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L’OLIMPICA XII DI PINDARO E LA HESYCHIA
di Luigi Venezia
Ti supplico, figlia di Zeus Eleutherios,
custodisci Imera potente, o Tyche salvatrice.
Da te infatti sono pilotate in mare le veloci
navi, e per terra le guerre impetuose
e le assemblee portatrici di deliberazioni. Ma degli uomini
in su spesso, e in giù
rotolano, solcando vane illusioni, le speranze.
Nessuno mai dei mortali un segno
certo di ciò che accadrà scoprì dal dio
e la cognizione del futuro è del tutto spenta;
molte cose accadono contro l’aspettativa degli uomini,
all’opposto della gioia, e altri, che in penose
tempeste si sono imbattuti,
in una profonda felicità cambiano il dolore in breve tempo.
Figlio di Filanore, certo anche per te
come un gallo da combattimenti domestici presso il focolare avito
spogliato di gloria il tuo onore avrebbe sparso le foglie ai tuoi piedi,
se una discordia tra uomo e uomo non ti avesse privato della patria Cnosso.
Ma ora, incoronato a Olimpia
e due volte a Pito e all’Istmo, Ergotele,
esalti i tiepidi lavacri delle Ninfe e ti trattieni
presso poderi che ti appartengono.
L’Olimpica XII è un’ode particolare: molto breve (si compone di una
sola triade strofe, antistrofe ed epodo), priva di exempla mitici, offre
un’inusuale densità di tratti chiaroscurali, dove gli elementi negativi sono
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tanto intensamente evocati da sembrare prevalere sui motivi di gioia legati al vincitore. Questi, Ergotele, figlio di Filanore, era un cittadino di
Imera, originario però di Cnosso, da cui era esule in seguito a disordini
interni: nel presente vengono celebrate alcune sue vittorie nel d’licoj ,
la corsa lunga. Non si potrebbe dunque parlare di “Olimpica” stricto sensu:
la vittoria a Olimpia, che spinse Aristofane di Bisanzio a classificare il
componimento tra le Olimpiche, è la prima a essere menzionata, ma è con
ogni probabilità la seconda vittoria delfica di Ergotele a fornire l’immediata
occasione dell’ode. Al termine della sua carriera di corridore, egli avrà riportato due vittorie a Olimpia e altrettante ai giochi pitici, istmici e nemei, come si evince da un passo di Pausania1 che si basa sul nostro carme
e sull’iscrizione posta ai piedi della statua che Ergotele si meritò coi suoi
successi2. Quando l’Olimpica XII venne composta ed eseguita, la seconda
corona olimpica non era ancora stata conquistata (la prima risale al 472):
la data tradizionalmente accettata del 470 la collocherebbe all’indomani
della caduta della tirannide agrigentina di Trasideo, che teneva Imera duramente soggiogata. Ben si spiegherebbe così il riferimento a Zeus Eleutherios compreso nella strofe. Ma Barrett3 ha suggerito, con buone ragioni,
di abbassare la data al 466, a seguito della sconfitta del tiranno siracusano
Trasibulo per mano dei rivoluzionari interni appoggiati dagli abitanti di
Gela, Agrigento, Selinunte, Imera e altre città della Sicilia4. Per celebrare
la restaurata democrazia, i Siracusani innalzarono una statua a Zeus
Eleutherios5.
Quale delle due date si scelga, è evidente che Imera stava vivendo un
periodo particolarmente tormentato, con alterni momenti di sottomissione e libertà6. Più che motivata è quindi l’invocazione a Tyche, che governa sulle guerre e le assemblee, affinché protegga la città e ne consolidi
l’indipendenza. Le vicende storiche di Imera e della Sicilia, così come
l’esperienza comune di ogni uomo di qualsiasi epoca, insegnano però che
la Sorte presenta in successione del tutto imprevedibile ora il suo volto
1
Paus. VI 4, 11.
Dell’iscrizione (SEG XI 1223a) si conserva oggi solo la parte sinistra.
