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Maria Ma lanka-Soro
Il dramma della redenzione del mondo
nella
Divina Commedia
[CRA-INITS Research Paper 2006]
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Maria Ma lanka-Soro
Il dramma della redenzione del mondo
nella
Divina Commedia
Il tema della Redenzione del mondo è uno dei più alti nel
poema dantesco che, come sappiamo, è incentrato su una
concezione cristiana della storia e dell’umanità. Esso assume
una importanza particolare nella terza cantica (Canto VII),
ma si riveste di significati interessanti anche nelle altre due
cantiche, soprattutto nel Canto XII dell’Inferno e nei Canti
XXXII e XXXIII del Purgatorio. La presenza della
componente drammatica (= azione veicolante un conflitto)
nel modo in cui Dante affronta l’evento più sublime che
riguardi la storia del genere umano, si iscrive bene nella
visione cristiana della realtà, basata su uno scontro-fusione
degli opposti.
La contraddizione è un dato intrinseco del Creato, prima di
tutto dell’uomo in quanto essere dotato di ragione e di
volontà, costretto, dopo la cacciata dall’Eden, alla dolorosa
convivenza tra il Bene e il Male, ad un cammino faticoso
verso la salvezza, acccompagnato dalla tensione dialettica tra
entrambe queste forze, che porta in sé uno sviluppo positivo.
Il cristianesimo supera il dualismo classico tra il bene e il
male: gli antichi, infatti, non sono mai arrivati a risolvere in
maniera positiva il problema del male: p. es. nella tragedia
greca esiste una forte tendenza a spiegare razionalmente
l’esistenza del male nel mondo, ma non a superarlo;
_____________________
* Questo lavoro è frutto della mia partecipazione al Graduate Seminar on
Dante Hermeneutics nella Carla Rossi Academy - International Institute of Italian
Studies a Monsummano Terme (PT), diretto dal prof. Marino Alberto Balducci e
svoltosi nell’anno accademico 2005/2006. Più di una constatazione o riflessione
trae le sue fondamenta dalle discussioni ivi condotte.
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8
semplificando si può dire che il sistema filosofico degli
antichi è basato sul dualismo della materia e dello spirito, e
quello religioso su uno scontro delle forze del bene e del
male. Per i cristiani queste ultime, invece, non possono che
risolversi nelle prime, dal momento che il Bene Supremo,
Dio, creò il mondo in quanto buono1, ed è la sua causa e il
suo fine, il punto più luminoso dell’universo in cui “tutti li
tempi son presenti”2. Il male, apparso nel mondo con la colpa
dei primi uomini, è solo una deformazione e contaminazione
del bene originario e può essere eliminato correggendo e
purificando ciò che è stato corrotto. È inevitabile che questo
processo porti con sé una sofferenza, un dramma,
proporzionali alla lesione subita. La storia della Redenzione
ne costituisce l’esempio massimo.
Questo dramma è, però, un dramma con un finale lieto:
una tragedia trasformatasi nella commedia, secondo il
significato che la retorica medievale ha voluto assegnare ai
due termini e che Dante stesso adopera nella Epistola a
Cangrande nel tentativo di definire il suo poema3.
La Commedia, infatti, è una rappresentazione universale
del dramma della salvezza dalla prospettiva dell’umanità
redenta da Cristo sacrificatosi per essa sulla Croce e
smarritasi a tal punto da avere bisogno di una nuova
redenzione; e Dante-autore assume su di sé un ruolo quasi
biblico, quello profetico di chi, illuminato dalla Grazia
Divina, mostra al genere umano, attraverso il personaggio
che dice “io” — Dante-pellegrino, la strada da prendere, che
consiste in un lungo processo conoscitivo-moralizzante,
prima di una discesa alla radice stessa del male, la quale,
1
Cfr. Gen., I.
Par., XVII, 17-18. Tutte le citazioni della Commedia sono tratte
dall’edizione, La Commedia secondo l’antica vulgata, Edizione Nazionale a cura
della Società Dantesca Italiana, voll. I-III, Milano 1966-67.
3
Cfr. Ep., XIII, 10.
2
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
9
dopo esser giunti al punto critico (il centro della terra, il
punto medio del corpo di Lucifero su cui gravano i pesi di
tutti i peccati)4 si trasforma — “da sé” — in una ascesa verso
il bene, fino al raggiungimento del Bene Supremo5. In
ragione del suo stesso fine — “removere viventes in hac vita
de statu miserie ad statum felicitatis”6 — la Commedia
partecipa, nell’intenzione dell’autore, al piano divino della
Redenzione.
Ma il dramma della salvezza o piuttosto della salvezza
mancata è anche un dramma dei dannati, dell’umanità redenta
e perduta per aver rifiutato di intraprendere il cammino sopra
delineato, per non aver voluto cercare la via d’uscita dal
proprio cerchio — che, in effetti, è solo una parte della
spirale, come dimostra il cammino di Dante-pellegrino,
rappresentante appunto dell’umanità7 smarritasi in una valle
d’abisso, in una selva oscura, ma che trova in se stessa e nell’ “Altro” (= Virgilio, guidato dalle tre Donne benedette)8 le
forze per abbandonare quello stato — e per aver scelto di
vivere nella convinzione menzognera che l’Inferno sia una
prigione, “carcere cieco”, una realtà necessaria ed eterna.
Infine, Dante-autore nel suo “poema sacro” fa vedere il
dramma della salvezza anche dalla parte del divino, di un Dio
che ha salvato l’uomo con un atto paradossale della volontànecessità, generato dall’Amore infinito del Creatore per la
sua creatura.
4
Cfr. Inf., XXXIV, 110-111.
Sul significato allegorico di questa conversione di discesa in ascesa, cfr.
John Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna 1989 (orig. 1986).
6
Ep., XIII, 15.
7
Il personaggio di Dante possiede, come è noto, una doppia dimensione,
simboleggiando, da una parte l’“io trascendente” (= l’umanità) e dall’altra —
l’individuo storico (Dante colpito da una crisi morale ed intellettuale dopo la
morte di Beatrice nel 1290): cfr. per queste distinzioni Gianfranco Contini,
Un’idea di Dante, Torino 1976 (1970), p. 35.
8
Cfr. Inf., II, 51 sgg.
5
10
MARIA MA LANKA-SORO
Le somme verità, come quelle di cui stiamo parlando,
essendo espresse non in un trattato teologico, ma in un poema
di altissimo livello artistico, pur conservando il significato
essenzialmente ortodosso, ricevono — il che è tipicamente
dantesco — un’impronta poetica singolare, laddove si tratta
dei particolari che non compromettono il senso fondamentale
d’insieme.
Nella convinzione che l’arte poetica debba nutrirsi del
vero ed esprimerlo, Dante si riallaccia — ma sarebbe difficile
dire in quale misura ne è consapevole — al principio
classico, formulato esplicitamente da Esiodo nella sua
Teogonia e accolto da gran parte della tradizione posteriore
greco-latina9, di una poesia ispirata, il cui autore — poetasophos — funga da tramite tra divinità e uomo. Sarebbe,
però, improprio, vedere nelle invocazioni alle Muse che
aprono le tre cantiche10 (per la prima, come sappiamo, il
canto proemiale essendo quello secondo) un mero espediente
retorico o l’esempio di un puro sincretismo culturale, oppure
un segno della continuazione della grande tradizione epica —
ma certo non nel senso di una imitatio, bensì di una
aemulatio — dal momento che il “poema sacro / al quale ha
posto mano e cielo e terra”11 non è unicamente “ispirato”, ma
basato su una visione “vera”, personalmente vissuta. Per
trasmetterla nella maniera più fedele possibile occorre l’aiuto
della memoria, a cui il Poeta si rivolge direttamente nella
9
Negato, invece, da Tommaso d’Aquino (e dalla scolastica, in genere)
secondo cui la poesia è “infima inter omnes doctrinas” (Summa Theol. I, 1, 9) e
contiene “minimum veritatis” (In Sent. I, 1, 5).
10
Un’altra invocazione alle “Sacrosante Vergini”, in particolare all’Urania, la
Musa che presiede alla conoscenza di ciò che riguarda il cielo, si legge nei vv. 37
sgg. del Canto XXIX del Purgatorio, all’apertura della visione — di alta densità
allegorica — della processione che appare a Dante-pellegrino nel Paradiso
Terrestre, di cui avremo modo di parlare.
11
Par., XXV, 1-2.
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
11
prima invocazione “o mente12 che scrivesti ciò ch’io vidi”13 e
che nella “cantica della luce” si rivelerà spesso inadeguata ed
insufficiente per comunicare all’ingegno del poeta —
apparsogli spesso altrettanto impotente nelle sue capacità
evocative ed espressive — tutto lo splendore delle immagini
paradisiache.
