Le Rivoluzioni Industriali - Battilossi
Le Rivoluzioni Industriali - Battilossi
Le Rivoluzioni Industriali - Battilossi
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Le teorie si concentrano su 2 fattori principali della crescita nel lungo periodo:
1. Progresso tecnologico
2. Investimenti in capitale fisico.
La loro importanza è stata sottolineata da Joseph Shumpeter, infatti si parla di fattori shumpeteriani della
crescita. Per progresso tecnologico si intende l’applicazione di nuove conoscenze scientifiche e tecniche alla
produzione per migliorare l’efficienza dei processi produttivi e la qualità dei beni. Nella promozione del
progresso tecnologico e nella sua applicazione produttiva un ruolo cruciale spetta agli imprenditori.
L’importanza del progresso tecnico consiste nella possibilità di produrre un volume maggiore di beni a costi
inferiori e un immenso numero di prodotti nuovi che le innovazioni hanno reso possibili, come i mezzi di
trasporto e di comunicazione, le nuove fonti di energia i medicinali.
Un’altra distinzione va fatta tra:
• Innovazione nei processi produttivi = nuovi procedimenti tecnici incorporati in nuove macchine o
attrezzature
• Innovazioni organizzative = nuovo modo di organizzare il processo di produzione (catena di
montaggio)
Distinguiamo tra macroinvenzioni e microinvenzioni. Le prime sono innovazioni che segnano una netta
discontinuità nella direzione del progresso tecnico aprendo la strada a nuovi filoni tecnologici (macchina a
vapore che permise la conversione di energia termica in energia cinetica). La macchina a vapore
rappresenta una “tecnologia di portata generale”, cioè è una tecnologia suscettibile di applicazione nei
campi più differenti e caratterizzate da molteplici opportunità di sviluppo (ferrovie, motori navali, telai,
pompe). Di microinvenzioni se ne parla a proposito dei successivi miglioramenti realizzati all’interno di una
medesima traiettoria tecnologica (gli incrementi di efficienza delle caldaie che ne consentirono l’utilizzo
economico e la diffusione). Nella storia del progresso le microinvenzioni prevalgono sulle macroinvenzioni.
A fianco dell’innovazione tecnologica vi è il II° fattore della crescita:” l’espansione degli investimenti”, cioè
l’incremento di beni capitali e l’acquisto di risorse destinate a essere impiegate nel processo di produzione.
Il flusso degli investimenti si tramuta in una costante accumulazione di capitale destinata ad aumentare la
capacità produttiva dell’economia.
Un ruolo centrale lo svolgono gli investimenti delle imprese private distinti in capitale fisso e scorte. Nel XX
secolo hanno assunto un rilievo crescente gli investimenti effettuati dallo stato destinati alla produzione di
beni, infrastrutture e servizi pubblici necessari al funzionamento dell’economia.
Le decisioni di investimento degli imprenditori dipendono dalle aspettative sul rendimento futuro dei
profitti attesi e sono influenzate dalla capacità di finanziamento delle imprese. Le opportunità di profitto
rappresentano il principale incentivo agli investimenti privati. Però le potenzialità produttive dipendono
dagli investimenti in capitale fisico, in capitale umano e nella ricerca di nuove tecniche di produzione;
quindi l’accumulazione di capitale e l’espansione dell’occupazione possono spiegare solo una parte dei
guadagni di produttività all’origine dell’aumento di reddito pro capite.
La produttività totale dei fattori indica il livello di efficienza con cui i fattori di produzione vengono
combinati (PTF). La principale fonte degli incrementi di PTF viene identificata con il progresso tecnico,
incorporato in nuovi macchinari o in nuovi sistemi di organizzazione della produzione. Nelle economie
moderno il progresso tecnico costituisce il prodotto degli investimenti effettuati dalle imprese e dai governi
nella ricerca scientifica e tecnologica, nello sviluppo di nuove tecniche di produzione e nell’istruzione e
formazione professionale. A ciò si riferiscono gli economisti parlando del progresso tecnologico come di un
fattore endogeno cioè come un fattore che scaturisce dall’interno del sistema.
Per spiegare l’efficienza di un sistema economico e la sua crescita nel lungo periodo, storici ed economisti
sottolineano l’importanza del quadro legale, istituzionale e sociale nel quale si svolge l’attività economica:
“capacità sociali” (capitale umano, valori tipici della cultura di un popolo, caratteristiche delle istituzioni
politiche economiche e sociali di un paese).
Non essendo il capitale umano quantificabile gli storici hanno considerato il livello di istruzione inteso come
alfabetizzazione o scolarizzazione come indicatore più attendibile delle capacità sociali di una nazione. Si è
ipotizzato che le differenti performances di crescita possano essere spiegate anche sulla base delle
differenze esistenti sul piano formativo. Però i risultati ottenuti fino ad ora sono contradditori. Gli storici
sono d’accordo nel sottolineare come un livello elevato di istruzione costituisca un prerequisito necessario
al funzionamento efficiente delle istituzioni caratteristiche dello sviluppo economico moderno nel caso
delle imprese e nel campo delle transazioni commerciali e finanziarie e nel settore dei servizi.
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I fattori shumpeteriani (progresso tecnologico e investimenti) consentono di ampliare il potenziale
produttivo di un’economia e la sua efficienza. Analizzata da questa prospettiva la crescita economica
sembra essere alimentata da fattori operanti nell’offerta.
L’analisi resterebbe incompleta se non prendessimo in considerazione un terzo fattore: l’allargamento del
mercato reso possibile dalla generalizzazione del principio della divisione del lavoro e dall’intensificazione
degli scambi all’interno dei singoli paesi e sul piano del commercio internazionale.
Gli effetti positivi sulla crescita economica sono stati teorizzati da Adam Smith, per questo alla divisione del
lavoro e all’allargamento dei mercati ci si riferisce come ai “fattori smithiani” della crescita.
Questa visione del commercio come motore della crescita si basa sull’idea di un ciclo virtuoso che associa
all’ampliamento dei mercati la crescita delle dimensioni delle imprese e il conseguimento di economie di
scala (cioè i costi medi sostenuti dalle imprese nel lungo periodo diminuiscono al crescere del volume del
prodotto consentendo un aumento di efficienza e produttività).
Per Smith l’ampliamento dei mercati ha rappresentato lo stimolo per il perseguimento di economie di scala,
l’espansione dell’economia di mercato avrebbe causato economie esterne a beneficio delle imprese e
dell’economia nel suo complesso.
Il legame casuale tra commercio e crescita costituisce il fondamento teorico delle politiche commerciali di
orientamento liberista basato sulla libertà degli scambi. L’esperienza dell’Europa ci suggerisce che il legame
si è rivelato meno diretto di quanto ipotizzato. L’aumento della domanda internazionale ha rappresentato
un fattore di crescita per l’Inghilterra liberista, però l’Europa del XIX secolo vide un rallentamento del tasso
di crescita dell’economia e dei traffici internazionali, e nella fase successiva di chiusura protezionistica ci fu
una crescita sia dell’economia che degli scambi commerciali. Queste osservazioni hanno rafforzato la
convinzione che il commercio rappresenti una sorta di ancella più che un motore della crescita. Appare
probabile che sia stata la crescita economica a funzionare da motore dell’espansione del commercio
internazionale.
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strutturale illustra come sia variata nel tempo l’incidenza dei settori agricoli, industriali e terziario sul totale
della popolazione e sul PIL dei principali paesi sviluppati.
Tra XVIII e XX secolo nei paesi dell’Occidente la dinamica della produttività e della produzione del settore
industriale si è dimostrata superiore a quella fatta registrare dall’agricoltura.
Tra 1850 e 1950 si ha un aumento medio annuo della produttività pari al 1,8-2% nell’industria e all’1,1-1,3%
in agricoltura. In virtù di tale differente velocità di crescita le economie occidentali hanno registrato con
tempi e modi diversi, un mutamento strutturale nella composizione dell’occupazione e del reddito,
contrassegnato dal declino dell’incidenza del settore agricolo sul PIL e sull’occupazione, e dall’aumento del
peso del settore secondario (industria manifatturiera). Il secondo dopoguerra ha fatto registrare una
inversione di tendenza: dal 1950 la produttività nell’agricoltura è aumentata più rapidamente che
nell’industria. Nonostante il suo declino l’agricoltura ha continuato a svolgere un ruolo determinante nello
sviluppo.