3 BARRETT 1973.
4 Diod. Sic. XI 68, 1-2.
5 Diod. Sic. XI 72, 2.
6 Non è mia intenzione, in questa sede, trattare approfonditamente delle circostanze
storiche del carme, per le quali si rimanda al dettagliato articolo di BARRETT 1973.
2
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benigno, ora la sua espressione più crudele. E questo continuo progredire
e indietreggiare sgomenta gli uomini, le cui attese e speranze si sgretolano davanti alla più completa incertezza del futuro. Tali cupe riflessioni
occupano gran parte della strofe e dell’antistrofe, al centro della quale
spicca il verso desolante tÒn d° mell’ntwn tet›flwntai fradaà ,
«la cognizione del futuro è del tutto spenta». Il tono stride con l’occasione
festosa e celebrativa del carme, ma il poeta si affretta a spiegare che talune volte la salvezza e la gioia giungono proprio nei momenti di massimo sconforto. E un esempio splendido è offerto da Ergotele, costretto
all’esilio dalle lotte intestine in corso nella sua patria Cnosso: dopo avere
perso tutto, giunse a Imera, che generosamente lo accolse tra i suoi cittadini7 ed egli la ricambiò procurandole gloria con le sue vittorie8. Anzi,
Pindaro ci dice che la sua cacciata e l’approdo a Imera erano indispensabili perché il valore di Ergotele ottenesse il meritato riconoscimento che
le gare entro gli angusti confini cretesi non gli avrebbero potuto garantire. Tyche ha mostrato la propria benevolenza tanto a Ergotele quanto
alla sua patria adottiva e a buon diritto viene apostrofata come «salvatrice» già al v. 2. Becker9 vide nell’ode una sorta di inno a Tyche e Böckh10
immaginò che il canto fosse eseguito in suo onore; Wilamowitz11 rilevò
invece che una tale dea ancora non esisteva ai tempi di Pindaro. Ma ha
probabilmente ragione Nisetich12 quando afferma che «dal punto di vista dello stile, se non da quello della storia delle religioni, Tyche è una
dea»: lo dichiarano l’apostrofe, la genealogia, la preghiera e l’indicazione
della sua sfera d’azione13. Anzi, si potrebbe aggiungere che Tyche si com-
7 BARRETT 1973, p. 24, suggerisce che ciò sia avvenuto nel 476/5, quando Terone,
avendo messo a morte molti Imeresi, volle ripopolare la città conquistata con la politogrßfhsij di stranieri (prevalentemente Dori, ma chiunque l’avesse desiderato poteva
diventare allora cittadino di Imera: cfr. Diod. Sic. XI 49, 3).
8 Cfr. DEMONT 1990, p. 55: «la victoire rejaillit sur la collectivité […] et les festins heureux garantissent l’ordre social». A Pindaro è dedicato il capitolo Pindare et
l’idéalisation de la tranquillité, pp. 53-85.
9 BECKER 1940, p. 40.
10 BÖCKH 1821, p. 209.
11 WILAMOWITZ 1922, p. 306.
12 NISETICH 1977, p. 238.
13 PÉRON 1974, p. 131, ritiene Pindaro incapace di concepire idee astratte: per questo ricorre volentieri alla divinizzazione di nozioni come Giustizia, Virtù ecc., dotandole di una realtà, di uno spessore quasi umani.
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porta qui come la Provvidenza cristiana, in quanto non si limita a trasformare il male in bene, ma addirittura si serve del male per sortirne un
effetto positivo.
Tyche domina quindi l’ode14 come domina il mondo: nella strofe si
dà conto del suo sconfinato raggio d’azione, nell’antistrofe si confronta il
suo potere con la cecità e la debolezza dell’uomo, le cui speranze e attese
essa può capovolgere con facilità e in un tempo brevissimo; nell’epodo infine Tyche interviene a favore di Ergotele trasformando la sua condizione
da misera in beata. Come si è già visto, però, sia Ergotele che Imera, prima
di giungere al sereno approdo che ci si augura definitivo (in tal senso va
intesa la preghiera espressa ai vv. 1-2), hanno conosciuto l’altra faccia della
sorte. Del resto non a tutti è concesso di ottenere senza sforzo vittorie e
felicità, come accade all’egineta Aristomene, cui è dedicata la Pitica VIII15:
ciò non dipende dagli uomini, ma dagli dèi. Ed essi hanno voluto mettere alla prova sia Imera che Ergotele, i quali hanno infine trionfato in
virtù dei loro sforzi, oltre che del favore divino, senza il quale l’uomo non
può sperare di ottenere nulla16.
