Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

migrazioni

Un giorno ho dovuto lasciare indietro quello che avevo, anche le mie amiche e allora pensavo che avevo lasciato la mia mente, i miei sentimenti, proprio tutto quello che avevo e che mi era rimasto solo un cuore rovinato da qualche parte. Serife Tasci, 17 anni, immigrata turca in Italia Premessa La premessa che segue vale a chiarire la valenza educativa del lavoro che segue, nell’ambito della programmazione didattica dell’insegnamento della storia contemporanea nel triennio della scuola superiore. La scelta del tema, oltre che dal rinnovato interesse incontrato (e testimoniato dalle numerose iniziative in proposito) è motivata dalla possibilità di individuare un legame “forte” tra l’oggetto e i destinatari del lavoro. In un momento delicato qual è quello del passaggio all’età adulta, la riflessione sulla precarietà di vita del migrante può essere assimilata a quella sul “rito di passaggio”, così gli antropologi definiscono l’esperienza del superamento del “margine”, la terra di nessuno che nelle società primitive sancisce l’approdo ad una nuova fase della vita e il definitivo abbandono della precedente A. Van Gennep, I riti di passaggio, Torino, 2002. Per questo, proprio per la possibilità di riconoscersi in una situazione che per definizione sentono come “familiare”, i ragazzi potranno idealmente identificarsi nella condizione dei senzapatria, costretti a fare i conti con una realtà ostile nei loro confronti, ma carica al contempo di promesse. Nel Paese che lo ospita, e che spesso non ne gradisce la presenza, il migrante vive la condizione dell’altro per definizione, l’estraneo cui si è soliti attribuire la responsabilità di ogni rovescio che si abbatte sulla comunità tradizionalmente costituita Abdelmalek Sayed, La doppia assenza, Milano, 2002. Per questo avverte come necessità prioritaria la costruzione di un’identità che sia nuova per sè e insieme condivisa dall’ambiente in cui ha deciso di trasferirsi e che, a sua volta, dall’ospite si aspetta innanzitutto il rispetto delle convenzioni che secolarmente si è dato. D’altro canto la realtà ospitante riceve dal nuovo venuto una sollecitazione alla novità che può contribuirla a vivificarla, a darle nuova linfa, in una parola ad arricchirla umanamente e culturalmente. Dal compromesso può nascere l’integrazione, foriera di sollecitazioni creative, là dove sia vissuta positivamente. Ma il conflitto è in agguato, costituisce una forte tentazione per entrambe le parti e la “guerra dei mondi” trionfa là dove l’irrazionalità prevalga sull’accordo che è invece il risultato di un’attenta selezione delle scelte. La condizione del migrante riporta per molti aspetti a quella dell’adolescente, alle prese con una difficile costruzione del sé in un mondo solo apparentemente amico, nella realtà spesso ostile alle sue aspirazioni e speranze. Anche il/la ragazzo/a vive la condizione dell’altro/a rispetto all’adulto che lo vorrebbe da subito obbediente e capace di scelte coerenti rispetto alla vita che si è dato. E nel momento in cui è impegnata/o nella difficile costruzione di un altro io, chiamato a rinascere sulle “rovine” dell’infanzia, decodificare con attenzione il mondo interno ed esterno a sé costituisce una tappa importante della sua affermazione come persona nuova. Quello cui è chiamata/o non è tuttavia un cammino rassicurante, la ricerca dell’altro non assomiglia infatti più alla scoperta del bambino che guarda al mondo con la mediazione di chi gli sta accanto, si configura semmai come un’esplorazione autonoma. Può concludersi con il rifiuto di crescere, ma generalmente dischiude le meraviglie che stanno oltre il “cancelletto” chiuso dell’infanzia, per usare la metafora della Linea d’ombra conradiana J. Conrad, La linea d’ombra, Torino, 1998. Allo stesso modo la speranza di una nuova vita, che è l’obiettivo del migrante, si concretizza nell’”altra” vita che egli alfine riesce a costruirsi nella terra presso cui è approdato, qualora non decida di tornare alla vecchia vita, quella che ha lasciato. Dando per scontato che, anche se si conclude con un ritorno, l’esperienza del trasferimento lo ha inevitabilmente cambiato: anche quando rientrano i migranti non sono più gli stessi e si trovano nella necessità di dover fare i conti con gli “altri”, quelli che sono rimasti. L’esperienza esterna (nel caso del giovane le incursioni sempre più convinte nel mondo degli adulti) genera il confronto e da quest’ultimo scaturisce nuova esperienza, in un processo di formazione continuo. Osservò Ugo di San Vittore nel XII secolo: “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”. Il presente lavoro nasce quale approfondimento del corso Arrivi e partenze. La fatica dei migranti, tenuto presso l’Istituto Liceale “Teresa Ciceri” di Como nell’anno scolastico 2004-2005. In collaborazione con la docente di Scienze Sociali, che si è occupata di illustrare le dinamiche delle migrazioni oggi, quale insegnante di storia ho affrontato la vicenda delle migrazioni italiane dall’Unificazione agli anni ’70 del secolo scorso. Gli studenti e le docenti ne hanno ricavato la possibilità di un’indagine comparativa che ha evidenziato sorprendenti analogie tra ieri e oggi, pur nella consapevolezza del divenire storico. L’analisi che segue non ha la pretesa di essere esaustiva, l’argomento è vasto e per alcuni aspetti inesplorato, la ricostruzione storiografica esistente conserva a tratti le caratteristiche della frammentarietà, è d’altra parte viva la sollecitazione a comprendere un fenomeno che, più è oggetto di riflessione, più assume caratteristiche poliedriche e complesse. Di particolare interesse è risultata la propensione degli studenti a ripercorre le proprie vicende familiari che non raramente, nel corso delle generazioni, sono interessate al fenomeno migratorio. I passaggi di Italiani, in dettaglio segnalati dal sito del Museo dell’emigrazione di Ellis Island www.newyorkpass.com/ellis-island, semplicemente digitando il proprio cognome, attestano la consistenza dell’esodo italiano e concorrono alla definizione di una storia individuale e insieme collettiva che la memoria, anche scolastica, ha il dovere di disseppellire. Qualcun altro avrebbe parlato di “radici”… Non fa parte del mio vocabolario. La parola “radici” non mi piace, e ancora meno amo l’immagine che evoca. Le radici affondano nel suolo, si contorcono nel fango e si sviluppano nelle tenebre. Trattengono l’albero prigioniero da quando nasce e lo nutrono in virtù di un ricatto: “Se ti liberi, muori.” Gli alberi si devono rassegnare, hanno bisogno delle radici: gli uomini, no. Noi respiriamo la luce, aspiriamo al cielo e, quando veniamo ficcati sotto terra, è per marcire. La linfa del suolo natale non risale dai piedi alla testa; i piedi servono solo per camminare. A noi importa solamente delle strade: sono le strade che ci guidano – dalla povertà alla ricchezza, oppure a un’altra povertà; dalla schiavitù alla libertà, o alla morte violenta. Promettono, ci portano, ci spingono, poi ci abbandonano. E allora stramazziamo morti, come siamo nati, sul ciglio di una strada che non abbiamo scelto. Da Amin Maalouf, Origini, 2004, Bompiani, Traduzione di E. Volterrani. Ognuno ebbe la sua ragione di emigrare (…) Incessante è il via vai del genere umano: ogni giorno qualcosa muta in un mondo così vasto, si gettano le fondamenta di città nuove, nuove genti si affacciano alla storia cancellando o incorporando le precedenti. Tutte queste trasmigrazioni di popoli che altro sono se non esili collettivi? Da Seneca, Consolatio ad Helviam matrem, VII, 5 - Traduzione di A. Traina Introduzione Esilio è parola che significa sofferenza, forzato abbandono di ciò che non si voleva lasciare, una patria dove si sarebbe voluto vivere e dalla quale si è stati forzatamente allontanati. Davvero le migrazioni sono da intendersi come un esilio? “L’esilio altro non è che un semplice trasferimento di luogo”, osservava Seneca nel tentativo di consolare della sua assenza la madre lontana. Ciò non toglie tuttavia che la decisione, spesso subita, di abbandonare ciò che è noto per ciò che non lo è sia difficile. Infatti il migrante la fa propria dopo aver valutato attentamente le possibilità di sopravvivere in una patria che, nella maggior parte dei casi, è diventata per lui insopportabile. Numerosi sono i motivi che hanno spinto uomini e donne a cambiare di sede, a cercare altrove fortuna, la speranza dell’arricchimento innanzi tutto, ma anche il desiderio di vivere in contesti liberi, favorevoli all’espressione di personalità vivaci, generalmente schiacciate dal conformismo delle regole dettate dalle tradizioni locali. Per questo i primi a partire sono e furono i giovani, meglio “spendibili” sul mercato del lavoro e audaci nel coltivare speranze che le dure condizioni di vita nei paesi accoglienti rischiano in breve tempo di cancellare. Ci sono elementi di continuità tra l’emigrazione di un tempo e quella di oggi, come nello stato d’animo del migrante, vittima di una condizione di “doppia assenza” che lo fa sentire lontano dal paese di partenza ed estraneo in quello d’arrivo. È la condizione dei senzapatria, caratterizzata da una precarietà assoluta. Quest’ultima può finire con l’acquisizione di una nuova identità, ma anche con la rivalutazione dell’identità vecchia, quella cui si è voltato le spalle, ma verso la quale si decide di tornare per senso di solidarietà con i propri connazionali all’estero o per semplice nostalgia delle proprie radici. Più semplicemente per recuperare in modo nuovo l’identità perduta. Indagare su questa complessità, rintracciando nella storia degli Italiani migranti elementi di parentela con gli immigrati che oggi raggiungono o hanno raggiunto il nostro Paese, è lo scopo di questo lavoro. Le caratteristiche del fenomeno “migrazioni” saranno considerate a partire dal XIX secolo, il momento storico nel quale esso assunse dimensioni planetarie, da “grande esodo”, coinvolgendo milioni di persone. All’analisi storica si affiancherà il tentativo di osservare con attenzione la mentalità del migrante e di chi è rimasto a casa con l’intento di chiarire come un fatto di così grande portata abbia contribuito a modificare l’immaginario di quelli che scelsero di partire per ritornare o per costruirsi, altrove, definitivamente una nuova vita. Nè si trascureranno i contributi che l’emigrazione italiana ha offerto alle modificazioni strutturali del nostro Paese che, in tempi rapidi, si è trasformato da terra di agricoltori in potenza industriale. Oggetto di grande interesse da parte della divulgazione giornalistica G. A. Stella, L’orda, Milano, 2002 e della letteratura M. Mazzucco, Vita, Milano, 2003, l’emigrazione sembra oggi essere tornata un argomento di cui parlare, dopo che per anni fu vissuta come una vergogna, una ferita da rimuovere o della quale era meglio tacere. Indagarne le cause e valutarne gli impatti nei Paesi interessati come nei cuori e nelle menti dei protagonisti significa, a nostro parere, recuperare un “pezzo” di una storia in larga misura dimenticata. I numeri e le destinazioni “Nel 1973, per la prima volta dopo l’Unificazione politica italiana il rapporto tra partenze e arrivi in Italia è diventato attivo rispetto agli altri Stati europei. Dopo appena due anni questo saldo migratorio è risultato attivo anche nei confronti dei Paesi extraeuropei. Si è chiuso allora un ciclo più che secolare” P.Audenino, P.Corti, L’emigrazione italiana, Milano, 2000.. Il numero degli espatriati dall’Italia tra il 1861 e il 1976 è davvero consistente: circa ventiquattro milioni di persone su una popolazione che nel 1901 sfiora i trentatre milioni. Sarebbe sbagliato tuttavia considerare questa cifra come una perdita netta di popolazione, infatti i ritorni furono altrettanto massicci. Il fenomeno dei rimpatri deve essere considerato d’altra parte come una delle tante anomalie dell’emigrazione italiana, un’esperienza diversa, sotto questo aspetto, da quella contemporanea di altre nazioni europee. Un’altra caratteristica fu, negli anni considerati, il suo andamento a parabola con il picco più elevato raggiunto nel decennio 1901-1910, quando fu sfiorata la cifra media di 603.000 espatri per anno. L’emigrazione netta assorbì quote crescenti dell’incremento della popolazione italiana, anch’esso in aumento fino a raggiungere il massimo livello (41,7%) negli anni 1891-1900. Sebbene l’informazione suoni quasi come incredibile oggi, nel mondo, esistono almeno sessanta milioni di discendenti di nostri connazionali all’estero, ma la cifra è destinata a salire ulteriormente se si considera la diffusione dei cognomi di origine italiana nell’intero pianeta. Si provi a navigare nel sito del Museo dell’emigrazine di Ellis Island vedi nota 4 là dove si offre la possibilità di rintracciare i passaggi dei viaggiati diretti negli Stati Uniti e si scoprirà che vi sono segnalati moltissimi cognomi italiani originari di quasi tutte le regioni italiane. La composizione regionale di provenienza del flusso di espatri vede (anche se gradualmente) imporsi il Mezzogiorno e le zone centro-orientali della penisola ed esplicita, senza dubbio, l’esistenza di due o più Italie (la suddivisine tradizionale è quella relativa alle tre grandi aree geografiche Nord-ovest, Nord-est e Centro, Sud e Isole) nel quadro dello sviluppo economico-sociale complessivo del Paese. Per quanto riguarda poi le destinazioni, se l’Italia settentrionale dimostra una netta preferenza per l’emigrazione europea, al Sud è largamente praticata invece l’emigrazione transoceanica. Austria, Francia, Svizzera e Germania con Stati Uniti, Argentina, Brasile e Australia (quest’ultima è la destinazione di una significativa corrente migratoria solo a partire dagli anni Quaranta del ‘900) sono le mete verso cui tradizionalmente si dirigono gli Italiani in cerca di lavoro. “Posizione geografica, struttura e costo dei mezzi di trasporto devono aver giocato un ruolo importante nell’orientare le scelte regionali; spostarsi dalla Sicilia interna per raggiungere la Germania costava di più che imbarcarsi per New York (…) Certo non fu questo il solo elemento di valutazione e selezione: vi erano o si affermarono vincoli di professionalità rispetto ai vari mercati del lavoro, di combinabilità o meno tra lavori in Italia e lavori all’estero. Un altro elemento di vischiosità fu costituito dalla struttura iniziale delle correnti migratorie per luoghi di destinazione, correnti che, per crescere quantitativamente, si autoalimentavano con una sorta di catena migratoria: notizie fornite da compaesani emigrati, richiami di amici e parenti, biglietti di viaggio spediti dall’estero. Ma questa rigidità fu temperata dai pionieri che ogni zona italiana di emigrazione deve aver avuto e che riorientarono in certa misura le destinazioni della sua emigrazione al momento opportuno” da E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale, Bologna, 1979 . L’emigrazione è una “legge di natura” Quando, negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’Europa si trovò a vivere ciò che Carl Marx aveva previsto qualche decennio prima, cioè una grave crisi di sovrapproduzione, tornarono popolari, perché sembravano smentite dai fatti, anche le teorie di Robert Malthus, l’economista inglese che, alle origini della Rivoluzione industriale, aveva profetizzato l’incompatibilità tra l’andamento della popolazione e quello del mercato. Lo studioso aveva descritto l’incapacità della produzione di beni di tener dietro alla crescita demografica, invece la fine degli anni ’70 sembrava proporre il problema contrario: l’eccesso della produzione industriale era tale che la popolazione, pur accresciuta, non riusciva ad assorbirlo. Per questo motivo si riteneva necessario che la produzione capitalistica conquistasse nuovi mercati, che i prezzi delle merci si confermassero competitivi, che i salari aumentassero, consentendo ai lavoratori di disporre di un maggior potere d’acquisto. Un’altra soluzione si prospettava tuttavia come la più immediatamente percorribile: si trattava di alleggerire la pressione demografica, là dove stava creando i problemi più gravi in termini di disoccupazione, quindi di disagio sociale. In molti a quell’epoca guardarono favorevolmente all’emigrazione come ad uno strumento utile a risolvere la “questione sociale”, prevedendo che il malcontento diffuso potesse esplodere in manifestazioni di protesta simili a quelle che avevano caratterizzato il 1848, l’anno della “primavera dei popoli”. Favorire l’espatrio dei disperati in cerca di fortuna avrebbe significato alleggerire la pressione sull’offerta di lavoro, creando, soprattutto là dove la situazione era più grave, cioè nelle campagne, nuove opportunità di occupazione, se non altro temporanea. Prevalse allora la tendenza a concedere via libera a quelli che volevano andarsene, le istituzioni si sarebbero per il momento limitate ad osservare il fenomeno a distanza, assicurando un discreto “laissez faire” che equivaleva, nei fatti, a mandare allo sbaraglio, oltre confini, migliaia di figli d’Italia. “L’implicita via libera data dalla classe dirigente italiana a un’emigrazione di massa fu un’operazione di tutto e pronto risparmio, a differenza dei casi inglese e tedesco, nei quali all’emigrante fu accordata una consistente assistenza economica e sociale sia pubblica che privata” (da E. Sori, op.cit.). Le istituzioni espressero per il momento un parere negativo verso ogni ipotesi di intervento assistenziale in patria e all’estero, nella convinzione che le cose potessero riaggiustarsi da sé, che i “rimasti a casa” avrebbero tratto beneficio dalla scelta di chi invece aveva deciso di andarsene. In fondo si trattava di un travaso di forza lavoro in partenza da zone tradizionalmente depresse verso regioni bisognose di braccia e di energie. “ L’emigrazione in certi casi è una soluzione possibile di una difficoltà sociale. Quando sopra una determinata superficie, un complesso di cause antiche e recenti ha avuto per effetto di agglomerare una popolazione numericamente affatto sproporzionata alle risorse del paese, è inevitabile che una parte di questa popolazione sia ridotta alla miseria. Tali risorse possono essere non solo agricole, ma anche industriali e commerciali, imperrocchè la ricchezza agricola e commerciale può importare dai paesi agricoli le derrate prodotte in una misura insufficiente nei luoghi. Ma dove, insieme alla insufficienza delle risorse agricole, non c’è possibilità di promuovere alcun considerevole sviluppo, né industriale, né commerciale, l’emigrazione di una parte della popolazione in contrade tuttora spopolate e ricche di risorse, fino a che sul globo terracqueo esistano contrade in tali condizioni, è una legge di natura.” da S. Jacini,I risultati dell'inchiesta agraria. Relazione pubblicata negli Atti della Giunta per la Inchiesta agraria, Torino, 1976Così si legge nei Risultatti dell’inchiesta agraria condotta nel 1884 da Stefano Jacini, deputato della Destra storica, incaricato di valutare la gravità della cosiddetta “questione meridionale”. Questa era l’opinione corrente di fronte ad un