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Gisa... una donna di sostanza
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E-book298 pagine4 ore

Gisa... una donna di sostanza

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Info su questo ebook

In una ambientazione volutamente casuale, seguiamo le vicende di un clan mafioso e in particolare del ruolo centrale che ha la donna in queste vicende. Scoperta e fatta prigioniera, la donna di sostanza dovrà fare i conti con la propria coscienza e, interrogatorio dopo interrogatorio, verrà alla luce un mondo tanto più intricato e labirintico di quanto si potrebbe immaginare…

Totò Pecoraro è nato a Caltanissetta il 7 marzo 1955, dove vive e opera. Per quarant’anni ha esercitato la professione di avvocato penalista e si è sempre dilettato a scrivere poesie e racconti. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo libro, Il mio regno per un sorriso, opera autobiografica e testimonianza. Sensazioni, Emozioni e quarant’anni di pensieri è la sua prima silloge di poesie. Donna di Sostanza è il suo primo romanzo. L’opera più rappresentativa della sua produzione è La favola del Re pazzo, una favola per bambini e storia per adulti, che consiste in dieci litoserigrafie 50x70, numerate da 1 a 100, fornite e firmate dal pittore Turi Salamone, dove il testo è scritto direttamente sulle tavole serigrafiche. 
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2024
ISBN9791223602799
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    Anteprima del libro

    Gisa... una donna di sostanza - Totò Pecoraro

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    Totò Pecoraro

    Gisa.. una donna

    di sostanza

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-9893-2

    I edizione agosto 2024

    Finito di stampare nel mese di agosto 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Gisa... una donna di sostanza

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Presentazione

    Ogni essere umano viene al mondo in maniera del tutto singolare e involontaria: non sceglie i suoi genitori, non sceglie il luogo ove nascere, non sceglie neppure un’epoca storica. Si trova gettato in un contesto e in esso deve articolare la propria esistenza. Subisce un destino di cui man mano diviene consapevole e dal quale è in gran parte determinato. Un destino che diviene in qualche modo la sua circostanza, lo spazio e il tempo assegnati alla sua vita. La libertà di questo essere umano si dibatte tra i condizionamenti nei quali egli è immerso, e le aspirazioni che inevitabilmente maturano nel suo animo, frutto di incontri, di letture, di esempi, del suo stesso carattere, del caso. Si ha la sensazione talvolta che la libertà, di cui pure l’uomo non può dirsi mai esente e mai appagato, sia relegata a uno spazio minuscolo, sia coartata dalle circostanze.

    Questa riflessione mi è sorta in mente a proposito della vicenda di Giuseppina Paterna, la donna di sostanza del bel romanzo di Totò Pecoraro. Romanzo ambientato e raccontato in Sicilia; una Sicilia recente, a noi contemporanea, ma antica e per così dire classica nei sentimenti dei personaggi che animano il racconto, nei loro valori e nei disvalori.

    Gisa è per natura e per educazione persona di sostanza. Credo che voglia dire, non solo nel romanzo, che è conforme al ruolo che la vita e il destino le hanno misteriosamente assegnato. È consapevole delle conseguenze dei suoi atti, anche dei meno condivisibili, ma soggiace alle responsabilità che la sua condizione comporta. Il suo sistema valoriale, appreso nell’ambiente familiare, precede ogni altra istanza etica, anche se non la cancella. Col tempo i contraccolpi psicologici delle sue azioni, che lavorano in maniera sotterranea nella sua coscienza, trovano una via d’uscita che sembra condurla a un affrancamento della sua vita dall’ambiente familiare contaminato dalla cultura mafiosa. È una via d’uscita dignitosa e onorevole per la protagonista del romanzo, e anche per l’autore, che ha deciso di sistemare le cose con una soluzione edificante. Ma emerge in maniera chiara che nella mente di Gisa il tributo da pagare alla sua famiglia è sempre stato prioritario e incondizionato. Non è possibile per lei altra scelta. Solo il sacrificio del carcere, subito per lunghi anni, le permette di giustificare il suo distacco da una vita che non vuole più condividere. Ha pagato il suo prezzo al destino, e si affranca da esso senza tradirlo.

