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La Contessa di Charny
La Contessa di Charny
La Contessa di Charny
E-book2.012 pagine26 ore

La Contessa di Charny

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Info su questo ebook

I sanguinosi eventi successivi alla presa della Bastiglia continuano. La famiglia reale viene portata da Versailles a Parigi, per la precisione alle Tuileries, scortata dal popolo che ha preso d'assalto il palazzo per farsi giustizia da solo. Un membro dell'Assemblea Generale, il dottor Guillotin, inizia a dare forma all'invenzione che lo renderà famoso. La famiglia reale viene imprigionata a Varennes e portata a Parigi. Luigi XVI, in segreto e con l'aiuto di Charny e Bouillé, inizia a pianificare la fuga. Nel frattempo, vengono proclamati i diritti dell'uomo e del cittadino, al grido di: Libertà, uguaglianza e fraternità, la rivoluzione ha inizio. Jean-Baptiste Drouet, un cittadino, fu il primo a riconoscere il re mentre fuggiva lungo la strada per Varennes e a dare l'allarme. La famiglia reale fu sequestrata e portata con la forza a Parigi. Charny, dopo aver scoperto il segreto di sua moglie Andrea, inizia ad amarla, soprattutto per il motivo dell'occultamento. Si rammarica di essersi reso conto troppo tardi del tesoro che ha al suo fianco. Andrea conosce la felicità e, anche se sarà di breve durata, le basterà (...l'amore è stato dato all'uomo per dargli la misura di ciò che può soffrire...). Ricompare Angel Pitou, che è diventato un capitano ed eroe della rivoluzione, ma che nonostante tutto rimane il nobile e innocente amante di Catherine. Questo finirà per ribaltare la sua sfortuna in amore, poiché diventerà presto un buon padre di un bambino che non si sarebbe mai aspettato....
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2024
ISBN9791222759722
La Contessa di Charny
Autore

Alexandre Dumas

Frequently imitated but rarely surpassed, Dumas is one of the best known French writers and a master of ripping yarns full of fearless heroes, poisonous ladies and swashbuckling adventurers. his other novels include The Three Musketeers and The Man in the Iron Mask, which have sold millions of copies and been made into countless TV and film adaptions.

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    Anteprima del libro

    La Contessa di Charny - Alexandre Dumas

    Indice

    Indice

    PROLOGO

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    CapITOLO IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    CapITOLO XXIV