fenomeno ormai di portata rilevante cui, osservava Jacini, lo Stato non poteva pensare di opporsi, ma che occorreva soltanto disciplinare. Una patria dove non si può più vivere Molti italiani avevano deciso di partire già prima della “grande depressione” che investì l’economia europea negli anni 1873-1896. L’epoca del Risorgimento nazionale era stata caratterizzata da una cospicua emigrazione politica, scelta o subita come contromisura alla politica repressiva dei governi. Ancor prima l’avanzata delle truppe napoleoniche in Italia aveva prodotto non solo iniziali entusiasmi, ma la fuga di chi, sotto la spinta dell’evoluzione degli eventi, aveva preferito lasciare la patria piuttosto che subire l’umiliazione dei nuovi dominatori. Emblematica fu a questo proposito la doppia fuga di Ugo Foscolo, da Venezia e da Milano. Inoltre movimenti consuetudinari, spesso imposti dai ritmi dell’anno agricolo, di uomini e merci caratterizzavano già da tempo, in modo non traumatico, l’Europa pre-industriale. Solo nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, le migrazioni assumono la caratteristica del fenomeno di “massa”. L’unificazione italiana, realizzata nel segno della piemontesizzazione del Paese, non ne ha risolto le contraddizioni economiche: all’industrializzazione del nord, sorretta in Parlamento dai potenti gruppi dell’industria pesante, si accompagna il declino dell’agricoltura specializzata meridionale, gravata dalle misure protezionistiche cui il governo ha deciso di ricorrere con la svolta della politica economica degli anni ’70. Ciò significa che non solo l’industria al Sud non decolla, ma che l’agricoltura locale resta dominata dalla logica dello sfruttamento feudale, indotta dalla prevalenza del latifondo sulla piccola e media proprietà della terra. Sostenuti da una forte rappresentanza parlamentare, in grado di controbilanciare gli interessi degli “industriali” del nord, i galantuomini, così erano detti i proprietari di terra meridionali, ottengono di perpetuare il sistema della rendita, con il danno conseguente dei lavoratori, condannati alla condizione di braccianti temporanei, maltrattati e malpagati. Questa situazione, senza apparente via d’uscita e per di più aggravata dalla consistenza numerica delle famiglie per cui i figli non rappresentano più una risorsa, ma un ostacolo, è da considerarsi la causa principale della decisione di partire. Se poi si considerano il carico sempre più gravoso dell’imposizione fiscale conseguente alla necessità di sanare il pesante debito pubblico nazionale, la mancanza di pubblica assistenza, l’assenza di garanzie circa il trattamento di fine lavoro e la disoccupazione delle donne, la misura della gravità della situazione appare con ancora maggiore evidenza. A chi nel 1972 gli domandava se c’erano archivi che potessero fornire una spiegazione dei motivi per i quali i siciliani partirono per l’America a cavallo del secolo, il sindaco di Racalmuto rispondeva: “ - Vuole sapere perché la gente se ne andò? Per la fame, ecco perché -. Se qualcuno insisteva sugli archivi, continuava: - Ma quali archivi? Fuggirono di qui senza rimpianti e per la maggior parte clandestinamente. Quali documenti? – Riuniva le dita come in un mazzo come a sottolineare ciò che stava per dire: - Stavano morendo di fame –.” J. Mangione, B. Morreale, La storia- Cinque secoli di esperienza italo-americana, 1992, Torino Ci si chiede se solo al Sud si manifestino tali difficoltà, aggravate, ma non innescate dal calo dei prezzi dei prodotti agricoli conseguente alla accresciuta produzione e circolazione internazionale delle merci di provenienza oltreoceanica. La risposta è negativa: altre zone tradizionalmente depresse, come le valli montane alpine o il Veneto avvertono acutamente il disagio. Di lì in molti partono alla ricerca di fortuna, come dalle regioni meridionali, ma per ragioni di vicinanza geografica le mete verso le quali sono diretti in qualche caso divergono: non affascina il Nuovo Mondo, quanto piuttosto le città industriali del centro e del nord Europa dove le fabbriche e le miniere offrono lavoro a manodopera straniera generica. Dunque si parte per sfuggire a un destino di miseria che sembra già scritto, cui sembra non potersi sottrarre, per assicurare a chi rimane la possibilità di una vita diversa, perché non ci si sente parte di uno Stato che non si occupa dell’assistenza ai bisognosi, che è per di più sentito come complice dei galantuomini che opprimono la povera gente, perché c’è bisogno di una svolta per continuare a sperare, perché pare impraticabile la strada della ribellione, duramente repressa nella lotta contro il brigantaggio, perché, infine, si va con l’idea di emanciparsi, di tornare diversi da quelli che si è stati fin qui. Box La causa delle cause In genere, tanto i contemporanei, quanto le prime ricognizioni storiografiche che si sono poste “il problema delle cause”, hanno soprattutto enfatizzato le ragioni di disagio sociale che si acutizzarono nell’ultimo ventennio del XIX secolo. La causa delle cause, com’è noto, è stata individuata nella crisi agraria che colpì le campagne italiane ed europee per effetto del brusco e prolungato abbassamento dei prezzi del grano. (…) La crescita della popolazione inoltre – passata da poco meno di 18 milioni nel 1801 a poco più di 32 milioni nel 1901 – avrebbe reso sempre più insostenibile il peso delle famiglie sulla terra e accelerato quindi la fuga all’estero. (…) Com’è ormai abbastanza noto, l’emigrazione italiana è solo un frammento del grandioso flusso di trasferimenti, soprattutto verso i Paesi dell’America latina e degli Stati Uniti, che andò montando da metà Ottocento dalle campagne d’Europa. Emigrazione prevalentemente rurale e soprattutto contadina, essa ebbe un simbolo drammatico di avvio alla fine degli anni Quaranta: l’esodo in massa della popolazione irlandese colpita da una devastante carestia per il fallimento ripetuto dei raccolti di patate. Da P. Bevilacqua - Società rurale ed emigrazione – in Storia dell’emigrazione italiana – Donzelli, Roma, 2004 Il fallimento dei moti dei Fasci dei lavoratori siciliani Se la ricostruzione del quadro storico entro cui si riconosce l’emigrazione italiana non può prescindere da considerazioni generali relative allo stato dell’economia europea nell’ultimo quarto del XIX secolo, un momento specifico della storia del nostro Sud funzionò per così dire da acceleratore di un processo verso cui altri fattori convergevano. Si tratta del fallimento, e della violenta repressione che lo seguì, del moto di protesta dei Fasci dei lavoratori siciliani. Gli anni ’70 sono tra i più problematici per l’economia dell’isola, che aveva tratto fin qui grandi guadagni dall’attività dell’estrazione e del commercio dello zolfo. In questo periodo infatti lo zolfo scoperto nel Texas invade i mercati europei a prezzi decisamente concorrenziali. Tecniche estrattive moderne consentono di battere la produzione siciliana nei costi e nelle quantità, ciò non è da stimolo tuttavia al miglioramento delle condizioni di lavoro nelle zolfare isolane, dove si continua a fare affidamento sui metodi più primitivi per l’estrazione del minerale. Si consideri a questo proposito che i minatori, organizzati in squadre di picconieri e carusi, percorrevano a piedi 40/50 volte al giorno il tragitto verso la superficie e il luogo d’estrazione, carichi di più di trenta chili, quando all’estero sistemi di carrelli elevatori dimezzavano i tempi e le fatiche del trasporto. Nel quadro dunque di uno sfruttamento disumano che la narrativa ha reso celebre (si pensi alle novelle Rosso Malpelo e Ciaula scopre la luna, rispettivamente di Giovanni Verga e di Luigi Pirandello), il movimento dei Fasci divenne il catalizzatore dello scontento dei lavoratori siciliani da tempo, peraltro, organizzati in Società di mutuo soccorso le cui richieste erano andate cronicamente disattese. La forza del movimento raggiunse il suo culmine alla fine degli anni ’80 quando agricoltori e addetti al lavoro nelle zolfare si unirono a migliaia per far sentire la loro voce, dapprima con forme di protesta locale, poi con uno sciopero generale. La riuscita dell’iniziativa, se consentì ai lavoratori di contarsi e di percepire per la prima volta in modo chiaro la propria forza, fu tuttavia anche la causa della rovina successiva del movimento. Da un lato infatti la protesta ben presto sfuggì di mano agli organizzatori del movimento, degenerando in molte località in atti di aggressione incontrollata, dall’altro la portata dello sciopero generò grande ansia nel ceto dei proprietari terrieri che, preoccupati per il dilagare del fenomeno, invocarono a gran voce severe misure repressive. Non cedette al ricatto Giovanni Giolitti, allora a capo del Governo: la sua decisione di inviare truppe in Sicilia per riportare la quiete pubblica ove fosse minacciata si accompagnò infatti all’ordine di non usare le armi se non in casi estremi e non comportò lo scioglimento dei Fasci. Decisamente diverso fu invece l’orientamento del suo successore Francesco Crispi che, cedendo alle richieste dei baroni, dichiarò lo stato d’assedio nell’isola, lo scioglimento dei Fasci e l’arresto sistematico di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, erano considerati legati al movimento. Diritti costituzionali come la libertà di stampa e di associazione furono allora sospesi, mentre si procedeva ad epurazioni e deportazioni di massa. Alcuni dei leaders della protesta furono catturati durante il tentativo di fuga verso l’America, sono da considerarsi i precursori di quella massiccia emigrazione giovanile che si accompagnò in Sicilia alla constatazione del fallimento della rivoluzione sociale. Quelli che partono Si tratta ora di delineare il ritratto del migrante-tipo, del tipo umano dell’audace che, quando ancora l’emigrazione non è un fenomeno per così dire di moda, decide di lasciare la terra natale per tentare la fortuna altrove. Ci sorreggono a questo proposito le molte lettere di migranti, che testimoniano in modo inequivocabile l’ingenuità di chi spesso si lasciava convincere dalle voci provenienti dalle terre ospiti. Raramente infatti il migrante, una volta arrivato a destinazione, forniva ai parenti rimasti a casa una descrizione realistica della sua nuova situazione: per non ammettere la delusione e incoraggiare i familiari a credere nell’impresa, talvolta indotto dalle difficoltà oggettive della comunicazione a distanza, egli finiva col descrivere il Paese accogliente come un “eldorado” in cui aveva trovato calore umano e fortuna. Sappiamo come la realtà fosse ben diversa, ma comprendiamo anche la facilità con la quale i già propensi a partire si lasciavano convincere. In definitiva le parole che arrivavano da oltreoceano non facevano che rinforzare la motivazione a conferma di una decisione già presa. L’avanguardia dell’emigrazione italiana fu giovane e maschile. Era infatti più facile che un giovane trovasse un impiego per cui non era richiesta alcuna preparazione professionale specifica, ma solo forza fisica. Non infrequente era il caso in cui a partire con il figlio maggiore fosse il padre o che questi raggiungesse il primogenito, a distanza di qualche tempo. Raro è invece il caso della partenza di interi nuclei familiari, donne e bambini generalmente rimanevano a casa dove spesso beneficiavano della minore concorrenza nell’offerta di lavoro prodotta dalle partenze dei maschi adulti, trovavano dunque un impiego contribuendo in questo modo attivamente al proprio sostentamento. Chi partiva era generalmente privo di istruzione scolastica e se alle origini del fenomeno migratorio, ciò non costituì un problema, lo divenne poi, quando le comunità di emigrati furono oggetto delle attenzioni delle istituzioni dei Paesi ospiti, preoccupate dello stato di degrado in cui vivevano e del proliferare al loro interno della criminalità. Scattò allora l’obbligo dell’istruzione forzata, avvertito da chi lo subiva come un’incomprensibile imposizione, ma tale, con l’andare del tempo, da provocare una reazione positiva in Italia dove la previsione di partire cominciò ad accompagnarsi all’alfabetizzazione linguistica e professionale. Anche nei Paesi ospiti, infatti, la domanda di lavoro, dopo il boom iniziale, cominciò a concentrarsi in settori nei quali saper leggere, scrivere e far di conto erano prerequisiti essenziali, di qui il proliferare di iniziative intese appunto a soddisfare questa richiesta. L’istruzione obbligatoria prima vissuta come una delle tante imposizioni di uno Stato avvertito come lontano e ostile, cominciò allora ad essere sentita come una necessità. Fu questa una delle molte conseguenze indotte dal fenomeno migratorio. Box Abbiamo venduto tutto, abbiamo dovuto farlo Un console americano a Catania, che nel 1888 ricevette la visita di molti uomini tra i cinquanta e i sessant’anni, era colpito dalla disparità tra le loro aspettative sull’America e la realtà. Il portavoce di un gruppo gli spiegò che erano diretti a Palermo, dove si sarebbero imbarcati su un vapore diretto a La Merica. Là, era stato detto loro, si pagavano salari elevati ai lavoratori che scavavano per trovare l’oro. Il loro informatore, che veniva dal loro stesso paese, aveva inoltre assicurato che non avrebbero avuto bisogno del passaporto, ma il gruppo aveva deciso che, per evitare qualsiasi problema con gli americani, si sarebbero consultati con lui. Seguiva poi questa scena: “In quale parte d’America intendete andare?” chiedeva il console. “Non sappiamo, signore” rispondeva il portavoce. “Ovunque scavino l’oro. Anche se siamo un po’ vecchi, possiamo scavare bene perché abbiamo lavorato nelle miniere di zolfo”. “Avete parenti, amici o conoscenti che possono prendersi cura di voi al vostro arrivo, o darvi da mangiare fino a quando non trovate qualcosa da fare?” “No, signore, ma abbiamo molti soldi con i quali vivere due anni interi. Tutto quello che guadagneremo in quel periodo lo risparmieremo e torneremo a casa molto ricchi.” “Quanti soldi avete con voi?” “Beh, signore abbiamo circa 169 lire ciascuno. Abbiamo venduto tutto, abbiamo dovuto farlo”. “Quella cifra vi basterà solo per comprare il biglietto per la traversata”. “Nossignore. Quell’uomo ci ha detto che a Palermo ci daranno gratis i soldi per la traversata”. “Quell’uomo si sbaglia” diceva loro il console. “Fatevi fare il biglietto prima di lasciare il paese. Vuole il vostro denaro e vi lascerebbe in miseria. Siete troppo vecchi per emigrare in un paese molto lontano dove la gente non paga la vostra lingua. Ascoltate il mio consiglio, andate a casa a vivere felici con la vostra famiglia”. Da J. Mangione, B. Morreale, La storia- Cinque secoli di esperienza italo-americana, 1992, Torino) Il viaggio “Tra l’Italia e le Americhe – Con piroscafi rapidi, elegantissimi – Illuminazione a luce elettrica – Trattamento di prim’ordine”: così si legge su una locandina predisposta da una delle numerose Compagnie di navigazione italiane a vapore, con sede a Genova, attiva nel trasporto dei migranti verso il Nuovo mondo. Come si può facilmente immaginare, la realtà era ben diversa dai toni entusiastici e insieme rassicuranti della propaganda. Navi in disarmo e malamente attrezzate furono rapidamente approntate per far fronte alla fuga di massa degli Italiani: si viaggiava in stive prive di aerazione e di comodità igieniche, in condizioni di sovraffollamento disumano. I rapidi ed elegantissimi piroscafi erano insomma vecchie carcasse sulle quali si era trasferiti, stipati come bestie, accampati su ponti spesso posticci e costruiti per l’occasione o, quando il mare era mosso (e la circostanza non era insolita, considerando che il viaggio verso gli Stati Uniti durava circa un mese, ma occorrevano quaranta giorni per raggiungere l’Argentina), chiusi nel fetidume delle stive. Per non parlare dei pasti a bordo, di infima qualità fino a quando non ne fu regolata quantità e qualità dalla legge del 1901; per insaporirli e sopravvivere i viaggiatori trasportavano con sé da casa formaggio di campagna e salumi, ma questo non bastava ad evitare la sottoalimentazione, causa, insieme alla mancanza di igiene, delle epidemie che scoppiavano virulente a bordo e che i migranti erano abituati ad accettare come una fatalità. “Durante la navigazione la coperta era sempre affollata, se il bel tempo lo permetteva. In coperta si lavavano e si stendevano i panni ad asciugare, si respirava una boccata d’aria, lontani dalle maleodoranti stive; si intrecciavano le prime amicizie e si formavano solidarietà di pena e di miseria specialmente con chi proveniva dalla stessa regione e parlava lo stesso dialetto. La coperta era anche l’unico posto dove – se non si soffriva il mal di mare – era possibile avere spazio per consumare i pasti. La distribuzione del cibo era fatta in modo umiliante: una persona per ogni gruppo di sei lo ritirava in cucina e perciò numerose erano le frodi e i reclami. La promiscuità, l’affollamento e la mancanza a bordo, di sale da pranzo, rendevano impossibile qualsiasi norma igienica, tanto più che in coperta veniva effettuata anche la macellazione degli animali e si rovesciavano tutte le immondizie volontarie o involontarie dei miserabili passeggeri” da P. Cresci e L. Giudobaldi a cura di, Partono i bastimenti, Milano, 1980 Neppure quando, finalmente a New York, la nave attraccava al molo, agli emigranti era consentito di sbarcare. I sopravvissuti alle vicissitudini del viaggio erano infatti trasferiti a Ellis Island dove aspettavano pazientemente il loro turno per essere ripuliti con una doccia ed essere quindi sottoposti ad una visita medica ispettiva, intesa ad accertarne le reali condizioni di salute e, in conseguenza di ciò, l’idoneità al lavoro. Particolarmente accurati erano i controlli agli occhi, utili ad accertare l’eventuale insorgenza di patologie infettive come il tracoma, sicuro motivo di rimpatrio forzato. Solo quando risultavano sani, i nuovi arrivati erano considerati liberi, ma allora nuovi pericoli incombevano sulle loro teste, erano infatti in agguato per frodarli del poco che avevano portato con sé sedicenti cambiavalute o agenti di alberghi che offrivano loro ospitalità. Si trattava generalmente di emigrati prima di loro, che si qualificavano immancabilmente come compaesani e promettevano aiuti o appoggi certamente graditi a persone sperdute, alle prese con una realtà sconosciuta, soprattutto per quanto riguardava la lingua. Se dunque si dava il caso di pochi fortunati che i parenti già residenti a New York attendevano pazientemente alla banchina del porto, più frequente era la circostanza dello sprovveduto che, partito all’avventura, era da subito oggetto della speculazione di malavitosi che si guadagnavano da vivere sulla sua pelle. Fino a quando, consapevoli della frequenza e della gravità del fenomeno, alcuni istituzioni caritatevoli, per esempio la Società San Raffaele, non provvidero ad arginarlo organizzando un’accoglienza ufficiale e dignitosa. Box Quando sulle carrette del mare c' eravamo noi Le storie rimosse di migliaia di italiani inghiottiti dall' Oceano inseguendo il sogno americano. Un secolo fa i nostri