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Ariosto e l'ironia della finzione. La ricezione letteraria e figurativa dell'Orlando furioso in Francia, Germania e Italia - 2014 (INDICE del volume e ESTRATTO)

2014

L’ironia rappresenta oggi uno dei caratteri distintivi dell’Orlando furioso. Eppure quell’ironia che Ariosto ha infuso in modo consapevole e magistrale nel suo capolavoro venne misconosciuta per secoli e non fu apprezzata se non molto tardi. Per quali motivi? Quando e dove ha inizio la sua valorizzazione? Il libro ricostruisce per la prima volta la storia (e la “preistoria”) letteraria e figurativa dell’ironia ariostesca: nel panorama europeo essa assume diversi volti, passando dalle illustrazioni e dai dipinti del Cinque e Seicento italiano alla Francia di La Fontaine, Voltaire e Fragonard, nonché alla straordinaria stagione ariostesca di Wieland e dei romantici tedeschi (Schiller, Friedrich Schlegel, Schelling), per approdare infine - dopo De Sanctis, Pirandello e Croce - ai rapporti più segreti che intrattiene con il primo romanzo di Calvino. La tesi centrale è che la riscoperta moderna dell’ironia del Furioso avvenga ben prima dell’Estetica di Hegel, diversamente da quanto si conosce. All’idea di ironia romantica si può ricondurre il concetto di ‘ironia della finzione’ (Fiktionsironie), di cui vengono analizzati le implicazioni storiche e teoriche, i risvolti interpretativi e la funzione (ancora oggi attuale) di “mettere in prospettiva” la realtà per farcela osservare, attraverso una finzione consapevole, da punti di vista diversi. http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3172111/ariosto-e-l-ironia-della-finzione

Il presente testo è estratto dal volume: Christian Rivoletti Ariosto e l'ironia della finzione La ricezione letteraria e figurativa dell'Orlando furioso in Francia, Germania e Italia Marsilio, Venezia 2014 pp. 480 con 23 ill. a colori f.t., 1° ed. isbn: 978-88-317-2111-0 http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3172111/ ariosto-e-l-ironia-della-finzione Christian Rivoletti Ariosto e l’ironia della finzione La ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando furioso in Francia, Germania e Italia L’ironia rappresenta oggi uno dei caratteri distintivi dell’Orlando furioso. Eppure quell’ironia che Ariosto ha infuso in modo consapevole e magistrale nel suo capolavoro venne misconosciuta per secoli e non fu apprezzata se non molto tardi. Per quali motivi? Quando e dove ha inizio la sua valorizzazione? Il libro ricostruisce per la prima volta la storia (e la “preistoria”) letteraria e figurativa dell’ironia ariostesca: nel panorama europeo essa assume diversi volti, passando dalle illustrazioni e dai dipinti del Cinque e Seicento italiano alla Francia di La Fontaine, Voltaire e Fragonard, nonché alla straordinaria stagione ariostesca di Wieland e dei romantici tedeschi (Schiller, Friedrich Schlegel, Schelling), per approdare infine - dopo De Sanctis, Pirandello e Croce - ai rapporti più segreti che intrattiene con il primo romanzo di Calvino. La tesi centrale è che la riscoperta moderna dell’ironia del Furioso avvenga ben prima dell’Estetica di Hegel, diversamente da quanto si conosce. All’idea di ironia romantica si può ricondurre il concetto di ‘ironia della finzione’ (Fiktionsironie), di cui vengono analizzati le implicazioni storiche e teoriche, i risvolti interpretativi e la funzione (ancora oggi attuale) di “mettere in prospettiva” la realtà per farcela osservare, attraverso una finzione consapevole, da punti di vista diversi. Christian Rivoletti insegna Letteratura francese e italiana all’Università di Erlangen-Norimberga. È stato membro di gruppi di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ospite del Collège de France e fellow della Fondazione Alexander von Humboldt. È autore fra l’altro di Le metamorfosi dell’utopia (Lucca 2003), di studi sulla storia della letteratura e della cultura, sul rapporto tra testi e immagini, su temi di teoria e di critica letteraria; è curatore di due volumi di Erich Auerbach: Romanticismo e realismo (Pisa 2010) e Kultur als Politik (Konstanz 2014). e 35,00 In copertina: Giovanni Bilivert, Angelica si cela a Ruggiero (particolare). Firenze, Galleria Palatina. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Ricerche Christian Rivoletti Ariosto e l’ironia della finzione La ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando furioso in Francia, Germania e Italia Marsilio Questo volume è pubblicato con il contributo della Alexander von Humboldt Foundation. © 2014 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: novembre 2014 ISBN 978-88-317-1746-5 www.marsilioeditori.it Realizzazione editoriale Piccola Redazione Pickwick INDICE ix Introduzione ix xv xx xxiii xxx 1. «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!»: narrazione, finzione e ironia 2. L’“insegretimento” dell’ironia ariostesca... 3. ... e la sua riscoperta: storia e preistoria dell’ironia 4. L’itinerario di questo libro Avvertenza 1 1. L’ironia della finzione nel Furioso e nella sua ricezione 1 1.1. Verso una definizione dell’ironia della finzione 1 1.1.1. Ironia retorica e ironia romantica - 8 1.1.2. Ironia della finzione, umorismo, metafinzione 13 1.2. Come “funziona” l’ironia della finzione 13 1.2.1. Un gioco di rinvii su cinque livelli - 21 1.2.2. I procedimenti dell’ironia della finzione ariostesca 30 1.3. Modi e gradi dell’ironia 30 1.3.1. I modi: ironia e autoironia - 32 1.3.2. I gradi: ironia della finzione e ironia illuministica 33 1.4. Ironia e soprannaturale. Le due modalità del fantastico nel Furioso 33 1.4.1. Il fantastico di complicità - 36 1.4.2. Il fantastico metaforico 37 1.5. Ironia della finzione e psicologia dei personaggi 37 1.5.1. Finzione favolistica e verità psicologica - 38 1.5.2. Il metodo ipoteticosperimentale nel Furioso 43 1.6. La messa in prospettiva della narrazione 45 1.7. L’ironia della finzione e il rinvio alla realtà 53 2. Verità, finzione e ironia nei Contes en vers tirées de l’Arioste di La Fontaine 53 2.1. I Contes en vers: la prima valorizzazione dell’ironia ariostesca in Francia 58 2.2. La dialettica tra finzione favolistica e verità psicologica 63 2.3. Boileau, La Fontaine e la bigarrure di Ariosto indice VI 65 2.4. «Et l’Arioste ne ment pas»: il gioco con l’autenticità della fonte 73 2.5. Il fantastico e l’ironia della finzione 73 2.5.1. Il fantastico metaforico - 78 2.5.2. Il fantastico di complicità 85 3. Voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 85 3.1. Voltaire e la riabilitazione dell’Orlando furioso: un lungo percorso 85 3.1.1. L’influenza classicistica nell’Essai sur la poésie épique - 93 3.1.2. L’analisi del Furioso nella voce Epopée del Dictionnaire philosophique 102 3.2. Alla ricerca di un nuovo genere epico: La Pucelle d’Orléans 102 3.2.1. Dal Furioso alla Pucelle - 107 3.2.2. La ricerca di una via nuova nel genere epico - 109 3.2.3. Il problema critico della Pucelle - 112 3.2.4. La bigarrure di Ariosto e la commistione di toni nella Pucelle 120 3.3. Tra ironia illuministica e ironia della finzione: lo statuto particolare della Pucelle 120 3.3.1. Critica della religione e ironia illuministica negli scritti saggistici e nell’epos - 127 3.3.2. Tra serio e comico: tragicità e ironia nella Pucelle - 135 3.3.3. Dalla commistione tra serio e comico all’ironia della finzione: il principio della «varietà» come presupposto dell’aderenza al «vero» - 138 3.3.4. I principi poetici del Furioso tra prassi e teoria: dalla Pucelle alla voce Epopée - 140 3.3.5. Il «sentier» torto di Ariosto e le «but de l’ouvrage» 146 3.4. L’ironia e il soprannaturale: le tre modalità del fantastico nel poema di Voltaire 146 3.4.1. La satira delle credenze religiose e del merveilleux chrétien - 149 3.4.2. Il fantastico di complicità - 151 3.4.3. Il fantastico metaforico 154 3.5. «L’arme» e «gli amori»: procedimenti dell’ironia della finzione ariostesca nella Pucelle 154 3.5.1. «L’arme» e «gli amori» - 156 3.5.2. L’uso della rima baciata e dei sommari - 159 3.5.3. L’interruzione dei canti e l’intreccio delle storie - 163 3.5.4. L’ironia nei commenti del narratore - 165 3.5.5. Ironia e autoironia negli esordi ai canti 171 4. Dalla riscoperta del Furioso alla moda dei poemi “ariosteschi”: Wieland e il secondo Settecento 171 4.1. La riscoperta di Ariosto nella critica illuminista: Johannes Nicolaus Meinhard 182 4.2. La svolta storica di Wieland 188 4.3. Wieland e la moda dei «poemi romantico-ariosteschi» 194 4.4. L’intreccio delle storie e dei personaggi nel microcosmo dell’ottava e nella “macchina” del poema 194 4.4.1. Il microcosmo: analisi di un’ottava di Wieland - 199 4.4.2. Il macrocosmo: l’intreccio nella “macchina” del poema - 199 a) L’autoriflessione sul poema come “macchina”- 203 b) Il poema e il mondo - 204 c) Da un personaggio all’altro: formule della metalessi in Ariosto e in Wieland - 213 d) Il “terzo incomodo” - 215 e) Le interruzioni dei canti 219 4.5. «Forse era ver, ma non però credibile»: il metodo ipotetico-sperimentale e la psicologia dei personaggi 233 4.6. Finzione fantastica e verità psicologica: l’opposizione dialettica tra passato ideale e realtà attuale 245 4.7. Verso una poetica «romantica»: Wieland, Gerstenberg e l’opposizione tra arte e natura indice VII 257 5. Ariosto e la rivoluzione romantica: alle radici della comprensione critica moderna del Furioso 257 5.1. Presenza del soggetto e distanza dall’oggetto: il Furioso nella Poesia ingenua e sentimentale di Schiller 263 5.2. Friedrich Schlegel: forme e funzioni dell’ironia artistica 263 5.2.1. Ariosto tra i modelli della poesia romantica nello Studio della poesia greca (1795-1797) - 270 5.2.2. Una nuova interpretazione dell’ut pictura poësis ariostesco: la «grottesca», l’«arabesco» e l’ironia al livello della dispositio nel Dialogo sulla poesia (1800) - 281 5.2.3. Dalla struttura «arabescata» al romanzo contemporaneo - 285 5.2.4. Inventio, dispositio ed elocutio: l’ironia ariostesca nei tre livelli del testo - 288 5.2.5. Dalla filosofia trascendentale di Fichte all’estetica romantica di Schlegel: ironia, dialettica e prospettiva - 291 5.2.6. L’ironia come fondamento della poesia romantica e il Frammento 116 dell’«Athenäum» 304 5.3. L’ironia ai livelli dell’inventio e della dispositio: Ariosto nella Filosofia dell’arte di Schelling 311 5.4. L’Estetica di Hegel e il suo effetto paradossale 311 5.4.1. Il Furioso tra la finzione cavalleresca dell’epica e la «realtà prosaica» del romanzo - 319 5.4.2. Il paradosso hegeliano: la condanna dell’ironia romantica e la sua implicita valorizzazione 323 6. Dopo il romanticismo tedesco: l’ironia ariostesca tra Otto e Novecento 323 6.1. De Sanctis e l’ironia del Furioso 334 6.2. Pirandello: ironia o umorismo? 344 6.3. Calvino, Ariosto e lo sguardo sulla realtà 357 7. L’ironia visualizzata: il Furioso e le arti figurative 357 7.1. Un problema teorico: come tradurre l’ironia in immagini 362 7.2. «L’arme, gli amori» e le «risibili collisioni»: commistione di toni nelle edizioni illustrate veneziane del Cinquecento 362 7.2.1. La riduzione dell’Orlando furioso alle norme dell’epica eroica: l’edizione di Giolito (1542) - 369 7.2.2. Molteplicità di episodi e commistione di toni: le illustrazioni di Valgrisi (1556) 383 7.3. Dal testo ai dipinti del primo Seicento: l’ironia dalla voce del narratore allo sguardo del personaggio 383 7.3.1. La figura di spalle e la sua “vittima” in Angelica si cela a Ruggiero di Giovanni Bilivert - 392 7.3.2. Ironia e “teatralità” in una pietra paesina 395 7.4. Fragonard: il narratore entra in scena 405 Appendici bibliografiche 405 i. Bibliografia sulla ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando furioso 413 ii. Altre opere e studi consultati 423 Indici 423 i. Indice dei nomi 431 ii. Indice dei personaggi Questo libro è il mio lavoro di abilitazione alla libera docenza universitaria per le discipline di Filologia Romanza e di Letterature Comparate, presentato presso l’Università del Saarland nel maggio 2011. Giunto al termine di un lavoro che mi ha impegnato per diversi anni, il pensiero va a tutti coloro che hanno seguito le tappe di questo lungo percorso sulle tracce della storia dell’ironia ariostesca. A Lina Bolzoni, sotto la cui guida mi sono laureato, ormai molti anni fa, a Pisa e con la quale si è creato presto un sodalizio umano e scientifico per me molto importante, che la distanza geografica non ha affievolito; a Karlheinz Stierle, che con generoso entusiasmo ospitò a Costanza il mio progetto ariostesco, finanziato dalla Fondazione Alexander von Humboldt, e con il quale il dialogo sulla ricezione europea del Furioso è proseguito ininterrottamente sino ad oggi; a Susanne Kleinert, con la quale ho avuto il piacere di collaborare negli anni di insegnamento a Saarbrücken; e ai colleghi dell’Istituto di Filologia Romanza della Friedrich-Alexander-Universität di Erlangen-Norimberga, la cui calorosa accoglienza ha creato il clima ideale per rileggere e pubblicare il mio lavoro. Mi hanno inoltre aiutato in vari modi durante le fasi della ricerca, della stesura e della pubblicazione del libro attraverso consigli, indicazioni o suggerimenti: Albert Russell Ascoli, Aleida Assmann, Achim Aurnhammer, Maria Cristina Cabani, Alberto Casadei, Riccardo Castellana, Remo Ceserani, Albert Dietl, Giulio Ferroni, Marc Föcking, Cordula Grewe, Bodo Guthmüller, Ralph Hafner, Klaus W. Hempfer, Stefano Jossa, Barbara Kuhn, Dennis Looney, Renato Martinoni, Florian Mehltretter, Francesco Orlando (†), Patricia Oster-Stierle, Daniele Rivoletti, Massimiliano Rossi, Giuseppe Sangirardi, Cesare Segre (†), Sergio Zatti. È ovvio che la responsabilità di eventuali errori o omissioni è da attribuirsi interamente a chi scrive. Desidero infine ringraziare Carlo Ossola per avermi ospitato presso il Collège de France per un soggiorno di ricerca a Parigi, e la Alexander von Humboldt-Stiftung di Bonn che ha generosamente finanziato sia il mio iniziale soggiorno di ricerca in Germania, sia la pubblicazione del libro. Dedico il libro a mia moglie, fidata e generosa compagna di sempre, e a mia figlia Laura, cresciuta curiosando spesso tra le storie e le immagini fantastiche di questo lavoro di ricerca, con l’augurio di poter nella vita attraversare in entrambe le direzioni infinite volte, con profitto e godimento, la soglia esistente tra il mondo delle finzioni e quello della realtà. INTRODUZIONE 1. «oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!»: narrazione, finzione e ironia Il lungo racconto dell’Orlando furioso ha inizio con la fuga di Angelica, quando il lettore ha appena varcato le poche strofe che compongono la soglia del testo (protasi, dedica e un succinto riassunto degli eventi già narrati dal predecessore Boiardo). Angelica, presagita la sconfitta che investirà quel giorno l’esercito cristiano e approfittando dello scompiglio creatosi durante la battaglia, fugge tempestivamente dall’accampamento di Carlo Magno. Ha percorso poca strada, quando s’imbatte in un cavaliere, primo di una serie di incontri (e di scontri) che scandiscono il ritmo incalzante del canto iniziale del poema: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venia. Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo. [O.F., i, 10-11]1 Questa prima apparizione è alquanto inconsueta per un lettore di romanzi di cavalleria, che si trova improvvisamente di fronte a un cavaliere senza cavallo il quale, armato di tutto punto, corre veloce come farebbe 1 Le citazioni tratte dall’Orlando furioso sono indicate con la sigla O.F. direttamente in corpo di testo. Per l’analisi dei passi abbiamo tenuto presenti vari commenti al poema, con particolare attenzione a quelli curati da E. Bigi, Milano, Rusconi, 1982 (adesso ristampato a cura di C. Zampese, Milano, Rizzoli, 2012) e da R. Ceserani e S. Zatti, Torino, Utet, 1997. x introduzione un contadino seminudo. Il narratore lascia, con indifferenza sorniona, che l’insolita scena sorprenda il suo buon lettore di poemi cavallereschi, e solo nella strofe successiva si decide a presentarci il personaggio: si tratta del nobile paladino Rinaldo, al quale – ci viene adesso spiegato – è casualmente sfuggito di mano il fido destriero Baiardo. Ma il lettore non fa neppure in tempo a riassestare il proprio orizzonte delle attese che, due ottave dopo, spunta fuori un secondo cavaliere, anch’egli coinvolto in una strana situazione: Ferraù, «di sudor pieno e tutto polveroso» (O.F., i, 14), si è allontanato brevemente dal campo di battaglia per rinfrescarsi presso un fiume, ma per la banale fretta di bere (perché è «de l’acqua ingordo e frettoloso») ha perduto il proprio elmo, che gli è caduto nel fiume, e non è ancora riuscito a ripescarlo. Tutti i personaggi che incontriamo in queste prime ottave ci appaiono in balia degli eventi: sembra che nessuno di loro sia sino in fondo padrone delle proprie azioni. Rinaldo si trova, in maniera inconsueta per un cavaliere, a rincorrere Baiardo il quale gli è «per strano caso uscito [...] di mano» (O.F., i, 12, corsivo mio); Angelica non guida il proprio cavallo, «ma [...] di sé tolta, / lascia cura al destrier che la via faccia» (O.F., i, 13, corsivo mio); Ferraù, che si era assentato solo per un momento dal campo di battaglia per rinfrescarsi presso il fiume, «mal grado suo, quivi fermosse» (O.F., i, 14, corsivo mio). In tre strofe consecutive si ripete, quasi come un refrain, la condizione dell’eroe (o dell’eroina) che si trovano “per caso” in una situazione “loro malgrado”: è un po’ come se la casualità della vita prosaica quotidiana avesse fatto inopinatamente irruzione nel mondo poetico e ideale della tradizione cavalleresca, a scompaginarne, per ironico divertimento, gli schemi usuali. Ancora un paio di strofe e tutti e tre i personaggi che ci sono stati presentati finiranno casualmente per incontrarsi assieme e scoppierà il primo duello del poema, tra un cavaliere senza cavallo e uno senza elmo. Noi lettori assistiamo alla scena e non possiamo fare a meno di sorridere: basterebbe la presenza di uno spettatore che, non visto, osservi dall’alto i percorsi tortuosi compiuti dai tre personaggi “loro malgrado” sino all’incontro-scontro, per farci parlare di un sorriso ironico, lanciato appunto “dall’alto”. Ma questo spettatore ancora non c’è oppure, se già c’è, ancora non lo si vede. Pur tuttavia avvertiamo di non essere soli a guardare la scena. Nella scelta degli aggettivi, nei toni sapientemente dosati, persino nel ritmo che lega tra loro le strofe e mima l’incalzare ininterrotto degli eventi: in tutti questi dettagli percepiamo una presenza divertita che accompagna la narrazione epica. La ripresa della tecnica tradizionale canterina dell’uso dell’anadiplosi, in particolare come ripetizione dell’ultima parola rima dell’ottava precedente, assicura una fluida continuità al racconto, infondendogli quella familiarità che deriva dall’adozione di un procedimento consolidato attraverso la lunga esperienza degli aedi. Eppure proprio là dove quella tecnica viene utilizzata, il nostro aedo-narratore sembra accompagnare con un gesto naturalissimo la presentazione di una nuova scena, che piuttosto che offrire una placida continuazione ci sorprende, e La pagina XI non è riprodotta in questo estratto. introduzione xii Del resto, sul valore soggettivo di quel «bella» il narratore ci strizza l’occhio nella strofe seguente, dove ci spiega come Ferraù non ponga indugio e sappia bene quel che deve fare: E perché era cortese, e n’avea forse non men de’ dui cugini il petto caldo, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. [O.F., i, 16] Ferraù interviene dunque in aiuto della dama perseguitata innanzitutto perché è «cortese», ovvero perché ha rispetto del codice cavalleresco. «Forse», aggiunge però subito dopo il narratore, agisce anche perché è altrettanto fortemente invaghito di Angelica. Le due motivazioni ci vengono offerte con un semplice accostamento, tramite la congiunzione correlativa («E perché era [...], e n’avea forse [...]»): a ben vedere, sono tuttavia in forte contrasto reciproco, tale che l’una esclude necessariamente l’altra. Se Ferraù agisce perché è “interessato” ad Angelica, questa ragione non può che escludere quella della “cortesia” (per forza di cose disinteressata), e rappresentare invece una nuova fonte di minaccia per il personaggio femminile. Iniziamo a comprendere come funziona, almeno a livello dell’eloquio, l’ironia del nostro narratore, che accosta spesso con la massima naturalezza situazioni o concetti tra loro in realtà contrastanti, talvolta incompatibili. Ed avvertiamo come ironico anche l’avverbio ‘forse’ (sul quale cade sapientemente l’enfasi della rima): il narratore, che ha mostrato sinora di conoscere tutto, vicende esteriori e sentimenti interiori dei suoi personaggi, avanza qui solamente un’ipotesi, e lascia così il proprio lettore nel dubbio, costringendolo a porsi un interrogativo. «Quali sono le reali intenzioni di Ferraù?»: il lettore dovrà attendere le sue mosse, dovrà osservarlo come se si trattasse di una persona reale, per capire quale sia il suo vero fine. La domanda rimane per un poco senza risposta: lasciamola aperta, e osserviamo intanto che la seconda parola rima, «caldo», e il riferimento al sentimento «de’ dui cugini» ci riportano con la mente al riassunto dei fatti già narrati da Boiardo, che si era esteso per lo spazio di cinque ottave (O.F., i, 5-9): anche là avevamo trovato la coppia rimica caldo : Rinaldo («una gara / tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo, / che entrambi avean per la bellezza rara / d’amoroso disio l’animo caldo»). Ci viene allora in mente che già in quel riassunto avevamo percepito in alcuni dettagli il tono leggero e ironico della voce narrante. Un’ironia talvolta nascosta nelle pieghe del testo, persino nelle rime, come quando il narratore ci ha spiegato che Orlando, dopo aver difeso la sua Angelica attraverso mille pericoli in Oriente e in Europa, finisce per perderla proprio nel luogo più sicuro, all’interno del proprio accampamento e per introduzione xiii volontà del proprio re. Nella rima baciata che chiude l’ottava, avevamo già incontrato quel procedimento ironico attraverso il quale vengono apparentemente accostati (qui tramite l’analogia fonica stabilita appunto dalla rima) due elementi tra loro in forte contrasto (Orlando giunge proprio al momento giusto, ma non certo giusto per lui): E così Orlando arrivò quivi a punto: ma tosto si pentì d’esservi giunto: Che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperii ai liti eoi avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. [O.F., i, 6-7, corsivi miei] Osserviamo inoltre come l’ironia nascosta nella rima baciata trovi prosieguo in quello che rappresenta, racchiuso in un solo verso, il primissimo commento diretto, la primissima esclamazione “fuori campo” del narratore sui fatti da lui narrati: «ecco il giudicio uman come spesso erra!». Una rapidissima riflessione che, come un lampo, mette in collegamento il proprio racconto fantastico, tutto il mondo cavalleresco e poetico dei paladini, con comportamenti e attitudini psicologiche facenti parte della realtà umana, di quella stessa vita quotidiana del lettore, stimolando così quest’ultimo, sin dai primissimi versi, a riflettere anche in seguito e autonomamente sul rapporto tra finzione epica e realtà. Ma torniamo alla strofe 16 e alla domanda rimasta aperta sulle motivazioni psicologiche del comportamento di Ferraù. Dobbiamo attendere solo due ottave, nelle quali ci viene descritto l’aspro duello scoppiato tra i due cavalieri (mentre Angelica, per niente rassicurata dall’intervento di Ferraù, ha ripreso la sua fuga), per assistere a un dialogo nel quale Rinaldo propone al proprio rivale un accordo: perché non deporre le armi e pensare a riacciuffare assieme la preda (Angelica), prima di disputarsela di nuovo? «Al pagan la proposta non dispiacque» (O.F., i, 21), riferisce il narratore mostrandoci un sorriso attraverso l’uso ironico della litote: la tregua si fece dunque in un subito, la supposta “cortesia” di Ferraù non era quindi mai esistita, era solo un’ipotesi nella mente del lettore, con il quale il narratore gioca abilmente, lasciando che venga coinvolto nella finzione della storia. Il gioco è abbastanza maturo perché l’intervento diretto del narratore possa adesso estendersi finalmente per un’intera ottava, quella celebre che è stata più volte indicata con ammirazione come primo chiaro esempio dell’ironia ariostesca e attraverso la quale il narratore commenta la tregua appena stipulata tra i duellanti e suggellata dal generoso invito di Ferraù rivolto a Rinaldo, perché accetti di essere trasportato in groppa al suo cavallo: introduzione xiv Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi. [O.F., i, 22] Il narratore prorompe dunque in un enfatico elogio delle virtù morali degli antichi cavalieri proprio nel momento in cui su queste medesime virtù gravano forti dubbi: l’esclamazione iniziale e l’intero elogio non possono di necessità che suonare ironici, come fece notare argutamente Pirandello2. L’ironia di questa ottava contiene una fondamentale indicazione di “lettura” valida per l’intero poema e allude al complesso gioco di rimandi tra realtà, finzione poetica e tradizione letteraria instaurato dal narratore. Quest’ultimo mostra infatti di saper prendere distanza sia dalla finzione poetica, discoprendocela come tale, sia dall’idealizzazione delle virtù cavalleresche, tramandataci dalla tradizione epica: in tal modo ci rinvia sagacemente alla realtà dell’uomo, ai suoi comportamenti sociali e alla sua psicologia, come abbiamo già osservato sopra, a proposito della primissima esclamazione del narratore e dell’uso del ‘forse’ ironico (O.F., i, 7 e 16). L’ironia del Furioso è complessa e multiforme, come rivela anche solo l’analisi di poco più di una decina di ottave: è un’ironia che si dispiega a vari livelli del testo, dai commenti del narratore, alla disposizione e all’intreccio (per dirla con Hegel: alle “casuali” «collisioni») delle storie dei personaggi, allo scelto e sapiente eloquio (nel quale andranno compresi, come abbiamo visto, anche i giochi rimici). Tuttavia, al di là del suo carattere proteiforme, è un’ironia che possiede un centro: nel suo intimo legame con la dimensione della finzione poetica, nel gioco consapevole tra la finzione e ciò che non è finzione, ovvero la realtà. E di questo gioco consapevole l’indicazione estrema era forse già stata offerta al lettore nella seconda ottava del primo canto, laddove l’ironia aveva assunto il carattere di autoironia, e il soggetto narrante aveva dichiarato il proprio diretto coinvolgimento nella finzione narrata, non solo confrontandosi con il protagonista Orlando, ma subordinando alla propria vicenda amorosa e ai propri sentimenti persino l’atto stesso della scrittura del poema3. 2 Pirandello osserva che, per comprendere l’ironia di questo verso, «bisogna pensare a che cosa avrebbe potuto rispondere Ferraù alla proposta di Rinaldo di smettere il duello: “Io non combatto per una preda, io combatto per difendere una donna che m’invoca ajuto; e se io son riuscito a difenderla, non ho combattuto invano”. Un buon cavaliere antico, veramente nobile, avrebbe risposto così. [...] Quella esclamazione dunque “oh gran bontà dei cavalieri antiqui!” è veramente ironica». (L. Pirandello, L’umorismo, in Id., Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello, Milano, Mondadori, 2006, p. 863: per l’intero passo cfr. infra § 6.2 Pirandello: ironia o umorismo?). 3 «Dirò d’Orlando in un medesmo tratto / cosa non detta in prosa mai, né in rima: / che per amor venne in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato prima; / se da colei che tal quasi m’ha fatto, / introduzione xv 2. l’“insegretimento” dell’ironia ariostesca... Questa ironia poliedrica, impalpabile e diffusa, oggetto di ammirazione e di imitazione da parte di un Pirandello e di un Calvino, viene avvertita oggi quasi unanimemente dai lettori del Furioso come uno dei suoi caratteri non solo fondamentali, ma anche più godibili e più affascinanti. Ma è stato sempre così? L’ironia che Ariosto ha sapientemente infuso nella propria opera è stata sin da subito compresa e apprezzata dal pubblico? Come il lettore colto sa bene, questo modo di leggere il poema costituisce una scoperta relativamente recente e che si afferma progressivamente solo a partire all’incirca dagli ultimi due secoli della ricezione del testo4. A lungo, già da prima della fine del Cinquecento, l’ironia ariostesca fu invece giudicata come “sconveniente” e i vari aspetti del poema ad essa collegati furono frequentemente oggetto di condanna da parte dei critici. Nel corso del secolo in cui vide la luce, il Furioso fu al centro di accesi dibattiti condotti dai sostenitori e dai detrattori di Ariosto: molto forte fu, in entrambi gli schieramenti, la tendenza a leggere il poema giudicandolo sulla base della sua maggiore o minore aderenza alle norme classiche5. Fondandosi su un’osservazione avanzata da Aristotele, relativa alla quasi totale assenza del soggetto narrante nell’epos omerico, vennero ad esempio condannati tutti quegli interventi diretti del narratore all’interno della storia che rappresentano uno dei procedimenti principali dell’ironia ariostesca6. Furono rari, anche tra gli stessi difensori dell’Ariosto, coloro che tentarono che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, / me ne sarà però tanto concesso, / che mi basti a finir quanto ho promesso» (O.F., i, 2). 4 Un breve schizzo di questa situazione critica nel recente contributo di G. Forni, Ariosto e l’ironia, in Ariosto Today: Contemporary Perspectives, a cura di D. Beecher, M. Ciavolella, R. Fedi, Toronto, University of Toronto Press, 2003, pp. 475-488, in part. pp. 475-478 (ora raccolto in G. Forni, Risorgimento dell’ironia. Riso, persona e sapere nella tradizione letteraria italiana, Roma, Carocci, 2012, pp. 77-93). 5 Sulla ricezione cinquecentesca del Furioso e sul dibattito, ad essa collegato, su epica e romanzo, si vedano in particolare G. Fumagalli, La fortuna dell’Orlando furioso in Italia nel secolo XVI, Ferrara, Zuffi, 1912; G. Fatini, Bibliografia della critica ariostea (1510-1956), Firenze, Le Monnier, 1958; B. Weinberg, The Quarrel over Ariosto and Tasso, in Id., A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, Chicago, University of Chicago Press, 1961, vol. ii, pp. 954-1073; K.W. Hempfer, Diskrepante Lektüren: Die Orlando-Furioso-Rezeption im Cinquecento. Historische Rezeptionsforschung als Heuristik der Interpretation, Stuttgart, Steiner, 1987 [trad. it. Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento, Modena, Panini, 2004]; D. Javitch, Proclaiming a Classic: the Canonization of Orlando furioso, Princeton, Princeton University Press, 1991 [trad. it. Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, prefazione di N. Gardini, Milano, Mondadori, 1999]; F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001; S. Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002 e S. Zatti, The Quest for Epic: From Ariosto to Tasso, Toronto, University of Toronto Press, 2006. 6 «Il poeta [epico] deve parlare in prima persona il meno possibile: quando fa codesto egli non è imitatore» (Aristotele, Poetica, 1460a). Sulle critiche relative all’istanza narrativa, si rinvia alla ricostruzione offerta da Hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento, cit., pp. 130139. I commenti del narratore, e allo stesso modo i proemi, vennero avvertiti inoltre come problematici perché contribuivano a interrompere la continuità narrativa, creando insoddisfazione nel lettore: vedi su questo l’analisi di Javitch, Ariosto classico, cit., pp. 155-185. xvi introduzione di giustificare questo aspetto della narrazione: quei pochissimi critici che lo fecero, solitamente lodarono comunque il valore morale di tali interventi, e indicarono invece come disdicevole il tono ironico del narratore. Così accade ad esempio nelle Osservazioni di Alberto Lavezuola, che appaiono per la prima volta all’interno della sontuosa edizione del Furioso (1584) impreziosita dalle eleganti incisioni in rame di Girolamo Porro: il poderoso apparato paratestuale e iconografico segna una delle vette del grande successo editoriale dell’opera e sancisce, al contempo, l’affermazione di un modo classicheggiante ed epicizzante di leggere il poema7. A proposito di un intervento del narratore che rileva con sottile ironia (e malizia) il possibile significato equivoco di una battuta pronunciata dal personaggio di Bradamante (O.F., xxxv, 76-77), Lavezuola insorge con tono contrariato: Ecco come egli abondi di questi non convenevoli ridicoli, i quali essorto a fuggire in tali Poemi, come lo scoglio tra l’onde del mare8. L’esempio, al quale se ne potrebbero affiancare numerosi altri, è indicativo dell’incapacità, ormai diffusa a quest’altezza cronologica, di comprendere il valore e le funzioni della dimensione ironica del testo. La «canonizzazione» dell’Orlando furioso coincise dunque con un processo di “insegretimento” della sua ironia, nei vari livelli del testo. Accanto agli interventi ironici del narratore, anche quell’ironia che gioca con la struttura della narrazione, ovvero con l’intreccio dei diversi filoni narrativi (come vedremo meglio più avanti9), non poté essere adeguatamente recepita proprio perché, in base al principio pseudoaristotelico dell’unità di azione, la struttura stessa del poema venne avvertita come problematica e messa pesantemente sotto accusa. Sparuti giudizi positivi sull’ironia ariostesca non mancano, ma si riducono veramente a casi isolati, che non danno conto della complessità di questo carattere fondamentale dell’opera. Le occorrenze della stessa parola ‘ironia’ all’interno della critica cinquecentesca sul Furioso si contano addirittura sulla punta delle dita di una mano10: tra queste l’esempio più significativo è senz’al7 Le stesse modalità illustrative scelte dall’incisore confermano una piena adesione alle «furie codificatorie dei sostenitori di una moderna epica eroica, decorosamente [...] aristotelica»: si vedano su questo le osservazioni di Massimiliano Rossi in L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, 21 giugno - 20 ottobre 2001) a cura di E. Fumagalli, M. Rossi e R. Spinelli, Livorno, Sillabe, 2001, pp. 156-157, e la nostra analisi delle illustrazioni di Porro, infra § 7.2.2. 8 Osservationi del Sig. Alberto Lavezuola, sopra il Furioso di M. Lodovico Ariosto, in Orlando furioso di M. Lodovico Ariosto Nuovamente adornato di Figure di Rame da Girolamo Porro Padovano Et di Altre cose che saranno notate nella seguente facciata, Venezia, Franceschi, 1584, c. 30v. 9 Cfr. infra § 1.2.2. 10 Tre sole sono le occorrenze registrate da D. Knox, Ironia. Medieval and Renaissance Ideas on Irony, Leiden-NewYork-København-Köln, Brill, 1989, pp. 11, 83 (nota 49) e 85 (nota 67): oltre a quella qui di seguito citata, sarà nuovamente Lodovico Dolce a mettere in risalto il tono ironico tenuto da Marfisa nel rivolgersi a Zerbino (O.F., xx, 128), nel suo commento al Furioso (Orlando furioso di M. Lodovico Ariosto, corretto e dichiarato da M. Lodovico Dolce, con gli argomenti di M. Gio. dell’Anguil- La pagina XVII non è riprodotta in questo estratto. xviii introduzione il modo giocoso («ludicro more») di rappresentare il mondo cavalleresco e la serietà del lavoro poetico svolto dall’autore13. Pochi anni dopo, Castiglione fa direttamente riferimento al carattere misto del poema di «messer Lodovico Ariosto, che in un solo ci dà Homero e Menandro»14. Nella frase troviamo espressa tutta la forza della novità della creazione ariostesca, nella quale alla serietà epica omerica si affianca un tono comico e giocoso: tale è la novità di questa commistione capace di rompere con le regole classiche dell’epos, che Castiglione è costretto a fare riferimento al genere teatrale della commedia per darne conto. Così facendo formula per primo la fortunata osservazione del “genere ibrido”, che verrà ripresa in seguito infinite volte: se però Castiglione la intende in modo assolutamente elogiativo, tale osservazione verrà presto capovolta in accusa dai critici, prima nel Cinquecento italiano e poi nel Sei e nel Settecento francese, per pervenire, come avremo modo di vedere, sino a Voltaire, che nel 1756 denuncerà ancora l’incompatibilità tra i toni seri e comici arbitrariamente mischiati nel Furioso15. Ma se tali testimonianze di una sensibilità pronta a intuire questa ricca e complessa dimensione dell’opera ci furono, perché esse non ebbero modo di crescere e di svilupparsi, di pervenire a una comprensione piena e profonda dell’ironia ariostesca? Perché si assisté invece a un “insegretimento” di questa dimensione, a una sua più o meno consapevole “rimozione”? La risposta al quesito è tutt’altro che semplice e investe sicuramente molti fattori. Almeno due ci sembrano tuttavia aver ricoperto un ruolo primario in questo processo storico. Il primo, e più evidente, fu l’affermarsi di un clima culturale avverso a una lettura del Furioso libera da pregiudizi e disposta a saggiarne la portata ironica: l’avanzare della Controriforma, già all’indomani della pubblicazione dell’edizione definitiva del poema, e di una modalità critica normativizzante, tesa a misurare la validità delle opere artistiche sulla base della regolistica pseudoaristotelica non rappresentavano certo i presupposti migliori per un libero esercizio critico. A questo va aggiunto anche un secondo fattore, che risiede nel carattere stesso dell’ironia ariostesca, la quale rappresenta una vera e propria novità storica, che, nella sua pervasività e nella sua efficacia complessiva, non conosce né modelli, né eguali. Non bastano infatti a spiegarla i riferimenti al modello socratico mediato dalla tradizione filosofica platonico-ficiniana16: per la sola ragione che con Ariosto l’ironia si attua all’interno del genere epico, assumendo 13 Per il significato dell’espressione ludicro more, si veda l’analisi condotta da K.W. Hempfer, in L’età di Alfonso I e la pittura del Dosso, Atti del convegno internazionale di studi (Ferrara, 9-12 dicembre 1998), a cura di G. Venturi, Modena, Panini, 2004, pp. 29-43: 31. 14 L’osservazione, che si trova in una versione manoscritta del Cortegiano, venne poi espunta nell’edizione definitiva del testo (cfr. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni, 1947, p. 378, nota 14, corsivo mio). 15 Cfr. infra § 3.1.1. 16 È questa la tesi sviluppata da Forni, Ariosto e l’ironia, cit. introduzione xix forme e strutture proprie di quel genere letterario. Ma non bastano neppure i rinvii ai suoi predecessori più diretti all’interno della tradizione epica: se Pulci e Boiardo, infatti, utilizzano già l’ironia, lo fanno tuttavia in modi di gran lunga meno raffinati, complessi e diffusi, laddove l’impiego di Ariosto si contraddistingue per la levità del tono giocoso, per la sua diffusione quasi capillare e per la molteplicità di forme che assume, pervenendo a risultati complessivamente distanti da quei modelli17. E non bastano a spiegarla, infine, neppure i confronti con Luciano e con Alberti, l’ironia dei quali fu tenuta sicuramente presente dall’autore cinquecentesco. È ovvio che il principio lucianeo, ripreso dall’Umanesimo italiano (ed europeo), di una giocosa «licenza favolistica»18, di un rapporto libero e sbrigliatamente irrispettoso esercitato in alcuni casi anche nei confronti di una tradizione epica alta (Omero), costituì un modello di riferimento importante per la costruzione, all’interno del poema ariostesco, di un’ironia intenta a giocare con la finzione narrativa. Tuttavia anche a paragone dei testi più rappresentativi di questa linea lucianeo-albertiana19 che sta alla base del registro umanistico del serio ludere, la creazione di Ariosto presenta nel suo complesso una fisionomia ben distinta e originale, un carattere a sé stante e destinato non a caso, dopo la “sfortuna” iniziale, a incontrare nei secoli una fortuna spesso autonoma rispetto a quella linea. Per tentare di rispondere al quesito che ci siamo posti, dobbiamo dunque tenere presente anche questo secondo aspetto, ovvero la forza d’impatto della novità dell’ironia della finzione ariostesca. Come ogni grande novità artistica, essa finì nel complesso per sorprendere l’orizzonte delle attese dei suoi lettori, e avrebbe avuto certamente bisogno di più tempo per venire compresa e apprez17 Sugli aspetti che contraddistinguono la novità dell’ironia dell’Orlando furioso in rapporto al modello boiardesco, si rinvia alla lucida indagine (avviata significativamente attraverso una presa di distanza rispetto alla posizione di Pio Rajna sull’ironia ariostesca) di Giuseppe Sangirardi, Boiardismo ariostesco. Presenza e trattamento dell’Orlando innamorato nel Furioso, Lucca, Pacini Fazzi, 1993, in part. pp. 313-328. Sulla tecnica narrativa del Furioso e sul distacco ironico che caratterizza (anche rispetto all’Innamorato) il narratore ariostesco si vedano inoltre le sintetiche osservazioni di A. Casadei, Nuove prospettive su Ariosto e sul Furioso, in «Italianistica», xxxvii (2008), n. 3, pp. 167-192, in part. 181-182 e 190-191 (e i relativi rimandi alle analisi contenute in Id., Il percorso del Furioso. Ricerche intorno alle redazioni del 1516 e del 1521, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 72-87, nelle quali si fa più volte riferimento alla centralità del rapporto tra finzione letteraria e realtà storica nel poema). 18 Luciano, Storia vera, libro i, § 4. 19 Per la valorizzazione di questa linea all’interno della critica ariostesca, ha costituito un fondamentale punto di partenza la riscoperta degli Intercenales albertiani e la conseguente individuazione della funzione di modello esercitata dall’intercenale Somnium nei confronti dell’episodio lunare ariostesco. I primi ad accorgersi della relazione furono R. Ceserani, Annunzi, in «Giornale storico della letteratura italiana», clxi (1964), pp. 269-270 e M. Martelli, Una delle Intercenali di Leon Battista Alberti fonte sconosciuta del Furioso, in «La Bibliofilia», lxvi (1964), pp. 163-170; si vedano inoltre sul tema: C. Segre, Leon Battista Alberti e Ludovico Ariosto, in «Rivista di cultura classica e medioevale», vii (1965), pp. 1025-1033 (ora in Id., Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 85-95), M. Santoro: La sequenza lunare nel Furioso: una società allo specchio, in Id., L’anello di Angelica. Nuovi saggi ariosteschi, Napoli, Federico & Ardia, 1983; B. Häsner: Albertis Somnium und Astolfos Mondreise im Orlando Furioso, in Ritterepik der Renaissance, Atti del colloquio italo-tedesco (Berlino, 30 marzo - 2 aprile 1987), a cura di K.W. Hempfer, Stuttgart, Steiner, 1989, pp. 185-210; S. Zatti, Il Furioso tra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, in part. pp. 127-171. xx introduzione zata nella sua ricchezza e profondità. Il tempo fu invece terribilmente breve, e già pochi anni dopo l’apparizione del poema, con il progressivo affermarsi del clima controriformistico e delle poetiche regolistiche, fu giocoforza che la ricezione del Furioso venisse “inghiottita” in ben altre questioni interpretative, che sviarono completamente l’attenzione dai procedimenti giocosi dell’ironia. Perché a quei procedimenti venisse rivolto un interesse profondamente consapevole si dovrà attendere oltre due secoli, sino al sorgere di una critica letteraria nuova, capace di attenzione alle dinamiche della storia, all’importanza delle svolte e delle innovazioni, in grado di accettare le ibridazioni tra generi e tra toni diversi, anzi di esaltarne la portata all’interno di una rivoluzionaria prospettiva teorica. Ma possiamo allora porci due ulteriori domande: quando e dove avvenne tutto questo, quando e da chi possiamo dire che l’ironia ariostesca fu veramente riscoperta? E ancora. Che cosa accadde durante il lungo periodo di “insegretimento” dell’ironia del Furioso: vi furono lettori e artisti che seppero tuttavia cogliere e dare valore ad alcuni aspetti salienti dell’ironia di Ariosto? 3. ... e la sua riscoperta: storia e preistoria dell’ironia In questo lavoro abbiamo cercato di dare una risposta alle due domande, precisando da una parte il momento storico nel quale fu riscoperta l’ironia ariostesca e ricostruendo, dall’altra, alcune tappe essenziali di quella che possiamo definire la “preistoria” di quella riscoperta. Se ci chiediamo quando abbia avuto inizio l’attenzione critica per l’ironia del Furioso, alla maggior parte dei lettori verranno in mente, con molta probabilità, le celebri pagine dell’Estetica di Hegel (pubblicata postuma nel 1835) che chiariscono il processo di «dissoluzione» ironica e giocosa del mondo cavalleresco intrapreso da Ariosto. Attraverso questo fondamentale atteggiamento ironico, l’opera di Ariosto (assieme a quella di Cervantes) non solo contribuisce al passaggio storico dalla forma antica dell’epos a quella moderna del romanzo, ma testimonia anche il sorgere di una nuova consapevolezza riguardo alla rappresentazione degli aspetti «prosaici» della realtà. Da Hegel, attraverso il Primato di Gioberti e i lavori di De Sanctis (prima le lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca tenute nel 1858-1859, poi la Storia della letteratura italiana, 1870), si giunge sino all’Umorismo di Pirandello (1908) e al saggio su Ariosto del Croce (1918), nel quale il concetto dell’ironia ariostesca, pur assumendo nuove forme, viene di fatto ancora una volta autorevolmente sancito, e consegnato alla successiva discussione critica italiana e internazionale. Ma fu veramente Hegel lo scopritore dell’ironia ariostesca, come ci viene solitamente indicato dalla critica?20 In realtà, le osservazioni contenute nell’Esteti- 20 Per la storia della critica ariostesca, si rinvia alle sintesi complessive di W. Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Lucentia, 1951, ripubblicato in Id., Metodo e poesia di Ludovico Ariosto e altri studi introduzione xxi ca costituiscono, come avremo modo di vedere, una sintesi – senz’altro geniale ed efficace – delle scoperte e delle intuizioni formulate già prima dai teorici e critici romantici su Ariosto. Furono dunque i romantici tedeschi, e in particolare Friedrich Schlegel, il teorico del romanticismo, a scoprire l’ironia ariostesca e a leggere anzi il Furioso come un modello fondamentale per la stessa concezione romantica dell’ironia e, più in generale, della poesia. Accanto alla definizione classica dell’ironia come figura retorica, sorse negli scritti del giovane Schlegel (1795-1800) una nuova concezione dell’ironia, intimamente legata alla letteratura e a una tecnica narrativa che prevede di svelare continuamente al lettore la natura fittizia della narrazione, prospettando durante la fruizione del testo una dialettica tra identificazione del soggetto nella storia inventata e sua consapevole presa di distanza dal mondo narrato. Schlegel considerò il poema di Ariosto come uno dei modelli fondamentali di questa ironia letteraria (o artistica), apprezzandone sia la complessa struttura narrativa, sia il sapiente alternarsi di momenti seri e tragici e di elementi scherzosi e comici, sia la lieve onnipresenza del soggetto narrante: accostò inoltre il poema ai moderni romanzi settecenteschi, rivendicandone la forza innovativa. La lettura di Ariosto compiuta da Schlegel giungeva al termine di un’intensa stagione di interesse per il poema. Ininterrottamente per oltre un quarantennio, dalla metà degli anni Sessanta del Settecento sino ai primissimi dell’Ottocento, l’Orlando furioso venne conosciuto, letto, citato, discusso e interpretato da tutti i protagonisti dell’epoca: Wieland, Lessing, Herder, Goethe, Wilhelm von Humboldt, Jean Paul, Schiller, i fratelli Schlegel, Tieck, Schelling. Sorse in questo periodo addirittura una vera e propria moda letteraria del poema “romantico-ariostesco”, che venne lanciata con decisione da Christoph Martin Wieland, il più importante poeta dell’epoca immediatamente precedente a Goethe. Il Furioso era dunque largamente conosciuto in Germania quando l’atteggiamento giocoso e ironico di Ariosto divenne un modello di riferimento (assieme a Cervantes e a Shakespeare) nelle discussioni teoriche sulla nuova letteratura romantica, intraprese da Schlegel e dal circolo di Jena. Ma allora perché, possiamo chiederci, l’attenzione dei romantici e di Friedrich Schlegel per il Furioso è stata pressoché dimenticata, almeno nell’ambito più ristretto della critica ariostesca, a favore di Hegel?21 Al di ariosteschi, a cura di R. Alhaique Pettinelli, Firenze, La nuova Italia, 1996, pp. 329-422: 375-376; R. Ramat, La critica ariostesca dal secolo XVI ad oggi, Firenze, La nuova Italia, 1954 e A. Borlenghi, Ariosto, Palermo, Palumbo, 1961. L’Estetica di Hegel viene indicata come il punto di partenza della scoperta critica dell’ironia anche nel più recente contributo di Forni, Ariosto e l’ironia, cit. 21 L’equivoco è presente in tutte le storie della critica (vedi nota precedente). Nella sua acuta sintesi storico-critica del 1951, Walter Binni accennò solo in modo generico al fatto che fu «l’Idealismo germanico» ad approfondire «il motivo dell’ironia» e mise in opposizione le idee critiche su Ariosto di Hegel con quelle di Friedrich Schlegel. Tale contrapposizione venne ripresa e approfondita tre anni dopo da Raffaello Ramat, che attribuì a Hegel la valorizzazione del Furioso e della sua ironia, considerando addirittura tale acquisizione come un rovesciamento della posizione del teorico romantico, alla quale il filosofo idealista era in realtà largamente debitore per le sue idee interpretative su Ariosto: «[Hegel] rivendicava l’importanza del Furioso contro il giudizio di Federico Schlegel, che nella Storia della lette- xxii introduzione là dell’importanza giocata dall’autorità dell’Estetica, ha influito su questo processo di rimozione un atteggiamento apparentemente paradossale tenuto dallo stesso Hegel. Se infatti egli da una parte fece tacitamente tesoro delle osservazioni critiche avanzate dai romantici sull’ironia del Furioso, dall’altra attaccò apertamente e violentemente – nella stessa Estetica – la teoria dell’ironia artistica formulata da Schlegel. Tale paradosso ebbe l’effetto di oscurare il percorso critico e interpretativo compiuto dai romantici, con l’eccezione, tra i nomi che abbiamo ricordato sopra, di De Sanctis e di Pirandello, i quali attinsero, oltre che a Hegel, direttamente anche alle idee dei romantici tedeschi. De Sanctis tuttavia non citò espressamente (almeno nella sua interpretazione del Furioso) le proprie fonti romantiche e Pirandello attaccò esplicitamente le posizioni di Friedrich Schlegel sull’ironia, pur riprendendone di fatto le idee e applicandole ad Ariosto, seguendo in questo un atteggiamento in parte analogo a quello già tenuto da Hegel. Tutto questo contribuì a far sì che il nesso storico tra l’ironia romantica e la valorizzazione dell’ironia del Furioso finisse per venire rimosso, se non addirittura, in alcuni casi, equivocato e capovolto nella tesi contraria, secondo la quale cioè sarebbe stato Hegel a rivalutare Ariosto di contro a una sua presunta svalutazione da parte di Schlegel e dei romantici. Alla diffusione di questo equivoco hanno partecipato anche le più autorevoli storie della critica ariostesca e tale rimozione ha finito tacitamente per affermarsi e per giungere sino a noi22. ratura antica e moderna aveva parlato dell’Ariosto come un mero prosecutore del Boiardo, anche se più felice stilista di questi» (Ramat, La critica ariostesca, cit., p. 95). Per ricostruire le dinamiche di questo periodo storico della critica ariostesca, Ramat non avrebbe dovuto però fare riferimento tanto alle Vorlesungen über die Geschichte der alten und neuen Literatur, tenute a Vienna nel 1812 (e pubblicate tre anni dopo) da uno Schlegel ormai ripiegato su atteggiamenti conservatori e nazionalistici, convertito alla religione cattolica e acceso sostenitore del Metternich, quanto soprattutto agli scritti precedenti, quelli del giovane fondatore del romanticismo e del simpatizzante della Rivoluzione francese. Sono infatti quelle opere a contenere le idee veramente rivoluzionarie di Schlegel su Ariosto e che ebbero un’influenza decisiva sul pensiero di Hegel (cfr. infra § 5.2). I giudizi contenuti in questi autorevoli panorami storici della critica ariostesca finirono per essere ripresi negli studi posteriori. Pochi anni dopo i lavori di Binni e Ramat, apparve un terzo profilo storico critico nel quale si legge addirittura: «I romantici non si posero mai come problema particolare l’intelligenza o la lettura del Furioso. [...] Anche l’interesse per la nostra letteratura, di autorevoli stranieri, dal Sismondi alla Staël a Goethe, è sentito in accordo con il pensiero dei nostri critici del Settecento» (Borlenghi, Ariosto, cit., p. 50). 22 Sulle storie della critica vedi la nota precedente. È sufficiente sfogliare l’indice dei nomi nei volumi di critica ariostesca, per accorgersi come Hegel sia spesso presente, a fronte dell’assenza di Friedrich Schlegel e dei romantici. Nel panorama internazionale fa eccezione lo studio di Robert Durling, dedicato alla presenza del soggetto narrante nell’epos rinascimentale, che recupera di fatto alcuni aspetti della teoria romantica dell’ironia (replicando alle critiche hegeliane) e che in una nota ricorda come Schlegel avesse accostato il Furioso ai procedimenti narrativi presenti nei romanzi settecenteschi (R.M. Durling, The Figure of the Poet in Renaissance Epic, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1965, pp. 10 e nota 16, pp. 129-130). La critica tedesca si mostra consapevole delle scoperte storiche operate da Schlegel e dai romantici su Ariosto: cfr. D. Kremers, Der Rasende Roland des Ludovico Ariosto. Aufbau und Weltbild, Stuttgart, Kohlhammer, 1973; K.W. Hempfer, Die potentielle Autoreflexivität des narrativen Diskurses und Ariosts Orlando Furioso, in Erzählforschung. Ein Symposium, a cura di E. Lämmert, Stuttgart, Metzler, 1982, pp. 130-156 (ora in Grundlagen der Textinterpretation, a cura di K.W. Hemfper e S. Hartung, Stuttgart, Steiner, 2002, pp. 79-106); K. Stierle, Malerei und Literatur der italienischen Renaissance in Hegels Ästhetik, in Welt und Wirkung von Hegels Ästhetik, a cura di A. introduzione xxiii In questo lavoro si è cercato dunque innanzitutto di fare luce sul momento storico della riscoperta critica dell’ironia ariostesca (Capitolo quinto). Ma abbiamo anche provato, un po’ provocatoriamente, a ribaltare la prospettiva: a guardare cioè questo punto di partenza della moderna comprensione dell’ironia del Furioso come un punto di arrivo, come un momento di approdo di una storia sommersa, e dunque da ricostruire, dell’ironia ariostesca. Durante quel lungo periodo di oltre due secoli e mezzo che separa la comparsa del poema dalle riflessioni dei romantici, la forza prorompente della dimensione ironica del Furioso agì profondamente su alcuni singoli lettori e artisti particolarmente pronti e sensibili, lasciando tracce talvolta implicite o parziali del suo influsso: esiste quindi una “preistoria” della scoperta romantica, una sorta di filo rosso da ricomporre e da seguire. In molti casi si è verificato un vero e proprio passaggio del testimone da parte dei vari protagonisti di questa preistoria: si è trattato di ricomporre un puzzle, i cui pezzi chiedevano di venire confrontati e accostati. Ci è sembrato interessante, inoltre, considerare anche alcune testimonianze provenienti dall’ambito delle arti figurative, che interagirono con la sfera letteraria in modi diversi a seconda dell’altezza cronologica. 4. l’itinerario di questo libro Va chiarito in primo luogo che la ricostruzione offerta in questo lavoro non segue un criterio di esaustività, ma è piuttosto frutto di una consapevole selezione. Abbiamo scelto di illuminare alcuni momenti di questa preistoria che ci sono parsi particolarmente significativi e rappresentativi: in tal senso, vanno qui spiegati innanzitutto i motivi di alcune esclusioni. Nel seguire la ricezione letteraria dell’ironia ariostesca, ci siamo mossi a cavallo tra Francia, Germania e Italia, lasciando dunque fuori dal nostro sguardo sia la tradizione inglese che quella spagnola23, e ciò per motivi tra loro diversi. In Inghilterra24 i primi e più importanti mediatori del Furioso furono John Gethmann-Siefert, O. Pöggeler, Bonn, Bouvier, 1986, pp. 327-340; Id., Italienische Renaissance und deutsche Romantik, in Italien in Germanien. Deutsche Italien-Rezeption von 1750-1850, a cura di F.R. Hausmann, Tübingen, Narr, 1996, pp. 373-404. 23 Tra le maggiori tradizioni europee resta fuori anche quella russa, la cui conoscenza esula purtroppo dalle competenze linguistiche e filologiche di chi scrive. Va tuttavia osservato che la ricezione di Ariosto in Russia ebbe luogo relativamente tardi, posteriormente al primo romanticismo tedesco e dunque dopo quella che abbiamo definito la preistoria della riscoperta dell’ironia ariostesca (il primo autore importante per il quale è stata riconosciuta l’influenza del Furioso, e anche della sua ironia, è Puškin, in particolare nel poema Ruslan e Ljudmila del 1820). Sulla fortuna di Ariosto nella letteratura russa si rinvia ai due contributi di R.M. Goròchova, La fortuna dell’Ariosto in Russia e di Z.M. Potapova, Ariosto e Puškin, entrambi contenuti negli atti del Convegno internazionale Ludovico Ariosto. Roma, Lucca, Castelnuovo di Garfagnana, Reggio Emilia, Ferrara, 27 settembre - 5 ottobre 1974, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1975, rispettivamente pp. 545-562 e 303-316. 24 Sulla ricezione del Furioso nella letteratura inglese si vedano almeno: M. Praz, Ariosto in Inghilterra, in Convegno internazionale Ludovico Ariosto, cit., pp. 511-525; A. Sammut, La fortuna dell’Ariosto nell’Inghilterra elisabettiana, Milano, Vita e Pensiero, 1971; J. Gibaldi, The Fortunes of Ariosto in England and xxiv introduzione Harington e Edmund Spenser, il cui modo di leggere il poema fu molto lontano dalla dimensione ironica. Nella sua traduzione in versi del Furioso (apparsa a Londra nel 1591), Harington, che era influenzato dal dibattito poetologico italiano, epurò quasi sistematicamente il testo dai toni ironici, maliziosi o ambigui, esaltandone invece i contenuti moraleggianti. In modo non dissimile, anche la Faerie Queene (1590) di Spenser, che guarda ad Ariosto come a uno dei suoi principali modelli ispiratori, tende verso una concezione allegorizzante del poema epico: è sufficiente leggere la trasposizione della celebre ottava 22 del primo canto, per accorgersi di come la nostalgia del narratore per il mondo dei «cavallieri antiqui» sia nel poeta inglese del tutto scevra da ironia. Se né Milton, né Pope ebbero un ruolo di rilievo nella comprensione dell’ironia ariostesca, meriterebbero invece di venire approfondite le relazioni tra il Furioso e i primi novels inglesi del Settecento. Ariosto sembra infatti in certo qual modo precorrere quell’uso del narratore e delle digressioni che interrompono la storia che diviene centrale nell’opera di Laurence Sterne (sulla quale ci siamo più volte soffermati), come riconobbero prontamente sia Wieland che Schlegel25: a mia conoscenza, un’influenza diretta del poema italiano su Sterne non è stata tuttavia ancora provata dalla critica. Diversa è invece la situazione della Spagna, nella quale il Don Quijote (prima parte: 1605; seconda parte: 1615) di Cervantes rappresenta probabilmente la prima importante tappa europea della valorizzazione dell’ironia ariostesca. Quella fondamentale distanza ironica assunta dal narratore (e dal lettore) del Furioso nei confronti del mondo cavalleresco viene prontamente recepita e fatta propria da Cervantes: nel suo romanzo l’autenticità di quel mondo viene confinata nella mente del lettore-protagonista Don Chisciotte, divenendo così la causa principale della sua follia. Ma a venire ripresi sono anche molti di quelli che abbiamo individuato in questo lavoro come i singoli procedimenti dell’ironia ariostesca. Ad esempio, il gioco che oscilla tra i due poli fiducia/incredulità nei confronti della tradizione letteraria: la figura ariostesca di Turpino trova infatti una sua prosecuzione e rielaborazione in quella del Cide Hamete Benengeli, dal quale il narratore di Cervantes finge di aver tradotto la propria storia, innescando così una serie di effetti ironici sulla veridicità del racconto. Ma anche il noto «prospettivismo»26 del Quijote, in base al quale veniamo spesso messi a contatto con le situazioni non in modo diretto, ma attraverso lo sguardo dei personaggi della storia, va senz’altro confrontato con il rapporto ironico intrattenuto dal narratore ariostesco con America (with Bibliography), in Ariosto 1974 in America, a cura di A. Scaglione, Ravenna, Longo, 1976, pp. 135-158; Javitch, Ariosto classico, cit., pp. 241-287; utile anche la bibliografia commentata su Ariosto nel mondo di lingua inglese, contenuta nel volume Ludovico Ariosto. Documenti. Immagini. Fortuna critica, a cura di G. Badini, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, s.d. [1992], pp. 462-499. 25 Cfr. infra §§ 4.2 e 5.2.3. 26 L. Spitzer, Prospettivismo linguistico nel Don Quijote, in Id., Cinque saggi di ispanistica, Torino, Giappichelli, 1962, pp. 57-106. introduzione xxv i propri personaggi e con il proprio lettore27. Un rapporto ironico che trova in alcuni casi addirittura un proseguimento diretto, come nel capitolo i della parte ii del romanzo, nel quale Don Chisciotte esprime i propri giudizi sui protagonisti del Furioso. A questa forte intertestualità tra le due opere, che coinvolge in modo profondo anche la dimensione dell’ironia, abbiamo prestato ripetutamente attenzione nel corso del nostro lavoro, anche perché essa giocò un ruolo rilevante nel momento storico della riscoperta critica dell’ironia ariostesca: i romantici tedeschi associarono infatti spesso Ariosto a Cervantes. Se abbiamo scelto di non dedicare un capitolo all’analisi del Don Quijote è dunque solo perché il confronto con il Furioso è già stato oggetto di studi molto approfonditi, che non hanno mancato di mettere in rilievo, in modo specifico, la valorizzazione dell’ironia operata da Cervantes28. Seguendo una pista invece meno nota, abbiamo preferito spostarci in Francia, dove mezzo secolo più tardi troviamo un secondo autore che, dopo Cervantes, mostra di aver compreso in modo profondo l’ironia di Ariosto e di averla fatta propria. È nell’epoca del classicismo francese, periodo sostanzialmente ostile all’ironia del Furioso, che ci imbattiamo un po’ inaspettatamente nelle tre brillanti riscritture di altrettanti episodi ariosteschi all’interno dei Contes en vers (pubblicati a partire dal 1664) di La Fontaine – li abbiamo analizzati nel Capitolo secondo. L’autore francese seppe cogliere perfettamente la dialettica giocosa e ironica attraverso la quale Ariosto mescola una rappresentazione verosimile dei comportamenti psicologici umani con una resa sfrenatamente fantastica e inverosimile delle creature e degli eventi magici, e la rielaborò originalmente nei Contes, con argute ed esplicite allusioni al Furioso, strizzando dunque l’occhio al lettore colto, e mostrando di saper leggere e apprezzare i giochi ironici presenti nel poema italiano. Sottraendosi alle regole della dottrina classicistica imperante nella sua epoca, La Fontaine sfruttò abilmente la bigarrure ariostesca di vraisemblance e di fantasia. Comprese e fece propri, inoltre, una serie di procedimenti dell’ironia del Furioso, tra i quali il gioco con la “falsa fonte” di Turpino e le due modalità ironiche fondamentali del fantastico, basate entrambe sugli interventi del narratore all’interno della storia. I Contes en 27 Cfr. infra § 1.6 (La messa in prospettiva della narrazione). Sui rapporti intertestuali tra il Furioso e il Quijote si veda almeno M. Chevalier, L’Arioste en Espagne (1530-1650). Recherches sur l’influence du Roland Furieux, Bordeaux, Presses de l’Université de Bordeaux, 1966 ; T. Hart, Cervantes and Ariosto. Renewing Fiction, Princeton, Princeton University Press, 1989; A. Ruffinatto, Cervantes. Un profilo su smalti italiani, Roma, Carocci, 2002; il contributo di K. Stierle, Ingegno e follia. Una configurazione dantesca e la sua trasformazione in Ariosto e Cervantes, la cui prima versione è apparsa in Letteratura cavalleresca tra Italia e Spagna (da «Orlando» al «Quijote») Literatura caballeresca entre España e Italia (del «Orlando» al «Quijote»), a cura di J. Gomez-Montero e B. König, Salamanca, semyr, 2004, pp. 199-218, ora ripubblicato con alcune modifiche e aggiunte in K. Stierle, Il grande mare del senso. Esplorazioni “ermenautiche” nella Commedia di Dante, edizione italiana a cura di C. Rivoletti, Roma, Aracne, 2014, pp. 485-505 e (anche per ulteriori rimandi bibliografici) il recente articolo di G. Güntert, L’Arioste et Cervantès, in L’Arioste. Discours des personnages, sources et influences, numero monografico della rivista «Les Lettres romanes», a cura di Gian Paolo Giudicetti, 2008, pp. 123-136. 28 xxvi introduzione vers verranno a lungo avvertiti come una sorta di chiave di accesso agli aspetti più arguti e licenziosi della poetica ariostesca: su quegli aspetti si eserciterà un secolo dopo anche Fragonard, che illustrerà i Contes di La Fontaine prima di tradurre in immagini l’ironia del Furioso. Ma già prima di lui, Voltaire aveva espressamente indicato in La Fontaine il principale allievo francese di Ariosto. Tuttavia Voltaire, come vedremo nel Capitolo terzo, dovette ingaggiare una vera e propria lotta con se stesso (e con i principi poetici della sua epoca, che aveva fatto propri), prima di giungere a una profonda comprensione e valorizzazione del Furioso: una lotta che lo accompagnò quasi lungo l’intero arco della propria vita e che si concluse con quel sorprendente manifesto critico che è l’entusiastico paragrafo dedicato ad Ariosto nell’articolo Epopée (1771). In quelle pagine, precorrendo alcune idee della critica moderna, Voltaire intuisce tra l’altro l’importanza della commistione di toni seri e comici che caratterizza il Furioso e che lo rende un’opera sostanzialmente atipica rispetto all’epica tradizionale. È interessante osservare che proprio a questo modello ariostesco della bigarrure di toni e di materie, Voltaire aveva guardato costantemente nel comporre il proprio poema epico, La Pucelle d’Orléans (1762). Tramite quest’opera (non molto studiata dalla critica, che non ha analizzato la presenza e il significato della mescolanza di toni), Voltaire tenta di aprire una nuova via all’interno del genere epico. Per questo – come aveva già fatto La Fontaine nelle sue novelle – riusa e rielabora in modo originale le modalità ironiche del fantastico ariostesco (compreso il gioco con la “falsa fonte”): in lui, tuttavia, la serie dei procedimenti dell’ironia della finzione ariostesca è molto ricca, e giunge a coprire tutti i livelli possibili del testo, estendendosi anche alla struttura narrativa e all’uso della rima. Accanto alla tradizionale aggressività dell’ironia illuministica, convive così nel poema un’ironia più lieve, modulata sugli esempi del Furioso e concepita come un gioco sapiente e arguto con la finzione narrativa. Di questo gioco fa parte anche il meccanismo ariostesco dell’intervento sistematico del narratore nei proemi ai canti, meccanismo che Voltaire imita programmaticamente nella Pucelle – oltre a dichiararne l’assoluta novità e importanza nell’articolo Epopée. Pochi anni dopo la morte di Voltaire (1778), Fragonard – per primo nella lunga storia dell’interpretazione grafica del Furioso – cercherà di tradurre in immagini anche gli esordi ai canti, mettendo in scena Ariosto nel ruolo di narratore del poema. Uno dei frutti del particolare metodo di lavoro adottato nella presente ricerca – ovvero della scelta di muoverci a cavallo tra l’ambito letterario e quello figurativo della ricezione del testo rinascimentale italiano – è la scoperta di questa interessante coincidenza storica, che la critica non aveva sinora rilevato. Nel Capitolo quarto ci spostiamo dall’area francese a quella tedesca, dove un italianista settecentesco, Nicolaus Meinhard, “riscopre” Ariosto e lo fa conoscere, tra gli altri, a Lessing, Gerstenberg e Wieland, segnando i primordi di una stagione di straordinario interesse critico per il Furioso. La nuova via all’interno del genere epico tentata da Voltaire, che aveva rotto con le regole introduzione xxvii del classicismo ricongiungendosi alla linea ariostesca della commistione di toni seri e comici, viene prontamente riconosciuta in una recensione del 1766, nella quale i critici letterari tedeschi distinguono tra l’epica classica e un’epica nuova, quella «romanza», iniziata da Ariosto, proseguita in Francia da Voltaire, e della quale si auspica ora un seguito anche in Germania. Sarà Wieland a soddisfare le attese della critica e del pubblico, lanciando tramite le sue opere in versi una vera e propria voga letteraria, che fiorirà (attraverso varie traduzioni e imitazioni del Furioso) per oltre un trentennio: la moda del “poema romantico-ariostesco”. Poeta arguto e abile versificatore, Wieland gioca nelle sue opere con i procedimenti dell’ironia della finzione ariostesca, rielaborandoli in modo originale: dalla sapiente e calcolata struttura metrica della strofe, all’intreccio delle storie e dei percorsi spaziali dei personaggi, sino alle interruzioni della narrazione per scoprire la “regia” della voce narrante. Ma l’importanza della lettura di Ariosto compiuta da Wieland, il massimo esponente della letteratura rococò tedesca, poeta che di lì a poco sarà rifiutato perché avvertito come superato dalla generazione pre-romantica, consiste forse, un po’ paradossalmente, nella sua attenzione al presente, che gli permise di intuire elementi propri della futura estetica rivoluzionaria. Accanto all’epica in versi, Wieland coltivò anche il genere del romanzo e può essere considerato (come hanno sostenuto alcuni studiosi, tra cui Wolfgang Preisendanz) l’iniziatore del romanzo moderno in Germania. Questa sua capacità, fortemente rappresentativa di un’epoca di importanti cambiamenti, di praticare parallelamente due generi letterari come l’epica (prossima all’esaurimento) e il romanzo (genere nascente) fece sì che tale intreccio avesse un influsso anche sul modo di leggere Ariosto. Nei suoi poemi infatti il Furioso funziona da modello accanto ai romanzi di Sterne: Wieland intuì così forse per primo la contiguità tra il poema ariostesco e il romanzo inglese del Settecento, con le sue digressioni, i continui interventi ironici del narratore, l’intreccio di personaggi e di filoni narrativi. Un’intuizione che è sinora sfuggita agli studi critici su Wieland, e che è invece storicamente importante, perché trent’anni dopo sarà pienamente sviluppata sul piano della teoria estetica nelle riflessioni di Friedrich Schlegel. Il Capitolo quinto segue il percorso della ricezione ariostesca all’interno della riflessione estetica del primo romanticismo. Per questo si apre con l’analisi del celebre saggio di Schiller sulla Poesia ingenua e sentimentale (17941795), dove l’idea – capitale per i romantici – che la presenza e la posizione della voce narrante rappresentino il tratto distintivo della poesia moderna rispetto a quella antica, viene esemplificata anche sul Furioso. Un’idea che si ritrova poi negli scritti del giovane Schlegel, fondatore dell’estetica romantica e, in particolare, del concetto di ironia romantica. Schlegel ammira il Furioso e lo considera uno dei massimi esempi (accanto alle opere di Shakespeare e di Cervantes) di poesia romantica. Ne apprezza il tono leggero e conversevole, l’arguzia, la fantasia e la felice commistione di serietà e comicità che sta alla base del poema. Ne ammira inoltre la struttura arabescata: dando una nuova interpretazione dell’ut pictura poësis ariostesco, xxviii introduzione Schlegel individua infatti le qualità pittoriche del Furioso non solo nella sua capacità di “dipingere” personaggi e situazioni, ma anche nella sua intera struttura compositiva, che viene paragonata al fantastico caos perfettamente ordinato di un meraviglioso arabesco. Come di fronte a un arabesco, il lettore di Ariosto deve compiere un passo indietro e assumere la giusta distanza di fronte all’intreccio caotico delle linee che compongono l’opera, per poterne gustare il disegno. Tramite il concetto di arabesco, uno dei concetti chiave dell’estetica romantica, Schlegel accosta il rinascimentale «romanzo degli italiani» agli esempi di romanzo contemporaneo (Sterne e Diderot). Non sappiamo se Schlegel conobbe (anche solo indirettamente) le tesi cinquecentesche di Giraldi Cinzio e di Pigna sul genere del romanzo: è certo però che attraverso il geniale confronto tra il poema ariostesco e il romanzo europeo sorto nel secondo Settecento, Schlegel pone in termini moderni la questione del legame genetico tra l’epos e il romanzo. Tale legame viene analizzato, sotto una luce in parte diversa, anche da Hegel, la cui Estetica avrà tuttavia l’effetto paradossale, come abbiamo accennato, di trasmettere alle generazioni successive il concetto di ironia, oscurando però le posizioni teoriche e la ricezione ariostesca dei primi romantici. Il Capitolo sesto segue allora le vicissitudini del concetto di ironia ariostesca dopo Hegel: il suo approfondimento attraverso gli scritti di De Sanctis (e poi di Croce), la sua messa in questione teorica attraverso il saggio sull’Umorismo di Pirandello. Il nostro percorso attraverso la ricezione dell’ironia ariostesca si conclude con l’esperienza di Italo Calvino, prossima (anche per motivi cronologici) alla nostra sensibilità di lettori contemporanei del Furioso. A metà del Novecento, ancor prima di scrivere la trilogia fantastica dedicata ai Nostri antenati, trovandosi a rappresentare la realtà difficile e contraddittoria della Resistenza partigiana, Calvino ricorre al modello ariostesco, alla sua «deformazione ironica» del reale. Lo sguardo ironico e distaccato del narratore del Furioso, sospeso tra avventurosità fantastica e lucida penetrazione della realtà, si rivela agli occhi di Calvino come un formidabile e attuale modello romanzesco, capace di sfuggire ai pericoli della prosopopea e dell’idealizzazione e, al contempo, di aderire a quel misto di comicità prosaica e di dolorosità tragica che costituiva l’essenza dell’esperienza da lui stesso vissuta. In un contesto diverso, ritroviamo qui elementi analoghi a quelli già incontrati nella vicenda del primo romanticismo tedesco che inaugura la ricezione moderna dell’ironia di Ariosto. Come avevano già fatto i romantici nelle loro teorie estetiche, infatti, anche Calvino dichiara l’attualità dell’ironia del Furioso in quanto strumento produttivo, passibile cioè di essere riusato per scrivere nuovi testi letterari, non nell’ambito del genere epico, ma in quello moderno del romanzo. In un certo senso, dunque, la scommessa storica su cui avevano puntato Friedrich Schlegel e i primi romantici tedeschi risulta ancora una volta vincente, mutatis mutandis, nella lettura ariostesca propostaci da Calvino. Nel Capitolo settimo, infine, abbiamo provato a dare una risposta a un quesito teorico relativo all’interpretazione figurativa del Furioso. È possibile tradurre introduzione xxix in immagini l’ironia della finzione ariostesca, ovvero una serie di procedimenti che sono strettamente legati all’istanza specificamente “letteraria” (e testuale) del narratore? Per cercare una risposta, ci siamo avventurati in un ambito che risulta ancora oggi sostanzialmente una terra di nessuno, perché il campo relativo alla visualizzazione di un testo letterario (nella fattispecie, del Furioso) non ricade in nessuna delle singole discipline accademiche, bensì prevede una rigorosa interazione di più competenze specifiche. Anche per questo abbiamo deciso di muoverci attraverso l’indagine di singoli campioni che ci sono parsi significativi e che abbiamo scelto volutamente all’interno del periodo cronologico relativo alla “preistoria” della riscoperta dell’ironia ariostesca. Le opere figurative che abbiamo interrogato non ci hanno offerto una risposta univoca al quesito, bensì una serie di soluzioni diverse, mostrandoci un’attenzione degli artisti, attraverso le epoche, per il fenomeno dell’ironia della finzione ariostesca nella sua complessità e nella molteplicità dei suoi livelli espressivi. In alcuni casi, inoltre, come in quello di Fragonard, ci siamo trovati di fronte, come abbiamo accennato, a interessanti coincidenze tra l’ambito testuale e quello visivo della ricezione di Ariosto. Alla complessità e ai vari livelli attraverso cui si articola il fenomeno dell’ironia della finzione, è dedicato il Capitolo primo, che propone una visione teorica del fenomeno e ne tenta una descrizione sulla base di alcuni tratti che rimangono costanti, nonostante la sua fisionomia ci appaia mobile e cangiante, nella progressione storica. A causa di questa sua natura mutevole, ci sembra difficile individuare un significato unico (o comunque predominante) per il fenomeno dell’ironia della finzione: abbiamo piuttosto preferito provare di volta in volta a ricostruirne le funzioni e i significati all’interno dei singoli contesti storici, dei singoli autori o delle loro opere. Nell’analisi delle opere, ci siamo tuttavia confrontati più volte con una dinamica che ci sembra intrinseca al fenomeno dell’ironia della finzione. Si tratta dell’oscillazione tra due poli. Da una parte, una continua identificazione, un continuo “credere” all’illusione della storia narrata (sia tramite i testi, sia tramite le immagini), che con i suoi momenti seri o tragici ci tocca e ci coinvolge; dall’altra, un’altrettanto costante presa di distanza da quella storia, attraverso i suoi momenti dichiaratamente comici, esageratamente e scopertamente fantastici, attraverso gli interventi del narratore oppure altri procedimenti “ironici”, che ci richiamano al divario esistente tra illusione e realtà. Riflettendo su questa distanza, veniamo necessariamente invitati a ragionare anche su quegli aspetti della realtà ai quali l’opera “rinvia”. L’ironia della finzione è paragonabile, in tal senso, a una sorta di “dispositivo” contenuto all’interno dell’opera, capace di attivare un meccanismo che è proprio, in definitiva, della fruizione artistica di tutti i tempi. L’arte ci spinge a riflettere, perché, dopo aver coinvolto e assorbito il fruitore nell’illusione artistica (narrativa o visiva), gli concede il tempo (e il modo) di prendere distanza e di ragionare criticamente sugli eventi raccontati o rappresentati, nei quali si è identificato e ai quali ha (almeno nella sua immaginazione) “partecipato”; al contra- xxx introduzione rio, la vita reale non ci concede spesso il tempo e il modo di attuare una presa di distanza riflessiva dai fatti che viviamo e che ci coinvolgono profondamente. Il fenomeno dell’‘ironia della finzione’ (e anche sulla scelta di questi termini ci soffermeremo in modo specifico nel Capitolo primo) mette, per così dire, a nudo questa dinamica estetica. La ‘finzione’, intesa come costruzione dell’illusione artistica, e l’‘ironia’, intesa come la rottura di tale illusione attraverso una presa di distanza ironica e dunque una riflessione critica sulla storia narrata, sono i due momenti dialettici di questa estetica. Una dialettica che, durante la fruizione, ci vuole consapevoli, dicevamo, della distinzione tra la sfera della finzione e quella del reale, e dunque del rapporto esistente tra arte e realtà. In questo rinvio alla realtà, che come un filo rosso si ritrova in molti punti del percorso che abbiamo ricostruito, possiamo forse riconoscere uno degli insegnamenti più importanti di Ariosto, una delle sue eredità che ancora oggi ci appaiono tra le più significative, e che ci spingono a rileggere il poema e a sentirlo come ancora attuale. Avvertenza Tutte le traduzioni dai testi stranieri, salvo diversa ed esplicita indicazione, sono da attribuirsi a chi scrive. Ho deciso di tradurre personalmente anche quei testi già disponibili in traduzione italiana, per garantire la massima omogeneità terminologica all’interno del discorso teorico che guida l’intero lavoro. Le traduzioni non hanno dunque un valore artistico, bensì si prefiggono di rispettare il più fedelmente possibile il senso del testo originale. Di regola (salvo poche eccezioni) non è stata fornita la traduzione dei passi in lingua francese e inglese; per i testi tedeschi (sempre tradotti) ho invece indicato in molti casi anche il senso del titolo originale, formulando una traduzione tra parentesi quadre (o riportando, quando disponibile, il titolo corrente in italiano). Per agevolare l’orientamento bibliografico del lettore, ho infine indicato in alcuni casi un’edizione italiana di riferimento dei testi analizzati. 1. L’IRONIA DELLA FINZIONE NEL FURIOSO E NELLA SUA RICEZIONE 1.1. verso una definizione dell’ironia della finzione 1.1.1. Ironia retorica e ironia romantica Un giorno – racconta Herder – la Critica e la Satira si incontrarono. La Satira, con in pugno la caratteristica marotte dei giullari, rivelò alla Critica, assisa su un trono e armata di scettro, di essere sua parente. La Critica reagì in modo composto e garbato, ma non nascose la propria sorpresa, e invitò la Satira a raccontare la storia della sua vita. Quest’ultima ammise di aver agito in gioventù in modo sconsiderato, prendendosi gioco invariabilmente di tutto e di tutti, senza preoccuparsi mai seriamente di indicare all’uomo una via per capire i propri errori e superare i propri difetti. Nel bel mezzo del colloquio sopraggiunse il fratello della Critica, Sophron (il lucido Intelletto), che rivelò di essere padre della Satira e volle che da quel momento la figlia riacquistasse il nome originario, da lui conferitole e da tempo ormai dimenticato. Essa si sarebbe chiamata ‘Ironia’ e da allora in poi avrebbe cambiato atteggiamento, riconoscendo gli errori del passato. Alla metamorfosi di Ironia concorse anche la madre, la ninfa Euphrosyne (la Gioia), che consegnò alla propria figlia due doni magici, un anello e un elmo, i quali le avrebbero permesso di essere invisibile e di assumere qualsiasi forma. Grazie a questi doni, l’Ironia annunciò che da allora in poi sarebbe potuta penetrare, «invisibile», in tutti i generi letterari, dall’epica al teatro, dal racconto alla favola, muovendosi in essi «nel modo più leggero», alla stregua di Ariel, come uno spirito aereo. Ma soprattutto essa affermò di sentirsi attratta da quella commistione di dialogo e di narrazione che caratterizza, a suo dire, il romanzo: Vorzüglich werde ich in der Konversation, im Gespräch, im Sermon, in der Erzählung, am liebsten im Roman, der alle sie verbindet, meine Rolle spielen. 2 ariosto e l’ironia della finzione (Di preferenza svolgerò le mie funzioni nella conversazione, nel dialogo, nel discorso, nella narrazione e specialmente nel romanzo, il quale li unisce tutti.) Un ulteriore dono fatato le venne infine elargito dalla Critica: si tratta dell’arco e della faretra che appartennero prima a Diana cacciatrice e poi – come ci viene ancora raccontato da Herder – furono a lei sottratte da Amore, il quale immerse ogni singola freccia nelle acque della fonte di Castalia (sacra, come sappiamo, ad Apollo e alle Muse). Da allora in poi queste frecce non feriscono più, e il loro effetto è salutare. Nel breve dialogo Kritik und Satyre (1803)1 di Herder ci viene descritta con lucida consapevolezza un’importante metamorfosi avvenuta nel secolo appena conclusosi: la ridefinizione, in termini estetici, del concetto di ‘ironia’. Dall’antichità sino a quasi tutto il xviii secolo, il termine ‘ironia’ rinvia a una ben definita figura retorica; negli ultimi anni del secolo, invece, il suo significato si amplia enormemente, passando a indicare un aspetto della riflessione estetico-letteraria che assume un ruolo centrale all’interno della nuova poetica romantica2. Le immagini che Herder adotta nel suo racconto, riusando in modo originale elementi della mitologia antica, rinviano proprio a questa metamorfosi. L’Ironia, personificata come figlia di Eufrosine, una delle tre Grazie, si spoglia delle sue caratteristiche più “aspre” e assume un carattere lieto e giocoso. Liberatasi delle sue punte satiriche, essa smette le vesti di chi critica e distrugge l’avversario, vesti familiari tanto ai retori antichi quanto agli scrittori illuministi: le sue funzioni si legano adesso intimamente con l’essenza della poesia e della letteratura. A questo cambiamento rinvia l’immagine delle frecce che non feriscono più, perché bagnate nelle acque castalie, acque sacre ad Apollo e fonte di ispirazione dei poeti. E a questo rinvia anche il significato dei doni fatati dell’elmo e dell’anello: per loro tramite l’ironia diviene una qualità invisibile e impalpabile, uno spirito capace di diffondersi ovunque all’interno del testo letterario, intridendone completamente il tessuto. 1 Il dialogo, che fa parte delle Bemühungen des vergangenen Jahrhunderts um die Kritik [Sforzi dello scorso secolo intorno alla critica], apparse sulla rivista «Adrastea» diretta da Herder, si può leggere oggi in J.G. Herder, Werke, vol. x (Adrastea), a cura di G. Arnold, Frankfurt a.M., Deutscher Klassiker, 2000, pp. 729-739 (dal quale sono tratte le citazioni). 2 La bibliografia sul concetto di ‘ironia’ è sterminata: per questo mi limiterò qui (e nelle note successive) a fare riferimento ad alcuni studi fondamentali che affrontano gli aspetti considerati in questo primo capitolo. Sulla trasformazione storica del concetto e sui tipi fondamentali di ironia trovo molto utile l’agile trattazione di E. Behler, Klassische Ironie, romantische Ironie, tragische Ironie. Zum Ursprung dieser Begriffe, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1972, e il sintetico profilo: Id., Ironie, in Historisches Wörterbuch der Rhetorik, a cura di G. Ueding, Tübingen, Niemeyer, 1998, pp. 599-624; per una definizione dell’ironia attraverso le varie epoche si vedano inoltre: J. Papiór, Ironie. Diachronische Begriffsentwicklung, Poznań, Adam Mickiewicz University Press, 1989; Knox, Ironia. Medieval and Renaissance Ideas on Irony, cit.; N. Knox, The Word Irony and its Context, 1500-1755, Durham (North Carolina), Duke University Press, 1961. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 3 Altrettanto significativi sono i rimandi relativi alla sua capacità di penetrare in testi appartenenti ai generi letterari più disparati e, al contempo, la sua predilezione per il romanzo, concepito come una simbiosi di narrazione e di conversazione, ovvero come un racconto in forma di piacevole dialogo tra il narratore e il lettore. La svolta storica del concetto di ironia si realizzò dunque tramite uno spostamento dall’ambito strettamente retorico a quello artistico o letterario. Tale svolta affonda le sue radici nella pubblicazione dei frammenti critici di Friedrich Schlegel, padre teorico del romanticismo tedesco. Sulle riviste prima «Lyceum» (1797) e poi «Athenäum» (1798-1800), Schlegel propose di intendere l’ironia in un’accezione eminentemente letteraria e artistica, fondata sul rapporto di comunicazione esistente tra l’autore e il lettore. Per la poetica romantica diviene centrale la capacità dell’autore di trascendere continuamente l’illusione poetica suscitata dal testo, interrompendo a più riprese il racconto e segnalando espressamente la “presenza” di un soggetto che parla e che narra all’interno dell’opera. Tramite le caratteristiche Brechungen (‘interruzioni’, letteralmente: ‘rotture’) della narrazione, l’autore richiama l’attenzione del lettore sulla relazione dialettica che intercorre tra la finzione interna al racconto e la realtà del mondo esterno, tra il temporaneo abbandono all’illusione fantastica evocata all’interno del testo poetico e la lucida e consapevole presa di distanza da essa, in quanto dimensione appunto fittizia e illusoria3. Risulta intuitivo che all’interno di una poetica e di un’estetica siffatte, venissero privilegiati romanzieri come Sterne, Diderot, Jean Paul, nei testi dei quali il narratore segnala la propria presenza al lettore, giocando con la dimensione artistica e fittizia della storia che racconta. Accanto ad essi, Schlegel pone esplicitamente anche Ariosto. L’ottica romantica si presta alla percezione e alla valorizzazione di alcuni aspetti salienti della poesia del Furioso: la ricca e insistente presenza del soggetto narrante, il suo coinvolgimento autoironico nella storia, l’uso sistematico dei prologhi come sospensioni del racconto, gli interventi del narratore con funzione di commento e quelli con funzione esplicitamente “registica”, ad esempio di temporanea interruzione di un filone narrativo, oppure di passaggio a un altro. E ancora: l’elegante architettura «arabescata» (osserva Schlegel) nella quale l’autore intreccia sapientemente le storie dei singoli personaggi, il gioco ironico con la fantasia e con la finzione, i rimandi alla “falsa fonte” del racconto di Turpino, la sottile ironia delle allusioni nascoste nel ritmo dell’ottava o nella sua rima baciata conclusiva. 3 Alla teorizzazione schlegeliana dell’ironia romantica e ai suoi rapporti con l’epos ariostesco abbiamo dedicato un’analisi specifica: cfr. infra § 5.2.6 (L’ironia come fondamento della poesia romantica e il Frammento 116 dell’«Athenäum»). 4 ariosto e l’ironia della finzione A questi aspetti abbiamo fatto costantemente riferimento nel corso del nostro lavoro tramite l’espressione ‘ironia della finzione’, un concetto intimamente legato a quello di ‘ironia romantica’. Vedremo più avanti come distinguere tra loro i due termini (cfr. infra § 1.1.2): in questa prima analisi conviene invece partire dalla relazione esistente tra i concetti di ‘ironia retorica’ e ‘ironia romantica’ (detta anche ‘artistica’, ‘letteraria’ o ‘poetica’)4, per comprenderne più profondamente analogie e differenze. Da Quintiliano sino ai giorni nostri, l’ironia retorica si fonda su una netta contrapposizione tra ciò che si dice e ciò che si intende. Per rifarci alla definizione di Heinrich Lausberg, «l’ironia è l’espressione di una cosa attraverso una parola che indica il contrario di quella cosa»5. Relativamente a questo atto del “negare mentre si afferma”, possiamo osservare che esiste una forte affinità tra l’ironia retorica e l’ironia romantica. Quest’ultima prevede infatti che, nella costruzione dell’illusione poetica, venga utilizzata tutta una gamma di procedimenti che concorrono a svelare la dimensione di finzione propria della storia che viene raccontata: si finisce dunque per “negare” tale illusione nel momento stesso in cui si enunciano, ovvero si “affermano”, le sue parti costitutive. A questo primo elemento di parentela tra la figura retorica dell’ironia e la cosiddetta ironia artistica, fa immediatamente seguito un secondo, non appena si faccia riferimento alla fortunata tesi platonica, che ha attraversato l’intera storia dell’estetica occidentale, della “poesia come menzogna”. Nell’ironia romantica, infatti, il carattere “menzognero” della finzione letteraria viene, per così dire, smascherato: è dunque a portata di mano il legame con una delle funzioni originarie dell’ironia retorica, che già nell’oratoria antica veniva impiegata come un’arma per smascherare le bugie pronunciate dalla parte avversa. «La voluntas dell’oratore – prosegue infatti la definizione di Lausberg – è dunque così forte che rompe la tela di menzogne dell’avversario»6. Ma intervengono qui due importanti differenze, che distinguono l’ironia romantica da quella retorica e che riguardano sia la misura della sua “estensione”, sia la presenza o meno di una sua “funzione distruttiva”. Già la retorica antica distingueva tra l’ironia come ‘figura di parola’ (figura isolata oppure ‘tropo’) e l’ironia come ‘figura di pensiero’ (ovvero ‘figura’ propriamente detta). In proposito Quintiliano nota che l’ironia in quanto figura risulta più impercettibile (e dunque generalmente più difficile da re4 Nel corso del lavoro abbiamo utilizzato questi quattro termini (‘ironia romantica’, ‘ironia artistica’, ‘ironia letteraria’ e ‘ironia poetica’) sostanzialmente come sinonimi, seguendo in questo un uso ormai invalso negli studi sull’argomento. I quattro termini sono di origine germanofona (cfr. rispettivamente romantische Ironie, künstlerische Ironie, literarische Ironie e dichterische Ironie). 5 «Die Ironie ist der Ausdruck einer Sache durch ein deren Gegenteil bezeichnendes Wort». (H. Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, prefazione di A. Arens, Stuttgart, Steiner, 1990, p. 302). 6 «Die voluntas des Redners ist also so stark, daß sie das gegnerische Lügengewebe durchbricht» (ibid.). l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 5 gistrare) rispetto al tropo, ovvero all’inversione di senso di una o due parole singole (che si trovano così a essere isolate dal contesto del discorso, e per questo più facilmente riconoscibili): Nella figura c’è la dissimulazione dell’intera intenzione, e tale dissimulazione è piuttosto apparente che apertamente confessata, cosicché là [scil.: nel tropo] il contrasto riguarda solo la terminologia, mentre qui [scil.: nella figura] sia il senso, sia talvolta l’intera struttura della causa sono in contrasto con lo stile del discorso e con le parole. Persino una vita intera può sembrare piena d’ironia, come è apparsa la vita di Socrate (per tale ragione egli è stato infatti definito e‡rvn, ovvero uno che recitava la parte dell’ignorante e dell’ammiratore degli altri come se fossero sapienti)7. Se già gli antichi avevano osservato che l’impercettibilità dell’ironia aumenta con il progredire della sua estensione, allora, potremmo aggiungere noi, è altrettanto vero che quando tale estensione coincide esattamente con l’intero testo, la sua natura diviene perfettamente “impalpabile”. È quello che accade con il passaggio dall’ironia retorica a quella romantica (o letteraria), come abbiamo osservato nel dialogo di Herder, dove l’ironia assume le forme di uno spirito aereo (si ricordi il riferimento al personaggio shakespeariano di Ariel), capace di aleggiare nel testo. A questa trasformazione, che riguarda l’estensione e la consistenza dell’ironia, se ne lega però anche un’altra, relativa alla sua funzione distruttiva. Tale funzione, che risulta chiara ed evidente nella misura circoscritta del tropo, è presente in modo più nascosto (ma altrettanto forte) anche nella figura estesa; è invece del tutto assente nella dimensione di massima estensione raggiunta dall’ironia letteraria, come chiarisce anche l’immagine herderiana delle frecce che non feriscono. Friedrich Schlegel ha illustrato questa fondamentale differenza tra l’ironia retorica e quella romantica in un passo del Frammento 42 pubblicato su «Lyceum»: Freilich gibts auch eine rhetorische Ironie, welche sparsam gebraucht vortreffliche Wirkung tut, besonders im Polemischen; doch ist sie gegen die erhabne Urbanität [...]. Die Poesie allein [...] ist nicht auf ironische Stellen begründet, wie die Rhetorik. Es gibt alte und moderne Gedichte, die durchgängig im Ganzen und überall den göttlichen Hauch der Ironie atmen8. 7 «In figura totius voluntatis fictio est, apparens magis quam confessa, ut illic verba sint verbis diversa, hic † sensus sermonis et loci † et tota interim causae conformatio, cum etiam vita universa ironiam habere videatur, qualis est visa Socratis (nam ideo dictus e‡rvn, agens imperitum et admiratorem aliorum tamquam sapientium)» (Quintilianus, Institutio oratoria, ix, 2, 46). 