    Personaggio di fosca e ambigua grandezza, presenta molte sfumature psicologiche che caratterizzano la società di certa Sicilia, pervasa da intrecci tra lecito e illecito, o meglio tra legale e illegale, che un occhio esercitato coglie nelle varie articolazioni della vita, ai vari livelli. Ma questo è un altro capitolo. L’occasionale lettore con queste poche considerazioni intende rendere all’autore vivo apprezzamento per il taglio esistenziale che ha dato alla sua opera, per gli aspetti sociologici che ne costituiscono lo sfondo, per il bello stile con cui ha intessuto il racconto, e per il piacere che si ricava dalla sua lettura.

    Nino Granata

    GISA, UNA DONNA… DI SOSTANZA

    Giuseppina era l’unica femmina dei quattro figli di Don Tano, vecchio capo mafia del piccolo centro abitato, appena 6500 abitanti, dell’entroterra siciliano, Bifesi, situato a 40 chilometri da Castrodiferro, capoluogo di provincia, e a 25 chilometri da Sela, il più grosso paese posto al centro dell’omonimo golfo e sede di un importante polo industriale.

    Bifesi vive di un’economia legata alla agricoltura, per lo più incentrata sui vigneti e sulle grosse estensioni coltivate a grano. La storia recente del piccolo centro è legata essenzialmente alla triste nomea di essere un paese ad alta densità mafiosa, in pratica come Merleone sta a Salermo, capitale mondiale della mafia di Cosa Nostra, così Bifesi sta a Castrodiferro.

    È stato talmente importante il ruolo di Bifesi nel gotha mafioso mondiale, da annoverare da sempre un suo rappresentante all’interno della Cupola di Cosa Nostra, la famigerata Commissione formata dai rappresentanti delle "famigghie" di Salermo, Merleone, Sinisi, Girgenti, Savara, Balcamo, Patania e New York, quest’ultima in rappresentanza di Cosa Nostra americana.

    Recentemente si stava verificando una spaccatura dentro Cosa Nostra bifesina e stavano delineandosi due correnti, una moderata, legata alla famiglia dei Di Salvina e una oltranzista, quella dei Paterna, legata ai Merleonesi di Salvatore Spina.

    La particolarità di Bifesi è data anche dal fatto che la sua storia registra una violenta rivolta dei contadini che, nel 1919, dopo aver messo a ferro e fuoco il paesino, presero il potere e proclamarono la Repubblica di Bifesi. Fatto singolare in quell’epoca, ancora dominata dalla monarchia dei Savoia, i cui apparati di polizia repressero nel sangue la rivolta di Bifesi, restaurando l’ordine pubblico dopo appena tre giorni dalla proclamazione della Repubblica.

    Capitolo Primo

    Gisa – così la chiamava Don Tano, con il quale passava la gran parte del tempo, specie da quando la sua malattia si era aggravata ed era costretto per lunghi periodi a letto – era una donna minuta, rimasta vedova ad appena ventun anni, dopo due anni di matrimonio con Francesco D’Antona, un bell’uomo sempre allegro e gentile, impiegato del Comune di Bifesi, che aveva conosciuto ad appena diciotto anni, quando era stata assunta dall’amministrazione comunale subito dopo il diploma magistrale, fulminato nel fiore degli anni da un male incurabile, che in poco meno di due mesi lo aveva condotto alla tomba.

    Gisa aveva una corporatura piccola, era alta 162 cm, con un bel viso e un corpo aggraziato. Aveva i capelli neri e anche gli occhi, mentre la carnagione era bianchissima, tanto che faceva risaltare ulteriormente i capelli corvini. Aveva una bella bocca e quando sorrideva, suo padre diceva "ca faciva squagliari li jlati", cioè faceva sciogliere il gelo sulle piante.

    Gisa non si era più legata a nessun uomo e aveva accettato la vedovanza con rassegnazione, anche perché le faceva molto piacere accudire il padre, con il quale parlava moltissimo, essendo stata peraltro l’unica femmina e la sua figlia prediletta, coccolata fin dall’infanzia, e non le erano mai mancate attenzioni, baci e carezze. Del resto l’educazione ricevuta le imponeva di rispettare i valori che le erano stati inculcati per tenere alto l’onore e il prestigio della famiglia. La verginità prima delle nozze e successivamente la castità, erano postulati inviolabili per il rispetto dei maschi della famiglia al cospetto della comunità circostante. La rettitudine femminile è sempre stata un dato imprescindibile per garantire la reputazione maschile e rappresenta uno degli elementi che consentono all’uomo l’affiliazione formale alla mafia. La conseguenza inevitabile di tale codice d’onore è stata quella di rimanere fedele al marito defunto, proprio per evitare un eventuale disonore familiare.