Siccome le caratteristiche principali di Tyche sono la mutevolezza e
l’instabilità, nessun’immagine avrebbe meglio potuto rappresentarla
dell’acqua, che infatti compare in tutte le parti dell’ode17: nella strofe
sono le navi a essere pilotate in mare da Tyche (significativo è l’uso del
passivo kubernÒntai ), mentre le speranze umane vanno su e giù (poll>
©nw, ta d> a kßtw ) – oppure avanti e indietro18 – come legni in balìa
delle onde. Nell’antistrofe l’elemento marino è ancora minaccioso e le
sventure umane sono dette «penose tempeste» (¶niaraéj … zßlaij );
infine nell’epodo l’acqua è quella tranquillizzante e benefica delle terme
di Imera. Non è difficile individuare, col Péron19, la tradizionale metafora
del dio-timoniere, guida in un viaggio pericoloso: «la nave di Ergotele
diventa il vascello delle speranze umane e il viaggio d’esilio la traversata
della vita»20. In quest’ottica si potrebbe intendere meglio anche
14
Cf. GERBER 1970, p. 384.
Vd. in particolare il v. 73.
16 NISETICH 1977, p. 261: «she [Himera] and her son have triumphed in the end
because of their efforts and because of divine favour».
17 Del resto Tyche era una ninfa marina, figlia di Oceano e Teti, in Hes. Theog. 360.
18 Così interpreta VERDENIUS 1973, p. 335.
19 PÉRON 1974, pp. 121-137.
20 Ivi, p. 127.
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l’appellativo sÎteira del v. 2: oltre che epiteto “ereditato” dal padre e
più che richiamo a un atteggiamento politico conservatore21, vi si può
leggere la caratterizzazione del buon pilota: «sˆzein e i termini della
stessa radice sono in greco frequentemente connessi con l’immagine del
pilota», continua Péron22, che riporta alcuni esempi, soprattutto da Platone23; e in un passo di Eschilo24 Tyche compare esplicitamente al timone
della nave di Agamennone, miracolosamente salvata dall’intervento divino. Ma al di là del valore metaforico delle immagini, il mare è strettamente connesso con Ergotele, che per mare ha viaggiato da Creta alla Sicilia e di qui in Grecia dove ha ripetutamente trionfato ai giochi, e con
la stessa Imera, città marittima, di commercio e che con la sua flotta aveva
sconfitto i Cartaginesi e con ogni probabilità aiutato i Siracusani a restaurare la democrazia25.
L’attenzione del lettore, però, si concentra soprattutto sulle immagini
contenute nell’epodo: Pindaro spiega che se non fosse stato per le discordie civili che l’hanno costretto all’esilio, Ergotele sarebbe stato come un
gallo che combatte nel pollaio e il suo valore sarebbe caduto ai suoi piedi
come le foglie appassite di un albero. Molti commentatori sono rimasti
stupiti dell’accostamento di due immagini apparentemente incongrue tra
loro. Per Bowra26 la caduta della foglie significherebbe che Ergotele sarebbe invecchiato senza vincere molto, mentre nel gallo sarebbe esemplificata la scarsa fama dei successi che avrebbe ottenuto. Gildersleeve27
commenta che la timß diviene un fiore. Verdenius28 individua in katefullor’hse un esempio della metafora, comune in Pindaro, del fiorire
nella poesia delle imprese del vincitore. Spetta a Borthwick29 il merito di
21 Cf. JANNI 1965, pp. 107 ss.; anche VERDENIUS 1973, p. 333, nota il significato
politico dell’epiteto.