Senza il sostegno dell’agricoltura più moderna e produttiva, grazie a nuove colture e all’introduzione
dell’allevamento da stalla (XVIII sec) e al crescente utilizzo di fertilizzanti chimici e di macchine agricole,
anche le trasformazioni economiche e sociali legate al processo di industrializzazione avrebbero presto
incontrato limiti. Una crescita prolungata della popolazione si sarebbe rivelata insostenibile senza un
aumento significativo dello sviluppo, della produzione di beni alimentari. Inoltre, la crescita di redditi
proveniente dall’agricoltura ha rappresentato un importante fattore di espansione della domanda di beni
industriali di consumo. Lo sviluppo rapido della produzione di manufatti tessili e di beni alimentari non
sarebbe stato possibile senza la capacità dell’agricoltura di espandere con lo stesso ritmo la propria
capacità di fornire all’industria sia materie prime sia nuova forza lavoro. Il settore industriale difficilmente
avrebbe potuto espandersi se i miglioramenti della produttività agricola non avessero consentito quantità
maggiori di beni agricoli con l’impiego di un numero minore di lavori. Dunque, l’agricoltura ha fornito 3
contributi decisivi allo sviluppo economico moderno:
• Crescita demografica elevata
• Sostenendo la domanda di beni industriali
• Fornendo all’industria quantità crescenti di materie prime e di forza lavoro.
Il processo di industrializzazione è stato accompagnato da profonde modifiche nel settore dei servizi (hanno
perso rilievo le attività tradizionali come i servizi domestici) e sono cresciute quelle connesse al processo di
sviluppo (come trasporti, distribuzione commerciale, servizi bancari e finanziari, burocrazia pubblica legata
all’ampliamento delle funzioni dello stato.
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All’interno delle società tradizionali vi erano componenti dinamiche che ruotavano intorno alle città, fulcro
dello sviluppo delle manifatture artigianali, degli scambi commerciali e di transazioni monetarie e
finanziarie.
Nel corso dell’età medievale e moderna innovazioni quali la rotazione delle coltivazioni, l’introduzione
dell’aratro pesante, la diffusione di mulini ad acqua e a vento, avevano consentito di ampliare la superficie
coltivata, incrementando i rendimenti del suolo. I miglioramenti della tecnologia e dei trasporti favorirono
lo sviluppo del commercio a lunga distanza dei cereali e di altri beni alimentari e la “mercantilizzazione”
dell’agricoltura, ossia il graduale superamento dell’economia di autoconsumo e l’aumento della produzione
agricola destinata al mercato.
Di fronte all’aumento della domanda di terra e di beni alimentari innescato dall’espansione demografica, e
in una situazione di stagnazione economica, la produzione agricola poteva tenere il passo con la
popolazione solo ampliando al terra coltivata e aumentando l’impiego di manodopera.
Poiché uno sviluppo intensivo era reso impossibile dall’assenza di significative innovazioni, la produzione
poteva essere aumentata ricorrendo a uno sviluppo estensivo.
Quest’ultimo era destinato a incorrere in una situazione di rendimenti decrescenti a causa del
sovraffollamento e dell’eccessiva frammentazione dei terreni, del supersfruttamento dei suoli e dell’utilizzo
di terre meno fertili. La pressione della domanda di terra e beni tendeva a far aumentare le rendite dei
proprietari terrieri, spingeva in alto i prezzi agricoli e peggiorava le condizioni contrattuali dei contadini e a
far diminuire i salari reali (potere d’acquisto) concorrendo al peggioramento delle condizioni di vita della
massa della popolazione rurale e urbana.
Il peggioramento delle condizioni economiche era destinato a provocare un arresto della crescita della
popolazione o una sua contrazione a causa dell’azione congiunta di tassi di natalità più bassi e tassi di
mortalità più elevati, sia in casi normali che in situazioni eccezionali determinate da carestie ed epidemie. Il
conseguente declino demografico innescava un processo di autocorrezione: si allentava la pressione della
domanda di terra e beni agricoli, si concentrava la produzione nelle terre più fertili che consentivano un
recupero di produttività, miglioravano le condizioni per i contadini, diminuivano i prezzi agricoli e
aumentavano i salari reali della popolazione.
Questo schema interpretativo a due fasi che lega tra loro i mutamenti demografici e fluttuazioni
economiche viene chiamato modello “maltusiano” (dal nome di Malthus che alla fine del ‘700 teorizzò per
primo il legame tra crescita demografica, intensificazione dello sfruttamento della terra e crisi di mortalità
dovute a carestie ed epidemie). Questa versione è stata recentemente messa in discussione da coloro che
considerano l’aumento della popolazione un’opportunità di crescita economica per società tradizionali.
L’accresciuta domanda di prodotti agricoli stimolerebbe l’adozione dei metodi di coltivazione più intensivi e
l’affermazione di miglioramenti tecnici endogeni, consentendo livelli superiori di produttività del lavoro e
della terra. L’espansione della popolazione urbana incentiverebbe la specializzazione agricola e la
produzione per il mercato favorendo l’affermazione di rendimenti crescenti.
Il grande incremento demografico iniziato nel XVIII secolo, in corrispondenza del processo di
industrializzazione, mantenne il proprio impulso assumendo le caratteristiche di un fenomeno irreversibile.
Sino ad allora la dinamica demografica delle società tradizionali era stata caratterizzata da elevati tassi
medi di natalità e mortalità.
Tra la metà del XVIII secolo e la fine del XIX nei paesi sviluppati dell’Europa Occidentale si registrò una
rapida accelerazione della crescita della popolazione. Questa nuova dinamica scaturì da nuovi mutamenti
strutturali intervenuti nell’incidenza di natalità e mortalità proprio in conseguenza dello sviluppo
economico.
La causa fondamentale della crescita demografica va ricercata più nell’aumento dei tassi di natalità che non
nella diminuzione di quelli di mortalità. Scomparvero le grandi catastrofi demografiche grazie alla
scomparsa della peste e all’attenuazione delle crisi di sussistenza resa possibile dall’aumento della
produttività agricola, dalla maggiore efficacia delle politiche pubbliche e dall’ampliamento del commercio
internazionali di cereali.
Questi fattori furono all’origine dell’aumento dei tassi medi di natalità: maggiori quantità di beni alimentari
e minori rischi di carestie ed epidemie permettevano alle famiglie contadine di fare più figli che in passato.
Però è probabile che i livelli medi di mortalità non diminuissero.
Mentre la mortalità media infantile e delle fasce più anziane diminuiva solo gradualmente, aumentarono le
speranze di vita delle fasce centrali della popolazione di uomini e donne in età lavorativa. Alla fine del XIX
secolo la dinamica demografica delle società sviluppate ha subito una nuova significativa rottura.
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Alla caduta dei tassi medi di mortalità legata al miglioramento degli standard di vita e delle condizioni
abitative e ai rapidi progressi medici ha corrisposto una caduta dei tassi di natalità dovuta alla diffusione di
pratiche di controllo delle nascite e all’innalzamento dell’età media del matrimonio. Nel XX secolo le nazioni
sviluppate sono entrate nella seconda fase della “transizione demografica” caratterizzata da bassi tassi di
natalità e mortalità; ciò ha comportato l’arresto della crescita naturale della popolazione. Le discontinuità
fatte registrare tra XVIII e XX secolo hanno definito il periodo di “rivoluzione demografica”.
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Più recentemente altri storici hanno ipotizzato che il mutamento tecnologico sia il frutto di un processo
cumulativo di “ricadute” da un settore all’altro. I vincoli e le opportunità di tipo ambientale, demografico o
tecnologico possono contribuire a spiegare perché lo sforzo inventivo e innovativo si sia indirizzato in una
determinata direzione. Gli storici sono giunti a condividere in larga misura che la principale fonte della
capacità di innovare risieda nei meccanismi sociali culturali e politici che incentivano la produzione di
invenzioni e di innovazioni.
Le ragioni della creatività tecnologica di una società vanno ricercate più sul versante dell’offerta che non su
quello della domanda.
Ad attrarre l’attenzione degli storici è stata la Cina Imperiale la quale poteva vantare fino al 1400 non solo
una tradizione scientifica più avanzata rispetto all’Europa ma anche un sostanziale vantaggio tecnologico in
numerosi campi, dalle tecniche metallurgiche e chimiche, ai telai per la filatura e tessitura, dalle tecniche
navali ai sistemi di navigazione.
Ciò nonostante la Cina non riuscì a imboccare il sentiero dello sviluppo economico moderno, e anzi mentre
l’Europa avviava la sua rivoluzione scientifica e iniziava la sua rincorsa tecnologica, il grande impero Asiatico
non solo vide arrestarsi le sue capacità di innovazione ma cancellò persino alcune delle conquiste già
compiute, ponendo fine alla navigazione oceanica, distruggendo le grandi giunche che ne avevano
consentito l’espansione commerciale e chiudendo i principali cantieri navali del paese. Le cause di questa
inversione di tendenza rappresentano un interrogativo storico. In effetti l’economia cinese non mostrò
alcun declino e anzi conseguì in campo agricolo e idraulico enormi risultati. Quella cinese infatti continuò ad
essere un’agricoltura avanzata e a elevata produttività grazie alla continua messa a coltura di nuove terre
disboscate e bonificate e a innovazioni tecniche che le consentirono di provvedere ai bisogni alimentari di
una popolazione in costante crescita. Si trattò di una crescita basata sulla colonizzazione interna e sullo
sviluppo del commercio.