Ma il tòpos della poesia-verità, ereditato dal mondo
classico, riceve ben altra giustificazione fuori dall’epoca
degli dei “falsi e bugiardi”, nella quale il principio stesso
della verità era basato su false premesse. Per Dante (e per la
sua epoca) il mondo creato ex nihilo da un Dio Uno e Trino, è
una manifestazione sensibile di un’altra realtà, invisibile ed
eterna. Quel mondo è come un volume scritto da Dio con
l’uomo come protagonista della storia: quest’ultimo ha
vissuto non solo in un “esilio” terreno (sulla terra il vivere è
come “un correre a la morte”)14, ma soprattutto nella
dimensione escatologica, dove ognuno diventa — per usare
una felice espressione di Auerbach — l’adempimento della
sua figura terrena, la quintessenza di ciò che è stato sulla
terra15. Il Libro dell’Universo (metafora usata da Ugo da san
Vittore)16, scriptus digito Dei, e la Bibbia, il Libro per
eccellenza, sono fonti principali della Commedia dantesca e
garanti del suo carattere universale e veritiero. Ma è grazie
12
Nella tradizione agostiniana, accolta da Dante, la mens tende ad avvicinarsi
alla memoria: “la memoria rappresenta il momento del riconoscimento della mens
in rapporto a se stessa, ovvero la mens considerata in sé, da cui nasce la
conoscenza e l’amore”, Enciclopedia Dantesca, Roma 1971, vol. III, s.v. “mente”
a cura di Alfonso Maierù, p. 899.
13
Inf., II, 8.
14
Purg., XXXIII, 54.
15
Cfr. Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano 199310 (1963), p. 209.
16
“Universum enim mundus iste sensibilis quasi quidam liber est scriptus
digito Dei, hoc est virtute divina creatus, et singulae creaturae quasi figurae
quaedam sunt non humano placito inventae sed divino arbitrio institutae ad
manifestandam invisibilium Dei sapientiam” (Eruditionis didascalicae liber
septimus, in PL, 176.814).
MARIA MA LANKA-SORO
12
all’arte — e in questa Dante si sente debitore dei grandi poeti
latini della “bella scola”17 di Omero, come Virgilio, Ovidio,
Stazio, Lucano — che il messaggio del “poema sacro”, anche
quello teologicamente più denso, riceve una immediatezza
che permette spesso di assimilare il contenuto per via di una
estasi sentimentale, senza il ricorso diretto alle facoltà
intellettive. Il modo tipicamente dantesco di innovare à partir
du connu, conduce ad un approfondimento non solo poetico e
stilistico, ma anche quello concettuale, con l’effetto di
cogliere l’essenza stessa di parole, pensieri e cose.
Guidato dall’ “imperativo categorico” di dover trasmettere
con i suoi alti versi la verità “Io veggio ben che già mai non
si sazia / nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra”18, Dante
discerne i 4 sensi dell’opera19; pur dando il primato a quello
letterale20, lo chiama una “bella menzogna”; ma già nella
sopra menzionata Epistola a Cangrande, posteriore al
Convivio, il senso letterale non è ritenuto solo veicolo di
quello allegorico21, come nel trattato, dove il mito ovidiano di
Orfeo è solo “una favola” che rimanda al suo senso
allegorico, bensì quello che contiene una verità storica sulla
scia della Bibbia22. La contiene anche in quanto si pone in
relazione, grazie al principio di analogia, con l’altro Libro
“scritto” da Dio — l’universo creato — dove la realtà
sensibile rimanda a quella soprannaturale ed invisibile, dove
le cose sono anche segni. Così, nella fictio del “poema sacro”
le cose collocate sulla scena dell’aldilà sono come quelle che
17
Inf., IV, 94.
Par., IV, 124-25.
19
Cv., II, I, 2-8.
20
Cv., II, I, 8.
21
Ep., XIII, 7.
22
E ciò ha indotto Ch. S. Singleton a parlare delle due specie di allegoria nella
Commedia: la cosiddetta “allegoria dei poeti” e “allegoria dei teologi”, tra cui,
secondo lo studioso, prevale decisamente la seconda; cfr. Ch. S. Singleton, La
poesia della “Divina Commedia”, Bologna 1978 (orig. 1957-58), pp. 32-36 e 115
sgg.
18
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
13
vediamo sulla scena di questo mondo, e perciò anch’esse
indicano la realtà invisibile di Dio essendo cose e segni al
tempo stesso23.
Il rapporto tra Dante e il suo poema è stato colto bene
nella frase di Singleton: “la fictio della Divina Commedia è
che essa non sia una fictio”24. Nella intenzione del poeta, vero
sarebbe non solo il suo viaggio-visione25, ma tutta la realtà
con cui Dante-pellegrino si trova a contatto, comprese le
visioni all’interno del viaggio e gli excursus dottrinali svolti
da Virgilio e, soprattutto, da Beatrice. E ciò permette di
paragonare il suo ruolo, come è suggerito implicitamente
proprio nei canti del Purgatorio e del Paradiso che qui ci
interessano in modo particolare, a quello di Giovanni, autore
dell’Apocalisse26. Caduto a momenti in uno stato di
dormiveglia, come se si trovasse in una estasi mistica27, Dante
è ammonito da Beatrice (come Giovanni dal Figlio
dell’Uomo)28 di portare “ai vivi” la sua visione avuta
23
Cfr. ibidem, p. 49.
Ibidem, p. 88.
25
I primi commentatori della Commedia non esitano di ritenerla quale verace
visio mystica et profetica tenendo presenti le parole finali della Vita Nuova —
“apparve e me una mirabile visione” (XLII, 1) — e le immagini della visio in
somniis nel proemio alla Commedia; rappresentativa è l’affermazione di Guido da
Pisa: “Re vera potest ipse [Dantes] dicere verbum prophetis dicentis: «Deus dedit
michi linguam eruditam» [Is., 50, 54]; et illud: «Lingua mea calamus scribe
velociter scribentis» [Ps., 44, 2]. Ipse enim fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo
calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et
gloriam beatorum. Ipse enim Spiritus Sanctus per istum aperte redarguit scelera
prelatorum et regum et principum orbis terre” (Expositiones et glose super
Comediam Dantis, a cura di Vincenzo Cioffari, Albany NY 1974, p. 4). Oggi,
comunque, prevale la tesi della fictio poetica; cfr. Enciclopedia Dantesca, op. cit.,
vol. V (1976), s.v. “visione mistica” a cura di Vincent Truijen.
26
Ciò non sorprende dato il carattere “apocalittico” di questi canti: cfr. Peter
Dronke, L’Apocalisse negli ultimi canti del «Purgatorio» in Dante e la Bibbia, a
cura di Giovanni Barblan (Atti del Convegno Internazionale), Firenze 1988, pp.
81sgg.
27
Cfr. Purg., XXXII, 61 sgg.; Par. VII, 15.
28
Cfr. L’Apocalisse, Prologo 1, 19: “Scribe ergo quae vidisti, et quae sunt, et
quae oportet fieri post haec”. Cfr. inoltre ibidem 1, 11 e 21, 5. Forse è interessante
24
14
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nell’Eden e le parole di lei (= la visione intellettuale,
“imageless vision”)29 sul significato profondo della
Redenzione, nonché quelle sulle cause dell’attuale condizione
dell’umanità, bisognosa di una nuova redenzione, che si
imprimono nella sua mente ancora “impetrata”, impedita da
“li pensieri vani”30, come “cera da suggello”:
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive.
(Purg. XXXII, 103-105)
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.
(Purg. XXXIII, 52-54)
E io: «Sì come cera da suggello31,
che la figura impressa non tramuta,
segnato è or da voi lo mio cervello».
(Purg. XXXIII, 79-81)
notare questo tratto cristologico di Beatrice, la quale in maniera ancora più
esplicita diventa Figura Christi nei canti “apocalittici” del Purgatorio: cfr. in
proposito p.e. il commento di Bianca Garavelli a Purg., XXXIII, 7-12 in Dante
Alighieri, La Commedia, vol. 2 (Purgatorio), a cura di Bianca Garavelli con la
supervisione di Maria Corti, Sonzogno, Bompiani, 1993, p. 505; Ch. S. Singleton,
op. cit., pp. 69-85; Amilcare A. Iannucci, Dante e il Vangelo di Nicodemo: la
«discesa di Beatrice agl’inferi», “Letture Classensi” 12 (1983), pp. 39-60, in
particolare pp. 40 e 49.
29
L’espressione è di Marguerite Mills Chiarenza e si riferisce al Paradiso: cfr.
Eadem, The Imageless Vision and Dante’s «Paradiso», “Dante Studies” XC
(1972), pp. 77-91.
30
Purg., XXXIII, 68.
31
La metafora che accosta la memoria alla cera in cui il sigillo imprime la sua
impronta appare già nel Convivio (I, VIII, 12). Questa immagine deriva dal De
anima (II, 1, 412b 7) di Aristotele, mediato da Alberto Magno, ediz. C. Stroick in
Opera, ediz. B. Geyer, W. Münster, 1968, II, I, 3, 68b.
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
15
Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
de l’etterno consiglio, quanto puoi
al mio parlar distrettamente fisso.