22 Ibidem.
23 Plat. Gorg. 511e, Pol. 296e, Leg. 961e.
24 Aeschyl. Ag. 663-664, qe’j tij, o‹k ©nqrwpoj, oäakoj qigÎn. | t›ch d° swt¬r
na„n qûlous> ùfûzeto .
25 Cf. PÉRON 1974, p. 124; BARRETT 1973, p. 29; vd. Diod. Sic. XI 68.
26 BOWRA 1964, p. 270.
27 GILDERSLEEVE 1890, p. 226.
28 VERDENIUS 1973, pp. 339-340: «the point of the metaphor is based on the comparison of the victor’s fame celebrated in a poem with a plant fostered by water».
29 BORTHWICK 1976, p. 198: «these images are not entirely disparate […] the comparison to a household cock, whose success and reputation are confined, as we say, “to
its own dunghill”, itself prepares the way for an ambiguous use of katefullor’hsen ».
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aver gettato luce sull’interconnessione di queste metafore. Da un passo di
Aristotele30 pare di evincere che il verbo fullorroûw possa essere usato
sia per la caduta delle foglie sia per la muta delle piume degli uccelli.
L’ambivalenza semantica scomparirebbe qualora si accetti il suggerimento
di Bekker, che integra, al termine del brano in questione, il verbo pterorrueén , che designa propriamente la caduta delle piume. Aristotele
comunque riconosce una certa corrispondenza tra i due fenomeni31. E in
ogni caso, prosegue Borthwick, l’eventuale impiego di fullorroûw in
luogo del più letterale pterorruûw potrebbe anche essere un gioco del
poeta, che ribalta le espressioni pter™ nàkhj (Pyth. IX 125) e kudàmwn
¶ûqlwn pteroési (Ol. XIV 24), dove pterß = f›lla . Burton32 vide
in pter™ nàkhj un’associazione alla pratica della fullobolàa , mentre
nell’epinicio per Ergotele il richiamo sembra capovolto: come i vincitori
venivano festeggiati con il lancio di foglie, così Ergotele a Cnosso rischiava
di vedere cadere ai suoi piedi solo i simboli avvizziti del suo valore.
L’immagine delle foglie è dunque collegata a quella del gallo, che essa
però arricchisce e completa. A proposito di quest’ultima, è curioso come
il richiamo più immediato sia sfuggito alla grande maggioranza dei commentatori, contenti forse della spiegazione logica già fornita dagli scolî33.
Non v’è dubbio che se Ergotele fosse rimasto a gareggiare entro gli angusti confini della sua isola non avrebbe potuto ambire alle vittorie ai giochi panellenici e ai supremi onori che avrebbe meritato. Ma oltre al significato letterale, l’immagine del gallo che combatte nel pollaio non può
non leggersi come allusione alla guerra civile che ha cambiato l’esistenza
di Ergotele. Illuminante è il confronto con Aeschyl. Eum. 861-86634, in
30 Arist. De gen. anim. 783b 13-18: kat™ mûroj m°n g™r ¶porreé kaã t™ f›lla
toéj futoéj p≠si kaã t™ pter™ kaã aÜ tràcej toéj †cousin, ÷tan d> ¶qr’on
gûnhtai tÿ pßqoj lambßnei t™j eárhmûnaj ùpwnumàaj: falakro„sqaà te g™r lûgetai kaã fullorroeén <kaã pterorrueén > suppl. Bekker.
31 Arist. Hist. anim. 564b 1-2: pterorrueé d> ®ma toéj prÎtoij tÒn dûndrwn
kaã ©rcetai aÂqij ¶polambßnein t¬n ptûrwsin ®ma t– to›twn blastøsei .
32
33
BURTON 1962, p. 59.