    CapITOLO XXV

    Citolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    Capitolo XXX

    Capitolo XXXI

    Capitolo XXXII

    Capitolo XXXIII

    Capitolo XXXIV

    Capitolo XXXV

    Capitolo XXXVI

    Capitolo XXXVII

    Capitolo XXXVIII

    Capitolo XXXIX

    Capitolo XL

    Capitolo XLI

    Capitolo XLII

    Capitolo XLIII

    Capitolo XLIV

    Capitolo XLV

    Capitolo XLVI

    Capitolo XLVII

    Capitolo XLVIII

    Capitolo XLIX

    Capitolo L

    Capítulo LI

    Capitolo LII

    CapITOLO LIII

    CapITOLO LIV

    Capitolo LV

    Capitolo LVI

    Capitolo LVII

    Capitolo LVIII

    Capitolo LIX

    Capitolo LX

    Capitolo LXI

    Capitolo LXII

    Capitolo LXIII

    Capitolo LXIV

    Capitolo LXV

    Capitolo LXVI

    Capitolo LXVII

    Capitolo LXVIII

    Capitolo LXIX

    Capitolo LXX

    Capitolo LXXI

    Capitolo LXXII

    Capitolo LXXIII

    Capitolo LXXIV

    Capitolo LXXV

    Capitolo LXXVI

    Capitolo LXXVII

    Capitolo LXXVIII

    Capitolo LXXIX

    Capitolo LXXX

    Capitolo LXXXI

    Capitolo LXXXII

    Capitolo LXXXIII

    Capitolo LXXXIV

    Capitolo LXXXV

    Capitolo LXXXVI

    Capitolo LXXXVII

    Capitolo LXXXVIII

    Capitolo LXXXIX

    Capitolo XC

    Capitolo XCI

    Capitolo XCII

    Capitolo XCIII

    Capitolo XCIV

    Capitolo XCV

    Capitolo XCVI

    Capitolo XCVII

    Capitolo XCVIII

    Capitolo XCIX

    Capitolo C

    Capitolo CI

    Capítulo CII

    Capitolo CIII

    Capitolo CIV

    Capitolo CV

    Capitolo CVI

    Capitolo CVII

    Capitolo CVIII

    Capitolo CIX

    Capitolo CX

    Capitolo CXI

    Capitolo CXII

    Capitolo CXIII

    Capitolo CXIV

    Capitolo CXV

    Capitolo CXVI

    Capitolo CXVII

    Capitolo CXVIII

    Capitolo CXIX

    Capitolo CXX

    Capitolo CXXI

    Capítulo CXXII

    Capitolo CXXIII

    Capitolo CXXIV

    Capitolo CXXV

    Capitolo CXXVI

    Capitolo CXXVII

    Capitolo CXXVIII

    Capitolo CXXIX

    Capitolo CXXX

    Capitolo CXXXI

    Capitolo CXXXII

    Capitolo CXXXIII

    Capitolo CXXXIV

    Capitolo CXXXV

    Capitolo CXXXVI

    Capitolo CXXXVII

    Capitolo CXXXVIII

    Capítulo CXXXIX

    Capitolo CXL

    Capitolo CXLI

    Capitolo CXLII

    Capitolo CXLIII

    Capitolo CXLIV

    Capítulo CXLV

    Capitolo CXLVI

    Capitolo CXLVII

    Capitolo CXLVIII

    Capitolo CXLIX

    Capítulo CL

    Capitolo CLI

    Capitolo CLII

    Capitolo CLIII

    Capitolo CLIV

    Capitolo CLV

    Capitolo CLVI

    Capitolo CLVII

    Capitolo CLVIII

    Capitolo CLIX

    Capitolo CLX

    Capitolo CLXI

    Capitolo CLXII

    Capitolo CLXIII

    Capitolo CLXIV

    Capitolo CLXV

    Capitolo CLXVI

    Capitolo CLXVII

    Capitolo CLXVIII

    Capitolo CLXIX

    Capitolo CLXX

    Capitolo CLXXI

    Capitolo CLXXII

    Capitolo CLXXIII

    Capitolo CLXXIV

    Capitolo CLXXV

    Capitolo CLXXVI

    Capitolo CLXXVII

    Capitolo CLXXVIII

    Capitolo CLXXIX

    Capitolo CLXXX

    Capitolo CLXXXI

    EPILOGO

    I

    II

    III

    IV

    I sanguinosi eventi successivi alla presa della Bastiglia continuano. La famiglia reale viene portata da Versailles a Parigi, per la precisione alle Tuileries, scortata dal popolo che ha preso d'assalto il palazzo per farsi giustizia da solo. Un membro dell'Assemblea Generale, il dottor Guillotin, inizia a dare forma all'invenzione che lo renderà famoso.

    La famiglia reale viene imprigionata a Varennes e portata a Parigi. Luigi XVI, in segreto e con l'aiuto di Charny e Bouillé, inizia a pianificare la fuga. Nel frattempo, vengono proclamati i diritti dell'uomo e del cittadino, al grido di: Libertà, uguaglianza e fraternità, la rivoluzione ha inizio.

    Jean-Baptiste Drouet, un cittadino, fu il primo a riconoscere il re mentre fuggiva lungo la strada per Varennes e a dare l'allarme. La famiglia reale fu sequestrata e portata con la forza a Parigi. Charny, dopo aver scoperto il segreto di sua moglie Andrea, inizia ad amarla, soprattutto per il motivo dell'occultamento. Si rammarica di essersi reso conto troppo tardi del tesoro che ha al suo fianco. Andrea conosce la felicità e, anche se sarà di breve durata, le basterà (...l'amore è stato dato all'uomo per dargli la misura di ciò che può soffrire...).