(Par. VII, 94-96)32
Nello svolgimento del tema della Redenzione nell’Inferno,
nel Purgatorio e nel Paradiso (nei canti indicati all’inizio di
questa analisi) si può osservare il progressivo passaggio dal
concreto all’astratto, che coincide con il carattere della
visione in ognuna delle tre cantiche. Nell’Inferno Dantepellegrino e Virgilio si imbattono in delle prove “tangibili”
del Descensus Christi ad Inferos, nei segni materiali di
quell’evento, non privi di conseguenze sulla struttura
apparentemente solida del Regno di Dite che rischia — dopo
questo passaggio — di essere smascherato nei suoi aspetti
menzogneri, e sul modo in cui i dannati vivono e pensano la
loro condizione. Il terribile terremoto, contemporaneo alla
discesa nell’abisso di “un possente, / con segno di vittoria
coronato”33, cioè di Cristo con la Sua Croce, ricordato in
queste parole da Virgilio nel Limbo, aveva scardinato la porte
32
“L’abisso de l’etterno consiglio” sarebbe “la mente insondabile di Dio”,
dove ha avuto origine il decreto (v. 58) che suscitava tanti dubbi in Dante
personaggio; ci si riferisce alla redenzione dell’umanità ad opera del sacrificio di
Cristo. Cfr. il commento ai vv. 94-96 di B. Garavelli in op. cit., p. 112; e anche il
commento Scartazzini-Vandelli ai vv. 94-96 in Dante Alighieri, La Divina
Commedia. Testo critico della Società Dantesca Italiana, riveduto col commento
Scartazziniano rifatto da G. Vandelli, Milano, ventunesima edizione (completa),
2005 (1989), p. 668. È significativo che il discorso rivelato di Beatrice, rivolto a
Dante in uno stato di estasi mistica, si svolge nel Cielo di Mercurio, cioè di
Ermete, divinità (tra l’altro) delle verità teologiche occulte, svelate nei sogni
attraverso i segni misteriosi; avremmo qui un esempio interessante (e un po’
occultato!) del sincretismo dantesco; le osservazioni di Güntert, che ho avuto
modo di leggere dopo questa constatazione, insistono in modo particolare sul
“parlar chiuso” di Giustiniano nel canto precedente, associandolo con l’influenza
di Mercurio-Ermete: cfr. G. Güntert, Canto VII, in Lectura Dantis Turicensis.
Paradiso, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze 2002, pp. 109-110 e 115.
33
Inf., IV, 53-54.
MARIA MA LANKA-SORO
16
dell’Inferno e creato delle frane “et terra mota est, et petrae
scissae sunt”34 rendendo con ciò più lacerante il rapporto tra
la “virtù divina”35 e i dannati.
La realtà dell’Inferno, bruta nella sua aspra fisicità, la
quale colpisce in maniera dolorosa e assieme terrificante la
vista, l’udito e talvolta anche altri sensi del pellegrino, dove il
contatto con “l’altro” (i dannati) è segnato dallo scontro
verbale o fisico e dalla chiusura che preclude un dialogo vero
e proprio (nonostante tanta eloquenza retorica di alcuni
peccatori)36, cede spazio nel Purgatorio ad un’atmosfera di
serena, sebbene malinconica, attesa nella preghiera, ad uno
spirito di affrattellamento e di carità reciproca che la rende
più leggera. Arrivato alla vetta del “dilettoso monte”,
purificato da ogni traccia del peccato, con una volontà
“libera, dritta e sana”37, conforme cioè alla voce interna della
ragione, benché con la mente ancora coperta da una crosta
”terrena” che non lascia passare perfettamente i raggi di luce
della verità rivelata38, Dante-pellegrino assiste ad una
processione allegorica al cui centro si trova il Carro della
Chiesa trainato dal Grifone, simbolo di Cristo e della Sua
doppia natura. Dopo il rito di confessione grazie al quale
assume un atteggiamento umile e aperto ai doni dello Spirito
Santo i cui simboli — sette candelabri ardenti con sette scie
luminose — aprono, significativamente, la detta proces-
34
Matt., 27, 51-52.
Inf., V, 36.
36
Questa retorica mette in rilievo un contenuto etico in quanto i dannati
cercano, nei discorsi apologici di vario genere, di giustificare o nobilitare il
proprio peccato. Si può notare che i dannati restano chiusi alla voce della verità;
immersi, come sono, nella menzogna infernale, desiderano rimanere imprigionati
ciascuno nel proprio cerchio di falsi valori; sulla questione della retorica nella
Commedia, cfr. E. Bigi, Caratteri e funzione della retorica nella «Divina
Commedia», “Letture Classensi” 4 (1973), pp. 201-202.
37
Cfr. Purg., XXVII, 140-42.
38
Cfr. Purg., XXXIII, 73 sgg.
35
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
17
sione39, egli guarda uno “spettacolo” che, sia per la forma che
per il contenuto, si avvicina ad una “sacra rappresentazione”40, la quale narra con immagini allegoriche la storia
della Chiesa innestata su quella dell’umanità, e che pone
l’accento su momenti critici e su interrogativi intorno alla sua
futura salvezza. Questo susseguirsi di scene può essere visto
come il coronamento di una serie degli exempla dei peccati
cardinali espiati sulle rispettive cornici e delle virtù loro
opposte, contemplate per di più sotto forma di immagini o di
altro tipo di visioni che Dante-pellegrino sperimenta in questa
parte dell’aldilà41. Alcune delle scene ivi rappresentate sono a
tal punto suggestive da far pensare ad una sintesi poliedrica
di immagini, gesti, parole o canti, come è nel caso del “visibil
parlare” espresso dall’arte divina sulla terrazza dei superbi
nel Canto X del Purgatorio, che rende più “vero” e
persuasivo il discorso didascalico. A questo punto del suo
cammino verso la salvezza Dante non è ancora, come si è
detto, capace di affrontare un discorso puramente intellettivo,
non mediato da altre forme di espressione, come traspare
dalla esortazione che gli rivolge poco dopo Beatrice
39
Cfr. Purg., XXIX, 43 sgg.
Su una delle possibile fonti d’ispirazione, da individuare in questa forma del
teatro medievale, cfr. U. Bosco, Dante e il teatro medievale, in Studi filologici,
letterari e storici, in memoria di Guido Favati, a cura di G. Varanini e di P.
Pinagli, Padova 1977, pp. 143-44. Per le altre fonti ipotetizzate, tra cui la
processione solenne del Corpus Domini ed alcune opere iconografiche, cfr. J. I.
F., La processione mistica di Dante: allegoria e iconografia nel Canto XXIX del
«Purgatorio», in Dante e le forme dell’allegoresi, a cura di M. Picone, Ravenna
1987, pp. 125-148.
41
Penso soprattutto ai sogni-visioni dei Canti IX, XIX e XXVII del
Purgatorio. Le visioni paradisiache, invece, come quella del Trionfo di Cristo
(Par., XXIII, 25-45), dell’Empireo (Par., XXX, 46-60) e quella finale della
Trinità (Par., XXXIII, 139-45), sembrano presupporre una esperienza mistica
quasi certa. Nonostante il poema dantesco sia una fictio poetica, non è da
escludere un’esperienza mistica personale di Dante (cfr. O. Graf, Die «Divina
Commedia» als Zeugnis des Glaubens, Friburgo s. B., 1965, p. 473).
40
MARIA MA LANKA-SORO
18
invitandolo a continuare a usare il metodo di percezione
visiva anche nei confronti delle sue parole:
«Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì ch t’abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto42,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
(Purg. XXXIII, 73-78)
È solo nel Paradiso che egli, dopo “il trasumanar”43, sarà
“svuotato” dalla scienza umana e aperto a ricevere la
sapienza divina, il “pan de li angeli”44, attraverso gli excursus
dottrinari rivoltigli dalla donna amata, talvolta complessi,
come quello sulla Redenzione. Naturalmente non mancano le
visioni che presentano il massimo grado della sublimitas. A
differenza di quelle del Purgatorio esse, però, sono una
manifestazione grandiosa della retorica della ineffabilità in
cui Dante “traduce” — in versi di incomparabile bellezza —
la metafisica della luce.
Il nucleo centrale del tema della Redenzione è da cercare
in un lungo discorso di Beatrice nel Canto VII del Paradiso
(25-120), dove la donna spiega con il metodo scolastico —
che tuttavia non appesantisce la poesia — alcune quaestiones
particolarmente complesse, attraverso le domande (che lei
“legge” nella mente di Dante caduto in estasi mistica)45 e le
42
Il corsivo è mio.
Par., I, 70.
44
Par., II, 11.
45
Beatrice legge nella mente di Dante attraverso quella divina, come
spiegherà nei vv. 10-12 del Canto XXIX del Paradiso : «Io dico, e non dimando, /
quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto/ là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne
quando»; la perifrasi, teologicamente densa, indica Dio che si presenta come un
punto luminosissimo senza dimensioni in cui si annullano ogni spazio e ogni
tempo.