Cfr. Schol. in Ol. XII 14, p. 354, 6-10 Dr.: kaã
Ω s¬ tim¬ ¶kle¬j ¨n ùgûneto
kaã ¶pemarßnqh ¨n kaã ¶pÎleto Ω t≈j ‘x›tht’j sou tÒn podÒn d’xa, eä per
ùn t– tÒn prog’nwn sou ústàv parûmeinaj ùkeé m’non ¶gwniz’menoj Èj eä tij
¶lûktwr ùnoikàdioj toéj †ndon ◊rnisi mac’menoj …
34 møt>, †ùxelo„s> † Èj kardàan ¶lekt’rwn, | ùn toéj ùmoéj ¶stoésin Üdr›sVj
ÇArh | ùmf›li’n te kaã prÿj ¶llølouj qras›n. | quraéoj †stw p’lemoj, o‹
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cui Atena invita le Erinni a non tormentare la sua città con la guerra civile, che sta a cuore ai galli. Vengano pure gli Ateniesi messi alla prova
dalla guerra esterna, ma non si riducano a lotte tra uccelli domestici! Lo
scolio al passo ricorda che il gallo è un uccello combattivo e, unico tra
tutti gli animali, non si astiene dal colpire i suoi simili35. Anche Ergotele poteva diventare un ùndomßcaj ¶lûktwr e lasciarsi avviluppare
dalle spire della lotta intestina, ma l’intervento di Tyche l’ha salvato. Per
quale motivo egli sia stato favorito da Tyche non è detto, ma v’è motivo
di credere che la sua virtù l’abbia reso caro agli dèi; Ergotele probabilmente odiava le discordie di cui risultò vittima. L’azione di Tyche per Pindaro non è un cieco imperversare della sorte sulle vicende umane: Tyche
è figlia di Zeus e, come il padre, assicura la giustizia secondo una trama
che l’uomo non è in grado di leggere36. È l’uomo ad essere cieco ed è la
sua incommensurabile debolezza a farlo soffrire alimentando speranze che
non hanno fondamento37.
Le potenzialità di questo passo non sembrano essere ancora esaurite:
Becker38 trovava in katefullor’hse un’eco delle famose parole di
Glauco nel sesto canto dell’Iliade. La caduta delle foglie sarebbe figura
della caducità degli uomini e della loro fama. Nisetich39 prosegue su questa linea e vede nel passo una variante del tema pindarico della poesia datrice di fama. Le imprese di Ergotele a Creta rischiavano di rimanere per
sempre sconosciute ai più e di passare senza lasciare traccia, come le foglie e le generazioni degli uomini. Ma egli poté godere del favore di Tyche e di quello di Pindaro, attraverso la cui arte le sue vittorie hanno ottenuto l’immortalità. La sua timß , che correva il pericolo di rimanere
¶kleøj , ha così conseguito il klûoj che le spettava40.
m’lij parÎn,
lûgw mßchn .
|
ùn
tij †stai deinÿj e‹kleàaj †rwj:
|
ùnoikàou d> ◊rniqoj o‹
35
Schol. in Aeschyl. Eum. 861, mßcimon g™r tÿ ◊rneon, tÒn te ©llwn zˆwn tÿ
suggen°j aádoumûnwn, m’noj o‹ feàdetai .
36 Cf. LLOYD-JONES 1971, p. 162: «what happened in the world depended ultimately upon the gods, and their purpose was usually inscrutable to human minds; that did
not mean that it was irrational, but that the reasons that governed it usually remained
mysterious».
37 Sulla dolorosa antitesi t›ca – ùlpàj insiste NISETICH 1977.
38 BECKER 1940, pp. 47-48.
39 NISETICH 1977, pp. 260-261.
40 Si ricorderà che già Verdenius ravvisava qui la metafora della poesia che fa fiorire le imprese degli atleti (vd. supra).