8 F. Schlegel, Lyceumsfragment 42, in Id., Charakteristiken und Kritiken I (1796-1801), a cura e con un’introduzione di H. Eichner, Paderborn, Schöningh, 1967 (= Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, diretta da E. Behler, vol. ii, pt. i), p. 152. 6 ariosto e l’ironia della finzione (Esiste certamente anche un’ironia retorica, la quale, adoprata con moderazione, ottiene effetti eccellenti, specialmente nella disputa; tuttavia essa va contro la sublime urbanità [...]. Solamente la poesia [...] non si fonda su [singoli] passi ironici, come invece fa la retorica. Ci sono infatti poesie antiche e moderne che, ininterrottamente lungo tutta la loro estensione, respirano l’alito divino dell’ironia.) L’ironia retorica si distingue dunque per un uso puntuale (Schlegel parla di «ironische Stellen») e per la sua capacità di circoscrivere esattamente gli obiettivi da “distruggere”, laddove l’ironia letteraria abbraccia l’intera opera e, al contempo, abbandona totalmente qualunque carattere distruttivo. Mentre nell’ironia retorica il momento della “negazione” ha un effetto di definitivo “annullamento” di ciò che si è affermato, nell’ironia letteraria, invece, la dimensione illusoria evocata dalla finzione non viene affatto “annullata” in modo definitivo, ma viene piuttosto temporaneamente “sospesa”. Questo aspetto, relativo all’assenza di aggressività o di negatività distruttiva e annichilante, proprio dell’ironia romantica, fu spesso trascurato o non capito nelle epoche immediatamente successive, e la sua incomprensione (alla quale contribuirono figure di rilievo, come ad esempio Hegel e Kierkegaard) ebbe conseguenze notevoli sull’interpretazione della rivoluzione estetica compiuta dai romantici9. Anche per questo motivo riteniamo importante approfondire tale aspetto e soffermarci sulle sue implicazioni. Nell’ironia retorica agiscono in modo chiaro e univoco due meccanismi tra loro contrapposti: un processo di «solidarizzazione ironica» tra il parlante e il ricevente, e un processo di «desolidarizzazione» tra il ricevente e la personaoggetto di ironia10. Nell’ironia letteraria, se rimane innegabile la necessità di una solidarietà tra autore e lettore, diviene invece molto più complesso il rapporto che si instaura con i personaggi e con le situazioni che sono oggetto di ironia. La distanza critica che autore e lettore, grazie all’ironia artistica, acquisiscono rispetto agli elementi della narrazione fittizia non impedisce loro infatti di identificarsi, seppur temporaneamente, in tali elementi. Possiamo comprendere meglio questo aspetto se ricorriamo ad alcuni esempi concreti e a un confronto con il testo di Ariosto. Tra i molti esempi di ironia retorica riportati da Quintiliano, scegliamo quello in cui Cicerone accusa Catilina di aver cercato la protezione e la complicità subdola e vendicativa del suo compare Metello, e definisce quest’ultimo virum optimum (In Catilinam, i, 19). L’autore esercita qui in modo chiaro e univoco una critica nei confronti del sodale di Catilina: è indubbio che il lettore, sotto pena di non comprendere altrimenti l’ironia, dovrà condividere il giudizio negativo e “distruttivo” di 9 Cfr. su questo infra § 5.4.2 (Il paradosso hegeliano: la condanna dell’ironia romantica e la sua implicita valorizzazione). 10 W.-D. Stempel, Ironie als Sprechhandlung, in Das Komische, a cura di W. Preisendanz e R. Warning, München, Fink, 1976, pp. 205-235; nello stesso volume vedi anche le osservazioni di R. Warning, Ironiesignale und ironische Solidarisierung, pp. 416-423. La pagina 7 non è riprodotta in questo estratto. 8 ariosto e l’ironia della finzione quanto egli legge nel testo, con il metro fornitogli dalla propria esperienza quotidiana e concreta del reale. Tuttavia tale serietà non ha la funzione di distruggere e di annullare la finzione narrativa: essa non è affatto incompatibile con la giocosa condivisione del mondo incantato dei paladini, con il volontario abbandono all’illusione suscitata da questo universo scherzoso e fantastico. I cavalieri che sfilano sulla scena del racconto sono esattamente quei celebri protagonisti del mondo magico e lontano dei racconti epici; eppure i loro errori e i loro problemi hanno spesso a che fare con una realtà concreta e ben familiare al lettore. La loro «bontà» non è sempre così perfetta come vorrebbe la tradizione, eppure le loro imprese sono eroiche e straordinarie, il loro mondo è meraviglioso e favoloso. Al lettore non resta che accettare questo statuto ambivalente e assumere un atteggiamento sospeso, anzi continuamente oscillante, tra adesione e critica. In tutti quei casi, insomma, in cui l’ironia provenga dal narratore, ovvero nei casi in cui si approdi a un’ironia letteraria (e si tratta della quasi totalità degli esempi di ironia presenti nel Furioso), non scatta nel lettore quel meccanismo univoco di desolidarizzazione proprio dell’ironia retorica. Ci troviamo piuttosto di fronte a una complessa alternanza dialettica tra due poli: una presa di distanza critica e riflessiva rispetto al mondo cavalleresco che ci viene raccontato, da una parte, e una disponibilità a partecipare all’illusione e a identificarsi in quel mondo e nelle figure che lo rappresentano, dall’altra. Questa dinamica di identificazione e di distanza ironica rappresenta uno dei principi fondamentali del poema ariostesco, sul quale torneremo spesso nel corso della nostra indagine. Essa si lega intimamente a quella caratteristica commistione di serio e di scherzoso che ha costituito per secoli un problema nella storia della ricezione del Furioso. Si pensi solamente, ad esempio, a quanto fosse difficile (per non dire impossibile) l’accettazione di tale commistione nei canoni della poetica classicistica. Solo una poetica romantica, che decise di abbattere definitivamente i confini tra alto e basso, tra tragico e comico, e di fondare un’estetica basata sulla commistione degli stili, dei toni e delle materie, poté valorizzare con piena consapevolezza e con energia questa caratteristica fondamentale del Furioso e rilanciare il significato della sua ironia, trasmettendolo ai lettori delle epoche posteriori. 1.1.2. Ironia della finzione, umorismo, metafinzione Se l’ironia letteraria, così come la abbiamo descritta nel paragrafo precedente, affonda le proprie radici nella riflessione critica e teorica di Friedrich Schlegel, e più in generale dei romantici tedeschi, il suo impiego eccede tuttavia ampiamente i confini storici relativi alla sua genesi. Nella critica, in particolare in area germanofona, si parla di ironia romantica anche in relazione ad autori del xx secolo: si riconosce, ad esempio, una linea che, passando attraverso la produzione narrativa e filosofica ottocentesca, congiunge l’ironia di romanzieri come Musil e Thomas Mann con il principio Le pagine da 9 a 12 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 13 descrivere a livello teorico l’ironia della finzione25. Da questo punto di vista, ci è apparso dunque un concetto relativamente libero e sgombro da teorizzazioni, tale da prestarsi a un tentativo di descrizione come quello che abbiamo intrapreso, relativamente alle sue applicazioni letterarie, nei paragrafi successivi di questo capitolo, aiutandoci anche con gli strumenti della moderna narratologia. E tale da prestarsi, infine, a essere esteso alle arti figurative, in relazione alle quali abbiamo discusso a livello teorico le sue possibilità di applicazione nel capitolo settimo. 1.2. come “funziona” l’ironia della finzione 1.2.1. Un gioco di rinvii su cinque livelli Ripartiamo dall’esempio della celebre ottava sulla «gran bontà dei cavallieri antiqui», primo vistoso intervento del narratore all’interno del poema. Per comprendere a pieno la complessità dei rinvii impliciti in questi versi ci sarà utile rileggere l’acuto commento di Aurelio Roncaglia: In Ariosto, piuttosto che tra presente e passato, la contrapposizione è tra realtà sociale [1], constatata nell’esperienza diretta, e finzione poetica [3], immaginata richiamando una tipologia tradizionale [2]. La «gran bontà dei cavallieri antiqui» (i, 22) non è idealizzata senza quel tanto di sorridente ambiguità che basta ad escludere lo scambio ingenuo tra convenzioni letterarie [2] e dati storici [1]26. Con questa concisa osservazione, Roncaglia intuisce la possibilità di penetrare in profondità nel testo, squadernando i differenti livelli di riferimento in esso stratificati. Attraverso una doppia contrapposizione, vengono infatti individuati ben tre livelli diversi, a cavallo dei quali si muove e gioca la narrazione (li abbiamo evidenziati nella citazione tramite i numeri racchiusi tra parentesi quadre). Una prima opposizione si profila tra la «realtà sociale», che Ariosto poteva sperimentare direttamente nella propria vita a corte, e la «finzione poetica», che lo scrittore costruisce rifacendosi a una tradizione letteraria (la «tipologia tradizionale» stabilita dalle «convenzioni letterarie»). Esaltando la «bontà» di un mondo passato, il narratore allude infatti implicitamente e contrario alla decadenza morale delle corti cinque- 25 L’unico tentativo in senso propriamente teorico è costituito – a nostra conoscenza – dallo studio di Heimrich, Fiktion und Fiktionsironie, cit., che va tuttavia in una direzione diversa da quella da noi adottata, non utilizzando strumenti della moderna narratologia. 26 A. Roncaglia, Nascita e sviluppo della narrativa cavalleresca nella Francia medievale, in Convegno internazionale Ludovico Ariosto, cit., pp. 229-250, p. 235 (i corsivi e i numeri tra parentesi quadre sono di chi scrive). 14 ariosto e l’ironia della finzione centesche (tema al quale si fa più volte riferimento nel poema)27, ovvero del mondo che circonda l’autore e i propri lettori. Questa «finzione poetica» di un universo passato non si presenta tuttavia (o meglio: non si presenta interamente ed esclusivamente) come nostalgia ingenua nei confronti di un mondo perduto – in questo modo la leggerà ad esempio Spenser e la interpreterà, vedremo più avanti, Schiller28. Ariosto invece «non si fa troppe illusioni nemmeno sul passato»29 e indica al lettore, in modi consapevoli e smaliziati, una seconda opposizione: la differenza esistente tra l’idealizzazione di quel mondo passato, operata dalle «convenzioni letterarie» della tradizione, e la realtà storica effettiva. Da tutto ciò risultano individuabili dunque i seguenti tre primi livelli di riferimento, stratificati all’interno del poema. Il livello (che abbiamo indicato con il numero 3) della finzione poetica, ovvero del singolo testo narrativo prodotto da Ariosto. Questo testo rinvia a una tradizione letteraria (livello 2), ovvero a una lunga catena di testi orali e scritti, dalle chansons de geste ai romanzi medievali del ciclo bretone, sino ai cantari e ai poemi più vicini ad Ariosto. Molti personaggi, elementi ed episodi derivano da queste storie, e dunque preesistono alla finzione poetica ariostesca che li racconta: nel Furioso si fa dunque riferimento, implicitamente e talvolta esplicitamente, alla letteratura precedente. A sua volta, la lunga e fortunata tradizione letteraria rielabora una realtà storica (livello 1) narrandola spesso in modi idealizzati, ed esaltando le virtù fisiche e morali dei protagonisti. Nel Furioso scatta in proposito una sorta di corto circuito tra realtà storica e realtà sociale contemporanea all’autore e ai suoi lettori (livello 1): come fa osservare Roncaglia, infatti, non c’è opposizione (se non apparente) tra il passato e il presente, bensì l’intera realtà, passata e presente, diviene “cumulabile” in quanto oggetto di un’analisi disincantata e penetrante del comportamento umano e dei meccanismi che regolano i rapporti sociali. Per intraprendere il tentativo di descrivere le relazioni esistenti tra i vari livelli sedimentati nel poema, potremmo ricorrere all’opposizione prodotta dalla narratologia strutturale storia vs. discorso (histoire vs. discours), distinzione un tempo molto di moda e oggi caduta invece quasi in disuso negli studi letterari. Secondo la nota teoria formulata da Tzvetan Todorov, è possibile distinguere all’interno dell’opera letteraria tra il livello della storia, che comprende un certo numero di avvenimenti reali o presunti tali e che avrebbero potuto esserci raccontati anche in altri modi, e il livello del discorso, che riguarda invece il modo specifico in cui il singolo narratore 27 Gli esempi sono numerosi: mi limito a ricordare il riferimento implicito contenuto nel proemio a O.F., vii e quelli espliciti nel proemio a O.F., xix e in vari passi dell’episodio lunare (O.F., xxxv, passim). 28 Cfr. infra § 5.1. 29 Roncaglia, Nascita e sviluppo della narrativa cavalleresca, cit., p. 236. Le pagine da 15 a 18 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 19 Aggiungeremo, infine, che questo livello è forse quello fondamentale per il meccanismo dell’ironia della finzione letteraria: è qui che ricade infatti la maggior parte dei procedimenti ironici. Non è un caso che, come vedremo meglio più avanti, Friedrich Schlegel abbia riconosciuto proprio nella parékbasis una delle manifestazioni principali dell’ironia romantica. Livello IV – È il livello della dispositio: tramite questo secondo livello del discours, ovvero del testo narrativo, si agisce sul piano della struttura, cioè della “disposizione” degli eventi della storia narrata. Come nel livello precedente, anche in questo il narratore realizza una sorta di «dominio soggettivo»36 della storia, intervenendo direttamente su essa: lo fa in questo caso non più tramite commenti (come nel livello iii), ma attraverso una gamma di operazioni che agiscono sulla struttura della storia narrata. Possiamo distinguere in proposito tra due tipi di operazioni. Un primo tipo consiste nelle azioni di interrompere la storia, o anche di anticipare o di posticipare il racconto di una parte degli eventi rispetto ad altri. È quello che accade nei numerosi casi in cui il narratore si dice costretto ad abbandonare le vicende di un personaggio per seguire (o per tornare a) quelle di un altro; o, ancora, dei casi in cui la narrazione viene interrotta a fine canto per essere ripresa nel canto successivo. In tutti questi casi il lettore avverte la presenza, esplicita o implicita, di un narratore che racconta la storia e che “ne dispone a piacimento”. Tale presenza ci segnala lo spessore artificiale del testo, richiamando la nostra attenzione sulla sua dimensione fittizia: in questo senso tali operazioni appartengono a pieno titolo al fenomeno dell’ironia della finzione. Ma vi appartiene anche un secondo tipo di operazioni, anch’esse caratteristiche del testo del Furioso. Mi riferisco ai modi nei quali le storie dei singoli personaggi si “intrecciano”, ovvero a tutti quei casi in cui il cammino di una figura si interseca con quello di altre. Anche in questi casi, infatti, il lettore del Furioso avverte la presenza del narratore come un grande “regista”, che orienta e dispone dall’alto l’intreccio narrativo. Livello V – Eccoci infine al livello relativo alla elocutio, ovvero alla costruzione linguistica, stilistica, retorica e metrica del testo narrativo. Come vedremo nella nostra analisi, i procedimenti dell’ironia della finzione che agiscono a questo livello sono particolarmente sottili e spesso quasi impercettibili: nella maggior parte dei casi, solo un lettore che ha una grande familiarità con il testo e con il suo tono ironico, riesce ad avvertirne la presenza. 36 L’espressione è di Stierle (Geschehen, Geschichte, Text der Geschichte, cit., p. 53). 20 ariosto e l’ironia della finzione L’ironia della finzione nel Furioso e nella storia della sua ricezione testo della narrazione livello i: realtà (Geschehen, accadere) l’ambito del reale (considerato anteriormente alla sua rielaborazione artistica); in particolare: sia la realtà passata, sia quella contemporanea all’autore, accomunate dalla riflessione sui meccanismi che regolano il comportamento individuale e sociale dell’uomo; livello ii: tradizione artistica (Geschichte, histoire, storia, modelli figurativi) la tradizione artistica, considerata in quanto prima rielaborazione del reale e sua organizzazione in un sistema di significati; comprende sia la tradizione letteraria (tradizioni epiche e romanzesche, classiche e medievali; tradizione lirica; narrazioni canterine; materia cantata dal presunto e favoloso Turpino), sia la tradizione figurativa; livello iii: inventio procedimenti relativi alla materia del testo narrativo: interventi del narratore, che commenta soggettivamente situazioni della storia raccontata; si tratta di un’invenzione “secondaria”, che agisce sulla storia (materia dell’invenzione “primaria”); livello iv: dispositio procedimenti relativi alla struttura del testo narrativo, attraverso i quali il narratore gestisce soggettivamente la storia raccontata: interruzione dei canti, anticipazione o posticipazione di eventi, intreccio dei filoni narrativi, incontri tra le singole traiettorie dei personaggi; livello v: elocutio procedimenti relativi al metro e alla rima, all’uso di alcune figure retoriche, ai giochi di parole, all’impiego di nomi parlanti. (Text der Geschichte; i tre livelli del discours) Le pagine da 21 a 27 non sono riprodotte in questo estratto. 28 ariosto e l’ironia della finzione go le formule utilizzate dal narratore per marcare sia le interruzioni dei canti, sia il passaggio da un filone narrativo all’altro. In secondo luogo Wieland, ancor più di quanto aveva già fatto Voltaire, “ariosteggia” nei propri poemi giocando con gli effetti ironici derivanti dall’imprevisto intrecciarsi e “collidere” dei sentieri percorsi dai singoli personaggi. Molto interessanti, anche riguardo a questo livello dell’ironia della finzione ariostesca, sono le soluzioni adottate nell’ambito delle arti figurative. Nel corso della storia delle fortunate edizioni illustrate cinquecentesche del Furioso, è possibile riconoscere un punto di svolta nella prima realizzazione delle illustrazioni multiepisodiche a pagina intera. La tendenza “normativizzante” inaugurata dalle vignette dell’edizione di Giolito, che miravano ad appiattire il Furioso sui canoni previsti per il poema epico-eroico, azzerando quasi totalmente il rilievo degli elementi comici, va incontro a una decisa inversione con l’uscita dell’edizione di Valgrisi, nelle cui illustrazioni a grande formato si realizza per la prima volta una vivace commistione di episodi sia tragici, sia comici. La dispositio ibrida, caratteristica del poema ariostesco, conosce qui la possibilità di venire efficacemente trasferita nella dimensione visiva. Anche il dipinto di Bilivert e l’anonima pietra paesina del primo Seicento, che abbiamo già ricordato sopra riguardo al livello dell’inventio, possono essere chiamati in causa come esempi di traduzione grafica dei procedimenti relativi all’ironia della finzione al livello della dispositio. Come vedremo, infatti, l’ironia presente in queste opere ha a che fare con il tempo della storia: i due artisti, bloccando il personaggio rappresentato in una posizione indesiderata, rinviano allusivamente a una cesura del testo e a un’inaspettata svolta narrativa. Procedimenti dell’ironia della finzione che agiscono a partire dal livello della elocutio del testo narrativo. Abbiamo già avuto modo di anticiparlo: quello della elocutio è senza dubbio il livello più sottile e impercettibile dell’ironia della finzione, tale da richiedere un orecchio ben istruito e pronto a captare l’arguzia nascosta nelle pieghe del testo41. I procedimenti della elocutio sono infatti meno immediatamente vistosi di quelli dell’inventio e il loro effetto è più rapido e impalpabile di quelli della dispositio. Sul livello della elocutio si collocano tutti quei procedimenti che, giocando con il materiale espressivo, attirano l’attenzione del lettore sul carattere di 41 Per avere un’idea della varietà degli effetti di ironia nell’ambito delle forme si possono vedere, a titolo di esempio, i rilievi di L. Blasucci, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso», in Id., Studi su Dante e Ariosto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 76-89, in particolare sui procedimenti ironici connessi alla «fluidità ritmica» dei «versi di clausola» delle ottave; di C. Ossola, Dantismi metrici nel Furioso, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, atti del congresso di Reggio Emilia e Ferrara (1216 ottobre 1974), Milano, Feltrinelli, 1976, p. 65-94, per gli effetti di «lenimento ironico [...] del rimario dantesco» e di C. Bologna, La macchina del «Furioso». Lettura dell’«Orlando» e delle «Satire», Torino, Einaudi, 1998, pp. 170-172, per i meccanismi di «distanziamento ironico» che coinvolgono giochi onomastici e intertestuali. Le pagine da 29 a 32 non sono riprodotte in questo estratto. 32 ariosto e l’ironia della finzione Furioso e che ne fa largo uso anche nella sua Pucelle. Voltaire collega esplicitamente l’autoironia al tono generalmente bonario dell’ironia di Ariosto, parlando in proposito di «molle et facetum», di «urbanité» e di «bonne plaisanterie». In tal modo riconosce all’autore rinascimentale un’ironia diversa da quella critica e aggressiva propria degli scrittori illuministi e che lui stesso adotta in molti dei suoi scritti panflettistici o saggistici. Da questo punto di vista, l’uso dell’autoironia in Voltaire è di grande interesse, perché ci permette di distinguere all’interno della sua produzione tra l’impiego (largamente prevalente) dell’ironia illuministica e quello dell’ironia della finzione – su questa distinzione ci soffermermo in modo specifico nel paragrafo successivo. Ma la figura di Voltaire è interessante anche perché precorre in parte e intuisce idee estetiche che verranno approfondite e sviluppate nell’ambito del romanticismo tedesco. Come vedremo, l’autoironia, intesa come possibilità del poeta di riflettersi nella propria opera, come ‘messa in gioco della propria persona’ nella finzione narrativa, costituisce uno degli elementi portanti della riflessione teorica sull’ironia artistica condotta da Friedrich Schlegel. 1.3.2. I gradi: ironia della finzione e ironia illuministica Nella Institutio oratoria (viii, 6, 57-59), Quintiliano distingue cinque specie diverse di ironia, denominandole con termini greci: confrontando queste specie è possibile rilevare anche una differenza di intensità. Lausberg definisce tale differenza come il «grado di aggressività» (Aggressivitätsgrad) o di «energia» (Energiegrad), che può variare a partire dalle forme forti, come ad esempio il sarcasmòs (‘sarcasmo’), passando attraverso livelli intermedi, sino a giungere alle forme più tenui, come l’asteismòs (in latino ironia urbana, ovvero la ‘battuta arguta e spiritosa’). Seguendo il criterio che legava tradizionalmente la retorica alla fisiognomica, i grammatici greci solevano individuare il grado di aggressività dell’ironia tramite il riferimento alla mimica facciale: il sarcasmo, ad esempio, era collegato all’atto del digrignare i denti, il mykterismòs, invece, a un controllato sbuffo di rabbia attraverso il naso, e così via. Questi criteri empirici (non applicabili ai testi letterari) ci mostrano quanto sia in realtà difficile, in relazione a una figura retorica già di per sé complessa e talvolta inafferrabile come l’ironia, misurarne il grado di intensità. Ai fini della nostra analisi testuale, è comunque importante tenere presente questo criterio distintivo dell’aggressività, perché su tale base è possibile discernere perlomeno tra due forme di ironia: quella provvista di una forte carica critica e aggressiva e quella invece più tenue e connotata piuttosto da un’arguzia sorridente. In rapporto ai testi letterari, possiamo a nostro avviso precisare questa semplice ma essenziale distinzione bipolare, rifacendoci al già citato criterio della desolidarizzazione proposto da Wolf-Dieter Stempel44. Nel primo caso, quello di un’iro44 Stempel, Ironie als Sprechhandlung, cit. (cfr. supra § 1.1.1). l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 33 nia fortemente critica e distruttiva, constateremo la presenza di un processo di desolidarizzazione da parte del fruitore nei confronti dell’oggetto ironizzato; nel secondo caso, invece, quello di un’ironia in accordo con i criteri della urbanitas, tale processo di desolidarizzazione non ha luogo, e il lettore può anzi continuare a solidarizzare e persino a identificarsi con il personaggio o con la situazione narrativa che sono oggetto d’ironia. Da quanto osservato, risulterà immediatamente chiaro che potremo parlare di ironia della finzione solo nel secondo caso, ovvero in presenza di un uso non aggressivo dell’ironia retorica. Come abbiamo già avuto modo di vedere, infatti, l’ironia della finzione non provoca un distanziamento univoco rispetto all’oggetto, bensì s’inserisce piuttosto all’interno di un’oscillazione tra i poli opposti della presa di distanza critica dalla finzione narrativa e dell’identificazione nei personaggi e negli eventi raccontati. Al contrario, in un testo di carattere satirico, nel quale cioè operi un’ironia sferzante, mirata alla distruzione critica di un certo obiettivo polemico, si verificherà invece il primo caso: il lettore prenderà irrevocabilmente distanza dall’oggetto ironizzato. A livello storico, esiste un’intera stagione nella quale l’impiego dell’ironia a scopi polemici e satirici conosce una diffusione straordinariamente vasta: il periodo illuministico, che precede immediatamente la svolta realizzata dai romantici. Il dialogo di Herder, nel quale la Satira si spoglia degli atteggiamenti più pungenti e polemici, e assume il carattere lieto e giocoso di un’ironia “urbana”, allude anche alla consapevolezza di questo importante trapasso storico tra due stagioni: quella dell’ironia illuministica (ad alta gradazione aggressiva) e quella dell’ironia romantica (a bassa aggressività). Tuttavia, nel corso della nostra storia della ricezione del Furioso, è proprio in una delle personalità letterarie più emblematiche dell’Illuminismo che troveremo entrambi questi gradi dell’ironia: Voltaire. Se i suoi scritti panflettistici e saggistici prediligono infatti l’ironia tagliente e satirica, cioè un’ironia decisamente illuministica, nella Pucelle è possibile reperire, invece, entrambe le specie. Accanto all’uso illuministico dell’ironia, senz’altro prevalente, registreremo infatti anche molti esempi d’ironia della finzione, impiegata in un’ampia varietà di forme e di modi (tra cui molte derivate dal modello ariostesco), che non escludono (come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente) anche l’autoironia. 1.4. ironia e soprannaturale. le due modalità del fantastico nel «furioso» 1.4.1. Il fantastico di complicità Il gioco di Ariosto con la dimensione fantastica diviene spesso un modo per attrarre l’attenzione del lettore sul carattere di finzione della narrazione epica. Così l’ironia della finzione interseca anche uno degli ambiti fondamen- Le pagine da 34 a 36 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 37 questo uno dei casi – stranamente non rilevato dalla critica – nei quali il magistero di Ariosto passa attraverso il suo principale allievo francese (così Voltaire definisce La Fontaine), prima di venire rielaborato, un secolo più tardi, all’interno de La Pucelle. 1.5. ironia della finzione e psicologia dei personaggi 1.5.1. Finzione favolistica e verità psicologica L’accozzamento del naturale collo strano e coll’impossibile è anche una fonte di festività, e niuno sa farlo meglio dell’Ariosto, non solo nel tessere l’ordito delle sue favole, ma eziandio nel ritrarre l’indole de’ suoi personaggi; i quali sono tutti vivi e parlanti, benché tengano più o meno del sovrumano o del fantastico52. In Del primato morale e civile degli italiani, Vincenzo Gioberti individua acutamente un tratto peculiare del Furioso nel contrasto tra aspetti estremamente fantastici ed elementi verosimili. Nelle «favole» strane e impossibili di Ariosto, c’è del «naturale»: ad esempio, afferma Gioberti, nell’«indole dei personaggi», che risulta realistica, seppure immersa nel contesto più fantastico. Gioberti non cita esempi, ma ci viene da pensare a Ruggiero, che vola veloce sopra mari e terre a cavallo dell’ippogrifo, che incontra cavalieri tramutati in piante e che combatte contro creature mostruose e fantastiche. Nonostante ciò, Ariosto tratteggia l’«indole» e la psicologia di questo personaggio con grande realismo: ci fa vedere come egli cada facilmente nelle reti di Alcina, sebbene fosse stato espressamente avvertito di questo grave pericolo da Astolfo; come si rimetta sulla retta via grazie all’intervento di Melissa, che gli appare nei sembianti del suo tutore Atlante; come, subito dopo, ricada nelle tentazioni erotiche di fronte all’attraente Angelica. Così è anche per Orlando, il quale, grazie alla sua forza soprannaturale, compie le imprese più straordinarie e fantastiche. Eppure, quando Angelica scompare, trascorre notti insonni, e quando trova tracce dell’amore tra la donna e Medoro, finisce per impazzire: un’attenta e realistica descrizione psicologica ci illustra in questo caso le fasi della progressiva perdita di senno del paladino. E potremmo continuare con altri esempi. All’interno di un mondo estremamente inverosimile e fantastico, Ariosto fa muovere dei personaggi dal carattere realistico e dal comportamento assolutamente verosimile. Questo contrasto era stato intuito, già prima di Gioberti (che lo formula in modo chiaro), anche da Voltaire, che nella voce Epopée ammira la capacità di Ariosto di suscitare nei lettori un interesse ge- 52 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, a cura di G. Balsamo-Crivelli, Torino, Utet, 1946, vol. iii, p. 35, corsivi miei. 38 ariosto e l’ironia della finzione nuino per i suoi personaggi53. E, ancor prima, come vedremo, nei Contes en vers La Fontaine scherza esplicitamente sul contrasto tipicamente ariostesco tra eventi magici e comportamento verosimile dei personaggi54. Questo contrasto, come i lettori e ammiratori di Ariosto hanno compreso benissimo, è tuttavia solo apparente: l’esagerazione fantastica e il realismo psicologico dei personaggi sono infatti, in ultima analisi, nient’altro che due facce della stessa medaglia. Come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, tramite l’ironia della finzione tutto il fantastico del Furioso viene apertamente dichiarato inverosimile. Dietro al contrasto apparente, è possibile dunque riconoscere un atteggiamento coerente. Da una parte, il narratore ariostesco, come osserva argutamente La Fontaine e come afferma anche Pirandello, non può fare a meno di raccontarci menzogne, parlandoci dell’ippogrifo e di armi incantate. Tuttavia si tratta di bugie innocue, perché sempre apertamente confessate – si tratta, cioè, come abbiamo spiegato sopra, di un fantastico apertamente metaforico oppure scherzoso, che richiede esplicitamente la complicità consapevole del lettore. D’altra parte, quando invece si tocca la sfera della psicologia dei personaggi e del loro comportamento, il narratore è sempre fedele alla realtà, è sempre capace di suscitare un serio interesse da parte del proprio lettore. L’ironia della finzione ariostesca gioca dunque anche con queste due facce del racconto: un gioco che è esso stesso anche un messaggio per il lettore, un monito a saper ben distinguere ciò su cui è possibile scherzare da ciò su cui conviene usare la dovuta serietà. 1.5.2. Il metodo ipotetico-sperimentale nel Furioso L’ironia spinge il destinatario – nel nostro caso specifico il lettore – a interpretare. Più o meno scoperta, più o meno diretta, l’ironia allude pur sempre a qualcosa e contrario: ci pone cioè di fronte a un interrogativo, a un “non detto” che chiede di essere decifrato. Nell’ambito della descrizione del comportamento dei personaggi, l’uso dell’ironia chiede al lettore di mettere in gioco il proprio sapere: in primo luogo, egli dovrà tenere presente quello che già sa sui personaggi, sugli eventi e sul mondo che gli vengono raccontati; ma dovrà anche ricorrere, in secondo luogo e più in generale, ai propri principi morali e alle proprie conoscenze di psicologia. La critica ha più volte riconosciuto come Ariosto rinunci alla tecnica del «ritratto [interiore] a tutto tondo, in piena luce»55 dei personaggi, ad «uno 53 «Ce qu’il y a de plus extraordinaire encore, c’est d’intéresser vivement pour les héros et les héroïnes dont il parle» (per il contesto della citazione si rimanda all’analisi svolta infra al § 3.1.2). 54 Cfr. infra § 2.2. 55 L. Caretti, Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1977, p. 31. Le pagine da 39 a 42 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 43 aver ucciso in duello un nobile della sua città e ha descritto l’atteggiamento di «dispetto minaccioso» dei parenti del morto, che si aggirano intorno al convento nel quale si è rifugiato il futuro padre Cristoforo. Aggiunge poi una breve osservazione: La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto60. Se il narratore manzoniano, come del resto fa in molti altri casi, avesse affermato positivamente che i parenti del nobile ucciso sono persone vuote e spietate, accecate dal solo sentimento di vendetta, non avrebbe ottenuto lo stesso effetto sul lettore. Invece, chiama in causa il manoscritto fittizio dell’autore secentesco per alludere, in forma negativa («la storia non dice») a una lacuna e fingere di non saperne di più su questo punto: in tal modo attira l’attenzione del lettore su questo aspetto, lo costringe a interrogarsi e a pronunciare un giudizio sull’atteggiamento e sulla psicologia dei parenti del nobile ucciso. Il modo tenuto dal narratore manzoniano è più sottile e impercettibile di quello ariostesco, ma il metodo è lo stesso, e la presenza di questo metodo in un capolavoro del realismo letterario ci conferma la capacità, racchiusa in questo procedimento dell’ironia della finzione, di rinviare alla realtà. 1.6. la messa in prospettiva della narrazione Come abbiamo avuto modo di osservare fin dai primissimi esempi analizzati61, nel Furioso avvertiamo spesso la presenza del narratore che “guarda” la scena del racconto. Un commento più o meno breve, un’indicazione di “regia” (come il passaggio dalla storia di un personaggio a quella di un altro) o, talvolta, più semplicemente l’ironia nascosta dietro a una rima ci segnalano la presenza di qualcuno che osserva e riflette sui fatti narrati. Esiste dunque un punto di vista che viene proiettato sugli avvenimenti della narrazione. Nei termini di Genette, siamo di fronte nella maggior parte dei casi a una narrazione a focalizzazione zero62. Il lettore osserva la scena attraverso il punto di vista del narratore. Ma qui ci interessa soprattutto l’effetto che il narratore ottiene attraverso l’ironia della finzione: il lettore deve anche accorgersi della presenza del suo sguardo. Per esprimerci attraverso una metafora, si tratta di uno sguardo che lascia sì vedere attraverso, ma che tende anche, al contempo, a diventare “opaco”, che vuole far percepire al lettore la propria esistenza. Lo sguardo ironico del narratore è infatti uno sguardo che 60 A. Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, a cura di A. Stella e C. Repossi, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 56. 61 Cfr. supra Introduzione, § 1. 62 Genette, Figure III, cit., pp. 237 ss. La pagina 44 non è riprodotta in questo estratto. l’ironia della finzione nel «furioso» e nella sua ricezione 45 nascimentale della prospettiva con il soggettivismo filosofico che sta alla base della poetica di Schlegel. Infine, in uno dei paragrafi dedicati al Novecento, vedremo come Calvino reinterpreta lo sguardo ironico proiettato sulla realtà dal narratore del Furioso64. Sarà tuttavia importante tenere sin d’ora presente il paradosso che la tesi di Panofsky mette in luce: l’idea che per poter riprodurre in modo oggettivo la realtà occorra un soggetto che la osservi, e la conseguente acquisizione di importanza di questo soggetto e del suo sguardo. Questa tesi ci invita ad approfondire la nostra riflessione sul rapporto esistente tra l’ironia della finzione e la realtà. 1.7. l’ironia della finzione e il rinvio alla realtà Nella descrizione dell’oggetto della nostra ricerca, abbiamo avuto più volte occasione di fare riferimento ai vari modi in cui l’ironia della finzione rinvia alla realtà. Spiegando il meccanismo basilare dell’ironia della finzione, ovvero la rottura dell’illusione evocata dalla narrazione di vicende fittizie, abbiamo visto come in tal modo l’attenzione del lettore venga di conseguenza orientata sulla relazione dialettica che intercorre tra la finzione interna al racconto e la realtà del mondo esterno. Per la costruzione del nostro schema di supporto all’analisi testuale, siamo poi partiti da un’osservazione di Aurelio Roncaglia che riconosce nell’ironia del Furioso un rinvio sia alla realtà storica, sia alla realtà sociale contemporanea all’autore, che abbiamo individuato come il livello i. In proposito abbiamo constatato che, anche quando i commenti del narratore rinviano a un confronto con la tradizione letteraria (livello ii), tale confronto coinvolge in ultima analisi anche la dimensione della realtà. Infatti, come abbiamo osservato, ironizzare sulla bontà dei cavalieri antichi significa per Ariosto non solo prendere distanza dall’idealizzazione ingenua della cavalleria proposta dalla tradizione canterina, ma anche suggerire al contempo un’adesione alla realtà storica e alla realtà dei comportamenti umani e dei rapporti sociali – proprio in implicita polemica con la tradizione letteraria che, nella misura in cui idealizza tale realtà, in certo qual modo la “falsifica”. Abbiamo visto inoltre come sia i commenti del narratore (livello iii), sia la struttura narrativa del testo e il particolare uso dell’entrelacement (livello iv) rinviino al ruolo della casualità che spesso governa gli avvenimenti reali. Abbiamo infine parlato di un rinvio al mondo reale anche per tre aspetti di rilievo dell’ironia della finzione: per l’autoironia, attraverso la quale ci si ri- 64 Cfr. infra rispettivamente i §§ 7.3 (Dal testo ai dipinti del primo Seicento: l’ironia dalla voce del narratore allo sguardo del personaggio), 5.2.5 (Dalla filosofia trascendentale di Fichte all’estetica romantica di Schlegel: ironia, dialettica e prospettiva) e 6.3 (Calvino, Ariosto e lo sguardo sulla realtà). 46 ariosto e l’ironia della finzione chiama esplicitamente alle presunte esperienze di vita del narratore; per l’uso dell’ironia della finzione nell’ambito del fantastico, che fa riferimento al reale in entrambe le forme del fantastico di complicità e del fantastico metaforico; per il modo ironico in cui il narratore si rapporta alla psicologia dei personaggi e per l’adozione del metodo ipotetico-sperimentale, attraverso il quale si invita il lettore a confrontare le vicende fittizie della narrazione con la realtà. Riassumendo, possiamo affermare che il rinvio alla realtà, inteso come riflessione sulle connessioni esistenti tra il mondo della finzione narrativa e il mondo reale, e anche come riflessione su alcuni ambiti della realtà, investe una vasta gamma di aspetti legati al fenomeno dell’ironia della finzione e ne rappresenta dunque il significato più profondo. Per questo motivo il tema del rinvio alla realtà ci accompagnerà a più riprese anche nei capitoli successivi, lungo la nostra ricostruzione dei modi in cui l’ironia della finzione ariostesca è stata letta nelle varie epoche. Abbiamo preferito parlare di ‘rinvio alla realtà’ o di ‘riflessione sulla realtà’ piuttosto che di ‘realismo’: l’uso di quest’ultimo termine è infatti molto problematico per la sua ambiguità di fondo e per la pluralità di interpretazioni che evoca. In proposito è tuttavia possibile rifarsi all’importante lavoro di Erich Auerbach sulla rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale65. Nella sua ricerca, Auerbach individua la nascita del realismo moderno nel romanzo realistico del primo Ottocento europeo, ovvero in quelle opere che seguirono immediatamente il periodo romantico, cioè proprio l’epoca nella quale si assiste a una svolta fondamentale della storia della ricezione del Furioso, come abbiamo osservato nel nostro lavoro. A nostro avviso è possibile riconoscere alcuni importanti tratti comuni tra le caratteristiche del romanzo realistico ottocentesco e il funzionamento dell’ironia della finzione che presiede al rinvio alla realtà nel testo ariostesco. È possibile inoltre osservare come il romanticismo abbia svolto un’operazione interessante dal punto di vista storico, valorizzando aspetti del Furioso che risultano confrontabili con alcuni meccanismi fondamentali del romanzo realistico. In un saggio rimasto a lungo sconosciuto al pubblico italiano, Auerbach esprime una tesi molto interessante per la nostra ipotesi66. Fa notare infatti che esiste una relazione genetica profonda tra romanticismo e realismo, nonostante 65 E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, Francke, 1946 [trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956]. La traduzione italiana del sottotitolo è erronea: sostituisce infatti impropriamente all’espressione dargestellte Wirklichkeit (letteralmente ‘realtà rappresentata’, ovvero ‘la rappresentazione della realtà’), che designa il vero tema di fondo dell’intera ricerca condotta da Auerbach, la parola ‘realismo’ (letteralmente ‘Realismus’ termine che compare invece all’interno del libro con un significato specifico). 66 E. Auerbach, Romantik und Realismus, in «Neue Jahrbücher für Wissenschaft und Jugendbildung», ix (1933), n. 2, pp. 143-153. Il saggio contiene, a detta dello stesso Auerbach, alcune scoperte fondamentali che troveranno poi sviluppo nella sua opera maggiore Mimesis: rispetto all’ampia architettura storiografica del libro, tuttavia, questo breve contributo ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione sull’importanza del nesso esistente tra il romanticismo e la nascita del realismo. Chi scrive ha tradotto per la prima volta in italiano il saggio nella rivista «Allegoria», lvi (2007), pp. 17-27 (ora raccolto in E. Le pagine da 47 a 52 non sono riprodotte in questo estratto. 2. VERITÀ, FINZIONE E IRONIA NEI CONTES EN VERS TIRÉES DE L’ARIOSTE DI LA FONTAINE 2.1. i «contes en vers»: la prima valorizzazione dell’ironia ariostesca in francia Il successo internazionale del Furioso ha inizio in Francia. La prima traduzione francese (anonima) del poema appare infatti nel 1543, appena una decina di anni dopo la pubblicazione dell’edizione italiana definitiva e con qualche anno di anticipo persino rispetto alla celebre (e molto libera) traduzione spagnola del capitàn Jerónimo de Urrea (che vede la luce nel 1549) – per la prima traduzione inglese (quella di Harington) bisognerà invece attendere, come abbiamo già ricordato, quasi sino alla fine del secolo (1591), mentre la prima traduzione tedesca (ad opera di Diederich von dem Werder) verrà pubblicata addirittura esattamente un secolo dopo l’edizione italiana definitiva (1632-1636)1. Ma il Furioso era giunto in Francia già anteriormente a quella data. Francesco i, che tra l’altro conosceva le opere minori di Ariosto e che ne imitò il fortunato capitolo viii in terza rima (l’elegia che celebra una notte d’amore), aveva infatti ricevuto in omaggio un esemplare della princeps del Furioso impressa a Ferrara nel 15162. E nel 1534 Rabelais aveva inserito un riferimento al titolo dell’Orlando furioso nel prologo del Pantagruel (uscito per la prima volta due anni prima), nel quale si prende gioco, alla maniera di Luciano, del rapporto tra verità e finzione poetica3. 1 Per le traduzioni del Furioso, si rinvia a G. Agnelli, G. Ravegnani, Annali delle edizioni ariostee, vol. ii, Bologna, Zanichelli, 1933 e ai contributi raccolti nel volume Le prime traduzioni dell’Ariosto, Atti del v convegno sui problemi della traduzione letteraria, Padova, Antenore, 1977. 2 Cfr. U. Baurmeister, D’Amboise à Fontainebleau: les imprimés italiens dans les collections royales au XVe et XVIe siècles, in Passer les monts: Français en Italie, l’Italie en France (1494-1525), a cura di J. Balsamo, Paris-Firenze, Champion-Cadmo, 1998, pp. 361-386 e illustrazione n. 5. 3 F. Rabelais, Pantagruel, Prologue de l’Auteur, in Id., Œuvres complètes, a cura di M. Huchon, con la collaborazione di F. Moreau, Paris, Gallimard, 1994, p. 214. 54 ariosto e l’ironia della finzione A metà del Cinquecento, il poema italiano è ormai divenuto largamente popolare. Il gusto del pubblico sia per le materie avventurose, sia per quelle sentimentali porta ad apprezzare i temi delle armi e degli amori, che nel poema si trovano mirabilmente intrecciati. A questi va aggiunta una nostalgia, più in generale, per l’intero universo cavalleresco e per i suoi ideali, nei quali i protagonisti della vita e dei giochi di corte si identificano volentieri. Il poema di Ariosto influenza così non solo la produzione letteraria, ma anche in modo più ampio la cultura e la società francese. Nei tornei, nelle feste di corte, negli stemmi e nei motti araldici, persino nei nomi di persona vengono ripresi figure ed episodi dell’Orlando furioso. Nel panorama francese della ricezione cinquecentesca del poema, si cercherebbero tuttavia invano tracce di una comprensione e di una valorizzazione dell’ironia ariostesca e del suo gioco con la finzione letteraria; si tenterebbe invano di individuare anche solo gli echi di quei procedimenti che abbiamo descritto nel capitolo precedente come caratteristici del fenomeno dell’ironia della finzione. In proposito è indicativo, ad esempio, il modo in cui vengono letti i luoghi deputati agli interventi (spesso ironici) del narratore: i prologhi del poema, dai quali due secoli dopo Voltaire saprà cogliere e imitare l’autoironia e il gioco con la finzione letteraria. Tra i principali ammiratori e imitatori di Ariosto vanno annoverati i poeti della Pléiade: lo stesso Du Bellay loda espressamente il Furioso nel manifesto poetico del gruppo, la Défense et illustration de la langue française apparsa nel 1549. Non solo Du Bellay e Ronsard, ma anche Baïf, Pontus de Tyard, Étienne Pasquier e altri estraggono dagli esordi ariosteschi singoli termini o espressioni riferiti a temi amorosi (come la gelosia o il mal d’amore) e già formulati in rapporto a un io poetico, e li trasferiscono all’interno delle loro liriche. In tal modo non solo neutralizzano inevitabilmente il meccanismo dell’ironia della finzione contenuto nei prologhi, ma li epurano anche da ogni inflessione ironica o autoironica, privilegiandone esclusivamente le immagini liriche legate all’espressione degli affetti. I mutamenti che intervengono nella storia della ricezione francese del Furioso alla svolta del secolo non aprono certo vie alla comprensione dell’ironia ariostesca. Al contrario, l’atmosfera del classicismo che prende piede impedisce di apprezzare proprio quei caratteri legati al fenomeno dell’ironia della finzione. Assieme ai modelli artistici e poetici, la Francia importa dall’Italia anche i temi del dibattito letterario, in particolare le questioni che ruotano intorno alla Poetica di Aristotele. Così, le accuse sorte nel clima controriformistico italiano e che abbiamo già avuto modo di ricordare (Introduzione, § 2) riecheggiano nei trattati francesi, orientati sempre più verso una poetica intransigente e regolistica. Le posizioni che si registrano lungo il Grand Siècle si lasciano riassumere in un’opposizione che è solo apparente. Da una parte la critica ufficiale, garante dei precetti del classicismo, che tende a condannare l’Orlando furioso su un piano squisitamente teorico. Si va da Boileau, forse il più indulgente verità, finzione e ironia nei «contes en vers tirées de l’arioste» 55 (almeno nell’Art poétique), che non manca però (nella prefazione al poema eroicomico Le Lutrin, come vedremo meglio più avanti) di rimproverare Ariosto di malafede in materia di verità dei fatti narrati (manifestamente assurdi, ma garantiti come veri addirittura tramite l’autorità di Turpino); alla condanna pronunciata dal padre Rapin nelle Réflexions sur la poétique de ce temps contro l’eccesso di elementi fantastici e immaginari; all’accusa di Le Moyne (Traité du poème héroique) rivolta contro l’uso del soprannaturale a carattere specificamente magico4. Dall’altra le letture private di scrittori e altri intellettuali, anch’essi esponenti illustri del classicismo, che tradiscono un entusiasmo e una passione mai sopiti per il poema. Tra questi ad esempio, il giovane Racine (negli anni 1660-1661) e Madame de Sévigné, che citano entrambi ripetutamente, nelle loro lettere private, l’Orlando furioso nell’originale italiano (spesso a memoria, come si inferisce da alcune imprecisioni), per commentare episodi personali e quotidiani. Il fantastico mondo cavalleresco, la freschezza e la vivacità dei suoi personaggi continuano a esercitare il loro fascino e suscitano una facile e giocosa identificazione in questi raffinati lettori, che amano mescolare, al resoconto di episodi autobiografici, figure ed eventi del poema5. A ben vedere, questi due atteggiamenti costituiscono però le due facce di una stessa medaglia: tanto in là si spingono nella loro seriosa rigidità le condanne dei precettisti, quanto più diffusa risulta una modalità di lettura e di apprezzamento del poema sostanzialmente leggera e disimpegnata. In entrambi i casi non si giunge a una reale e profonda comprensione dell’opera ariostesca, capace di coglierne il carattere di novità e di modernità. In questo panorama dalle posizioni variegate, ma sostanzialmente livellate su uno stesso piano, emerge, a nostro avviso in modo ben distinto, la figura di La Fontaine (1621-1695), il primo autore francese che mostra di saper cogliere a fondo lo spirito dell’ironia che caratterizza il Furioso. Prima di dedicarsi alla stesura delle favole che lo renderanno celebre, La Fontaine pubblica nel 1664 le Nouvelles en vers tirées de Boccace et de l’Arioste, alle quali faranno seguito una seconda e una terza parte di Contes et nouvelles en vers pubblicati in varie edizioni tra il 1666 e il 1671. A questi vanno aggiunti inoltre i Nouveaux Contes, apparsi nel 1674, e altri Contes pubblicati posteriormente (alcuni dei quali uscirono soltanto postumi). L’intera raccolta, che comprende complessivamente sessantaquattro novelle imitate da Boccaccio e da Ariosto (ma anche da altri autori, tra i quali: 4 Per un quadro dettagliato delle critiche rivolte ad Ariosto dai teorici del classicismo si rinvia a A. Cioranescu, L’Arioste en France, des origines à la fin du XVIIIe siècle, vol. ii, Paris, Slatkine, 1939, pp. 22-51. 