Per questo rispetto alla rivoluzione industriale europea imperniata sulla meccanizzazione e su una
crescente intensità di capitale, il modello economico cinese è stato definito una “rivoluzione industriosa”
basata sulla crescente intensità di lavoro. Attualmente gli storici tendono a individuare le cause della
divergenza tra Europa e Cina in fattori politici.
Nella Cina Imperiale l’innovazione tecnologica era dipendente dall’intervento diretto dello stato: la sua
promozione e applicazione erano affidate alla burocrazia imperiale. I mutamenti politici avvenuti nel corso
del XIV secolo con l’avvento al potere della dinastia Ming avrebbero prodotto una sorta di involuzione
culturale di tipo reazionario destinata a trasformare la Cina in un Impero sottoposto a un controllo
burocratico per mantenere l’ordine sociale esistente, ostile all’innovazione e al mutamento.
I vantaggi dell’Europa sarebbero scaturiti dalla sua frammentazione politica, destinata ad alimentare la
competizione tra stati nell’esplorazione del Nuovo Mondo e nella sua colonizzazione, con il conseguente
perfezionamento dei metodi di navigazione e della tecnologia navale. La frammentazione politica impedì
che regimi conservatori, influenzati dalla Chiesa Cattolica e improntati al conformismo, potessero arrestare
la circolazione delle informazioni scientifiche e l’affermazione di una mentalità aperta all’investigazione e
alla ricerca. In alcuni paesi lo stato favorì l’iniziativa privata degli investitori garantendo la protezione
giuridica della proprietà intellettuale e incentivando (attraverso brevetti, monopoli) l’attività di ricerca e
sperimentazione finalizzata all’applicazione delle invenzioni allo sviluppo dell’attività economica. Società
più aperte e regimi politici sensibili ai valori borghesi favorirono il mutamento sociale che l’introduzione di
nuove tecnologie comporta. Il mutamento tecnologico lascia sul campo vincitori e sconfitti sconvolgendo il
mercato del lavoro. Il caso più noto di resistenza alle innovazioni è quello delle corporazioni di mestiere che
si opposero con successo ai nuovi sistemi di produzione. L’influenza politica dei gruppi favorevoli alle
innovazioni e la loro capacità di ottenere protezione e garanzie da parte dello stato fu determinante per
vincere la resistenza degli interessi costituiti.
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sfruttamento delle risorse agricole e naturali, sia attraverso la conquista del controllo politico e militare e la
creazione di imperi coloniali. L’epoca economica moderna ha comportato la creazione di un sistema
economico mondiale integrato, nel quale i movimenti internazionali delle merci, degli uomini, dei capitali e
delle tecnologie hanno creato forti legami di interdipendenza tra le economie sviluppate e tra queste
ultime e i paesi in via di sviluppo.
Ciò è stato reso possibile dalla rivoluzione nei sistemi di trasporto e di comunicazione e sotto la spinta di
innovazioni come ferrovie, navi a vapore, telegrafo, telefono, radio destinate ad abbattere i costi di
trasporto e ad accelerare la velocità di circolazione delle merci, degli uomini e delle informazioni. Il
concetto di “sottosviluppo” designa i paesi (Terzo Mondo) caratterizzati dall’assenza di sviluppo ovvero da
basso reddito pro capite, scarsa industrializzazione, larga prevalenza dell’agricoltura sulla produzione
nazionale e sulla struttura dell’occupazione, incapacità di utilizzare a pieno la potenzialità del capitale, del
lavoro e delle risorse naturali disponibili, povertà diffusa. Sottosviluppo non significa assenza di crescita ma
crescita insufficiente a contrastare l’ampliamento del divario con i paesi sviluppati. Il divario che separa
l’Occidente sviluppato dal Terzo Mondo in termini di industrializzazione è più che triplicato tra 1800 e 1860,
e moltiplicato per sette volte tra 1860 e 1913, mantenendosi poi a tale livello fino al secondo dopo guerra,
e anche lo scarto in termini di reddito pro-capite è aumentato passando da un rapporto 1:2 a 1:8,
nonostante il recupero dei paesi del terzo mondo sul piano dell’industrializzazione dove il divario si è
ridotto. Quest’ultimo dato va considerato con cautela: se si escludessero dal gruppo del terzo mondo i 5
giganti industriali Brasile, Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan, il divario risulterebbe ancora più
ampio. I risultati delle ricerche volte a determinare il divario esistente al punto di partenza tra i futuri paesi
sviluppati e i futuri paesi del terzo mondo suggeriscono che tale divario era meno pronunciato di quanto si
tenda a pensare. Si è stimato che il differenziale di reddito pro capite tra il Nord Europa e il resto del mondo
oscillasse tra il 20 e il 40%.gli storici tendono a sfumare l’importanza del divario originario di reddito nella
spiegazione del primato europeo.
Le origini del divario vanno ricercate nelle tendenze affermatesi nel corso dell’epoca economica moderna.
Un elemento è la crescente divergenza manifestata dai paesi sviluppati e da quelli del terzo mondo sul
piano demografico. Le dinamiche della popolazione mondiale mostrano come nel corso del XIX secolo la
popolazione dell’Europa occidentale e del Nord America sia cresciuta molto più rapidamente di quella delle
regioni arretrate dell’Asia e dell’Africa.
Nel caso degli Stati Uniti un ruolo fondamentale giocarono le imponenti ondate di emigranti in fuga
dall’Europa. Tra il 1850 e il 1914 oltre 40 milioni di uomini e donne lasciarono il Vecchio continente per
quello Nuovo. Si trattò di una vera rivoluzione demografica europea, alla quale le altre tradizionali regioni
di insediamento umano (Asia e Africa restarono estranee. Il XX secolo ha segnato una drammatica
inversione di tendenza: sono stati i paesi in via di sviluppo a far registrare un impressionante aumento di
popolazione. Questi ultimi dopo aver mostrato per tutto il XIX secolo una crescita della popolazione
inferiore a quella dei paesi sviluppati, a causa di alti tassi di natalità e mortalità hanno registrato nel corso
del XX secolo e dopo il 1945, un’impennata senza precedenti nei tassi di crescita della popolazione. Il tasso
medio di incremento della popolazione di tutti i paesi in via di sviluppo ha oscillato tra il 2 e il 3% e tra 1950-
92 Africa, America Latina e Asia hanno fatto registrare tassi superiori al 4%. All’origine di tale crescita senza
precedenti sta la caduta drastica dei tassi di mortalità, grazie al miglioramento dell’alimentazione e alla
diffusione di nuove pratiche sanitarie. L’aumento senza precedenti della popolazione ha rappresentato un
ostacolo sulla strada dello sviluppo economico dei paesi del terzo mondo, perché implica un ampliamento
delle forze lavoro che non si possono occupare perché non ci sono più terre coltivabili.
Alcuni storici ed economisti hanno suggerito che la dinamica dello sviluppo nei paesi occidentali non solo
ha convissuto con il sottosviluppo, ma ha creato il sottosviluppo stesso. Secondo questi teorici della
dipendenza sarebbe stata la penetrazione del capitalismo nelle regioni del terzo mondo a produrre il
sottosviluppo. Il dominio della borghesia delle metropoli sui deboli ceti borghesi e mercantili dei paesi
satelliti avrebbe indotto questi ultimi a specializzarsi nella produzione di beni primari e ad accettare basse
barriere doganali, ciò avrebbe favorito l’esportazione di beni industriali da parte dei paesi sviluppati e
stroncato ogni possibilità di sviluppo industriale delle economie periferiche. Dunque, a partire dal XVI
secolo la storia dei paesi sottosviluppati non sarebbe altro la storia delle conseguenze da essi subite in
seguito all’espansione coloniale europea e lo sviluppo economico moderno andrebbe considerato come un
processo unico che mentre genera lo sviluppo in alcune aree centrali genera sottosviluppo in quelle
periferiche. Questa è una visione di un sistema economico globale basato su un centro che grazie alla sua
superiorità organizzativa a livello economico, politico e militare, detta le condizioni del commercio e si
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appropria del surplus prodotto dalla periferia da esso inglobata e resa dipendente. L’idea di una “economia-
mondo” ha vari punti forti: sottolinea la natura gerarchica delle relazioni economiche internazionali e il
carattere “egemonico” del sistema globale emerso nel corso dell’epoca moderna. Storici economici hanno
riconosciuto come le spinte alla gerarchia e alla conquista dell’egemonia e la dialettica fra tendenze alla
centralizzazione e tendenze al decentramento costituiscano il cuore della storia dell’economia
internazionale. Fino alla seconda guerra mondiale il mondo sviluppato era autosufficiente sia per le fonti di
energia che per molti minerali metallici e per le materie prime tessili. Soltanto il secondo dopo guerra ha
fatto registrare una sensibile diminuzione dell’autosufficienza dei paesi industriali, in seguito al declino del
carbone come principale fonte di energia e alla sua sostituzione con il petrolio proveniente dal
Medioriente. Il ruolo svolto dalle colonie e dal terzo mondo come sbocchi commerciali per la produzione
industriale dei paesi sviluppati è rimasto marginale (un’eccezione è la Gran Bretagna). Se osservate dalla
prospettiva dei paesi del terzo mondo le dinamiche coloniali ebbero un impatto enorme; l’espansione
massiccia delle colture per l’esportazione come zucchero e caffè ha avuto effetti rovinosi su molte
economie sottosviluppate e l’afflusso di beni industriali dei paesi sviluppati sfociò in processi di
deindustrializzazione su vasta scala.