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Da quanto si è detto fin qui circa il ruolo di Tyche nell’epinicio per
Ergotele, si intenderà che ha certamente torto Kapsoménos41 allorché suggerisce di trasformare Tyche in Hesychia. Ma il suo intervento, bollato
come «un ingegnoso errore» (Péron42, Lehnus43), può considerarsi in un
certo senso diagnostico, poiché può condurre, a mio avviso, a una migliore
comprensione dell’ode stessa. Kapsoménos nota che nell’Olimpica XII a
Tyche sono attribuite le stesse prerogative di cui gode Hesychia all’inizio
della Pitica VIII: entrambe infatti sovrintendono alle guerre e ai consigli:
tãn g™r ùn p’ntJ kubernÒntai qoaà | n≠ej, ùn cûrsJ te laiyhroã p’lemoi | k¶goraã boulaf’roi Ol. XII 3-5, «da te infatti sono pilotate in mare le veloci navi, | e per terra le guerre impetuose | e le assemblee portatrici di deliberazioni»; boul≠n te kaã polûmwn | †coisa
klaë^ daj pertßtaj Pyth. VIII 3-4, «dei consigli e delle guerre | tieni
le chiavi supreme». In una inscriptio dell’Olimpica XII, che riassume alcune vicissitudini di Imera, si legge che il poeta si rivolge non a Tyche,
ma ad Eirene44. È vero che Eirene e Hesychia non sono la stessa cosa ed è
possibile che lo scoliaste sia stato indotto all’errore anche dalla presenza
di Eirene nella strofe della prima triade dell’Olimpica immediatamente
successiva, ma una svista del genere è significativa a livello interpretativo. A tutto l’epinicio per Ergotele è sotteso un desiderio di pace e tranquillità, evocato per contrasto dall’inquietudine del mare, delle navi veloci, delle mobili guerre, dalle tempeste e dalle discordie civili. Tale desiderio viene coronato proprio al termine dell’epodo, quando Ergotele, ormai plurivincitore, viene rappresentato mentre si gode serenamente i tiepidi bagni delle Ninfe e i propri poderi. Péron45 obietta che ogni menzione della discordia non deve necessariamente richiamare il personaggio
di Hesychia. Ma quest’ultima è molto presente nell’opera pindarica (tredici volte compaiono parole con radice Ωsuc - nelle opere superstiti e tre
volte Hesychia appare divinizzata) e in un suo iporchema compare esplicitamente contrapposta alla discordia: tÿ koin’n tij ¶stÒn ùn e‹dàv
| tiqeãj ùreunasßtw | megalßnoroj `Hsucàaj tÿ faidrÿn fßoj, |
41
KAPSOMÉNOS 1961.
PÉRON 1974, p. 125.
43 LEHNUS 2004, p. 190.
44 Cfr. inscr. b, p. 350, 1-2 Dr.:
42
diÿ prÿj t¬n Eárønhn ¶poteànetai ùn t¸
prooimàJ Èj aátàan genomûnhn t¸ nikhf’rJ t≈j nàkhj .
45
PÉRON 1974, p. 124.
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stßsin ¶pÿ prapàdoj ùpàkoton ¶nelÎn, | penàaj d’teiran,
ùcqr™n kourotr’fon (fr. 109 SN.): «volendo porre la comunità nella
tranquillità, si cerchi la splendida luce di Hesychia magnanima, scacciando dal cuore l’odiosa rivolta, datrice di povertà, nutrice di odio». In
un’ode come la nostra, così densa di contrasti, in cui al mare si accosta la
terraferma, alle guerre i consigli di pace, dove l’alto e il basso si succedono imprevedibilmente, come la gioia e il dolore, dove l’onore rischia
di rimanere privo di gloria (si noti la forza dell’espressione ossimorica
¶kle¬j timß ), l’accenno alla stßsij e alla sue nefaste conseguenze non
può che rimandare a quella serenità e a quella concordia che Ergotele avrà
ritrovato, grazie a Tyche, nella sua nuova patria.