5 Per le citazioni ariostesche nelle lettere di Racine, si veda il contributo di C. Knight, The «Orlando Furioso» in France 1660-1669, in The Renaissance in Ferrara and its European Horizons/Il Rinascimento a Ferrara e i suoi orizzonti europei, a cura di J. Salmons, W. Moretti, Cardiff-Ravenna, University of Wales Press-Edizioni Girasole, 1984, pp. 23-40. 56 ariosto e l’ironia della finzione Aretino, Machiavelli, Margherita di Navarra, Rabelais, e vari altri), è scritta in versi liberi, ovvero in una metrica volutamente irregolare e che ben si adatta all’andamento prosastico della narrazione novellistica. Complessivamente sono tre le novelle che La Fontaine imita da Ariosto (numero superato solo dalle ben venti novelle tratte dal Decameron): Joconde, riscrittura della novella di Astolfo e Giocondo Latini, raccontata a Rodomonte da un oste (O.F., xxviii, 4-74); La Coupe enchantée, imitazione della storia del nappo d’oro, narrata a Rinaldo dal proprio ospite (O.F., xlii, 70 - xliii, 67) e Le petit chien qui secoue de l’argent e des pierreries, riscrittura della storia del giudice Anselmo, raccontata sempre a Rinaldo da un barcaiolo (O.F., xliii, 72-143). In ognuno dei tre casi, dunque, si tratta di una storia all’interno della storia principale dell’Orlando furioso: vi è sempre cioè un personaggio del poema che si fa carico, in qualità di narratore, della “responsabilità” della storia raccontata. Nella rielaborazione di La Fontaine, invece, la funzione di narratore viene ogni volta assunta da un’istanza extradiegetica6. Il narratore delle novelle di La Fontaine (è questo un primo elemento importante ai fini della nostra analisi) si trova cioè in una posizione simile a quella del narratore dell’intera vicenda del Furioso. Inoltre, come vedremo (e questo è il secondo elemento di rilievo), quando il narratore di La Fontaine fa riferimento alla propria fonte, non nomina mai nessuno dei tre personaggi-narratori del Furioso (l’oste, il triste cavaliere del nappo e il barcaiolo, che nella finzione del poema sono i diretti responsabili delle storie da loro rispettivamente raccontate)7: attribuisce bensì direttamente ad Ariosto l’intera responsabilità di queste tre storie, trattandole così alla stregua degli altri episodi narrati nel Furioso. Le tre novelle furono composte in tempi diversi: Joconde apparve nella prima raccolta, mentre le altre due furono pubblicate in edizioni successive8. È 6 Al contrario di quanto accade nel Furioso, dunque, nei testi di La Fontaine le tre novelle non vengono raccontate da un narratore intradiegetico (o, nel caso del nappo d’oro, intra-omodiegetico). Per un’indagine critica dei cosiddetti “inserti novellistici” del poema ariostesco, si rimanda (anche per ulteriori indicazioni bibliografiche) ai contributi di Giuseppe Sangirardi, Les nouvelles du Roland furieux, in «Cahiers d’études italiennes», x (2010), pp. 115-128 e (per una messa in questione dell’opportunità di continuare a isolare tali inserti rispetto ad altre forme di «racconto di secondo grado» presenti nel poema) di Annalisa Izzo, Discorso diretto e «entrelacement» nel romanzo cavalleresco: Boiardo e Ariosto, in «D’un parlar ne l’altro». Aspetti dell’enunciazione dal romanzo arturiano alla Gerusalemme liberata, a cura di A. Izzo, Pisa, ets, 2013, pp. 113-140. 7 L’unico dei tre a comparire nelle novelle francesi è il cavaliere del nappo, con il nome di Damon, che compare però soltanto in qualità di personaggio della storia. 8 Joconde fu pubblicata la prima volta nelle Nouvelles en vers tirée [sic] de Boccace et de l’Arioste par M. de L.F., Paris, Claude Barbin, 1665 [ma finito di stampare nel 1664]; La Coupe enchantée apparve per la prima volta nei Contes et nouvelles en vers de M. de La Fontaine, Paris, Claude Barbin, 1669, e nello stesso anno anche in un’edizione pubblicata a Leida e corredata della dissertazione di Boileau su Joconde (vedi nota successiva); Le petit chien vide la luce nei Contes et nouvelles en vers de M. de La Fontaine, Troisième partie, Paris, Claude Barbin, 1671, nei quali confluì anche il testo de La Coupe enchantée, con lievi modifiche. La pagina 57 non è riprodotta in questo estratto. 58 ariosto e l’ironia della finzione A Bailly si deve anche la tesi, poi più volte ripresa in seguito, che individua la forza e la modernità dei Contes nell’impiego, tecnicamente rilevante e innovativo in relazione a questo genere letterario, degli interventi del narratore all’interno del racconto12. Tuttavia non è stato ancora rilevato in che misura e in quali modi questo elemento fondamentale della presenza del narratore affondi le proprie radici nel modello ariostesco13. Nella storia della ricezione del Furioso, i Contes en vers rappresentano la prima tappa in ambito francese (e la seconda in ambito europeo, dopo la geniale rilettura compiuta da Cervantes) verso una comprensione profonda e moderna di alcuni aspetti fondamentali del complesso rapporto tra ironia e finzione poetica che caratterizza il poema rinascimentale. Nelle pagine che seguono vedremo come La Fontaine seppe appropriarsi abilmente di alcuni procedimenti dell’ironia della finzione di Ariosto: la dialettica tra finzione favolistica e verità psicologica, il gioco di rinvii alla “falsa fonte” e l’uso dell’ironia in relazione alle due modalità del fantastico ariostesco. 2.2. la dialettica tra finzione favolistica e verità psicologica Nel capitolo primo abbiamo osservato come nel Furioso elementi spiccatamente fantastici e inverosimili si combinino con un’attenta salvaguardia della verosimiglianza relativa alla psicologia dei personaggi14. Da una parte ci Negligence: La Fontaine’s Contes, London-New York, Cambridge University Press, 1971. Meno interessanti, invece, per la loro impostazione, almeno in relazione ai problemi trattati nel presente libro, risultano due più recenti monografie sui Contes: J. Merino-Morais, Différence et répétition dans les «Contes» de La Fontaine, Gainesville, University Presses of Florida, 1981 e C.M. Grisé, Cognitive Space and Patterns of Deceit in La Fontaine’s “Contes”, Charlottesville, Rookwood Press, 1998. Infine, quando il testo di questo libro era già pronto per la pubblicazione, è apparso l’ampio studio di Jole Morgante, Quand les vers sont bien composés. Variation et finesse, l’art des Contes et nouvelles en vers de La Fontaine, Bern, Peter Lang, 2013, dei cui risultati non è stato possibile tenere conto in questa sede. 12 «C’est par ces interventions personnelles que le conteur maintient son auditoire en haleine. Encore faut-il qu’il prenne lui aussi plaisir à ce jeu, s’il veut le bien jouer»; «L’humeur n’existait pas avant La Fontaine. Chez les conteurs d’autrefois, même chez Rabelais, la plaisanterie [...] n’est pas insidieuse; elle ne convie pas l’auditeur à une collaboration dans laquelle on lui demande de deviner une intention dissimulée, de goûter la saveur d’un contraste entre le ton e la pensée, d’apercevoir la bouffonnerie cachée sous la prédication, d’entendre un autre sens que le sens littéral, d’apercevoir le rire intérieur d’un conteur impassible et de savoir aussitôt, par une sorte de communion spirituelle, dans quelle mesure il se moque de ses personnages, et de vous qui l’écoutez, et de lui-même qui vous parle. C’est là précisément tout l’art des Contes, c’en est l’esprit» (Bailly, La Fontaine, cit., pp. 177 e 197-198; ma l’intera parte dedicata ai Contes è ricca di esempi e analisi penetranti, che aprono la strada alle osservazioni successive di Pabst e di Lapp). 13 Sul confronto tra La Fontaine e il suo modello ariostesco si vedano in particolare: B. Cotronei, La Fontaine e l’Ariosto. Studio comparativo, Catania, Tipografia Galatola, 1890; S. Keyser, L’Arioste e La Fontaine, in Id., Contribution à l’étude de la fortune littéraire de l’Arioste en France, Leiden, Dubbeldedam, 1933, pp. 111-128; Cioranescu, L’Arioste en France, cit. e J. Lapp, Ariosto and La Fontaine: a literary Affinity, in Id., The Esthetics of Negligence, cit., pp. 91-116. A quest’ultimo si devono, a mio avviso, le osservazioni più penetranti sull’«affinità» artistico-letteraria esistente tra i due autori: esse tuttavia non illuminano il meccanismo, a mio parere centrale, dell’uso dell’ironia della finzione poetica nei testi esaminati. 14 Cfr. supra § 1.5.1 (Finzione favolistica e verità psicologica). verità, finzione e ironia nei «contes en vers tirées de l’arioste» 59 imbattiamo nei prodigi più incredibili, negli artifici magici e nelle armi incantate, nella forza smisurata dei guerrieri e nei voli fantastici compiuti dall’ippogrifo. Dall’altra veniamo chiamati a osservare con serietà la psicologia e i comportamenti dei personaggi di queste storie fantastiche, e a confrontare i loro atteggiamenti e le loro reazioni con il mondo reale. Come abbiamo visto, si tratta tuttavia di un contrasto solo apparente, dietro al quale il narratore, attraverso l’uso dell’ironia, offre al lettore la chiave della logica coerenza di questo «accozzamento del naturale collo strano e coll’impossibile», per citare ancora una volta l’osservazione di Gioberti. L’ironia del narratore, da una parte, si appunta infatti sull’evidenza fantastica dei fatti narrati: attraverso le forme del fantastico di complicità, chiede al lettore non di crederci, ma solo di fare finta di crederci. D’altra parte, quando si tratta invece della psicologia dei personaggi, quella stessa ironia del narratore è pronta a smascherare le eventuali menzogne e simulazioni, e invita il lettore a indagare a fondo nell’animo delle figure che si muovono sulla scena del racconto. Potremmo dire che questi due aspetti apparentemente contrapposti del Furioso sono tenuti assieme in modo coerente da un’ideale distinzione tra la menzogna innocua del narratore (quella legata all’uso del soprannaturale) e la falsificazione tendenziosa messa in atto da alcuni personaggi (basti pensare ai continui episodi di tradimento, non solo amoroso, che costellano il poema). L’ironia del narratore è tanto pronta a garantire il carattere “inoffensivo” della prima, quanto a smascherare il carattere insidioso della seconda. Il risultato è quello di suggellare, con logica coerenza, la combinazione legittima di una sfrenata libertà fantastica con una fedele aderenza realistica agli aspetti della psicologia umana. È a questa combinazione solo apparentemente paradossale, che La Fontaine ci rinvia in un passo della novella La Coupe enchantée. Il racconto prende avvio dalla descrizione della sconvolgente passione amorosa che la bella maga Nérie (il personaggio di La Fontaine che corrisponde alla Melissa ariostesca) nutre per il giovane Damon (che corrisponde al cavaliere del nappo del Furioso). Quest’ultimo resiste al fascino di Nérie e respinge le sue ripetute offerte d’amore, dichiarando di non voler in alcun modo rompere la promessa di fedeltà nei confronti della propria moglie Caliste. Di fronte alle prove della saldissima fedeltà coniugale di Damon, il narratore interrompe il racconto e lo commenta, dubitando che una tale stirpe di mariti possa mai essere veramente esistita: Où sont-ils ces maris? La race en est cessée: Et même je ne sais si jamais on en vit. L’histoire en cet endroit est selon ma pensée Un peu sujette à contredit: L’hippogriffe n’a rien qui me choque l’esprit, Non plus que la lance enchantée: Mais ceci, c’est un point qui d’abord me surprit. Le pagine da 60 a 77 non sono riprodotte in questo estratto. Le pagine da 60 a 77 non sono riprodotte in questo estratto. 78 ariosto e l’ironia della finzione ripugnante. Attira quindi Anselme nel palazzo e cerca di convincerlo, dietro la promessa di doni sontuosi, ad accondiscendere alle proprie voglie omosessuali, per smascherarne così l’avidità di fronte alla moglie, che assiste alla scena, nascosta all’interno del palazzo. Nel momento in cui il moro deforme ha persuaso il paludato e rispettabile giudice ad acconsentire alle proprie richieste oscene, Anselme ci viene comicamente presentato nei suoi nuovi panni: si è trasformato in un attillatissimo e aitante giovane paggio, che del grave aspetto dell’anziano giudice conserva solo la barba. È solamente a questo punto della narrazione che La Fontaine rivela ai propri lettori che dietro il disgustoso moro si cela in realtà la maga Manto, artefice dell’intero inganno: Pour le More lippu, c’etait Manto la fée, Par son art métamorphosée, Et par son art ayant bâti Ce Louvre en un moment; par son art fait un page Sexagénaire et grave. [Le petit chien, vv. 442-446; corsivi miei] La triplice anafora che ribadisce l’uso della magia («par son art»), imbriglia in un’unica sequenza significato letterale e valenza metaforica della dimensione magica. Se infatti nei primi due casi l’arte magica serve a giustificare, sul piano fattuale della narrazione, la trasformazione fisica di Manto in un arabo dai tratti ripugnanti e la costruzione subitanea (in pieno gusto ariostesco) del sontuoso palazzo, nel terzo caso, la repentina metamorfosi del giudice Anselme allude, accanto al magico cambiamento fisico delle vesti («En page incontinent son habit est changé», v. 436), anche a un’altra metamorfosi: il disvelamento della vera natura morale del giudice. Dietro all’atteggiamento grave e severo di censore della moralità, si scopre qui infatti un avido servo pronto a obbedire alle più oscene richieste. Nella Coupe enchantée e nel Petit chien il narratore mette dunque in rilievo, attraverso l’uso sapiente di figure retoriche quali la metafora e l’anafora, la contiguità esistente tra la metamorfosi magica e il disvelamento in ambito morale. In tal modo invita al contempo il lettore a riflettere sul significato del fantastico e sulla sua funzione di metafora morale. 2.5.2. Il fantastico di complicità È soprattutto nel terzo dei contes tratti dal Furioso che La Fontaine reimpiega anche l’altra modalità attraverso la quale il fantastico ariostesco si combina con l’ironia della finzione: quella che abbiamo definito come il ‘fantastico di complicità’39. Tra le sue espressioni rientra anche la sottolineatura 39 Cfr. supra § 1.4.1. verità, finzione e ironia nei «contes en vers tirées de l’arioste» 79 iperbolica del carattere irreale di certi eventi che vengono descritti all’interno della narrazione. È il caso, tra gli altri, del topos ariostesco del palazzo magnifico e splendidamente rifinito che appare (e scompare) per magia, di solito in un luogo totalmente isolato. Nel descrivere questi palazzi, Ariosto gioca spesso, in modo ben calcolato, sul rapporto inversamente proporzionale tra l’estrema ricchezza e cura delle pregiate decorazioni che abbelliscono l’edificio e il tempo rapidissimo nel quale esso, per incanto o per opera di demoni, viene costruito. L’effetto di tale gioco è ovviamente ironico: esagerando in maniera iperbolica il carattere fantastico della narrazione, il narratore strizza l’occhio al lettore e lo mette in guardia rispetto a una lettura ingenua del soprannaturale. Se nella tradizione canterina il fantastico è parte integrante del mondo cavalleresco, e come tale aspira a ottenere credito da parte del lettore, nel Furioso invece il narratore evidenzia ironicamente i momenti fantastici, segnalando al fruitore la loro palese inverosimiglianza e instaurando con lui un rapporto di complicità. Il topos dell’apparizione e sparizione improvvisa del palazzo magnifico è uno dei più fortunati nella storia della ricezione del Furioso, e avremo modo di osservare come in seguito lo riutilizzeranno anche Voltaire e Wieland, sempre con effetti legati all’ironia della finzione40. La Fontaine lo impiega nella novella del Petit chien, nella quale la maga Manto costruisce in un batter d’occhio lo splendido palazzo in cui attira il giudice Anselme, come sottolinea il narratore nell’ultimo passo che abbiamo citato sopra («Et par son art ayant bâti / Ce Louvre en un moment»). Ma è in particolare al termine della novella che l’autore gioca esplicitamente con questo topos di derivazione ariostesca. Dopo che Anselme è stato pesantemente colto in fallo e svergognato dalla propria moglie, egli non può far altro che accettare la resa incondizionata propostagli da quest’ultima: entrambi i coniugi dovranno lasciare da parte reciproche vendette, dimenticare le loro colpe e i rispettivi tradimenti, e tornare a casa per vivere di nuovo d’amore e d’accordo. Con il ristabilimento della «pace» e della «concordia» si chiudono sia la novella narrata da Ariosto (O.F., xliii, 143), sia quella di La Fontaine (Le petit chien, vv. 503-505). Tuttavia quest’ultimo prolunga in modo originale il testo della novella, aggiungendo un epilogo nel quale il narratore si rivolge al lettore e finge di rispondere alle sue curiosità. Nei primi versi dell’epilogo il narratore gioca con il topos del palazzo magico: Que devint le palais? dira quelque critique. Le palais? que m’importe? il devint ce qu’il put. À moi ces questions! suis-je homme qui se pique D’être si régulier? Le palais disparut. [Le petit chien, vv. 506-509] 40 Cfr. infra rispettivamente i §§ 3.4.2 (Il fantastico di complicità) e 4.6 (Finzione fantastica e verità psicologica). 80 ariosto e l’ironia della finzione Il narratore finge che un critico lo importuni con questioni relative alla verosimiglianza. Dopo aver descritto (seguendo in questo il modello ariostesco) il fastoso palazzo, i suoi appartamenti, mobili e giardini, l’autore conclude la novella informandoci solamente che i due coniugi fecero nuovamente pace: da qui la domanda del critico sulle sorti del palazzo. Il narratore dapprima protesta: una simile questione non lo interessa e non costituisce minimamente un problema per lui. L’espressione «être si régulier» allude scherzosamente alle “regole” della dottrina classicistica, che prescrivono il rispetto della verosimiglianza e della coerenza narrativa: regole alle quali, anche in questo caso (come nelle affermazioni che abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti), La Fontaine si sottrae giocosamente41. Dopo la protesta iniziale, il narratore finge di cedere: se proprio volete una risposta – sembra aver l’aria di far intendere – eccovela, «le palais disparut». Infatti, nello stile di Ariosto, ovvero della fonte di questa novella – sembra dirci –, i palazzi magici vengono fatti apparire e scomparire a piacimento. Anche in questo caso, come già per gli altri procedimenti dell’ironia della finzione ariostesca ai quali La Fontaine ricorre, l’autore secentesco non si limita a un semplice riuso: in maniera originale, li esibisce e li rende, per così dire, espliciti. Laddove Ariosto evidenzia con sottile e implicita ironia il carattere iperbolico del fantastico, La Fontaine rafforza l’effetto di rottura dell’illusione narrativa già presente nel Furioso, rivolgendosi al lettore e commentando o discutendo con lui l’evento fantastico. Come abbiamo avuto modo di accennare il topos ariostesco dell’apparizione e sparizione del palazzo fatato conoscerà particolare fortuna nel secondo Settecento. Nello stesso periodo, un grande artista è attratto dal fantastico di derivazione ariostesca e lo traduce efficacemente in immagini. Nelle illustrazioni che Fragonard prepara per i Contes en vers di La Fontaine prima (databili probabilmente agli anni Sessanta del Settecento) e per l’Orlando furioso poi (risalenti a dopo il 1780) e che analizzeremo da vicino nel capitolo settimo42, troviamo il gusto divertito per l’esplosione repentina del fantastico e l’insistenza sulla sorpresa che esso suscita sui personaggi del racconto. Possiamo confrontare in proposito l’illustrazione della novella Le petit chien (fig. 1), nella quale il gesto enfatico che esprime l’attonita sorpresa del giudice 41 Per l’uso dell’aggettivo régulier in riferimento alle regole della doctrine classique, si veda la prefazione alla Deuxième partie des contes et nouvelles en vers nella quale La Fontaine rivendica la propria libertà rispetto ai precetti imposti dai teorici del Grand Siècle: «il faut laisser les narrations étudiées pour les grands sujets, et ne pas faire un poème épique des aventures de Renaud d’Ast. Quand celui qui a rimé ces nouvelles y aurait apporté tout le soin et l’exactitude qu’on lui demande; outre que ce soin s’y remarquerait d’autant plus qu’il y est moins nécessaire, et que cela contrevient aux préceptes de Quintilien; encore l’auteur n’aurait-il pas satisfait au principal point, qui est d’attacher le lecteur, de le réjouir, d’attirer malgré lui son attention, de lui plaire enfin: car, comme l’on sait, le secret de plaire ne consiste pas toujours en l’ajustement, ni même en la régularité; il faut du piquant et de l’agréable, si l’on veut toucher. Combien voyons-nous de ces beautés régulières qui ne touchent point, et dont personne n’est amoureux?» (La Fontaine, Œuvres complètes, cit., p. 603, corsivi miei). 42 Cfr. infra § 7.4 (Fragonard: il narratore entra in scena). verità, finzione e ironia nei «contes en vers tirées de l’arioste» [1.] Fig. 1. La Fontaine, Contes, avec illustrations de Fragonard, réimpression de l’édition de Didot de 1795, revue et augmentée d’une notice par M. Anatole de Montaiglon, J. Paris, Lemonnyer, 1883 (illustrazione della novella Le petit chien). Fig. 2. Fragonard, Atlante fa scomparire il proprio castello (O.F., iv, 38). Collezione privata. [2.] 81 Le pagine da 82 a 84 non sono riprodotte in questo estratto. 3. VOLTAIRE: COMMISTIONE DI TONI E IRONIA NEL GENERE EPICO 3.1. voltaire e la riabilitazione dell’«orlando furioso»: un lungo percorso 3.1.1. L’influenza classicistica nell’Essai sur la poésie épique È merito del Carducci aver offerto per primo uno schizzo, dotato di vivacità ed efficacia quasi teatrali, della lunga e tortuosa sequenza di giudizi e di posizioni assunte da Voltaire (1694-1778) nel corso della propria vita rispetto al poema ariostesco1. Partito da una valutazione complessivamente negativa di Ariosto nel giovanile Essai sur la poésie épique, per approdare infine a un elogio smisurato del Furioso negli anni della vecchiaia2, Voltaire dovette ingaggiare una vera e propria lotta al fine di liberarsi da alcuni pregiudizi di gusto e di poetica della sua epoca. Per comprendere le posizioni iniziali del giovane Voltaire bisogna tenere presente l’orizzonte di lettura del Furioso dei primi decenni del xviii secolo: sul poema cinquecentesco gravavano ancora quei giudizi e quelle difficoltà di comprensione sorti nell’ambito della poetica 1 G. Carducci, L’Ariosto e il Voltaire, in «Fanfulla della Domenica», 5 giugno 1881 (successivamente raccolto in Id., Opere, vol. x (Studi saggi e discorsi), Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 129-147). Va precisato che una primissima breve ricostruzione delle oscillazioni contenute nei vari giudizi di Voltaire, limitatamente all’Essai sur la poésie épique e alla voce Epopée, si trova già nella prefazione di John Hoole alla traduzione inglese del Furioso da lui annotata (cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, with Notes by J. Hoole, vol. i, London, Wilson, 1807, pp. 18-20). 2 Per l’ammirazione sconfinata di Voltaire nei confronti del Furioso durante gli ultimi anni della sua vita si tenga presente, oltre alle lettere (in particolare quella indirizzata a M.me du Deffand del 15 gennaio 1761, riportata infra nel § 3.2.1), la testimonianza del suo segretario Jean-Louis Wagnière, che ricorda come Voltaire, ormai molto anziano, gli chiedesse spesso di leggergli qualche passo da Ariosto: «Lorsque mon maître était triste et souffrant, il me disait: Allez-moi chercher un volume de l’Arioste, ou bien ma Jeanne. C’est ainsi qu’il nommait sa Pucelle, et c’est le nom que son relieur mettait au dos du livre.» (S. Longchamp, J.-L. Wagnière, Mémoires sur Voltaire et sur ses Ouvrages, Paris, André, 1826, t. i, p. 25). Il ricordo è interessante anche perché Voltaire mette sullo stesso piano il Furioso e il proprio poema La Pucelle d’Orléans: vedremo più avanti l’importanza di questa equivalenza. 86 ariosto e l’ironia della finzione del classicismo già nel corso del xvii secolo, e alle quali abbiamo fatto riferimento all’inizio del capitolo precedente. Si continuava a rimproverare ad Ariosto il disordine dell’impianto generale dell’opera, e a preferirgli in questo senso Tasso, perché dopo tutto la struttura della Gerusalemme liberata era considerata più ordinata e unitaria; si insisteva sull’impiego esagerato del fantastico e lo si accusava inoltre, all’interno del dibattito sorto sul merveilleux chrétien, di aver mischiato i due tipi di soprannaturale (quello pagano della mitologia antica e quello cristiano). Anche nell’ambito della querelle des anciens et des modernes, che aveva coinvolto tutte le voci più autorevoli dell’epoca, il nome di Ariosto non godeva di buona reputazione. Se non poteva certo figurare sotto una luce elogiativa negli scritti degli anciens, non veniva d’altra parte evocato neppure dai modernes tra quei modelli esemplari degni di opporsi ai grandi poeti epici greci e latini: infatti, invece di riconoscere ed esaltare la novità di Ariosto, i modernes approdavano pressappoco agli stessi giudizi formulati sul Furioso dagli anciens. Questo paradosso solo apparente si spiega in realtà facilmente tenendo presente quanto dimostrato in proposito da Hans Robert Jauss, che ha osservato che «il pensiero dei modernes fu all’inizio e per lungo tempo prigioniero, tanto quanto quello degli anciens, dell’ideale umanistico di perfezione»3, ovvero di una concezione di perfezione poetica astratta e sostanzialmente a-storica. Fu proprio questa concezione a impedire ai modernes francesi di riconoscere la capacità del Furioso di allargare straordinariamente i confini tradizionali del poema epicoeroico, e di apprezzare così la sua novità rivoluzionaria e la sua “modernità”. Non a caso questo riconoscimento avrà luogo, in una forma pienamente consapevole, solo nell’ambito del romanticismo tedesco, ovvero quando si realizzerà una concezione storicistica dell’estetica, capace di valorizzare le novità senza condannarle come infrazioni alle norme indicate dagli antichi (come facevano gli anciens) e senza giudicarle sulla base di un ideale astratto e atemporale di perfezione (come accadeva per i modernes). Saranno infatti, prima di altri, proprio Schiller e Friedrich Schlegel a raccogliere in eredità le domande ancora aperte del classicismo francese sul confronto tra antichi e moderni, e a dar loro una nuova risposta, capace di fornire impulsi vitali allo sviluppo della letteratura moderna4. Come vedremo meglio nel capitolo suc- 3 H.R. Jauss, Ästhetische Normen und geschichtliche Reflexion in der Querelle des Anciens et des Modernes, in C. Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde les arts et les sciences, con un saggio introduttivo di H.R. Jauss e con tre excursus storico artistici di M. Imdhal, München, Eidos, 1964, pp. 8-64, p. 12. 4 Per l’interpretazione dei saggi di Schiller Über naive und sentimentalische Dichtung (1794-1795) e di Schlegel Über das Studium der griechischen Poesie (1797) come una risposta a distanza alle questioni lasciate aperte dalla querelle des anciens et des modernes, si veda H.R. Jauss, Schlegels und Schillers Replik auf die “Querelle des Anciens et des Modernes”, in Id., Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 67-106 [trad. it. La replica di Schlegel e di Schiller alla Querelle des anciens et des modernes, in Id., Storia della letteratura come provocazione, a cura di P. Cresto-Dina, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 90-128]. voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 87 cessivo, sarà Schlegel a scoprire per primo, a livello di indagine critica, l’ironia di Ariosto e a riconoscere la sua “modernità”, rovesciando puntualmente alcuni dei giudizi negativi dati dalla poetica classicistica francese. Il percorso della nostra ricerca, seguendo il passaggio dal contesto francese a quello tedesco, ci permetterà di osservare attraverso quali dinamiche storiche il Furioso riesca a conquistare una posizione di rilievo all’interno del canone della modernità. In questo quadro, la personalità di Voltaire svolge una funzione importante perché, cercando di emanciparsi da certe posizioni forti della poetica del proprio tempo, intuisce e anticipa alcuni elementi che verranno poi ulteriormente sviluppati in ambito tedesco. Per comprendere l’apporto decisivo dato da Voltaire alla riabilitazione e valorizzazione del Furioso, bisogna non solo seguire la traiettoria degli scritti critico-saggistici che conduce dall’Essai sur la poésie épique (1727), attraverso vari passaggi successivi, sino alla voce Epopée (1771) del Dictionnaire philosophique, ma anche tenere presente il poema La Pucelle d’Orléans, attraverso il quale – come cercheremo di dimostrare – Voltaire tentò di offrire alla letteratura francese un nuovo genere epico che sino ad allora non possedeva, basato sul modello ariostesco e sulla sua singolare commistione di serio e di comico. La commistione tra episodi eroici, alti, seri o addirittura tragici, ed episodi bassi e comici era infatti inaccettabile secondo il principio della divisione degli stili prescritto dalla poetica del classicismo. Sarà tuttavia proprio la commistione tra serio e scherzoso, assieme a una nuova concezione e valorizzazione dell’ironia letteraria, ad essa intimamente legata, a costituire uno dei pilastri fondamentali della poetica romantica, come vedremo nel prossimo capitolo. Per comprendere invece l’orizzonte critico-estetico nel quale si trovò a operare Voltaire nei primi decenni del Settecento, basterà ricordare qui la posizione di uno dei custodi più autorevoli e severi della poetica classicistica, Boileau, il quale nella Dissertation critique sur l’aventure de Joconde (come abbiamo visto nel capitolo dedicato a La Fontaine) condannò Ariosto per aver inserito, all’interno di un «poème héroïque», un episodio «burlesque» come la novella di Astolfo e Giocondo. Secondo i principi del classicismo, infatti, il poema comico o burlesco aveva diritto a una sua precisa collocazione all’interno della griglia dei generi letterari, ma solo a patto che presentasse, in modo coerente e unitario, un tono scherzoso e comico: lo stesso Boileau ne dette un esempio nel poema eroicomico Le Lutrin (prima edizione: 1674). Non era invece ammesso mescolare tra di loro tono serio ed eroico e tono basso e scherzoso: a causa della trasgressione di questo principio, il poema ariostesco risultava appunto difforme, mostruoso, come si legge in molti dei pareri critici dell’epoca. Questo ci spiega le difficoltà incontrate dallo stesso Voltaire, quando si trovò a prendere per la prima volta posizione su Ariosto5, e decise di escluderlo dal 5 Al rapporto tra Voltaire e Ariosto sono dedicati in maniera specifica i seguenti studi, successivamente all’intervento del Carducci: L. Donati, L’Ariosto e il Tasso giudicati dal Voltaire. Appunti e La pagina 88 non è riprodotta in questo estratto. voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 89 In queste righe possiamo rintracciare almeno due osservazioni per noi significative. La prima, che si riassume nella frase «on lit et on relit l’Arioste pour son plaisir», tradisce già l’ammirazione di Voltaire per il Furioso, che con il passare degli anni raggiungerà toni sempre più entusiastici e assoluti. Poi Voltaire passa a spiegare i motivi che lo hanno indotto a escludere il poema rinascimentale dalla sua trattazione: «mais il ne faut pas confondre les espèces». Si tratta dunque di un problema di categorie, o meglio di generi letterari: il termine tecnico «genre» appare poche righe dopo, a decretare appunto l’esclusione del Furioso dal genere epico, sulla base del confronto con i «veri» poemi epici, gli antichi modelli dell’Iliade e dell’Eneide. «Io non parlerei delle commedie L’avaro e Il giocatore, trattando della tragedia», prosegue Voltaire, costruendo dunque un parallelismo tra i due generi dell’epica e del teatro: da una parte esiste un genere epico serio (rappresentato dall’Iliade e dall’Eneide), che corrisponde nel teatro alla tragedia; dall’altra un genere comico (al quale appartiene invece il Furioso), che corrisponde nel teatro alla commedia. L’unico genere che può aspirare veramente alla definizione di «epos» è però quello serio e alto, mentre quello comico, giudicato «molto inferiore», non è degno neppure di venire considerato all’interno di una trattazione sulla poesia epica. È interessante per noi osservare come questo parallelismo costruito da Voltaire trovi un riscontro sorprendente nelle osservazioni avanzate a fine secolo da Friedrich Schlegel nel saggio Über das Studium der griechischen Poesie [Sullo studio della poesia greca] (pubblicato nel 1797). Riprendendo i termini della querelle francese sugli antichi e i moderni, Schlegel sosterrà l’appartenenza di Ariosto a un genere epico nel quale confluiscono anche elementi comici, da contrapporre al genere epico totalmente serio, e ricercherà le origini del primo nel presunto poema omerico Margite, basandosi molto probabilmente sulla Poetica di Aristotele, dove si legge che «il Margite rappresenta [...] per la commedia quello che l’Iliade e l’Odissea sono per la tragedia»8. Il parallelismo già utilizzato da Voltaire, per evidenziare l’esistenza di due generi contrapposti all’interno sia del teatro, sia dell’epos, trova dunque un riscontro puntuale nell’osservazione di Schlegel, grazie al riferimento aristotelico al Margite. Al di là di questa analogia, va però osservato che Schlegel rovescia totalmente la posizione del giovane Voltaire. Sono due, a mio avviso, i punti importanti sulla base dei quali è possibile tracciare un confronto tra la posizione di Voltaire e quella di Schlegel. Il primo consiste nel fatto che il pensatore romantico considera il Furioso (esattamente come il presunto Margite omerico) come il rappresentante di un genere che è sì da contrapporre a 8 Aristotele, Poetica, 1499a (cito dalla trad. it.: Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 9). Per la posizione di Schlegel, si rinvia infra al § 5.2.1: Ariosto tra i modelli della poesia romantica nello Studio della poesia greca (1795-97). Le pagine da 90 a 92 non sono riprodotte in questo estratto. voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 93 sai sur les moeurs (1756)15, nel Candide (1759)16, nel Discours aux Welches (1764), dove il confronto con le imitazioni ariostesche di La Fontaine viene approfondito, sempre a vantaggio del poeta cinquecentesco, e nella tragedia Le Triumvirat (1764), dove si citano in nota alcuni versi dell’«ammirevole» canto xxxv del Furioso. La critica ha inoltre riconosciuto anche tracce di spunti narrativi ariosteschi in alcune opere letterarie di Voltaire: nel racconto Zadig (1747), dove si avverte l’ispirazione ad alcune descrizioni di scontri militari del Furioso; nella tragedia Tancrède (1760), dove viene ripreso l’episodio di Ginevra e Ariodante (del quale si ritrovano echi anche all’interno della Pucelle); nel racconto La princesse de Babylône (1768)17. Nel 1758 prima e nel 1760 poi, Voltaire ricevette inoltre, nella sua tenuta di Ferney, due visite di personaggi italiani, rispettivamente del frate gesuita Saverio Bettinelli e del libertino Giacomo Casanova18. In entrambe le occasioni Voltaire parlò a lungo con i propri ospiti del Furioso, ne lodò e citò a memoria vari passi, tra cui il canto xxxv (particolare che riteniamo veritiero e che risulta interessante in rapporto all’idea di ironia, come vedremo meglio più avanti) e promise ad ambedue gli interlocutori di correggere definitivamente il severo giudizio su Ariosto dato nelle pagine dell’Essai. 3.1.2. L’analisi del Furioso nella voce Epopée del Dictionnaire philosophique Tutti e due gli interlocutori italiani si vantarono di aver contribuito in modo decisivo affinché Voltaire cambiasse definitivamente idea sul Furioso. Se è ovviamente difficile sapere in che misura i due colloqui influirono effettivamente sulle idee di Voltaire, è invece tuttavia certo che egli sentì il bisogno, giunto quasi al termine della propria vita, sia di esprimere a livello critico le 15 «Il y eut une suite non interrompue de poètes italiens qui ont tous passé à la postérité car le Pulci écrivit après Pétrarque; le Boyardo, comte de Scandiano, succéda au Pulci; et l’Arioste les surpassa tous par la fécondité de son imagination» (Voltaire, Essai sur les moeurs [cap. lxxxii], in Œuvres complètes de Voltaire, a cura di L. Moland, vol. xii, Paris, Garnier, 1878). La data indicata è quella della prima pubblicazione completa del saggio. 16 Dove Voltaire fa dire al patrizio veneziano Pococurante di preferire Tasso e «les contes à dormir debout de l’Arioste» a molta parte dell’Eneide (Voltaire, Candide [cap. xxv], in The Complete Works of Voltaire, cit., vol. xlviii). 17 Per il cap. xix (Les Combats) di Zadig, cfr. Keyser, Contribution à l’étude de la fortune littéraire de l’Arioste en France, cit., pp. 139-141; per il Tancrède, cfr. Bouvy, Arioste et Voltaire: “La Pucelle” et le “Roland Furieux”, cit., p. 115; per il racconto La princesse de Babylône, cfr. Legros, L’«Orlando furioso» et la «Princesse de Babylône» de Voltaire, cit. e Cioranescu, L’Arioste en France, cit., vol. ii, pp. 129-132. 18 Cfr. S. Bettinelli, Lettere a Lesbia Cidonia sopra gli Epigrammi, Lettera iv (si può leggere oggi in Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, a cura di E. Bonora, Milano, Ricciardi, 1969, pp. 1196-1197 (Bonora riporta in nota anche uno stralcio dal diario del Bettinelli, che riferisce il colloquio con Voltaire su Ariosto) e J. Casanova de Seingalt, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, BrockhausPlon, 1960, t. iii, vol. vi, cap. x. Sui due episodi si rinvia a Carducci, L’Ariosto e il Voltaire, cit. (si segnala che la visita alla quale Bettinelli fa riferimento avvenne nel 1758, come risulta anche dal diario, e non nel 1757 come indicato da Carducci). Le pagine da 95 a 104 non sono riprodotte in questo estratto. voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 105 anni Cinquanta, dove la Pucelle è di nuovo definita un «poéme dans le goût de messer Ariosto» e, con neologismo appositamente coniato, «mon petit poème ariostin» (lettera a Formont del 13 giugno 1755). Alla marchesa du Deffand, Voltaire scrive prima che nella Pucelle «l’auteur a tâché d’imiter, quoique très faiblement, la manière naïve et le pinceau facile de ce grand homme» (riferendosi ovviamente ad Ariosto, nella lettera del 13 ottobre 1759)41; poi, nella missiva del 15 gennaio 1761, proclama a gran voce: si vous vous imaginez que la Pucelle soit une pure plaisanterie, vous avez raison. C’est trop de vingt chants: mais il y a continuellement du merveilleux, de la poésie, de l’intérêt, de la naïveté surtout. Vingt chants ne suffisent pas. L’Arioste, qui en a quarante-huit [sic!], est mon Dieu. Tous les poëmes m’ennuient, hors le sien42. I ventuno canti della Pucelle costituiscono effettivamente un poema «ariostin», a partire dall’impianto narrativo, che con la sua pluralità di personaggi e di avventure ricorda la grande tela del Furioso. La vicenda che dà il titolo al poema è quella di Jeanne43, che grazie all’intervento di saint Denis si trasforma da semplice cameriera in valorosa e infaticabile guerriera, affronta vittoriosamente numerose battaglie spesso a fianco del fido e nobile cavaliere Dunois, si sottrae ai ripetuti attentati contro il suo «pucelage» (l’ultimo dei quali viene perpetrato addirittura dal suo asino magico) e riesce alla fine a sconfiggere gli inglesi a Orléans e a unirsi a Dunois, al quale si era intanto promessa. Accanto alla storia di Jeanne, vi sono però molte altre vicende che in parte si intrecciano ad essa, in parte seguono un loro corso parallelo e autonomo. Già nel primo canto troviamo Charles vii e la sua amante Agnès che si concedono liberamente ai propri «onesti amori»: quando Charles dovrà partire alla volta di Orléans per affiancare Jeanne, Agnès partirà a sua volta alla ricerca di Charles (secondo uno schema caro ad Ariosto, quello cioè delle partenze “a catena” in cui ogni personaggio insegue e cerca colui che è appena partito44). Agnès cadrà continuamente negli agguati erotici di altri personaggi e si troverà costantemente in fuga. Nel poema svolgono inoltre un ruolo centrale le figure di Dorothée e del suo amante (e fido cavaliere di Charles) La Trimouille, che dopo una serie di avventure moriranno entrambi tragicamente durante un duello con lo spietato condottiero inglese Paul Tirconel. Tutti i personaggi del poema si 41 Per la serie di citazioni dalle lettere di Voltaire si rimanda a ibid., pp. 119 e 121. Voltaire, Correspondance, a cura di T. Besterman, vol. vi (octobre 1760-décembre 1762), Paris, Gallimard, 1980, p. 210. 43 Per i personaggi fittizi del poema di Voltaire (Jeanne, Charles vii ecc.) abbiamo scelto di mantenere sempre i nomi originali francesi; abbiamo invece utilizzato la forma italiana ‘Giovanna d’Arco’ in riferimento al personaggio reale della storia francese. 44 Si pensi, per un solo esempio, alla partenza notturna di Orlando dal campo cristiano che provoca a sua volta la partenza del suo fedele compagno Brandimarte e, successivamente, quella di Fiordiligi, innamorata di Brandimarte (O.F., viii, 86-90). 42 Le pagine da 106 a 139 non sono riprodotte in questo estratto. 140 ariosto e l’ironia della finzione avuto modo di vedere sopra97. Abbiamo notato come l’affermazione che «le poëme de Roland le furieux» abbia «un sujet mêlé de sérieux et de plaisant» e che Voltaire lo abbia trovato «aussi sublime que plaisant» metta in evidenza il fatto che lo scrittore francese sia rimasto colpito dalla commistione di toni seri e comici che caratterizza l’epos ariostesco, dalla sua ammirevole bigarrure, che riesce a combinare temi tragici e temi comici, «événements touchants» e «aventures grotesques». Sebbene – osserviamo noi – il poema di Voltaire non raggiunga sempre questa abilità ammirata nel Furioso, che consiste nel far passare il lettore da un tono all’altro senza “scossoni”, è tuttavia significativo che Voltaire tenti nella Pucelle di imitare questo principio e lo enunci apertamente nei versi sopra citati. Abbiamo anche osservato, sempre nella voce Epopée, l’attenzione che Voltaire dirige verso l’autoironia di Ariosto: la citazione del proemio del canto xxiv del Furioso, nella quale il narratore ariostesco confessa di essere affetto dalla medesima follia amorosa di Orlando, esprime l’ammirazione di Voltaire per la capacità del narratore di condividere in prima persona le debolezze e i difetti dei propri personaggi. Questa partecipazione alle «humaines faiblesses» dei propri personaggi si ritrova puntualmente nei versi della Pucelle. Abbiamo visto infine, come venga formulato, riguardo agli esordi del Furioso, il principio che fa della varietà dei toni adottati il presupposto diretto per ottenere «toujours du naturel et de la vérité», «sempre del naturale e del vero». Nella Pucelle, dunque, Voltaire lavora già, in modo pienamente consapevole, sulla base di quei principi di poetica che gli derivano direttamente dalla sua personale interpretazione del Furioso e che enuncerà chiaramente a livello critico solo più tardi, nella voce Epopée. 3.3.5. Il «sentier» torto di Ariosto e le «but de l’ouvrage» Il binomio sinonimico rappresentato dal «vero» e dal «naturale» ricorre anche a cavallo tra i canti vii e viii. Se alla fine del canto vii si parla della «nature», nel proemio del canto viii il «vrai» viene proclamato come l’unico valore in grado di assicurare un successo duraturo al poema. Per comprendere il significato di questo riferimento al «vero», leggiamo l’esordio del canto, nel quale come al solito il narratore riprende la parola. Il canto viii si apre con una triplice esclamazione, diretta a esaltare i valori morali insiti nella storia che ci viene raccontata: Que cette histoire est sage, intéressante! Comme elle forme et l’esprit et le cœur! Comme on y voit la vertu triomphante, 97 Cfr. supra § 3.1.2 Il quarto principio della poetica ariostesca che abbiamo messo a fuoco in quel paragrafo, ovvero la presenza sistematica del narratore negli esordi ai canti, verrà analizzato in rapporto alla Pucelle nell’ultimo paragrafo di questo capitolo (cfr. infra § 3.5.5). Le pagine da 141 a 145 non sono riprodotte in questo estratto. 