emigranti erano vittime di armatori senza scrupoli come i naufraghi nordafricani che oggi muoiono nel Mediterraneo. «Non trovo parole adeguate per descriverle per l' intiero lo sconvolgimento del Piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose s' innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, e battuto dai fianchi. Non le descriverò gli spasimi, i vomiti e le contorsioni dei poveri passeggieri non assuefatti a cositali complimenti . Tralascio dirle dei casi di morte, che in media ne muoiono 5 o 6 per 100, e pregare il Supremo Iddio che non si sviluppino malattie contagiose, che allora non si può dire come andrà». Nella lettera di Francesco Costantin, di Biadene, Treviso, spedita a casa dal Sudamerica nel 1889, c' è tutto il terrore che un contadino della Val Padana o degli Appennini abruzzesi o lucani poteva provare solcando quell' Atlantico che separava la spaventosa miseria italiana dal grande sogno americano. Il libro Merica Merica di Emilio Franzina, straordinaria antologia di lettere dei nostri emigranti, è gonfio di questo spavento per il mare, la vastità incontenibile del mare, la devastante violenza del mare. «Il viaggio è stato molto pesante tanto che per mio consiglio non incontrerebbe tali tribulazioni nepur il mio cane che ho lasciato in Italia», scrive Bortolo Rosolen, partito da Pieve di Soligo per il Brasile. Un calvario destinato a diventare ancora più crudele dopo lo sbarco: «Piangendo li descriverò che dopo pochi giorni si ammalò tutti i miei figli e anche le donne. Noi che abbiamo condotto undici figli nell' America ora siamo rimasti con cinque, e gli altri li abbiamo perduti». E gonfi di spavento per il mare sono gli ex voto sparsi per le chiese e i santuari. Come quello di Antonino Carlo Magnano, che ringrazia la Madonna per essere scampato a un naufragio il 4 luglio 1898. Quale? Stavolta lo sappiamo: quello de "La Bourgogne", un vapore francese partito da Le Havre e affondato al largo della Nuova Scozia dopo una collisione con un veliero inglese. Furono 549, i morti. Tra i quali, con ogni probabilità, molti italiani. Partiti a decine di migliaia da Le Havre, a cavallo tra Ottocento e Novecento, e troppo spesso inghiottiti dall' Oceano in tragedie spaventose delle quali praticamente non resta traccia neppure nei migliori archivi dei giornali italiani come il nostro del Corriere. Furono tanti, i naufragi che videro coinvolti gli italiani. Compreso quello del "Titanic", nel quale morì, per fare un solo esempio, un certo Abele Rigozzi che era partito dall' Aquila. E furono tanti i naufragi di navi italiane, spesso fatte partire da armatori senza scrupoli. Come il "Principessa Mafalda" che nel 1927 era ancora la nave ammiraglia della nostra Marina commerciale ma dopo avere scaricato in America del Sud migliaia e migliaia di poveretti in un via-vai incessante sulla rotta per Buenos Aires era ormai acciaccata. Le macchine non marciavano a dovere, quell' 11 ottobre in cui, in ritardo proprio per il tentativo dei meccanici di sistemare i problemi, la nave partì da Genova. E dopo tre giorni si inoltrò nell' Atlantico nonostante i motori nel Mediterraneo si fossero fermati otto volte. A Dakar, nuova sosta e nuove riparazioni, decisero di andare avanti lo stesso. Con la nave così piegata di lato «che i bicchieri si rovesciavano sui tavoli». Dio protesse quei poveretti fino alle coste brasiliane. Poi li abbandonò. Era il 25 ottobre. L' asse porta-elica di sinistra si sfilò, la nave cominciò a imbarcare acqua, si scatenò il panico. Il capitano cercò per ore di mettere ordine nell' evacuazione, revolver alla mano. Ma i passeggeri terrorizzati erano troppi, le scialuppe troppo poche. E tra le acque arrivarono subito sciami di squali bianchi. Morirono in 385. Ma il numero finì tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7. A una colonna. I giornali di allora preferivano dare spazio alla retorica del comandante eroe che aveva voluto affondare con la nave. Che gli importava, di quei poveracci che fuggivano da un' Italia che non aveva pane per loro? Più spaventosa ancora, vent' anni prima, era stata la tragedia del "Sirio", un vapore partito da Genova verso il Sudamerica. A bordo, dice la struggente canzone composta sulla catastrofe, «cantar si sentivano / tutti alegri del suo destin». Era il 4 agosto del 1906, il tempo era buono, il mare piatto, quando la nave si schiantò su uno scoglio a tre metri di profondità. I danni erano gravissimi ma l' affondamento totale sarebbe avvenuto solo 16 giorni dopo. Avrebbero potuto salvarsi tutti. Ma l' evacuazione fu così caotica e disperata che alla fine il bilancio, stilato dai Lloyd' s, fu apocalittico: 292 morti. In realtà, pare che le vittime siano state ancora di più: tra le 440 e le 500. Per il "Sirio" e la "Principessa Mafalda" sì, ci fu una qualche attenzione: erano troppo grandi, quelle tragedie, per ignorarle. Ma tutta la nostra storia di emigranti è piena di naufragi che, come quelli che viviamo ai nostri giorni nel canale di Sicilia e che di rado finiscono sui giornali dei Paesi arabi o africani, sono stati rimossi. Come quello della "Ortigia", cozzata il 24 novembre 1880 davanti alle coste argentine de la Plata con il mercantile "Long Joseph" e affondata con 249 poveretti. O del "Sudamerica", che si inabissò nelle stesse acque nel gennaio 1888 con un carico di 80 anime. Lutti collettivi elaborati da migliaia di famiglie in silenzio. Senza che lo Stato, la politica, i giornali, la scuola, si facessero mai carico di piangere insieme tutta quella umanità inghiottita dalle acque. Eppure le vittime dei naufragi sono solo una parte dei morti che hanno segnato il grande esodo dall' Italia. Più ancora, infatti, furono i poveretti che perirono sulle navi per le condizioni igieniche in cui si viaggiava. Basti ricordare quanto scriveva nel 1908 T. Rosati in L' assistenza sanitaria degli emigrati e dei marinai: «L' emigrante si sdraia vestito e calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano orine e feci, i più vi vomitano: tutti, in una maniera o nell' altra, l' hanno ridotto dopo qualche giorno a una cuccia da cane. A viaggio compiuto, quando non lo si cambia, ciò che accade spesso, è lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere un nuovo partente». O leggere gli agghiaccianti rapporti dei medici di bordo raccolti da Augusta Molinari nel suo Le navi di Lazzaro. Come quello del "White Star Line" da Napoli a New York nel maggio 1905: «La temperatura non è il solo fattore che rende nei dormitori l' atmosfera irrespirabile. Vi concorre il vapore acqueo e l' acido carbonico della respirazione, i prodotti volatili che svolgono dalla secrezione dei corpi, dagli indumenti dei bambini e degli adulti, che per tema o per pigrizia non esitano a emettere urine e feci negli angoli del locale. La puzza è tale che il personale di bordo si rifiuta spesso di entrare per lavare i pavimenti». Furono centinaia i morti di colera tra i 1.333 passeggeri della "Matteo Bruzzo", respinta a cannonate dalle autorità uruguayane e costretta a smaltir l' epidemia girando per i mari dove via via sversavano i cadaveri, decine (20 solo durante una sosta ad Aden per un guasto) quelli del veliero "India" diretto nel 1880 verso la Nuova Guinea e l' Australia, dove sarebbe arrivato dopo 366 giorni di viaggio, 34 per la fame sul "Carlo Raggio" nel 1888 e altri 206 sei anni dopo per il colera e il morbillo, 96 per la difterite nel 1893 sul piroscafo "Remo", 27 per asfissia nel 1889 sul "Frisia", 32 lo stesso anno sul "Giava" per avvelenamento da cibi guasti... Furono un' ecatombe, i viaggi dei nostri vecchi. Della quale fecero le spese, come scrisse il medico di bordo del "Sudamerica" della Anchor Line, soprattutto i più piccoli: «Il maggior numero di decessi è sempre dato da bambini e più da quelli di età inferiore a cinque anni. Sono le piccole vittime che cadono per via nel fenomeno migratorio. L' impotenza di resistere ai disagi cui i teneri organi sono sottoposti. L' aumento dei morti nei viaggi di andata fu determinato da una maggior frequenza nei bambini dell' infermità dell' apparato respiratorio, essendovi 30 decessi per bronchite e polmonite. Delle forme morbose furono con frequenza mortali tra i bambini anche l' enterite acuta, 17 decessi, e la meningite, 10 decessi...». Cinquantasette bambini, in un solo viaggio. “Principessa Mafalda” Il “Principessa Mafalda” (nell' immagine sopra) nel 1927, nonostante le condizioni disastrose, era ancora la nave ammiraglia della nostra Marina commerciale. Il 25 ottobre dello stesso anno davanti alle coste brasiliane, dopo numerose avarie, la nave cominciò a imbarcare acqua. Nel naufragio morirono 385 persone. ma i giornali preferirono parlare soltanto del comandante, eroe che aveva voluto affondare con la nave. Gian Antonio Stella da Il Corriere della Sera del , 26 ottobre, 2003 Il ruolo degli agenti di migrazione Quando l’emigrazione divenne un “affare” a tal punto da alimentare un vasto indotto connesso con il trasferimento di un numero di persone sempre più consistente, nacquero nuove figure professionali in parte finalizzate a colmare i vuoti lasciati dalle autorità che avrebbero dovuto occuparsene. Poveri di tutto, dei biglietti per il viaggio in primo luogo, oltre che dei contatti utili a procurare loro un lavoro, gli Italiani si affidarono allora alla guida di sedicenti agenti dell’emigrazione, generalmente loro compaesani che, fiutata la possibilità di guadagno, si offrivano come abili risolutori di tutti i problemi che riguardavano il trasferimento oltreoceano. Nella maggior parte dei casi, tuttavia la copertura arrivava a tutelare al massimo il trasferimento verso il porto d’imbarco, dove, abbandonati a loro stessi, i disperati bivaccavano in attesa della partenza. Nella sostanza, in assenza di un interessamento istituzionale al problema, l’iniziativa privata si arrogò il compito di indirizzare i trasferimenti e i viaggi, in qualche caso addirittura deviando le partenze verso località da dove pervenivano notizie della disponibilità all’assunzione. Si trattava tuttavia frequentemente di un’incontrollata catena di voci, destinate a rivelarsi infondate una volta che il poveraccio fosse arrivato a destinazione. In questo modo parte delle risorse che avevano inizialmente lo scopo di mantenerlo nella nuova patria, finivano, prima ancora di partire, nelle tasche di individui disonesti o per lo meno sospetti, quanto ad informazione e a capacità effettiva di intervento. Come si è detto, le coperture che pure erano state generosamente promesse finivano già all’arrivo ai porti da cui partivano le “carrette del mare” che periodicamente trasferivano masse di disperati in cerca di fortuna. Nelle immediate vicinanze di questi ultimi fiorirono locande di pessima qualità, dove intere famiglie albergavano in attesa dell’imbarco, in condizioni igieniche disperate. Frequentemente divampavano epidemie che flagellavano i più deboli, le donne e i bambini innanzi tutto e probabile era il caso di quelli cui al momento della partenza era vietato di salpare dall’autorità sanitaria che ne accertava le cattive condizioni di salute. Così, dopo aver pagato una somma consistente all’agente dell’emigrazione che gli aveva promesso mari e monti e dopo aver soggiornato per giorni in attesa della propria nave, il migrante era ricacciato nella condizione che aveva deciso di lasciare e assisteva alla partenza di chi, più fortunato di lui, ce l’aveva fatta. Ma anche quelli che partivano non erano destinati a sorte migliore. Qualora superassero le difficoltà di un viaggio massacrante conservandosi in buona salute, poteva capitare loro di essere respinti sulla banchina del porto accogliente perchè troppo anziani o privi del titolo professionale richiesto per il lavoro cui erano destinati. Toccava loro allora la vergogna del viaggio di ritorno cui potevano sfuggire solo con la scelta della permanenza clandestina nel Paese ospite, ciò che comportava però la condanna della disoccupazione cronica o il rischio, elevatissimo, di finire vittima della criminalità locale, costantemente bisognosa di manovalanza. Sfuggiti al controllo e alle angherie del caporalato delle campagne del sud, i migranti finivano quindi spesso nella rete di altri “caporali”, i boss della malavita americana, loro connazionali che solo nella delinquenza organizzata avevano trovato la possibilità di arricchirsi. Nei quartieri degradati dove i nuovi arrivati abitavano fiorivano la prostituzione e il racket imposto alle attività commerciali, soffocate sul nascere da ricatti e taglieggiamenti, così la “guerra tra i poveri” assorbiva energie e risorse altrimenti e con più profitto utilizzabili. L’identikit dell’agente di migrazione che si ricava dalle testimonianze e dalle ricostruzioni storiografiche è fissato nel tipo umano del disonesto che, intascando le provvigioni delle compagnie marittime, specula sulla povera gente senza un’alternativa alla propria miseria se non affidare le proprie speranze ad un esperto. Talvolta reduce egli stesso da un’esperienza di migrante e al soldo di imprenditori stranieri che, insieme al viaggio, promettevano un posto sicuro, più spesso la figura del mediatore era svolta da un bottegaio che disponeva dei locali per le riunioni preliminari ed era in diretto contatto con la gente del paese tra la quale svolgeva spesso opera di propaganda a favore delle partenze. Certo è che le operazioni per l’espatrio richiedevano, per essere assolte, un livello di alfabetizzazione che escludeva necessariamente chi era privo di una pur minima istruzione scolastica: le figure del maestro o del maresciallo dei carabinieri in pensione erano, nei piccoli centri, candidati probabili per questo incarico. La situazione è tuttavia destinata a mutare radicalmente a partire dai primi del Novecento, quando, non solo la Legge sull’emigrazione varata nel 1901 ridefinì il ruolo delle mediazioni, ma il carattere meno sprovveduto dell’emigrazione italiana unitamente all’accresciuta alfabetizzazione dei migranti contribuirono indubbiamente a migliorare la situazione. “Con l’entrata in vigore della nuova legge la forma tradizionale di intermediazione tramite agenzia scompare. Constatata l’impossibilità di comporre le infinite controversie tra le compagnie di navigazione e le agenzie di emigrazione, il legislatore decide di abolire la figura dell’agente, demandando le funzioni di contrattazione e di arruolamento direttamente alle stesse compagnie di navigazione (vettori), previa autorizzazione ministeriale, concessa soltanto a una ventina di esse. Per assolvere questi nuovi lucrosissimi compiti i vettori debbono dotarsi di una rete territoriale di intermediari, e per farlo pescano assai spesso nel serbatoio dei vecchi agenti, che diventano così rappresentati di vettore (anch’essi dietro rilascio di una patente da parte del Ministero). La definizione di agente scompare così formalmente e, con essa scompare la libera iniziativa privata, ormai trasformata in lavoro dipendente” da A. Martellini, Il commercio dell’emigrazione: intermediari e agenti in Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli editore, 2001 . Il nuovo Mondo “Gli Italiani vivevano a New York in tuguri miserabili sovraffollando i tenements fino all’inverosimile. Si erano insediati soprattutto in Mulberry Street e nelle vie adiacenti, nella zona meridionale di Manhattan, la Little Italy. Asseragliati dai pregiudizi contro i quali non riuscivano a difendersi per ignoranza e analfabetismo, preferivano rimanere uniti a costo di qualsiasi sacrificio: in un isolato di 130 stanze vivevano più di 1300 persone. In simili condizioni, privi come erano di ogni cultura igienica, la mortalità, specialmente quella infantile, era molto alta. I proprietari degli immobili specularono su tale indifesa umanità fino all’inverosimile, finchè non intervenne il Municipio che ordinò la demolizione dei peggiori di questi edifici” (da P. Cresci, L. Guidobaldi a cura di, op.cit.). Il Nuovo Mondo non era dunque quello che gli emigranti si erano immaginati prima di partire. Bisognava fare i conti con difficoltà materiali di ogni tipo e si imparava a sopravvivere nelle condizioni più disperate. Soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’arrivo, quello necessario ad orientarsi e a trovare un lavoro stabile, la disperazione sembrava avere il sopravvento sulla speranza, eppure raramente le lettere spedite a casa, ai familiari rimasti in patria, rivelano la delusione, attestata per contro dalle numerose fotografie dei sovraffollati tuguri newyorkesi. Vince piuttosto l’orgoglio di chi è disposto a resistere per poter dire un giorno di avercela fatta, come effettivamente sarà per i più che a distanza di qualche anno invieranno a casa istantanee scattate dalle mani esperte di un fotografo e che li ritraggono ben pettinati ed elegantemente vestiti. Gli studi fotografici si attrezano per soddisfare la richiesta del migrante il cui scopo è rassicurare chi è rimasto a casa della propria situazione: fondali in cartapesta creano false scenografie su cui spicca il telaio di una falsa automobile alla cui guida siede il “fortunato” che ha fatto fortuna. La realtà tuttavia è nella maggior parte dei casi ben lontana dal sogno, spesso il soggetto del ritratto fotografico non solo non è padrone di alcuna automobile, ma neppure dei vestiti buoni che il fotografo gli ha noleggiato per l’occasione. Anche se l’ortografia dei biglietti che accompagnano le fotografie risulta nella maggior parte dei casi sgrammaticata, denunciando la scarsa padronanza di una scrittura mai appieno appresa o solo recentemente conquistata, le comunicazioni destinate all’Italia confermano l’ottimismo di sempre: l’audacia ha infine premiato i coraggiosi. La solidarietà con i connazionali si conferma anche nei periodi più fortunati, quelli in cui fioriranno per esempio numerose testate giornalistiche, espressione di altrettante comunità regionali che pretendevano di far sentire la loro voce. Non infrequenti sono poi le immagini che ritraggono processioni organizzate per festeggiare santi patroni comuni o cene cui partecipano appartenenti alle comunità di migranti che hanno fatto fortuna ed altrettanti artigiani o bottegai ritratti in veste di lavoro o affacciati sulle botteghe ormai ben avviate. Una vetrina ben fornita, magari di un negozio dove si vendono specialità gastronomiche italiane è la migliore immagine del successo dell’avventura migratoria, che ha consentito di far soldi senza però tradire le origini. Ben presto l’American way of life entra anche nelle case dell’emigrato che si fa fotografare accanto alla radio appena acquistata o all’auto (questa volta vera), simbolo del tanto ricercato benessere. Box La nostalgia Le lettere degli emigranti testimoniano le passioni, i pregi, i difetti della vita della loro vita quotidiana e i drammi incontrati e vissuti così lontani da casa. I dispiaceri più frequenti che dovevano affrontare gli emigrati erano la carenza delle possibilità di comunicazione con i cari rimasti nel paese di origine e la nostalgia, che li attanagliava continuamente e senza tregua. L'emigrante imparava a convivere con i