    Adesso, che anche la madre era molto anziana e con i suoi acciacchi, era lei che si occupava della casa e dei suoi genitori, limitandosi i fratelli alle visite giornaliere come di consueto.

    Il grande, Gino, aveva preso il posto del padre nella "famigghia territoriale e, formalmente, faceva il sovrastante" in una grossa azienda agricola, di proprietà della famiglia nobile salermitana del Barone Morvillo Spatafora, ma di fatto era dedito alle estorsioni su vasta scala, soprattutto nei confronti delle imprese che si aggiudicavano i grandi appalti pubblici nella zona sud della provincia e, principalmente, a Sela, dove erano in corso la costruzione di una diga, l’ampliamento del porto marittimo e la espansione del polo industriale petrolchimico.

    Giovanni, il mezzano, di due anni più piccolo di lei, era l’ombra del fratello maggiore. Gli faceva da autista e da guardaspalle, sempre all’erta e pronto a intervenire in ogni occasione di pericolo. Girava armato e poteva anche contare sull’appoggio di diversi picciotti, che con discrezione erano sempre nei paraggi e stavano normalmente dietro ai fratelli Paterna.

    Infine c’era il piccolo Salvatore, anche lui sposato come gli altri e con due figli, ma di carattere più mite e, perciò, godeva della protezione della sorella, che lo aveva sempre aiutato, sin da quando era piccolo e aveva avuto problemi con la scuola. A lui la famiglia aveva aperto un negozio di casalinghi e regali, con annesso posto telefonico pubblico, che andava discretamente e gli permetteva di mantenere la moglie e i figli. Non partecipava agli affari dei fratelli ed era tenuto lontano dalla dimensione mafiosa del gruppo, anche perché non brillava per perspicacia e iniziativa.

    Peraltro, negli ultimi tempi erano sorti problemi con la famiglia dei Di Salvina o, almeno, quello che rimaneva dei Di Salvina, dal momento che, da quando era stato ucciso il fratello maggiore, Giuseppe, chi tirava le redini era Salvatore Di Salvina, per tutti un mite professore di lettere di scuola media, ma che aveva avuto da sempre un ruolo attivo nella "famigghia bifesina, quale consigliere personale di Don Peppe", prima che questi venisse ucciso nella capitale siciliana in viale Lazio, a Salermo.

    Il Professore non condivideva le scelte di Gino Paterna e da un po’ di tempo lo contrastava apertamente, ricevendo numerosi consensi in Cosa Nostra anche fuori di Bifesi. In pratica stava riuscendo a mettergli contro la maggior parte degli uomini d’onore bifesini e alcuni anche dei paesi vicini.

    Gino Paterna però non se n’era stato con le mani in mano e si era cercato appoggi altolocati, tanto da diventare in poco tempo il fiduciario di Francesco Baronia, capo indiscusso della Provincia di Castrodiferro, che avversava i Di Salvina perché sospettava che fossero in qualche modo coinvolti nell’uccisione del padre, il vecchio Michele Baronia, ucciso nel 1976 a colpi di lupara e ritrovato dentro un’autovettura nelle campagne di Bifesi.

    Gino si era fatto strada mettendosi a disposizione di Don Ciccio Baronia, che lo aveva utilizzato come killer nella zona del salermitano, prestandolo più volte alla famiglia di Sagheria in diverse operazioni dove i sicari dovevano provenire da fuori. Gino, infatti, oltre a essere una persona svelta, aveva una mira infallibile con le armi da fuoco, tanto da divenire in poco tempo una leggenda, essendo considerato uno dei più pericolosi killer di Cosa Nostra.

    Il fatto che stesse cambiando certe regole all’interno della famiglia bifesina, forte dell’appoggio di Don Ciccio, e che fosse riuscito a far affiliare alcuni suoi fedelissimi proprio a Bifesi, stava creando non pochi problemi con i Di Salvina, che ormai si stavano preparando a quella che sarebbe stata una vera rottura in seno alla famiglia mafiosa del paese e che si sarebbe trasformata ben presto in una delle più sanguinose guerre di mafia, dando vita al fenomeno della stiddra.

    Sulla denominazione del fenomeno stiddra, ci sono due teorie che sembrano avere più credibilità, rispetto alle fantasiose ipotesi che si sono fatte sull’argomento.