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Negli anni tra il 1820 e il 1850 la diffusione di battelli a vapore rivoluzionò il sistema dei trasporti fluviali, sia
in Inghilterra che nei paesi dotati di estesi sistemi di canali. Più lenta fu l’affermazione della propulsione a
vapore nella navigazione. I tradizionali velieri continuarono a dominare i trasporti commerciali via mare ben
oltre il 1870. Dove invece la macchina a vapore ebbe un impatto davvero rivoluzionario fu nella diffusione
delle ferrovie. La locomotiva a vapore e le strade ferrate divennero l’emblema della rivoluzione industriale
del XIX secolo per l’efficienza e per la radicale trasformazione dello spazio e del tempo. Dal 1830 lo sviluppo
delle reti ferroviarie promosso da investimenti e sovvenzioni pubbliche anche nei paesi nei quali
l’autonomia fu lasciata all’iniziativa privata, fu travolgente in Gran Bretagna, nelle regioni Nord degli Stati
Uniti e in alcuni paesi europei come Belgio, Francia e Germania. Entro il 1870 la rete ferroviaria aveva
superato gli 80.000 km in Europa e gli 85.000 km negli Stati Uniti.
Cotone, ferro e ferrovie furono i settori “trainanti” della prima rivoluzione industriale. Gli storici sono
d’accordo nel ritenere che i nuovi settori industriali continuarono a costituire una parte modesta, sia pure
in espansione, nel complesso delle economie europee sino alla metà del XIX secolo. Il concetto mantiene
una sua utilità soprattutto se si guarda alla complessa interazione dei settori trainanti con il resto
dell’economia _ i legami di “interdipendenza” a monte e a valle (il cotone fu meno rivoluzionario del ferro).
Nel settore tessile la diffusione della meccanizzazione fu relativamente lenta. L’uso di telai meccanici fu
rallentato da difficoltà tecniche (l’inadeguatezza dei telai di legno a sopportare gli urti della tessitura
automatica e il conseguente aumento dei costi di riparazione e manutenzione), e si scontrò con la
resistenza opposta dagli artigiani tessitori, dotati da una solida organizzazione corporativa. Il ruolo
dell’industria del ferro fu più incisivo, incentivando lo sviluppo del settore minerario, ampliando la
domanda di trasporti e costruzioni data la sua natura diffusa, e consentendo un utilizzo più efficiente e a
costi inferiori del ferro in tutti i settori della meccanica nella fabbricazione di utensili e nelle costruzioni
civili. Lo stesso vale per le ferrovie. Negli anni ’60 è70 vari storici hanno tentato di determinare con maggior
precisione l’effettivo contributo delle ferrovie allo sviluppo economico degli Stati Uniti e della Gran
Bretagna. I loro risultati suggeriscono che, in assenza dello sviluppo delle ferrovie, il reddito nazionale
avrebbe potuto essere del 3-5% inferiore a quello effettivamente raggiunto. Le ferrovie furono meno
determinanti di quanto si credeva tradizionalmente. In effetti, tanto in Gran Bretagna che negli Stati Uniti lo
sviluppo di un’estesa ed efficiente rete di canali artificiali aveva avviato una profonda trasformazione nei
costi di trasporto, che le ferrovie erano destinate ad accelerare. Al contrario per l’Europa continentale è
ragionevole ipotizzare che l’importanza della ferrovia per paesi come Francia, Germania, Svizzera, Italia e
Russia, privi di vie d’acqua paragonabili a quelle inglesi e americane, sia stata superiore.
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L’importanza dei fattori tecnologici viene enfatizzata per quanto riguarda i settori tessile e metallurgico, nei
quali la necessità di disporre di un’unica fonte di energia idraulica o termica per azionare nuovi macchinari
rappresentò un incentivo alla prevalenza di opifici di grandi dimensioni. Ci sono anche coloro che
sottolineano i guadagni di efficienza consentiti agli imprenditori dalla centralizzazione della produzione.
Questa consentì di superare alcune strozzature tipiche del sistema protoindustriale di produzione che ne
limitavano la capacità di servire i mercati in rapida espansione, ma anche un più efficace coordinamento
delle varie fasi di lavorazione. La divisione del lavoro (la suddivisione del processo produttivo in una serie di
operazioni specializzate) implicava costi rapidamente crescenti in seguito all’espansione del volume di
materiali impiegati, del numero delle famiglie coinvolte e dell’estensione territoriale coperta dal sistema.
La centralizzazione della produzione in fabbrica consentì agli imprenditori di controllare e disciplinare più
efficacemente i lavoratori, sia riducendo le appropriazioni di materie prime, che sorvegliando l’intensità e la
regolarità del lavoro prestato, e la qualità dei manufatti prodotti. La centralizzazione non costituì
un’innovazione assoluta.
Nell’epoca precedente ci furono casi di manifattura accentrata nei settori che richiedevano
immobilizzazioni in macchinari o l’uso di procedimenti complessi, nei quali la produzione era realizzata da
ampi gruppi di lavoratori concentrati in un unico luogo fisico sotto la direzione di addetti al coordinamento
e alla supervisione del lavoro: era il caso delle miniere, degli arsenali navali, delle cartiere, delle fonderie e
di alcuni segmenti della produzione tessile. Le forme decentrate di produzione rurale e artigianale
continuarono a costituire il grosso della produzione manifatturiera, in Gran Bretagna fino alla metà del XIX
secolo. Tali sistemi flessibili si dimostrarono in grado di conseguire miglioramenti di efficienza e in alcuni
casi di garantire un sufficiente livello di competitività anche nei confronti dei metodi di produzione
moderni, grazie alla specializzazione in produzioni di qualità e alla loro flessibilità di adattamento alla
fluttuazione dei mercati. Il passaggio alla fabbrica e alla produzione su larga scala fu graduale, parziale, in
alcun modo automatico od obbligatorio, né nell’industria tesile, né in quella metallurgica, dove molte
produzioni di utensili, armi, orologi continuarono a essere realizzate da manifatture artigianali di piccole
dimensioni, in grado di soddisfare una domanda di qualità.
Le imprese della prima rivoluzione industriale erano fondate e gestite da imprenditori – proprietari,
attorniati da un piccolo gruppo di collaboratori stipendiati. L’organizzazione di impresa era semplice. Il
proprietario era responsabile delle decisioni strategiche di quelle operative, nelle quali poteva avvalersi
della collaborazione di personale amministrativo specializzato responsabile della tesoreria, delle relazioni
con il personale e del magazzino acquisti e vendite. Si tratta spesso di imprese famigliari, organizzate nella
forma di società per accomandita (costituite attraverso il conferimento di quote di capitale da parte di 2 o
più persone).
Si ritiene che le fonti interne di finanziamento (il ricorso al patrimonio individuale e famigliare degli
imprenditori e il reinvestimento dei profitti accumulati) furono nella maggior parte dei casi sufficienti a
sostenere lo sviluppo delle imprese industriali. I mercati creditizi e finanziari svolsero un ruolo marginale
nel finanziamento dell’accumulazione del capitale. Si ritiene che il credito fornito dai grandi mercanti e
dalle banche provinciali, andò a sostener il capitale circolante delle imprese (scorte di materie prime,
magazzino di manufatti, riserve di liquidità per il pagamento di acquisti di materie prime e salari dei
lavoratori).
Perché in una fase di intenso e rapido mutamento tecnologico e di elevata incertezza sul rischio e sul
rendimento di nuovi investimenti, è plausibile ipotizzare che gli istituti di credito fossero riluttanti a
finanziare progetti o fossero indotti a praticare costi troppo elevati del credito. La principale conseguenza
dell’affermazione del sistema di fabbrica fu una trasformazione della struttura del capitale; si invertì il
rapporto tra capitale circolante e capitale fisso che emerse con rapidità come il fattore di maggior peso.
Nonostante gli investimenti in macchinari all’inizio fossero non eccessivamente costosi, sia per la loro
semplicità che per l’esistenza di un fiorente mercato dell’usato.