Il termine Ωsucàa abbraccia in Pindaro più significati all’interno
della sfera della tranquillità. In Pyth. I 71 ha chiaramente il significato
politico di concordia, che abbiamo riscontrato nel frammento appena citato: qui l’augurio è che Ierone, una volta che Zeus ha liberato Etna dei
suoi nemici esterni, possa condurre il proprio popolo «alla calma concorde» (s›mfwnon ùj Ωsucàan ). Se l’eárønh è merito di un dio, spetta
al re stabilire la Ωsucàa tra i sudditi. Forse ha ragione Demont46 quando
dice, a proposito di questo passo, che «la tranquillità è un valore proposto ai grandi e ai ricchi, che lo devono interiorizzare, mentre al ‘popolo’
essa viene imposta». Certamente, la concordia è una faticosa conquista
degli uomini. In un peana composto per Abdera Pindaro elogia la città,
rammentando che «se qualcuno, per soccorrere gli amici, ne attacca con
durezza i nemici, la fatica opportunamente profusa porta la tranquillità»47
(fr. 52b, 31-34 SN.). Ma Ωsucàa può rivestire una valenza più personale
e rappresentare la calma che segue la fatica dell’atleta o dell’eroe (cfr. Nem.
I 69-70) o essere l’obiettivo di un personaggio come Damofilo, la cui causa
è perorata da Pindaro alla fine della Pitica IV: questi era un giovane aristocratico cireneo, che aveva partecipato a una sommossa contro la casa
regnante della sua città. Fallita la rivolta, era stato esiliato a Tebe. Ma durante l’esilio, sostiene Pindaro, aveva compreso il suo errore, si era pentito e desiderava solo tornare in patria e suonarvi la cetra «in tranquillità» (Ωsucàv qigûmen )48, senza nuocere ai concittadini e senza esserne
46
DEMONT 1990, p. 61.
47 eá dû tij ¶rkûwn fàloij
| ùcqroési trac‡j pantißzei, | m’cqoj Ωsucàan
| kair¸ katabaànwn .
48 Esula dagli intenti di questo intervento, ma è di grande interesse l’accostamento
fûrei
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danneggiato. Egli «ha imparato a odiare l’arrogante ( bràzonta ) e non
contende coi valenti»49. Similmente si comporta Hesychia in Pyth. VIII
8-12: «ma qualora qualcuno conficchi nel proprio cuore l’amaro rancore,
tu, affrontando con durezza il potere dei nemici, affondi l’insolenza
( brin )». La concordia, come il guerriero valoroso, è benigna verso gli
amici, ma esiziale con i nemici. E i nemici, nella prospettiva etica di Pindaro, sono gli empi, gli arroganti, coloro che non si accontentano di vivere tranquilli secondo il proprio destino, ma bramano ciò che non si deve,
o per malvagità personale o perché inorgogliti oltre i giusti limiti dai successi ottenuti. Desiderare la Ωsucàa per Damofilo significherà dunque
astenersi dall’arroganza, ma anche dalle tribolazioni esterne50. Così anche
Ergotele dovrà rimanere umile nonostante la sua stupefacente serie di successi, attenendosi alla Ωsucàa che è riuscito finalmente a conquistare con
l’aiuto di Tyche. La consapevolezza dell’impatto incontrollabile di
quest’ultima sulla vita dell’uomo impedirà a Ergotele di eccedere e di
macchiarsi di brij , ciò che gli attirerebbe il giusto castigo di Tyche e
Hesychia. E forse anche per tale motivo il poeta, in quest’ode, indugia
tanto a lungo sui toni cupi: se è vero, come dice Lehnus51, che alla fine
«resta il valore odierno della vittoria, il bene del giorno che supera il ricordo dolente del passato», questo ricordo deve mettere in guardia il celebrato dall’eccessiva confidenza in se stesso e nella sorte. Similmente si
conclude la Pitica VIII, ricordando quanto facilmente cresca e quanto altrettanto facilmente crolli la gioia dell’uomo, creatura d’un giorno, sogno
di un’ombra; ma il bagliore mandato da un dio rende dolce la vita52.