sentimenti della malinconia e della nostalgia. Rimaneva nel Paese ospite solo per necessità di tipo economico, pensando continuamente al ritorno in Patria, quando ritroverà la famiglia, le abitudini, i sapori e gli odori della sua terra che tanto ama. La consapevolezza del ritorno, alleggeriva le pene della lontananza, il ricordo di tutto ciò che era legato alle proprie origini, permetteva di trovare un po' di serenità. Il lavoro, la cui ricerca aveva determinato la scelta dell'emigrazione era visto come qualcosa di esterno alla vita e alle scelte, non si ricercava alcuna realizzazione o gratificazione in esso, costituiva qualcosa di temporaneo come lo era la lontananza dall'Italia. Il ritorno veniva vissuto anche come un dovere, molto spesso era l'occasione per visitare il cimitero dove riposano i genitori e gli altri appartenenti alla famiglia, per ristabilire il contatto con le proprie origini e radici. Anche la visita ai luoghi dell'infanzia, agli amici, alla casa natia erano tappe obbligate che alleviavano il cuore dell'emigrante e gli facevano ritrovare il suo mondo interiore, messo a dura prova dalle difficoltà di adattamento al Paese di emigrazione. Molti durante queste passeggiate nel passato si chiedevano se emigrare era stata la scelta giusta, dimenticando gli stenti, le difficoltà economiche della loro vita prima dell'emigrazione e le motivazioni che li avevano spinti a questa decisione. Se da un lato quindi l'emigrazione comportava, in linea di massima, per i diretti interessati, un miglioramento delle condizioni economiche e professionali, dall'altro produceva un regresso da un punto di vista sociale, determinato dal conflitto culturale con cui l'emigrato si trovava a convivere sia nel Paese di emigrazione sia quando tornava in Italia. http://www.italiadonna.it/public/percorsi/12009/12009001.htm Le professioni Sebbene la maggior parte di coloro che partivano per l’America fosse stata addetta in Italia all’esercizio dell’agricoltura, questa non fu l’attività prevalente tra i nuovi arrivati. Molti erano fuggiti dal proprio paese con l’intenzione di lasciarsi definitivamente alle spalle la vita di fatiche della campagna, per questo la terra non rappresentò ai loro occhi un’attrattiva irresistibile. Bisogna inoltre considerare che, appena arrivato, l’emigrato aveva un assoluto bisogno di guadagnare, per saldare i debiti contratti per il viaggio e per mantenersi nella nuova terra e diventare agricoltore avrebbe significato dover mettere da parte del denaro per l’acquisto oltre che della terra, degli attrezzi agricoli, circostanze, queste, che contribuivano a fiaccare ogni velleità in merito. La vocazione a coltivare ovunque si potesse spinse molti a edificare orti improvvisati tra le baracche, ma fu nelle metropoli americane che gli Italiani trovarono modo di esercitare le professioni più creative. Cantanti d’orchestrina, suonatori ambulanti, ciabattini, strilloni, lustrascarpe, arrotini, scalpellini, ramai, calderari furono le professioni più diffuse agli inizi dell’ondata migratoria, quando all’emigrato analfabeta, privo di qualsiasi qualificazione professionale, sembravano precluse altre possibilità d’impiego. D’altro canto, in molti casi, anche assolvere a semplici formalità di rito quali spostarsi in una località diversa da quella d’arrivo o affrontare altri controlli burocratici oltre a quelli cui era stato sottoposto al momento dello sbarco apparivano ai nuovi venuti come difficoltà insormontabili. “La costituzione proletaria dell’emigrazione italiana venne definendosi in un processo di fusione delle forze di lavoro espatriate nei grandi crogiuoli dei liberi mercati del lavoro delle principali economie capitalistiche. Questa fusione produsse in prima istanza, anche occupazioni anomale, ignobili e folkloristiche, che, nel migliore dei casi, rappresentavano una mobilità espansa a dismisura dei vecchi mestieri artigiani senza più mercato locale in Italia, o una loro specializzazione spinta o persino una loro reinvenzione secondo mansioni adatte ad economie o società più avanzate; nel peggiore dei casi il fiume dell’emigrazione italiana, soprattutto durante la fase iniziale, portò con sé e lasciò depositare nelle grandi aree urbane d’Europa e d’America, le scorie e il sottoproletariato prodotti in Italia dalla rottura dei vecchi quadri sociali: vagabondi, saltimbanchi, mendicanti, prostitute, fanciulli venduti dai genitori. In secondo luogo il lavoro italiano fu una grande stanza di compensazione per le fluttuazioni stagionali e cicliche, dei ritmi produttivi in settori come l’edilizia, i lavori pubblici, le costruzioni ferroviarie, le cave e le miniere, tutti settori caratterizzati, in generale, da oscillazioni nei livelli di attività più ampie rispetto alla media degli altri settori produttivi e da una certa rigidità del progresso tecnico e dell’organizzazione del lavoro” da E. Sori, op.cit. Le cose cominciarono a cambiare a partire dalla seconda generazione, quando anche le autorità sostennero il trasferimento di molti verso aree destinate per esempio alla bonifica perché fossero conquistate all’agricoltura. I nostri connazionali contribuirono allora a risanare paludi, ad eliminare radici e legna, a costruire canali di scolo ovunque fosse necessario: era un lavoro duro che richiedeva una notevole forza fisica oltre che un buon grado di resistenza alla fatica, ma la speranza di poter poi ricevere un appezzamento di terra sollecitò alcuni a trasferirsi nuovamente. Per raggiungere le nuove località in via di sviluppo era necessario costruire ferrovie e anche questa rappresentò un’occasione d’impiego per gli Italiani chiamati a livellare il terreno, a posare traversine, a edificare stazioni e, nel caso non sapessero fare altro, a rifornire gli operai di cibo e di acqua potabile. Difficile risulta nel complesso definire un quadro generale delle destinazioni professionali dell’emigrazione italiana nel mondo dal momento che alla sua definizione concorrono numerose variabili: le capacità personali, l’età, il desiderio di imparare, la destinazione, la domanda del mercato e così via. Si può tuttavia osservare come i lavoratori italiani abbiano contribuito generosamente alla costruzione di economie in via di affermazione cui fornirono manodopera a buon mercato nonché a coprire temporanei fabbisogni nazionali indotti da eventi eccezionali; è questo per esempio il caso del massiccio impiego di lavoratori stranieri nelle miniere belghe durante il secondo dopoguerra. In qualche caso l’arrivo degli Italiani in gran numero fu motivo di indubbia concorrenza nei confronti della più tutelata manodopera locale, in qualche caso ancora i nostri connazionali scalzarono dalle posizioni acquisite altri immigrati che erano arrivati prima di loro, fatti, questi, che contribuirono a creare tensioni e attriti, non di rado esplosi in episodi di aggressione e veri e propri linciaggi. Il pregiudizio e lo stereotipo L’arrivo di uno straniero in un Paese che non è suo genera tradizionalmente diffidenza e sospetti. Sul nuovo arrivato, che ben presto peraltro risulta necessario alla vivacità dell’economia della terra ospite, si riversano gli strali dei benpensanti che dalla sua presenza si sentono per così dire “contaminati”. Così, in breve tempo, l’opinione pubblica tende a far ricadere sui nuovi venuti la responsabilità dei propri mali tradizionali: furti, prostituzione, abuso di alcool sono indicati come i vizi tipici di chi, avendo abbandonato una vita sicura, ha scelto la dimensione della precarietà. Con l’eccezione di pochi illuminati che riconobbero la novità della questione e la sua carica di rinnovamento straordinaria, nei paesi d’arrivo come in quelli di partenza, i più espressero condanne senza appello nei confronti di un fenomeno che amavano descrivere come “piaga” dei tempi moderni. L’emigrante fu cioè identificato con l’irregolare, il diverso da cui si poteva pretendere ogni tipo di servizio in cambio della benevolenza dimostrata da chi era disposto ad accoglierlo sul proprio territorio. Anche quest’ultima, tuttavia, venne meno quando la mutata congiuntura internazionale suggerì un atteggiamento improntato prima ad una maggiore prudenza, poi alla chiusura. Quando i mercati d’oltreoceano cominciarono a soffrire di ricorrenti crisi di sovrapproduzione e presero a circolare teorie razziste contrarie al melting pot, gli Americani fecero pressione per ottenere una regolamentazione del numero delle entrate e i controlli sugli accessi divennero decisamente più severi. Si cominciò a discutere perfino intorno all’opportunità di adottare misure eugenetiche, intese ad evitare la diffusione di tare familiari “congenite” e l’inquinamento della popolazione locale ad opera degli stranieri. Circolarono allora teorie pseudoscientifiche intese ad avallare l’ipotesi secondo cui l’italiano dalla pelle olivastro non fosse un bianco, ma appartenesse ad una razza intermedia, vale a dire un bianco contaminato da una “goccia” di sangue nero e tale natura ibrida fu interpretata come un segnale palese di inferiorità. Fu questo il punto culminante di una serie di atteggiamenti discriminatori che, nei confronti dei nostri connazionali all’estero, alimentarono pregiudizi e stereotipi ancor oggi vitali. A parte le considerazioni inerenti alle caratteristiche dell’italiano in quanto tale (in ciò la sua sorte non diverge da quella del greco, del polacco o dell’irlandese), la diffusione di professioni come quella del lustrascarpe o del componente di orchestrine da strada indussero la satira a riprodurne le fattezze in modo ripetitivo e scontato. Identificato con il suonatore di mandolino o con lo strillone impegnato nella vendita di giornali agli angoli delle strade, il migrante italiano è sempre raffigurato abbigliato di povere vesti, munito dell’immancabile coppola o del sigaro tra le labbra, nel momento in cui è ritratto in un altro clichè tristemente noto, quello del mafioso. Parla una lingua incomprensibile in cui al dialetto della sua terra d’origine mescola parole dello slang dei sobborghi suburbani, è privo di qualsivoglia istruzione e mostra di intendere la vita a modo suo, mentre gli è estranea la capacità di adattamento al nuovo contesto. Quando è rappresentato in gruppo, è sempre ritratto in compagnia di connazionali, rumorosi e rozzi come lui, cui sembra essere legato da un rapporto affettivo esclusivo, fondato sull’obbedienza alle leggi del clan e, nelle relazioni tra i sessi, da un’accesa propensione alla gelosia. Convinti della necessità di tener vive le proprie tradizioni in città tentacolari dove costituivano una minoranza disprezzata, gli Italiani tendevano a riprodurre ovunque si stanziassero microrealtà ispirate al modello natale. Trovarono così un motivo di realizzazione economica e insieme culturale nella pratica della ristorazione: il successo della cucina italiana fu uno dei molti motivi di riscatto che si offrirono ai migranti pionieri in questo settore. Ma anche la disponibilità alla fatica e al sacrificio contribuirono a correggere l’immagine stereotipata dell’ “americano”. La dedizione con cui i nostri connazionali si dedicarono a professioni durissime come il minatore o l’addetto alla costruzione delle ferrovie meritarono loro il riconoscimento dei datori di lavoro che ne sperimentarono sul campo lo spirito di abnegazione e di generosità. D’altro canto la continuità con cui chi era partito inviava a casa i soldi necessari al mantenimento del resto della famiglia era il segnale della tenacia di un’illusione: prima o poi sarebbe arrivato il momento del rimpatrio e allora i sacrifici sarebbero stati ripagati dall’opportunità di rifarsi una vita, comprare una casa o un appezzamento di terra per ricominciare tutto da capo. Box Stranieri selvaggi e col sangue caldo E’ gratificante vedere un giornale di prima classe come il Times suonare una nota di ammonimento per il pericoloso afflusso di stranieri indesiderati che si stanno rovesciando su di noi. L’afflusso non è solo sgradito, ma nocivo al benessere del nostro Paese. Voi dite che è nostro dovere aprire le porte agli oppressi di tutto il mondo, e dal momento che una persona è povera e infelice nel Paese in cui è nata può reclamare la nostra ospitalità come un diritto. Ma le nostre leggi per l’emigrazione sono troppo lassiste. Guardate alle nostre prigioni, negli istituti di pena, guardate il numero di omicidi e crimini quotidiani: sono tutti commessi da stranieri. E perché questi stranieri selvaggi e col sangue caldo sono sempre armati da stiletti o revolver? Nelle nostre strade sono tutti armati. Non molto tempo fa ho visto un ambulante italiano che spingeva un carretto a mano minacciare con un coltello un bambinetto americano che lo aveva provocato prendendolo in giro in modo innocuo. Ho cercato un poliziotto per quasi mezz’ora, ed ero a Brodway a mezzogiorno. Non ho trovato il poliziotto e il potenziale assassino è scappato. Sì, bisogna bloccare in ogni modo questo flusso indiscriminato. Per quaranta o cinquant’anni la porta deve restare chiusa contro questo genere di immigranti. Samuel Conkey (Brooklyn, 28 aprile 1903) Da M. Mazzucco, Vita, Milano, Rizzoli, 2003 Donne ed emigrazione Soggetti tradizionalmente passivi, le donne sono state generalmente trascurate anche negli studi relativi al fenomeno migratorio relativamente al quale si è rilevata l’esiguità numerica della loro partecipazione. Ciò risulta parzialmente vero, se si considera l’irregolarità di molte partenze femminili che sfuggirono alla registrazione ufficiale, indubbi sono poi i cambiamenti cui l’universo femminile fu sottoposto dall’assunzione di un lavoro lontano dal Paese natale o dalla partenza di mariti, padri e fratelli. Una nuova distribuzione del lavoro interessò innanzi tutto, quasi ovunque, nelle campagne, le donne rimaste. Le fonti attestano in proposito l’aumento dell’impiego femminile e dei fanciulli, conseguente al boom dell’emigrazione, tuttavia si deve considerare che le accresciute opportunità di lavoro non significarono necessariamente un miglioramento della qualità della vita: alle tradizionali fatiche domestiche si aggiunsero le attività dei campi cui le donne non potevano ora sottrarsi neppure nei periodi della gravidanza e del puerperio. Inoltre all’ accresciuta capacità nella gestione finanziaria delle risorse familiari – alle mogli o madri rimaste a casa toccava gestire le rimesse e provvedere a saldare i debiti contratti – non corrispose in genere una rivalutazione dell’immagine femminile. Spesso ritratta a fianco del marito, nell’atto di trascinare pesanti valigie, la moglie dell’ “americano” lo segue di solito a una certa distanza, lontana dal compagno perfino nell’abbigliamento che rivela inequivocabilmente la sua natura di contadina, mentre il suo uomo veste ormai i panni del cittadino emancipato. Al sud si diffonde a fine Ottocento lo stereotipo della moglie che, rimasta sola a gestire una famiglia numerosa, finisce col perdere ogni capacità di controllo sui figli destinati, per l’assenza di un’autorità maschile forte, alla criminalità. Lo spostamento stagionale interno era una caratteristica della vita femminile molto tempo prima che l’emigrazione diventasse un fenomeno di massa. Si pensi alle possibilità d’impiego offerte nelle pianure irrigue del nord dalla monda del riso, ai trasferimenti in città delle balie della campagna, alle molte domestiche, maestre, cucitrici che il mercato urbano richiedeva. Questi trasferimenti erano per lo più stagionali e non sempre si traducevano in guadagno né in un’effettiva emancipazione. Il lavoro femminile, espressione di una categoria da sempre debole, era tradizionalmente sottopagato e non infrequente era il caso in cui le donne finivano vittime della seduzione forzata da parte di datori di lavoro, colleghi o padroni delle case presso cui entravano a servizio. “A cavallo del secolo si intensificarono i flussi migratori femminili all’estero da tutte le zone montane. Dal Piemonte le donne si recavano sempre più numerose in Francia per lavorare come cameriere (…) dalle Alpi Marittime e Cozie donne, ragazze e bambini si recavano nella zona di Grasse per la raccolta delle olive, del gelsomino, delle violette. Dal Bellunese le giovani donne emigravano per lavori agricoli in Trentino e in Tirolo (… ) dalla Carnia partivano le venditrici di oggetti di legno, con i bambini e la mercanzia sulla gerla. Ma a partire dalla fine del secolo l’emigrazione femminile prese sempre con maggior frequenza la strada della fabbrica” da B. Bianchi – Lavoro ed emigrazione femminile in Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli, 2001. Le testimonianze in proposito sono concordi nell’indicare nel desiderio di emancipazione la ragione principale delle partenze. Un’aspirazione accolta con diffidenza dal mondo maschile che, nella vita sregolata delle operaie e nella loro lontananza dalle famiglie d’origine, indicava la causa della loro presunta immoralità. La donna che lavora lontano da casa deve dunque superare una difficoltà in più rispetto ai colleghi maschi: il disprezzo di chi guarda con sospetto alla sua “anomala” condizione. Solo a fine secolo i dati statistici attestano un forte incremento dell’emigrazione femminile oltreoceano. Talvolta richiamate dai mariti che erano partiti tempo prima, più spesso per iniziativa personale – anche in questo caso, come nell’emigrazione maschile, le giovani furono in prima linea – le donne partivano attirate dalla possibilità di diventare “bordanti”, di gestire cioè le affollate pensioni in cui i connazionali all’estero avevano trovavano alloggio o con la speranza di trovare un marito “americano”. Già durante il viaggio, tuttavia, i loro sogni erano destinati a infrangersi contro le oggettive difficoltà di una traversata, spesso vissuta in condizioni di promiscuità e nell’assillo della preoccupazione per i bambini, frequentemente vittime di viaggi condotti in condizioni limite. All’arrivo nel Nuovo Mondo la situazione era in qualche caso ancora più grave: schiacciate nel ruolo di “bordanti” molte donne sposate finirono con il vivere la stessa esperienza di reclusione domestica che avevano creduto di poter abbandonare, talvolta i mariti le tenevano “al riparo” perfino dall’apprendimento dell’inglese precludendo loro, in questo modo, ogni effettiva esperienza di socializzazione. Diverso fu il caso delle ragazze che trovarono largo impiego nell’industria tessile e alimentare; qui il contatto giornaliero con le compagne, pur in una situazione di sostanziale desindacalizzaione, maturò col tempo la coscienza delle donne lavoratrici, le indusse a conseguire un’istruzione di base, anche linguistica e questo, sul lungo periodo, ne favorì l’integrazione. A differenza dei maschi che in gran numero partirono con l’idea di ritornare, le donne arrivarono per restare e trovarono negli Stati Uniti una nuova vita, talora pagando tuttavia con la rottura dei rapporti familiari o la rinuncia al matrimonio la loro nuova libertà. I più deboli: quando emigrano i bambini Lo sfruttamento dei minori in nome del vergognoso profitto di adulti senza scrupoli non è nuovo. Da sempre la miseria con il consueto carico