IL SECOLO BRITANNICO
Il primato britannico può essere spiegato dalla favorevole dotazione di risorse naturali disponibili o in
elementi diversi di tipo istituzionale, sociale e politico. Carbone, ferro, energia idraulica costituivano in
effetti risorse delle quali erano dotati anche altri paesi. La Gran Bretagna non poteva vantare alla vigilia
della rivoluzione industriale un livello di benessere economico superiore a quello di altri paesi europei, né
livelli di istruzione tecnica e scientifica all’avanguardia, sebbene disponesse di solide associazioni volontarie
tra lavoratori specializzati per la diffusione di conoscenze tecnologiche. Molte delle innovazioni
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protagoniste dello sviluppo economico inglese a cavallo tra XVIII e XIX secolo furono ingegnosi adattamenti
e miglioramenti di invenzioni straniere preesistenti.
Una delle fonti della supremazia della Gran Bretagna sembra poter essere rintracciata in una superiore
“creatività tecnologica”, riflesso di una società più fluida, disposta a conferire influenza politica e più
elevato rango sociale ai “nuovi ricchi” provenienti dal mondo del commercio e dell’industria.
In Francia e Germania più forti apparivano i valori aristocratici che attribuivano alle attività commerciali e
manifatturiere un rango inferiore rispetto all’amministrazione della terra. La Gran Bretagna fu il paese nel
quale con maggiore tempestività, fin dal XVII secolo, la tutela dei diritti di proprietà sulle innovazioni venne
garantita da una moderna legislazione sui brevetti. La leadership tecnologica inglese fece seguito a un
periodo nel quale l’economia internazionale era stata caratterizzata dalla supremazia olandese. I Paesi Bassi
sono stati scavalcati o “leapfrogging” secondo tale teoria il successo tecnologico tenderebbe a creare le
basi per il suo stesso declino, così i paesi in possesso di una leadership tecnologica consolidata e dei
vantaggi competitivi hanno minori incentivi a investire risorse nello sviluppo di nuova tecnologia. Sarebbero
i paesi arretrati ad avere un maggior interesse per nuovi sistemi tecnologici e organizzativi in grado di
scalzare il paese leader.
I Paesi Bassi in possesso di una solida leadership internazionale nel commercio navale e nei servizi
finanziari, di un’agricoltura avanzatissima, avevano scarsi incentivi a investire risorse in nuovi sistemi
tecnologici e produttivi, al contrario dell’Inghilterra. Altri enfatizzano l’importanza delle peculiari
caratteristiche dell’agricoltura inglese, basata sulla specializzazione e sulla stretta integrazione tra
agricoltura e allevamento. Questa caratteristica avrebbe incentivato l’integrazione tra l’economia
contadina (impresa di tipo capitalistico) e l’economia urbana, centro degli scambi commerciali e delle
transazioni finanziarie, favorendo l’estensione della manifattura tessile. Profonde erano in effetti le
differenze con la Francia, paese caratterizzato da un’economia contadina dominata da una piccola
proprietà frammentata, da una lenta crescita demografica e da livelli inferiori di urbanizzazione. Gli storici
concordano nel sottolineare che l’economia inglese già alla fine del XVIII secolo era integrata a livello
nazionale grazie alla rete capillare ed efficiente di trasporti interni costituita da canali e strade, mentre sul
continente prevalevano ancora la frammentazione della rete di trasporti. L’evoluzione delle istituzioni
statali tra XVIII e XIX secolo costituì un ulteriore elemento di supporto all’industrializzazione britannica. Per
lungo tempo si è ritenuto che la rivoluzione industriale fosse espressione dell’azione spontanea delle forze
sociali e che in essa il ruolo dello stato fosse quello di interferire il meno possibile con la “mano invisibile”
(secondo Adam Smith). In effetti l’azione del governo e del parlamento consentì l’abolizione della maggior
parte delle norme tradizionali, di tipo mercantilistico. Ciò non implicò un atteggiamento passivo da parte
delle autorità pubbliche.
Al contrario, gli anni della rivoluzione industriale videro emergere nuove, più moderne forme di
regolamentazione e di intervento a sostegno dello sviluppo economico. Ciò che distinse la Gran Bretagna
dal resto d’Europa, non fu l’assenza di intervento da parte dello stato, ma il rapido smantellamento dello
stato inefficiente di antico regime e la creazione di una moderna burocrazia di funzionari professionali, più
efficiente e con compiti più mirati.
L’affermazione della Gran Bretagna come primo paese industriale comportò la sua affermazione come
paese leader a livello internazionale. Per comprendere le caratteristiche di tale leadership, è opportuno
distinguere tra leadership tecnologica e quella economica. 1.la prima fa riferimento alla creatività
tecnologica e alla capacità di produrre innovazioni tecniche superiori in termini di efficienza, 2. la seconda è
basata sulla capacità di raggiungere livelli di produttività superiori (che dipende non solo dalla tecnologia
utilizzata ma anche dall’organizzazione della produzione e dalla combinazione dei fattori di produzione). La
Gran Bretagna fu leader tecnologico della prima rivoluzione industriale. La superiorità della tecnologia
britannica nei settori fondamentali era indiscussa. Tecnici e ingegneri stranieri erano inviati oltre Manica
nel tentativo di carpirne i segreti. Una volta abolito dal governo di Londra il divieto di esportazione per i
macchinari inglesi, la tecnologia britannica conquistò i mercati stranieri. Tuttavia, il vantaggio goduto dalla
Gran Bretagna per quanto riguarda efficienza e produttività nell’agricoltura e nei servizi (finanziari e
commerciali) le garantì una salda leadership economica internazionale fino alla metà del XIX secolo. La
formazione di tali divari in termini di produttività è considerata dagli economisti il fattore di accelerazione e
recupero. L’idea è che nel momento in cui un’ondata di innovazione apre la strada a una nuova epoca di
sviluppo industriale, il paese in grado di produrre la tecnologia di base tende ad accumulare un vantaggio
relativo rispetto agli altri, grazie a una superiore capacità di incrementare il flusso di microinvenzioni
necessario a migliorare l’efficienza economica. Dopo che questi ultimi si siano rivelati in grado di importare
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e adattare la tecnologia del paese leader alle proprie specificità economiche e sociali o di elaborare
soluzioni alternative, le distanze tra leader e inseguitori sono destinate a ridursi.
La leadership internazionale britannica raggiunse il culmine intorno alla metà del XIX secolo. La prima metà
dell’800 vide l’affermazione delle esportazioni manifatturiere inglesi sui mercati europei, anche se a partire
dal 1830 l’emergere di moderne industrie sul continente avviò un processo di declino. Nello stesso tempo la
politica commerciale inglese si spostò verso il protezionismo cerealicolo. Dal 1790 e ancor più dal 1815 le
leggi sul grano introdussero elevati dazi sulle importazioni di cereali, con l’intento di proteggere i
proprietari terrieri dalle conseguenze della caduta dei prezzi. Questa politica venne abbandonata nel 1846
in seguito alle proteste degli industriali e delle classi urbane. Uno degli aspetti più eclatanti della
supremazia internazionale dell’economia inglese fu il dominio assoluto conquistato nei trasporti navali e
commerciali e nei servizi a essi collegati, come le assicurazioni marittime e i servizi bancari.
Nella prima metà dell’800 le grandi banche inglesi specializzate nel finanziamento del commercio
internazionale, estesero la loro presenza nelle Americhe e in Asia, diventando le prime imprese
multinazionali. Lo stesso periodo vide l’affermazione di Londra come principale centro finanziario mondiale.
Cospicui flussi di capitali inglesi finanziarono una parte rilevante del boom degli investimenti ferroviari negli
Stati Uniti e nell’Europa continentale. I movimenti di popolazione furono dominanti nel ‘700 e nei primi
dell’800 dal traffico degli schiavi di origine africana. Gestita da mercanti inglesi e francesi, la tratta
comportò il trasferimento forzato di oltre 6 milioni di uomini e donne dalle regioni costiere dell’Africa
occidentale verso gli insediamenti coloniali nelle Americhe. Qui la manodopera di origine africana era
impiegata in condizioni disumane, nella coltivazione delle piantagioni di canna da zucchero, caffè, tabacco e
cotone. Alcuni hanno sostenuto che i profitti sostenuti dai mercanti inglesi con lo sfruttamento della
schiavitù fosse stata utilizzata per finanziare investimenti nell’industria, nel commercio e nelle banche.
Questa visione è stata abbandonata per la mancanza di prove. Il lavoro degli schiavi svolse un ruolo
fondamentale nell’ambito dell’economia atlantica, consentendo lo sfruttamento delle aree coloniali,
creando nuove opportunità di investimento per i capitali inglesi e intensificando la domanda di manufatti
inglesi.
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crescente diversificazione della domanda di beni di consumo non debba essere sopravvalutata.