43
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
19
risposte. Ne riemerge tutto il dramma divino, strettamente
legato a quello umano. Alla base di esso sta un conflitto
grave tra il Creatore e la sua creatura: l’uomo dell’Eden con il
peccato originale, commesso in gesto di rifiuto del giusto
limite impostogli da Dio per il suo bene, dannò non solo se
stesso, ma tutta la specie umana discesa da lui e per molti
secoli rimasta in uno stato di colpa mortale che le aveva
chiuso l’entrata al Paradiso46. Il gesto dell’uomo si rivelò
tragico, in quanto, avendo questi mangiato il frutto
dall’albero della conoscenza del bene e del male — il quale
costituisce il centro ideale e strutturale della “sacra
rappresentazione” che si svolge nel Paradiso Terrestre di cui
abbiamo parlato sopra — distrusse la giustizia naturale (che
l’albero sembra simboleggiare)47 e con essa la pace che è una
conditio sine qua non della felicità. È significativo che nel
racconto biblico della Genesis l’accento sia posto sulla paura
dei primi genitori, quando presero coscienza del fatto di
essere nudi e vollero nascondersi a Dio, il che dimostra il loro
allontanarsi dalla precedente unione con il Creatore. L’atto di
disobbedienza fece insorgere le passioni48 e portò l’uomo
verso gli estremi (bene/male), facendogli abbandonare la
mesótes e l’unità originaria dei contrari49. Quest’atto fu
tragico, anche perché l’uomo si rivelò incapace di espiare da
solo quella colpa. Avendo perso la luce della Grazia e
46
Cfr. Par., VII, 25 sgg.
Cfr. Purg., XXXIII, 71-72: “la giustizia di Dio, ne l’interdetto, /
conosceresti a l’albor moralmente”; Ch. S. Singleton, il commento a Purg.,
XXXII, 48: “The tree is ius, law, and law in his conception is identical with God’s
will and providential plan” (Dante Alighieri, The Divine Comedy, translated, with
a commentary by Ch. S. Singleton, Purgatorio, Princeton 1989, p. 787; cfr. anche
il commento di N. Sapegno a Purg., XXXII, 38 in Dante Alighieri, La Divina
Commedia, a cura di N. Sapegno, vol. II (Purgatorio), Firenze 1956, pp. 360-61,
dove sono riportate altre interpretazioni possibili, ma meno convincenti.
48
Cfr. M. A. Balducci, Classicismo Dantesco. Miti e simboli della morte e
della vita nella «Divina Commedia», introd. di S. Moravia, Firenze 2004, p. 127.
49
Cfr. ibidem, p. 128, n. 67.
47
MARIA MA LANKA-SORO
20
l’immortalità, nella sua finitezza non avrebbe mai potuto
soddisfare alla giustizia divina con un atto di umiliazione
adeguata alla precedente superbia:
Non potea l’uomo ne’ termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
con umiltate obedïendo poi,
quanto disobediendo intese ir suso;
e questa è la cagion per che l’uom fue
da poter sodisfar per sé dischiuso.
(Par. VII, 97-102)
Dio, per redimere l’uomo, in virtù di un immenso Amore che
non aveva mai perso per la sua creatura, scelse un sacrificio
estremo facendo il Dono di se stesso all’umanità con
l’Incarnazione, la Passione e la Morte sulla Croce. Solo
diventando l’Uomo poté espiare la colpa dell’uomo nel
migliore dei modi: unendo la misericordia alla giustizia50,
obbedendo alla volontà del Padre fino alla fine: “Humiliavit
semetipsum factus oboediens usque ad mortem, mortem
autem crucis”51.
La morte di Cristo, Dio e Uomo, sembra comportare in sé
una contraddizione, spiegata da Beatrice in risposta ad un
potenziale dubbio di Dante-pellegrino52 è giusta, se si
considera che con essa viene punita la natura umana, ma
ingiusta (e perciò giustamente vendicata sugli Ebrei con la
distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei Romani,
visti da Dante-autore come strumento della Provvidenza), se
si pensa che fu Dio stesso a soffrire tramite tanto supplizio.
50
Cfr. Par., VII, 112 sgg.
Phil., 2, 5-8, cfr. anche Rom., 5, 18: “Igitur sicut per unius delictum in
omnes homines in condemnationem: sic et per unius iustitiam in omnes homines
in iustificationem vitae. Sicut enim per inobedientiam unius hominis, peccatores
constituti sunt multi, ita et per unius obeditionem, iusti constituentur multi”.
52
Par., VII, 29 sgg.
51
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
21
La contraddizione, però, viene risolta, in quanto la volontà
di Dio di fare il Dono di se stesso riesce a fondere
l’ingiustizia umana con il Suo Amore. Tale sembra la
conclusione implicita della seconda parte del discorso di
Beatrice, che cerca di chiarire a Dante (e con lui a tutta
l’umanità) perché Dio ha voluto scegliere proprio quel modo
per la Redenzione del genere umano (58 sgg.).
Così, pare, ha voluto dare l’esempio che ogni atto di
giustizia dovrebbe essere comprensivo anche dell’amore,
senza il quale il male non si potrà mai risolvere in un vero
bene, poiché la giustizia da sola crea le divisioni e polarizza
gli opposti, non li appiana.
La contraddizione apparente che traspare dall’Evento di
cui stiamo parlando, presenta nondimeno certe affinità con un
paradosso che fa parte del pensiero religioso greco, di cui si
nutre la grande tragedia. Si tratta dell’idea che un atto giusto
dal punto di vista del divino, si presta alla punizione per il
volere della stessa divinità. Questo tipo di conflitto tragico
abbiamo tra l’altro, nella prima parte dell’Orestea,
nell’Agamennone, dove (nel primo canto del Coro) la
distruzione di Troia viene vista come una vendetta dello Zeus
Xenios, giustificata dalla colpa di Paride che ruppe una delle
sacrosante leggi dei Greci, quella dell’ospitalità. D’altra
parte, la stessa guerra contro Troia diventa — agli occhi dello
stesso Zeus — una hybris che va punita. È interessante notare
che la giustizia divina non può essere compromessa
(soprattutto in Eschilo) e la punizione dei Greci trova il suo
fondamento nelle trasgressioni per così dire “aggiuntive”,
come il sacrificio di Ifigenia, che del resto è un altro
paradosso, in quanto Agamennone non ha una vera
alternativa.
Ma se i meccanismi nel ristabilimento della giustizia
potrebbero essere in qualche modo paragonabili, manca del
MARIA MA LANKA-SORO
22
tutto l’elemento della Caritas che presiede ad un atto del tutto
libero e volontario.
Nel Paradiso Terrestre l’atto di obbedienza e giustizia53
compiuto da Cristo, viene rappresentato nella scena in cui il
Grifone “l’animal binato”54 lega il timone, cioè la Sua Croce,
all’albero di cui fu colto il frutto “pianta dispogliata/di foglie
e d’altra fronda”55: al gesto del Grifone segue la fioritura
rosso-viola della pianta che simboleggia il sangue di Cristo56.
Tutta la scena, ci sembra, riceve una valenza simbolica
ancora più pregnante e più drammatica, se accostata alla nota
leggenda medievale secondo cui il legno della Croce era fatto
con il legno dell’albero biblico della conoscenza57. Così,
Cristo sarebbe uno che simbolicamente “restituisce” a
quell’ultimo il frutto (riparando al danno fatto dai primi
genitori), facendosi il “pomo” al quale viene del resto
paragonato più avanti nello stesso canto58, nell’immagine
(facente parte di un paragone) della scena della Sua
Trasfigurazione.
Il simbolismo della Passione non può tuttavia far
dimenticare il dramma della terribile sofferenza del Verbo
Incarnato crocefisso. E non si tratta solo della sofferenza
53
Sottolineato dal breve dialogo tra le voci angeliche e il Grifone durante la
scena allegorica nell’Eden; cfr. Purg., XXXII, 43-48: «Beato se’, grifon, che non
discindi/ col becco d’esto legno dolce al gusto, / poscia che mal si torce il ventre
quindi». // Così dintorno a l’albero robusto/ gridaron li altri; e l’animal binato: /
«Sì si conserva il seme d’ogne giusto».
54
Purg., XXXII, 47.
55
Ibid., 38-39.
56
Ibid., 58-60.
57
Cfr. p.e. il commento di A. M. Chiavacci Leonardi a Purg., XXXII, 51 in
Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi,
Bologna 2001, p. 581.
58
Cfr. Purg., XXXII, 73-74: “Quali a veder de’ fioretti del melo/ che del suo
pome li angeli fa ghiotti”. I commentatori ricordano l’origine biblica della
metafora del melo, presente nel Cant. Cantic. II, 3: “Sicut malus inter ligna
silvarum, sic dilectus meus inter filios” (cfr. p.e. il commento Scartazzini-Vandelli
ai vv. 73-84 in op. cit., p. 589).
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
23
fisica, bensì di quella spirituale, legata al sentirsi
terribilmente solo e abbandonato dal Padre nel momento
della morte, internamente svuotato da se stesso, quando
grida: “Eli, Eli, lamma sabacthani?”59. Ma è proprio nella
distruzione dei confini della propria coscienza che CristoUomo apre la coscienza all’Infinito e ritrova la propria
unione con il Padre che non L’ha mai abbandonato: “Pater, in
manus Tuas commendo spiritum meum”60.