    Ricompare Angel Pitou, che è diventato un capitano ed eroe della rivoluzione, ma che nonostante tutto rimane il nobile e innocente amante di Catherine. Questo finirà per ribaltare la sua sfortuna in amore, poiché diventerà presto un buon padre di un bambino che non si sarebbe mai aspettato....

    Alexandre Dumas

    La Contessa di Charny

    Traduzione

    di

    Giuseppe Ciccarelli

    Titolo originale: La Comtesse de Charny

    Alexandre Dumas, 1853

    PROLOGO

    Capitolo I

    LA TAVERNA DEL PONTE DI SEVRES

    Se il lettore ricorderà per un attimo il nostro romanzo, Angel Pitou, e, aprendo il secondo volume[1], fisserà per un attimo lo sguardo sul capitolo intitolato La notte tra il 5 e il 6 ottobre, vedrà descritti alcuni fatti che non sarà inutile tenere a mente prima di iniziare questo libro, che inizia con la mattina del 6 dello stesso mese.

    Dopo aver citato alcune righe importanti di questo capitolo, riassumeremo i fatti che devono precedere il proseguimento del nostro racconto, e lo faremo con il minor numero di parole possibile.

    Queste righe sono le seguenti:

    "Alle tre, come abbiamo già detto, tutto era pacificato a Versailles e l'Assemblea stessa, rassicurata dal rapporto dei suoi uscieri, si era ritirata.

    Si confidava che questa tranquillità non sarebbe stata disturbata".

    "Ma la fiducia era mal riposta.

    "In quasi tutti i movimenti popolari che preparano grandi rivoluzioni, c'è un periodo di attesa, durante il quale si crede che tutto sia finito e che si possa dormire senza preoccupazioni; ma questo è un errore.

    "Dietro agli uomini che fanno i primi movimenti, ci sono quelli che aspettano che finiscano e che, affaticati o soddisfatti, ma senza voler comunque andare oltre, lasciano che gli altri si abbandonino al riposo.

    "Poi, a loro volta, questi uomini sconosciuti, misteriosi agenti delle passioni fatali, si intrufolano tra la folla, continuano la loro opera dove l'hanno lasciata e, portandola fino all'ultimo limite, spaventano, al risveglio, coloro che hanno aperto loro la strada e poi si sono gettati nel mezzo, credendo che tutto fosse risolto e il fine raggiunto.

    Abbiamo citato tre di questi uomini nel libro da cui abbiamo tratto le poche righe precedenti.

    Permetteteci di introdurre nella nostra scena, cioè alla porta della taverna del ponte di Sevres, un personaggio che, sebbene non sia stato ancora menzionato da noi, non fu meno importante in quella terribile notte.

    Si trattava di un uomo di età compresa tra i quarantacinque e i quarantotto anni, in costume da operaio, cioè con calzoni di velluto, conservati da un grembiule di cuoio con tasche, come quelli dei maniscalchi o dei fabbri; indossava calze grigie, scarpe con una fibbia di rame e una specie di berretto di pelliccia, simile a quello di un hulano, tagliato a metà; Sotto di esso sfuggivano abbondanti capelli grigi che, uniti a enormi sopracciglia, ombreggiavano grandi occhi vivaci e intelligenti, i cui riflessi erano così rapidi che era difficile dire se fossero verdi o grigi, blu o neri. L'intero viso era completato da un naso più spesso del solito, labbra sporgenti, denti bianchissimi e una carnagione abbronzata dal sole.

    Senza essere alto, l'uomo era mirabilmente formato: il suo piede era piccolo, così come la sua mano, e sarebbe sembrata delicata se non fosse stato per il colore bronzeo dei ferri da stiro.

    Ma risalendo dalla mano al gomito, e dal gomito alla parte del braccio dove la camicia arrotolata mostrava gli inizi di un muscolo vigoroso, si sarebbe notato che, nonostante la robustezza di quest'ultimo, la pelle che lo ricopriva era molto sottile, quasi aristocratica.