L’accresciuta domanda di beni di consumo fu limitata a poche merci essenziali. Il consumismo fu un
fenomeno caratteristico delle classi medie (commercianti e professionisti) indirizzato verso prodotti di
importazione come stoffe pregiate, vino e spezie.
Le esportazioni industriali raggiunsero in Gran Bretagna un’incidenza sul totale del commercio estero senza
paragoni con gli altri paesi europei. Intorno al ruolo dei mercati esteri, come motore della rivoluzione
industriale, esistono ampie divergenze di vedute tra gli storici. L’opinione prevalente è che i mercati
internazionali non ebbero un ruolo determinante.
La supremazia industriale conquistata dalla Gran Bretagna nella prima metà del XIX secolo viene
interpretata come il riflesso della superiorità della moderna tecnologia industriale inglese. Ne deriva che la
storia dell’industrializzazione degli altri paesi tende a essere vista come il risultato di un processo di
diffusione internazionale, basato sulla graduale adozione delle moderne tecniche di produzione e di
organizzazione da parte dei paesi europei e degli Stati Uniti. Landes ha espresso questo concetto parlando
dell’industrializzazione europea come di un processo di “emulazione” nei confronti dell’Inghilterra, paese
modello che tutti osservavano, visitavano e si sforzavano di imitare. In effetti nell’epoca della prima
rivoluzione si registrò una significativa intensificazione dei trasferimenti di tecnologie, attraverso la
circolazione di tecnici e ingegneri. I modelli nazionali di industrializzazione scaturirono in realtà da un
processo di adattamento alle fondamentali specificità nazionali in termini di dotazioni di risorse e materie
prime, strutture sociali e istituzionali. Negli anni tra il 1840 e il 1870 un gruppo ristretto di paesi Belgio,
Svizzera, Francia, Germania e Stati Uniti si avviarono con successo lungo la strada dell’inseguimento. Il
dibattito sulla rivoluzione industriale inglese ha influenzato anche la percezione da parte degli storici delle
caratteristiche assunte dall’industrializzazione nel resto dei paesi europei. La crescita del Pil e del Pil pro
capite in Germania nel periodo 1820-70 fu appena inferiore a quella britannica. Lo stesso orientamento
tende a prevalere per quanto riguarda la Francia. Escludendo gli anni 1770-1815 (un periodo caratterizzato
da una situazione di guerra permanente) il periodo fino al 1870 fece registrare ritmi di crescita economica
assai modesti in tutti i paesi europei. Oggi possiamo ipotizzare con fondamento che le distanze tra Gran
Bretagna e i principali second comers non fossero probabilmente tanto ampie, e che la leadership
economica britannica verso la fine dell’epoca della prima rivoluzione fosse meno netta di quanto non siamo
soliti pensare. In tale periodo l’Europa in corso di industrializzazione crebbe più lentamente delle grandi
economie extraeuropee di insediamento, come Stati Uniti, Canada e Australia, paesi scarsamente popolati
e la cui rapida crescita si basava sull’agricoltura e sullo sfruttamento delle risorse naturali.
LE TRASFORMAZIONI SOCIALI
Prevaleva tra gli storici l’idea che la formazione di un mercato del lavoro funzionale all’industrializzazione
(cioè costituito prevalentemente da proletari pronti ad abbandonare le campagne e il lavoro rurale a favore
delle città e del sistema di fabbrica) avesse preceduto la rivoluzione industriale. Questa visione del mercato
del lavoro come prerequisito scaturiva dal dibattito sulle conseguenze delle “enclosures”, le recinzioni
deliberate dal parlamento inglese a partire dal 1760 con lo scopo di creare tenute capitalistiche destinate a
impiegare manodopera salariata e a produrre per il mercato. Il riconoscimento dei diritti di proprietà come
diritti di uso elusivo, la conseguente perdita dei diritti consuetudinari vantati dalle comunità rurali in
seguito alla privatizzazione dei terreni comuni e l’espropriazione di un gran numero di piccole proprietà
contadine, unite alla crescita demografica, avrebbero causato la proletarizzazione di una gran massa di
contadini. In realtà le ricerche recenti hanno dimostrato come in molti casi le nuove fabbriche trovassero
serie difficoltà nel reclutamento della manodopera necessaria. Le regioni interessate da uno sviluppo
intensivo dell’agricoltura capitalistica situate nel sud e nell’est del paese, avevano scarsi contatti con le aree
centrosettentrionali dove più intenso era lo sviluppo delle attività manifatturiere. I flussi migratori erano
modesti: la mobilità territoriale dei lavoratori era limitata a un ambito regionale (verso Londra divennero
più diffusi verso la prima metà del XIX secolo).
Alcuni storici ritengono che un’ulteriore limitazioni alla mobilità del lavoro derivasse dalla particolare
configurazione delle leggi sui poveri, che obbligavano i lavoratori a risiedere stabilmente nelle rispettive
parrocchie per non perdere il beneficio del sussidio di povertà.
Scarso contributo fu fornito al processo di industrializzazione britannica dell’immigrazione straniera: la sola
eccezione fu costituita dai lavoratori irlandesi giunti nelle regioni industriali del nord della Gran Bretagna in
seguito alla carestia del 1846. larga parte di eccedenza di manodopera tendeva ad alimentare una fascia di
sottoccupati impiegati saltuariamente nelle piccole aziende contadine o nei servizi commerciali locali.
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Emergeva la resistenza di molte famiglie contadine ad accettare il passaggio al lavoro di fabbrica e le sue
implicazioni (lavoro al chiuso, disciplina, perdita dei legami sociali). Le nascenti fabbriche incontrarono
strozzature nell’offerta di lavoro e dovettero adattarsi alle condizioni di un mercato nel quale il livello dei
salari era influenzato dall’industria domestica.
La manodopera impiegata dalle fabbriche tessili, proveniva dall’industria domestica, in declino per
l’agguerrita concorrenza delle fabbriche, ed era composta da donne e bambini. Le lavoratrici costituirono a
lungo la componente maggioritaria della manodopera industriale inglese, mentre il lavoro minorile andò
gradualmente declinando in seguito alla crescente regolamentazione introdotta dal governo britannico a
partire dal 1830. nel corso del XVIII secolo si era manifestato un mutamento profondo nelle economie
famigliari, con lo spostamento del tempo di lavoro dalle attività domestiche rivolte all’autoconsumo alle
attività rivolte al guadagno di un reddito monetario. Tale mutamento ribattezzato “rivoluzione industriosa”,
può essere considerato il riflesso di uno spostamento di preferenze a favore di beni di consumo quotidiano
prodotti dal mercato.
L’incremento della specializzazione del lavoro può essere considerato come l’altra faccia del crescente
livello di commercializzazione dell’economia: la necessità di procurarsi moneta per l’acquisto di beni di
consumo sul mercato spingeva le famiglie contadine a perseguire fonti di reddito addizionale. Nel medio
periodo la piena affermazione del processo di industrializzazione comportò una trasformazione. Mentre la
manodopera industriale venne sempre più fornita da lavoratori maschi, la presenza delle donne in fabbrica
si ridusse. La partecipazione femminile al mercato del lavoro si contrasse, lasciando emergere un nuovo
modello di famiglia basata sul capofamiglia maschio.
Tra gli storici si è sviluppato un dibattito in merito al tenore di vita delle classi lavoratrici durante la
rivoluzione industriale. Da un lato si collocano gli studi classici di autori che hanno sottolineato gli effetti di
sradicamento, di disgregazione sociale e di impoverimento provocati dal processo di industrializzazione su
lavoratori strappati al mondo rurale e del piccolo artigianato, soggetti a condizioni di lavoro pesantissime e
pericolose, e costretti a vivere in concentrazioni urbane di crescenti dimensioni in condizioni igieniche e
sanitarie peggiori di quelle caratteristiche del mondo rurale.
Dall’altro sono schierati coloro che considerano la rivoluzione la via all’emancipazione delle classi popolari
dal destino di miseria. In questa prospettiva, l’industrializzazione deve essere considerata un fenomeno
destinato a provocare un netto miglioramento del tenore di vita in termini di reddito disponibile, livello dei
consumi, condizioni igieniche e abitative.
Questa visione ottimistica è stata confermata da recenti ricerche. Le prime ricerche indicavano di fatto un
aumento considerevole tra il 45-70% dei consumi pro capite medi tra 1820 e 1850 e circa un raddoppio dei
salari medi (potere di acquisto reale dei lavoratori). Le ricerche più recenti suggeriscono che nel periodo
1780- 1860 l’aumento dei salari settimanali reali fu inferiore al 30% e si concentrò quasi esclusivamente
negli anni successivi al 1840. È ormai confermato da numerose ricerche che la transizione del sistema di
fabbrica abbia comportato una considerevole allungamento del tempo lavorativo.