La distruzione, la morte significa in questo caso la vita,
anzi “una vita nuova” per l’umanità, non la sconfitta, bensì la
vittoria. L’umiliazione dell’Incarnazione corrisponde ad una
discesa simbolica di Cristo “fin ch’al Verbo di Dio discender
piacque”61: che alla Sua morte, quando “tremò la terra e ’l
ciel s’aperse”62, si riveste anche di un significato letterale di
una discesa agli inferi per liberare i profeti e i Patriarchi dalla
prigione infernale. Il tema del Descensus Christi ad Inferos di
cui la fonte primaria è il Vangelo apocrifo di Nicodemo del V
secolo, fu nel Medio Evo piuttosto frequente, soprattutto in
opere iconografiche, ma anche in quelle scritte, tra le quali si
trova una lauda drammatica perugina a cui avremo modo
ancora di ritornare. La vittoria di Cristo sul Satana e sulla
morte venne associata con la dottrina della Redenzione. Il
Descensus spalancò non solo la porta dell’Inferno (che
addirittura venne scardinata per sempre)63, ma anche “quella
di s. Pietro, rendendo finalmente possibile all’uomo l’entrata
in Paradiso”64: “et terra mota est, et petrae scissae sunt, et
monumenta aperta sunt: et multa corpora sanctorum, qui
dormierant, surrexerunt. Et exeuntes de monumentis post
resurrectionem eius, venerunt in sanctam civitatem, et
59
Matt., 27, 46.
Luca, 23, 46.
61
Par., VII, 30.
62
Par., VII, 48.
63
Cfr. Inf., VIII, 124-26.
64
Amilcare A. Iannucci, op. cit., p. 43.
60
MARIA MA LANKA-SORO
24
apparuerunt multis”65. La Morte di Cristo aprì —
letteralmente — la via della beatitudine eterna ai giusti Ebrei,
il Suo Corpo martoriato, con le cinque piaghe-fori, divenne
come un’apertura, offerta a tutti, che conduce verso la somma
Verità senza di cui non c’è la Salvazione. Durante l’Ultima
Cena Cristo insiste, nelle parole rivolte agli Apostoli, sul
motivo della strada che conduce al Padre: “Ego sum via, et
veritas, et vita. Nemo venit ad Patrem nisi per me”66. Danteautore dona una sublimità poetica unica a questa
affermazione, riecheggiandola per bocca di Beatrice nel
momento in cui assieme a Dante-pellegrino, nel Cielo delle
Stelle Fisse, hanno la visione del Corpo Risorto del Figlio di
Dio che si presenta loro come “la lucente sustanza”67:
[...] «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
(Par. XXIII, 35-39)
Il Trionfo di Cristo è seguito da quello di Maria, il più bel
fiore del giardino celeste dell’Empireo, “il bel zaffiro / del
quale il ciel più alto s’inzaffira”68. Tutti i Beati nutrono un
profondo amore per la Regina Coeli, la quale, come Ancilla
Dei ebbe una parte così attiva nella Redenzione del mondo:
prima con il suo fiat e poi con la sofferenza, immensa, ma
ubbidiente, come quella del Figlio, alla volontà di Dio-Padre.
Dante-autore istituisce un legame tra la sua Caritas e
l’Amore divino che volle “con le vie sue / riparar l’omo a sua
65
Matt., 27, 51-53.
Giov., 14, 6.
67
Par., XXIII, 32.
68
Par., XXIII, 101-102,
66
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
25
intera vita”69, e lo fa tramite il motivo dell’apertura; infatti,
nel primo dei bassorilievi che fungono da exempla ai superbi
che espiano il loro peccato sulla prima cornice, l’arte divina
“ha scolpito” la scena dell’Annunciazione la cui descrizione
presenta Maria come colei che “ad aprir l’alto amor volse la
chiave”70. Inoltre, nei primi versi della preghiera di san
Bernardo a Maria, basata sullo stilema dell’antitesi e
dell’ossimoro, che nella sua forma splendidamente
paradossale ed apparentemente contradittoria esprime il
sublime mistero della persona della Vergine Madre, Danteautore mette in risalto la funzione mediatrice della sua
Caritas nei confronti del genere umano, che fece “scattare”
tutto il grandioso meccanismo della Redenzione:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace».
(Par. XXXIII, 1-12)
69
Par., VII, 103-104. Anche qui, come pure nello stesso canto un po’ prima
(nel contesto in cui si ricorda la colpa dei primi genitori e il danno che ne risultò
per il genere umano) si nota il riecheggiamento delle parole di Cristo, pronunciate
durante l’Ultima Cena e riportate sopra; i versi appena citati (101-102)
presentano, però, un senso simmetricamente opposto a quello dei vv. 37-39
(riportati sotto), segnalando la fine di un’epoca tragica nella storia dell’umanità,
iniziata con il peccato originale: “ma per sé stessa pur fu ella sbandita/ di
paradiso, però che si torse/ da via di verità e da sua vita”. In entrambe le citazioni
ricorre il motivo via/vita.
70
Purg., X, 42.
26
MARIA MA LANKA-SORO
In Maria l’umano e il divino si sono perfettamente fusi per
l’eternità, come si sottolinea nel lirismo meraviglioso di
queste parole. La sua opera salvifica per il genere umano non
è terminata con la Risurrezione del Figlio dell’Uomo: lo si
dice nei versi successivi della preghiera. E fondamentale è
stato il suo ruolo nella missione dantesca per la salvazione
dell’umanità redenta, ma smarritasi nella “selva oscura” del
peccato e bisognosa di una ulteriore redenzione: la discesa di
Beatrice nel Limbo con la susseguente ascesa di Virgilio
dall’Abisso per incontrare Dante-pellegrino, vinto dalla
“lupa” — cupidigia/frode — e caduto nella disperazione più
profonda sul pendio del “dilettoso monte”, chiaramente
dimostrano che la bontà misericordiosa della Madonna “non
pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al
dimandar precorre”71.
Il passaggio di Cristo dalla Morte alla Vita che,
attenendosi alla lettera, ebbe il carattere di una discesaascesa, accompagnato da un terribile, ma prodigioso
terremoto, lasciò i segni indelebili nell’Abisso: le ruine. In
ciò consiste – tra l’altro — l’innovazione dantesca rispetto
alle rappresentazioni precedenti del Descensus. Le ruine sono
anche le prove “tangibili” della natura solo apparentemente
solida del regno di Dite-Lucifero. Agli occhi di Dante,
rappresentante dell’umanità smarritasi temporaneamente in
una realtà che attrae con la sua falsa bellezza72, la “selva
oscura” — che all’inizio del faticoso cammino verso la verità
gli sembrava così “selvaggia e aspra e forte”73 — rischia ora,
di fronte alle prove “materiali” della penetrazione della Luce
71
Par., XXXIII, 16-18. Cfr. Inf., II, 94 sgg., in particolare 94-96: “Donna è
gentil nel ciel che si compiange/ di questo ’mpedimento ov’ io ti mando, / sì che
duro giudicio là sù frange”.
72
Cfr. Purg., XXX, 130-131: “e volse i passi suoi per via non vera, / imagini
di ben seguendo false”; Purg., XXXI, 34-35: «Le presenti cose/ col falso lor
piacer volser miei passi».
73
Inf., I, 5.
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
27
e dell’Amore nell’oscurità delle tenebre, di essere
smascherata nella sua debolezza.
Su una di queste ruine che, significativamente, interessano
tutte e tre le zone del “cieco mondo”74, si sofferma
l’attenzione del narratore all’inizio del Canto XII dell’Inferno
che nel discorso diegetico corrisponde all’entrata nel cerchio
dei violenti:
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
(Inf. XII, 4-10)
La ruina viene qui paragonata — secondo un procedimento
tipico di Dante di riavvicinare dei paesaggi oltremondani
(soprattutto infernali) ai luoghi storico-geografici conosciuti
personalmente — ad una grande frana a valle di Trento
(identificata nei nostri tempi con i cosiddetti “Slavini di
Marco”). Ma il realismo dantesco non conta più di tanto per
capire il significato che le ruine infernali, create con la morte
di Cristo, assumono per i dannati e per il modo in cui essi
vivono la loro condizione. Nel canto in questione Virgilio
associa il terremoto avvenuto poco dopo il suo arrivo nel
Limbo con l’amore inteso come principio fisicocosmologico, generatore del Caos in quanto responsabile
dell’unione dei quattro elementi. Egli ragiona sulla scia della
74
Oltre al passo in questione, cfr. Inf., V, 34 (incontinenti: lussuriosi); Inf.,
XXIV, 22-24 (fraudolenti: ipocriti); cfr. anche Inf., XXI, 106-108; XXIII, 133138. Le parole di Virgilio non lasciano dubbi sul fatto che il terremoto in
questione avesse una portata globale: “da tutte le parti l’alta valle feda / tremò”
Inf., XII, 40-41; il corsivo è mio.
MARIA MA LANKA-SORO
28
teoria di Empedocle, conosciuta a Dante-autore attraverso i
commenti medievali alla Metafisica75 di Aristotele,
conformemente alla quale l’Amore (Philia) e l’Odio (Neikos)
sono due forze responsabili della mescolanza e separazione
ciclica dell’acqua, della terra, del fuoco ed dell’aria, chiamati
da quel filosofo presocratico “radici di tutte le cose”: il primo
li congiunge, il secondo — separa. Il cosmo e la realtà
fenomenica esistono, secondo lui, solo nei due momenti di
passaggio dall’Odio all’Amore e viceversa, quando cioè gli
influssi dell’uno e dell’altro si intrecciano. L’Amore,
prevalendo, dissolve il cosmo raccogliendone gli elementi
nell’indifferenziato Sfero (Sfairos); l’Odio, a sua volta,
inserendosi nello Sfero, pone le premesse per la nascita del
cosmo. Il momento dell’assoluta perfezione sta per
Empedocle non nel cosmo, ma nello Sfero76, il quale — si
badi bene — è il risultato dell’Amore.