    Quest'uomo, in piedi sulla porta della taverna del ponte di Sevres, aveva a portata di mano un fucile a doppia canna riccamente intarsiato d'oro, e su una delle canne si poteva leggere il nome di Leclére, un armaiolo che cominciava a godere di grande reputazione tra l'aristocrazia dei cacciatori parigini.

    Ci si può chiedere come mai un'arma così magnifica sia finita nelle mani di un semplice artigiano. A questo risponderemo che nei giorni di ammutinamento, e ne abbiamo visti non pochi, le armi migliori non si trovano sempre nelle mani più candide.

    L'uomo era arrivato da Versailles circa un'ora prima e sapeva perfettamente cosa era appena successo, perché alle domande postegli dall'oste mentre gli veniva servita una bottiglia di vino non ancora stappata, aveva risposto:

    Che la Regina stava arrivando con il Re e il Delfino.

    Che era partita verso mezzogiorno.

    Che avevano deciso, infine, di vivere nel Palazzo delle Tuileries; in questo modo, in futuro, a Parigi non sarebbe mancato il pane, poiché avrebbero avuto i tahoniers.

    Infine, l'uomo aggiunse che stava aspettando di vedere passare il corteo.

    Questa affermazione potrebbe essere vera, ma è facile notare che il suo sguardo era più curiosamente diretto verso il lato di Parigi che verso Versailles, il che fa pensare che non si sia ritenuto obbligato a dare un resoconto esatto delle sue intenzioni al degno locandiere che si è preso la libertà di interrogarlo.

    Per il resto, dopo qualche istante, la sua attenzione fu apparentemente soddisfatta: un uomo vestito più o meno come lui, e senza dubbio con una professione simile alla sua, apparve in cima al pendio che delimitava l'orizzonte della strada.

    L'uomo avanzava pesantemente e come un viaggiatore che ha già percorso una lunga distanza.

    Man mano che si avvicinava, si potevano distinguere i suoi lineamenti e stimare la sua età.

    Quest'ultima sembrava essere uguale a quella dello straniero, cioè si poteva affermare in anticipo, come dicono gli abitanti del villaggio, che aveva una quarantina d'anni.

    Quanto ai suoi lineamenti, erano quelli di un uomo comune, dagli istinti bassi e volgari.

    Lo sguardo dello straniero era curiosamente fisso su di lui con una strana espressione, come se volesse calcolare con un'occhiata tutto ciò che di impuro e malvagio poteva esserci nel cuore dell'uomo.

    Quando l'operaio arrivato dal lato di Parigi si trovò a non più di una ventina di passi dal personaggio che aspettava alla porta, entrò e versò il primo vino dalla bottiglia in uno dei due bicchieri posti sul tavolo; fatto ciò, tornò alla porta con il bicchiere in mano e lo sollevò.

    -Ciao, compagno! -Fa freddo e la strada è lunga, disse, non beviamo un bicchiere di vino per tirarci su?

    L'operaio arrivato da Parigi si guardò intorno, come per capire se l'invito fosse rivolto a lui.

    -È a me che sta parlando? -chiese.

    -A chi, se non ti dispiace, visto che sei solo?

    -E mi offriresti un bicchiere di vino?

    -Perché no?

    -Ah!

    -Non facciamo lo stesso mestiere, o poco meno?

    L'operaio guardò lo straniero una seconda volta.

    -Tutti, rispose, possono fare lo stesso mestiere; l'importante è sapere se è un socio o un maestro in questo.

    -Beh, è quello che vedremo mentre beviamo il vino e parliamo.

    -Andiamo di là", disse l'operaio, dirigendosi verso la porta della taverna.

    Lo straniero indicò il tavolo e il vino che c'era sopra.

    L'operaio, prendendo il bicchiere, guardò il vino, come se avesse qualche dubbio, che svanì quando lo straniero, dopo essersi versato una seconda volta, vuotò di nuovo il bicchiere.

    -Ebbene, chiese, sei troppo orgoglioso per brindare con chi ti invita?

    -Al contrario, brindo alla nazione!