146 ariosto e l’ironia della finzione di nuovo riferimento al problema della «verità», definendola «vergine pura e sacra», degna di essere rispettata e riverita dagli scrittori. Ma come viene qui prefigurato il rapporto tra la verità e la narrazione nel poema La Pucelle? È forse la verità ciò che rimane, dopo che il lettore ha cancellato con la «pietra pomice» (v. 20) le parti della narrazione che non si confanno al tono alto ed eroico, previsto dal genere epico, oppure comprende anche quei «tant d’accidents» (v. 11) che interrompono e allungano continuamente la narrazione? Per intendere il senso delle antifrasi e comprendere il messaggio ironico di Voltaire dobbiamo ancora una volta fare attenzione all’intero contesto del discorso e ricostruirne i sottili rimandi interni. Il «libro divino» di Ariosto risulta «credibile» a ogni lettore (vv. 34-35) proprio perché cita Turpino, afferma il narratore nei versi conclusivi dell’esordio. Il senso di questa affermazione paradossale è comprensibile solo tenendo presente il parallelismo instaurato da Voltaire (e da lui evidenziato anche in nota, come abbiamo visto) tra Turpino e Tritême: se Ariosto ha mostrato la propria «saggezza» rifacendosi a Turpino (vv. 32-33: «Oh, qu’Arioste étala de prudence / Quand il cita l’archevêque Turpin!») e ha acquistato così credibilità, allo stesso modo anche la credibilità e la verità del racconto di Voltaire vengono garantite grazie alla propria «saggia» fonte (vv. 13-14: «ces événements / Furent écrits par Tritême le sage»). Al tempo stesso, Tritême viene chiamato a garanzia proprio di quella pluralità di avvenimenti bassi e comici, di quei «molti accidenti», insomma, che derogano dal tono epico ufficiale. La saggezza di Tritême-Voltaire, proprio come quella di Turpino-Ariosto, consiste allora nell’aver rinviato ironicamente a una “falsa fonte”, per poter operare le proprie scelte narrative e poetiche con grande libertà. Dietro le scuse ironiche pronunciate dal narratore, si nasconde in realtà una presa di posizione di Voltaire ben precisa, relativa alla poetica seguita nella propria opera: la veridicità (e di conseguenza la credibilità) del poema sono fatte salve esattamente grazie a questa libertà poetica, che permette di includere nel poema una folla di episodi bassi e comici, e di mostrare così, accanto alle virtù (le sole cantate dall’epica ufficiale), anche le «humaines faiblesses» e di tentare di ritrarre tutti gli aspetti della «humaine nature». In questo consiste il senso profondo del rinvio all’ironia di Ariosto: nel valido contributo che il Furioso ha prestato, secondo Voltaire, al genere epico e al suo rapporto con la realtà. 3.4. l’ironia e il soprannaturale: le tre modalità del fantastico nel poema di voltaire 3.4.1. La satira delle credenze religiose e del merveilleux chrétien Abbiamo visto sinora come Voltaire faccia uso nella Pucelle di due forme di ironia: la prima, che abbiamo chiamato ‘illuministica’, dai caratteri aggressivi e dai toni spesso satirici, diretta sempre verso un preciso obiettivo critico voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 147 (appartenente prevalentemente all’ambito delle credenze religiose); la seconda, invece, è l’ironia della finzione, la quale, attraverso la dialettica di identificazione e presa di distanza dalla storia narrata, mira a rendere consapevole il lettore del carattere fittizio del racconto e a farlo così riflettere sul rapporto esistente tra narrazione e realtà. Una distinzione analoga può essere tracciata anche in relazione all’impiego del soprannaturale all’interno del poema: accanto a un uso di carattere ironico-satirico, finalizzato a mettere in ridicolo le credenze religiose, è infatti possibile riscontrare una modalità del fantastico che, seguendo l’esempio di Ariosto, indulge sapientemente sul carattere favoloso e inverosimile degli eventi, in modo da rendere presente al lettore la dimensione della finzione narrativa. A queste due modalità del fantastico, se ne affianca infine una terza, che, sempre sul modello ariostesco, possiamo definire come un impiego metaforico del soprannaturale. La prima modalità, quella del fantastico dai toni ironico-satirici, è senz’altro prevalente nel testo: probabilmente per questo motivo, è anche l’unica delle tre a essere stata sinora riconosciuta dalla critica. Essa investe innanzitutto uno dei grandi temi del poema, quello del «pucelage» di Jeanne: Voltaire si diverte a insistere ironicamente, giungendo persino a esiti comico-grotteschi, sull’idea che la verginità della protagonista rappresenti come ci viene rivelato nel poema dal personaggio di saint Denis una condizione indispensabile alla vittoria delle truppe francesi. Così già nella sua prima apparizione al termine del primo canto, il santo viene brutalmente sbeffeggiato dalle autorità francesi, le quali considerano assurda la sua proposta di cercare una «vergine» per salvare Orléans e la Francia dalla sconfitta militare: «Quand il s’agit de sauver une ville, / Un pucelage est une arme inutile» replica con tono sbrigativo uno dei fedeli di Charles vii, costringendo il santo, indispettito e rosso in volto, a battere temporaneamente in ritirata (Pucelle, i, 344-345 ss.). L’idea che la miracolosa e santa vittoria militare dei Francesi dipenda dall’altrettanto miracolosa e santa difesa della verginità di Jeanne è un motivo che percorre l’intero racconto: le peripezie della protagonista in tal senso raggiungono l’apice nel penultimo canto del poema, quando il destriero magico dell’eroina, il suo asino volante, che aveva già dato segni di gelosia nei confronti delle pretese erotiche avanzate su Jeanne da Dunois, si introduce subdolamente nella camera dove Jeanne riposa e si mette inaspettatamente a parlare, con l’intenzione di sedurre la fanciulla (cfr. il canto xx, intitolato: «Comment Jeanne tomba dans une étrange tentation; tendre témérité de son âne; belle résistance de la pucelle»). In tutti questi casi, il fantastico viene chiaramente utilizzato da Voltaire per satireggiare gli aspetti religiosi legati al mito di Giovanna d’Arco. Il caso dell’asino volante, inoltre, ci permette di constatare quanto sia articolato e variegato il rapporto con il modello ariostesco. L’asino infatti, oltre a implicare tutta una serie di significati simbolico-culturali che vanno dal legame con l’umiltà delle origini sociali della protagonista alle implicazioni evangeliche, dal giocoso Le pagine da 148 a 164 non sono riprodotte in questo estratto. voltaire: commistione di toni e ironia nel genere epico 165 Nel caso di Grisbourdon, pur riprendendo chiaramente la tecnica ariostesca, che per di più viene utilizzata all’interno di un episodio direttamente ispirato al Furioso122, Voltaire apporta una modifica: le due motivazioni dal carattere contrastante vengono infatti accostate nelle parole del personaggio direttamente interessato, e non in quelle del narratore. Il riso del lettore è tuttavia un riso prodotto, anche in questo esempio, da una distanza ironica: quella di chi osserva la scena e il soliloquio del personaggio, come “di nascosto”, in compagnia del narratore. Del resto Voltaire non esita a impiegare la tecnica anche all’interno dei commenti del narratore, come accade al termine dello stesso canto ii, quando ci vengono descritti gli animi della folla di cortigiani e di guerrieri francesi che s’infiammano di generoso spirito patriottico di fronte al giuramento di Jeanne di vendicare il proprio Paese oppresso dai nemici: Dans cette foule il n’est point de guerrier Qui ne voulût lui [scil.: à Jeanne] servir d’écuyer, Porter sa lance, et lui donner sa vie; Il n’en est point qui ne soit possédé Et de la gloire, et de la noble envie De lui ravir ce qu’elle a tant gardé. [Pucelle, ii, 445-450] Gli ultimi due versi del passo citato accostano con una semplice congiunzione correlativa («et...et...») due motivazioni apertamente contrapposte: coloro che sostengono Jeanne sono infatti mossi non solo dagli alti ideali epici collettivi della gloria e della patria, ma anche dal desiderio (del tutto individuale ed egoistico) di togliere a Jeanne la sua verginità. In altre parole, desiderano in cuor loro esattamente il contrario dei nobili propositi patriottici ai quali si appella l’eroina. L’uso di questa tecnica dell’ironia della finzione ci fornisce un ulteriore esempio del gioco instaurato da Voltaire sulla base del costitutivo intreccio ariostesco tra «arme» e «amori» e ci mostra come tale principio funzioni, oltre che sui piani della elocutio e della dispositio, anche al livello dei commenti del narratore. 3.5.5. Ironia e autoironia negli esordi ai canti Abbiamo visto come Voltaire, nella voce Epopée scritta a tarda età, finisca per considerare gli esordi del Furioso una delle innovazioni più originali apportate da Ariosto al genere epico, riconoscendogli in questo «un mérite inconnu à toute l’antiquité»123. Gli esordi vengono ammirati dall’autore francese per la commistione di toni e di temi in essi contenuta: il loro essere ora «maestosi», ora «semplici», ora altamente «morali», ora «gai», ora «galanti». 122 123 Cfr. quanto osservato supra nel § 3.5.2. Voltaire, Dictionnaire Philosophique, cit., p. 574. Le pagine da 167 a 170 non sono riprodotte in questo estratto. 4. DALLA RISCOPERTA DEL FURIOSO ALLA MODA DEI POEMI “ARIOSTESCHI”: WIELAND E IL SECONDO SETTECENTO 4.1. la riscoperta di ariosto nella critica illuminista: johannes nicolaus meinhard Sia La Fontaine che Voltaire rappresentano, per i motivi che abbiamo visto, due illustri eccezioni al clima di avversione per il poema ariostesco che impera nella Francia illuminista. La regolistica di stampo classicistico che pervade l’intero spettro dei generi letterari e, più in generale, il principio filosofico e culturale dell’esaltazione della razionalità (che sta alla base della poetica normativa) spingono i critici illuministi a una condanna dei numerosi «errori» che essi ravvisano nella poesia del Furioso. Questi ideali filosofici e del gusto poetico, fortemente prevalenti nell’intera area europea, operano anche nel mondo tedesco in direzione di una svalutazione del poema epico di Ariosto, in un arco temporale di oltre un secolo: dalla metà del Seicento sino alla metà del Settecento. Sono due, a mio avviso, i fattori culturali che in Germania si oppongono a una comprensione del Furioso: accanto alla penetrazione dall’esterno degli ideali illuministici, un ruolo forte viene esercitato anche dal progressivo diffondersi del fenomeno precipuamente tedesco del Pietismo, a cui avremo modo di fare riferimento a proposito di Wieland nel paragrafo successivo. Illuministico è senza dubbio il terreno nel quale sorge il pensiero dei due massimi critici del panorama germanofono di metà Settecento: Johann Christoph Gottsched (1700-1766) e Johann Jakob Bodmer (1698-1783). Pur essendo in aperto contrasto tra loro, le due autorità esprimono sul poema rinascimentale un parere sostanzialmente analogo: se nella Critische Abhandlung von dem Wunderbaren in der Poesie (1740) del critico zurighese Ariosto viene bonariamente e piuttosto sbrigativamente liquidato con la definizione di «Possenreißer»1 (un «burlone» che si diverte a sovvertire le regole della 1 J.J. Bodmer, Critische Abhandlung von dem Wunderbaren in der Poesie, Stuttgart, Metzler, 1962, p. 271 (la definizione viene citata anche in M.T. Dal Monte, Ariosto in Germania, Imola, Galeati, 1971, p. 26). 172 ariosto e l’ironia della finzione buona poetica), nel suo Versuch einer critischen Dichtkunst (1730) Gottsched analizza e discute i falli del poeta, tra i quali ritroviamo l’uso spregiudicato della fantasia che conduce alla mancanza di verosimiglianza, il disordine strutturale del testo, la presenza sovraffollata di maghi ed eventi soprannaturali (tre argomenti propri già dei critici secenteschi francesi, come abbiamo visto) e, in più, gli interventi in prima persona del narratore 2. Il primo a segnare un’inversione di rotta rispetto a questo panorama è il critico anglista e italianista Johannes Nicolaus Meinhard (1727-1767), che, all’interno del suo ponderoso Versuche über den Charakter und die Werke der besten italienischen Dichter (1763-1764) [Saggi sul carattere e sulle opere dei migliori poeti italiani], dedica un capitolo di ben 270 pagine ad Ariosto, destinato ad avere un importante ruolo di primo orientamento per i futuri lettori e studiosi tedeschi che si accosteranno al Furioso3. È infatti grazie all’impulso dato dall’ampio saggio di Meinhard, che i tedeschi riscoprono e rileggono direttamente Ariosto giungendo a capovolgere il giudizio dato dal classicismo francese: alle sue pagine affermeranno espressamente di essere ricorsi Lessing, Wieland, Gerstenberg e Herder che saranno tra i primi a occuparsi di Ariosto nel secondo Settecento4. Il saggio verrà inoltre ripubblicato dieci anni più tardi, nel 1774, in un’edizione ampliata per mano dell’italianista J.C. 2 J.C. Gottsched, Versuch einer critischen Dichtkunst, in Id., Ausgewählte Werke, a cura di J. e B. Birke, Berlin-New York, de Gruyter, 1973, p. 268. 3 Il primo a rilevare il ruolo pionieristico di Meinhard nei confronti di Ariosto all’interno del panorama tedesco fu probabilmente E. Gianturco, The Beginnings of Ariosto Criticism in Germany: Meinhard and Lessing, in «Romanic Review», xxv (1934), pp. 381-389; l’osservazione è stata poi ripresa e sviluppata da Dal Monte, Ariosto in Germania, cit., pp. 32-41; Rüdiger, Ariosto nel mondo di lingua tedesca, cit., pp. 492-493 e da I. Osols-Wehden, Pilgerfahrt und Narrenreise. Der Einfluß der Dichtungen Dantes und Ariosts auf den frühromantischen Roman in Deutschland, Hildesheim, Weidmannsche, 1998, p. 136 (che attribuisce l’osservazione al solo Rüdiger; nessuno rinvia, stranamente, all’articolo di Gianturco). Dimenticata dagli studi successivi sembra anche l’unica (salvo errore) pubblicazione monografica su Meinhard, che offre tuttavia un utile quadro dei suoi rapporti con gli altri intellettuali del tempo e alcune indicazioni sulla ricezione dei suoi scritti: H. Rehder, Johann Nicolaus Meinhard und seine Übersetzungen, Urbana, University of Illinois Press, 1953. Non ho potuto purtroppo consultare il lavoro dattiloscritto di J. Schneider, Johann Nicolaus Meinhards Werk über die italienischen Dichter und seine Spuren in der deutschen Literatur, Tesi di dottorato, presentata presso l’Università di Marburg nel 1911. 4 Ognuno dei quattro autori rimanda esplicitamente al saggio di Meinhard, che ha dunque un’importante funzione nel mediare il Furioso e nel trasmettere le prime informazioni sulla vita del suo autore e sul testo agli studiosi tedeschi dell’epoca. Lessing recensisce molto positivamente il saggio di Meinhard nella lettera 332 del 27 giugno 1765 e, l’anno successivo, cita la sua traduzione ariostesca nel celebre passo del capitolo xx del Laokoon (vedi adesso l’ottima edizione commentata di G.E. Lessing, Laokoon oder Über die Grenzen der Malerei und Poesie, Studienausgabe, a cura di F. Vollhardt, Stuttgart, Reclam, 2012, pp. 148-153); anche Wieland ha presente questa traduzione in una lettera del 4 febbraio 1768; Gerstenberg cita le posizioni su Ariosto di Meinhard nella lettera iv delle sue Briefe über Merkwürdigkeiten der Litteratur; su Herder infine, al quale gli Italienische Versuche di Meinhard «erano perfettamente noti», si veda Dal Monte, Ariosto in Germania, cit., p. 60. Il Laokoon di Lessing, con la sua celebre critica delle ottave descrittive relative alla bellezza di Alcina e dell’interpretazione elogiativa datane da Lodovico Dolce nel Dialogo della pittura, diviene subito anch’esso, a sua volta, un importante punto di riferimento della critica successiva su Ariosto, talvolta come obiettivo polemico: sarà ad esempio ricordato ironicamente da Wieland (nel poema epico Idris und Zenide, iv, 13, 1-2, vedi infra, § 4.7) e confutato da Herder (Kritische Wälder, i, 1). wieland e il secondo settecento 173 Jagemann e a fine secolo verrà ancora ricordato da August Wilhelm Schlegel, seppure come opera nel frattempo superata da una critica ormai più raffinata e scaltrita5. Il ruolo pionieristico del libro di Meinhard è dunque indubbio e importanti sono anche, a mio avviso, alcune sue osservazioni e posizioni critiche che serviranno da stimolo per i futuri lettori del Furioso, sebbene il suo giudizio complessivo rimanga come sospeso dall’inizio alla fine del saggio, scisso tra l’impossibilità di superare completamente la posizione illuministica da cui prende necessariamente le mosse e una forte dose di ammirazione personale per il poema, alla quale si affianca la conoscenza di opinioni positive di critici stranieri. Se infatti ci domandiamo quali siano le fonti critiche di Meinhard, che egli cita espressamente solo in rari casi, possiamo risalire a mio parere – come vedremo da vicino nel corso dell’analisi – sia alla tradizione italiana (dal Cinquecento in poi), sia ai contemporanei inglesi, che sicuramente ben conosce e che in quegli stessi anni insistono sul carattere «romanzesco» del Furioso; non è dunque un caso che il primo critico tedesco a tentare una comprensione di Ariosto sia stato un italianista e anglista. Sin dalle prime righe del saggio si profila la posizione scissa di cui parlavamo: Meinhard presenta infatti subito Ariosto come il più grande poeta della tradizione italiana, «a dispetto dei suoi errori, che sono ben noti ai suoi molti conoscitori nel suo Paese»6, aggiunge però immediatamente. Sin dall’inizio compare dunque il tema degli «errori» di Ariosto, che accompagna a più riprese la trattazione. Il riferimento alla critica francese è qui ancora implicito, ma viene subito citata un’eccezione: il parere positivo di Voltaire7, che Meinhard intende superare nell’elogiare Ariosto: der Herr von Voltaire irrt sich sehr in seinem Versuche über die epische Dichtkunst, wenn er sagt, daß Ariost dem Tasso noch von vielen Italienern vorgezogen wird. Nicht von vielen, sondern von allen ihren größten Schriftstellern, deren übereinstimmendes Urtheil den Ausspruch der Nation nach sich gezogen, wird dem Ariost der Vorzug gegeben8. 5 Per l’edizione di Jagemann si veda Dal Monte, Ariosto in Germania, cit., pp. 52-53; la citazione di August Schlegel, che nel suo saggio Ludovico Ariostos Rasender Roland considera la semplicità dei giudizi di Meinhard e la rudimentalità delle sue traduzioni una testimonianza dello «stato deplorevole degli studi sulla poesia italiana [...] in quell’epoca», è riportata invece da Rüdiger, Ariosto nel mondo di lingua tedesca, cit., pp. 492-493. 6 «Ungeachtet seiner Fehler, die vielen Kennern bey ihnen sehr wohl bekannt sind» (J.N. Meinhard, Versuche über den Charakter und die Werke der besten italienischen Dichter, vol. ii, Braunschweig, Im Verlage der Fürstlichen Waysenhaus Buchhandlung, 1764, p. 125). 7 Come abbiamo visto, nel suo saggio sul poema epico Voltaire escluse Ariosto dal novero dei poeti epici, nel quale lo ammise ufficialmente solo nella più tarda voce Epopée, pubblicata nel 1771 e quindi posteriore ai saggi di Meinhard. Il critico tedesco fa qui riferimento al giudizio su Ariosto dato da Voltaire nel capitolo dedicato a Tasso, e precisamente all’affermazione seguente: «le Tasse eût eu plus de raison d’avouer qu’il était jaloux de l’Arioste, par qui sa réputation fut si longtemps balancée, et qui lui est encore préféré par bien des Italiens» (Voltaire, Essai sur la poésie épique, cit., p. 453, corsivo mio). 8 Meinhard, Versuche über den Charakter, cit., p. 126. 174 ariosto e l’ironia della finzione (il signor Voltaire si sbaglia di grosso quando afferma, nel suo saggio sulla poesia epica, che Ariosto viene preferito al Tasso da molti Italiani. Non da molti, infatti, bensì da tutti i loro più grandi scrittori, il cui giudizio concorde si tira dietro le affermazioni della nazione, Ariosto viene preferito.) Sempre sul confronto tra Ariosto e Tasso, il critico tedesco rinvia poi espressamente a un altro parere autorevole, attingendolo stavolta dalla critica italiana del Cinquecento: si tratta della celebre lettera di Galilei, di cui ricorda il paragone tra la poesia «infinita» di Ariosto e quella invece «minima» di Tasso. Anche il successivo accostamento tra Omero e Ariosto è tratto in ultima analisi dalla tradizione critica italiana, che già a partire dal Cinquecento aveva operato tale confronto: il parallelo era passato poi alla critica inglese, nella cui tradizione era ancora vivo all’epoca di Meinhard (si veda per un solo esempio la polemica condotta su questo punto dal tedesco Gerstenberg nei confronti dell’inglese Thomas Warton, alla quale faremo riferimento più avanti9). Dopo aver espresso qualche perplessità ricorrendo a una suggestiva metafora architettonica10, Meinhard finisce per sostenere la pari grandezza dei due autori, rovesciando dunque il giudizio negativo di Warton che dava invece la palma all’antico Omero rispetto al moderno Ariosto: Homers Fabel ist einem simpeln und maiestätischen Pallaste gleich, dessen Grösse und schöne Verhältnisse das Auge auf einmal treffen, und entzücken. Die Fabel des Ariost ist ein ungeheures Gebäude, das den Blick ermüdet, wenn man es ganz übersehen will, das aus sehr vielen einzelnen und sehr ungleichen Gebäuden zusammen gestickt ist: Aber wo der Dichter sich am meisten als Dichter zeigt, in der weiten Ausdehnung der Einbildungskraft, der wahren und starken Schilderung der Natur, in einer gewissen wilden Grösse der Bilder und der Ideen, in der Vernachlässigung der feinern, der gekünstelten und idealen Schönheiten, auf die nur diejenigen sinnen können, die mit einer nicht so starken Einbildungskraft die simple Schönheit der blossen Natur weniger lebhaft fassen, in allem diesen findet man in der That viel Ähnlichkeit zwischen dem griechischen, und dem italienischen Dichter. (La favola di Omero è come un semplice e maestoso palazzo, la cui grandezza e le cui proporzioni colpiscono inaspettatamente lo sguardo e lo deliziano. La favola di Ariosto è un mostruoso edificio che stanca la vista se si tenta di abbracciarlo per intero con lo sguardo, perché è composto da moltissimi edifici singoli e assai disuguali, cuciti assieme. Laddove tuttavia il poeta si mostra in massimo grado tale, cioè nella libera espansione dell’immaginazione, nella rappresentazione energica ed autentica della natura, in una certa selvaggia grandezza delle immagini e delle idee; e ancora, laddove evita quelle bellezze alquanto ricercate, artificiose e ideali, alle 9 Per le critiche di Gerstenberg alle considerazioni su Ariosto esposte da Thomas Warton nelle sue Observations on the Faerie Queene (1754), cfr. infra § 4.7. 10 La critica dell’irregolarità strutturale del Furioso attraverso la metafora architettonica di un «palazzo disegnato male» era già presente nella tradizione critica italiana del Cinquecento: ad esempio nel Carrafa o dialogo dell’epica poesia (1584) di Camillo Pellegrino (l’osservazione è riportata anche da Ramat, La critica ariostesca, cit., p. 25). Le pagine da 175 a 181 non sono riprodotte in questo estratto. 182 ariosto e l’ironia della finzione Le tre parole conclusive del saggio fissano quasi emblematicamente i limiti “illuministici” che l’autore non riesce ancora del tutto a valicare. Se il suo contributo segna il faticoso inizio di un percorso importante, la svolta storica fondamentale verso una nuova comprensione del Furioso verrà compiuta solo qualche anno più tardi dall’ingegno poetico di Wieland. 4.2. la svolta storica di wieland È alla personalità poetica e all’opera di Christoph Martin Wieland (17331813) che spettò il compito di realizzare un’importante svolta nel corso della storia culturale e letteraria del Settecento tedesco. Wieland, che viene considerato tutt’oggi dalla critica il massimo esponente del Rococò letterario in Germania, operò un significativo allontanamento sia dalla sensibilità pietistica che aveva sino ad allora dominato il panorama intellettuale e culturale, sia dall’ideologia illuminista: come la critica più recente ha dimostrato, è stato inoltre il primo autore a scrivere romanzi nel senso moderno della parola, ovvero a importare in Germania il nuovo genere letterario che era sorto in quegli anni in Inghilterra e che andava affermandosi in Europa. È stato infine, anche per quest’ultimo motivo, e in virtù di altri aspetti caratteristici della sua produzione letteraria, un precursore, per molti versi, della sensibilità romantica, che si affermerà esplicitamente e compiutamente solo a fine secolo. Nella svolta storica compiuta da Wieland possiamo riconoscere, a mio avviso, connessioni profonde con la sua sensibilità e la sua capacità di comprendere e di valorizzare l’opera ariostesca, la quale rappresenta per più motivi un punto di riferimento nella produzione artistica del poeta settecentesco. Lo stesso allontanamento dai valori del Pietismo28, che aveva permeato per oltre un secolo la cultura e la mentalità tedesca, rappresenta a ben vedere un passo indispensabile per la comprensione e per la valorizzazione dell’epica di Ariosto. La religiosità pietistica prevedeva infatti il ripiego dell’individuo in se stesso e la conseguente fuga dal mondo concreto ed esteriore dell’azione, per intraprendere un cammino interiore e contemplativo. Il culto dell’ideale della Stille, della serenità pura e immateriale, veniva praticato attraverso il rifiuto della Vielfältigkeit (molteplicità) e l’adesione alla Bildlosigkeit (assenza delle immagini), ovvero attraverso la riduzione dell’illusoria molteplicità degli aspetti della vita alla sua vera essenza unica (cioè quella divina) e tramite la conseguente abolizione delle immagini, considerate prova tangibile, offerta ai sensi Herz rührt, und den Verstand erleuchtet» (ibid., p. 392) («Il più perfetto genere di poesia [è] quella che influisce su tutte le forze dell’anima, che delizia l’orecchio attraverso il fascino delle sue armonie, infiamma la fantasia, muove gli affetti e illumina l’intelletto»). 28 Sulla svolta compiuta da Wieland rispetto al Pietismo, si veda Sengle, Wieland, cit. e L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal Pietismo allo Sturm und Drang, vol. ii, Torino, Einaudi, 1964, p. 247; sul Pietismo si vedano le pp. 35-142 e passim. Le pagine da 183 a 184 non sono riprodotte in questo estratto. wieland e il secondo settecento 185 all’interno di questo gioco sottile di affermazioni e di smentite) assumono sempre contorni chiari e solari. Dalle pagine di Sengle non si comprende quali siano veramente i legami tra i due autori e per quali motivi Wieland dichiarò più volte apertamente la propria ammirazione per il poeta italiano34. In conclusione, il problema principale mi pare risiedere semplicemente nel fatto che Sengle, che verso la fine del passo sopra riportato si appoggia per il confronto con Ariosto allo studio di Tribolet (dal quale è tratta la citazione tra virgolette), non aveva probabilmente una conoscenza diretta del Furioso sufficiente a instaurare un’analisi comparata tra i due autori. La mancanza di una conoscenza approfondita del Furioso e di un’attenzione mirata ai procedimenti dell’ironia della finzione che lo caratterizzano (aspetti che Wieland aveva ben presenti, a differenza di molti suoi interpreti) mi sembra che abbiano rappresentato in generale, nella tradizione degli studi di germanistica35, un ostacolo a una valutazione profonda della ricezione di Ariosto in Wieland e dell’importanza del rapporto tra i due autori per questo momento della storia della poesia e del gusto in Germania. Tutti gli studi critici risalenti alla prima metà del Novecento, inoltre, non tengono conto del fondamentale ruolo di innovatore svolto in Germania da Wieland nell’ambito del genere del romanzo. È questa infatti una scoperta dovuta agli studi degli anni Sessanta, che per primi hanno messo in luce le caratteristiche narrative ed estetiche dei romanzi di Wieland, nei quali è riconoscibile una svolta nella storia di questo genere e l’influsso dei modelli inglesi ed europei. È stato per primo Wolfgang Preisendanz a far osservare il particolare rapporto tra realtà e finzione costruito nei romanzi di Wieland, che precorre la sensibilità romantica e che ha forti legami anche con varie tecniche narrative – prime fra tutte quelle relative al ruolo e alla presenza del narratore – che caratterizzano i poemi epici36. In tutto questo, l’influsso esercitato dal modello di Sterne è ovviamente fondamentale. Tuttavia anche l’importante studio di Preisendanz, e quelli successivi sul tema, non hanno riconosciuto, come vedremo meglio più avanti, un altro ca- 34 Se si eccettuano alcune osservazioni legate alla ripresa della tecnica ariostesca dell’entrelacement nell’Amadis (Sengle, Wieland, cit., pp. 217-218), i numerosi riferimenti all’Orlando furioso inseriti da Sengle nella propria trattazione hanno infatti una pura utilità documentaria: indicano cioè i luoghi e le occasioni in cui Wieland espresse la propria ammirazione per il poema rinascimentale, senza tuttavia spiegarne le motivazioni. 35 Ne è una riprova anche il più recente studio di E.-A. Meier, Die Ironie in Wielands Verserzählungen. Ein Beitrag zur Stilbestimmung der deutschen Rokokoliteratur, Tesi di dottorato dattiloscritta, presentata presso l’università di Hamburg nel 1970: Meier, che riassume in modo esauriente la situazione degli studi apparsi sino ad allora sui poemi in versi di Wieland, tratta il problema dell’ironia (non senza osservazioni originali e acute) senza rinviare minimamente al modello ariostesco. Un discorso a parte merita invece il campo degli studi dedicati specificamente ai problemi di traduzione e di versificazione affrontati da Wieland e dai suoi contemporanei sulla base dell’imitazione dell’ottava italiana: in questo ambito (per il quale rinvio al paragrafo successivo), i lavori mostrano una conoscenza diretta dei modelli italiani, ma non affrontano ovviamente il problema dell’ironia. 36 W. Preisendanz, Die Auseinandersetzung mit dem Nachahmungsprinzip in Deutschland und die besondere Rolle der Romane Wielands (Don Sylvio, Agathon), in Nachahmung und Illusion, a cura di H.R. Jauss, München, Fink, 1969, pp. 72-95. 186 ariosto e l’ironia della finzione rattere della poetica di Wieland, che a mio avviso anticipa anch’esso nella sua essenza il gusto romantico: ovvero la fusione del modello romanzesco sterniano con quello epico ariostesco. Come cercheremo di dimostrare nel corso dell’analisi dei testi, Wieland operò infatti questo accostamento, mostrando così di avvertire una contiguità tra i due autori e anticipando in tal modo di quasi trent’anni la sensibilità dei romantici, nel cui canone Ariosto e Sterne figurano legati da un rapporto di intima connessione. Al legame tra i due autori nell’ambito delle letture di Wieland aveva già accennato lo studioso ottocentesco Johann Gottfried Gruber nella sua ricostruzione biografica, osservando come intorno alla metà degli anni Sessanta esistessero, oltre a Shakespeare, «due altri autori [...] che egli fece oggetto di studio ancor più di tutti gli altri, e questi furono Ariosto e Sterne»37. Questa preziosa indicazione va messa in rapporto, a mio avviso, con l’analisi della sua produzione poetica di carattere epico. Riferimenti espliciti ad Ariosto sono presenti in tutti e tre i poemi epici composti da Wieland: dal giovanile Idris und Zenide (1768), rimasto incompiuto dopo la stesura del quinto canto, al successivo Der neue Amadis (1771) in diciotto canti, sino al più maturo e celebre Oberon (1780) in dodici canti. Nello studio già menzionato, Gruber cita una lettera del dicembre 1767 (dunque appena anteriore alla pubblicazione dell’Idris) indirizzata a Zimmermann, dove Wieland dichiara in toni di straordinario entusiasmo la propria ammirazione per Ariosto38. A questa lettera, se ne potrebbe affiancare una seconda molto più tarda (1803), indirizzata a Böttiger, nella quale Wieland ricorda retrospettivamente come fosse stata proprio la lettura del Tristram Shandy a indurlo a interrompere la stesura dell’Idris e a iniziare la composizione dell’Amadis39. Proprio mentre leggeva e ammirava Sterne, e ne riusava tecniche narrative come quella degli interventi del narratore, Wieland leggeva e studiava parallelamente anche il Furioso (dove gli interventi del narratore giocano altresì un ruolo importante), e scriveva poemi epici che nei loro elementi strutturali ricordano fortemente Ariosto, come osserveremo nell’analisi dei testi. Faceva inoltre uso della metalessi, figura principe nel Tristram Shandy: se è indubbio che fu il romanzo di Sterne a spingere Wieland verso un uso spregiudicato di questa figura, è altrettanto vero però, come vedremo nell’analisi dei testi, che la metalessi adottata dal poeta tedesco è di carattere essenzialmente epico, e segue una tipologia specificamente ariostesca. Possiamo dunque afferma- 37 J.C. Gruber, C.M. Wielands Leben. Mit Einschluß vieler noch ungedruckter Briefe Wielands, Hamburg, Beck, 1984 (ristampa anastatica dell’edizione Göschen, Leipzig 1827), p. 373. 38 La lettera si legge oggi in Wielands Briefwechsel, vol. iii (Briefe der Biberacher Amtsjahre: 6. Juni 1760 - 20. Mai 1769), a cura di R. Petermann und H. W. Seiffert, Berlin, Akademie-Verlag, 1975, lettera 491, p. 484. 39 La lettera è citata da E.M. Harn, Wieland’s Neuer Amadis, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1928, pp. 6-25: p. 12. La pagina 187 non è riprodotta in questo estratto. 188 ariosto e l’ironia della finzione 4.3. wieland e la moda dei «poemi romantico-ariosteschi» Nel 1766 appare su una delle riviste di arti e scienze più lette nella Germania del tempo, la «Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste» [Nuova biblioteca delle belle scienze e delle arti liberali], una recensione al poema Hermin und Gunilde, eine Geschichte aus den Ritterzeiten [Hermin e Gunilde, una storia dell’epoca cavalleresca] di Rudolf Erich Raspe, futuro autore di una delle più celebri versioni dei viaggi meravigliosi del barone di Münchhausen42. L’anonimo recensore introduce con le seguenti parole il proprio commento all’opera, apparsa a Lipsia in quello stesso anno: Die Zeiten der Ritter haben den Spaniern und besonders den Italiänern reichen Stoff zu Gedichten gegeben. Bey den letztern haben sie die romanische Epopee hervorgebracht, eine Gattung von Gedichten, die vielleicht die Aufmerksamkeit mancher Leser mehr unterhält, als die gewöhnliche Epopee. Wie fleißig wird nicht der Roland des Ariost von seinen Landesleuten gelesen? Die Engländer haben den Spencer. Die Franzosen das Mädchen von Orleans, welches in der wahren Manier des Ariost geschrieben ist, und dem Genie des Verfassers eben so viele Ehre macht, als es seinem moralischen Charakter nachtheilig ist. In Deutschland hat es noch keiner gewagt diese Bahn zu betreten, als etwa der Verfasser eines gewissen Gedichtes, Selinde betitelt, das ihm aber verunglückt ist. Die Geschichte Hermin und Gunildens hat aber einen bessern Dichter gefunden, und könnte allemal eine schöne Episode in einem romanischen Heldengedichte abgeben. Der Verfasser hat sie in dem Tone der Romanze erzählt43. (L’epoca cavalleresca ha offerto agli Spagnoli e in particolare agli Italiani una ricca materia poetica. Presso questi ultimi essa ha prodotto l’epica romanza, un genere poetico capace di tener viva l’attenzione di alcuni lettori forse molto di più dell’epica comune. Con quanto zelo non viene letto l’Orlando di Ariosto dai suoi connazionali? Gli Inglesi posseggono lo Spenser. I Francesi la Pulzella d’Orléans, che è scritta veramente nella maniera di Ariosto e che fa al genio del suo autore tanto onore, quanto risulta sfavorevole al suo carattere morale. In Germania nessuno ha ancora osato percorrere questa via, se non l’autore di un certo poema, intitolato Selinde, che tuttavia è andato incontro ad un fallimento. La storia di Hermin e Gunilde ha trovato invece un poeta migliore e potrebbe costituire un bell’episodio all’interno di un poema eroico di lingua romanza. L’autore l’ha raccontata nei toni della romanza.) 42 Rudolf Erich Raspe (1736-1794), bibliotecario, scrittore ed erudito tedesco, si trasferì successivamente in Inghilterra, dove nel 1786 pubblicò il celebre libro satirico Baron Munchausen’s Narrative of his Marvellous Travels and Campaigns in Russia. L’opera fu tradotta in tedesco l’anno successivo da Gottfried August Bürger, che la rielaborò liberamente: i libri di Raspe e di Bürger riscossero grande successo e furono presto tradotti in varie lingue europee. 43 Questo il titolo completo dell’opera, riportato nell’intestazione della recensione: Hermin und Gunilde, eine Geschichte aus den Ritterzeiten, die sich zwischen Adelepsen und Ußlar am Schäferberge zugetragen, nebst einem Vorberichte über die Ritterzeiten und einer Allegorie. Leipzig bey Weidemanns Erben und Reich. 1766, in «Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und freyen Künste», iii (1766), pp. 118-123: p. 118; corsivi miei (nel riprodurre il passo mi sono limitato a una sola correzione relativa alla punteggiatura). wieland e il secondo settecento 189 Questo documento è per noi di estremo interesse. Vi si indica infatti chiaramente un’importante distinzione di generi letterari: da una parte «die gewöhnliche Epopee», l’epica comune o tradizionale (che ha ovviamente i suoi modelli nella letteratura antica, in Omero e in Virgilio), dall’altra «die romanische Epopee», l’epica romanza, che affonda invece le proprie radici nel Rinascimento italiano. Quest’ultima viene designata come un genere poetico («eine Gattung von Gedichten») autonomo e distinto dal poema eroico classico e ne viene esaltato il maggiore appeal che è in grado di riscuotere presso i gusti del pubblico contemporaneo. Il recensore non descrive le caratteristiche proprie dell’«epica romanza»; ne indica tuttavia chiaramente alcuni dei rappresentanti più significativi, tracciando una sorta di genealogia: il suo capofila romanzo, ovvero l’Orlando furioso; l’opera di Spenser, già noto come l’“Ariosto inglese”; il più recente poema di Voltaire (sul cui giudizio gravano i limiti moralistici del recensore). Il riferimento alla Pucelle all’interno di questo contesto è molto significativo: ci testimonia infatti che Voltaire aveva in un certo qual modo vinto la sua scommessa di creare un poema epico nello stile di Ariosto, ovvero inserendosi all’interno di un genere epico moderno, che mirava a differenziarsi rispetto all’epica classica (quella che il recensore di Hermin und Gunilde chiama l’«epica tradizionale»). Nella citazione il recensore segnala infine anche il primo epos «romanzo» in lingua tedesca, la Selinde, ai gusti del quale si avvicina anche l’opera di Raspe, che più di un recensore considera la «prima romanza» della letteratura tedesca44. Il poema epico-cavalleresco Selinde, pubblicato nel 1764 dall’oscuro Paul von Stetten (1731-1808), è dunque la prima opera appartenente a questo genere letterario, che nella coscienza dei contemporanei si allontana dall’epica classica. Quattro anni dopo uscirà l’Idris, composto da Wieland in ottave, il primo dei tre poemi epici con i quali l’autore «crea i paradigmi del [nuovo] genere», che seguendo la felice definizione di Dieter Martin possiamo chiamare il poema «romantico-ariostesco»45. A partire dall’apparizione dell’Idris e dell’Amadis, si assiste infatti a una vera e propria fioritura di poemi epici ispirati ad Ariosto: se ne contano circa una trentina sino all’anno 1800, ne viene dunque pubblicato in media quasi uno ogni anno. La maggior parte di questi testi epici adotta l’ottava rima italiana oppure versi giambici liberi a cadenza alternata (femminile e maschile), metro derivato dalla stanza, di cui riecheggia sul piano ritmico l’alternarsi rimico dei primi sei versi. Molte di queste opere si ispirano inoltre direttamente a personaggi o episodi dell’Orlando furioso. L’«epica romantico-ario- 44 Il giudizio è dato dal critico e letterato Heinrich Christian Boie (R. Hallo, Rudolf Erich Raspe: ein Wegbereiter von deutscher Art und Kunst, Stuttgart-Berlin, Kohlhammer, 1934, p. 15) e la medesima indicazione di genere letterario («romanza») si trova in due recensioni del 1767 («Allgemeine Deutsche Bibliothek», iv, pp. 176-181 e «Deutsche Bibliothek der schönen Wissenschaften», i, pp. 71-75). 45 D. Martin, Das deutsche Versepos im 18. Jahrhundert. Studien und kommentierte Gattungsbibliographie, Berlin-New York, de Gruyter, 1993, p. 18 (a p. 443 si elencano ben 28 «romantisch-ariostische Epen» apparsi tra il 1764 e il 1800). 190 ariosto e l’ironia della finzione stesca» diviene dunque un fenomeno di moda, capace di attrarre e alimentare i gusti del pubblico: un fenomeno che incide profondamente nella sensibilità critica ed estetica degli anni che precorrono immediatamente il romanticismo. Questo rigoglioso sottobosco di testi, molti di dubbio valore poetico e oggi per lo più dimenticati o sconosciuti, viene a torto ignorato dalla critica nelle ricostruzioni della ricezione di Ariosto in Germania. Esso ha sicuramente influito in modo capillare nel gusto di questi decenni che preparano la rivoluzione romantica. Quando Schiller, Friedrich Schlegel e Schelling scriveranno pagine geniali proponendo un modo nuovo di leggere Ariosto e mettendo in luce la “soggettività” narrativa e l’ironia contenuta nel testo, i poeti tedeschi avranno giocato ormai da tempo con i luoghi fantastici, i personaggi e gli episodi del Furioso, cosicché l’immaginario ariostesco rappresenterà davvero, anche agli occhi di un largo pubblico di lettori, un “mondo”, e sarà divenuto possibile pensare ad esso come a un universo favoloso e in sé conchiuso, come lo avvertiranno appunto i teorici romantici. Già all’altezza del 1783, la conoscenza di Ariosto viene supposta come familiare in «ogni lettore di gusto ben coltivato», come si legge in un’altra recensione apparsa sempre nella «Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste»: Wem die innere Mannichfaltigkeit des bunten Gefildes der Feen – und Ritterwelt bekannt ist – und seit Wieland jenes dem italienischen Himmel eigenthümliche Gewächs mit so viel Glück auf deutschen Boden verpflanzt hat, sollte man wohl diese Bekanntschaft jedem Leser von geübtem Geschmacke zutrauen dürfen – den wird es nicht befremden, den Umfang mehrerer Bände mit Dichtungen dieser Art ausgefüllt zu sehen46. (A chi sia nota l’intima molteplicità del colorato ambito del mondo delle fate e dei cavalieri – e in verità, da quando Wieland ha trapiantato con tanto successo nel suolo tedesco quella specie vegetale propria del cielo italiano, si dovrebbe certamente poter concedere che ogni lettore di gusto ben coltivato abbia fatto questa conoscenza – a chi sia noto ciò, dunque, non spaventerà affatto di trovarsi di fronte alla mole di svariati volumi ripieni di poesia di questa specie.) Gli «svariati volumi ripieni di poesia» cavalleresca nel gusto italiano ai quali si fa riferimento sono i poemi di Ludwig Heinrich von Nicolay (1737-1820), uno dei tanti autori che, seguendo le tracce di Wieland, imitano Ariosto. Nei suoi numerosi poemi, più tardi raccolti e pubblicati a Berlino in volumi sotto il titolo di Vermischte Gedichte [Poemi vari], Nicolay riscrive molti degli episodi del Furioso, in parte traducendo, in parte rielaborando liberamente il testo: Galwine (1773), Richard und Melisse (1778), Alcinens Insel (1778), Gryphon 46 Vermischte Gedichte von Ludwig Heinrich Nicolai. Erster bis sechster Theil. Berlin 1778 - 82. (Fortsetzung.), in «Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste», xxviii (1783), pp. 257-291: p. 258. wieland e il secondo settecento 191 und Orille (1778), Zerbin und Bella (1779-1780), Anselm und Lilla (1779), Morganens Grotte (1780), Der Zauberbecher (1780), Reinhold und Angelika (1781-1784) sono vere e proprie riscritture ispirate ad Ariosto (tranne due testi, tratti da Boiardo e che l’autore afferma però di voler riscrivere in toni ariosteschi)47. Sappiamo che nella schiera dei «poemi romantico-ariosteschi» si contano tra gli autori lo stesso Bürger, Wilhelm Heinse (autore di una delle numerose traduzioni del Furioso delle quali parleremo più avanti) e, in virtù di due frammenti epici redatti in ottave rime, anche Goethe48. Il recensore della «Neue Bibliothek» indica inoltre chiaramente colui che ha dato l’avvio fondamentale a questo nuovo e rigoglioso genere letterario, Wieland, colui che ha «trapiantato con tanto successo nel suolo tedesco» una «specie vegetale» che cresceva sotto «il cielo italiano». Se, come abbiamo ricordato sopra, Spenser veniva unanimemente considerato l’“Ariosto inglese”, Wieland diventerà ben presto l’“Ariosto tedesco”, titolo che gli verrà apertamente riconosciuto anche da Goethe, che, nella prima rappresentazione del proprio dramma Torquato Tasso a Weimar, sui due busti di Virgilio e Ariosto che adornavano (giusta la didascalia) il giardino di Belriguardo nella scena iniziale vorrà riprodotta rispettivamente l’effigie di Schiller e di Wieland49. Nei suoi tre poemi epico-cavallereschi, Wieland prende a modello sin dall’inizio il Furioso, al quale si ispira per situazioni e figure, dai cavalieri e dame agli esseri mostruosi e fantastici, dagli incantesimi delle fate e dei maghi alle imprese audaci dei paladini, riproducendone nel suo insieme il mondo favoloso e avventuroso, in un tempo che, se rimane indeterminato nei primi due testi, viene precisato invece nell’Oberon come «l’epoca di Carlo Magno»50. Al rapporto con il modello alludono inoltre i numerosi rinvii espli- 47 Sui poemi di Nicolay si vedano gli studi di E. Heier, Ariosts «Orlando furioso» und Nicolays Ritterepen, in «Germanisch-Romanische Monatsschrift», xliv (1963), 206-209 e Id., Ludwig Heinrich von Nicolay (1737-1820) as an Exponent of Neo-Classicism, Bonn, Bouvier, 1981 (per i «romantic chivalrous tales» tratti da Ariosto, cfr. in part. pp. 111-130). Come Sengle, anche Heier sembra però non essere consapevole dell’importanza dei commenti ironici del narratore all’interno del Furioso e del loro carattere soggettivo, e oppone l’«oggettività di Ariosto» (concetto che riprende probabilmente da Sengle) all’ironia di Nicolay: «Nicolay’s epics, and those of Wieland, no longer preserved the seriousness of the antique epic and the objectivity which Ariosto had maintained is destroyed by frequent interpolations»; «Though he does not preserve the objectivity of Ariosto and often comments ironically on certain situations, as does Wieland, he avoids pointing a moral» (ibid. pp. 129 e 157, corsivi miei). 48 Cfr. il Bellin (1791) di G.A. Bürger, il frammento epico (1774) di J.J.W. Heinse, nonché Die Geheimnisse (1789) e il progetto epico Die Jagd (1797), entrambi di Goethe: per questi testi si rinvia, anche per circostanziate indicazioni bibliografiche, a Martin, Das deutsche Versepos, cit., rispettivamente alle pp. 337, 345, 341-342 e 390. 49 Per la didascalia della scena iniziale cfr. J.W. Goethe, Torquato Tasso, in Id., Werke (Hamburger Ausgabe), vol. v, München, Dtv, 1998, p. 73. Gruber, primo biografo di Wieland, racconta di questa sostituzione voluta da Goethe e riferisce che, durante i versi memorabili pronunciati da Antonio nella chiusa del primo atto e dedicati alla fantasia, alla «malizia» e alla «saggezza» di Ariosto (cfr. Goethe, Torquato Tasso, atto i, sc. 4, v. 711 ss.), «tutti gli sguardi [del pubblico] inavvertitamente si diressero verso la loggia ducale, nella quale sedeva Wieland, e ognuno si rallegrò della sua venerabile età» (cfr. J.C. Gruber, C.M. Wielands Leben, cit., pt. iv, libro ix, p. 451). 50 «In Karls des Großen Tagen» (Oberon, i, 9). Le pagine da 192 a 193 non sono riprodotte in questo estratto. 194 ariosto e l’ironia della finzione della produzione poetica: in quest’ultimo ambito la massima espressione si trova senza dubbio proprio nei poemi epici di Wieland, che ci apprestiamo dunque ad analizzare da vicino. La comprensione e la valorizzazione dell’ironia della finzione ariostesca è infatti in queste opere, come abbiamo anticipato, acuta e profonda. Nei paragrafi che seguono cercheremo di indagarne i procedimenti, muovendoci all’interno del sistema di livelli testuali (e extratestuali) che abbiamo esposto nel capitolo primo60. Partiremo dunque dai procedimenti dell’ironia della finzione attivi al livello della elocutio del testo narrativo (§ 4.4.1); analizzeremo di seguito quelli relativi al livello della dispositio del testo (§ 4.4.2); passeremo quindi al livello dell’inventio del testo e (indagando qui in particolare i commenti del narratore) inevitabilmente anche ai suoi rapporti con il livello della realtà (§§ 4.5 e 4.6); concluderemo infine con l’approfondimento dei rapporti esistenti tra il testo narrativo, la tradizione letteraria e la realtà (§ 4.7). 