di disperazione che porta con sé costituisce il motivo principale in virtù del quale una famiglia bisognosa arriva alla scelta di cedere ad altri uno o più dei propri figli nella speranza che ciò possa consentirgli di vivere meglio. Nella società italiana postunitaria l’esercizio della patria potestà era inteso in modo rigido, diremmo oggi elementare. In quanto parente di sangue della creatura che aveva messo al mondo, il genitore se ne considerava il padrone, colui che poteva disporre della vita del figlio come se questi fosse una sua proprietà. Numerosi contratti, denunciati poi come testimonianze della “barbarie” familiare, attestano la cessione temporanea di minori a terzi che ne assumeranno la tutela in cambio dell’esercizio di un’attività lavorativa generalmente degradante, sempre mal retribuita. In questo modo schiere di suonatori d’arpa o di organetto, di spazzacamini, di venditori di figurine di gesso popolarono le contrade dell’Europa civile (in particolare il fenomeno è osservabile a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento), poi quelle del Nuovo mondo. In ritardo sullo sviluppo industriale che altrove aveva sollecitato la promulgazione di leggi intese alla tutela dell’infanzia sfruttata nelle fabbriche, l’ Italia guarda dapprima con preoccupazione alle migliaia di bambini esposti nel mondo all’esercizio di professioni che il legislatore ritiene pericolose perché infangano il buon nome del nostro paese e costituiscono la premesse per la rovina morale di coloro che le esercitano. Dal 1873, anno in cui il dibattito parlamentare comincia a prendere atto del problema, si stilano elenchi di professioni ritenute formative o indegne. Del tutto estranea alla logica parlamentare è però ancora la riflessione sul tema dello sfruttamento minorile tout court e la cosa non sorprende se si pensa che fino agli inizi del secolo la legislazione italiana ammetteva l’impiego lavorativo di minori dai nove anni e che evidenti erano, soprattutto nelle regioni del Sud, le difficoltà di applicazione delle norme sull’obbligo scolastico. Così se i piccoli suonatori o i lustrascarpe erano guardati con sospetto in quanto esposti ai pericoli della strada e soggetti allo sfruttamento di incettatori che frequentemente li avviavano al semplice accattonaggio, il mestiere dello spazzacamino fu a lungo considerato un occasione di formazione quando già nel resto d’Europa era considerato alla stregua di una vergogna qualora prevedesse l’impiego di minori. La consapevolezza era ancora di là da venire prima che la legge del 1901, quella che regolamentò l’intera materia delle migrazioni, si preoccupò di assicurare maggiore severità nei controlli dei passaporti dei piccoli migranti che fin qui erano stati costretti a lasciare le loro case, oltre che dalle necessità familiari, dalle connivenze delle autorità locali, laiche e religiose, con gli incettatori di bambini (non erano infrequenti le partenze benedette dal prete del paese d’origine). Soggetti, durante i viaggi di trasferimento, a una mortalità decisamente superiore a quella che colpiva gli adulti, i minori, una volta arrivati, erano esposti a pericoli di ogni tipo e solo raramente furono oggetto dell’azione caritatevole di filantropi o associazioni che se ne presero cura. Qualora fossero partiti con la famiglia, spesso ne condividevano il destino: insieme alle donne le bambine svolgevano attività domestiche che le privavano del sonno e della frequenza della scuola, i maschi erano per lo più impiegati nei lavori agricoli (vera e propria necessità imposta dall’organizzazione delle fazendas dell’America latina) o in attività occasionali come il ragazzo di strada venditore di giornali. Con il passaggio al nuovo secolo la situazione in parte si modificò perché l’esigenza di manodopera da parte delle industrie crebbe in modo tale da non risparmiare l’impiego dei fanciulli. Talora muniti di documenti falsi, che appartenevano a fratelli maggiori, i piccoli erano avviati ad attività sporche e pericolose che i locali rifiutavano in nome del livello di coscienza sindacale ormai conseguito. Emblematico è il caso dei molti bambini impiegati nelle miniere d’Europa, ma ancora di più, per l’eco che suscitò nell’opinione pubblica nazionale e non, fu quello dei piccoli vetrai impiegati in Francia nelle fabbriche adibite alla produzione delle bottiglie. Costretti a lavorare anche per la durata di due turni (fino a raggiungere le quattordici ore giornaliere) nelle vicinanze di forni che raggiungevano i 1200 gradi centigradi, i piccoli operai erano generalmente adibiti al trasporto della pasta di vetro all’operaio che avrebbe poi provveduto a lavorare. Indagini condotte al fine di accertare le reali condizioni di vita dei piccoli lavoratori ne accertarono gli abusi compiuti ai loro danni: dopo il lavoro erano alloggiati nelle case dei “tutori” che trovavano vantaggioso risparmiare sul vitto, in pochi erano disposti però a denunciare le loro penose condizioni di vita poiché temevano le possibili ritorsioni dei padroni. Nelle relazioni dei consoli si segnalava altresì il progressivo disamore dei minori lavoratori nei confronti della famiglia: all’iniziale nostalgia subentrava la rabbia nei confronti dei parenti che li avevano abbandonati alla loro sorte. Il dibattito sul comportamento familiare cominciò allora ad imporsi all’attenzione generale: poteva essere considerato criminale il comportamento di genitori che, sebbene costretti dall’indigenza, erano disposti a vendere i loro figli per poche lire oppure dovevano essere considerati vittime dell’illusoria speranza di garantire loro una vita migliore di quella che potevano offrire? I pareri a questo proposito non erano unanimi, ma con il passare del tempo la legislazione italiana, che inizialmente tendeva a far ricadere tutte le colpe sugli approfittatori della tratta dei bambini, prevederà sanzioni severe anche per i genitori consenzienti e ciò determinerà la definitiva scomparsa dei contratti di cessione di cui si è detto. Lento e affidato ad accordi bilaterali con gli stati interessati fu invece l’approdo alla normativa a tutela dell’infanzia lavoratrice fino a quando l’evoluzione sociale e del pensiero mostrarono come riprovevoli certe abitudini. Il fenomeno dei minori sfruttati, difficilmente quantificabile in quanto tale da sfuggire a ogni serio tentativo di controllo, è da considerarsi una delle pagine più tristi dell’esodo italiano nel mondo, quasi una sorta di traumatica accelerazione di un processo di formazione che avrebbe potuto avvenire in altri modi. Le rimesse Per effetto della quantità di denaro che gli emigrati inviarono in patria, le cosiddette rimesse, furono triplicate le riserve auree italiane tra il 1896 e il 1912. Ne conseguì un apprezzamento del cambio della lira che ebbe effetti largamente positivi sull’andamento dell’economia nazionale. “Nella vicenda della mobilitazione finanziaria di queste risorse provenienti dall’emigrazione, il capitalismo italiano mostrò una delle sue costanti più radicate: la fame, spesso sconfinata nella rapina, con cui l’operatore pubblico e quello privato (specie l’oligarchia bancaria e industriale) si rivolsero al risparmio delle famiglie” (E. Sori, op.cit.). L’abbondanza di quest’ultimo e la sostanziale assenza di alternative di risparmio al deposito bancario e/o postale nonché all’acquisto di Buoni del Tesoro offerti massicciamente, contribuirono ad alleviare il consistente debito pubblico nazionale al punto da rendere credibile l’opinione espressa in proposito da Antonio Gramsci, secondo il quale: “I governi, da quelli conservatori di Depretis e Giolitti a quelli apertamente reazionari di Crispi e di Pelloux, vedevano con favore l’emigrazione, perché pensavano che essa alleggerisse la fortissima disoccupazione, ma anche con l’occhio rivolto alle rimesse che gli emigranti avrebbero mandato alle loro famiglie in valuta pregiata, come il dollaro degli Stati Uniti. E queste rimesse effettivamente vi furono, ma non furono utilizzate per risolvere i problemi secolari del Mezzogiorno e delle zone depresse. Una parte venne utilizzata per il sostentamento delle risorse rimaste in patria, una parte per acquistare case modeste e piccoli appezzamenti di terreno, che non modificavano la debolezza economica dei contadini, ma una parte venne rastrellata dal governo attraverso l’offerta di buoni del Tesoro a interesse certo. In questo modo gli emigranti e le loro famiglie, da agenti della Rivoluzione silenziosa, si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie del nord” da S. Zangirolami, Le rimesse degli emigrati e il progresso economico e sociale d’Italia in Il calendario del popolo, anno 60° numero 683. Se dunque a livello macroeconomico l’utilizzo delle rimesse finì con il ribadire, sul lungo periodo, la subordinazione del proletariato agricolo e meridionale allo sviluppo del capitalismo nelle aree più avanzate d’Italia, dove l’effetto positivo dell’impiego finanziario del denaro degli emigranti consentì una stabilità favorevole agli investimenti quindi al consolidamento del decollo dell’attività industriale, dal punto di vista della microeconomia l’arrivo di una somma di denaro spedita da un espatriato significava, per chi era rimasto, un valido argomento per partire. Il denaro proveniente dall’estero fu tradizionalmente utilizzato per far fronte ad urgenze, per esempio il debito contratto con l’agente di emigrazione prima di partire, in seguito ebbe un benefico effetto sui consumi familiari che migliorarono per qualità e quantità. Non di rado, infine, le rimesse servivano a procurare strumenti, quali una barca o la licenza di commerciante, che consentivano un passo avanti verso l’emancipazione economica e sociale e l’abbandono di un’abituale condizione di precarietà. Meno riuscito fu invece l’investimento nell’acquisto di terre il cui mercato, soprattutto al sud, si confermò rigido e caratterizzato dalla tendenza alla concentrazione. Anche questo spiega il successo delle forme di deposito presso gli Istituti bancari di cui si è detto sopra. Insomma l’acquisto di un pezzo di terra, vale a dire il sogno che alimentava in chi era partito la speranze di ritornare, raramente potè realizzarsi. Sebbene la storiografia non abbia espresso a questo proposito un parere unanime, i più ritengono che rimpatri non si accompagnarono alla realizzazione di quella “democrazia agraria” che in molti avevano auspicato come uno dei modi per risolvere la questione meridionale. Box Un parere positivo sulle rimesse Uno degli elementi più straordinari di novità che l’emigrazione introdusse in tante realtà sociali del Mezzogiorno fu l’afflusso e la circolazione senza precedenti di danaro. Le rimesse degli emigrati, spedite in semplici lettere, con vaglia postali, attraverso gli uffici del Banco di Napoli, divennero ben presto un fiume di moneta sonante che entrò nelle case della gente più misera, cambiò la condizione di tante famiglie, mitigò e fece talora sparire l’usura, creò un potere d’acquisto prima sconosciuto in paesi, villaggi, città. Grazie ai risparmi conseguiti, le famiglie contadine guadagnavano più facilmente credito alle banche, sicchè un nuovo e più largo circuito venne finalmente a crearsi tra istituti di credito e piccole economie locali. Pe avere un’idea di che cosa l’emigrazione significò in termini di formazione del risparmio per i singoli individui e i nuclei familiari, si può ricordare, ad esempio che la media di risparmio, per abitante – sulla base dei depositi presso le Casse di risparmio ordinarie e postali – era in una regione come la Calabria, nel 1872, di sole 0,16 lire, mentre nel 1913, attraverso una costante ascesa, aveva raggiunto le 88,49 lire. Si calcola che tra il 1902 e il 1925, considerando le rimesse di tutta l’emigrazione italiana, siano entrate in Italia almeno un miliardo di lire l’anno al valore prebellico, vale a dire riferito a una fase storica, unica e irripetuta, nella quale la lira italiana aveva un valore superiore a quello dell’oro. E il Mezzogiorno – dove il salario di un bracciante non superava, prima della guerra, le 3-4 lire al giorno – probabilmente vi contribuì con oltre metà di quella cifra, considerando che tra il 1901 e il 1913 l’emigrazione meridionale fu numericamente più del doppio di quella settentrionale. Penetrando nelle realtà rurali, questa inconsueta e larga corrente di moneta servì soprattutto a rafforzare e ad allargare le economie contadine: una grande leva, in mano ai ceti popolari agricoli, per accedere al possesso della terra e della casa. Da P. Bevilacqua – Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi – Roma – 1993 Non è facile rompere con il passato Segregati in enclavi dove la solidarietà tra connazionali sembrava garantire loro la sicurezza contro un mondo che li respingeva,gli Italiani della prima ondata migratoria si trovarono a dover superare difficoltà gravissime e si misurarono con la difficile scelta tra l’attaccamento al vecchio stile di vita e le necessità imposte dal nuovo. Così, per esempio, la chiusura nei confronti dell’uso dell’inglese suona come il tentativo disperato di non cedere allo strumento che avrebbe consentito ai nostri connazionali una rapida integrazione nel Paese ospitante. Le resistenze sono a questo proposito indubbie e si manifestano nella creazione di una lingua mista di voci tratte dal dialetto di provenienza e dall’inglese, intesa a riportare le parole all’uso linguistico originario, come a liberarsi dall’ansia che i nuovi usi linguistici generavano. Si spiega allora come la parola factory fu riportata all’italiano fattoria o come market fu storpiato in marchetta. In altri casi invece funzionava piuttosto il meccanismo del calco fonetico, le nuove parole erano riportate cioè al suono che avevano in italiano in modo da non suonare strane alle orecchie di chi tali le sentiva. Uno dei mezzi con cui i nuovi arrivati reagivano all’ostilità circostante era la costituzione di bande criminali tra cui la più famosa fu la cosiddetta Mano Nera, dal fatto che gli appartenenti a questo gruppo erano soliti lasciare l’impronta di una mano annerita sulle porte delle abitazioni o dei negozi, come indizio minacciosa della loro presenza nel quartiere. Estorsioni, racket, rapine compiute soprattutto ai danni di altri emigrati che avevano fatto fortuna furono le azioni criminose condotte dai membri di questa organizzazione le cui attività cessarono ai tempi del Proibizionismo quando criminali di ogni provenienza trovarono canali alternativi di arricchimento facile e cospicuo. Nell’insieme soprattutto per i figli degli immigrati, cioè per gli italo-americani della seconda generazione, l’accettazione della loro nuova condizione fu forse ancora più problematica che per i loro genitori. I giovani non condividevano infatti la condanna delle famiglie della libertà di costumi e del modo di educare americani e d’altro canto ammiravano l’intraprendenza e la libera iniziativa della società in cui vivevano ormai pienamente inseriti. Ne ricavavano un senso di inquietudine e di disorientamento che li faceva sentire oggetto per così dire di una vita “doppia”: a scuola o sul lavoro si sentivano ormai integrati a tutti gli effetti, ma al ritorno a casa ripiombavano in una situazione di arretratezza che a tutti gli effetti sentivano ormai di dover respingere. Non infrequenti erano allora i problemi psicologici legati alla costruzione dell’identità personale difficilmente fondabile sulla disistima e sul senso di vergogna indotti dal confronto con “radici” scomode. “I figli degli immigrati lamentavano diffusamente disturbi psicotici e nevrotici e nutrivano un senso di colpa verso i genitori, che fossero vivi o morti (…) con la crescente integrazione gli italo-americani nati in America divennero più disponibili a parlare dei rapporti familiari in termini negativi senza provare un senso di tradimento, nonché più inclini a illustrare le qualità positive della famiglia senza sentimentalismo” da J. Mangione, B. Morreale, op. cit. Emigrazione e socialismo Al socialismo italiano, con l’unica eccezione di Antonio Labriola, mancò in generale un’elaborazione teorica e politica complessiva sulla questione dell’emigrazione di massa, in particolare ai socialisti sfuggì il fatto che questo fosse un fenomeno permanente del modello di accumulazione e sviluppo che il Paese stava imboccando e non semplicemente uno squilibrio temporaneo e, sebbene sul lungo periodo, riassorbibile. Dall’iniziale sostegno all’emigrazione come segnale della “rivoluzione silenziosa” che investiva le campagne meridionali e che era considerata la diretta conseguenza del mancato radicamento dell’idea socialista espressosi nel fallimento ripetuto di sparsi episodi di rivolta, il Partito Socialista approdò all’appello riformista ad una legislazione sociale che avesse per oggetto il rimpatrio dei disoccupati e degli infermi, la fondazione di scuole di arti e mestieri, la guerra all’emigrazione clandestina, l’invio di ispettori nei mercati del lavoro esteri più frequentati. Dopo che per anni nella vita congressuale e nell’elaborazione politica del Psi, le questioni legate all’emigrazione furono relegate nei programmi minimi e sminuzzate su scala regionale quasi a mostrarne la portata meramente locale, con l’eccidio degli Italiani ad Aigues-Mortes, i socialisti prenderanno coscienza della necessità dell’aggregazione politica degli Italiani all’estero. Per la diffusione capillare di una rete d’informazione, anche a mezzo stampa, e l’impegno in proposito profuso dall’Internazionale dei lavoratori, l’azione di proselitismo riuscì più in Europa che nel Nuovo Mondo. Lo confermano le preoccupazioni del clero che si mosse per preservare dall’infezione socialista i rimpatriati ed evitare ad opera di questi ultimi la diffusione di qualsivoglia forma di organizzazione di classe. Con gli inizi del Novecento, l’associazione socialista detta Umanitaria inizia la conquista dell’emigrazione italiana nel continente europeo con spunti decisamente concorrenziali verso le organizzazioni cattoliche e il mutualismo patriottardo che aveva fin qui trovato espressioni in associazioni come la sabauda Figli d’Italia. Suoi scopi furono l’assistenza ai lavoratori italiani all’estero perché godessero delle garanzie minime necessarie a salvaguardarne la vita e la professione, ma anche la progressiva sindacalizzazione di questi ultimi, chiamati a prendere coscienza dei propri diritti e a stilare rivendicazioni conseguenti. Non infrequente fu allora il caso di operai rimpatriati che, al ritorno in patria, si fecero promotori di nascenti Camere del Lavoro o Cooperative intese a politicizzare aree tradizionalmente estranee all’impegno o controllate dalle forze conservatrici favorevoli alle ragioni del padronato. Si disse allora che uno degli effetti più devastanti dell’emigrazione era la secolarizzazione, cioè l’abbandono dei valori tradizionali di obbedienza e di sottomissione che avevano fatto dei lavoratori, soprattutto delle campagne, una massa docile ai voleri dei proprietari delle terre e del clero. Il pericolo doveva suonare grave se già alla fine dell’Ottocento il Ministero degli Interni invitava i parroci a leggere in chiesa le circolari che mettevano sull’avviso gli aspiranti emigranti contro i pericoli riservati da questa audace esperienza. A livello europeo la questione dell’integrazione dei lavoratori stranieri nel tessuto sociale del proletariato dei Paesi ospiti fu oggetto di dibattito nei Congressi dell’Internazionale socialista che di questo tema si occupò in occasione delle riunioni di Bruxelles (1891) e di Zurigo (1893), dove Antonio Labriola chiese con un vivace intervento misure specifiche a sostegno della sindacalizzazione dei lavoratori italiani emigrati. Fu tuttavia al congresso di Stoccarda del 1907 che i socialisti europei assunsero posizioni definitive in merito auspicando la stretta collaborazione tra le organizzazioni sindacali dei paesi interessati ad offrire e ricevere lavoro e la lotta contro la cosiddetta emigrazione artificiale, cioè quella indotta dall’intervento di mediatori inaffidabili. A Stoccarda si decise inoltre di vigilare sulla qualità dei viaggi cui i migranti si sottoponevano e di contribuire alla diffusione di materiale informativo attendibile sui mercati del lavoro internazionale. Gli anni successivi videro la formazione di veri e propri partiti socialisti di lavoratori italiani in molti stati d’Europa, un cammino verso l’emancipazione che sarà tuttavia interrotto dallo scoppio della Prima guerra mondiale e dalla successiva decisa politica di smantellamento delle organizzazioni di classe perpetrata dal Fascismo. Box I FATTI DI AIGUES MORTES (AGOSTO 1893) E LE LORO RIPERCUSSIONI IN MONFERRATO Mai come in questi anni si parla nella società occidentale e particolarmente in quella italiana della necessità di integrazione tra razze, nazionalità e culture diverse. È quindi interessante ricordare un fatto avvenuto poco più di un secolo fa in un paese della Francia, quando la comunità di operai italiani che vi si era portata spinta dalla necessità di trovare lavoro fu oggetto di una furiosa rivolta xenofoba, ormai quasi dimenticata, da parte dei “cugini d’Oltralpe”.