Nell’episodio dantesco Virgilio, pronunciando le parole
“pensai che l’universo/sentisse amor”77, dice la verità pur non
essendo in grado di capirla fino in fondo. Egli non riesce a
decodificare correttamente (non solo qui, ma anche altrove
nella Commedia)78 i segni della realtà che gli rimane estranea,
nonostante la sua sensibilità sia maggiore rispetto a quella
degli altri pagani virtuosi vissuti nel tempo degli dei “falsi e
bugiardi”79, nonostante egli sia — nella prospettiva dantesca
— il più alto rappresentante dei valori della civiltà antica. La
sua personale tragedia che, in un grado minore, è anche la
loro, consiste proprio in quella incapacità di esser andato
nello sviluppo spirituale “oltre” un certo limite. Che questo
“andare oltre” fosse stato possibile, lo fanno vedere gli
75
76
Cfr. Aristotele, Met., 985a – 985b.
Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, Milano 1989, pp. 154
sgg.
77
Inf., XII, 41-42.
Cfr. M. A. Balducci, op. cit., pp. 13-70 e passim.
79
Inf., I, 72.
78
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
29
esempi di Rifeo e di Traiano80, ai quali era stata concessa la
grazia della fides implicita81. La situazione di Virgilio è colta
bene da Stazio nella metafora del “lampadoforo”, dove gli
viene riconosciuto il merito di aver fatto convertire altri alla
fede cristiana con la sua poesia:
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte
(Purg. XXII, 67-69)
Ora il “maestro” di Dante intuisce bene che si trattò allora
dell’atto d’amore, ma non sa che è un amore sublime che
corrisponde alla Caritas. Perciò egli rimarrà escluso dalla
Redenzione, non si troverà tra quelli che Cristo, “un possente,
/ con segno di vittoria coronato”82, portò via con sé durante il
Descensus, chiamati ora da lui “la gran preda”83. E tanto
meno vi si troveranno altri “spiriti magni”84, “gente di molto
valore”85, i quali si erano preclusi la salvezza non in quanto
pagani, ma in quanto magnanimi, i megalopsychoi ammirati
da Aristotele nella sua Etica Nicomachea86, troppo fiduciosi
nella grandezza delle loro virtù morali e intellettuali87. Ma,
d’altra parte, proprio in ragione di quella grandezza, loro
vivono nel Limbo dantesco, nella zona eletta del “nobile
castello”88, illuminata da “un foco/ch’emisperio di tenebre
80
Par., XIX, 67-148.
Cfr. ibidem, pp. 45 sgg.
82
Inf., IV, 53-54.
83
Inf., XII, 38.
84
Inf., IV, 119,
85
Ibid., 44.
86
Cfr. Aristotele, Eth. Nic., IV, 3, 1123 a 34 sgg.
87
Non a caso la parola “onore” (nelle sue varianti morfologiche e lessicali) è
una delle parole chiave nel Canto IV dell’Inferno.
88
Ibid., 106.
81
MARIA MA LANKA-SORO
30
vincia”89, da “una lumera”90 che li separa dalla “selva” di
“spiriti spessi”91. Concedendo uno status “privilegiato” alle
anime degli antichi illustri e allontanandosi in questo modo
dalla tradizione biblico-patristica che distingueva il
cosiddetto Limbus patrum e Limbus puerorum,92 uno dei più
grandi poeti cristiani riconosce il significato storico e
culturale dell’immenso patrimonio greco-latino di cui — pur
non sempre consapevolmente — si nutre la cultura della sua
epoca e di cui egli stesso si sente sotto molti aspetti debitore e
continuatore93:
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
(Inf. IV, 100-102)
Per la stragrande maggioranza dei dannati le ruine a cui
Virgilio dà un significato degno di un sapiente antico, sono
un segno “negativo” che ricorda loro la distruzione di un
vecchio ordine a cui rimangono tuttora legati, per costruirne
uno nuovo, fondato sull’Amore inteso come un sacrificio,
89
Ibid., 68-69.
Ibid., 103.
91
Ibid., 66.
92
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, suppl. q. 65, a. 5-6; A.
Gaudel, Dictionnaire de théologie catholique, t. IX, Paris 1926, s. v. “Limbo”,
coll. 760-772. Sulla concezione del Limbo in Dante, cfr. p.e.: F. Forti, Il Limbo
Dantesco e i megalopsichoi dell’«Etica Nicomachea», “Giornale storico della
letteratura italiana” XXXVIII (1961), pp. 329-364; F. Mazzoni, Il Canto IV
dell’«Inferno», “Studi Danteschi” XLII (1965), pp. 69-80; A. A. Iannucci, Limbo:
The Emptiness of Time, “Studi Danteschi LII (1979-1980), pp. 69-128; Michele
dell’Aquila, L’«Onrata nominanza»: turbamenti e gratificazioni del letterato
(lettura del Canto IV dell’«Inferno»), in Filologia e critica dantesca. Studi offerti
a A. Vallone, Firenze 1989 (1968), pp. 11-31.
93
Cfr. p.e. M. A. Balducci, op. cit., pp. 23 sgg.; M. Seriacopi, La dialettica
magnanimità/prudenza in Dante, Reggello (FI) 2006, pp. 247 sgg. e passim
90
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
31
come un donarsi, che loro si ostinano a rifiutare, come
avevano fatto durante la vita terrena.
D’altra parte, quel segno della misericordia di Dio ha
rivelato, come si è visto in precedenza, la natura menzognera
dell’Inferno94 e ha aperto nella topografia infernale i transiti, i
percorsi che permettono di uscire da un dato cerchio, il che,
tradotto simbolicamente, significa che perfino l’uomo che
vive il dramma della morte spirituale può abbandonare il
proprio cerchio del male, di un amore deformato, luciferino,
rivolto tutto a sé. Infatti, l’allegoria dantesca di cui si è
parlato prima, permette di interpretare il viaggio di Dantepellegrino attraverso il mondo ultraterreno non solo in
termini escatologici (= una visione profetica), ma come il
“pellegrinaggio” terreno di chiunque faccia lo sforzo di
vincere consapevolmente le proprie inclinazioni peccaminose95.
Ma i dannati — che rappresentano quindi anche i vivi
spiritualmente morti — vorrebbero crearsi il proprio mondo,
dimenticando l’esistenza dell’Altro, cioè di Dio, che perfino
nell’Inferno non li abbandona del tutto e concede loro un po’
di luce della Sua Grazia96. Dante-autore con questo concetto
di Grazia che accompagna in qualche modo alcuni dannati
“più nobili”, rende un po’ meno intransigente la concezione
di Tommaso d’Aquino secondo cui il peccato mortale che
rappresenta un’aversio da Dio e un’inordinata conversio ad
commutabile bonum”97 ha, come conseguenza della prima, la
94
Contro le arroganti parole che si leggono nell’epigrafe sopra la sua porta,
dove, tramite l’identificazione di essa con il luogo cui conduce, ricorrendo alla
prosopopea, si afferma l’eternità dell’Inferno: “ed io etterno duro” (Inf., III, 8). È
da notare il passaggio dal femminile della porta al maschile dell’Inferno.
95
Cfr. Ch. S. Singleton, op. cit., pp. 124-25.
96
Una prova di questo potrebbero essere le parole di Farinata nei vv. 100-102
del Canto X dell’Inferno: cfr. in particolare il v. 102: “cotanto ancor ne splende il
sommo duce”.
97
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 87, a.4.
MARIA MA LANKA-SORO
32
cosiddetta poena damni che consiste nella perdita della
visione di Dio e, della seconda, la poena sensus, il tormento
del fuoco infernale98.
I dannati non possono, però, dimenticare Dio: non glielo
permette la natura di questo luogo, dove sono costretti a
rimanere a contatto (visivo, soprattutto) con i segni divini,
quali, appunto, le ruine. Allora cercano di immaginarsi che
Dio sia una forza nemica, come fa implicitamente Francesca
nel suo dialogo con Dante-pellegrino: “se fosse amico il re de
l’universo”99. Del resto, se non avessero perso “il ben de
l’intelletto”100, cioè la verità, avrebbero potuto notare che
l’Inferno non costituisce un sistema di cerchi, ma una
struttura a spirale. Il discorso del narratore fa vedere come
questi segni divini sono odiati dai peccatori: nel cerchio dei
lussuriosi i “peccator carnali, / che la ragion sommettono al
talento”101, arrivati davanti alla ruina bestemmiano la virtù
divina. Il significato di questo passo ha suscitato molte
ipotesi e discussioni102. Alla luce di ciò che si è detto finora,
non sembra improbabile l’ipotesi che i dannati reagiscano
così al ricordo dell’atto d’Amore di Cristo, ben diverso dal
loro amore peccaminoso che non intendono rinnegare.
Inoltre, questi segni della presenza di Cristo nell’Abisso non
possono non far ricordare loro che, a differenza dei giusti
figli di Abramo, sono stati esclusi dalla salvazione, il che
vuol dire che la loro condizione dopo il Giudizio Universale
peggiorerà ancora e l’unica prospettiva che gli si aprirà
davanti sarà quella della secunda mors che, secondo
98
Cfr. T. Barolini, Multiculturalismo medievale e teolgia dell’Inferno
dantesco, “Dante”, II (2005), pp. 22 sgg.