Durante la rivoluzione industriale, vennero progressivamente abolite le innumerevoli festività religiose che
riducevano l’anno lavorativo, cancellata la tradizione del St Monday (lunedì festivo), ridotta la
disoccupazione stagionale e intensificati i ritmi di produzione anche attraverso il prolungamento del lavoro
notturno consentito da più economiche fonti di illuminazione. Giornate lavorative di 14 ore e oltre erano
tutt’altro che inusuali nell’Inghilterra della prima metà dell’800, finché il governo non intervenne a
regolamentare la materia fissando per legge la durata della giornata lavorativa a 10 ore. Appare ormai
assodato che il lavoro di fabbrica era più faticoso, insalubre e pericoloso di quello svolto nell’ambito di
attività protoindustriali. Il sistema di fabbrica ridusse la capacità degli operai di controllare i ritmi di lavoro e
la distribuzione del tempo, costringendoli al tempo stesso in ambienti malsani e scarsamente illuminati e
sottoponendoli al rischio di gravi incidenti causati dai macchinari. Se non esistono prove di un
deterioramento di fatto delle condizioni di vita delle classi lavoratrici nel corso della prima rivoluzione,
possiamo ritenere che se miglioramenti vi furono, questi iniziarono a manifestarsi chiaramente solo verso la
fine del periodo considerato.
Un ricco dibattito è sorto anche intorno all’ipotesi che, nella fase della prima industrializzazione, la
disuguaglianza nella distribuzione del reddito si sia accentuata. Kuznets ipotizzò che in un’economia a 2
settori (tradizionale e moderno), lo spostamento della popolazione attiva dal primo al secondo e i divari
salariali creatisi tra i 2 settori tendano nella prima fase dell’industrializzazione ad accentuare la
disuguaglianza nella distribuzione del reddito (ossia ad aumentare le distanze tra la parte più ricca e quella
più povera). Una volta completata la fase di cambio strutturale e aumentato stabilmente il livello del
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reddito pro capite, i divari tra i settori sarebbero destinati a ridursi e la disuguaglianza tenderebbe a
diminuire. La relazione tra la disuguaglianza e la crescita assumerebbe una forma a “U” rovesciata
denominata curva di Kuznets. Analisi più specifiche su singole realtà locali hanno confermato che i
lavoratori specializzati furono in grado di migliorare la loro posizione economica, mentre alcune categorie
dell’industria tradizionale (lavoratori non specializzati), spesso espulsi dall’agricoltura e concentratisi nelle
città, furono i principali perdenti della rivoluzione. Alcuni hanno confermato una tendenza all’aumento
della disuguaglianza fino al 1870 e successivamente un suo declino.
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guerre, nel corso dei quali navi con motori diesel resero le navi sempre più economiche e veloci. Negli stessi
anni si affermò anche l’industria aeronautica. Sostenuta da motivazioni militari, la produzione aeronautica
conobbe una prima fase di espansione in Europa e Stati Uniti nel 1925. la produzione per scopi civili si
affermò definitivamente solo dal 1950.
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L’affermazione del modello organizzativo tipico della grande impresa basata su gerarchie manageriali ha
conosciuto tempi diversi. Negli Stati Uniti emerse nel 1870 grazie alle grandi compagnie ferroviarie, la cui
gestione richieda ingenti capitali. Tale modello venne successivamente adottato dalle imprese leader dei
vari settori, come la Duponto nell’industria chimica, la Ford e la General Motors in quella automobilistica.
Sul piano internazionale le imprese multinazionali americane hanno mantenuto una leadership nel campo
degli investimenti stranieri, favorendo i trasferimenti internazionali di tecnologia e la diffusione delle
tecniche organizzative più avanzate. Anche in Europa grandi imprese emersero nel corso della prima metà
del XX secolo: ad es. le società elettromeccaniche tedesche (Siemens). La grande impresa ha assunto
caratteristiche differenti nei vari paesi. Si parla a tale proposito di tre modelli:
▪ Capitalismo manageriale competitivo, tipico degli Stati Uniti, nel quale predomina una netta
separazione tra proprietà e management;
▪ Capitalismo personale, tipico della Gran Bretagna, nel quale ha continuato a essere forte il peso
delle famiglie fondatrici;
▪ Capitalismo manageriale cooperativo, tipico della Germania e basato sul ruolo svolto dalle grandi
banche nel finanziamento e nella proprietà e su pratiche di accordo e coordinamento tra le
imprese.
L’affermazione della grande impresa ha dato luogo ovunque a un processo di concentrazione. In molti
settori la struttura di mercato ha assunto la forma della concorrenza oligopolistica, nella quale produzione
e prezzi sono determinati dall’interazione tra un numero ridotto di imprese di grandi dimensioni. Tale
interazione ha assunto a volte caratteristiche di collusione, conducendo ad accordi tra imprese volti a
regolare le rispettive quote di produzione, la fissazione dei prezzi: si parla di “trust” o cartelli. Queste forme
di coordinamento fiorirono nel ventennio tra le 2 guerre mondiali. Un caso emblematico fu quello del
cartello internazionale del petrolio, sorto negli anni venti, attraverso il quale le 7 principali compagnie
multinazionali del settore (sette sorelle) stipularono una serie di accordi per ripartire le rispettive aree di
ricerca ed estrazione, pianificando su base pluriennale la produzione e unificando il prezzo del greggio sul
mercato mondiale. Nel secondo dopoguerra si affermano mercati basati sulla concorrenza oligopolistica. Il
concetto indica una competizione basata sulle capacità strategiche e funzionali, sviluppate migliorando
l’efficienza di produzione e distribuzione, investendo in ricerca e sviluppo.
IL SECOLO AMERICANO
L’epoca della seconda rivoluzione industriale fu caratterizzata da profondi mutamenti nella leadership
tecnologica ed economica internazionale. Nel cinquantennio precedente alla Prima Guerra mondiale, la
Gran Bretagna perse la sua tradizionale supremazia a favore degli Stati Uniti e della Germania. Alcuni
economisti hanno suggerito che il passaggio di leadership da una nazione all’altra possa essere spiegato
sulla base delle rispettive traiettorie tecnologiche. Alla luce di tale modello, Germania e Stati Uniti
avrebbero investito massicce risorse nello sviluppo delle tecnologie, superando la Gran Bretagna. In
entrambi i paesi l’affermazione della leadership tecnologica scaturì da una convergenza tra università,
grande impresa e stato a favore dell’applicazione economica delle nuove conoscenze scientifiche nel campo
della fisica e della chimica. Tale processo di “istituzionalizzazione” dell’innovazione basato su finanziamenti
privati e pubblici è stato definito come “l’invenzione dell’arte dell’inventare”. Tra la fine del XIX secolo e la
metà del XX, furono le scuole politecniche tedesche a produrre le più importanti innovazioni tecnologiche
nei settori chimico ed elettrico. La forza dell’industria americana consistette nella capacità di adattare a
scale superiori di produzione numerose innovazioni europee. Dagli anni precedenti la seconda guerra
mondiale, la leadership tecnologica statunitense ricevette un decisivo impulso grazie al decollo di massicci
programmi governativi di ricerca e sviluppo, nei settori di alta tecnologia, legati alla difesa come l’energia
atomica e i settori aeronautici e missilistici. Gli anni del secondo dopo guerra rappresentano di fatto
l’apogeo della leadership tecnologica americana, che si impose su scala globale grazie a massicci
trasferimenti internazionali di tecnologia.
Il vigoroso salto verso la nuova frontiera tecnologica consentì a Stati Uniti e Germania una rapida crescita
nei livelli di produttività del lavoro. Vi fu il sorpasso degli USA nei confronti della Gran Bretagna tra il 1870 e
il 1913 e il successivo aumento delle distanze tra i livelli di produttività americana e quelli degli altri paesi
industrialmente avanzati. La crescita della produttività nell’industria manifatturiera statunitense fu
spettacolare negli anni Venti, nel momento in cui l’adozione del sistema taylorista-fordista, il passaggio
dell’elettricità come fonte di energia. Gli Stati Uniti coniugarono in questo periodo leadership tecnologica
ed economica. Ciò non si verificò nel caso della Germania: è superfluo ricordare il peso delle sconfitte patite
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nella prima e seconda guerra mondiale e dell’instabilità politica ed economica degli anni 1920-30. per larga
parte del periodo considerato gli Stati Uniti accumularono un sostanziale vantaggio rispetto al resto del
mondo. Le distanze si ridussero soltanto nel periodo 1950-73, quando i principali paesi europei e alcuni
paesi asiatici adattarono in misura massiccia tecnologie e sistemi di produzione americani. Per molti paesi
europei il secondo dopo guerra rappresentò una fase di accelerato mutamento strutturale, cioè il rapido
declino della quota dell’occupazione agricola e di espansione di quella industriale. Ciò influì sull’andamento
dei livelli relativi di produttività. Intorno al 1870, in Gran Bretagna l’agricoltura costituiva soltanto il 22%
dell’occupazione totale, mentre negli Stati Uniti, in Germania e in Francia rappresentava ancora circa la
metà dell’occupazione totale.
