virus e batteri, con lo scopo di produrre
geografie sociali e politiche meno antropocentriche. Il libro, piuttosto, introduce aspetti di
politica urbana che vedono protagonisti individui e gruppi sociali in qualche misura organizzati
e visibili nella sfera pubblica urbana (o che scelgono deliberatamente di rimanere invisibili e
disorganizzati): gli “attori”, per utilizzare un termine diffuso nelle scienze sociali.
Nella consapevolezza del carattere necessariamente selettivo della rassegna offerta,
l’obiettivo di fondo del volume è presentare alcuni strumenti concettuali di analisi del
fenomeno urbano che possano invogliare a un esercizio costante di “decostruzione creativa”
delle diverse realtà urbane di cui si trova ad avere esperienza. In un contesto storico-culturale
che tende a presentare i fenomeni politici ed economici come “naturali” e “inevitabili” – dalla
competizione urbana alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’occidentalizzazione delle
forme dell’urbanizzazione all’imprenditorializzazione dei comportamenti sociali – può risultare
un esercizio meno prevedibile nei suoi esiti di quanto potrebbe apparire a prima vista.