99
Inf., V, 91.
100
Inf., III, 18.
101
Inf., V, 38-39.
102
Le raccoglie N. Mineo: cfr. Enciclopedia Dantesca, s.v. “ruina”.
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
33
sant’Agostino, consisterà in un eterno morire, in uno status
moriendi, caratterizzato da un abbandono completo da Dio103.
La frana-ruina di cui si parla nel Canto XII facilita, invece,
a Dante-pellegrino alla sua guida il transito al settimo cerchio
e, quindi, il proseguimento del percorso infernale; essa è
custodita dal Minotauro, il quale, distratto da Virgilio con le
parole che lo irritano profondamente, perché ricordano la sua
sconfitta inflittagli da Teseo, lascia per un momento libero il
passaggio tra il sesto e il settimo cerchio e così i due poeti
possono entrare nel Basso Inferno:
[...] «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
(Inf. XII, 26-30)
Una tale funzione dei dirupi infernali prodotti dal terremoto
conseguente alla morte di Cristo, viene confermata dalle
parole del frate Catalano che istruisce i viandanti sul
possibile passaggio alla settima bolgia dopo il crollo dei ponti
sopra quella degli ipocriti: “montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia”104. Quella “ruina”
rappresenta anche un legame tra la Crocefissione e la colpa
del Sinedrio ebraico il cui capo, il sommo sacerdote Caifas,
giace, infatti, disteso nudo sul fondo della bolgia degli
103
Cfr. sant’Agostino, De civ. Dei XIII, 11. Su questo argomento nel poema
dantesco cfr. F. Masciandaro, La problematica del tempo nella «Commedia»,
Ravenna 1976, pp. 73 sgg. Della “seconda morte” si parla in Inf., I, 117. Inoltre,
Virgilio spiega in Inf., VI, 103-11, con il ragionamento sillogistico (tratto da
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III suppl. 69, 2 ad resp. e ad 4), che
dopo il Giudizio Universale le sofferenze dei dannati diventeranno “più perfette”,
cioè accresceranno.
104
Inf., XXIII, 137-38.
MARIA MA LANKA-SORO
34
ipocriti “crucifisso in terra con tre pali”105. Egli subisce,
assieme ad altri sommi sacerdoti, una pena “esclusiva”,
diversa da quella scontata da altri ipocriti106. A causa del
crollo di tutti i ponti che valicavano la sesta bolgia, loro
subiscono in maniera più diretta le conseguenze della vittoria
di Cristo Risorto.
La natura precaria dell’Inferno (e quindi anche
dell’Inferno di disperazione che domina nel cuore e nella
mente di un peccatore mortale) è stata colta bene in una lauda
drammatica del XIII secolo la cui fonte diretta o indiretta
sarebbe da cercare nel Vangelo di Nicodemo, esattamente
nella sua seconda parte (capitoli 18-27) che rappresenta la
Discesa di Cristo agli inferi e la liberazione dei Patriarchi
ebrei107. Non è possibile dire se Dante fosse a conoscenza di
questa particolare lauda, ma è da pensare che conoscesse,
almeno in parte, la ricca produzione delle laude, dove il tema
del Limbo era piuttosto ricorrente. Più di un passo del testo in
questione, e in modo particolare le domande retoriche (che
vanno ininterrottamente dal v. 205 al v. 222) dell’Inferno
personificato esprimono il dramma di quest’ultimo. In una
serie di dialoghi a cui partecipano i personaggi di Satana, dei
Patriarchi e dell’Inferno si ribadisce la sconfitta e lo sdegno
impotente del Regno della morte, come fa vedere il seguente
scambio di battute108:
Infernus:
Ma eglie colla sua parola
senza prece gli ha refatte.
E come aquila che vola
105
Inf., XXIII, 111.
Una situazione simile si osserva nel caso di Giuda, macellato dentro la
bocca di Lucifero nell’ultima zona del nono cerchio, da lui chiamata Giudecca.
107
Cfr. A. A. Iannucci, op. cit., pp. 44 sgg.
108
Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Laude drammatiche e
rappresentazioni sacre, a cura di V. De Bartholomaeis, Firenze 1943, vol. I, pp.
246 sgg.
106
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
35
le loro legame aggie desfatte.
E colla molta allegrezza
hon rotta tutta mia fortezza. [...]
(79-84)
Omnes Sancti ad Infernum:
Apre, Enferno, ché se’ vinto!
Da Jesù seie conculcato,
serà el tuo nome al mondo espento
da cuie onn’uomo era legato,
che non podea niun passare
che nol menasse a te scaldare. [...]
(127-32)
Infernus ad Christum:
Chi se’ tu che me descioglie,
quil che el mortal peccato lega? [...]
(205-206)
Chi se’ tu ch’al mondo amaro
daie così mortal flagello?
(219-220)
Riassumendo si può quindi notare che la Redenzione ad
opera di Cristo ha reso possibile nell’Inferno l’attraversamento del male, indispensabile premessa al suo
superamento, e ha aperto anche lì le porte verso l’incontro
con l’Altro, e quindi verso l’Infinito e la felicità eterna. Se i
dannati sono chiusi a questa verità, non altrettanto avviene
con Dante-pellegrino che nella sua “guerra del cammino”109
scopre i legami tra il proprio viaggio verso la salvezza che ha
come obiettivo “removere viventes in hac vita de statu
109
Inf., II, 4-5.
MARIA MA LANKA-SORO
36
miserie et perducere ad statum felicitatis”110 e la Discesa di
Cristo agli inferi che fa parte dell’opera della Salvazione
dell’umanità dal potere infernale.
Per quanto il Descensus possa esere considerato l’ultimo
atto del dramma della Redenzione da cui veniva attinto nel
Medioevo l’argomento delle rappresentazioni popolari del
Limbo, come quella di cui si è appena parlato, il descensus di
Beatrice (figura Christi qui e altrove in Dante)111 nel Limbo
va inteso nella Commedia come la prima scena del dramma
della seconda redenzione in atto, il quale, per il suo valore
allegorico, coinvolge l’umanità hic et nunc. E grazie a questa
discesa che Virgilio, la “voce” della ragione umana
ubbidiente alla verità rivelata, guiderà Dante-pellegrino
attraverso i primi due regni oltremondani.
Durante questo percorso non mancano momenti altamente
drammatici, soprattutto nel Regno di Dite-Lucifero, come gli
incontri con alcuni dannati — Francesca da Rimini, Filippo
Argenti, Farinata degli Uberti, Pier delle Vigne, Vanni Fucci,
Ugolino ed altri — o come il volo sulla schiena di Gerione
verso gli ultimi cerchi dell’abisso infernale. Ma uno dei più
drammatici è l’episodio che si svolge davanti alla porta della
città di Dite112 che coinvolge diverse forze del male: accanto
ai “più di mille [...] da ciel piovuti”113, cioè gli angeli caduti,
all’entrata di Dante-pellegrino si oppongono varie presenze
demoniache mutuate dall’antichità classica (Furie, Medusa).
Per vincere la loro dura resistenza che agli occhi di Dantepellegrino rischia di compromettere il viaggio appena
iniziato114 e con esso la ricerca di una vera dimensione
dell’uomo come creatura di Dio, la voce della ragione si
110
Ep., XIII, 15.
Cfr. A. A. Iannucci, op. cit., p. 49 e la nota 22 nel presente articolo.
112
Inf., VIII, 67-IX,105.
113
Inf., VIII, 83.
114
Cfr. le parole di Dante: «e se ’l passar più oltre ci è negato, / ritroviam
l’orme nostre insieme ratto» (Inf., VIII, 101-102).
111
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
37
rivela troppo debole e il tentativo di Virgilio di “negoziare”
con i diavoli non può che concludersi con una sconfitta115. Ci
vuole l’intervento del Messo divino per bloccare la loro
inutile tracotanza.
Tutto l’episodio che nell’immaginario poetico di Dante
assume le caratteristiche di una “sacra rappresentazione”116
ispiratasi al tema del Descensus Christi ad Inferos117, noto al
Poeta o dal Vangelo di Nicodemo o dai suoi volgarizzamenti
parziali, come la sopra menzionata lauda perugina. Ciò che
qui ci interessa di sottolineare è il fatto che il voluto alludere
di questo episodio al Descensus non solo conferma il
carattere salvifico del viaggio dantesco, ma inoltre lo riallacia
— nell’intenzione di Dante-autore — alla dottrina della
Redenzione.
Che l’umanità abbia bisogno di un profondo rinnovamento
morale e spirituale, e cioè, di una nuova redenzione, lo
dimostrano vari passi del suo poema, in cui critica così
aspramente, ma con sofferenza, la situazione attuale di
Firenze, dell’Italia, del “mondo che mal vive”. In modo
particolare lo fa vedere nei canti “apocalittici” del
Purgatorio, di cui si è già parlato sopra.
Dante-pellegrino, purificato da ogni male, viene all’altezza
di questi canti investito della missione profetica, sull’esempio
di Giovanni, autore dell’Apocalisse, per cui gli è concessa la
sacra visione. In essa si susseguono le scene che
simboleggiano quattro gravi crisi che hanno colpito la Chiesa
115
Cfr. Inf., VIII, 115-117: “Chiuser le porte que’ nostri avversari/ nel petto al
mio segnor, che fuor rimase/ e rivolsesi a me con passi rari”.