Nel 1950 gli Stati Uniti avevano completato il proprio mutamento strutturale (solo il 13% di occupati in
agricoltura). È lo spostamento di manodopera dall’agricoltura all’industria che comporta di per sé un
aumento del livello generale di produttività. L’industrializzazione accelerata del periodo post 1945,
l’adozione di tecnologia e sistemi produttivi americani, ed elevati investimenti in capitale umano furono i
fattori fondamentali che consentirono alla produttività totale dei fattori di crescere a ritmi sostenuti,
rendendo possibile una convergenza di produttività tra gli Stati Uniti e le economie industriali emergenti in
Europa e Asia.
Da alcune ricerche emerge come, già intorno al 1820 gli Stati Uniti godessero nel settore manifatturiero di
una produttività del lavoro superiore per un 50% a quella britannica, tale divario si era ampliato fino a
raggiungere circa il doppio nel 1850. gli storici sono concordi nel ritenere che le origini di tale divario
vadano fatte risalire alla specifica dotazione di fattori dell’economia americana: scarsità di manodopera
specializzata, abbondanza di risorse naturali, coniugata con elevate capacità tecnologiche e organizzative
nel loro sfruttamento, e un mercato interno di enormi dimensioni. Per questi motivi, l’industria
manifatturiera americana si avviò lungo un sentiero di sviluppo di tipo “resource intensive” (ossia basato
sull’utilizzo intensivo di materie prime). Nonostante già nel 1910 la produttività del lavoro in Germania
superasse quella della Gran Bretagna nell’industria manifatturiera e dei pubblici servizi, nel complesso la
produttività dell’economia tedesca rimase inferiore a quella britannica fino al 1950.
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risultò negativamente condizionato. La crisi del 1929-33 provocò una escalation di controlli valutari e
ritorsioni tariffarie, sfociata nella disintegrazione dell’economia internazionale e nella sua segmentazione in
aree commerciali e valutarie di tipo regionale, gravitanti intorno ai principali paesi (Stati Uniti, Gran
Bretagna, Germania). La crescita dell’economia rallentò a livello mondiale, ma a essere particolarmente
colpiti furono i paesi dell’Europa centrale e orientale e le economie latino-americane. Ovunque l’uscita
dalla crisi venne perseguita sul piano nazionale attraverso l’aumento delle spese statali, orientate alla
difesa.
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lavoratori contro infortuni e malattie e all’erogazione di pensioni una volta terminata la vita attiva. Nel
corso del XX secolo gli ambiti di azione dello stato sociale si sono ampliati sino a includere sussidi di
disoccupazione, contributi specifici e interventi diretti. Lo stato attraverso tale sistema ha conseguito
l’obiettivo di stabilizzare il livello del reddito goduto dai lavoratori nel corso del proprio ciclo di vita.
L’epoca della seconda rivoluzione industriale è stata caratterizzata, sul piano sociale, dalla crescente
organizzazione degli interessi sotto forma di sindacati e di rappresentanze di categoria. I primi a unirsi in
organizzazioni sindacali furono i lavoratori industriali. L’ovunque l’ossatura dei sindacati operai sorti nella
seconda metà del XIX secolo fu fornita dai lavoratori specializzati, ossia da quelle èlite professionali che,
svolgevano un ruolo fondamentale nell’organizzazione del lavoro di fabbrica. Per questo le rivendicazioni
dei sindacati di mestiere riflettevano gli interessi degli operai specializzati, come la fissazione di un salario
minimo, l’esclusione di operai non specializzati da determinate mansioni e la regolamentazione da parte
sindacale dell’apprendistato. Tuttavia, la tradizionale forza del sindacalismo di mestiere venne erosa dalla
comparsa di nuove organizzazioni sindacali di massa, costituite da operai comuni, spesso inclini a
rivendicazioni estreme e a forme di lotta rivoluzionarie, violente nel primo ventennio del XX secolo. La
radicalizzazione dei conflitti fu in larga parte il riflesso della diffusione del sistema di produzione taylorista-
fordista, basato sull’utilizzo di una massa operaia non specializzata. I limiti di tale politica emersero con
chiarezza nel corso degli anni 60-70, caratterizzati da un’ondata di conflitti industriali, favorita dalla forza
contrattuale conseguita dalle organizzazioni sindacali, e mossa da rivendicazioni salariali e dalla volontà
sindacale di riconquistare margini di negoziazione in merito ai ritmi e all’organizzazione del lavoro in
fabbrica.
Il modello di organizzazione del sindacalismo operaio venne adottato anche da altre categorie sociali, dagli
imprenditori industriali e dai proprietari terrieri. In tutti i paesi occidentali i conflitti industriali assunsero
sempre più la forma dello scontro tra interessi organizzati, imperniato sul principio della contrattazione
collettiva (ossia sulla stipulazione di contratti di lavoro universalmente validi nei confronti di tutti i
lavoratori e gli imprenditori). A partire dagli anni venti, lo stato è sempre più massicciamente intervenuto a
regolare questa nuova forma di conflitto, tipico dell’era della produzione di massa.
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DECLINO DEL FORDISMO?
L’utilizzo dei sistemi automatizzati ha fornito alle imprese la possibilità di risolvere alcuni problemi di
gestione tipici degli impianti industriali e dei sistemi tecnologici emersi dagli anni ’60. più importanti si sono
rivelate le innovazioni elettroniche nel consentire alle imprese di adattarsi alle trasformazioni intervenute
nell’economia dagli anni ’70. le recessioni del 1974-75 e del 1980-82 portarono alla luce difficoltà
incontrate dal sistema di produzione di massa di fronte a mercati saturi, caratterizzati da forti oscillazioni
della domanda e da una trasformazione delle preferenze dei consumatori, propensi a premiare la qualità e
l’individualità dei beni consumati.
Di conseguenza le grandi imprese hanno dovuto abbandonare la rigidità della produzione standardizzata di
massa e adottare sistemi più flessibili, in grado di adattare con rapidità alla domanda i volumi e le
caratteristiche della produzione. Le nuove tecnologie hanno consentito alle imprese di ridurre il livello dei
costi totali, e di conseguire forti economie nella raccolta, elaborazione e trasmissione dei dati, nella
progettazione del prodotto e nell’utilizzo di macchinari flessibili. I macchinari specializzati in un’unica linea
di prodotto sono stati sostituiti da macchine flessibili, programmabili e capaci di essere impiegate in
numerose linee di prodotto. Tale trasformazione è stata evidente nel settore automobilistico. Qui, la
soluzione dell’automazione spinta degli impianti di produzione, adottata negli anni ’80 anche con l’obiettivo
di ridurre al minimo l’impiego di manodopera e i conflitti sindacali, si è rivelata fonte di nuove rigidità ed è
stata abbandonata a favore di un sistema più equilibrato. Gli anni ’90 hanno visto in effetti la
generalizzazione, a livello internazionale, del modello giapponese di “produzione snella”. Tale innovazione
organizzativa, introdotta dalla Toyota si basa su tre principi:
1. L’offerta è determinata dalla domanda, ossia il volume e le caratteristiche della produzione si
adattano al flusso di informazione che i settori commerciali trasmettono al management sulle
tendenze del mercato;
2. I tempi di produzione e i livelli delle scorte vengono ridotti al minimo (just in time)
3. I controlli di qualità sono estesi a tutte le fasi di produzione: l’obiettivo della “qualità totale”
richiede l’attivo coinvolgimento di manodopera altamente specializzata nella gestione di
macchinari automatizzati e flessibili.
Il processo di riorganizzazione delle grandi imprese americane ed europee e di adattamento del modello
giapponese alla realtà economica e sociale dei paesi occidentali ha proceduto negli anni ’90. gli anni ’80-’90
hanno rappresentato una rottura rispetto all’epoca fordista. Il diverso scenario ha offerto nuove
opportunità di sviluppo alle piccole imprese specializzate nella produzione flessibile su piccola scala a
partire da sistemi informatici. I successi della piccola media impresa italiana, basati sulla capacità di
competere sui mercati internazionali con prodotti ad elevato contenuto tecnologico, di qualità elevata e
con design innovativo, sono considerati come una manifestazione emblematica del dinamismo e delle
potenzialità del modello di specializzazione flessibile. La fine del XX secolo ha segnato l’inizio di un’epoca
postfordista nella quale i principi basilari dominanti nel secolo precedente (produzione di massa, grande
impresa, organizzazione burocratica) hanno subito una profonda revisione.
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informatiche appaiono ancora largamente inesplorate, dato che il resto dell’economia americana risulta
appena sfiorato dalla rivoluzione in corso.
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