    Qualche pentito di rango ha detto che la denominazione stiddra deriva dalla prima riunione che i dissidenti mafiosi di Cosa Nostra hanno fatto a Serrafranca, in provincia di Menna, dove un uomo d’onore, messo fuori confidenza dall’allora capo mafia di Menna Don Paolo Salvo, aveva convocato tutti gli scontenti di Cosa Nostra dei paesi di Serrafranca, Gessarino, Bifesi, Sela, Biscemi, Mutera, Belia, Mussatino, Alicata, Sanifattì, Bavanusa, Resalmuto e Vigata. Nell’occasione sono stati bruciati numerosi santini della Madonna della Stella, patrona protettiva di Serrafranca, per affiliare parecchi picciotti che da lungo tempo aspettavano impazienti di essere inseriti a pieno titolo in Cosa Nostra.

    Qualche altro collaborante, altrettanto importante, ha detto invece che il termine stiddra nasce dal fatto che i fuoriusciti da Cosa Nostra, non paghi di quanto ancora potessero esprimere e desiderosi di dimostrare la loro "valentia" in termini criminali, si sono messi insieme per formare una organizzazione forte e parallela, per agire nel campo delle estorsioni e dei traffici illeciti di determinate zone del territorio siciliano.

    E così, come le stiddre che fuoriescono dal tronco principale (Cosa Nostra) quando si spacca un grosso legno, i fuoriusciti dall’organizzazione mafiosa, che da soli non avrebbero avuto scampo, si sono aggregati per dar vita a una mafia altra, armata e determinata che, a un certo momento, si è scagliata contro i tradizionali poteri che dominavano incontrastati il territorio, minandone il predominio in diverse zone.

    A un certo punto i Di Salvina sono stati costretti a prendere atto che il loro potere, incontrastato per decenni, era minacciato seriamente dalla famiglia Paterna e, perciò, non hanno esitato a schierarsi con la nascente stiddra, creando così la più grossa cellula della stessa nella provincia di Castrodiferro e coaptando i numerosi dissidenti già presenti nel territorio limitrofo.

    Alleanze sono state fatte a Gessarino, dove era già in atto una sanguinosa faida tra le famiglie dei Malaffino e dei Prestifilippo dove, con cadenza semestrale, erano stati uccisi i principali esponenti delle due famiglie. A Biscemi, dove i Busso si sono contrapposti alla Famiglia Asperito-Maggio, che da sempre dominava la zona limitrofa alla piana di Sela. Nella stessa Sela, dove le famiglie si sono divise seguendo alcuni i Ciannì-Bauletta mente altre si sono aggregate a Baronia, già radicato nella zona e inserito nei grossi lavori pubblici da tempo avviati nel territorio e non solo in quello selese.

    I fratelli Solara, i più fedeli seguaci di Baronia, avevano dato vita alla SO.BA. s.r.l., una società che si occupava di movimento terra e si erano inseriti prepotentemente nella costruzione della diga di Missueri.

    Ben presto il clan dei pastori, così era denominata l’organizzazione che si era affiliata alla Stiddra, si trovò a contrastare in ogni campo di speculazioni illecite (estorsioni, traffico di droga, appalti…) del territorio di Sela, la sino ad allora incontrastata associazione criminale di Cosa Nostra, un tempo di esclusiva pertinenza di Don Peppe Di Salvina e ora passata sotto la direzione dal capo mafia Francesco Baronia, alleato di ferro del clan dei Merleonesi, capeggiato da Salvatore Spina, u curtu, di recente a capo della famiglia di Merleone, il più grosso centro ad alta densità mafiosa del salermitano. Spina era subentrato a Luciano Beggio, u sciancatu, dopo che questi era stato condannato definitivamente all’ergastolo.

    Salvatore Spina era un uomo determinato e molto scaltro. Aveva saputo creare alleanze importanti in seno a Cosa Nostra anche oltre oceano e, in poco tempo, si sarebbe liberato di tutti i capi provinciali tradizionali facenti parte della cupola, divenendo il capo indiscusso di Cosa Nostra siciliana.

    A Sela il clan dei pastori, in cui da poco tempo si era imposto Aurelio Vitello, un pastore appunto, non ha avuto vita facile finché non è riuscito a liberarsi di Salvatore Solara, freddato a casa sua mentre stava pranzando con i suoi cari, nel periodo natalizio del 1985, episodio in cui sono stati uccisi anche due suoi figli mentre altri tre sono finiti in ospedale, ponendo in essere l’inizio del suo dominio parallelo a Sela.