116
Cfr. U. Bosco, Dante e il teatro medievale, in Studi filologici, letterari e
storici in memoria di Guido Favati, raccolti a cura di G. Varanini e di P. Pinagli,
vol. I, Padova 1977, pp. 136-141; A. A. Iannucci, Dottrina e allegoria in «Inferno
VIII», 67-IX, 105, in Dante e le forme dell’allegoresi, a cura di M. Picone,
Ravenna 1987, pp. 101 sgg.
117
Cfr. A. A. Iannucci, Dottrina e allegoria..., op. cit., pp. 101 sgg., in
particolare 104-108. La chiave di lettura in questi termini è offerta nei versi 124127 del Canto VIII.
MARIA MA LANKA-SORO
38
e l’umanità nel tempo dopo l’Ascensione di Cristo: le
persecuzioni subite sotto l’Impero Romano, le eresie dei
primi secoli, la donazione di Costantino e la cosiddetta
“cattività avignonese”, negli anni 1309-1377 in cui la Chiesa
corrotta, avendo la sede trasferita ad Avignone, dipendeva
dalla volontà dei re di Francia. Alla futura redenzione della
Chiesa alludono implicitamente le parole di Beatrice nel
canto XXXIII del Purgatorio la cui funzione allegorica —
della Teologia o Verità Rivelata — viene qui ribadita forse
più che altrove. Le sue parole — “Modicum, et non videbitis
me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis
me” (10-12) — che riecheggiano quelle con cui Cristo
durante l’Ultima Cena annunciò agli Apostoli la Sua Passione
e Risurrezione118, si riferiscono alla “morte” e “rinascita”
della Chiesa diventata temporaneamente uno strumento di
Satana. Infatti, è stata poco prima raffigurata dal carro
trasformatosi in drago (Bestia dell’Apocalisse). La frase:
“Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è”119, dove
“il vaso” (cioè, contenitore sott. della parola di Dio) significa
la Chiesa, non lascia dubbi che si tratti di una Chiesa
indemoniata. Lo conferma il paragone, che ci sembra lecito
addurre, con le identiche parole che nell’Apocalisse si
riferiscono alla Bestia: “Bestia, quam vidisti, fuit, et non
est”120. In più, lo sottolinea la breve descrizione del modo in
cui il drago si allontana dopo aver fatto il danno al CarroChiesa con il veleno della sua “coda maligna”121: “e gissen
vago vago” (135), cioè, serpeggiando122.
118
Cfr. Giov., 16, 16.
Apc., 34-35.
120
Apc., 17, 8.
121
Purg., XXXII, 134.
122
Cfr. il commento al v. 135 di N. Sapegno in op. cit., p. 367. Cfr. inoltre
L’Apocalisse 12, 9: “draco ille magnus, serpens antiquus, qui vocatur diabolus, et
satanas, qui seducit universum orbem”.
119
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
39
La degenerazione della Chiesa, uno dei due pilastri (l’altro
sarebbe l’Impero) del mondo medievale, responsabile in
modo particolare, secondo Dante-autore, del caos e della
distruzione della giustizia naturale, che ha raggiunto il suo
apice sotto “il regno” di Bonifacio VIII e di Clemente V,
diventato quest’ultimo il “vassallo” di Filippo IV il Bello e
della monarchia francese, è un leitmotiv ricorrente in varie
parti della Commedia e prima ancora nella Monarchia. Per
quanto riguarda il “poema sacro”, una critica molto aspra
viene rivolta, tra l’altro, ai papi simoniaci il cui
rappresentante, Niccolò III, diventa interlocutore di Dantepellegrino nella terza bolgia dell’ottavo cerchio. Nella
invettiva del proemio i simoniaci vengono chiamati con
disprezzo quelli che danno in adulterio per l’oro e l’argento le
cose sacre123. Il loro atteggiamento nefasto irradiandosi su
tutto il clero e il mondo cristiano, è visto come responsabile
del capovolgimento dell’ordine morale: “ché la vostra
avarizia il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i
pravi”124. L’immagine della Chiesa-meretrice ricompare più
avanti nella invettiva dei vv. 106 sgg. Nel costruirla, Danteautore ricorre alla nota metafora dell’Apocalisse125,
trasformando il suo significato particolare, ma lasciando
intatta l’idea essenziale della degenerazione del mondo per
colpa di una forza che domina con il suo potere temporale i
popoli della terra: nel testo biblico si tratta della Roma
pagana, in Dante, invece, della curia papale, identificata con
la Roma christiana. L’innovazione à partir du connu
riguarda anche la figura della meretrice che, come la bestia
apocalittica, possiede sette teste e dieci corna il cui senso
positivo – sette sacramenti o doni dello Spirito Santo e dieci
comandamenti — diventa strumento della critica: sia gli uni
123
Cfr. Inf., XIX, 1-4.
Inf., XIX, 104-105.
125
Apc., 17, 1-3.
124
MARIA MA LANKA-SORO
40
che gli altri sono stati contaminati dalla simonia della
gerarchia ecclesiastica.
Nella “sacra rappresentazione” del Paradiso Terrestre
Dante-autore “completa” il quadro negativo della Chiesa,
restituendo, a quanto pare, il senso “apocalittico” alle sette
teste che spuntano sul carro, avvelenato dal drago-serpente,
su cui si siede una “puttana sciolta”126, simboleggiante la
curia papale, che amoreggia sfrontatamente con “un
gigante”127 — Filippo IV. La coppia scellerata, come spiega
Beatrice, sarà uccisa da un futuro liberatore dal disordine
morale e politico, denominato da un numero, come
l’Anticristo nell’Apocalisse: “un cinquecento diece e cinque,
/ messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei
delinque”128.
L’“enigma forte”129 del “messo di Dio”130 non ha avuto
finora una soluzione definitiva, nonostante ogni tanto
vengano proposte delle nuove ipotesi131. Non entrando nel
126
Purg., XXXII, 149.
Ibid., 152.
128
Purg., XXXIII, 43-45.
129
Ibid., 50.
130
Ibid., 44.
131
Sul significato più particolareggiato del cinquecento diece e cinque, cfr. la
nota di A. M. Chiavacci Leonardi in op. cit., p. 606. Interessante pare la recente
ipotesi di S. Bellomo secondo cui “il messo di Dio” assumerebbe una
connotazione cristologica che lo avvicina al Veltro. Lo studioso si avvale della
sigla abbreviata delle due parole, “Vere dignum”, che compare nella Prefatio in
quasi tutti i messali tra il IX e il XIV secolo. In questo monogramma figurano la
lettera V accostata alla D e, tra l’una e l’altra, un trattino trasversale, segno di
abbreviazione, che rappresenta una croce e assomiglia a una X. Nel numero
dantesco DXV si potrebbe leggere l’anagramma della sigla VXD; questa
spiegazione ha un vantaggio rispetto al noto anagramma DVX (= dux), in quanto
le lettere compaiono in un ordine esattamente inverso e non implicano una
trasposizione arbitraria delle ultime due lettere. Sul problema cfr. S. Bellomo,
Canto XXXIII, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di G. Güntert e M. Picone, vol.
II (Purgatorio), Firenze 2001, pp. 503-509. Invece P. R. Damiani nel suo articolo
«Un cinquecento diece e cinque»: un’ipotesi per risolvere l’«enigma forte» di
Dante, apparso nel n. LXX degli “Studi Danteschi” (2005), rilancia la non nuova
ipotesi che si tratti di Arrigo VII, basandosi, però, su argomenti rimasti finora in
127
IL DRAMMA DELLA REDENZIONE
41
complesso problema dell’identificazione di questo
personaggio tanto discusso, vorremmo solo notare che alla
fine della via purgativa di Dante e dell’umanità che egli
rappresenta, riappare — come al suo inizio — un’altra
profezia ante eventum, che sotto vari aspetti riecheggia quella
del Veltro. Entrambi i messi divini vengono presentati come
quelli che saranno in grado di ristabilire un equilibrio tra la
dimensione terrena e spirituale del mondo. Il secondo, con la
sua opera di far tornare il giusto ordine morale e politico,
completerà la missione del primo che consisteva nel
liberarare l’umanità dalla “lupa”132 (cupidigia e frode) e con
essa dall’imminenza della “seconda morte”133 — dannazione
eterna. L’umanità non più “smarrita” potrà allora continuare
il suo cammino verso Colui che è l’Alfa e l’Omega, il
Principio e la Fine134, l’onnipotente Amor “che move il sole e
l’altre stelle”135.
ombra, come quello della centralità della figura dell’imperatore Costantino negli
ultimi canti del Purgatorio, il cui lontano erede (appunto Arrigo VII) avrebbe
potuto — secondo Dante — cancellare, dopo mille anni, i danni risultati dalla
cosiddetta “Donazione di Costantino”.
132
Cfr., Inf., I, 109-111.
133
Cfr. ibidem, 117.
134
Cfr. Apc., 1, 8 (Prologo) e 22, 13 (L’Epilogo).
135
Par., XXXIII, 145.
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