4.4. l’intreccio delle storie e dei personaggi nel microcosmo dell’ottava e nella “macchina” del poema. 4.4.1. Il microcosmo: analisi di un’ottava di Wieland All’inizio dell’Idris und Zenide un misterioso e avvenente cavaliere, che si rivelerà in seguito essere proprio Idris, il protagonista della storia, decide di interrompere il lungo viaggio intrapreso e di concedersi una breve pausa ristoratrice. Scovato un attraente laghetto dalle acque cristalline, attorniato da vitigni e da roseti, si spoglia dell’armatura e, credendosi solo e non visto, si getta nell’acqua. Improvvisamente fa irruzione sulla scena una bellissima ninfa, che tenta con tutti i mezzi possibili di sedurre l’eroe; quest’ultimo però, un po’ inspiegabilmente e senza apparenti motivi a giudizio dello stesso narratore, resiste con estrema tenacia all’assalto erotico. La descrizione dello scontro si protrae per varie ottave, sino al momento in cui l’arrivo di un terzo personaggio pone fine alla battaglia. Leggiamo l’ottava che illustra questa svolta narrativa: Sie stutzt; allein sie war bereits zu weit gegangen, Um bei so schönem Spiel gleich mutlos still zu stehn; Der Kampf scheint ihre Glut nur stärker aufzuwehn, Gibt ihren Augen Feur, Carmin den Rosenwangen, Entwickelt jeden Reiz, und macht sie noch so schön. Sie rüstet sich, den Streit von neuem anzufangen, 60 Cfr. supra § 1.2. Le pagine da 199 a 218 non sono riprodotte in questo estratto. wieland e il secondo settecento 219 l’aria e la terra istessa in ch’è sepulto [...] Avea creduto il miser Polinesso totalmente il delitto suo coprire [O.F., vi, 1-2, corsivi miei] Talvolta il collegamento tra la riflessione di carattere gnomico e la situazione narrata può non venire esplicitato direttamente dal narratore, ma rimane pur sempre a portata di mano per il lettori, come nel caso del prologo del canto vii: Chi va lontan da la sua patria, vede cose, da quel che già credea, lontane [il riferimento è alle meraviglie viste da Ruggiero sull’isola di Alcina] [O.F., vii, 1, corsivo mio] Tra i molti esempi possibili, vanno infine ricordate, in tema di riflessione sulle pene d’amore, almeno le celebri ottave proemiali del canto xxiv: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de’ savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale. [O.F., xxiv, 1, corsivi miei] 4.5. «forse era ver, ma non però credibile»: il metodo ipotetico-sperimentale e la psicologia dei personaggi Nel decennio 1760-69 in cui svolge funzioni amministrative nella sua città natale, Wieland, parallelamente ai primi poemi epico-cavallereschi, scrive e pubblica anche i suoi primi due romanzi: Der Sieg der Natur über die Schwärmerey oder die Abentheuer des Don Sylvio von Rosalva [La vittoria della natura sulle fantasie idealistiche ovvero Le avventure di Don Silvio di Rosalva] (apparso nel 1764) e Die Geschichte des Agathon [La storia di Agatone] (la cui prima edizione in due volumi risale al 1766-67). Il primo dei due romanzi riguarda l’epica cavalleresca e interseca dunque il tema della nostra ricerca. Il protagonista, Don Sylvio, è infatti un fervido lettore di libri di cavalleria, che crede però ciecamente negli eventi magici descritti nelle narrazioni che legge. Come il suo modello, il Don Chisciotte di Cervantes, vive anch’egli in Spagna (a Valenza) e si muove accompagnato da uno scudiero (Pedrillo), che lo aiuta nella ricerca della sua innamorata, la principessa Felicia. Dopo molte avventure Don Sylvio, che all’inizio del racconto aveva visto la dama effigiata in un medaglione trovato per caso nel bosco, incontra realmente Dona Felicia, una giovane e ricca vedova che non tarda a sua volta a innamorarsi di lui. Egli però, dopo aver constatato che la Le pagine da 220 a 232 non sono riprodotte in questo estratto. wieland e il secondo settecento 233 ha osservato lo stesso Preisendanz, la tecnica ironica è la medesima che incontriamo nei racconti in versi: una «pervasiva ironia [che] a un esame più attento si rivela come una rappresentazione costantemente oscillante tra i punti di vista possibili». I modelli di questa tecnica non sono però solo quelli romanzeschi: accanto al capolavoro di Sterne più volte direttamente citato dallo stesso Wieland e sul quale la critica ha sinora insistito, trova posto in modo naturale, come crediamo di aver dimostrato, l’esempio di Ariosto, che viene avvertito da Wieland come contiguo e per certi versi analogo. Imbrigliando insieme nel proprio canone ideale il romanzo sterniano e l’epos ariostesco, egli precorre inoltre quella sensibilità che verrà più tardi espressa, nelle forme più consapevoli della riflessione critica e saggistica, da Friedrich Schlegel e dai romantici tedeschi. Schlegel, che non a caso accosta esplicitamente più di una volta l’epica di Ariosto a quella di Wieland, enuncerà in modo esplicito la linea ideale che collega il Furioso ai romanzi di Diderot e di Sterne. Il modello ariostesco, opportunamente reinterpretato e rielaborato, come abbiamo visto, gioca dunque un ruolo importante nella svolta storica operata da Wieland verso la letteratura moderna. Prima di concludere l’analisi degli esempi riportati, vorrei tornare ancora una volta sul confronto tra il passo del Furioso, xxxi, 61 e quello dell’Idris, ii, 68-69, per un’ultima osservazione. Nel passo ariostesco è contenuto infatti un elemento non direttamente presente nelle corrispondenti ottave di Wieland citate, ma tuttavia interessante ai fini del confronto tra i due autori. Tramite la frase «De le lor donne e de le lor donzelle / si fidar molto a quella antica etade», l’ironia a carico dell’innamorato che crede ciecamente alla propria amata viene collegata per estensione dal narratore ariostesco a un altro tema che percorre l’intero poema cinquecentesco: quello dell’opposizione dialettica tra il mondo ideale dei cavalieri (descritto nella finzione epica come lontano e irrevocabilmente passato) e il mondo reale, contemporaneo all’autore e ai suoi lettori. Questo tema, del quale abbiamo avuto modo di occuparci più volte nel corso della nostra ricerca, è presente, e anzi fondamentale, come ci apprestiamo a vedere, anche nei poemi di Wieland. 4.6. finzione fantastica e verità psicologica: l’opposizione dialettica tra passato ideale e realtà attuale Come il mondo di Ariosto, anche quello di Wieland è un mondo dichiaratamente inventato e fantastico, un mondo popolato da donne e da uomini dalla bellezza indicibile o dalla forza smisurata, da maghi e da fate, da esseri mostruosi e incredibili. A questo statuto fantastico rinvia puntualmente ognuno dei tre incipit dei poemi che abbiamo preso in considerazione, alludendo ogni volta al modello ariostesco. Il rinvio all’universo poetico del Furioso è più vago e generico nelle prime ottave dell’Idris, nelle quali il poeta incita la propria musa ad arrischiarsi a entrare «in mondi / nei quali la Fantasia impera 234 ariosto e l’ironia della finzione in qualità di regina»100, e diviene invece più diretto nell’incipit dell’Amadis («Di cavalieri erranti e di belle vaganti / canta, o musa comica, in toni più liberamente erranti»101), e in quello più celebre dell’Oberon: «Ancora una volta sellatemi l’ippogrifo, voi muse, / per cavalcare nell’antica terra romantica»102. Esattamente come in Ariosto, in tutti e tre i poemi Wieland gioca in modo esplicito e consapevole con l’artificio della distanza temporale tra il mondo ideale e fantastico della storia narrata e quello reale coevo al narratore e ai suoi lettori, mettendo a frutto un procedimento ironico che, come abbiamo visto, era stato reimpiegato abilmente anche da La Fontaine. Per averne una conferma non dobbiamo far altro che proseguire la lettura del primo canto dell’Idris, a partire dall’episodio sul quale ci siamo interrotti. Come sappiamo la contesa amorosa tra l’avvenente ninfa e il protagonista Idris viene inaspettatamente sospesa per il sopraggiungere del guerriero Itiphall, che finisce per sfidare il cavaliere. Dopo un lungo duello dall’esito incerto per la pari abilità dei due contendenti, il paladino e il suo antagonista decidono infine di deporre le armi e di concedersi una sosta. Itiphall, allora, sfodera le proprie arti magiche e in un batter d’occhio allestisce in mezzo alla selva, tramite un semplice gesto della mano, un sontuoso banchetto, dove cibi e bevande vengono serviti su tavoli d’avorio, in piatti dorati e in bicchieri di cristallo, al suono di una musica celestiale. Il narratore non può allora fare a meno di intervenire, per esclamare: So war das Glück der guten Feenzeit! Die ganze Geisterwelt stand auf den Wink bereit, Man ritt in einem Tag wohl tausend Meilen weit, Nachts stieg ein Gnom herauf, im Wald euch aufzutischen, Und Nymphen gabs in allen Büschen. [Idris, i, 64, 4-8; corsivi miei] (Ecco la felice ventura del buon tempo delle fate! L’intero mondo degli spiriti era pronto ad obbedire ad un cenno, si cavalcava in un giorno per mille miglia, di notte spuntava uno gnomo per apparecchiarvi la tavola in mezzo al bosco e v’erano ninfe in ogni cespuglio.) Il makarismòs del verso iniziale rimanda infallibilmente alla celebre esclamazione ariostesca: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» (O.F., i, 22, 1). Wieland svolge il motivo cercando di coinvolgere direttamente i lettori nel confronto con la buona età passata: si osservi il giro sintattico della frase, nella quale si passa nel torno di due versi dalla costruzione impersonale man ritt 100 «In Welten / Worin die Phantasie als Königin befiehlt» (Idris, i, 3, 2-3). «Von irrenden Rittern und wandernden Schönen / Sing, komische Muse, in freier irrenden Tönen!» (Der neue Amadis, i, 1, 1-2). 102 «Noch einmal sattelt mir den Hippogryphen, ihr Musen, / Zum Ritt ins alte romantische Land!» (Oberon, i, 1-2). 101 Le pagine da 235 a 251 non sono riprodotte in questo estratto. 252 ariosto e l’ironia della finzione le sue rivoluzionarie Briefe über die Merkwürdigkeiten der Litteratur (la cui prima raccolta apparve nel 1766, ovvero due anni prima della pubblicazione dell’Idris), Gerstenberg polemizzò con il giudizio espresso su Ariosto dal critico inglese Thomas Warton nel saggio Observations on the Faerie Queene (1754). La lettera è un documento importante della storia del gusto estetico, perché rientra tra le primissime attestazioni dell’uso della parola romantisch, che i tedeschi importarono dalla cultura inglese. Gerstenberg traduce in tedesco l’intero passo nel quale Warton descrive il momento storico in cui l’Italia riscoprì «le pure e incontaminate fonti della poesia antica e della critica degli antichi» e «ogni genere letterario si risollevò dalle profondità dell’ignoranza e della barbarie gotica»: in quel momento tuttavia, obietta Warton, «ci si sarebbe potuti aspettare che, nella composizione poetica, al posto della maniera romantica [...] prendesse piede un gusto nuovo e migliore». Invece, prosegue il critico inglese, gli autori del Rinascimento italiano scelsero come temi «gli incidenti innaturali, i macchinari di creature immaginarie e le avventure che volevano dilettare solamente grazie alla loro inverosimiglianza», e li preferirono alla «correttezza dell’ideale e del disegno, e al decoro, che la natura prescrive e che l’esempio e le regole dell’antichità avevano autorizzato». Il poeta che Warton cita di seguito a riprova delle sue accuse è proprio Ariosto, che «troviamo impegnato a respingere la verità a favore della magia»125. Nella traduzione tedesca di Gerstenberg reperiamo la stessa opposizione terminologica e concettuale che abbiamo osservato nel poema di Wieland: da una parte lo Abenteuerliches, l’«avventuroso», come caratteristica fondamentale della «maniera romantica» e, in particolare, dell’epica di Ariosto; dall’altra l’aderenza alla Natur, che il critico inglese identifica con le regole della classicità antica. Gerstenberg giudica la critica di Warton insostenibile: interrompe la traduzione del saggio inglese e, rivolgendosi di nuovo al destinatario della sua lettera, prorompe in difesa dell’Orlando furioso: Mi permetta qui di interromperLa un attimo. Niente può essere più iniquo di questo svilimento del buon vecchio Ariosto. I macchinari di Omero sono prodotti dell’immaginazione né più né meno di quanto lo siano gli incantesimi del poeta di Ferrara: i primi, infatti, non potevano trovare presso i pagani considerazione maggio- svalutanti dell’Athenäum»: egli infatti «anticipa e influenza [...] l’appropriazione romantica dei grandi poemi epici italiani» (Martin, Der «große Kenner der deutschen Ottave rime», cit., p. 194). 125 «Die reinen und unverfälschten Quellen alter Dichtkunst und alter Kritik»; «jede Gattung der Litteratur aus den Tiefen einer gothischen Unwissenheit und Barbarey emporstieg»; «da hätte man erwarten können, daß statt der Romantischen Manier in der poetischen Composition [...] ein neuer besserer Geschmack erfolgen würde»; «unnatürliche Zwischenfälle, Maschinereyen von Geschöpfen der Einbildungskraft, und Abenteuer»; «Richtigkeit des Ideals und der Zeichnung, so wie dem Decorum, welches die Natur vorschrieb, und das Beyspiel und die Regel des Alterthums authorisirt hatte»; «wir finden [...] den Ariost beschäftigt, Wahrheit für Zauberey zu verwerfen» (H.W. Gerstenberg, Briefe über die Merkwürdigkeiten der Litteratur, [riproduzione anastatica dell’edizione Hansen, Schleswig-Leipzig 1766-1767], Stuttgart, Göschen, 1890, p. 17, corsivi miei). wieland e il secondo settecento 253 re di quella che trovarono gli ultimi presso i cristiani. Essi erano materia di carattere nazionale ed offrirono ad un genio come Ariosto un ampio spettro di fantasie variopinte, che egli seppe sfruttare molto felicemente. [...] Si scelse la materia più interessante che poteva eleggersi in quel tempo, ovvero le vicende tratte dalla tradizione cavalleresca, così come Omero aveva tratto le proprie dalle storie predilette dalla sua epoca, che in fin dei conti non erano affatto meno romantiche di quelle di Ariosto126. Gerstenberg riporta e discute il passo del saggio di Warton per rovesciare simmetricamente il giudizio di valore espresso dal critico inglese, nel quale sono ancora presenti in maniera evidente pregiudizi di matrice classicistica e illuministica. Così facendo egli cambia di segno, da negativo a positivo, anche il senso della parola ‘romantico’, che la cultura tedesca ha appena importato dalla tradizione critica inglese127. «Romantici» sono, secondo lui, tanto Ariosto quanto Omero, entrambi pronti a riprendere le storie preferite dai lettori del loro tempo: entrambi i poeti raccontano dunque materie che erano sentite dai loro contemporanei come «romantiche», nel senso di ‘avventurose’, fantastiche, e per questo motivo però dilettevoli (e nient’affatto sconvenienti, come vorrebbe invece Warton). La parola ‘romantico’ indica già in Warton, con accezione deteriore (e poi conseguentemente in Gerstenberg, ma stavolta con accezione positiva), un racconto ‘estremamente avventuroso’, una narrazione ‘che si presenta apertamente come fantastica e fittizia’: è un significato che, a distanza di cinque anni dal saggio di Warton, si ritrova anche nelle Letters on Chivalry and Romance (1759) del critico Richard Hurd, che è il primo, all’interno della tradizione inglese, a mostrare in proposito un’oscillazione tra la precedente accezione deteriore del termine e un tentativo di valorizzazione del concetto, proprio in riferimento alla tradizione letteraria cavalleresca128. Sette anni dopo, il critico tedesco Gerstenberg non ha dubbi sul valore del gusto romantico e amplia l’accezione storica del termine, spezzando al contempo l’antitesi tra antico (inteso come classico) e moderno. Ciò che ha fatto la grandezza di Ariosto è proprio la sua libertà nell’essersi servito di materie avventurose e fantastiche, e la medesima cosa aveva fatto del resto anche Omero a suo tempo: in una parola entrambi si sono serviti (felicemente) di materie «romantiche». Con questa affermazione Ariosto entra per la prima volta nel 126 «Lassen Sie mich Sie hier einen Augenblick unterbrechen. Nichts kann unbilliger seyn, als diese Herabsetzung des alten ehrlichen Ariosto. Die Maschinereyen des Homer sind nicht mehr oder weniger Geschöpfe der Einbildungskraft, als die Zaubereyen des Poeten von Ferrara; und jene konnten in keinem größern Ansehn bey den Heiden stehen, als die Letztern damals bey den Christen standen. Sie waren daher national, und bothen einem Genie, wie Ariost, ein weites Feld von malerischer Phantasie dar, das er sehr glücklich genutzt hat. [...] Er wählte sich den interessantesten Stoff, den er damals wählen konnte, nämlich Begebenheiten aus der Rittergeschichte, so wie Homer aus der Lieblingsgeschichte seiner Zeit, die im Grunde nichts weniger romantisch als jene waren» (ibid., corsivo mio). 127 Sulla questione vedi R. Ullmann e H. Gotthard, Geschichte des Begriffs «Romantisch» in Deutschland. Vom ersten Aufkommen des Wortes bis ins dritte Jahrzehnt des neunzehnten Jahrhunderts, Nendeln, Kraus, 1967 (riproduzione anastatica dell’edizione Matthiesen, Berlin 1927), p. 81 e R. Immerwahr, Romantisch. Genese und Tradition einer Denkform, Frankfurt, Athenäum, 1972, pp. 87-88. 128 Cfr. su Hurd il giudizio di Immerwahr, Romantisch, cit., p. 74. Le pagine da 254 a 256 non sono riprodotte in questo estratto. 5. ARIOSTO E LA RIVOLUZIONE ROMANTICA: ALLE RADICI DELLA COMPRENSIONE CRITICA MODERNA DEL FURIOSO 5.1. presenza del soggetto e distanza dall’oggetto: il «furioso» nella «poesia ingenua e sentimentale di schiller» Prima di affrontare le riflessioni dei romantici, è necessario soffermarsi su un’opera della maturità di Friedrich Schiller (1759-1805): il trattato estetico Über naive und sentimentalische Dichtung (1794-1795) [Sulla poesia ingenua e sentimentale]. In questo scritto, che esercitò un influsso considerevole sulla successiva poetica romantica, incontriamo un’interpretazione importante della poesia di Ariosto. La tesi di fondo del trattato di Schiller collega un atteggiamento di ordine estetico a una prospettiva di tipo storico: alla figura del poeta «ingenuo», ovvero il poeta antico (il poeta greco) che viveva in rapporto diretto e perfettamente armonico con la natura, si oppone quella del poeta moderno, che può ormai solamente cercare il rapporto con la natura, con la consapevolezza che l’irreversibile cammino della cultura lo ha condotto irrimediabilmente lontano dallo stato naturale. In questo suo atteggiamento, afferma Schiller, il poeta moderno assomiglia all’adulto che guarda con una certa malinconia e nostalgia alla propria infanzia perduta, «la quale rimane eternamente per noi ciò che vi è di più caro»1. Noi moderni, e con noi i poeti della nostra epoca, prosegue Schiller, non possiamo essere «ingenui», perché «presso di noi la natura è sparita dall’umanità»2. Il sentimento di nostalgia che noi moderni proviamo ed esprimiamo nei confronti del perduto rapporto diretto e «ingenuo» con la natura determina il carattere «sentimentale» 1 «Die uns ewig das Teuerste bleibt» (F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, in Id., Theoretische Schriften, a cura di R.-P. Janz, vol. viii, Frankfurt, Deutscher Klassiker Verlag, 1992, pp. 706-810: 707); la trad. it. è tratta da F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, introd. di L. Mancinelli, trad. di C. Baseggio, Milano, TEA, 1993, p. 25 (in più di un caso ho leggermente modificato la traduzione per garantire una maggiore aderenza alla lettera dell’originale). 2 «Weil die Natur bei uns aus der Menschheit verschwunden ist» (Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, cit., p. 725; trad. it., p. 44). Le pagine da 258 a 262 non sono riprodotte in questo estratto. ariosto e la rivoluzione romantica 263 possiamo registrare in una singola ottava, è in realtà caratteristica dell’intero poema. Il mondo poetico del Furioso non è affatto racchiuso in una sfera di vetro compatta e impenetrabile, non è un mondo lontano e perfettamente chiuso nella sua idealità positiva: la distanza rispetto all’iniquo e insidioso mondo reale può improvvisamente ridursi sino quasi ad azzerarsi. Nell’universo del Furioso trovano posto così momenti di sincera ammirazione, come quello espresso dal narratore per la fedeltà di Medoro nei confronti del proprio signore, che viene prontamente confrontata con l’ipocrisia che serpeggia invece nelle corti italiani del Cinquecento; ma anche momenti in cui l’ammirazione per il mondo ideale cantato dal poeta è intrisa di malizia e d’ironia, che avvicinano quel mondo alla realtà, come nel caso dell’elogio sornione della fedeltà di Fiordiligi e delle donne che popolavano «quella antica etade»9. Ciò che in definitiva sfugge alla peraltro penetrante e suggestiva analisi di Schiller è l’atteggiamento ironico del narratore ariostesco, che rende infinitamente complesso il rapporto di distanza tra il mondo reale e il mondo ideale immaginato dal poeta. Quando Schiller osserva, nel primo ampio passo che abbiamo citato: «il sentimento della distanza [...] lo sopraffà», mostra di non aver percepito questa complessità. Il termine überwältigt (‘sopraffà’, ‘vince’) è infatti un termine quanto mai improprio per la caratterizzazione dell’atteggiamento del narratore del Furioso, che invece ‘domina’ sempre e ‘controlla’ perfettamente, con bilanciata ironia, la materia della narrazione. Prendendo le mosse da una prospettiva storicistica, l’interpretazione di Schiller ha, come abbiamo visto, il merito importante di riconoscere nella presa di distanza del soggetto narrante rispetto all’oggetto narrato il segno distintivo che sta alla base della modernità del Furioso. Il suo limite principale è di non aver compreso il carattere sostanzialmente ironico di tale distanza. Spetterà ai suoi successori, in modo particolare a Friedrich Schlegel e a Schelling, far tesoro delle acquisizioni di Schiller e unirle a una comprensione più ampia del poema, che saprà abbracciare anche il fondamentale carattere dell’ironia. 5.2. friedrich schlegel: forme e funzioni dell’ironia artistica 5.2.1. Ariosto tra i modelli della poesia romantica nello Studio della poesia greca (1795-1797) L’Orlando furioso viene menzionato dal giovanissimo Friedrich Schlegel (1772-1829) già nella sua prima pubblicazione. Si tratta di un riferimento fugace e del tutto occasionale, e non ci soffermeremmo certo su questa curiosità, se non fosse che tale citazione ci offre una riprova diretta dell’ipotesi che abbiamo avanzato nel capitolo precedente, a proposito di quella che abbiamo 9 Per la riflessione del narratore sulla fedeltà di Medoro cfr. O.F., xix, 1-2; per il passo, già più volte citato, relativo a Fiordiligi cfr. O.F., xxxi, 60-62. 264 ariosto e l’ironia della finzione chiamato la ‘moda dei «poemi romantico-ariosteschi»’ e della loro ampia diffusione nel panorama letterario di fine secolo10. La prima pubblicazione di Schlegel, riscoperta solo alla fine dell’Ottocento da Oskar Walzel, è infatti una recensione del 1792 dedicata agli scritti di Gottfried August Bürger apparsi l’anno precedente sulla rivista «Akademie der schönen Redekünste»11: tra questi scritti si trova anche il frammento del poema in ottave rime Bellin, che Schlegel presenta come segue ai propri lettori: Der Stoff dieses Gedichts ist eine der schönsten, aber auch schlüpfrigsten, Episoden des Orlando furioso, (28. Gesang) die die meisten Leser wenigstens aus der treflichen Nachahmung des La Fontaine (Joconde) kennen werden. [...] Zur Versart hat H[err] B[ürger] die ottave rime gewählt, und sich durch die Schwierigkeiten derselben mit einer Kunst und Geschmeidigkeit gewunden, die gleich in den ersten Stanzen den Meister verräth. (La materia di questo poema è uno degli episodi più belli, ma anche più licenziosi, dell’Orlando furioso (canto xxviii), che la maggior parte dei lettori conosceranno perlomeno attraverso la riuscita imitazione di La Fontaine (Joconde). [...] Come metro il signor Bürger ha scelto l’ottava rima e si è mosso attraverso le difficoltà imposte da questa scelta con arte ed agilità tali, da rivelare sin dalle prime stanze la propria maestria.) La succinta recensione prosegue attraverso una serie di appunti linguistici che Schlegel rivolge contro l’autore del poema e si conclude riportando alcuni versi relativi all’«apologia della poesia» che chiudono il frammento del poema. Al di là dei contenuti, a interessarci qui è piuttosto l’oggetto stesso della recensione, perché ci conferma, in uno dei futuri protagonisti della generazione del primo romanticismo, l’attenzione per quel genere letterario (allora estremamente fiorente) del poema epico-romantico “alla Ariosto”, la perfetta conoscenza dei suoi modelli anche più lontani (i Contes en vers di La Fontaine) e delle problematiche legate alla sua pratica (il rilievo puntuale relativo alle difficoltà insite nell’adozione dell’ottava, che rappresentava una scelta nevralgica nell’ambito delle imitazioni ariostesche). Mi pare che la critica non si sia soffermata sinora sulla “confidenza” con questo genere poetico che i giovani romantici ereditano dalla generazione di letterati che li ha preceduti (la generazione di Wieland): questa è invece importante perché ci spiega la loro profonda conoscenza del modello ariostesco e anche il fatto che potesse venir sentito come “attuale”. È sullo sfondo di questo sottobosco poetico che i romantici, e prima di tutti Friedrich Schlegel, costrui10 Il rimando è al § 4.3 (Wieland e la moda dei «poemi romantico-ariosteschi»). È stato infatti Oskar Walzel a identificare in Friedrich Schlegel l’autore della recensione e a pubblicarne il testo nella «Zeitschrift für Österreichische Gymnasien», ix (1899), pp. 485-493. La recensione, che apparve sulla «Allgemeine Literatur-Zeitung» del 26 aprile 1792, si può leggere oggi in F. Schlegel, Literarische Notizen 1797-1801. Literary Notebooks, a cura di H. Eichner, Wien, Ullstein, 1980, pp. 307-315, in part. p. 312 (da cui è tratta anche la citazione successiva). Per il Bellin, un frammento di 26 ottave rimasto incompiuto, si rinvia alle indicazioni offerte supra § 4.3. 11 Le pagine da 265 a 269 non sono riprodotte in questo estratto. 270 ariosto e l’ironia della finzione («le incantevoli grottesche del divino maestro Ariosto»). Ma che cosa intende esattamente Schlegel con questo termine? Per comprenderlo sarà necessario estendere la nostra attenzione ai suoi scritti teorici successivi, nei quali il concetto di ‘grottesca’ si lega strettamente alle idee di ‘arabesco’ e di ‘romanzo’, e concorre così anch’esso alla definizione della moderna ‘poesia romantica’. 5.2.2. Una nuova interpretazione dell’ut pictura poësis ariostesco: la «grottesca», l’«arabesco» e l’ironia al livello della dispositio nel Dialogo sulla poesia (1800) Nell’anno 1800 vede la luce il Gespräch über die Poesie, pubblicato nei due fascicoli dell’«Athenäum», la rivista edita dai fratelli Schlegel che diviene rapidamente in questo torno di mesi (dal 1798 sino al 1800) una sorta di organo di divulgazione delle idee del gruppo romantico di Jena. Il Dialogo è opera di Friedrich Schlegel, ma rispecchia per molti versi il clima e i toni delle discussioni collettive tenute durante il cosiddetto convegno di Jena (1799-1800), nel circolo romantico che ospitava tra gli altri, oltre ai due fratelli Schlegel, Caroline Michaelis, i due poeti Novalis e Tieck e il filosofo Schelling. La stessa articolazione logica del discorso e la struttura generale dell’opera non mirano a fornire definizioni precise degli oggetti estetici trattati, quanto piuttosto a restituire la vivacità delle discussioni, nelle quali balenano idee geniali e audaci scorci di storia della poesia e della cultura occidentale. Il testo è composto da quattro «relazioni» che si immaginano esposte da altrettanti partecipanti (Andrea, Ludoviko, Antonio e Marcus) di un dialogo fittizio che coinvolge tre ulteriori interlocutori (Amalia, Camilla, Lothario)19: tra una relazione e l’altra si assiste al colloquio, nel quale tutti gli interlocutori commentano quanto hanno ascoltato e discutono tra loro. Nella prima di queste relazioni, intitolata Epochen der Dichtkunst [Epoche dell’arte poetica], Andrea espone succintamente in poche pagine la storia della poesia dai Greci sino al presente secondo la prospettiva romantica. Giunto all’epoca medievale, il relatore esalta la tradizione italiana, iniziata con «il grande Dante, il sacro fondatore e padre della poesia moderna»20, e continuata 19 Per l’identificazione degli interlocutori del dialogo, si veda la classica monografia di A. Schlagdenhauffen, Frederic Schlegel et son groupe. La doctrine de l’Athenaeum, Paris, Les Belles Lettres, 1934, p. 345. Per noi è in particolare rilevante il fatto che il nome Ludoviko possa riferirsi allusivamente sia a Ludwig Tieck, sia ad Ariosto (del resto lo scambio tra i nomi di battesimo dei due poeti era scherzosamente invalso all’interno della cerchia di Jena). L’uso di nomi italiani all’interno del dialogo ha inoltre un altro significato di rilevo. All’interno della prima relazione, che ricostruisce la storia della poesia, il ruolo del classicismo francese viene quasi ignorato, come rileva prontamente la stessa Camilla al termine della relazione: in tal senso, la scelta dei nomi rappresenta dunque una coperta allusione all’usuale ricorso ai modelli italiani in funzione anticlassicistica e antifrancese (devo quest’ultima osservazione a Karlheinz Stierle, che ha messo in evidenza tale aspetto in una relazione su Ariosto e il romanticismo tedesco tenuta presso la Scuola Normale Superiore di Pisa il 19 marzo 2007). 20 «Der große Dante, der heilige Stifter und Vater der modernen Poesie» (Schlegel, Gespräch über die Poesie, in Id., Charakteristiken und Kritiken I (1796-1801), cit., p. 298 [la trad. è di chi scrive; per La pagina 271 non è riprodotta in questo estratto. 272 ariosto e l’ironia della finzione selligen Witz» («alla lettura ad alta voce come intrattenimento sociale» e «di spiritosità conversevole»), il riferimento al carattere di intrattenimento e di conversazione «sociale» del poema già indicato da Herder (1744-1803) nella ottantasettesima (1796) delle sue Briefe zur Beförderung der Humanität 23; così come l’accenno alla grazia e all’elevata raffinatezza dell’ottava rinviano alla valorizzazione di questo aspetto della poesia ariostesca promossa da Wieland e dai vari traduttori tedeschi. Nel raccogliere e riassumere i frutti di un’attenzione ormai più che trentennale dedicata dai tedeschi ad Ariosto, Schlegel introduce però alcune novità importanti. Tre sono a mio avviso gli elementi, come vedremo tra loro strettamente irrelati, che vanno messi in risalto in questo passaggio: l’uso del termine ‘grottesca’, l’espressione ‘romanzo degli Italiani’ e l’osservazione relativa alla «felice commistione di scherzo e serietà». Riguardo al primo, si afferma che Ariosto trasformò «le storie mirabili dell’antichità [...] in una grottesca»: la ‘grottesca’ risulta dunque essere la forma che viene data a una materia narrativa preesistente, attinta in questo caso dal patrimonio mitologico classico (ma anche, come lo stesso Schlegel precisa altrove, dalla tradizione cavalleresca medievale, che costituisce «la lana per la tela» di Ariosto24). A Schlegel interessa quindi la particolare struttura che 23 Nelle Lettere per la promozione dell’umanità viene introdotto per la prima volta all’interno della tradizione critica tedesca il concetto della funzione di intrattenimento sociale del poema ariostesco (funzione che, secondo Herder, è radicata nella tradizione poetica italiana): «Die Poesie der Italiener ist, was sie ihrem Ursprunge nach sein wollte, Unterhaltung, akzentuierte Konversation; das ist ihr Standpunkt. Ein Sonett, ein Madrigal wird adressiert; eine Kanzone wird abgesandt und bekommt am Schluß eigne Verse als ein Kreditiv mit, ein Siegel der Sendung (il commiato della Canzone). Ariost schrieb seinen unsterblichen „Orlando“ daß er in Gesellschaften gelesen werden, daß er als ein Fabelbuch angenehm unterhalten sollte» (J.G. Herder, Briefe zur Beförderung der Humanität, a cura H.D. Irmscher, Frankfurt a.M., Deutscher Klassiker Verlag, 1991, pp. 485-486 (7. Sammlung, Brief 87, 4. Fragment), i corsivi nei termini «Unterhaltung, akzentuierte Konversation», «gelesen», «unterhalten» sono di Herder, gli altri corsivi sono miei; trad. it.: «La poesia degli Italiani è ciò che voleva essere, secondo le proprie origini: intrattenimento, marcata conversazione. Questa è la sua posizione. Un sonetto, un madrigale vengono indirizzati a un destinatario; una canzone viene inviata e le vengono indirizzati nella conclusione dei versi in qualità di un mandato, come un sigillo della spedizione (il commiato della canzone). Ariosto scrisse il suo Orlando immortale affinché venisse letto in società, affinché potesse intrattenere piacevolmente come un libro di favole»). Sui giudizi espressi da Herder su Ariosto vedi anche Dal Monte, Ariosto in Germania, cit., pp. 60-62 e Rüdiger, Ariosto nel mondo di lingua tedesca, cit., pp. 499-500). Tali riferimenti alla dimensione sociale (della lettura pubblica) e al carattere di «conversazione» e di dilettoso «intrattenimento» propri della poesia ariostesca sono a mio avviso importanti perché preannunciano, pur a un livello ancora meramente intuitivo, il problema del coinvolgimento del lettore e del dialogo tra narratore e fruitore all’interno della complessa costruzione artistica del testo. Questa intuizione (che Herder non approfondisce) rimane centrale nel filone della critica romantica, sino ancora a Schelling e a Hegel. Schlegel indica il carattere “sociale” come un aspetto di rilievo e pertinente a tutta la tradizione epico-cavalleresca italiana, anche in un appunto scritto nel 1799: «Daß Pulci, Bojardo, Ariost, Tasso ihre Gesänge vorlasen, so wichtig als daß Sh[akspeare]’s Werke aufgeführt wurden» («Il fatto che Pulci, Boiardo, Ariosto e Tasso leggessero i propri canti pubblicamente è altrettanto importante quanto il fatto che le opere di Shakespeare venivano messe in scena») (Schlegel, Literarische Notizen 1797-1801, cit., p. 173 [n. 1696]). 24 «Der Amadis und die andren spanischen R[omane] für den Ariost, was Historien und Novellen für den Sh[akspeare]; die Wolle zu ihrem Gewebe» («L’Amadigi e gli altri romanzi spagnoli sono per Ariosto ciò che le storie e le novelle sono per Shakespeare: la lana per le loro tele») (ibid., pp. 172-173 [n. 1687]). Le pagine da 273 a 279 non sono riprodotte in questo estratto. 280 ariosto e l’ironia della finzione (Pensate in proposito piuttosto a Petrarca o a Tasso, il cui poema potrebbe venir definito come sentimentale, rispetto al più fantastico romanzo di Ariosto; e non mi sovviene subito un altro esempio nel quale l’opposizione sia così evidente e la preponderanza sia così forte come in questo caso. Tasso è più musicale, e il pittoresco, in Ariosto, non è certo la cosa peggiore.) Schlegel riprende qui un luogo comune della tradizione critica sul Furioso: quello che, riallacciandosi al principio dell’ut pictura poësis, riconosce nella scrittura ariostesca una forte parentela con le arti figurative. Si tratta di un aspetto che ha lasciato una traccia importante anche all’interno della ricezione tedesca di Ariosto: abbiamo già avuto modo di ricordare la celebre tesi formulata da Lessing nel suo Laocoonte, e anche di osservare l’affinità, su questo punto, con la poesia di Wieland, che non perde mai occasione di ricorrere ai modelli figurativi all’interno delle descrizioni di personaggi e situazioni. Non mi pare che la critica abbia ancora messo in rilievo il fatto che Schlegel, che mostra altrove di avere ben presenti le idee di Lessing39, interpreti qui però questa analogia tra l’ambito letterario e quello figurativo in modo nuovo e diverso: nel valorizzare le qualità pittoriche di Ariosto, gli sta a cuore infatti non tanto il singolo momento poetico nel quale è ravvisabile un modello figurativo o un rinvio alle arti visive, bensì piuttosto la dimensione visiva che risulta dal disegno intrecciato e variegato dell’intero testo. In realtà Schlegel non è il primo a compiere questo accostamento: dieci anni prima di lui Christian Ludwig Stieglitz (1756-1836), un giurista appassionato di storia dell’architettura, aveva già comparato il piacere che procura la visione degli arabeschi eseguiti da Raffaello a quello tratto dalla lettura del poema di Ariosto, precorrendo così l’affermazione di Schlegel40. Nel Dialogo sulla poesia, tuttavia, questa qualità pittorica del Furioso viene inserita all’interno di una teoria poetica della poesia romantica e viene considerata in tal senso un modello fondamentale per la letteratura contemporanea, in particolare per il nuovo genere nascente: il romanzo. 39 La ricezione della tesi di Lessing emerge in modo trasparente dal seguente passo dell’Athenäumsfragment 193 di Schlegel: «Im Ariost trifft man auf starke Spuren [scil.: des Sinns für bildende Kunst], daß er im blühendsten Zeitalter der Malerei lebte, sein Geschmack daran hat ihn bei Schilderung der Schönheit manchmal über die Grenzen der Poesie fortgerissen» (Schlegel, Charakteristiken und Kritiken I (1796-1801), p. 195; trad. it.: «Nell’Ariosto troviamo forti tracce [scil.: di una sensibilità per le arti figurative], poiché visse nell’epoca della massima fioritura della pittura: il suo gusto pittorico lo ha spinto talvolta, nella descrizione della bellezza, a travalicare i limiti della poesia»). 40 Nel già menzionato articolo Über den Gebrauch der Grotesken und Arabesken, Stieglitz accosta agli arabeschi di Raffaello la «composizione senza regole» (regellose Composition) di Ariosto (cfr. G. Oesterle, Arabeske und Roman. Eine poetikgeschichtliche Rekonstruktion von Friedrich Schlegels «Brief über den Roman», in Studien zur Ästhetik und Literaturgeschichte der Kunstperiode, a cura di D. Grathoff, Frankfurt a.M.-Bern-New York, Lang, 1985, pp. 233-292, p. 282, nota 32). ariosto e la rivoluzione romantica 281 5.2.3. Dalla struttura «arabescata» al romanzo contemporaneo La “forma arabescata” è caratteristica dei più grandi romanzi del tempo: questa la tesi di Schlegel nel Dialogo della poesia. Nel seguito del passo che abbiamo riportato sopra sul carattere pittorico del Furioso, Antonio si riallaccia alla tradizione romanzesca contemporanea: accanto al Tristram di Sterne, nomina ovviamente anche Jacques le fataliste di Diderot: Auf den Fall daß Sie sich selbst nicht von allem Anteil an Sternes Empfindsamkeit freisprechen können, schicke ich Ihnen hier ein Buch, von dem ich Ihnen aber, damit Sie gegen Fremde vorsichtig sind, voraussagen muß, daß es das Unglück oder das Glück hat, ein wenig verschrien zu sein. Es ist Diderots „Fataliste“. [...] Ich darf es ohne Übertreibung ein Kunstwerk nennen. Freilich ist es keine hohe Dichtung, sondern nur eine – Arabeske. Aber eben darum hat es in meinen Augen keine geringen Ansprüche; denn ich halte die Arabeske für eine ganz bestimmte und wesentliche Form oder Äußerungsart der Poesie41. (Nel caso non vi consideriate completamente immune rispetto al carattere sentimentale di Sterne, vi mando un libro per il quale devo tuttavia premettere, affinché siate prudente con estranei, che ha la sfortuna, o la fortuna, di essere un po’ malfamato: è il Fataliste di Diderot. [...] Posso definirlo, senza esagerare, un’opera d’arte. Senza dubbio non è alta poesia, bensì soltanto un... arabesco. Ma proprio per questo, ai miei occhi, non ha minori pretese: ritengo infatti l’arabesco una forma o una modalità espressiva ben determinata ed essenziale della poesia.) La struttura dell’arabesco è dunque una caratteristica essenziale della letteratura romantica: su questa base, i romanzi dei contemporanei di Jean Paul, di Swift, di Diderot e di Sterne vengono interpretati come «arabeschi» e, al contempo, vengono indicati come essenziali per potersi elevare al più alto grado dell’arte raggiunto da Ariosto, da Cervantes e da Shakespeare: Der Humor eines Swift, eines Sterne meine ich, sei die Naturpoesie der höhern Stände unsers Zeitalters. Ich bin weit entfernt, sie neben jene Großen zu stellen; aber Sie werden mir zugeben, daß wer für diese, für den Diderot Sinn hat, schon besser auf dem Wege ist, den göttlichen Witz, die Fantasie eines Ariost, Cervantes, Shakespeare verstehn zu lernen, als ein andrer, der auch noch nicht einmal bis dahin sich erhoben hat42. (L’umorismo di uno Swift, di uno Sterne, intendo, è la poesia della natura delle posizioni più alte della nostra epoca. Sono ben lontano dal volerli collocare accanto a quei grandi, ma voi ammetterete che chi ha una sensibilità per questi, per Diderot, è già su una strada migliore per giungere a comprendere la divina arguzia, la fantasia di un Ariosto, un Cervantes, uno Shakespeare, rispetto a qualcun altro che non si sia neppure elevato sino a quel punto.) 41 42 Schlegel, Gespräch über die Poesie, cit., p. 331. Ibid. Le pagine da 282 a 287 non sono riprodotte in questo estratto. 288 ariosto e l’ironia della finzione quella soggettivizzazione della narrazione che coincide con l’ironia artistica. Per comprendere le radici di questa concezione schlegeliana occorrerà però risalire brevemente alla filosofia soggettivistica di Fichte, dalla quale il giovane romantico trasse alcune idee fondamentali per la propria estetica. 5.2.5. Dalla filosofia trascendentale di Fichte all’estetica romantica di Schlegel: ironia, dialettica e prospettiva È nota l’influenza che il pensiero di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) ha esercitato sulla riflessione estetica di Friedrich Schlegel, il quale aveva riconosciuto l’importanza del filosofo già prima di entrare personalmente in contatto con lui a Jena nel 1796 e stringere un rapporto di amicizia54. Nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre [Fondamenti dell’intera dottrina della scienza] (1794), Fichte aveva ripreso da Kant il concetto centrale di soggettività e, nello sforzo di superare il problematico “dualismo” kantiano, era pervenuto in realtà a un completo rovesciamento delle posizioni del filosofo illuminista. Nella dialettica idealistica fondata da Fichte, il soggetto non è più, infatti, solo il garante della rappresentazione e della conoscenza della realtà (come era in Kant), ma diviene la condizione stessa dell’esistenza dell’oggetto: l’io (il soggetto) pone il non-io (l’oggetto), nel quale trova e riconosce un limite esterno alla propria creatività. Tale dialettica, tra l’io che è creatività infinita, e il non-io, che nega e limita tale creatività, conosce la propria sintesi nel terzo momento: quello in cui l’io, attraverso una riflessione consapevole, diviene cosciente del fatto che il non-io è solamente un proprio prodotto e dunque che l’intera dialettica può risolversi all’interno stesso dell’io. Nella Dottrina della scienza questo terzo momento viene definito come un punto di vista «trascendentale» assunto dal soggetto. L’aggettivo ‘trascendentale’ deriva dalla filosofia kantiana, dove indica un atteggiamento critico che indaga sui fondamenti della conoscenza non considerandoli più come qualcosa di oggettivo, bensì facendoli dipendere (in quanto elementi «a priori») direttamente dal “soggetto della conoscenza”. In Fichte, questa prospettiva del soggetto, questo punto di vista trascendentale viene, per così dire, enormemente rafforzato: l’autocoscienza di questa visione prospettica ingloba infatti, oltre al momento conoscitivo, anche l’atto creativo. L’io fichtiano si osserva nell’atto stesso di porre, di creare la realtà. Per spiegare la filosofia di Fichte, si adoperano termini quali ‘punto di vista del soggetto’ oppure l’idea dell’‘autocoscienza della prospettiva’ del soggetto: si ricorre cioè a un concetto, quello della prospettiva, teorizzato in epoca rinascimentale e lo si usa in senso metaforico, riferendolo a un processo 54 Sui rapporti tra la filosofia di Fichte e l’estetica di Schlegel si veda adesso (anche per ulteriori rinvii bibliografici) il recente volume di B. Frischmann, Vom transzendentalen zum frühromantischen Idealismus. J. G. Fichte und Fr. Schlegel, München-Paderborn-Wien, Schöningh, 2005. Le pagine da 289 a 303 non sono riprodotte in questo estratto. 304 ariosto e l’ironia della finzione 5.3. l’ironia ai livelli dell’«inventio» e della «dispositio»: ariosto nella «filosofia dell’arte» di schelling Le idee di Friedrich Schlegel su Ariosto come modello della nuova letteratura romantica ebbero un forte influsso su Schelling (1775-1854), che fu tra i promotori del circolo di Jena e prese parte attivamente alle discussioni di poetica e di estetica sorte in seno al circolo. La sua definizione della bellezza artistica come espressione dell’infinito all’interno del finito, teorizzata nel Sistema dell’idealismo trascendentale90 (che uscì nel 1800, cioè nello stesso anno del Dialogo sulla poesia di Schlegel), sintetizzò efficacemente le nuove idee estetiche formulate dai romantici di Jena. Schelling, fondatore del cosiddetto “idealismo estetico”, fuse i nuovi ideali sulla poesia e sull’arte elaborati in quegli anni dal circolo con la corrente idealistica iniziata da Fichte e pose al centro del proprio sistema filosofico l’arte, in quanto espressione più alta e più compiuta dello spirito umano. Al tempo stesso, offerse anche con la sua opera una sistemazione ordinata e razionale delle molte intuizioni che Friedrich Schlegel e gli altri intellettuali di Jena avevano formulato con vulcanico entusiasmo. Al periodo fondamentale per la costruzione del proprio sistema filosofico, gli anni dell’insegnamento presso l’università di Jena (1798-1803), risalgono anche le Lezioni sulla filosofia dell’arte, tenute nel 1802-1803 e pubblicate soltanto postume. In quest’opera Schelling dedica quattro paginette all’Orlando furioso, definendo in modo chiaro le caratteristiche che a suo avviso contraddistinguono il poema italiano e offrendogli una precisa collocazione all’interno di un quadro di evoluzione storica delle forme letterarie. L’analisi del poema ariostesco prende le mosse dalla fondamentale tesi di Schiller e la supera, come vedremo, grazie alla ripresa delle intuizioni critiche di Friedrich Schlegel, che vengono qui valorizzate all’interno di una dimostrazione logica e perfettamente coerente. Nella sezione dedicata all’epica, Schelling distingue tra l’epos antico (rappresentato dai poemi di Omero e di Virgilio), il quale possiede un carattere oggettivo, e quello moderno, che è invece contrassegnato dall’emergere del soggetto, ovvero dalla presenza del poeta (del “narratore”, diremmo noi oggi) all’interno del testo stesso. Il rappresentante più importante di questa categoria, colui che «ha composto il più autentico epos moderno»91 è, secondo Schelling, Ariosto: tutti gli altri grandi poemi epici moderni infatti (nomina l’Innamorato, la Gerusalemme, l’Henriade, mentre confessa di non aver letto la Luisiade) non raggiungono l’alto livello artistico del Furioso. 90 F.W.J. Schelling, System des transscendentalen Idealismus, a cura di H. Korten e P. Ziche, Stuttgart, Frommann-Holzboog, 2005 (=Historisch-kritische Ausgabe, diretta da W.G. Jacobs, J. Jantzen e H. Krings, vol. ix). 