    La strage di Natale acuì la guerra di mafia, già in atto nel territorio selese, il cui inizio si fa risalire al duplice omicidio di Orazio Soccomini e Vincenzo Bauletta, eseguito da Cosa Nostra per il controllo dei subappalti relativi alla diga Missueri, dove era entrata di forza la SO.BA. s.r.l.

    Don Ciccio Baronia, quando è assurto a capo della Provincia di Castrodiferro, nell’ottica di contrastare i Di Salvina, sino ad allora dominatori assoluti del territorio intorno alla Piana di Sela, aveva organizzato una famiglia selese, alla cui guida aveva posto Salvatore Solara e altri suoi fedelissimi che era riuscito ad affiliare in qualità di uomini d’onore.

    Ma non aveva considerato che la malavita selese, già piuttosto agguerrita, si era organizzata tanto che era riuscita a tendergli un agguato sparandogli contro numerosi colpi di pistola mentre usciva dal bar Raquette insieme a Salvatore Solara, che nell’occorso fu colpito a un piede, mentre lui rimase miracolosamente incolume.

    La risposta di Cosa Nostra fu la eliminazione di Soccomini e Bauletta, che avevano una piccola impresa di movimento terra, già inserita nei subappalti della diga Missueri. A questo seguì la strage di Natale, con la uccisione di Salvatore Solara e diversi altri attentati e avvertimenti da ambo le parti.

    Questo era il quadro nel quale si muovevano le organizzazioni mafiose nella zona centro-sud della Sicilia negli anni ’80, cioè quando i merleonesi di Salvatore Spina e Binnu Francescano stavano egemonizzando a tappeto tutta la Sicilia, delineando così una nuova mappa di Cosa Nostra che, in alcuni casi, ha creato fratture insanabili all’interno delle stesse famiglie mafiose, che avrebbero dato luogo a due principali correnti, quella dei moderati e quella degli stragisti.

    Capitolo Secondo

    Da circa 5 anni Gisa di fatto dirigeva la "famigghia" di Bifesi. Da quando i suoi due fratelli maggiori erano latitanti era lei a occuparsi di tutto.

    Molte cose erano successe a Bifesi e nell’entroterra siciliano negli ultimi tempi. Una serie di omicidi, dovuti alla guerra tra Cosa Nostra e Stiddra, che avevano decimato le due contrapposte Famiglie, annientando quasi completamente la famiglia dei Di Salvina (un altro fratello di Don Peppe, Gaetano, apparentemente estraneo agli interessi mafiosi, è stato freddato mentre usciva dalla banca in cui lavorava) e provocato numerose vittime anche nella emergente Famiglia dei Paterna, i quali, comunque, pur avendo subito diversi attentati, erano riusciti a salvare la pelle e a darsi a una latitanza volontaria, lasciando sul campo solo i gregari.

    Gino e Giovanni si erano dati alla macchia sin dal 1991, quando ancora non vi era nessun mandato di cattura sul loro capo. Come tanti altri erano stati poi coinvolti nell’operazione ghepardo del novembre 1992, dopo che la Sicilia era ancora scossa dalle stragi di Salermo, del maggio e luglio ’92.

    Perciò la famiglia Paterna aveva affidato a Gisa la responsabilità della famigghia, Gisa era una donna molto discreta, per nulla appariscente e si muoveva con molta cautela.

    Non incontrava mai i fratelli, pur tenendo uno stabile collegamento soprattutto con Gino, tramite una fedele rete di informatori, composta da picciotti sconosciuti alle forze dell’ordine, che le recavano i "pizzini" che Gino le inviava con le istruzioni da eseguire. Lei leggeva e immediatamente distruggeva i pizzini, così come faceva il fratello quando riceveva i suoi di risposta. Il metodo era molto efficace e ha permesso ai fratelli Paterna di mantenere lo stato di latitanza per quasi otto anni, oltreché continuare a dirigere i traffici illeciti di C.N. nella provincia di Castrodiferro e, soprattutto, nella zona di Sela.

    Gisa teneva i contatti con gli avvocati, si occupava delle famiglie dei picciotti detenuti e dirigeva, con discrezione, gli enormi affari della Famiglia, ripartendo gli introiti tra gli affiliati, servendosi prudentemente di persone pulite e fidate.

    Apparentemente si occupava del negozio del fratello minore

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