[1] La condizione degli emigranti Erano gli anni duri di fine Ottocento. La situazione di vita nelle campagne si stava facendo sempre più precaria; per le famiglie numerose, costrette per lo più ai contratti di schiavanza, l’esubero di manodopera e la contemporanea presenza di persone da sfamare in qualche modo non permetteva sostanziali vie di scampo che non fossero quelle del trasferimento da un paese all’altro come avventizi o “servi di campagna” a contratto dai particolari più ricchi. La viticoltura attraversava anch’essa un periodo nero, con la rapida diffusione di malattie che pregiudicavano non solo il raccolto corrente ma il futuro dell’intero vigneto: fillossera, iodio, peronospora.  Frequenti erano anche i danni causati dalle brinate tardive e dalle immancabili grandinate estive.[2]  A ciò si aggiunga il crollo del prezzo del vino e le difficoltà di esportazione dei prodotti agricoli nella vicina Francia, con la quale si stava combattendo un’aspra quanto insensata guerra doganale.[3] In generale, dall’inizio degli anni ‘80 si era verificato un forte crollo dei prezzi per i prodotti dell’economia contadina: vino, ma anche grano, canapa, bozzoli.  Per contro aumentavano i prezzi dei prodotti che le famiglie rurali erano costrette ad acquistare. Per sfuggire alla precarietà della occupazione in agricoltura molti cercavano fortuna -miraggio di un lavoro più sicuro e redditizio- all’estero. Era la Francia ad essere méta privilegiata di questi emigranti, molti dei quali partivano proprio dal Piemonte, dallo stesso Monferrato. Tanti, dopo aver passato il confine ed essersi trovati in un Paese straniero, incapaci di capirne l’idioma e di salvaguardare i propri interessi, dovevano essere rimpatriati forzatamente, ricorrendo alle autorità consolari. Una circolare del Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, emanata nel settembre 1889 parlava chiaro.[4] “Si rinnova l’inconveniente che molti individui ancora soggetti agli obblighi militari, muniti del solo passaporto per l’interno si recano all’estero, ed in specie in Francia.  Quivi molte volte accade di non poter essere occupati in alcun proficuo lavoro e se non sono provvisti di mezzi proprii per campare non sanno più come trarre innanzi la vita. (...) In ogni caso poi agli operai che si dirigono in Francia senza aver prima avuta una qualche assicurazione di trovarvi lavoro e che non portano con sé sufficiente peculio, dovranno essere rammentate le ben note difficoltà cui possano andare incontro, e le misere condizioni alle quali verranno a ridursi”. Italiani nelle saline francesi Ad Aigues Mortes, cittadina di 4000 anime, nel dipartimento di Gard nella Francia meridionale, sulle Bocche del Rodano a 25 chilometri da Nîmes e da Montpellier, si trovava stanziata una nutrita colonia di operai italiani che avevano trovato occupazione nelle vicine saline[5] di Perrier e Peccais; i nostri connazionali erano preferiti ai colleghi francesi perché meno sindacalizzati e disposti ad accettare paghe inferiori pur di poter lavorare.  Il lavoro in salina era duro, scarsamente remunerato, e si svolgeva in un ambiente paludoso, dove sempre erano in agguato le febbri malariche.  “Tutti questi operai lavoravano in condizioni penose, esposti tutto il giorno a un sole ardente, con gli occhi bruciati dal bagliore accecante dei cristalli di sale che scintillavano al sole, senza altra ombra dove riposare gli occhi che non fosse quella del cappello a larghe falde, coi corpi che gocciolavano di sudore, coperti di graffiature, scorticati dal canestro di vimini, mal protetti da una tela di sacco gettata sulla spalla, con le mani tagliate dai cristalli di sale, calzando zoccoli di legno guarniti di paglia”.[6] Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex-galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani e 150 francesi, anche se di questi ultimi se ne erano presentati 800: gli italiani, come ripeto, pur di lavorare avevano accettato una paga sensibilmente inferiore (circa i due terzi) rispetto ai francesi. La cittadina di Aigues Mortes è graziosa, ricca di memorie del passato, recinta da una fortezza innalzata ai tempi del re San Luigi (sec. XIII), ma al turista si presentava inequivocabilmente come località di estrazione del sale.  Così sarebbe apparsa nel 1928 ad Ugo Ojetti, acuto osservatore di uomini e cose:[7] “Sorgono sulle barene montìcoli di sale d’un candore tanto aggressivo che sembrano tutti sullo stesso piano, grandi e piccoli, non vicini e lontani. Appena li scorgo, mi spiego questa salsezza che da un’ora mi stringe e bagna la bocca.  Il sale è qui benefico padrone dell’acqua, dell’aria, e anche della terra perchè nelle vigne che ora si piantano in questi sabbioni, l’uova della fillossera sono arse dal sale prima di riuscire a schiudersi in larve: tanto sale che nella torre chiamata ancóra dei Borgognoni, cinquecent’anni or sono, le truppe del re calarono non so quanti borgognoni scannati e, per evitare la peste, liberalmente sotto mucchi di sal bianco li salarono come acciughe in un barile, che l’anime loro devono ancóra mugolar per la sete”. I connazionali emigrati vivevano a circa dieci chilometri dal paese, sistemati alla meglio in grandi capanni con il tetto di frasche: la maggior parte però dormiva all’aperto, sotto un ombrellone, appoggiando il capo contro un tronco di legno a mo’ di guanciale. Italiani e francesi ai ferri corti Le relazioni dei nostri connazionali con i residenti francesi erano sempre state tese, caratterizzate da grande diffidenza, quando non da aperta ostilità. “I rapporti non erano mai stati buoni e i francesi avevano sempre avuto qualcosa da rimproverare agli italiani.  Tutti ladri e puttane, protettori e fannulloni.  Pronti a mangiare il loro pane.  Le cose peggiorarono quando si cominciò a parlare del rinnovo della Triplice,[8] che scadeva nel febbraio del ‘91.  I francesi, che si occupavano di politica più degli italiani, sapevano che l’Italia avrebbe spinto per quel rinnovo.  Uno schiaffo per la Francia che ospitava e dava lavoro a tanti italiani senza chiedere a loro che ne pensassero della Triplice. Per la verità gli italiani che lavoravano in Francia avevano altri problemi che occuparsi di politica.  E di Triplice Alleanza in particolare.  Avevano il problema del lavoro, della casa, del mangiare, dei familiari rimasti in Italia ... E non si arrabbiarono quando i francesi cominciarono a chiamarli «ritals».  Non ne conoscevano il significato ma di certo era offensivo.  Non si arrabbiarono e aggiunsero «ritals» alla lista dove stavano già «briseurs» e «macaronis» e continuarono a rispondere«ui mossiè» e a chinare il capo”.[9] L’Italia era infatti legata dal 1882 da una alleanza politico-militare con Prussia e Austria-Ungheria, detta appunto “Triplice Alleanza”.  Rinnovata nel 1887 dopo il primo quinquennio, era stata riconfermata anche nel 1891, con grande risentimento delle nazioni tradizionalmente antiaustriache e antitedesche, prima fra tutte la Francia.[10]  Con il passare del tempo la diffidenza dei francesi verso gli italiani si faceva sempre più accentuata e sfociò in una vera e propria rivolta, il 17 agosto 1893.  Causa prossima degli scontri sarebbe stato, la mattina del 15, il tentativo di un piemontese di lavare un fazzoletto sporco di sale[11] usando l’acqua potabile.  Ecco come il bel libro di Guccini e Macchiavelli ricostruisce il fatto: “Cominciò proprio alle saline di Peccais durante la pausa del mattino: gli operai francesi e italiani mangiavano in silenzio la zuppa, sistemati alla meglio sul bordo delle paludi; per gioco, o forse per sfregio, un francese gettò della sabbia sul pane che un torinese stava mangiando, seduto dinanzi a lui. Il torinese non protestò.  Pulì il pane con il fazzoletto che poi andò a lavare nella bacinella di acqua dolce che la «Compagnie» distribuiva esclusivamente per uso potabile.  L’acqua dolce era preziosa, specie nei mesi estivi. «Ehi tu, orso!» gli gridò il francese.  Gli altri suoi compatrioti ridevano, ma forse era solo rabbia repressa per troppo tempo. «Lo sai o non lo sai che con quell’acqua ci dobbiamo arrivare a sera?  Se vuoi lavare il fazzoletto, pisciaci sopra che tanto è lo stesso per un italiano come te!». Il torinese era un tale di poche parole ma ci sapeva fare con il coltello.  Che estrasse dalla tasca, aprì e agitò sotto il naso del francese: «Merda!  Io me ne fotto di te e di tutti i francesi!» L’episodio non ebbe apparentemente seguito.  Il giorno successivo alcuni operai italiani, volendo vendicare il compagno offeso, avrebbero organizzato una spedizione punitiva ai danni dei francesi, provocando, secondo il “Times” di Londra, due morti e alcuni feriti.[12]  Più probabilmente però si trattò di un’assurda menzogna, propalata ad arte dalle autorità francesi desiderose di offrire alla folla un pretesto qualsiasi per esacerbare gli animi. La mattina di giovedì 17 agosto oltre 500 francesi inferociti attaccarono i capanni che ospitavano circa 100 italiani: da quel momento ebbe inizio una colossale caccia all’italiano, che devastò la cittadina di Aigues Mortes e i suoi sobborghi.  Al grido di “A morte gli italiani! Viva l’anarchia! Viva la Francia e morte all’Italia!  Fuori gli orsi italiani!”, la folla, armata di pietre, bastoni e forconi diede l’assalto agli improvvisati rifugi dei nostri connazionali, scoperchiando il tetto e devastando ogni cosa.  Un operaio che si trovava coricato febbricitante venne massacrato a colpi di mattoni. Intervenne la forza pubblica (18 gendarmi) che fece sgombrare i capanni e intimò agli italiani di portarsi alla stazione per non provocare l’ira dei manifestanti; tra gli insulti, gli scherni e le bastonate iniziarono ad allontanarsi, ma ben presto vennero accerchiati dalla turba che portava in alto le bandiere tricolori della Repubblica Francese.  Risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dai gendarmi e dai manifestanti: l’operaio Secondo Porta di Roatto d’Asti, colpito da una bastonata, cadde bocconi, esanime.  Un francese che aveva percosso il cavallo d’un gendarme venne da questo freddato senza esitazione: il suo cadavere fu portato in corteo e anche di questa assurda morte si accusarono “les italiens”. Molti connazionali, vistisi spacciati, tentarono   il tutto per tutto, gettandosi negli stagni salmastri o fingendosi morti: alcuni fortunati sarebbero riusciti ad attraversare gli stagni e a raggiungere Marsiglia a piedi dopo una marcia estenuante. Una ventina di piemontesi, gettatisi nella melma dell’”Etang des Pesquieres”, vi rimasero imprigionati e bersagliati dalle pietre che i francesi lanciavano dagli argini: moriranno tutti, ad eccezione di un tale Antonio Cappellini, che riparerà anch’egli a Marsiglia. La furiosa caccia all’italiano durò due giorni.  Non sarà possibile stilare un esatto bilancio delle vittime, poichè molti corpi senza vita -e qualcuno ancora in vita- furono gettati senza pietà nelle paludi e mai più ritrovati. Il numero dei morti può andare da un minimo -improbabile- di 7 o 9 (secondo la stampa francese) fino a 50 o più (secondo il “Times” di Londra): altre fonti parleranno addirittura di un centinaio di vittime, oltre ad un centinaio di feriti.[13] Va sottolineato l’atteggiamento tenuto nel corso della vicenda dalle autorità locali e in primo luogo dal maire (sindaco) di Aigues Mortes: costui mentre infuriava la follia xenofoba pubblicò due proclami in cui si annunciava che la Compagnie aveva ritirato ogni provvista di lavoro agli italiani e che lo scopo delle manifestazioni si era realizzato: “Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci pacificamente allavoro, proviamo che il nostro scopo è stato raggiunto, e le nostre rivendicazioni soddisfatte”.[14] Né va dimenticata l’assai scarsa umanità dimostrata dagli ospedali locali, che per ben otto oro si erano rifiutati di accogliere e curare i feriti. Raminghi per il Monferrato I superstiti delle violenze di Aigues Mortes, circondati dall’odio della popolazione locale, ormai considerati e trattati come pericolosi criminali, furono avviati alla frontiera di Ventimiglia e rimpatriati. Alcuni di essi, passando da Asti, giunsero anche in Monferrato, dove, sfiniti dal viaggio e privi di ogni mezzo,si adattarono a chiedere la carità alle parrocchie e ai municipi.  Nel corso del riordino dell’interessante Archivio storico del comune di Penango ho rinvenuto una serie di documenti, allegati ai mandati di pagamento, che testimonia di quella pagina tristissima di storia italiana di fine secolo.  Il Comune monferrino[15] elargì complessivamente 50 lire a titolo di sussidio straordinario (in ragione di 25 centesimi a persona, ma va tenuto conto che qualcuno sarà stato beneficato in più di una frazione) a titolo di “sussidii a poveri operai indigenti di passaggio come esuli dalla Francia per rimpatriare”.  Diciannove lire furono pagate nel capoluogo, 17 nella frazione Cioccaro e 14 a Santa Maria e Patro. Ancora nell’anno 1895 si ha notizia di alcuni di questi malcapitati che continuavano ad aggirarsi per il capoluogo e per le frazioni Cioccaro e Santa Maria: di una sessantina di essi di essi si conoscono anche le generalità e la residenza. L’esame della documentazione permette quindi di stabilire che se alcuni erano piemontesi (Cuneo, Biella, Intra, Carmagnola, Mondovì), altri erano nativi della vicina Lombardia (Sesto Calende, Mantova, Brescia, Milano), altri ancora provenivano dal Triveneto, terra d’eterna emigrazione (San Martino d’Adige presso Verona, Monselice in provincia di Padova, Treviso, Palmanova, Udine); qualche altro giungeva dalla Toscana (Prato, Pisa) e tra di essi si trova anche notizia di un ticinese di Bellinzona, oltre a due tedeschi probabili compagni di sventura in Francia oppure aggregatisi a loro cammin facendo.  Le reazioni in Italia I fatti di Aigues Mortes ebbero un bilancio tragico sia nell’immediato che negli anni successivi (alcuni degli esuli non fecero mai ritorno a casa, continuando a vagabondare per le campagne monferrine ormai ridotti a mendicanti); anche in Italia si ebbero in quell’agosto 1893 reazioni violente e scomposte, seppure comprensibili.[16] A Roma la sera del 19 agosto una turba di dimostranti con alla testa le bandiere abbrunate si recò vociando in tutti i punti della città dove avevano sede istituzioni francesi, prima fra tutte l’Ambasciata di Francia a Palazzo Farnese.  La sera del giorno dopo, domenica, quando i giornali avevano pubblicato tutti i particolari del massacro di Aigues Mortes, i manifestanti si riunirono di nuovo a piazza Colonna, dove un anarchico italiano, Ciro Corradetti, che aveva osato gridare “Viva la Francia!” in mezzo a tutti “Abbasso la Francia!”, rischiò di essere linciato.  Si tentò di dare l’assalto al Palazzo Farnese, ma l’intervento della truppa di stanza nella Capitale valse a scongiurare il fatto.  La mattina del 21 gli operai dei cantieri del Policlinico, del palazzo di Giustizia e del monumento a Vittorio Emanuele II scesero in sciopero spontaneo e si diressero nuovamente verso l’Ambasciata: ad essi si unirono, per aumentare la confusione, anche molti anarchici che si portarono sotto le finestre del Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti per fischiarlo sonoramente.[17]  Vennero pure erette barricate, smantellate solo con l’occupazione militare della città da parte dei cavalleggeri.  L’ordine definitivamente ritornò in seguito alla dichiarazione dello stato d’assedio. A fare le spese di tutto ciò fu il prefetto, senatore Andrea Calenda di Tavani, già prefetto di Alessandria e di Palermo, che fu rimosso dall’importante incarico e collocato a riposo.[18]  Analoga sorte toccò all’ispettore reggente della Questura, Sandri. Anche a Napoli l’eco dei fatti di Camargue infiammò gli animi, inserendosi in un momento già delicato a causa di uno sciopero ad oltranza dei vetturini: vennero distrutti parecchi omnibus, fanali, vetture tramviarie e negli scontri tra dimostranti e forza pubblica si dovettero contare anche alcune vittime; in particolare venne ucciso un ragazzo di tredici anni, Nunzio De Matteis, colpito al collo e al ventre da un sottufficiale dei carabinieri.  Il prefetto, senatore Carmine Senise, fu indotto a chiedere di essere sostituito. Il giornalista partenopeo Edoardo Scarfoglio, facendosi interprete dell’indignazione che montava in tutto il Paese, scrisse in quei giorni, rivendicando un’energica azione riparatrice: “Che a tutte le finestre d’Italia sventoli una bandiera, che da ogni bocca italiana irrompa un grido eccitante il Governo a non esitare, a non tremare, a esigere una riparazione piena, solenne, immediata, quale sola può convenire a chi ha il diritto di chiederla e la forza di ottenerla”. Altre manifestazioni, seppure meno cruente, si ebbero a Milano, Genova, Livorno, Venezia e Imola. Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio  La riparazione L’azione, per la verità non troppo energica come avrebbe voluto Scarfoglio, tesa ad ottenere soddisfazione presso i francesi giunse poche settimane dopo. Il Presidente del Consiglio Charles Dupuy informò lper far luce sugli scontri e dispose l’invio di 2.000 ’ambasciatore d’Italia che era stata aperta un’inchiesta franchi a titolo di risarcimento per i feriti e le famiglie delle vittime. L’inchiesta finirà col riconoscere colpevoli sei “sobillatori”, evidentemente utili capri espiatori di ben più ampie responsabilità, che saranno condannati a risibili ed oltraggiose pene da uno a sei mesi di carcere.  Il maire di Aigues Mortes Marius Terras verrà dapprima sospeso dalla sue funzioni, poi costretto a dimettersi.  Non fu casuale che il “Petit Marsellais” del 23 agosto abbia scritto: “Il governo ritiene che la compagnia [delle saline, ndA] è libera di assoldare i lavoratori che ritiene opportuni.  Non si può chiedere al governo di mettere un gendarme dietro ad ogni straniero”.  E la Triplice? Da parte loro gli alleati austro-germanici riconfermarono -a parole- tutta la loro solidarietà al governo italiano, evidentemente cercando di sfruttare l’accaduto in funzione antifrancese, non senza fra balenare lo spettro di un non troppo improbabile conflitto che sanasse ogni contrasto.  Scrisse la “Neue freie Presse” di Vienna il 22 agosto: “Le Potenze amiche dell’Italia giudicano l’intera questione dallo stesso punto di vista [del governo italiano] e l’atteggiamento moderato, e purtuttavia intransigente, adottato dal Signor Giolitti, primo ministro italiano, sarà pienamente approvato sia da Vienna sia da Berlino.  È più che giusto che il governo italiano esiga le giuste riparazioni per i morti di Aigues Mortes, ma è d’altra parte cosa saggia offrire alla Francia la possibilità di giustificarsi”.[19] Osserverà poi acutamente il Salvatorelli:[20] “Il Kálnoky [Ministro degli Esteri austriaco, ndA], pur non accettando la domanda italiana di far presente formalmente alla Francia la necessità di una pronta soddisfazione all’Italia, fece tuttavia comunicare confidenzialmente al ministro degli Esteri francese la sua speranza che egli facesse quanto occorreva per eliminare l’incidente.  Invece a Berlino si ritenne di doversi astenere da qualsiasi dichiarazione a Parigi per evitare ogni apparenza di pressione. L’incidente diplomatico fu chiuso con la sospensione del maire di Aigues Mortes, l’apertura di una severa inchiesta e la espressione reciproca del rincrescimento dei due Governi (...).L’Ambasciatore italiano trovava, in confidenza, poco soddisfacenti le riparazioni francesi (...).  In generale egli constatava che le relazioni tra Francia e Italia divenivano sempre peggiori; da anni i Francesi lavoravano a staccare l’Italia dalla Triplice danneggiandola nell’economia, ma invece creavano soltanto un pericolo di guerra.  Secondo le sue impressioni, in Italia c’era la tendenza anche nelle più alte sfere a considerare la guerra come una soluzione”. Un po’ di reticenza Raccogliendo il materiale per questo articolo e consultando parecchie opere di storia contemporanea,[21] ho dovuto constatare come molti testi di autori sia italiani che stranieri non danno ai fatti di Aigues Mortes l’importanza che essi effettivamente meritano, se non altro per rispetto di quelle vittime, e tendono a relegare la “caccia all’italiano” tra gli episodi di ordinaria cronaca fin de siécle.  A questa parziale reticenza non sarà estraneo il desiderio di non guastare i ristabiliti buoni rapporti con i cugini d’Oltralpe, a partire dagli anni della I guerra mondiale per giungere fino ad anni molto vicini a noi. Ecco un saggio di come quell’episodio è citato anche da storici di notevole vaglia: “Può ricordarsi (...) come negli anni torbidi dei rapporti tra Italia e Francia le voci di colpi di mano francesi corressero insistentemente tra noi, e fossero accolte anche dalla stampa più moderata (cfr. ad esempio «Torpediniere francesi sorprese in Sicilia?» nella prima pagina del n. 8-9 gennaio 1894 della «Gazzetta piemontese»)[22] “Le relazioni con la Francia peggiorarono sino al punto che ad Acque morte s’ebbe un episodio di caccia sanguinosa agli operai italiani, il che provocò controdimostrazioni violente in Italia, soprattutto a Roma”.[23] “I fatti di Aigues Mortes, presso Marsiglia, suscitarono in Italia un’emozione profonda.  Scarfoglio nel suo giornale predicò la guerra alla Francia.  Gli amici di Crispi rialzarono la testa, augurando che il fiero siciliano si mettesse a capo della nazione per vendicare l’offesa.  Il ministero venne accusato di remissività e attaccato violentemente”.[24] “Durante l’ultimo decennio del diciannovesimo secolo le relazioni franco-italiane furono estremamente tese.  La guerra commerciale di Crispi portò a gravi conseguenze psicologiche, non meno che economiche e l’ostilità latente trovò libero sfogo in seguito ad alcuni tumulti contro immigrati italiani avvenuti nel 1893 ad Aigues Mortes”[25]  “Nonostante il ristabilimento di una politica di buon vicinato con la Francia, nell’agosto del ‘93 si dovette deplorare, a Aigues Mortes, una violenta e massiccia aggressione, che fece una trentina di vittime, contro gli operai italiani immigrati, accusati di lavorare a salari più bassi di quelli dei francesi.  Per reazione, in Italia si svolsero energiche manifestazioni antifrancesi, contrastate a loro volta, a Milano, a Roma e a Napoli, da dimostrazioni di piazza dei repubblicani, degli anarchici, dei socialisti e dei radicali, uniti nell’ostilità alla politica estera triplicista, cioè ufficialmente germanofila, che era quella del Regno”.[26] La stessa autorevole “Enciclopedia Italiana” al termine della voce “Aigues Mortes” si limita ad affermare: “Il 19 agosto 1893, in un periodo di tensione franco-italiana, circa 400 operai, che lavoravano in Aigues Mortes, furono gettati nel Rodano dalla folla imbestialita”. Da parte sua il “Dictionnaire universel d’histoire et de géographie” del Bouillet spiega solamente che la cittadina di Aigues Mortes è celebre per le immense saline di Peccais, per le fabbriche di soda e per il commercio dei vini e che nel 1849 vi venne eretta una statua equestre di San Luigi. Voci fuori dal coro sono quelle delle destre. Nel suo diario il futuro prefetto di Torino, marchese Alessandro Guiccioli, ultraconservatore, stigmatizzò con forza la posizione a suo dire imbelle del governo italiano: “20 Agosto.  I giornali portano una notizia atroce: sono avvenuti massacri di operai italiani in Francia, ad Aigues Mortes.  È una delle frequenti esplosioni di ferocia selvaggia di quel popolo civile che pur ha, come diceva Voltaire, qualche cosa della scimmia e della tigre.  Ma noi Italiani che cosa faremo?  Mostreremo la collera terribile di una grande Nazione offesa nella vita dei suoi figli e nel prestigio del suo nome?  Ne dubito assai.  Non Giolitti, non Brin[27] possono sentire queste cose.  Saremo, come di consueto, «prudenti» (...) 22 Agosto.  A Roma e in tutte le altre città d’Italia vi sono state imponenti dimostrazioni, come giusta ed energica protesta contro il brutale episodio di Aigues Mortes.  Come se la caverà il Governo?  Alla prepotenza di Parigi fa riscontro la fiacchezza della Consulta, mentre la nostra opinione pubblica è troppo infiammata per contentarsi di piccole e tardive riparazioni.[28] Anche Gioacchino Volpe nella sua “Italia moderna”[29] userà toni alquanto polemici, specialmente nei confronti del potere politico incapace di imporsi in ambito internazionale: “Le soddisfazioni che noi avevamo diritto di chiedere e ottenere dalla Francia, finimmo per doverle dare noi, o assai maggiori noi che non ne desse la Francia.  In questo, sì, il Governo italiano fu pronto ed energico...”  Da parte sua, la storiografia dell’estrema sinistra marxista porrà specialmente l’accento sul carattere antiborghese delle manifestazioni di piazza avvenute in Italia e stigmatizza l’atteggiamento “reticente” dello stesso Partito socialista.  Così ad esempio si legge in un’opera di matrice ideologica inequivocabile:[30] “È grande merito del Valiani avere riscoperto, attraverso alcune lettere sconosciute del Labriola, questi moti senza storia.  La borghesia li aveva sempre taciuti e i socialisti li avevano ignorati come cosa senza importanza ed anzi controproducente.  Pure rileggendo i giornali di quell’epoca si ha l’eco della profondità e dell’importanza di tali sommosse anche se tutto si svolse in maniera spontanea e priva di ogni organizzazione”. In buona sostanza, questi moti, ad averli saputi dirigere nel modo opportuno si sarebbero ben potuti vedere come la prova generale della rivoluzione, anticipando la rivolta dei Fasci siciliani (autunno-inverno 1893-1894) e le sommosse di Lunigiana (gennaio 1894). In conclusione Ad oltre un secolo da quei giorni dell’agosto 1893 resta a noi, incamminati verso il fatidico terzo millennio e giustamente fautori dell’integrazione razziale e culturale, la documentazione di un episodio eclatante, testimonianza di un epoca in cui il rispetto per i “diversi” era soltanto un modo di dire.[31] Note al testo ------------------------ [1]  La notizia del ritrovamento di carte testimonianti il passaggio dei profughi da Penango è già apparsa sul settimanale “L’Eco del Lunedì” di Asti, mentre un breve articolo a firma dell’Autore è stato pubblicato da “La Vita casalese” di Casale Monferrato nell’aprile 1999. [2]  In queste circostanze sfavorevoli stavano, per la verità, svolgendo opera meritoria di propaganda e di informazione tecnica le Cattedre ambulanti di agricoltura istituite presso i Comizi agrari circondariali.  Il Comizio casalese vedrà negli anni a cavallo tra i due secoli l’opera meritoria ed instancabile di molti pionieri, tra cui si segnala in particolare l’enotecnico Mario Zavattaro, responsabile per il settore vitivinicolo. [3]  I contrasti erano sorti nel 1887, in seguito al rialzo delle tariffe daziarie italiane, che penalizzavano le merci d’Oltralpe.  La Francia, da parte sua, aveva controbattuto limitando di molto l’importazione di prodotti agricoli dal nostro Paese.  La disastrosa “guerra doganale” si rivelerà assai deleteria per l’economia italiana, ancora essenzialmente agricola. [4]  Tratto dal “Foglio periodico della Prefettura di Alessandria”, raccolta dell’anno 1889, conservato nella biblioteca giuridica annessa all’Archivio storico del Comune di Penango. [5]  L’importanza economica del sale e delle saline è assai notevole, già a partire dal Medioevo: il sale era infatti il più comune condimento e conservante per gran parte degli alimenti.  Ciò spiega la gran quantità di tasse, gabelle e balzelli che gravavano su questo prodotto in tutti gli Stati dell’Ancien Régime, non ultimo il Piemonte sabaudo.  Ancora fino al 1973 in Italia la vendita del sale era regolata da un regime di monopolio. [6]  J.-C. Hocquet “Il sale e il potere. Dall’anno mille alla rivoluzione francese”, ECIG, Genova; 1990 (p. 29) [7]  In “Cose viste”, vol. V, Treves, Milano; 1931 (p. 25) [8]  La Triplice Alleanza tra Italia, Austria e Prussia. [9]  F. Guccini - L. Macchiavelli “Macaronì. Romanzo di santi e delinquenti”, Mondadori, Milano; 1997. [10]  Ai francesi bruciava ancora la pesante sconfitta subita nel 1870 a Sedan per opera delle truppe prussiane: dalla disfatta sarebbe uscito deposto l’imperatore Napoleone III, che avrebbe lasciato il potere nelle mani di un regime repubblicano (la Terza Repubblica). [11]  Secondo altre testimonianze, l’italiano avrebbe adoperato l’acqua potabile per lavare una scodella. [12]  La notizia è riportata in R. Paris “L’Italia fuori d’Italia. L’emigrazione”, in “Storia d’Italia”, vol. IV, tomo 1, Einaudi, Torino (p. 536) [13]  Certamente eccessiva è la stima di 400 vittime riportata dal recente “Dizionario di Storia”, Ed. Il Saggiatore - Bruno Mondadori, Milano; 1993. [14]  Citato in P. Giudici “Storia d’Italia dalla fondazione di Roma ai giorni nostri”, Nerbini, Firenze; 1960 (vol. IV, p. 139) [15]  Era allora sindaco di Penango l’avvocato Giovanni Minoglio, assessori gli avvocati Luigi Caligaris e Giovanni Biletta, Lorenzo Rosmino ed Enrico Caviglia; Modesto Manacorda era segretario comunale. [16]  Nel nostro Paese l’opinione pubblica era ancora stordita dalle notizie di uno dei primi scandali legati alla malversazione dei politici, l’affare della Banca Romana.  Sedeva alla guida del Governo il cuneese Giolitti, alla guida di un gabinetto “liberale progressista”, ma tanto indebolito dagli avvenimenti interni ed internazionali da indurlo a dimettersi prima della fine dell’anno. [17]  Va pur detto che in quei giorni successivi al ferragosto i palazzi del potere erano pressochè deserti: non il Presidente del Consiglio, non il Ministro degli Interni o il sottosegretario, non il prefetto, né il questore, né il sindaco erano presenti a Roma quando scoppiarono i tumulti. [18]  Nel dicembre dello stesso 1893 il fratello del prefetto Calenda, l’avvocato Vincenzo, sarebbe stato nominato Ministro di Grazia e giustizia nel III gabinetto Crispi. [19]  R. Paris, cit. (p. 540) [20]  L. Salvatorelli “La Triplice Alleanza. Storia diplomatica (1877-1912)”, Istituto per gli Studi di politica internazionale, ...; 1939 (p. 185) [21]  Parecchi testi da me citati provengono dal fondo bibliografico del defunto generale Luigi Mondini, già Capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, conservato presso il Municipio di Grazzano Badoglio.  Ringrazio le autorità municipali per avermi permesso la consultazione. [22]  A. C. Jemolo “Crispi”, Vallecchi, Firenze; 1922 [23]  A. Savelli “Manuale di storia europea”, vol. IV “Evo contemporaneo (dal 1878 al 1922)”, 3ª edizione, Sansoni, Firenze; 1935 (p. 11) [24]  I. Bonomi “La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto (1870-1918)”, Einaudi, Torino; 1944 (p. 112) [25]  D. Mack Smith “Storia d’Italia dal 1861 al 1958”, Laterza, Bari; 1959 (p. 411) [26]  L. Valiani “La lotta sociale e l’avvento della democrazia” in “Storia d’Italia”, vol IV (“L’Italia dal 1876 al 1915”), UTET, Torino; 1960 (pp. 496-497) [27]  Il viceammiraglio Benedetto Brin, Ministro degli Esteri di Giolitti. [28]  A. Guiccioli “Diario di un conservatore”, Edizioni del Borghese, Milano; s.i.d. (p. 182) [29]  “Italia moderna”, vol. I (1815/1898), II ed., Sansoni, Firenze; 1973 (p. 261) [30]  R. Del Carria “Proletari senza rivoluzione.  Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950”, Edizioni Oriente, Milano; 1970 (vol. I, p. 243) [31]  In quegli stessi anni di fine secolo altri episodi, comunque gravi e spesso sanguinosi, si verificarono ai danni di emigrati italiani.  Nel 1890 a New Orleans 12 siciliani sospettati -a torto- di colludere con la malavita vennero linciati dalla folla inferocita: la faccenda, che rischiò di interrompere le relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti, si risolse con il risarcimento di 125.000 lire oro offerto dal presidente Harrison al governo di Roma.  Con buona pace dei morti.  Ancor prima, ancora in Francia, nel 1882, durante i lavori per la costruzione della ferrovia tra Arlès e Orange una nutrita colonia di sterratori piemontesi con mogli e figli al seguito era stata assalita e costretta con inaudite violenze a lasciare la zona e di conseguenza anche l’occupazione. Alessandro Allemano http://www.provincia.asti.it/comuni/moncalvo/boll9htm/aigues.htm L’apostolo dei migranti Come le altre istituzioni, anche la Chiesa prese atto con un certo ritardo della novità del fenomeno migratorio, preoccupandosi per lo più dell’effetto disgregante che questo sembrava avere sui nuclei familiari divisi dalle partenze e frequentemente disgregati dalla costruzione di nuovi “focolari” nei Paesi ospiti. Dai pulpiti i parroci presero a tuonare contro i nuovi costumi di cui i migranti, al ritorno in patria, erano portatori. Alla maggiore libertà morale, indice dell’emancipazione in questo settore da ogni autorità, si aggiungeva l’accresciuto livello di sindacalizzazione. Se dunque inizialmente le autorità avevano guardato al fenomeno migratorio come a una valvola di sfogo della questione sociale, i primi rientri lasciavano credere il contrario: alfabetizzati e coscienti del loro ruolo, quelli che ritornavano a casa premevano per un riconoscimento, in patria, dei propri diritti di lavoratori. Sollecitata da questa urgenza, vale a dire dalla necessità di arginare la diffusione del socialismo tra i lavoratori, oltre che dalla effettiva presa di coscienza del problema del lavoro, la Chiesa rinnovata dal pontificato di Leone XIII aderì alle proposte che andavano nella direzione dell’interessamento e della tutela dei migranti. A questo proposito sono significativi l’opera e il pensiero di monsignor Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza e attivo nell’assistenza agli emigrati al punto da meritarsi l’appellativo di loro “padre” e “apostolo”. Nativo di Fino Mornasco, in provincia di Como, Giovannni Battista conobbe il dramma dell’emigrazione in casa propria: suo fratello Giuseppe tentò il trasferimento verso il Nuovo Mondo, ma fu vittima del naufragio dell’imbarcazione sulla quale viaggiava, al largo della costa peruviana. Ordinato sacerdote nel 1863, Scalabrini mostrò da subito un vivo interesse verso l’idea di portare il Vangelo nelle più lontane regioni del mondo, tanto che manifestò l’intenzione di entrare a far parte del Seminario lombardo per le missioni estere, ma per anni la sua attenzione a quello che succcedeva fuori d’Italia fu deviata verso i compiti pastorali e assistenziali che le autorità ecclesiastiche comasche gli conferirono. Divenne vescovo di Piacenza nel 1876, carica che sostenne confermando l’interesse verso il mondo del lavoro già dimostrato e nella quale si distinse per l’energia con cui sostenne l’opera di catechesi, coronata dalla pubblicazione del Catechismo cattolico. Considerazioni che Leone XIII definì l’opera di un “genio”. Di fronte al grande esodo che interessava l’Italia di quegli anni (dal 1876 al 1905 emigrarono circa 8 milioni di Italiani), monsignor Scalabrini si schierò decisamente dalla parte di coloro che intendevano intervenire sulla questione, ritenendo fallimentare l’atteggiamento attendista di chi aveva deciso invece di “stare a guardare”. D’accordo con il collega e amico, il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, riteneva infatti che al fenomeno migratorio bisognasse guardare come a un segno dei tempi cambiati, come all’occasione offerta dalla Provvidenza perché la voce del Vangelo fosse portata in terre lontane; perché così fosse bisognava tuttavia che i migranti non venissero abbandonati a loro stessi, ma che diventasse oggetto delle attenzioni della Chiesa anche nei Paesi ospiti. Il racconto tradizionale vuole che Scalabrini, che già aveva conosciuto il dramma dei migranti durante gli anni del suo ministero giovanile in Valtellina e che ogni giorno, a Piacenza, assisteva al dramma dei disperati da lì diretti al porto di Genova, sia rimasto profondamente scosso da una visita alla stazione di Piacenza. Così lui stesso racconta l’impressione di quella giornata nell’opuscolo L’emigrazione italiana in America (1887): “ Un’onda di pensieri mesti mi faceva nodo al cuore. Chi sa qual cumulo di sciagure e di privazioni, pensai, fa loro parer dolce un passo tanto doloroso! (…) Quanti disinganni, quanti nuovi dolori prepara loro l’incerto avvenire? (…) Quanti, pur trovando il pane del corpo, verranno a mancare di quello dell’anima, non meno del primo necessario, e smarriranno, in una vita tutta materiale, la fede dei loro padri? (…) Di fronte ad uno stato di cose così lacrimevole, la vampa del rossore mi sale in volto, mi sento umiliato nella mia qualità di sacerdote e di italiano e mi chiedo: come venir loro in aiuto?”