91 «Er [scil.: Ariosto] [hat] das ächteste moderne Epos gedichtet» (F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, in Sämmtliche Werke, cit., vol. i/5, p. 669; la trad. it. è di chi scrive; per questo trattato cfr. anche la seguente edizione italiana: Id., Filosofia dell’arte, a cura di A. Klein, Napoli, Prismi, 1997, in part. pp. 320 ss.). ariosto e la rivoluzione romantica 305 Viene dunque ripresa la tesi storicistica di Schiller, secondo il quale, come abbiamo visto, l’epos moderno (Ariosto) si distingue da quello antico (Omero) grazie alla presenza degli interventi soggettivi dell’io che narra. Schelling inserisce questa differenza storico-letteraria all’interno del più ampio quadro dell’evoluzione storica generale che, con l’emergere del soggetto, ha portato alla nascita della modernità: Wie das Individuum oder Subjekt durchgehends mehr in der modernen Welt hervortritt, mußte es auch im Epos geschehen, so daß es die absolute Objektivität des alten Epos verlor, und mit dieser Gattung nur als ihre vollkommene Negation vergleichbar ist, und auch Ariosto hat seinen Stoff nach sich modificirt, indem er ihm ein gutes Theil Reflexion und Muthwillen beigemischt hat92. (Come l’individuo o il soggetto emerge in modo costante nel mondo moderno, così anche nell’epos doveva accadere che l’oggettività assoluta dell’epos antico andasse perduta e che l’epos moderno sia raffrontabile al genere antico solo in quanto rappresenta la sua completa negazione; anche Ariosto ha modificato la sua materia secondo il proprio gusto mescolandovi una buona dose di riflessione e intenzioni proprie.) Nel riprendere la tesi schilleriana, Schelling focalizza la propria attenzione sul concetto della «riflessione», che era nel frattempo divenuto uno degli elementi chiave del dibattito intorno alla poesia romantica: come abbiamo visto, infatti, la «riflessione» del narratore sulle vicende narrate costituiva anche per Friedrich Schlegel, una delle caratteristiche del complesso gioco tra «cosa rappresentata» e «soggetto rappresentante»93. Questa rielaborazione della tesi schilleriana in direzione romantica, operata da Schelling, prosegue in modo ancora più pronunciato, attraverso la ripresa del concetto schiettamente schlegeliano della commistione tra serio e scherzoso: Da ein Hauptcharakter des Romantischen überhaupt in der Vermischung des Ernstes und des Scherzes liegt, so müssen wir ihm jenes zugeben, da von der anderen Seite seine Schalkhaftigkeit, so zu sagen, wieder nur an die Stelle der Gleichgültigkeit, der Untheilnahme des Dichters im Epos tritt. Er hat sich dadurch zum Herrn seines Gegenstandes gemacht94. (Dal momento che uno dei caratteri assolutamente principali del romanticismo consiste nella commistione di serio e di scherzoso, questa va senz’altro concessa ad Ariosto, poiché, d’altra parte, la sua malizia, per così dire, subentra nell’epos proprio al posto dell’indifferenza e della non partecipazione del poeta. Attraverso ciò egli si è reso signore del proprio oggetto.) 92 93 94 Ibid., pp. 669-670. Cfr. il Frammento 116 dell’Athenäum, che abbiamo analizzato supra al § 5.2.6. Ibid., p. 670. Le pagine da 306 a 310 non sono riprodotte in questo estratto. ariosto e la rivoluzione romantica 311 mehr oder weniger universell, durch die Form aber ist es subjektiv, indem die Individualität des Dichters dabei weit mehr in Anschlag kommt, nicht nur darin, daß er die Begebenheit, welche er erzählt, beständig mit der Reflexion begleitet, sondern auch in der Anordnung des Ganzen, die nicht aus dem Gegenstand selbst sich entwickelt, und weil sie die Sache des Dichters ist, überhaupt keine andere Schönheit als die Schönheit der Willkür bewundern läßt. An und für sich schon gleicht der romantisch-epische Stoff einem wild verwachsenen Wald voll eigenthümlicher Gestalten, einem Labyrinth, in dem es keinen andern Leitfaden gibt als den Muthwillen und die Laune des Dichters102. (Possiamo definire la sua [scil.: dell’epica romantica ovvero del poema cavalleresco] essenza nel modo seguente: essa è epica per quanto concerne la materia, cioè la materia è in misura maggiore o minore universale; per quanto riguarda la forma, invece, essa è soggettiva, poiché l’individualità del poeta vi ha un rilievo maggiore, non solo per il fatto che egli accompagna costantemente con la riflessione gli eventi che egli narra, bensì anche per la struttura del tutto, la quale non promanando dall’oggetto stesso, ma essendo piuttosto un elemento proveniente dal poeta, non offre all’ammirazione alcuna altra bellezza, se non la bellezza dell’arbitrario. La materia epico-romantica assomiglia di per sé ad una selva incolta e selvaggia, piena di singolari figure, ad un labirinto nel quale non v’è altro filo conduttore che la malizia e l’umore del poeta.) In questa conclusione, dopo aver indagato in modo dettagliato vari aspetti singoli del carattere soggettivo del poema, Schelling formula molto chiaramente l’esistenza di due livelli dell’ironia della finzione, due piani sui quali il fruitore è chiamato a riflettere consapevolmente sul carattere fittizio del testo, sul suo statuto di prodotto artistico e sul complesso gioco di identificazione e di riflessione che questo statuto produce. È questa forse una delle espressioni più limpide di quella duplice funzione dell’ironia della finzione ariostesca che nel corso della nostra ricerca abbiamo definito come ironia nell’inventio e ironia nella dispositio. 5.4. l’«estetica» di hegel e il suo effetto paradossale 5.4.1. Il Furioso tra la finzione cavalleresca dell’epica e la «realtà prosaica» del romanzo Al termine della straordinaria stagione artistica e culturale tedesca nella quale il Furioso conobbe una profonda e rivoluzionaria valorizzazione critica, fu Hegel (1770-1831) colui che raccolse i frutti di questa riflessione e seppe sintetizzarli efficacemente, inserendoli all’interno di un nuovo e poderoso disegno storico e consegnandoli così al pensiero critico e teorico posteriore. Nel percorso tracciato dalle Vorlesungen über die Ästhetik [Lezioni di estetica], 102 Schelling, Philosophie der Kunst, cit., vol. i/5, p. 672. Le pagine da 312 a 318 non sono riprodotte in questo estratto. ariosto e la rivoluzione romantica 319 i sentimenti fondamentali del mondo cavalleresco («il coraggio, l’amore, l’onore, l’audacia») nella loro «grandezza» e «nobiltà». Accanto al tono comico e distanziante troviamo un tono serio e partecipe: sono questi i due poli contrapposti tra i quali oscilla la narrazione epica ariostesca. Il termine dennoch (tuttavia) è spia di questa contrapposizione dialettica tra comico e serio, tra distanza e identificazione, qui sinteticamente espressa: una dialettica che ben conosciamo, perché già Schlegel l’aveva posta come fondamentale in relazione al funzionamento della poetica romantica dell’ironia. 5.4.2. Il paradosso hegeliano: la condanna dell’ironia romantica e la sua implicita valorizzazione Tanto evidente, anche se non esplicita, è la ripresa e la valorizzazione delle intuizioni interpretative di Schlegel nell’analisi del Furioso, quanto invece aperta e aspra è la condanna della teoria dell’ironia romantica che Hegel esprime nella parte introduttiva dell’Estetica. All’ironia viene dedicato un paragrafo specifico, nel quale Hegel mette a fuoco la svolta moderna che tale concetto ha conosciuto a partire dal pensiero di Schlegel: Aus [...] den Gesinnungen und Doktrinen Friedrich von Schlegels entwickelte sich ferner in mannigfacher Gestalt die sogenannte Ironie. Ihren tieferen Grund fand dieselbe [...] in der Fichteschen Philosophie, insofern die Prinzipien dieser Philosophie auf die Kunst angewendet wurden. Friedrich von Schlegel wie Schelling gingen von dem Fichteschen Standpunkt aus [...]115. (Dalle opinioni e dalle dottrine di Friedrich von Schlegel, si sviluppò in seguito in forme varie la cosiddetta ironia. Questa trovò il suo fondamento più profondo [...] nella filosofia di Fichte, nella misura in cui i principi di questa filosofia furono applicati all’arte. Friedrich von Schlegel e Schelling partirono entrambi dalla posizione di Fichte [...].) Secondo Hegel, l’errore filosofico commesso da Schlegel consiste nell’aver ripreso l’«io astratto» ed «assoluto» di Fichte, nell’averlo posto a fondamento della propria teoria estetica. In tal modo, si perviene a un soggettivismo assoluto, che non incontra alcun limite nella realtà: essendo egli stesso il creatore di tale realtà, l’io può altresì annientarla in qualsiasi momento. Così l’io dell’artista può creare l’opera e al contempo distruggerla: da qui – afferma Hegel – l’atteggiamento ironico dell’io di fronte alla realtà e di fronte alla propria opera, che sono per lui solo una mera parvenza. Da ciò scaturisce dunque una visione dell’ironia romantica come forza estremamente negativa e distruttiva. All’interno della sua Estetica Hegel privilegia piuttosto il concetto di umorismo (Humor), equiparando l’ironia di Schlegel a 115 Ibid., p. 103 [trad. it., cit., p. 76, con lievi modifiche]. Le pagine da 320 a 322 non sono riprodotte in questo estratto. 6. DOPO IL ROMANTICISMO TEDESCO: L’IRONIA ARIOSTESCA TRA OTTO E NOVECENTO 6.1. de sanctis e l’ironia del «furioso» Fu Francesco De Sanctis (1817-1883) a riprendere l’idea dell’ironia ariostesca dalla riflessione critica tedesca, e a introdurla nella critica italiana moderna. Nella sua lettura del Furioso confluirono sia elementi hegeliani, sia concetti elaborati dai romantici che avevano preceduto Hegel. Se però l’influenza esercitata dal pensiero di Hegel su De Sanctis è nota, molto meno studiato è invece il suo rapporto con gli scritti dei romantici tedeschi e in particolare con quelli del giovane Friedrich Schlegel, le cui idee – come vedremo – sono fortemente presenti dietro alle pagine su Ariosto del critico napoletano. L’uso stesso del termine ‘ironia’, che l’autorevole interpretazione di De Sanctis sancirà da questo momento in poi come uno dei termini fondamentali della critica ariostesca, ci rinvia a monte del modello hegeliano ripetutamente invocato, e cioè alla lettura del Furioso compiuta dai romantici del circolo di Jena. Ma procediamo con ordine e partiamo, innanzitutto, dall’influsso esercitato da Hegel. Si sa che De Sanctis andò progressivamente approfondendo la conoscenza del pensiero hegeliano in momenti e in occasioni diverse, e principalmente1: dapprima durante la preparazione dei corsi della cosiddetta “prima scuola napoletana” (1838-1848), per i quali utilizzò i primi due volumi dell’epitome in francese dell’Estetica di Hegel, compilata da Charles Bénard2; poi durante gli anni del carcere (1850-1853), nei quali, approfon- 1 Per un quadro storico del rapporto intrattenuto da De Sanctis con il pensiero hegeliano si rimanda a S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 59 ss., 177 ss. e passim. 2 G.W.F. Hegel, Cours d’esthétique, analysé et traduit en partie par Ch. Bénard, première partie, Paris-Nancy, Aimé André-Hachette-Joubert-Grimblot-Raybois et C., 1840; deuxième partie, Paris, Joubert, 1843. 324 ariosto e l’ironia della finzione dita la propria padronanza del tedesco, tradusse alcuni brani della Logik der Wissenschaft (e dello Handbuch einer allgemeinen Geschichte der Poesie dell’allievo hegeliano Karl Rosenkranz); infine durante il periodo zurighese (1856-1860), nel quale entrò anche in contatto con un altro allievo di Hegel, Theodor Vischer, filosofo e suo collega presso il Politecnico. L’influenza di Hegel investì sicuramente l’interpretazione che De Sanctis dette di Ariosto sin dalla sua prima espressione, testimoniataci dai quaderni delle lezioni giovanili napoletane sul Genere narrativo e drammatico (18421843). Nell’analisi del Furioso svolta in queste lezioni si trovano già due elementi interpretativi di derivazione hegeliana: il riferimento al concetto della dissoluzione della cavalleria e dei suoi ideali (la «Auflösung des Rittertums», al centro dell’interpretazione ariostesca di Hegel) e l’idea di una «conciliazione» dell’«elemento eroico», grave e nobile, «con l’elemento comico»3. Nella mediazione di questi due elementi hegeliani ebbero a mio avviso un ruolo decisivo le pagine su Ariosto scritte in quello stesso periodo da Vincenzo Gioberti (1801-1852) nel Primato morale e civile degli italiani (1843). È sufficiente leggere poche righe di quelle acute pagine, per renderci conto immediatamente di come le idee di Hegel (e del romanticismo tedesco) divengano lo spunto per leggere in modo vivo, nuovo e profondo il poema ariostesco. Proprio l’idea di dissolvere gli ideali cavallereschi fu essenziale per Ariosto, spiega Gioberti, perché da un canto gli somministrò una fonte copiosissima di ridicolo, e dall’altro canto, porgendogli occasione di ritrarre l’individualità eroica, [... ] gli ammannì un tesoro di bellezze serie e squisitissime. E siccome questi elementi, benché contrari, rampollano da un oggetto unico, cioè dal tipo cavalleresco, ridevole in quanto manca di condegno scopo, bello e attrattivo in quanto abbonda di forza, di spiriti, ed è sprigionato dalla prosaica realtà della vita odierna: ne nasce quella fusione intima dei due componenti, quella unità e armonia dei concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità ed il riso, che si risolve [...] in una ironia dolce, arguta, socratica, leggiadramente maliziosa, che ti lascia spesso in dubbio, se l’autore parli in sul sodo, o con garbo, motteggi. Rari sono i luoghi, in cui non ti si desti almeno il sospetto, che il poeta medesimo non si burli de’ personaggi introdotti a parlare e dei fatti esposti con solennità e pompa epica; benché di rado egli faccia espressa mostra di volerti indurre a riso, rappresentandoti con effigie contraffata le cose che narra. [...] l’Orlando è un componimento assai più moderno della Gerusalemme, benché l’abbia preceduta di una generazione. In tale artificioso e delicato contemperamento del grave e del comico consiste, lo ripeto, il pregio più singolare e pellegrino dell’ Ariosto. L’ironia comica di lui non è intera ed espressa, come quella del Cervantes e del Berni, non è ad intervalli, come quella di Omero, di Dante, del Shakespeare, 3 F. De Sanctis, Purismo, illuminismo, storicismo. Lezioni, a cura di A. Marinari, Torino, Einaudi, 1975, tomo i, pp. 653-662: 655. Nel quaderno manoscritto di queste lezioni redatto da De Ruggiero, l’interpretazione di Ariosto viene esplicitamente messa in collegamento con «l’idea cavalleresca» formulata da Hegel (ibid., tomo ii, p. 1099). Le pagine da 325 a 333 non sono riprodotte in questo estratto. 334 ariosto e l’ironia della finzione le e, al contempo, di dissolverlo come in un gioco, attuando un sentimento dell’arte che chiude il medioevo e inaugura l’epoca moderna: Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi «capriccio» e «umore». Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno31. 6.2. pirandello: ironia o umorismo? Alle riflessioni critiche sul Furioso di Hegel e di De Sanctis si rifecero anche Pirandello (1867-1936) nel saggio sull’Umorismo (1908) e Croce (18661952) nel suo saggio su Ariosto (1918)32. Quest’ultimo identificò l’ironia con un particolare «tono espressivo» che investe fenomeni appartenenti ai tre livelli del testo individuati in questo lavoro: inventio, dispositio e elocutio. A livello dell’inventio, questo tono si ritrova, spiega Croce, «nei proemi dei singoli canti, nelle digressioni ragionanti, nelle osservazioni intercalate»; a livello della elocutio, «nel fraseggiare e nel periodare, e soprattutto nei frequenti paragoni che formano quadri e non rinforzano la commozione ma la divagano» (ritroviamo in quest’ultima osservazione l’acuta intuizione di De Sanctis sull’effetto ironico delle similitudini); a livello della dispositio, infine, «nelle interruzioni dei racconti talvolta nel punto loro più drammatico, con gli agili passaggi ad altri racconti di diversa e sovente opposta natura»33. In un primo momento, Croce identifica di conseguenza l’ironia con il «motivo fondamentale» del poema ariostesco: questo tono è altresì la tante volte notata e denominata, e non mai bene determinata ironia ariostesca: non bene determinata, perché è stata troppo per solito riposta in una sorta di scherzo o di scherno, simile e coincidente con quello che l’Ariosto 31 Ibid., pp. 537-538. B. Croce, Ludovico Ariosto, prima pubblicazione in «La Critica», xvi (1918), pp. 65-112; poi raccolto in volume Id., Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 1920 (e successive edizioni: si cita qui dalla v edizione, 1961, pp. 3-73). 33 Ibid., pp. 44-45. 32 Le pagine da 335 a 341 non sono riprodotte in questo estratto. 342 ariosto e l’ironia della finzione righe prima), ci verrà anch’esso definito più avanti come una modalità ironica. Mentre La Fontaine, e sulla sua scia anche Voltaire, aveva apprezzato il gioco di svelamento della finzione favolistica realizzato nel proemio del canto viii del Furioso55, Pirandello parla in proposito di un espediente artisticamente «non felice»; riconosce tuttavia il valore ironico di questo procedimento, attraverso il quale il soprannaturale viene interpretato in modo scoperto in senso allegorico: siamo nel canto d’Alcina: e il poeta ci suggerisce: «S’io dico Alcina, s’io dico Melissa, s’io dico Erifilla, s’io dico l’iniqua frotta, o Logistilla, Andronica o Fronesia o Dicilla o Sofrosina, voi intendete bene a che cosa io voglia alludere». È un altro espediente (non felice) per stabilir l’accordo, ma che pure, come tutti gli altri, scopre l’ironia del poeta, cioè la coscienza della irrealità della sua creazione56. Le due modalità del fantastico ariostesco sono dunque, anche per Pirandello, entrambe ironiche, e coincidono con le modalità da noi già indicate: il fantastico di complicità (che corrisponde al secondo procedimento individuato da Pirandello), attraverso il quale si strizza l’occhio al lettore, e il fantastico come metafora o allegoria (che corrisponde al primo procedimento)57. Per la complessità e la ricchezza della sua analisi, il saggio di Pirandello ci appare il tentativo forse più importante che sia stato sino ad oggi compiuto di rileggere il poema ariostesco attraverso il principio dell’ironia della finzione, partendo consapevolmente dalla sua formulazione originaria elaborata dai romantici tedeschi. La lettera stessa dell’espressione ‘ironia della finzione’, che abbiamo accolto nel titolo di questo lavoro, viene quasi sfiorata da Pirandello nell’ultima pagina della parte specificamente dedicata al Furioso, laddove parla acutamente di una «finzione, per se stessa ironica»58. Dove invece ci pare di cogliere il limite dell’analisi di Pirandello è riguardo al complesso rapporto istituito da Ariosto tra finzione e realtà. Egli sostiene che l’ironia del Furioso è un mezzo per creare un «accordo [...] tra le condizioni inverosimili [del] passato leggendario e le ragioni del presente»59. Le «ragioni del presente» sono secondo Pirandello «le ragioni del buon senso, di cui il poeta è dotato; sono le ragioni della vita entro i limiti della possibilità naturale»60, ovvero le ragioni della realtà, che impongono di non credere alle «condizioni inverosimili» descritte nelle leggende. Tra queste due istanze, «a prima vista contrarie»61, della finzione fantastica e della realtà viene trovato nel poema sempre un «accordo» – afferma Pirandello –, seppure di natura ironica, ovvero un accordo che implica la 55 Cfr. supra §§ 2.5.1 e 3.4.3 (per Il fantastico metaforico in La Fontaine e in Voltaire). Pirandello, L’umorismo, cit., p. 90. 57 Per queste due modalità ironiche del fantastico cfr. supra § 1.4. 58 Pirandello, L’umorismo, cit., p. 875. 59 Ibid., p. 871. 60 Ibid., p. 869. 61 Ibid., p. 867. 56 La pagina 343 non è riprodotta in questo estratto. 344 ariosto e l’ironia della finzione gran bontà de’ cavallieri antiqui!», rilevando solo il tono di «ironia e [...] irrisione», non coglie la complessità e l’ambiguità nascoste, ovvero quella punta di sincera ammirazione per quel mondo lontano e perduto che, se non può certo essere individuata nell’episodio del duello tra Rinaldo e Ferraù, viene tuttavia espressa apertamente dal narratore in relazione ad altri momenti della storia. Anche per il Furioso è vero quanto Pirandello osserva per il Quijote, e cioè che si ha un forte contrasto tra le due dimensioni «perché l’idealità cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei tempi nuovi»64. Questa ambiguità tra un sorriso che si prende gioco dell’idealizzazione ingenua e una seria ammirazione dei caratteri ideali del mondo cavalleresco è presente nell’atteggiamento del lettore di fronte sia al poema italiano, che al romanzo spagnolo. In tal senso il paragone proposto da Pirandello, che mette sullo stesso piano il protagonista Don Chisciotte e il narratore Ariosto rischia di essere fuorviante: importante è infatti lo sguardo del lettore, che ora si identifica nei personaggi delle storie, ora vi prende distanza (anche nel caso del Quijote) guidato spesso dalla presenza del narratore. In entrambi i testi è in atto una dialettica, propria dell’ironia della finzione, tra immedesimazione e presa di distanza; in entrambi i testi si ha un contrasto tra reale e ideale; in entrambi i testi la realtà viene osservata dal narratore (e dunque dal lettore) attraverso uno sguardo deformante e ironizzante. Su questo rapporto tra finzione fantastica e realtà, che Pirandello nella sua analisi – del resto molto penetrante – dell’ironia ariostesca non coglie in tutta la sua complessità, si soffermerà acutamente, circa mezzo secolo dopo, la sensibilità indagatrice di Calvino. 6.3. calvino, ariosto e lo sguardo sulla realtà Italo Calvino (1923-1985) si occupò intensamente del Furioso lungo tutta la sua vicenda di scrittore e di saggista, soffermandosi a più riprese su molti aspetti del fenomeno dell’ironia ariostesca. Nei suoi scritti tale fenomeno viene di volta in volta analizzato e valorizzato in relazione ai vari livelli del testo che abbiamo considerato nel corso di questo lavoro. A livello della elocutio, Calvino osserva come «il segreto dell’ottava ariostesca» stia «nella sveltezza della battuta ironica» e nella frequente adozione di un «registro colloquiale»65; coglie inoltre con finezza e precisione il valore ironico del distico finale, attraverso l’espressione – che abbiamo già avuto modo di commentare66 – «il puntuale contrappunto ironico degli ultimi due versi rimati». 64 65 66 Pirandello, L’umorismo, cit., p. 881. Calvino, Presentazione, in Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, cit., p. 31. Cfr. supra § 1.2.2. l’ironia ariostesca tra otto e novecento 345 Ci indica anche l’esplicarsi dell’ironia della finzione a livello della dispositio accostando i procedimenti narrativi del «poeta-stratega che ora accresce ora assottiglia le fila dei personaggi in campo» alle costruzioni incantate del mago Atlante che ora raggruppano, ora disperdono di nuovo i personaggi del poema67. Abbiamo già ricordato come la definizione di ‘arabesco’ che Calvino utilizza per il poema ci rimandi alle riflessioni di Friedrich Schlegel. Quest’ultimo adopera infatti lo stesso termine (o il suo sinonimo ‘grottesca’) per indicare la struttura arabescata nella quale Ariosto plasma una materia letteraria preesistente; in modo simile, Calvino parla del «fondo epico-storico-carolingio [che] sparisce assorbito dall’arabesco fantastico»68. Costruisce infine un testo, Il castello dei destini incrociati, che, oltre a ospitare due storie ispirate al Furioso, rinvia scopertamente attraverso la sua struttura all’intrecciarsi continuo delle storie dei personaggi ariosteschi: in modo sottile ed elegantemente allusivo, inserisce nella Storia dell’Orlando pazzo per amore una sorta di omaggio alla calcolata struttura del poema cinquecentesco69. Ad interessarci in queste pagine sarà tuttavia piuttosto un terzo livello, quello inerente alla inventio del testo, inteso qui non tanto come una serie di interventi del narratore, quanto piuttosto come una vera e propria tecnica narrativa che coinvolge il problema dello “sguardo” che orienta la narrazione – ovvero, per dirlo in termini narratologici, della ‘prospettiva narrativa’70. Un utile punto di partenza è il testo di una conferenza americana tenuta per la prima volta nel 1959, nel quale Calvino cerca di individuare le principali correnti del romanzo nel panorama italiano di quel momento. Nella parte conclusiva del testo, che abbiamo già avuto occasione di citare solo in forma 67 Calvino, Ariosto: la struttura dell’«Orlando furioso», in «Terzoprogramma», 2-3 (1974), pp. 51-58, ora ripubblicato in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, tomo i, p. 767. 68 Calvino, Presentazione, in Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, cit., p. 19. 69 Chi scrive ha osservato un’allusione che sembra essere sfuggita all’attenzione della critica. La Storia dell’Orlando pazzo per amore, ricoprendo assieme all’altra storia ariostesca del Castello una posizione centrale all’interno del quadrato delle carte, rinvia non solo in modo generico alla “centralità” dell’ispirazione ariostesca per l’operazione combinatoria compiuta da Calvino, allude bensì in modo molto preciso (e sottile) al valore di modello della struttura stessa del Furioso. La carta di Orlando matto, quella che raffigura cioè il momento della perdita del senno del paladino, è collocata infatti proprio tra le quattro che stanno al centro del quadrato dei tarocchi: in tal modo Calvino reduplica la posizione dell’episodio dell’impazzimento di Orlando nel Furioso, che Ariosto colloca esattamente al centro del poema (ovvero a cavallo dei canti xxiii-xxiv). Questo omaggio sottile alla struttura del poema cinquecentesco viene segnalato anche nel testo del Castello, dove la carta del Matto viene presentata con le seguenti parole, che sottolineano come essa si venga a trovare sopra il fulcro dell’intero meccanismo combinatorio: «ecco che Orlando era disceso giù nel cuore caotico delle cose, al centro del quadrato dei tarocchi e del mondo, al punto di intersezione di tutti gli ordini possibili» (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991-1992, vol. ii, p. 531 e, per la tavola dei tarocchi, p. 538; per un’analisi di questi aspetti del Castello e, più in generale, per la sensibilità attraverso la quale Calvino legge il gioco combinatorio presente nel Furioso, rinvio a C. Rivoletti, L’uno e il molteplice: il sistema dei “destini incrociati” tra Ariosto, Marcolini e Calvino, in Studi per le «Sorti». Gioco, immagini, poesia oracolare a Venezia nel Cinquecento, a cura di P. Procaccioli, Treviso-Roma, Fondazione Benetton Studi Ricerche - Viella, 2007, pp. 99-110: 103). 70 Sulla ‘prospettiva narrativa’ rinvio supra al § 1.6. Le pagine da 346 a 355 non sono riprodotte in questo estratto. 356 ariosto e l’ironia della finzione quelli posteriori della trilogia, e ancora tra quei quattro romanzi e il poema di Ariosto. In ogni caso la realtà viene raccontata in modo indiretto, viene vista attraverso uno sguardo ironico e deformante. E tale deformazione fantastica chiede di essere percepita dal lettore, di essere riconosciuta come trasfigurazione di quella realtà che preme dietro alla finzione. L’endiadi utilizzata da Calvino per definire la tecnica narrativa del Furioso, «l’ironia e la deformazione fantastica», è dunque al tempo stesso anche una versione attualizzata – e forse l’ultima, in ordine di tempo, grande trasformazione subita nella sua storia secolare – dell’ironia della finzione ariostesca. 7. L’IRONIA VISUALIZZATA: IL FURIOSO E LE ARTI FIGURATIVE 7.1. un problema teorico: come tradurre l’ironia in immagini È possibile tradurre in immagini l’ironia della finzione? È possibile, in altre parole, trasporre in termini visivi un atteggiamento che non pertiene direttamente ai personaggi o agli episodi di una storia, bensì si ricollega piuttosto all’istanza del narratore (e semmai a quella del lettore implicito) e ai modi in cui tale storia viene raccontata, ovvero a entità e qualità strettamente specifiche della cosiddetta ‘testualità’? Il quesito al quale abbiamo provato a rispondere nelle pagine di questo capitolo è prima di tutto, necessariamente, di ordine teorico e ci è sembrato che la sua soluzione non fosse immediata, bensì andasse cercata attraverso l’analisi delle opere. Non solo perché non esistono (a nostra conoscenza) riflessioni teoriche o metodologiche sul problema. Se infatti sono stati compiuti tentativi interessanti di applicare la categoria retorica dell’ironia all’ambito delle arti figurative1, non è stato invece studiato il problema della visualizzazione dell’ironia della finzione presente nei testi letterari. Tale mancata attenzione si spiega probabilmente con il fatto che il rapporto tra testo e immagini esula dalle competenze specifiche delle singole discipline accademiche e si situa semmai in un’area intermedia, a cavallo tra più discipline: un’area di studi che, seppure oggi sempre più frequentata, non può tuttavia contare su una lunga tradizione. A questa si aggiunge una seconda difficoltà, rappresentata dalla materia della nostra inchiesta: la ricezione figurativa dell’Orlando furioso. Gli 1 Si veda ad esempio il recente studio di Valeska von Rosen, Caravaggio und die Grenzen des Darstellbaren. Ambiguität, Ironie und Performativität in der Malerei um 1600, Berlin, Akademie der Künste, 2009, in part. pp. 293 ss.: il concetto di ironia viene qui applicato alle potenzialità allusive e parodiche della pittura di Caravaggio nei confronti di determinati generi (o di singole opere) artistico-figurativi (il suo impiego è dunque sostanzialmente diverso da quello che discutiamo in queste pagine). 358 ariosto e l’ironia della finzione studi esistenti sull’argomento riguardano esclusivamente singole opere, alcuni momenti storici ben individuati oppure, al massimo, un unico tema iconografico2: sono comunque lontani dall’offrirci anche solo un’idea del 2 Manca tutt’oggi una ricostruzione esaustiva della storia della visualizzazione del Furioso, che serva di orientamento attraverso il ricchissimo materiale disponibile, anche se va detto che in questi ultimi anni la produzione degli studi dedicati a questo tema è divenuta molto ricca. Si segnalano di seguito alcuni contributi dedicati a singoli aspetti (altri saranno citati nelle note successive di questo capitolo): G. Rouchès, L’interprétation du «Roland furieux» et de la «Jérusalem délivrée» dans les arts plastiques, in «Ètudes italiennes», ii (1920), pp. 193-212; G. Fumagalli, L’Ariosto tra i pittori, in «Emporium», lxxvii (1933), pp. 283-296; U. Bellocchi, B. Fava, L’Interpretazione grafica dell’Orlando furioso, Reggio Emilia, Banca di Credito Popolare e Cooperativo, 1961; E.T. Falaschi, Notes on some Illustrations of Ariosto’s «Orlando Furioso», in «La Bibliofilia», lxxv (1973), pp. 175-188; L. Donati, Esemplari eccezionali dell’Orlando Furioso, ivi, lxxi (1974), pp. 241-245; C. Gnudi, L’Ariosto e le arti figurative, in Convegno internazionale Ludovico Ariosto, cit., pp. 331-401; R.W. Lee, Names on Trees. Ariosto into Art, Princeton, Princeton University Press, 1977; G. Savarese, A. Gareffi, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980; R.W. Lee, Addenda to Angelica, in Ars auro prior. Studia Ioanni Białostocki sexagenario dicata, a cura di J.A. Chrościcki-Nawojka Cieślińska, Warszawa, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, 1981, pp. 359-364; E. Langmuir, “L’audaci imprese” Nicolò dell’Abate’s Frescoes from Orlando furioso, in «Storia dell’arte», xlii (1981), pp. 139-150; R. Ceserani, Ludovico Ariosto e la cultura figurativa del suo tempo, in Studies in the Italian Renaissance. Essays in Memory of A.B. Ferruolo, a cura di G.P. Biasin, A.N. Mancini, N. Perella, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1985, pp. 145-166; E. Pace, Aspetti tipografico-editoriali di un «best seller» del secolo XVI: l’Orlando furioso, in «Schifanoia», iii (1987), pp. 103-114; G. Guandalini, G. Martinelli Braglia, La torre di Baggiovara: un ciclo ariostesco di seguaci di Nicolò dell’Abate, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per le antiche province modenesi», s. xi, xi (1989), pp. 139-156; C. Fahy, L’Orlando Furioso del 1532. Profilo di una edizione, Milano, Vita e Pensiero, 1989; M. Ajmar, Scene dell’Orlando Furioso nella tradizione grafica e a fresco: un problema, in «Artes», in i (1993), pp. 42-59; Signore cortese e umanissimo. Viaggio intorno a Ludovico Ariosto, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 5 marzo - 8 maggio 1994), a cura di J. Bentini, Venezia, Marsilio, 1994; M.T. Caracciolo Arizzoli, Lectures de l’Arioste au XVIIIe siècle: du livre illustré au cycle peint, in «Gazette des BeauxArts», mdii (1994), pp. 123-146; F. Sberlati, Il testo “visualizzato”. Iconologia e letteratura cavalleresca, in «Intersezioni», xv (1995), pp. 313-334; U. Bazzotti, Storie di Alcina nella Grotta di Palazzo Te, in Gedenkschrift für Richard Harprath, a cura di W. Liebenwein e A. Tempestini, München-Berlin, Deutscher Kunstverlag, 1998, pp. 25-32; N. Harris, Bibliografia testuale o filologia dei testi a stampa: definizioni metodologiche e prospettive future: convegno di studi in onore di Conor Fahy, Udine, Forum, 1999; L. Freedman, Titian’s Ruggiero and Angelica: A tribute to Ludovico Ariosto, in «Renaissance Studies», xv (2001), n. 3, pp. 287-300; A. Jarry, Les tableaux du Roland Furieux conservés au Musée d’Art Roger Quilliot (1625-1632), Mémoire de Maîtrise d’Histoire de l’Art, sous la direction de M. J.P. Bouillon, présenté le 27 Mars 2002, Université de Clermont-Ferrand ii «B. Pascal», 2 voll.; L’Arme e gli amori. Ariosto, Tasso and Guarini in Late Renaissance Florence, Atti del convegno (Firenze, 27-29 giugno 2001), a cura di M. Rossi e F. Gioffredi Superbi, Firenze, Olschki, 2004; S. Liberati, A.M. Voltan, Le edizioni illustrate dell’Orlando Furioso. Repertorio bibliografico delle edizioni in lingua italiana dal XVI al xix secolo, con la consulenza bibliografia di B. Jatta, Manduria, Barbieri Selvaggi, 2007; H. Alquier, La folie de Roland, thème du décor de la grande galerie du Chateau d’Effiat, in «Sparsae», lxiv (2009), pp. 25-32; M. Jeanneret, M. Preti-Hamard, Imaginaire de l’Arioste, l’Arioste imaginé, catalogo della mostra (Paris, Musée du Louvre, 26 febbraio - 18 maggio 2009,) Montreuil, Gourcuff Gradenigo, 2009.; J.-C. Boyer, Donner de la jalousie à l’Arioste et au Tasse, in Rome-Paris 1640. Transfert culturels et renaissance d’un centre classique, a cura di M. Bayard, Paris, Somogy, 2010, pp. 39-64; «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del Furioso tra immagini e parole, a cura L. Bolzoni, S. Pezzini e G. Rizzarelli, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010; L’Arioste et les arts, sous la direction scientifique de M. Paoli et M. Preti-Hamard, préface de G. Venturi, Paris-Milano, Coedition Louvre Editions-Officina Libraria, 2012; Donne Cavalieri Incanti Follia. Viaggio attraverso le immagini dell’Orlando furioso, catalogo della mostra (Pisa, Scuola Normale Superiore, 15 dicembre 2012 - 15 febbraio 2013), a cura di L. Bolzoni e C.A. Girotto, in collaborazione con il comitato scientifico della mostra, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2012; Exercices furieux. A partir de l’édition de l’Orlando furioso De’ Franceschi (Venise, Le pagine da 359 a 361 non sono riprodotte in questo estratto. 362 ariosto e l’ironia della finzione di quella mescolanza ibrida di episodi che, come abbiamo visto, si realizza nel testo a livello della dispositio. Il gioco di sguardi creato dai pittori secenteschi, traducendo in immagini quella che i narratologi definiscono la ‘prospettiva’ del racconto, investe invece in modo particolare il livello della inventio; tuttavia, dal momento che tali immagini (come vedremo) riproducono un momento nel quale la narrazione si interrompe artificiosamente, ritroviamo contemporaneamente anche un rimando a un procedimento che rientra nel livello della dispositio del testo. Di nuovo alla dimensione della inventio (e in particolare al procedimento retorico della digressio), rinviano infine i disegni di Fragonard, che illustrano per la prima volta i prologhi del poema. Va osservato che, in tutti i casi qui esaminati, il legame tra l’immagine e la parola scritta è molto forte e la conoscenza del testo è elemento imprescindibile per una corretta interpretazione delle opere figurative. Non solo per le illustrazioni, destinate ad accompagnare il testo del poema (e dunque a combinarsi materialmente con esso), ma anche per i dipinti, la percezione delle strategie (talvolta sottili e raffinate) messe in atto dagli artisti per “visualizzare” l’ironia della finzione presuppone sempre un’attenta memoria del poema ariostesco. Riguardo ai legami esistenti tra la ricezione figurativa e quella letteraria dell’ironia della finzione del Furioso, va segnalato infine che, nel caso di Fragonard, risultano evidenti interessanti parallelismi con l’importanza assunta dalla figura del narratore in quegli anni negli scritti di Voltaire. Alcuni di questi disegni sembrano infatti quasi tradurre in immagini ciò che era nell’aria e che sarà oggetto di lì a poco di approfondite riflessioni critiche: un filo rosso lega dunque il capitolo sulla Pucelle al paragrafo finale dedicato all’artista francese e, ancora, alla centralità che la figura del narratore assumerà negli anni successivi nelle teorizzazioni dei primi romantici tedeschi. In tal modo il percorso figurativo qui ricostruito finisce per ricongiungersi idealmente al momento storico della riscoperta dell’ironia ariostesca. 7.2. «l’arme, gli amori» e le «risibili collisioni»: commistione di toni nelle edizioni illustrate veneziane del cinquecento 7.2.1. La riduzione dell’Orlando furioso alle norme dell’epica eroica: l’edizione di Giolito (1542) Il grande e immediato successo di pubblico dell’Orlando furioso, che vide il fiorire di oltre ben duecento edizioni lungo il solo Cinquecento (i due terzi circa delle quali furono pubblicate a Venezia), spinse spesso gli editori a corredare il testo del poema con una serie di apparati. Allegorie, commenti, indici, eleganti frontespizi istoriati, ritratti dell’autore, poesie encomiastiche l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative 363 o lettere di dedica contribuivano al processo di «canonizzazione» dell’opera all’interno della serie dei classici della letteratura9. Al contempo, tutti questi apparati paratestuali, collocandosi per così dire in una zona intermedia tra il poema e i suoi lettori, offrivano al pubblico delle chiavi di lettura, suggerendo in vari casi una possibile interpretazione del testo. In questo clima di fervore editoriale, sorsero ben presto anche gli apparati iconografici: gli editori veneziani e i loro illustratori ingaggiarono una vera e propria gara tra loro per corredare il poema di immagini che raffigurassero, in modi sempre più eleganti ed efficaci, gli episodi narrati nei singoli canti. Le illustrazioni delle edizioni veneziane cinquecentesche ebbero un ruolo fondamentale per lo sviluppo della ricezione figurativa del Furioso. Servirono infatti in molti casi da modello alle edizioni illustrate prodotte in tutta Europa, rappresentando così l’inizio di una rigogliosa tradizione che annovera tra l’altro, nel corso della sua lunga storia, i nomi di Fragonard e di Gustave Doré in Francia e che si rinnova sino ai giorni nostri, come dimostra anche la già ricordata recente interpretazione grafica di Johannes Grützke per la traduzione tedesca dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino. In molti casi, inoltre, le illustrazioni a stampa furono la fonte ispirativa di opere a soggetto ariostesco realizzate sui supporti più disparati: dagli affreschi ai dipinti, alle piccole tavole, sino alle suppellettili istoriate con temi tratti dal Furioso, come maioliche, bacini, cofani, credenze e ceramiche prodotte per varie famiglie signorili del Cinque e Seicento10. In queste pagine attraverseremo la produzione iconografica a stampa seguendo la nostra ottica particolare: ci chiederemo se e in quali modi le illustrazioni abbiano cercato di interpretare e di esprimere l’ironia della finzione che caratterizza il poema ariostesco. Per questo ci soffermeremo su un’edizione illustrata per noi particolarmente interessante: quella pubblicata da Vincenzo Valgrisi a Venezia a metà del secolo (la prima edizione è del 1556). Per comprendere e apprezzare la novità e le particolarità di queste illustrazioni sarà necessario tenere presente l’orizzonte dell’interpretazione grafica del poema e procedere dunque attraverso alcuni confronti con le altre edizioni cinquecentesche. 9 Per il ruolo delle edizioni commentate nel processo di «canonizzazione» del Furioso vedi Javitch, Ariosto classico: la canonizzazione dell’Orlando furioso, cit., in part. pp. 1-79. 10 Sui pannelli in legno e sulla produzione in ceramica e in maiolica a soggetto ariostesco si vedano i contributi di Fumagalli, L’Ariosto tra i pittori, cit.; R.W. Lee, Ariosto’s Roger and Angelica in SixteenthCentury art: Some Facts and Hypotheses, in Studies in Late Medieval and Renaissance painting in Honor of Millard Meiss, New York, New York University Press, 1977, pp. 302-319; J. Triolo, New notes to “the Pucci service” a catalogue, in «Faenza», lxxviii (1992), pp. 87-89; Id., Francesco Xanto Avelli’s Pucci service (1532-1533): a catalogue (parte I e II), ivi, lxxiv (1998), pp. 32-44 e 228-284; C. Ravanelli Guidotti, Ariosto “istoriato” nella maiolica italiana del Cinquecento, in Signore cortese e umanissimo. Viaggio intorno a Ludovico Ariosto, cit.; T.H. Wilson, Xanto and Ariosto, in «Burlington Magazine», cxxxii (1990), pp. 321-327. Le pagine da 364 a 378 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative [12.] Fig. 12. O.F., Venezia, Franceschi, 1584, canto i. 379 Le pagine da 380 a 382 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative 383 7.3. dal testo ai dipinti del primo seicento: l’ironia dalla voce del narratore allo sguardo del personaggio 7.3.1. La figura di spalle e la sua “vittima” in Angelica si cela a Ruggiero di Giovanni Bilivert Al termine del canto x, Ruggiero ha appena salvato Angelica dalla mostruosa orca marina e la trasporta in cielo in groppa all’ippogrifo. Durante il volo non sa trattenersi e si volge ripetutamente a rimirare la bellissima fanciulla, ancora nuda, «e mille baci / figge nel petto e negli occhi vivaci» (O.F., x, 112, 7-8). Come resistere e rinunciare a una tale occasione? Travolto dal fuoco del desiderio, il cavaliere fa atterrare il destriero sul primo spiazzo erboso che avvista e inizia freneticamente a liberarsi dell’armatura, impaziente di gettarsi nelle braccia di Angelica. Nella fretta però Ruggiero prolunga involontariamente la sua attesa e, proprio a questo punto, il narratore decide di interrompere il racconto e di terminare il canto: Quivi il bramoso cavallier ritenne l’audace corso, e nel pratel discese; e fe’ raccorre al suo destrier le penne, ma non a tal che più le avea distese. Del destrier sceso, a pena si ritenne di salir altri; ma tennel l’arnese: l’arnese il tenne, che bisognò trarre, e contra il suo disir messe le sbarre. Frettoloso, or da questo or da quel canto confusamente l’arme si levava. Non gli parve altra volta mai star tanto; che s’un laccio sciogliea, dui n’annodava. Ma troppo è lungo ormai, Signor, il canto, e forse ch’anco l’ascoltar vi grava: sì ch’io differirò l’istoria mia in altro tempo che più grata sia. [O.F., x, 114-115] Ironico è l’indugio di Ariosto sui dettagli di questa scena. A trattenere Ruggiero sono gli oggetti, ovvero le parti dell’armatura che ha ancora indosso. Ci troviamo di nuovo di fronte al procedimento ariostesco dell’«emancipazione delle circostanze» che abbiamo già analizzato nel capitolo precedente, in base al quale gli oggetti divengono dei quasi-soggetti animati e le persone, invece, degli oggetti in loro balia31: l’«arnese», infatti, quasi dotato 31 Cfr. supra § 6.3. La pagina 384 non è riprodotta in questo estratto. l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative 385 rative del poema vengono ripetutamente interrotte dal narratore-regista, che inframmette continuamente spezzoni tratti da altre storie o decide di terminare il canto in un momento di suspense. Le interruzioni della narrazione rispecchiano dunque, al livello della struttura del testo, il tema della frustrazione dei desideri vissuta dai personaggi. In proposito Daniel Javitch, che ha studiato questo fenomeno soffermandosi anche sull’interruzione dell’azione di Ruggiero tra i canti x e xi, ha ipotizzato che Ariosto, tramite l’uso delle interruzioni narrative, abbia voluto far riflettere il lettore sul sentimento di frustrazione esperito dai personaggi, producendo una sorta di «raddoppiamento» di questa situazione narrativa, al livello della fruizione del testo. «Le interruzioni di Ariosto – osserva Javitch – riescono a renderci edotti riguardo alla nostra suscettibilità di fronte all’illusione della finzione mentre, in questo processo, ci rendono consapevoli che qualcosa di illusorio non dovrebbe coinvolgere i nostri affetti, bensì dovrebbe essere preso con distacco e buon senso»32. Che si condivida o meno l’acuta e sottile interpretazione di Javitch, ci sembra indubbio che le interruzioni della narrazione stimolino una pausa riflessiva nella mente del lettore, invitandolo a un atteggiamento consapevole nei confronti del carattere artistico e fittizio della storia che legge, e a riflettere (spesso con l’aiuto delle parole del narratore) sul rapporto esistente tra quel mondo della finzione e il mondo reale. In questo senso le interruzioni costituiscono certamente, come abbiamo già osservato più volte nel corso di questo lavoro, uno dei procedimenti dell’ironia della finzione di Ariosto33. È probabile inoltre che dietro quest’uso dell’ironia della finzione si nasconda anche un insegnamento morale rivolto al lettore: l’invito a non lasciarsi coinvolgere troppo, nella propria vita reale, dalle passioni, e a sapersi distaccare, al momento giusto, da esse. Si tratta di un insegnamento che ritroviamo, ad esempio, nelle interpretazioni allegoriche cinquecentesche di questo episodio. Simone Fòrnari, ad esempio, scrive nella sua Spositione (15491550), che la perdita dell’«annello della ragione» e la fuga dell’ippogrifo insieme col disparire d’Angelica dimostra la velocissima fuga delle mondane dilettationi, e quando più speriamo abbracciarle, e averle vicine a noi piu divengono sorde, e si dileguano da noi, che le chiamiamo con desiderio ardentissimo, come qui fa Ruggiero la sua Angelica34. Ciò che le allegorie tuttavia non ci dicono (e i loro autori forse non colgono) è il modo in cui questo invito ci viene trasmesso: è il sorriso ironico e malizioso del narratore nell’indicarci questo insegnamento, un sorriso tutto contenuto nel suo sguardo da osservatore distaccato e nel suo gesto ben calcolato dell’in32 33 34 Javitch, Cantus Interruptus in the Orlando Furioso, cit., p. 80 (trad. it. di chi scrive). Per l’inquadramento teorico vedi supra § 1.2.2. S. Fornari, Della espositione sopra l’Orlando Furioso Parte seconda, Firenze, Torrentino, 1550, p. 200. 