Se Ωsucàa , come s’è visto, trova ampio spazio nel momento della vitdella musica alla tranquillità e al buon governo (e‹nomàa , termine che presenta anche
valenza musicale): a proposito di Pyth. V 63-67 CINGANO 1990, p. 148, nota: «Pindaro
si sofferma sul potere del dio [scil. Apollo] di indurre nell’animo dei cittadini, attraverso la musica, la ¶p’lemon e‹nomàan (vv. 66-67), il buon ordine ‘alieno dalle discordie’, come è opportuno tradurre anche sulla base dello scolio, che parafrasa ¶p’lemoj
con ¶stasàastoj ». Il legame tra musica e tranquillità ritorna nello splendido inizio
della Pitica I (vv. 1-12) e in Bacchyl. XIV 12-16. Cfr. anche DICKIE 1984, p. 93: «the
music of the phorminx and Apollo then reflects the ordered restraint of hêsychia, while
these spirits in whom disorder and hybris rule find music abhorrent because it is at odds
with their nature».
49 Pyth. IV 284-285.
50 Cf. DICKIE 1984.
51 LEHNUS 1990, p. 187.
52 Pyth. VIII 92-100.
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toria, rappresentando tanto il riposo del vincitore, quanto la virtù di non
inorgoglirsi per il successo, essa gioca un ruolo particolare anche nel festeggiamento: Ωsucàa d° fileé m°n sump’sion (Nem. IX 48). Il banchetto, privo degli eccessi cui il vino può condurre53, è manifestazione
aperta della raggiunta serenità. «La tranquillità ottenuta dagli eroi o dagli atleti vincitori può associare al riposo che segue la prova una festa in
cui i compagni del vincitori sono uniti nel rispetto della giustizia, per
sempre»54. Non solo: «all’orizzonte della celebrazione di una vittoria ai
giochi, c’è la prospettiva della pace e della concordia civile»55.
I due volti, pubblico e privato, di Hesychia, pur senza essere nominati, vengono a mio avviso celebrati all’interno dell’Olimpica XII. Ergotele, sbalzato lontano dalla sua patria a causa del p≈ma della discordia civile, ottiene in breve (ùn mikr¸ … cr’nJ ) la gioia profonda (ùslÿn
baq› ) di una patria nuova, ora finalmente in pace e concorde. Anche Imera
è passata in poco tempo dalla disperazione della tirannide alla serenità
della libertà e offre al suo figlio d’adozione le condizioni ideali per una
vita felice e ricca di successi: la concordia è infatti prerequisito imprescindibile per l’affermazione di ogni singolo cittadino.
L’ode significativamente si conclude con un’immagine di profonda serenità: Ergotele si aggira per le terme sacre alle Ninfe e passeggia per i
poderi di sua proprietà. Fränkel56 segnala che il bagno nelle acque locali
era una sorta di rito che simboleggiava la definitiva accoglienza di un
nuovo colono in una città; ma non si può non vedere un legame tra la
Ωsucàa che segue la fatica e le proprietà lenitive e rilassanti delle acque
termali.
Pindaro sembra dunque proporre la Ωsucàa come rimedio ai mali
della vita: solo la città concorde può progredire e prosperare57 e solo chi
è sereno nei confronti di se stesso e del suo mondo riesce ad affermarsi. La
tranquillità appare lo scudo migliore per tenersi al riparo dall’inquieto
avvicendarsi degli eventi che Tyche guida in maniera imperscrutabile per
53 Anche l’ebbrezza è contraria alla hesychia e quindi una forma di hybris da cui guar-
darsi (cf. DICKIE 1984, pp. 88-90 e SLATER 1981, pp. 206-207).
54 DEMONT 1990, p. 57.
55 Ivi, p. 55.
56 FRÄNKEL 1968, pp. 97-99.
57 Hesychia è detta megist’polij in Pyth. VIII 2. Cfr. etiam Democr. 68 B 250
DK: ¶pÿ ”monoàhj t™ megßla †rga kaã taéj p’lesi to‡j polûmouj dunatÿn katergßzesqai, ©llwj d> o .
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Luigi Venezia
l’uomo, il quale trova nella tranquillità l’unico appiglio per non essere
spinto troppo in alto dalle circostanze positive o per non precipitare quando
le speranze cadono a terra avvizzite come le foglie in autunno. O come le
piume di un vecchio gallo ormai inetto al combattimento.
Le traduzioni dal greco e dalle altre lingue si devono all’autore del contributo.
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