. Dunque il vescovo di Piacenza avvertiva con grande acutezza come il problema dell’emigrazione fosse motivo di riflessione morale oltre che sociale e come occuparsene avrebbe significato valorizzare un’occasione di collaborazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, allora ancora distanti per via delle divisioni innescate dalla soluzione della questione romana e dalla reazione pontificia del non expedit. Di qui l’impegno per il varo di una politica migratoria che finalmente disciplinasse il fenomeno e l’azione rivolta alla fondazione di associazioni di laici (la Società San Raffaele fu fondata nel 1889) e di religiosi (la Congregazione dei Missionari e delle Missionarie di San Carlo, sorte rispettivamente nel 1887 e nel 1895) attive nel promuovere l’assistenza sanitaria e religiosa ai migranti durante il viaggio, l’apertura di scuole per il mantenimento della cultura italiana all’estero, l’assistenza legale e di tutte quelle iniziative che erano d’aiuto agli emigranti nel superare le difficoltà del primo inserimento. Con la legge Visconti-Venosta del 1901, il primo articolato provvedimento in materia di emigrazione varato dal governo italiano, Scalabrini avrà la soddisfazione di vedere accolte dal Parlamento gran parte delle sue proposte. Alla vigilia della morte, nel Memoriale pubblicato nel 1905, il vescovo di Piacenza ribadiva la sua fiducia nel potere aggregante delle migrazioni, vera e propria opportunità per la costruzione della pace mondiale e osservava: “Non più soppressioni di popoli, ma fusioni, adattamenti, nei quali le diverse nazionalità s’incontrano, si incrociano, si ritemprano e danno origine ad altri popoli, nei quali, pure nella dissomiglianza, predominano caratteri determinati e determinate tendenze religiose e civili (…) La Chiesa cattolica è chiamata dal suo apostolato divino e dalla sua tradizione secolare a dare la sua impronta a questo grande movimento sociale, che ha per fine la restaurazione economica e la fusione dei popoli cristiani”. Fu dunque grazie all’opera di Giovanni Battista Scalabrini, precursore di quella che oggi passa sotto il nome di “inculturazione”, che la Chiesa prese coscienza del fenomeno migratorio e decise di intervenire di conseguenza. Di lì trasse ispirazione la Costituzione Apostolica Exsul Familia, pubblicata da Pio XII nel 1952, il primo documento ufficiale della Santa Sede che delinea in modo sistematico e generale la pastorale per i migranti, inquadrandola da un punto di vista sia storico che canonico. Poi il Concilio Vaticano II ribadì il dovere per i cristiani di prendere atto del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze, il diritto all’emigrazione e la dignità della persona del migrante confermando insieme come l’accoglienza dello straniero sia inerente alla natura stessa della Chiesa e testimoni la sua fedeltà al Vangelo. Seguirono il Motu proprio Patoralis Migratorum Cura, emanato da Paolo VI nel 1969 cui si affiancò, nove anni dopo, la Lettera circolare alle Conferenze Episcopali Chiesa e mobilità umana che offrì una lettura aggiornata del fenomeno migratorio e sottolineò l’esigenza della collaborazione tra le Chiese in vista di una pastorale senza frontiere. Da ricordare infine è l’appello a una Nuova Evangelizzazione, contenuto nell’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II. Nella recente (2004) Istruzione a cura del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti intitolata La carità di Cristo verso i migranti si legge: “La Chiesa ha sempre contemplato nei migranti l’immagine di Cristo, che disse: - Ero straniero e mi avete ospitato (Mt 25,35) – La loro vicenda, per essa, è cioè una provocazione alla fede e all’amore dei credenti, sollecitati così a sanare i mali derivanti dalle migrazioni e a scoprire il disegno che Dio attua in esse, anche qualora fossero causate da evidenti ingiustizie. Le migrazioni, avvicinando le molteplici componenti della famiglia umana, tendono in effetti alla costruzione di un corpo sociale sempre più vasto e vario, quasi a prolungamento di quell’incontro tra popoli e razze che, per il dono dello Spirito, nella Pentecoste, divenne fraternità ecclesiale. Se da una parte le sofferenze che accompagnano le migrazioni sono infatti espressione del parto di una nuova umanità, dall’altro le disuguaglianze e gli squilibri, dei quali essa sono conseguenza e manifestazione, mostrano in verità la lacerazione introdotta nella famiglia umana dal peccato, e risultano pertanto una dolorosa invocazione alla fraternità.” Box Tutto a tutti Fedele alla visione cristiana dell’uomo e della società, Scalabrini poneva al centro del fenomeno migratorio la persona umana, opponendosi alla concezione riduttiva di quelle ideologie che da sempre identificano il fenomeno migratorio con il solo suo aspetto economico. Quello degli emigranti è soprattutto un dramma umano, messo in evidenza dai vari gravi problemi: quello familiare che va dai ricongiungimenti all’educazione scolastica dei figli; quello culturale con l’esigenza di integrarsi nella nuova società, salvaguardando la propria identità culturale; quello della partecipazione alla vita politica e sindacale del Paese di adozione e l’attività associativa in genere; quello proprio di una diaspora che aspira ad un’aggregazione comunitaria; e tutti gli altri problemi che interessano il mondo del lavoro e del tempo libero, oltre che la possibilità di far rientro in patria. Ma assolutamente preminente vi è il problema religioso, che riguarda la possibilità di continuare a vivere la propria fede, problema che più di ogni altro allarmò e spronò il vescovo Scalabrini. Poiché la fede non può che essere “inculturata”, essa viene messa a repentaglio quando il fedele viene sottratto alla sua cultura, fatta di valori, di tradizioni e di lingua. Ecco perché Scalabrini diede somma importanza alla conservazione della propria lingua e cultura. Il dissolversi della comunità cristiana, la rarefazione della pratica religiosa e soprattutto la rottura del rapporto vitale con la parola di Dio, portano a una specie di apostasia pratica. Ragione per cui oggi i sociologi annoverano l’emigrazione tra i fattori dell’odierno fenomeno della secolarizzazione. Scalabrini additò dunque alla Chiesa un nuovo fronte missionario. Cosa serve, si chiedeva, andare per il mondo alla conquista degli infedeli, se poi nelle nostre nazioni si lasciano perdere i fedeli? Da Umberto Marin, Tutto a tutti – Giovanni Battista Scalabrini vescovo e fondatore – Postulazione generale – Casa madre dei missionari scalabriniani – Piacenza, 1988 Politica migratoria In risposta alle migrazioni di massa le istituzioni italiane privilegiarono nell’insieme la via amministrativa rispetto a quella legislativa e finirono per lo più con l’abbracciare una posizione attendista. Sebbene già nel 1868 il Parlamento italiano avesse registrato infatti i primi allarmi e avesse invitato conseguentemente sindaci e prefetti a vigilare sul fenomeno, solo negli anni Ottanta, con Sonnino e Villari, si delinea l’atteggiamento filomigratorio che già è stato descritto e che può essere considerato l’espressione avanzata del meridionalismo liberale. Il primo intervento legislativo è del 1888: propone una libertà migratoria per così dire vigilata, si limita a regolare l’indispensabile in termine di assistenza a chi parte. La flessibilità nei confronti del fenomeno trova conferma negli anni Novanta nella presa di coscienza dei problemi essenziali connessi alla tutela del migrante. Solo con la legge del 1901, decisamente in ritardo sui tempi, ma in linea con la svolta giolittiana della politica italiana, l’emigrazione entra come dato permanente nella strategia di sviluppo capitalistico del Paese. Con il 900 si avvia anche la strada dei trattati di lavoro ed emigrazione bilaterali, sottoscritti per la verità inizialmente con un numero limitato di paesi. La legge del 1901 prevedeva, oltre all’istituzione di comitati nei Comuni di emigrazione, la delega al Banco di Napoli di una più sicura trasmissione delle rimesse nonché la scorta degli emigranti fino al porto d’imbarco per proteggerli dalle frodi e sistemarli nei ricoveri a terra. Garantiva inoltre un’ispezione medica a bordo dei bastimenti, l’istituzione di uffici di protezione e collocamento nei porti di sbarco, il potenziamento dell’attività di ambasciatori e consoli nei paesi ospiti. “L’azione del Commissariato per l’emigrazione creato dalla legge del 1901 non sembrò brillare per capacità d’iniziativa e chiarezza di competenze, disponendo fra l’altro quest’ultimo di pochi mezzi e scarso personale (…) Le numerose competenze sulla complessa questione migratoria italiana restarono di fatto frantumate tra altrettanto numerosi organi dell’amministrazione soprattutto tra il Ministero degli Esteri e quello degli Interni (…) Le attività di assistenza e di patronato furono scarse, delegate spesso ad associazioni private o confessionali” (da E. Sori, op.cit.) Dalle colonne dell’Unità la voce di Gaetano Salvemini denunciava come sul bilancio dell’emigrazione si facessero gravare molte spese che invece avrebbero dovuto essere sopportate dallo Stato, alludendo alla decisione di alimentare il Fondo emigrazione, istituito dalla legge del 1901, a spese degli emigranti stessi e non del bilancio statale. “Allorchè fu istituita la tassa sulla miseria si disse che essa doveva servire per l’organizzazione dei servizi nuovi, non contemplati dal tradizionale ordinamento dei nostri consolati”. Secondo Salvemini i fatti erano andati invece diversamente e “il Fondo dell’emigrazione è diventato il Pozzo di San Patrizio, cui tutti attingono per provvedere a spese a cui dovrebbero invece far fronte i bilanci dello Stato” da G. Salvemini, Nel Commissariato dell’emigrazione, L’Unità, 8 giugno 1912 in Movimento socialista e questione meridionale. Oltre alla tutela degli espatriati, tra Ottocento e Novecento, le autorità italiane rivolsero una certa attenzione anche al problema della diserzione dagli obblighi militari che l’abbandono della patria necessariamente comportava, saranno però le urgenze della Prima guerra mondiale a sollecitare una seria considerazione del tema. Rimasero invece per anni irrisolte la questione della doppia cittadinanza e dell’eventuale diritto dell’emigrato alla partecipazione al voto in Italia Lo scoppio della Prima guerra mondiale e la decisa misura restrittiva adottata dagli Stati Uniti nel 1915 con il Literacy Act, che prevedeva il divieto di immigrazione per gli analfabeti, frenarono gli espatri e favorirono piuttosto il flusso contrario, ma l’esodo sarebbe ripreso con altrettanto vigore di prima dopo la fine del conflitto, se la decisa svolta della politica economica statunitense non gli avesse posto un freno. Gia dagli anni ’90 del secolo precedente le autorità americane avevano individuato nell’adozione del sistema delle quote annuali l’unico modo per arginare gli arrivi, che non accennavano a decrescere ed erano sempre più avvertiti come un pericolo per l’integrità morale e razziale della popolazione originaria. Nell’insieme l’integrazione sembrava poco riuscita, anche dal punto di vista economico, vista l’offerta di lavoro degradato e gli scarsi consumi delle comunità straniere, di qui la decisione della “svolta” del 1921, l’anno in cui per la prima volta fu comunicata al mondo l’entrata in vigore del sistema delle quote. Come reagirono i governi italiani alla decisione di sottoporre a un controllo centralizzato il mercato del lavoro statunitense? Fino al 1926-27 tutti gli sforzi furono intesi a qualificare, mediante istruzione scolastica generica e professionale, la nostra emigrazione, nella convinzione che comunque si dovesse continuare a sostenerla. A questa politica di valorizzazione si accompagnò la sottoscrizione massiccia di trattati di emigrazione e lavoro con i paesi ospiti nonché il diretto intervento del Commissariato nella gestione del collocamento dei lavoratori all’estero. Agli accordi bilaterali tra i governi si affiancarono inoltre contratti siglati in forma privata con imprenditori esteri di Paesi europei ed extraeuropei. Risultati piuttosto modesti diedero invece le pressioni eserciate per via governativa in particolare sugli Stati Uniti perché allentassero la politica restrizionista e accogliessero un numero maggiore di Italiani. A questo proposito nel 1923 Mussolini, che sarà poi autore di una radicale svolta nella politica migratoria italiana, tenne a ribadire come l’emigrazione si confermasse una necessità per un paese sovrappopolato e non ancora pronto a impegnarsi con decisione nella politica coloniale. Contro ogni speranza di risolvere la questione attraverso il sostegno alla politica filomigratoria, venne la decisione americana di irrigidire ulteriormente il sistema delle quote con il definitivo provvedimento legislativo del 1924; fu anche in risposta a questa misura che il governo fascista, ormai saldamente alla guida d’Italia, decise un cambiamento di rotta, che si comprende d’altro canto in relazione alla politica della cosiddetta “quota novanta”, varata a partire dal 1927. Alla luce delle nuove scelte in materia di politica demografica, della valorizzazione delle campagne e della fase deflazionistica indotta dalla rivalutazione del cambio della lira in relazione alla sterlina, l’emigrazione non fu più considerata come una necessità da sostenere, ma come una piaga da sanare. Si trattava ora di scoraggiare la partenza dei molti che avrebbero potuto concorrere efficacemente alla valorizzazione dell’economia nazionale (a questo proposito dovevano essere sostenute, invece, le migrazioni interne). Abolito il Commissariato per l’emigrazione che fu sostituito dalla Direzione generale degli Italiani all’estero, furono fissati i “principi basilari della nuova politica migratoria: 1) proibizione dell’emigrazione stabile; 2) tolleranza dell’emigrazione temporanea; 3) espansione economica, commerciale e culturale dell’Italia all’estero attraverso il veicolo dell’emigrazione di professionisti, tecnici e studenti; 4) recupero italiano delle comunità spirituali all’estero”. (da E. Sori, op.cit.) La “fuga” degli Italiani all’estero tornava ad essere vista come qualcosa di cui vergognarsi. La ripresa del’ondata migratoria nel secondo dopoguerra L’opposizione al fenomeno migratorio del fascismo non significò la fine di un fenomeno che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, riprese a pieno ritmo. In calo verso le Americhe, gli spostamenti predilgono ora altre mete, in particolare i paesi dell’Europa industrializzata come la Svizzera, la Germania e il Belgio. Una novità è rappresentata dall’Australia, parte di un continente inesplorato e bisognoso di popolamento. Gli scenari del lavoro si sono modificati, la meccanizzazione ha rivoluzionato il sistema di produzione nella fabbrica, resta cronico il bisogno di manodopera con scarse pretese in termini di diritti e di richieste di salario. E l’Italia, afflitta dai problemi di sempre, tra cui spicca la mancata soluzione della questione meridionale, torna ad offrire il proprio generoso contributo di braccia. Le dinamiche che si sono descritte a proposito dell’emigrazione storica italiana si confermano anche in questa fase, destinata a concludersi solo a metà degli anni Settanta del Novecento. Partono generalmente i maschi adulti, a casa rimangono e donne e i figli. Questo significa che ancora una volta l’emigrazione è vissuta come un momento della vita, un investimento temporaneo destinato a concludersi con il ritorno in patria. Il sogno non è più l’acquisto di un pezzo di terra, ma mettere da parte il denaro necessario all’apertura di modeste attività commerciali che nella maggior parte dei casi si riveleranno fallimentari. In questo caso non resterà che il trasferimento dell’intera famiglia al Nord, in quella parte del paese dove l’industrializzazione degli anni de boom offrirà a molti la possibilità di un impiego stabile. Gli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso sono quelli in cui si assiste al massiccio travaso di popolazione dalle campagne verso le città e dalle regioni meridionali verso quelle settentrionali, che con difficoltà sosterranno il peso dell’incontro delle diverse Italie, costrette a comunicare entro spazi angusti, spesso impreparati ad accoglierle. Sono gli anni in cui i pregiudizi e l’intolleranza dimostratisi verso gli Italiani all’estero si dichiarano nei confronti dei connazionali immigrati, invitati a rinnegare in fretta un’identità sgradita, retaggio di una cultura contadina millenaria in evidente contrasto con la logica della fabbrica che impone ritmi di lavoro serrati ed alienanti in nome della produttività. Sono gli anni in cui gli Italiani scoprono di non saper ancora comunicare tra di loro perché non si esprimono nella stessa lingua che scuola e televisione contribuiranno a uniformare. Sono gi anni in cui gli operai prendono coscienza della loro importanza per la crescita economica del paese e in un clima di accesa tensione sociale si battono per il riconoscimento dei propri dritti di lavoratori. Nelle migrazioni interne si ripropongono le difficoltà della seconda generazione, la più lacerata tra l’attaccamento alle origini e le seduzioni del nuovo ambiente. Ancora oggi, quando d’estate, lunghe code di automobilisti si dirigono verso Sud ci si presenta l’immagine di un paese che nell’occasione delle ferie dall’attività lavorativa si riversa verso i luoghi natali dove i più hanno lasciato gli affetti e dove spesso, forti del nuovo benessere, hanno acquistato proprietà immobiliari. Un nuovo cambiamento, prima inavvertito, poi quasi epocale per le dimensioni del fenomeno e l’eco delle conseguenze innescate, interessò il nostro Paese dall’inizio degli anni Ottanta. Un tempo terra di emigranti l’Italia si stava progressivamente trasformando in terra d’immigrazione. L’immigrazione extracomunitaria, disperata e insieme fiduciosa verso il nuovo. In questo modo, forse senza aspettarselo e per questo sorpresi, gli Italiani si sono trovati a poco a poco a fare i conti con se stessi, con quella pagina, spesso trascurata della loro storia, che li aveva visti protagonisti di una fuga ai contorni epici che oggi si ripete ai loro occhi. Nel nuovo ruolo di ospiti, molti hanno reagito con lo stesso atteggiamento di chiusura di cui un tempo erano stati vittime, altri ne hanno preso atto come di una necessità indotta dai bisogni dell’economia occidentale così come dall’andamento delle sorti del Mondo. Per gli uni e per gli altri i migranti costituiscono un problema di cui liberarsi o sul quale riflettere. O forse, più semplicemente, la manifestazione di una costante della storia dell’umanità, quasi un bisogno di ricominciare cui in molti non vogliono o non possono sottrarsi. PAGE 33