386 ariosto e l’ironia della finzione terruzione del racconto. Non ci dicono neppure un’altra cosa: che il narratore ariostesco invita i suoi lettori a condividere questa maliziosa ironia, a non subire passivamente l’interruzione, bensì a parteciparne attivamente, a divertirsene assieme al narratore-regista. Quest’ultimo si diverte a privare il personaggio di un momento di godimento: il suo divertimento trapela, come abbiamo visto, dal modo sottile in cui insiste, attraverso una serie di artifici retorici, sul prolungamento dell’attesa di Ruggiero al termine del canto x, e nel modo in cui si dilunga a ricordare gli episodi relativi all’anello magico al principio del canto xi, chiamando espressamente i lettori a testimoni. Nel far ciò ci invita a osservare la scena, per così dire, dalla sua “postazione”, a far coincidere anche il nostro sguardo di lettori con il suo, divertito e distaccato. È possibile tradurre questo episodio del poema in immagini? È possibile, in altre parole, trasferire nella dimensione visiva la tensione di questa interruzione narrativa, la condizione ignara del personaggio di Ruggiero e il gioco di sguardi del narratore e del lettore che osservano in modo complice, divertito e distaccato l’intera scena? Possiamo provare a rispondere a queste domande rivolgendo il nostro sguardo a un dipinto di grande fascino, realizzato dal pittore fiorentino Giovanni Bilivert (1576-1644) all’interno di una serie di quadri tratti dai poemi di Ariosto e di Tasso, ed eseguiti nel corso degli anni Venti e Trenta del xvii secolo per ornare il Casino di San Marco, residenza fiorentina del Cardinale Carlo de’ Medici35. La realizzazione pittorica di questa scena del Furioso attuata da Bilivert è di grande effetto (tav. 6). Le due figure occupano ognuna una metà del dipinto, in un gioco evidente di contrasti ripetuti: la figura scura di Ruggiero, in piedi, si staglia sulla parte dello sfondo leggermente più chiara, mentre quella di Angelica, seduta, si appoggia lievemente all’indietro, distendendosi verso lo sfondo della macchia scura della vegetazione, dalla quale, di lì a poco, verrà improvvisamente inghiottita. Anche il tempo assume nella rappresentazione visiva due ritmi tra loro contrapposti, determinati dai due protagonisti: sullo sfondo di un mare in burrasca, che ben esprime l’animo del personaggio, la sagoma snella e scattante di Ruggiero si avvita su se stessa, concentrandosi in un rapido sforzo per liberarsi dai lacci della propria bardatura, mentre la lentezza contraddistingue il gesto ben calcolato di Angelica, caratterizzata da un incarnato la cui efficace morbidezza era già stata oggetto di ammirazione da parte del pittore Orazio Fidani (1610 - dopo il 1656), nella sua biografia dedicata al maestro36. 35 Su Bilivert e in particolare su questo dipinto, si vedano la monografia di R. Contini, Bilivert. Saggio di ricostruzione, Firenze, Sansoni, 1985, in part. scheda a pp. 82-83, e la scheda contenuta nel più recente catalogo della mostra L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, a cura di Fumagalli, Rossi, Spinelli, cit., pp. 211-212. Contini data la tela al 1624 su base documentaria e sottolinea la notevole fortuna di questo dipinto, che conobbe almeno altre tre redazioni (di cui due probabilmente autografe). 36 Cfr. la descrizione del dipinto di Fidani riportata da Filippo Baldinucci (1624-1697) nelle sue Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua (1681), a cura di F. Ranalli, Firenze, Batelli, 18451847, 5 voll. (ristampa anastatica a cura di P. Barocchi, Firenze, Studio Per Edizioni Scelte, 1974-75, 7 voll.: vol. vii [1975], pp. 69-70). Le pagine da 387 a 392 non sono riprodotte in questo estratto. l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative 393 Si tratta di un soggetto che si presta ovviamente a connotazioni scherzose o maliziose. Una delle varianti iconografiche più diffuse illustra il satiro nell’atto di sollevare un velo o una stoffa che copre le attraenti nudità di Venere, approfittando del sonno della dea. È proprio da questo tipo iconografico, tra l’altro, che deriva uno dei dipinti di soggetto ariostesco più noti: mi riferisco alla piccola tavola di Rubens (tav. 15) che rappresenta l’eremita impegnato nel vano tentativo di impossessarsi di Angelica dormiente (O.F., viii, 49-50). Nello sguardo spiritato dell’eremita, che esprime a un tempo tutta la sua voluttà e la sua disperazione, Rubens ha racchiuso la divertita ironia del narratore ariostesco a carico del personaggio, vittima di una passione tanto smodata e subdola, quanto inadeguata alle proprie forze. Se nel quadro di Rubens l’ironia è tutta interna alla scena (così come nel passo corrispondente del Furioso, l’ironia è interna alla narrazione), il dipinto di Bilivert dal quale siamo partiti ci interessa invece per un motivo particolare. Nello svolgere questo tema iconografico, il pittore fiorentino raffigura Amore che, nell’atto di incatenare Venere addormentata, rivolge il proprio sguardo verso lo spettatore e accosta l’indice della mano destra alle labbra49. Mentre gioca un brutto tiro a Venere, vittima ignara della situazione, Cupido cerca dunque espressamente la complicità dello spettatore, guardandolo con ammicco e facendogli cenno di tacere per non rischiare di tradire il suo segreto: in tal modo la finzione creata all’interno della rappresentazione pittorica viene temporaneamente infranta e lo spettatore viene chiamato a partecipare direttamente alla storia che il dipinto “racconta”. Tramite lo sguardo e il gesto di Amore si costruisce dunque un rapporto tra l’interno e l’esterno del quadro: l’illusione evocata dalla finzione artistica viene sospesa e il fruitore viene invitato a percepire la dimensione dell’ironia della finzione così espressa dal dipinto. Se confrontiamo adesso questo dipinto con la tela di Bilivert che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente, quella raffigurante Angelica che si cela a Ruggiero, ci accorgiamo che in entrambi i casi l’opera figurativa gioca con la dimensione dell’ironia della finzione artistica, stabilendo sempre un rapporto di “complicità” tra uno dei personaggi interni al dipinto e lo spettatore che guarda la scena dall’esterno. Ciò che cambia è però il procedimento attraverso il quale tale dimensione viene realizzata. Nel primo quadro di Bilivert, il rapporto tra il personaggio e lo spettatore viene attuato tramite uno stratagemma sottile e, per così dire, implicito, che richiede allo spettatore uno sguardo attento ed esperto: mi riferisco all’uso sapiente della figura “di confine” e “di spalle”. Nel secondo caso, Bilivert sceglie invece un artificio 49 Il particolare dell’indice accostato alle labbra, come invito rivolto allo spettatore a fare silenzio e a farsi così complice dell’azione, era già presente all’interno di questa tradizione iconografica: si può ricordare come esempio un’incisione delle Lascivie di Agostino Carracci, nella quale si vede un satiro che, nell’atto di avvicinarsi a una ninfa seminuda e addormentata ai piedi di un albero, si rivolge allo spettatore con l’indice della mano destra sulle labbra (l’incisione in rame, databile ca. 1590-1595, è conservata oggi presso la Prints Division della New York Public Library). La pagina 394 non è riprodotta in questo estratto. l’ironia visualizzata: il «furioso» e le arti figurative 395 disegni di sfondi paesistici (da qui anche il nome della pietra): città diroccate, mari in tempesta, arbusti, profili rupestri o montagnosi. L’autore di quest’opera, sino ad oggi non ancora identificato, mostra una particolare abilità nella lavorazione artistica della paesina: ne adopera le venature per evocare i tronchi e i rami del «bosco [...] di querce ombrose» (O.F., x, 113, 5) in mezzo al quale Ruggiero ha fatto atterrare l’ippogrifo, e sfrutta le striature orizzontali per rendere il gioco di riflessi dello specchio d’acqua marino, che si intravede dietro il bosco e sul quale, in lontananza, fa vela una nave. All’estrema destra, rimpicciolito dalla distanza che ha ormai guadagnato, si vede l’ippogrifo, ottenuto con la tecnica “a risparmio”, lasciando cioè la pietra libera dal colore. Nella parte sinistra del dipinto sono collocati i due protagonisti: Ruggiero in piedi, chino sul proprio fianco destro e impegnato a liberarsi dai lacci della propria armatura, e Angelica nuda, seduta su un masso, con in mano l’anello magico. Oltre che per l’impostazione generale della rappresentazione, l’opera prende chiaramente a modello la tela di Bilivert anche per alcuni dettagli relativi alle singole figure: dal nudo sensuale di Angelica, alla posizione di Ruggiero, ai colori della sua armatura, sino al particolare del laccio dorato che viene sfilato all’altezza della coscia destra. L’autore della pietra paesina conosceva dunque bene il dipinto di Bilivert e vi si è direttamente ispirato. Tuttavia ha introdotto anche un particolare nuovo, vistoso e importante. Anche qui Angelica si trova sul “confine” del quadro, prossima allo spettatore e orientata – almeno in parte – di spalle: un attimo prima di mettere in bocca l’anello fatale, atto che compie (a differenza della figura di Bilivert) con un ampio gesto teatrale, ruota però la testa e rivolge il viso e il proprio sguardo verso il pubblico (tav. 8). Come Bilivert, l’anonimo autore della paesina “blocca” il racconto e ci ritrae la scena un attimo prima dell’evento cruciale. Tuttavia, se nella tela l’ironia ariostesca veniva resa attraverso un’ironia sottile e quasi impalpabile, nel piccolo dipinto essa assume invece una dimensione “teatrale”: si trasforma cioè in un gioco scoperto, e anzi vistoso, espresso attraverso il malizioso ammicco del personaggio femminile in primo piano e il suo ostentare con intenzione, di fronte a sé e agli occhi dello spettatore, l’oggetto magico e fatale. L’esito al quale perviene la pietra paesina ci offre una conferma della capacità degli spettatori del tempo di avvertire e di “leggere” l’ironia insita nel dipinto di Bilivert, e ci propone, al contempo, un’ulteriore soluzione al problema della traduzione dell’ironia del Furioso nelle arti figurative. 7.4. fragonard: il narratore entra in scena In pantofole e vestaglia, con il berrettone in testa, comodamente sprofondato in poltrona davanti al camino, con dietro di sé la propria scrivania (fornita di tutto l’occorrente per scrivere) e la propria libreria, e con in mano il celebre «scartafaccio» del romanzo secentesco che ha appena terminato 396 ariosto e l’ironia della finzione di leggere. Così Manzoni si fece ritrarre da Francesco Gonin per i lettori dell’edizione definitiva dei Promessi sposi, che uscì a dispense tra il 1840 e il 1842, e per la quale lo scrittore trasmise al disegnatore indicazioni molto precise su come realizzare le vignette51. Questa illustrazione (fig. 13), che chiude le quattro paginette dell’Introduzione, fa da pendant al capolettera illustrato collocato ad apertura del testo, nel quale troviamo Manzoni seduto alla scrivania, intento a trascrivere l’inizio della storia dal «dilavato [...] autografo» del «buon secentista», prima di «sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare» (fig. 14). A ben vedere, le due immagini che corredano le prime pagine del testo dei Promessi Sposi non sono due “ritratti dell’autore”, come quelli che si potevano incontrare, solitamente ad apertura di libro, già in epoca rinascimentale (anche alcune edizioni cinquecentesche del Furioso, ad esempio, sono adornate da un’incisione del ritratto di Ariosto). Qui ci troviamo, a mio avviso, di fronte a qualcosa di profondamente diverso: le due vignette non rappresentano infatti il personaggio biografico dell’autore, bensì un personaggio “interno al testo”, quello che noi oggi chiamiamo più propriamente il “narratore”. Le immagini ci raffigurano lo scrittore intento a riflettere sulla storia che ha appena terminato di leggere, oppure a trascrivere il manoscritto dell’anonimo secentesco: in tal modo esse sono, a tutti gli effetti, illustrazioni delle prime pagine del testo letterario. Tramite queste due vignette, Manzoni e Gonin sono riusciti a realizzare un’arguta e divertita traduzione grafica di quella presenza ironica e sorniona del narratore che è così fondamentale all’interno del romanzo, e che, secondo le consuetudini, nell’incipit si mostra “allo scoperto”, si muove in piena luce sotto gli occhi del lettore. Possiamo chiederci quando sia stata realizzata per la prima volta un’illustrazione a stampa della figura del “narratore” di un testo letterario52. Per quanto riguarda la storia della visualizzazione del Furioso, siamo in grado di dare una risposta precisa. È stato infatti Jean Honoré Fragonard (1732-1806) ad aver avuto per primo l’idea di mettere in scena il narratore ariostesco53, 51 Sulle illustrazioni di Gonin, “riscoperte” dalla critica manzoniana degli ultimi decenni, si rinvia almeno alla ricostruzione storico-documentaria di F. Mazzocca, Quale Manzoni? Vicende figurative dei Promessi Sposi, Milano, Il Saggiatore, 1985, in part. pp. 103-170, e alla recente edizione anastatica della quarantana originale in A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di S.S. Nigro, Milano, Mondadori, 2002. 52 La questione dovrebbe essere posta, ovviamente, in relazione alla concezione moderna del narratore, e dunque riguardare la tradizione delle illustrazioni a stampa. Per quanto riguarda invece i precedenti nelle illustrazioni manoscritte, mi limito a ricordare che già Boccaccio, il quale corredò l’autografo del Decameron di disegni a penna e bistro, inserì in corrispondenza dell’iniziale “h” dell’introduzione una miniatura dove rappresentò se stesso in qualità di “narratore” impegnato a leggere l’opera a un pubblico di sole donne, sovrastate da un amorino in volo e pronto a scoccare la propria freccia (cfr. il codice parigino italiano 482, attualmente conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi: il disegno è riprodotto anche in G. Boccaccio, Decameron. Con le illustrazioni dell’autore e di grandi artisti fra Tre e Quattrocento, a cura di V. Branca, Firenze, Le Lettere, 1999, p. 15). 53 Per l’indagine delle edizioni illustrate del Furioso mi sono basato sugli studi citati supra al § 7.2 e sulla vasta recensione e la dettagliata descrizione di edizioni illustrate contenute in Ludovico Ariosto. Documenti. Immagini. Fortuna critica, a cura di Badini, cit. Le pagine da 397 a 404 non sono riprodotte in questo estratto. APPENDICI BIBLIOGRAFICHE appendice i. bibliografia sulla ricezione letteraria e figurativa dell’«orlando furioso» In questa Appendice I si offre una bibliografia delle opere e degli studi, consultati nel corso della ricerca, che riguardano in maniera specifica la ricezione dell’Orlando furioso. Nelle sezioni relative ai singoli autori (per i quali si intendono esclusivamente quelli trattati in questo lavoro), sono inclusi, accanto alle opere, tutti quegli studi che (anche solo parzialmente) fanno riferimento alla questione della ricezione del poema ariostesco. Tutte le altre opere e studi consultati sono invece elencati all’interno dell’Appendice II. a) Ricezione letteraria e critica (capitoli 2-6) Studi, repertori e bibliografie a carattere sovranazionale Agnelli, G., Ravegnani, G., Annali delle edizioni ariostee, Bologna, Zanichelli, 1933. 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Alhaique Pettinelli, Rosanna, xxi, 405. Alighieri, Dante, xxv, 28, 47, 67, 258, 270, 317, 324, 360, 365, 406, 412, 414, 420, 422. Allemann, Beda, 9, 413. Alquier, Hélène, 358, 411. Ambrosoli, Francesco, 326, 421. Andreoli, Ilaria, 359, 376, 405, 410, 412. Anguillara, Giovanni Andrea dell’, xvi-xvii, 7, 409. Arens, Arnold, 4, 418. Aretino, Pietro, 56. Aristofane, 313. Aristotele (Aristoteles), xv, 54, 89, 175, 267, 413. Arnold, Günter, 2, 417. Ascoli, Albert Russell, viii, 50, 115, 336, 413, 414, 422. Assmann, Aleida, viii. Auerbach, Erich, 46-50, 414. Aurnhammer, Achim, viii, 62, 67, 406, 407, 420. Azeglio, Massimo d’, 359. Badini, Gino, xxiv, 364, 396, 405. Baïf, Jean-Antoine de, 54. Bailly, Auguste, 57, 58, 414. Baioni, Giuliano, 265. Baldan, Paolo, 376, 412. Baldinucci, Filippo, 386, 392, 414. Balsamo, Jean, 53, 414. Balsamo-Crivelli, Gustavo, 37, 325, 410. Balzac, Honoré de, 48, 50. Bandello, Matteo, 210. Barberis, Walter, 415. Barck, Karlheinz, 10, 421. Barenghi, Mario, 285, 345, 409. Barocchi, Paola, 386, 412. Barone, Marianna, 326, 414. Barsanti, Anna, 389, 415. Barthes, Roland, 15, 422. Bartz, Hans-Werner, 201, 416. Baruffaldi, Girolamo, 329, 376, 414. Barye, Antoine-Louis, 359, 389. Bascarini, Niccolò, 365. Baseggio, Cristina, 257, 407. Bassenge, Friedrich, 179, 406. Battafarano, Italo Michele, 67, 406. Battistini, Andrea, 409. Baumgart, Reinhard, 9, 414. Bäumler, Alfred, 221, 414. Baurmeister, Ursula, 53, 414. Bayard, Marc, 358, 411. Bazzotti, Ugo, 358, 412. Beecher, Donald, xv. Behler, Ernst, 2, 5, 9, 10, 265, 286, 289, 290, 300, 320, 407, 414, 421. Beißner, Friedrich, 195, 407. Belli, Giuseppe Gioacchino, 67, 406. Bellocchi, Ugo, 358, 410. Bembo, Pietro, xvii, 132, 409. Bénard, Charles Magloire, 323, 416. Bendonis, Benedetto de, 365. Benedetti, Laura, 267, 410. Benjamin, Walter, 9, 414. Bentini, Jadranka, 358, 413. Benveniste, Émile, 15, 414. Berni, Francesco, 324, 327. Bernini, Gian Lorenzo, 247. Bestermann, Theodore, 88, 110, 414. Bettinelli, Saverio, 93, 124, 408. Biasin, Gian-Paolo, 358, 410. Bigi, Emilio, ix, 197, 413, 414. Bilivert, Giovanni, vii, 25, 28, 359, 383, 386395, 415, 419; tavv. 6, 14. Binni, Walter, xx-xxii, 405. Birke, Brigitte, 172, 416. Birke, Joachim, 172, 416. Bishop, Lloyd, 9, 414. Blanchard, Antoine, 359. 424 Blasucci, Luigi, 28, 197, 414. Boccaccio, Giovanni (Boccace), 55-57, 62, 63, 271, 286, 359, 396, 406, 417, 420, 422. Böcking, Eduard, 193, 407. Böckmann, Paul, 221, 414. Bodmer, Johann Jakob, 171, 183, 414. Boiardo, Matteo Maria (Bojardo, Boyardo), ix, xii, xix, xxii, 56, 67, 68, 93, 107, 108, 115, 155, 161, 191, 193, 197, 205, 210, 267, 271, 272, 276, 295, 341, 371, 373 fig., 414, 417, 419. Boie, Heinrich Christian, 189. Boileau-Despréaux, Nicolas, v, 54, 56, 57, 6366, 87, 88, 102, 108, 119, 175, 408. Bojardo, vedi Boiardo, Matteo Maria Bologna, Corrado, 28, 359, 412, 414. Bolzoni, Lina, viii, 132, 358, 359, 368, 410, 413, 414, 418. Bondi, Fabrizio, 359, 412. Bongi, Salvatore, 365, 415. Bonora, Ettore, 93, 408. Boockmann, Hartmut, 417. Borlenghi, Aldo, xxi, xxii, 405. Borsellino, Nino, 328, 409. Böttiger, Karl August, 186. Boucher, François, 359. Boufflers, Stanislas-Jean de, 398. Bouhours, Dominique, 121. Bouillon, Jean-Paul, 358, 411. Boulogne, Valentin de, 394. Bouvy, Eugène, 88, 93, 104, 408. Boyardo, vedi Boiardo, Matteo Maria Boyer, Jean-Claude, 358, 411. Brackert, Helmut, 15, 421. Branca, Vittorio, 359, 396, 417. Breitinger, Johann Jakob, 221. Brinkmann, Richard, 296, 415. Brizzi, Gaëtan, 359, 411. Brizzi, Paul, 359, 411. Brunetière, Ferdinand, 57. Buck, August, 306, 410. Buonarroti, Michelangelo, 247. Bürger, Gottfried August, 188, 191, 264, 286. Burich, Enrico, 184, 406. Burrichter, Brigitte, 307, 415. Cabani, Maria Cristina, viii, 12, 197, 415, 418. Cagnolati, Giorgio, 364, 413. Calin, William, 156, 415. Callot, Jacques, 91, 92. Calvino, Italo, vii, xv, xxviii, 22, 29, 34, 45, 51, 180, 193, 284-286, 343-355, 360, 363, 403, 404, 409-411. Camões, Luís Vaz de, 88. Campanella, Tommaso, 67. indici Caracciolo Arizzoli, Maria Teresa, 358, 411. Caravaggio, Michelangelo Merisi detto il, 357, 394, 420. Carducci, Giosuè, 85, 87, 93, 408. Caretti, Lanfranco, 38, 405. Carlo Magno (Charlemagne, Karl der Große), 63, 191, 235, 236. Carlo vii (re di Francia), 400. Carne-Ross, Donald S., 27, 402, 415. Carolsfeld, Julius Schnorr von, 360. Carracci, Agostino, 393. Casadei, Alberto, viii, xix, 164, 405, 415, 418. Casanova, Giacomo (Jacques Casanova de Seingalt), 93, 124, 408. Castellana, Riccardo, viii, 47, 414. Castiglione, Baldassare, xvii, xviii, 132, 415. Catilina, Lucio Sergio, 6. Cecco Bravo, Francesco Montelatici detto, 389, 415; tav. 13. Cerrai, Marzia, 366, 368, 412. Cervantes Saavedra, Miguel de, xx, xxi, xxiv, xxv, xxvii, 24, 58, 91, 183, 187, 193, 219, 258, 277, 278, 281, 282, 293, 294, 309, 312318, 324, 343, 398, 416, 420, 422. Ceserani, Remo, viii, ix, xix, 358, 410, 413, 415. Chaarani-Lesourd, Elsa, 409. Chapelain, Jean, 102, 104, 126, 155, 175, 176. Chevalier, Maxime, xxv, 415. Chodowiecki, Daniel Nikolaus, 359, 360, 411. Chrościcki-Nawojka Cieślińska, Juliusz A., 358, 411. Cian, Vittorio, xviii, 415. Ciavolella, Massimo, xv. Cicerone, Marco Tullio, 6, 7. Cideville, Pierre Robert Le Cornier de, 104. Cieco da Ferrara, 115, 419. Cieri Via, Claudia, 411. Cioranescu, Alexandre, 55, 58, 75, 88, 93, 111, 399, 407. Cipriani, Giovanni Battista, 399. Clemente iv, papa, xvii. Clemente v, papa, xvii. Coccia, Paola, 376, 412. Cochin, Nicolas, 360, 399. Coleridge, Samuel Taylor, 236, 415. Collinet, Jean-Pierre, 60, 408. Contini, Roberto, 386, 389, 390, 392, 415. Correggio (Corrège), Antonio Allegri detto il, 91, 92, 247. Cotronei, Bruno, 58, 408. Cresto-Dina, Piero, 86, 417. Croce, Benedetto, xx, xxviii, 96, 301, 321, 333337, 409. Cusatelli, Giorgio, 271. indici Dal Bianco, Stefano, 197, 415. Dal Bondeno, Giovanni Mazocco, xvii. Dal Monte, Maria Teresa, 171-173, 184, 267, 272, 406. De Chirico, Giorgio, 359. Dédéyan, Charles, 407. Deffand, Marie-Anne de Vichy Chamrond marchesa du, 85, 105. De Franceschi (Senese), Francesco, xvi, 358, 364, 370, 371, 376, 377, 378 fig., 379 fig., 380, 381, 389, 410; tav. 3. Delacroix, Eugène, 359, 389, 411. De Sanctis, Francesco, vii, xx, xxii, xxviii, 29, 318, 321, 323-334, 339, 409, 410, 414, 418, 420, 422. Dickens, Charles, 349. Diderot, Denis, xxviii, 3, 9, 21, 49, 205, 210, 233, 281, 295, 298, 399, 414. Dietl, Albert, viii, 360. Di Maria, Salvatore, 405. Dolce, Lodovico, xvi, xvii, 7, 92, 172, 365, 409, 410, 413. Domenego Zio, vedi Giglio, Domenico Domenichino, Domenico Zampieri detto il, 359. Donati, Lamberto, 87, 358, 408, 412. Doppler, Alfred, 296, 415. Doré, Gustave, 193, 359, 363, 406. Dorigatti, Marco, 413. Doring, Renate, 409. Dossi, Battista, 376. Dossi, Dosso, 376, 412. Du Bellay, Joachim, 54. Dubled, Jean, 88, 106, 408. Dünnhaupt, Gerhard, 192, 406. Düntzer, Heinrich, 220, 407. Dupuy-Vachey, Marie-Anne, 398, 400, 404, 411, 416. Dürer, Albrecht, 44. Durling, Robert, xxii, 27, 415. Eichner, Hans, 5, 264, 286, 291, 293, 295, 300, 407. Eigeldinger, Frédéric S., 102, 418. Einem, Herbert von, 390, 415. Eisen, Charles Joseph Dominique, 399. Engelmann, Wilhelm, 360, 411. Ercilla y Zúñiga, Alonso de, 88. Ernst, Anja, 422. Escal, Françoise, 57, 408. Eschilo, 268. Este, Ippolito ii d’, 295. Fabrizio-Costa, Silvia, 376, 412. Fachard, Denis, 409. Fahy, Conor, 358, 412. 425 Falaschi, Enid T., 358, 369, 412. Falcetto, Bruno, 345, 409. Fasola, Carlo, 406. Fatini, Giuseppe, xv, 405. Fava, Bruno, 358, 369, 410, 412. Fedi, Roberto, xv. Ferroni, Giulio, viii, 187, 415. Fichte, Johann Gottlieb, vii, 45, 200, 288-290, 297, 299, 304, 319, 333, 337, 416. Fichter, Andrew, 415. Fidani, Orazio, 386. Fielding, Henry, 187, 222, 258. Flaubert, Gustave, 9, 50, 110, 414. Föcking, Marc, viii, 420. Formont, Jean-Nicolas, 103, 105. Fornari, Simone, 385, 410. Forni, Giorgio, xv, xviii, xxi, 416. Forteguerri, Niccolò (Fortiguerra, Fortinguerra), 95, 266. Fortiguerra, vedi Forteguerri, Niccolò Fortinguerra, Nicolò, vedi Forteguerri, Niccolò Fragonard, Jean Honoré, vii, xxvi, xxix, 25, 80, 81 fig., 82, 99, 166, 241, 295, 359, 361-363, 365, 382, 392, 395, 396, 398-404, 411, 416, 418, 421, 422; tavv. 18-23. Franceschetti, Antonio, 376, 412. Frank, Manfred, 9, 416. Freedman, Luba, 358, 412. Frenzel, Herbert, 267, 406. Friedrich, Caspar David, 391. Frischmann, Bärbel, 288, 416. Fritz, Clara, 407. Fumagalli, Elena, xvi, 377, 386, 413. Fumagalli, Giuseppina, xv, 358, 363, 409, 410. Fumaroli, Marc, 399, 411. Furst, Lilian R., 9, 416. Galilei, Galileo, 174. Gallo, Niccolò, 318, 327, 409. Gardini, Nicola, xv, 409. Gareffi, Andrea, 358, 413. Garzoni, Tommaso, 67, 406. Gass, William H., 11, 416. Gatti, Hilary, 415. Gelzer, Florian, 251, 406. Genette, Gérard, 39, 43, 160, 204, 216, 248, 416. George, Stefan, 67, 406. Gerstenberg, Heinrich Wilhelm, vi, xxvi, 49, 172, 174, 245, 251-255, 416. Gesù Cristo (Jésus), 124, 391; tav. 7. Gethmann-Siefert, Annemarie, xxiii, 312, 406, 407. Geyer, Paul, 422. Giammei, Alessandro, 359, 412. Gianturco, Elio, 172, 406. 426 Gibaldi, Joseph, xxiii, 416. Giglio, Domenico, 365. Gioberti, Vincenzo, xx, 37, 42, 59, 321, 324326, 410. Gioffredi Superbi, Fiorella, 358, 413. Giolito de’ Ferrari, Gabriel, vii, 28, 362, 364, 365, 367 fig., 368, 369, 389, 415. Giotto di Bondone, 388, 390, 391, 418; tav. 7. Giovanna d’Arco, santa, 102, 103, 105, 106, 126, 130, 147, 400. Giraldi (Cinzio), Giovan Battista, xxviii, 92, 267, 410. Girotto, Carlo Alberto, 358, 410. Giudicetti, Gian Paolo, xxv, 416, 418. Givone, Sergio, 179, 406. Gnudi, Cesare, 358, 410. Gödde, Christoph, 414. Goethe, Johann Wolfgang von, xxi, xxii, 22, 48, 109, 191, 193, 200, 254, 275, 296, 300302, 325, 415, 416, 418. Göller, Karl Heinz, 350, 421. Gombrich, Ernst, 387, 388, 416. Gomez-Montero, Javier, xxv. Gonin, Francesco, 396 fig., 397 fig. Goròchova, Raya M., xxiii, 416. Gotthard, Helene, 253, 422. Gottsched, Johann Christoph, 109, 171, 172, 221, 416, 418. Grathoff, Dirk, 280, 419. Grenzmann, Ludger, 417. Greuze, Jean-Baptiste, 399. Grewe, Cordula, viii, 360, 411. Gries, Johann Diederich, 192, 193, 360, 406, 411, 414. Grimm, Jacob, 201, 416. Grimm, Wilhelm, 201, 416. Grimsley, Ronald, 120, 416. Grisé, Catherine M., 58, 416. Gruber, Johann Gottfried, 186, 191, 416. Grützke, Johannes, 193, 360, 363, 411. Guadagnino, vedi Valvassori, Giovanni Andrea Guandalini, Gabriella, 358, 412. Guarini, Giovanni Battista, xvi, 325, 358, 377, 386, 413. Guerra, Domenico, 364. Guerra, Giovanni Battista, 364. Guille, Martine, 417. Gumbrecht, Hans Ulrich, 212, 421. Güntert, Georges, xxv, 416. Guthmüller, Bodo, viii, 408. Haeusgen, Ursula, 193, 414. Hafner, Ralph, viii. Hallo, Rudolf, 189, 416. indici Hamilton, Anthony, 249. Hannoosh, Michèle, 411. Harington, John, xxiv, 53. Harn, Edith M., 186, 192, 240, 416. Harris, Neil, 358, 412. Hart, Thomas R., xxv, 416. Hartley, Kelver Hayward, 88, 408. Hartung, Stefan, xxii, 417. Häsner, Bernhard, xix, 160, 416. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, vii, xiv, xxxxii, xxviii, 6, 11, 25, 179, 193, 195, 201, 260, 272, 284, 311-321, 323-326, 329, 331, 334-338, 374, 406, 416, 419. Heier, Edmund, 191, 406, 417. Heimrich, Bernhard, 10, 13, 417. Heinse, Johann Jacob Wilhelm, 191, 266. Hemingway, Ernest, 285, 346. Hempfer, Klaus W., viii, xv, xviii, xix, xxii, 409, 416, 417, 421. Herder, Johann Gottfried, xxi, 1, 2, 5, 29, 33, 172, 183, 272, 295, 326, 328, 417. Himmelsbach, Siegbert, 107, 417. Hirdt, Willi, 406. Hofer, Philip, 365, 398, 411. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 10, 221, 250, 255. Home, Henry, 177. Homero, vedi Omero Hoole, John, 85, 413. Hotho, Heinrich Gustav, 312, 406. Huchon, Mireille, 53, 408. Humboldt, Wilhelm von, xxi, 200, 417. Hurd, Richard, 176-178, 253, 417. Huss, Bernhard, 347, 410. Imdhal, Max, 86, 417. Immerwahr, Raymond, 9, 253, 291, 407, 417. Ingres, Jean-Auguste-Dominique, 359. Innocenti, Paolo, 409. Irmscher, Hans Dietrich, 272, 417. Izzo, Annalisa, 56, 417. Jacobs, Wilhelm G., 304, 421. Jaffe, Michael, 247. Jagemann, Christian Joseph, 173. Jankélévitch, Vladimir, 417. Jantzen, Jörg, 304, 421. Janz, Rolf-Peter, 257, 407. Japp, Uwe, 10, 417. Jarry, Aurore, 358, 411. Jatta, Barbara, 358, 413. Jauss, Hans Robert, 86, 185, 269, 417, 420. Javitch, Daniel, xv, xxiv, 27, 363, 385, 388, 409, 417. Jeanneret, Michel, 358, 410. indici Jean Paul, pseud. di Johann Paul Friedrich Richter, xxi, 3, 10, 21, 49, 250, 255, 278, 281, 295, 298, 320. Jossa, Stefano, viii, xv, 18, 409, 417. Kant, Immanuel, 288, 290. Keyser, Sijbrand, 58, 88, 93, 408. Kierkegaard, Sören, 6, 9, 120, 416. Kiesler, Reinhard, 417. Kipling, Rudyard, 349. Klein, Alessandro, 304, 407. Kleinert, Susanne, viii. Klemperer, Viktor, 110, 111, 418. Klesczewski, Reinhard, 193, 406. Knight, Roy Clement, 55, 408. Knox, Dilwyn, xvi, 2, 418. Knox, Norman, 2, 9, 418. Koch, Margarete, 390, 418. Kofler, Peter, 192, 193, 406. König, Bernhard, xxv, 193, 406. Korff, Hermann August, 109, 418. Korten, Harald, 304, 421. Kroeber, Burkhart, 193, 360, 411. Kroes, Gabriele, 192, 193, 406. Kremers, Dieter, xxii, 418. Krings, Hermann, 304, 421. Kristeller, Paul, 376, 418. Kruse, Christiane, 303, 413. Kuhn, Barbara, viii. Kummer, Carl Ferdinand, 109, 418. La Fontaine, Jean de, v, xxv, xxvi, 12, 23, 24, 34, 36, 37, 38, 42, 55-80, 81 fig., 82-84, 87, 92, 93, 108, 119, 126, 152-154, 171, 234, 237, 238, 241, 264, 342, 398, 408, 414, 416, 419422. Lamartine, Alphonse de, 57. Lämmert, Eberhard, xxii, 15, 417, 421. Landucci, Sergio, 323, 418. Lanfranco, Giovanni, 389, 416; tav. 12. Langmuir, Erika, 358, 412. Lapi, Pompeo, 369. Lapp, John, 57, 58. La Rochefoucauld, François de, 63, 421. Laradji, Aline, 405. Lauriol, Claude, 390, 419. Lausberg, Heinrich, 4, 30, 32, 418. Lavagetto, Andreina, 265. Lavagetto, Mario, 415. Lavezuola, Alberto, xvi, 92, 376. Le Bossu, Rene, 88. Lee, Rensselaer W., 358, 363, 410, 411, 413. Legros, René P., 88, 93, 408. Le Jeune, 94-96, 418. Le Moyne, Pierre, 55, 88. 427 Leone x, papa, xvii. Lessing, Gotthold Ephraim, xxi, xxvi, 172, 247, 280, 387, 388, 406. Liberati, Stefano, 358, 413. Licinio, Bernardino, 132. Liebenwein, Wolfgang, 358, 412. Lindner, Monika, 108, 112, 121, 148, 156, 418. Lojkine, Stéphane, 359, 411. Longchamp, Sébastien (Sébastian G.), 85, 102, 126, 130, 418. Longhi, Claudio, 418. Lonitz, Henri, 414. Looney, Dennis, viii, 17, 418, 422. Los Llanos, José-Luis de, 398, 418. Lovejoy, Arthur O., 296, 418. Lucano, Marco Anneo, 88. Luciano, xix, 53, 183, 313. Lukács, Georg, 179. Lüsebrink, Hans-Jürgen, 360, 412. Machiavelli, Niccolò, 56. Malraux, André, 285, 346. Mancinelli, Laura, 257, 407. Mancini, Albert N., 358, 410. Manger, Klaus, 195. Mann, Thomas, 8, 9, 11, 418. Manzoni, Alessandro, 42, 43, 49, 338, 339, 396, 397 fig., 418. Margherita di Navarra, 56. Marinari, Attilio, 324, 410. Marinig, Lidia, 183, 184, 192, 249, 406. Marino, Giovan Battista, 67, 132, 303, 359, 406, 413. Marni, Archimede, 418. Martelli, Mario, xix, 418. Martin, Dieter, 67, 189, 191, 193, 251, 252, 406, 418. Martinelli Braglia, Graziella, 358, 412. Martinoni, Renato, viii. Masi, Giovanni Tommaso, 369. Massimo, Carlo, marchese, 360. Mauvillon, Jakob, 193. Mazzocca, Fernando, 396, 418. Mazzoni, Francesco, 262, 420. Medici, Carlo de’, 386. Medici, Don Lorenzo de’ (figlio di Ferdinando i), 390, 392. Mehltretter, Florian, viii, 193, 414. Meier, Ernst-August, 185, 419. Meinhard, Johann Nicolaus, vi, xxvi, 171-181, 192, 284, 406, 407, 420, 421. Meister, Leonhardt, 183. Menandro, xviii. Ménestrier, Claude-François, 306, 408. Mengaldo, Pier Vincenzo, 197, 419. indici 428 Merino-Morais, Jane, 58, 419. Merker, Nicolao, 179, 406. Mesirca, Margherita, 407, 408, 410. Messina, Maria Grazia, 360, 412. Metello, Quinto Cecilio, 6, 7. Metternich, Klemens Wenzel Lothar von, xxii. Michaelis, Caroline, 270. Milton, John, xxiv, 88, 148, 149, 176. Mirabaud, Jean Baptiste, 96-98, 166, 408. Mittner, Ladislao, 182, 183, 240, 241, 254, 419. Mix, York-Gothart, 360, 412. Moeller, Bernd, 417. Moland, Louis, 57, 88, 93, 94, 408, 422. Monbeig-Goguel, Catherine, 390, 419. Mongan, Elizabeth, 365, 398, 411. Monnet, Jean, 399. Monorchio, Giuseppe, 267, 410. Montaigne, Michel de, 226, 419. Moreau, François, 53, 408. Moreau, Jean-Michel, dit le Jeune, 399. Moretti, Walter, 55, 408. Morgante, Jole, 58, 419. Mozart, Wolfgang Amadeus, 214. Müller, Gernot M., 420. Müller, Marika, 300, 419. Musacchio, Enrico, 267, 410. Musarra, Franco, 12, 419. Muscetta, Carlo, 318, 409. Musil, Robert, 8, 9. Muzelle, Alain, 275, 419. Nativel, Colette, 411. Naves, Raymond, 110, 419. Nebrig, Alexander, 360, 412. Nemes, Balázs J., 407. Nicolay (Nicolai), Ludwig Heinrich von, 190, 191, 406, 417. Nicolini da Sabbio, Pietro, 365. Nicolò di Bascarini, vedi Bascarini, Niccolò Nies, Fritz, 63, 421. Nietzsche, Friedrich, 9. Nievo, Ippolito, 348, 349. Nigro, Salvatore Silvano, 396, 418. Novalis, pseud. di Friedrich Leopold von Hardenberg, 10, 255, 270, 320. Oesterle, Günter, 280, 419. Olivet, Pierre-Joseph Thoulier abate d’, 104. Omero (Homero, Homère, Homer), xv, xviii, xix, 88, 100, 115, 174, 189, 200, 203, 252, 253, 258261, 267-269, 304, 305, 309, 324, 332, 333. Orazio, 64, 104. Orlando, Francesco, 121, 122, 419. Osols-Wehden, Irmgard, 172, 406. Ossola, Carlo, viii, 28, 419. Oster, Patricia, viii, 419. Ovidio, 12, 34, 92, 365, 415. Pabst, Walter, 57, 58, 419. Pace, Enrica, 358, 413. Paduano, Guido, 89, 413. Paladino, Mimmo, 359, 412. Panofsky, Erwin, 44, 45, 289, 419. Paoli, Michel, 358, 410. Papiór, Jan, 2, 419. Parker, Patricia, 27, 419. Pascal, Blaise, 122. Pasquier, Étienne, 54. Pavese, Cesare, 348, 349, 352, 353, 410. Pellegrino, Camillo, 174. Penzenstadler, Franz, 419. Perella, Nicolas, 358, 410. Perrault, Charles, 86, 417. Petermann, Renate, 186, 407. Petrarca (Pétrarque), Francesco, 67, 93, 132, 230, 271, 279, 280, 317, 406. Pezzini, Serena, 358, 413. Picchi, Eugenio, 210. Picone, Michelangelo, 408. Pigna, Giovan Battista, xxviii, 268, 329, 368, 410. Pinna, Giovanna, 312, 419. Pirandello, Luigi, vii, xiv, xv, xx, xxii, xxviii, 11, 35, 36, 38, 42, 157, 163, 321, 334, 336-344, 410. Plauto, 268. Pöggeler, Otto, xxiii, 407. Polheim, Karl Konrad, 275, 419. Poliziano, Angelo Ambrogini detto il, 197, 286, 414. Pope, Alexander, xxiv. Porro, Girolamo, xvi, 364, 371, 376, 377, 380, 381, 389. Potapova, Zlata M., xxiii, 419. Poussin, Nicolas, 359, 392. Praloran, Marco, 197, 419. Prandi, Dino, 369, 412. Pratina, 268. Praz, Mario, xxiii, 419. Preisendanz, Wolfgang, xxvii, 6, 9, 10, 185, 222, 223, 232, 233, 255, 419, 420-422. Preti-Hamard, Monica, 358, 410. Procaccioli, Paolo, 345, 410. Pugliese, Maria Vittoria, 410. Pulci, Luigi, xix, 93, 107, 108, 205, 210, 265, 267, 272, 295, 339, 364. Puškin, Aleksandr Sergeevič, xxiii, 419. Quaranta, Gabriele, 411. Quendler, Christian, 9, 420. indici Quint, David, 420. Quintiliano (Quintilianus, Quintilien), 4-6, 32, 36, 80, 121, 122, 153. Rabelais, François, 53, 56, 58, 108, 111, 133, 408, 421. Rabus, Achim, 407. Racine, Jean Baptiste, 55. Raffaello Sanzio, 275, 280. Rajna, Pio, xix, 262, 340, 420. Ramat, Raffaello, xxi, xxii, 174, 405. Rampazetto, Francesco, 364. Ranalli, Ferdinando, 386, 414. Rapin, René, 55, 88. Raspe, Rudolf Erich, 188, 189, 416. Ravanelli Guidotti, Carmen, 363. Ravegnani, Giuseppe, 53, 364, 365, 369, 405. Redon, Odilon, 359. Reemtsma, Jan Philipp, 195. Régnier, Nicolas, 394. Rehder, Helmut, 172, 420. Repossi, Cesare, 43, 339, 418. Reuter, Astrid, 360, 412. Ricci, Sebastiano, 359. Richardson, Samuel, 222. Richelieu, Armand-Jean Du Plessis de, 102, 104, 126, 130. Riedel, Friedrich Justus, 247. Ritrovato, Salvatore, 268, 410. Rivoletti, Christian, xxv, 47, 62, 303, 345, 359, 407, 408, 410, 413, 414, 420, 422. Rivoletti, Daniele, viii. Rizzarelli, Giovanna, 358, 359, 412, 413. Rodini, Robert J., 405. Rodríguez de Montalvo, Garci, 199. Romagnoli, Sergio, 326, 420. Roncaglia, Aurelio, 13-17, 45, 61, 261, 420. Ronsard, Pierre de, 54. Rosen, Valeska von, 357, 420. Rosenkranz, Karl, 324-326, 420. Rossi, Massimiliano, viii, xvi, 358, 377, 386, 413. Roth, Thomas, 88, 408. Rouchès, Gabriel, 358, 411. Rovani, Giuseppe, 210. Rubens, Peter Paul, 24, 246, 247, 393; tav. 15. Rüdiger, Horst, 172, 173, 184, 193, 272, 406. Ruffinatto, Aldo, xxv, 420. Runset, Ute van, 111, 120, 420. Ruscelli, Girolamo, xvii, 92. Russo, Gloria M., 126, 420. Sacchi, Guido, 409. Saccone, Edoardo, 197, 420. Sadoleto, Iacopo, xvii. Saint-Aubin, Gabriel de, 400; tav. 17. 429 Sainte-Beuve, Charles-Augustin, 57. Saint-Sorlin, Desmarets de, 149. Salmons, June, 55, 408. Samek Ludovici, Sergio, 369, 420. Sammut, Alfonso, xxiii, 420. Sangirardi, Giuseppe, viii, xix, 12, 56, 420. Santini, Umberto, 413. Santoro, Mario, xix, 420. Sapegno, Natalino, 318, 327, 409. Sarigu, Federica, 376, 413. Savarese, Gennaro, 325, 358, 409, 413, 420. Savinio, Alberto, 359. Saxl, Fritz, 44, 419. Sberlati, Francesco, xv, 358, 413, 420. Scaglione, Aldo, xxiv, 416. Scarron, Paul, 91, 92, 108. Scharold, Irmgard, 421. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, vii, xxi, 23, 25, 26, 155, 190, 212, 260, 263, 270, 272, 297, 301, 304-308, 310, 311, 313, 315-319, 326, 329, 331, 336, 407, 421. Schelling, Karl Friedrich August, 297, 407. Schiller, Friedrich, vi, xxi, xxvii, 14, 86, 99, 109, 110, 179, 190, 191, 193, 200, 255, 257-263, 269, 296, 297, 304-306, 309, 326, 407, 415, 417, 418. Schlagdenhauffen, Alfred, 270, 421. Schlegel, August Wilhelm, 173, 193, 255, 270, 271, 273, 291, 326, 407. Schlegel, Friedrich, vii, xxi, xxii, xxiv, xxvii, xxviii, 3, 5, 6, 8-11, 19, 21, 22, 25, 26, 29, 32, 45, 48, 49, 64, 86, 87, 89, 90, 92, 95, 110, 121, 178, 179, 187, 190, 201, 233, 254, 255, 260, 263-270, 272-308, 310, 313, 315-317, 319, 320, 323, 325-328, 332, 333, 336-339, 345-347, 360, 407, 414-417, 419, 421, 422. Schleier, Erich, 389, 416. Schmit, (Johann Christoph) Friedrich, 266. Schneider, Johanna, 172, 421. Schneider, Ulrike, 417. Schroder, Anne L., 398, 421. Segre, Cesare, viii, xix, 421. Seiffert, Hans-Werner, 186, 407. Sengle, Friedrich, 180, 182, 184, 185, 191, 254, 421. Sévigné, Madame de, 55. Seznec, Jean, 365, 398, 404, 411. Shakespeare, William, xxi, xxvii, 5, 96, 109, 186, 187, 193, 212, 254, 258, 272, 277, 278, 281, 282, 295, 324, 334, 409, 418. Siegfried, Susan L., 411. Sismondi, Jean Charles Léonard de, xxii. Solger, Karl, 9, 320. Sorel, Agnès, signora di Fromenteau e di Beauté, 400. indici 430 Spenser, Edmund, xxiv, 14, 176, 188, 189, 191, 254. Spinelli, Riccardo, xvi, 377, 386, 413. Spitzer, Leo, xxiv, 421. Stackelberg, Jürgen von, 110-112, 421. Staël, Madame de, xxii. Staehelin, Martin, 417. Stahl, Karl-Heinz, 221, 421. Starobinski, Jean, 63, 421. Steffen, Hans, 255, 419. Steiner, Uwe, 414. Stella, Angelo, 43, 339, 418. Stempel, Wolf-Dieter, 6, 32, 421. Stendhal, pseud. di Henri Beyle, 50, 285, 346. Sterne, Laurence, xxiv, xxvii, xxviii, 3, 9, 11, 21, 42, 49, 183, 185-187, 205, 206, 222, 233, 258, 278, 279, 281, 283, 298, 399. Stetten, Paul von, 189. Stevenson, Robert Louis, 349. Stieglitz, Christian Ludwig, 275, 280. Stierle, Karlheinz, viii, xxii, xxv, 10, 15-19, 62, 63, 74, 114, 120, 212, 270, 292, 313, 350, 406, 407, 421, 422. Stillers, Rainer, 62, 303, 413, 420. Stoppelli, Pasquale, 210. Streckfuß, Karl, 192. Strohschneider-Kohrs, Ingrid, 9, 250, 303, 422. Sulzer, Johann George, 268, 407. Swift, Jonathan, 281. Szondi, Peter, 9, 422. Tasso, Bernardo, 199. Tasso, Torquato, xv, xvi, 38, 39, 86-88, 93, 104, 107, 108, 173, 174, 176, 184, 191-193, 240, 247, 258, 265, 272, 279, 280, 295, 358, 360, 377, 386, 405, 406-409, 412, 413, 418, 420422. Taviani, Ferdinando, xiv, 337, 410. Tempestini, Anchise, 358, 412. Terenzio, 139. Tesauro, Emanuele, 306, 410. Tieck, Johann Ludwig, xxi, 250, 254, 255, 270, 336, 337. Tiepolo, Giovanni Battista, 359, 413. Timm, Joachim, 57, 422. Tiseo, Nidalmo pseud. di Niccolò Forteguerri, 266. Tiziano (Vecellio), 247, 248. Todorov, Tzvetan, 14, 15, 422. Toldo, Pietro, 88, 408. Tomaševskij, Boris, 15. Tommaso, santo, 121. Topazio, Virgil W., 111, 422. Toppan, Bruno, 409. Torre, Andrea, 359, 412. Torti, Luigi (Alvise de), 365. Traninger, Anita, 417. Tressan, comte de, 398. Tribolet, Hans, 184, 185, 192, 240, 247, 407. Triolo, Julia, 363, 413. Trissino, Gian Giorgio, 88, 108. Trousson, Raymond, 102, 418. Trowbridge, Hoyt, 177, 417. Tsien, Jennifer, 112, 117, 148, 422. Tyard, Pontus de, 54. Ueding, Gert, 2, 414. Ullmann, Richard, 253, 422. Urrea, Jerónimo de, 53. Ussieux, Louis d’, 398, 399. Vaccaro, Nicola, 179. Valéry, Paul, 57. Valgrisi, Vincenzo, vii, xvii, 28, 363, 364, 369371, 372 fig., 374, 375 fig., 376, 377, 380382, 389, 412, 413; tavv. 1, 2, 4, 5, 10. Valvassori, Giovanni Andrea detto Guadagnino, 367 fig., 368-370, 389, 412. Varisco, Giovanni, xvii, 364, 409. Venturi, Gianni, xviii, 358, 409, 410. Vercruysse, Jeroom, 88, 95, 102, 109, 112, 132, 409. Verga, Giovanni, 50. Vietta, Silvio, 420. Villars, Nicolas de Montfaucon abbé de, 246. Virgilio (Vergil), 34, 88, 189, 191, 304, 420. Vischer, Theodor, 324, 350. Vollhardt, Friedrich, 172, 388, 406. Voltaire, François-Marie Arouet detto, vi, xviii, xxvi, xxvii, 12, 23, 24, 27-29, 31-33, 36, 37, 42, 54, 57, 64, 67, 72, 74, 75, 79, 84, 85, 87-96, 98-115, 117-127, 129-135, 137-143, 145-160, 162-169, 171, 173-175, 189, 241, 246, 266, 269, 286, 342, 362, 398-400, 403, 408, 409, 414-416, 418-422; tav. 17. Voltan, Anna M., 358, 413. Vouet, Simon, 394; tav. 16. Wagnière, Jean Louis, 85, 418. Walzel, Oskar, 250, 264, 422. Warning, Rainer, 6, 10, 421, 422. Warton, Thomas, 174, 252, 253. Watteau, Jean-Antoine, 184. Waugh, Patricia, 11, 422. Weinberg, Bernard, xv, 422. Weinrich, Harald, 10, 422. Wellek, René, 422. Werder, Diederich von dem, 53, 67, 68, 192, 406, 407. indici 431 Werthes, Friedrich, 192. Wieland, Christoph Martin, vi, xxi, xxiv, xxvi, xxvii, 9, 12, 17, 23, 24, 27-29, 34, 36, 42, 49, 79, 90, 91, 109, 110, 149, 154, 156, 159162, 171, 172, 179-187, 189-199, 201, 202, 204-207, 209, 212-216, 219-224, 226-242, 245-252, 254, 255, 260, 264-266, 268, 269, 272, 280, 283, 284, 286, 307, 360, 406, 407, 416, 419-421. Wiesner, Wolfgang, 184, 406. Williams, Eunice, 398, 422. Wilson, Timothy Hugh, 363, 413. Wink, Joachim, 125, 422. Witkowski, Georg, 407. Wolff, Christian, 221. Wordsworth, Christopher, 236. Zambon, Francesco, 407, 408, 410. Zampese, Cristina, ix, 359, 413. Zappa, Giorgio, 326, 422. Zatti, Sergio, viii, ix, xv, xix, 26, 27, 35, 39, 68, 144, 402, 413, 422. Zeusi, 247. Ziche, Paul, 304, 421. Zimmermann, Johann Georg, 186, 192. Zola, Émile, 50. Zoppino, Nicolò di Aristotile de’ Rossi detto, 364, 365, 371, 373 fig., 381, 389; tav. 11. ii. indice dei personaggi* Achille (Achill), 118, 205, 368. Agathon, 241. Agnès Sorel, 156, 158. Agricane, 67, 68. Alcina (Alcine), 36, 37, 73, 74, 7677, 150,151, 153, 172, 180, 190, 213, 219, 225, 240, 246, 247, 306, 342, 358, 412. Amadis, 202, 203, 214, 240, 241, 249. Amalia, 270, 278. Amanda, 187. Amandus, 187. Amore, 119, 166, 229, 302, 303, 400, 401; tavv. 18, 20. Amore, 2, 132, 205, 230, 239, 392, 393, 400. Andrea, 270, 282. Andronica, 342. Anfitrite (Amphitrite), 246, 247. Angelica (Angelika), vii, ix-xiii, xix, 7, 16, 36, 37, 39, 40, 106, 119, 157, 161-164, 191, 195, 196, 202, 203, 207, 211, 213, 228, 229, 247, 258, 259, 262, 302, 303, 331, 340, 349, 358, 359, 363, 368, 370, 371, 374, 376, 380, 382-395, 401, 403, 404, 411-413, 420; tavv. 6, 8, 9, 12, 13, 15, 22, 23. Anselme, 77-79, 82. Anselmo (Anselm), 56, 191, 242. Antonio, 270, 278, 279, 281. Apollo, 2. Argalia, xi, 341, 368, 369, 370, 377. Argia, 83, 152, 242. Argie, 82, 83. Ariel, 1, 5. Ariodante, 93, 135. Astolfo (Astolphe), paladino, xix, 37, 108, 123, 124, 143, 151, 160, 168, 208, 210, 213, 349, 416, 420. Astolfo, re dei Longobardi, 56, 63, 70, 71-73, 87. Astolphe, 69, 71, 73-76. Atis, 77. Atlante, 37, 81 fig., 82, 106, 117, 149, 150, 152, 153, 180, 202, 240, 243, 306, 345, 402-404. Babekan, 212. Baiardo (Bajardo), x, 340, 374, 376, 380. Bambo, scià, 199, 202, 207, 209, 211, 226, 248. Bellona, 225. Bonifoux, 152. Bonneau, 152. Bradamante, xvi, 82, 162, 180, 181, 195, 196, 208, 214, 368, 374, 404. Brandimarte, 61, 105, 207, 231. Caliste, 59, 77. Camilla, 270. Carlino di Fratta, 348. Carlo Magno, ix, 198, 331, 371, 377. Carlo Magno, 212. Chandos, Jean, 116, 161, 162. Charles vii, 105, 116, 118, 129, 147, 152, 156, 158. * I personaggi dell’Orlando furioso sono in corsivo. Le figure storiche (come Carlo Magno, Ippolito d’Este ecc.) sono registrate in questo indice esclusivamente quando compaiono nelle opere in veste di personaggi di finzione; sono state invece incluse nell’indice dei nomi in tutti quei casi in cui vengono menzionate come persone reali. indici 432 Chisciotte, don, xxiv, xxv, 24, 219, 343, 344. Cide Hamete Benengeli, xxiv. Cloridano, 119, 198, 302. Comus (Komus), 217, 218. Cristoforo, padre (Lodovico), 42, 43. Cugino, 348, 351. Cupido, 393; tav. 14. Cutendre, 106, 143, 144. Damon, 56, 59, 60, 76, 77, 237. Dejanira, 229, 230, 232, 250. Denis, saint, 105, 125-127, 142, 147, 148, 156, 157, 160, 168. Diana, 2. Dicilla, 342. Dindonette, 202, 249. Diomede (Diomed), 258-260. Don Boreas, 209, 215, 249. Don Gabriel, 220. Don Sylvio von Rosalva, 219-221, 241. Doralice, 41, 225. Dorothée, 105, 106, 112, 115-118, 128-135, 137, 138, 142, 143, 152. Dritto, 352, 353, 355. Dunois, 105, 106, 112, 113, 116, 128-131, 133, 134, 142, 147, 150, 152, 161. Eco, 390. Enea, 368. Eraste, 77. Eremita, 213, 380, 381, 393; tav. 15. Erifilla, 342. Ettore (Hector), 114, 115, 118, 368. Eufrosine, 2. Favori, 82, 83. Felicia, 219. Ferafis, 240. Ferraù (Ferrau, Ferraguto), x-xiv, 7, 23, 39, 40, 157, 158, 163, 164, 258, 259, 262, 340, 341, 344, 350, 366, 368-370, 377, 380. Fiordiligi, 61, 105, 207, 231, 263. Francesca, 131. Fronesia, 342. Gabalis, 24, 246. Gabriel (Gabriele, arcangelo), 148, 149. Gabrina, 7, 69, 208, 331. Gargantua, 108, 133. George, saint, 148. Ginevra, 93, 106, 129, 134, 135. Ginevra, 108. Giocondo Latini, 56, 63, 69-73, 87. Giovanni, evangelista (saint Jean), 108, 123, 124, 126, 160, 168, 210. Giove, 218, 392. Giunone, 218. Glauco (Glaukus), 258, 259. Grazie, 2. Grifone (Gryphon), 190. Grisbourdon, 144, 158, 164, 165. Hermaphrodix, 106, 112, 117, 150-153, 403. Hippogryph, hippogriffe, vedi Ippogrifo Hüon, 212, 227, 228, 243-245, 248. Idris, 194, 204, 205, 209, 216, 224, 232, 234, 239, 241, 248, 250, 251. Inaco, 34. Ippogrifo, 34, 35, 37, 38, 59, 60, 82, 128, 148, 160, 180, 234, 237, 245, 254, 341, 355, 383385, 387, 389, 395. Ippolito, 295, 400; tav. 19. Ironia, 1, 2. Isabella, 208, 235, 330, 331, 380, 381. Itiphall, 195, 196, 205, 234, 239, 247, 248. Jean, saint, 168. Jeanne, 105, 107, 112, 113, 121, 125, 126, 128, 141, 142, 143, 147, 148, 150, 152,155, 157, 158-160, 162, 164, 165. Jim Hawkins, 349. Joconde, 69, 71, 73, 74, 76. Karamell, 215. Kaschemire, 229-232, 250. Kolifischon, 202, 203, 214, 226, 240. Lancillotto, 108. La Trimouille, 105, 115-118, 129-132, 135, 142, 143, 152. Leone, 134, 403. Leoparde, 202, 211, 213, 242. Lila, 251. Logistilla, 342. Lothario, 270. Lucia, 339. Ludoviko, 270, 277. Mancino, 355. Mandricardo, 41, 67, 68, 71, 225, 416. Manto, 76-79, 150, 152. Marcus, 270. Marfisa, xvi, 7, 225. Marsilio, re di Spagna, xi. Margutte, 107, 108, 267. Marte, 225. Medoro (Medor), 37, 106, 119, 192, 198, 199, 207, 211, 239, 245, 263, 302, 343, 382. Melissa (Melisse), 37, 59, 76, 190, 198, 342, 404. indici Monrose, 106, 161. Moulineau, 202, 249. Muse, 2, 202, 216, 234, 268. Namo di Baviera, 371. Narciso, 309. Nérie, 59, 76, 77. Nettuno, 247. Oberon, 243, 245. Olimpia, 106, 129, 134, 247. Orlando (Roland), xii-xiv, 16, 17, 30, 31, 37, 67, 68, 96, 97, 105, 106, 129, 134, 140, 155, 162, 166-168, 184, 192, 207, 208, 217, 219, 229, 235, 239, 248, 298, 327, 331, 360, 376, 380-382, 402, 403; tavv. 4, 5, 22, 23. Orrigille (Orrille), 191. Palamedès, 262. Pan, 392; tav. 14. Pantagruel, 133. Paolo, 131. Parasol, 202, 203, 214, 226, 227, 249. Pedrillo, 219. Pegaso (Pégase), 148, 160. Pelle, 351, 353. Perseo, 34. Pierre, saint, 148, 149. Pin, 348, 349, 351-355. Pinabello, 208, 242. Pococurante, 93. Polinesso, 134, 219. Renzo, 339. Rezia, 187, 212, 227, 244. Rigolet, frère, 122, 124. Rinaldo (Reinhold, Rinald), x, xii-xiv, 7, 39, 40, 56, 106, 134, 157, 158, 162, 163, 180, 181, 433 184, 191, 192, 207, 242, 245, 258, 259, 262, 331, 340, 344, 350, 366, 368, 370, 371, 374, 377, 380, 401. Rodomonte, xvii, 41, 56, 225, 306, 368, 380, 381. Rodrigo, don, 339. Ruggiero, vii, 34, 36, 37, 41, 71, 73, 74, 76, 77, 82, 134, 151, 153, 161, 162, 180, 181, 198, 219, 225, 240, 358, 368, 383-391, 393-395, 402, 412; tavv. 6, 8, 9, 12, 13. Sacripante (Sakripant), 40, 162, 181, 192, 195, 196, 214, 228, 229, 231, 330, 340, 368, 370, 371, 374, 375 fig., 376, 380. Sacrogorgon, 128, 133, 134. Satan, 149. Schatulliöse, 202, 209, 213, 215. Scherasmin, 243, 244, 248. Sofrosina, 342. Spaccafumo, 348. Tempo, 210. Tirconel, 105, 115-118. Titania, 212. Tristan, 262. Tristram, 206. Tritême (Tritemio), 24, 67, 72, 106,141, 142, 144-146, 246. Turno, 368. Turpino (Turpin), xxiv, xxv, 3, 7, 17, 20, 23, 24, 35, 55, 65-72, 106, 145, 146, 225, 246. Venere, 392, 393; tav. 14. Vesta, 245. Zenide, 204, 248. Zerbin, 216, 229-231, 250, 251. Zerbino (Zerbin), xvi, 7, 162, 191, 198, 208, 330, 331, 381. Stampato da Logo s.r.l., Borgoricco (Padova) per conto di Marsilio Editori® in Venezia Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% del volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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