    Gli occhi grigi dell'operaio si fissarono per un attimo sull'uomo che aveva appena pronunciato il brindisi, poi rispose:

    -"Per Giove, sì, ben detto, alla nazione!

    E si scolò il contenuto del bicchiere in un sorso e poi si pulì le labbra con la manica.

    -Salve, esclamò, questo è Borgogna.

    -E roba buona! La marca mi è stata raccomandata; sono entrato mentre passavo di qua e non me ne sono pentito; ma siediti, mio buon amico, perché ce n'è ancora un po' nella bottiglia e quando si esaurirà, ne manderò su un'altra dalla cantina.

    -E cosa sei nato qui? -chiese l'operaio.

    -Vedi, sono venuto da Versailles e sto aspettando il corteo che lo accompagnerà a Parigi.

    -Quale corteo?

    -Qui! Quello del Re, della Regina e del Delfino, che stanno tornando a Parigi, accompagnati dalle dame del mercato e da duecento membri dell'Assemblea, sotto la protezione della Guardia Nazionale e di Monsieur de Lafayette.

    -Quindi il cittadino ha deciso di tornare a Parigi?

    -È stato costretto.

    -Lo sospettavo alle tre del mattino, quando sono partito per Parigi.

    -Ah, ah! Sei andato alle tre del mattino, lasciando Versailles, per curiosità, per sapere cosa sarebbe successo?

    -Sì, sì; ero molto ansioso di sapere cosa sarebbe successo al cittadino, soprattutto perché, senza lodarmi, è un mio conoscente; ma capisci che il lavoro viene prima di tutto; uno ha una moglie e dei figli, ed è necessario sfamarli, soprattutto ora, quando non si avrà più la fucina reale.

    Lo straniero lasciò passare le due allusioni senza riprenderle.

    -Quindi era un lavoro urgente quello che dovevi fare a Parigi? - insistette.

    -Sono sicuro che lo fosse, o almeno così sembrava; ed è stato ben pagato, aggiunse l'operaio, facendo tintinnare alcuni scudi in tasca, anche se ho ricevuto il denaro dalle mani di un servo, il che non è affatto educato, soprattutto perché era un tedesco, il che ha impedito che potessimo parlare un po'.

    -E ti piace parlare?

    -Davvero, quando non si parla male degli altri, ci si distrae.

    -E anche se parli, non è vero?

    I due uomini scoppiarono a ridere: i denti dello straniero erano bianchissimi, mentre quelli dell'operaio erano in pessimo stato.

    -Quindi, ripeté lo straniero, come un uomo che va avanti passo dopo passo, ma non si ferma per niente, sei andato a Parigi per fare un lavoro urgente e ben pagato?

    -Sì.

    -Sicuramente era una cosa difficile?

    -Molto difficile.

    -Una serratura segreta, forse...?

    -Immagina una casa all'interno di una casa; chiunque abbia interesse a nascondersi può essere presente o meno; il servo apre la porta, gli viene chiesto del suo padrone e risponde che non è lì. Sì, c'è, risponde il visitatore; allora cercalo!. Così è stato fatto, ma sfido chiunque a trovare il padrone. Una porta di ferro si incastra perfettamente in una modanatura e attraverso di essa riesce a fuggire. Ora prova a coprire tutto questo con della vecchia quercia e sarà impossibile distinguere il legno dal ferro.

    -Sì, ma se ci bussassi sopra?

    -Bah, una tavola di legno su una lastra di ferro di una sola linea, ma abbastanza spessa, in modo che il suono sia lo stesso dappertutto... tac... tac... tac... tac... tac... Quando la cosa fu terminata, mi stavo ingannando.

    -E dove diavolo sei andato per farlo?

    -Ah, questa è la domanda.

    -Non vuoi dirlo?

    -Non posso, perché non lo so.

    -Sei stato bendato?

    -Precisamente. Una carrozza mi aspettava alla barriera e mi chiesero: Sei un tale e quale? , risposi. Bene, lei è quello che stiamo aspettando; salga. È necessario? Sì. Obbedii, fui bendato, la carrozza iniziò a girare senza fermarsi per mezz'ora, poi si aprì una porta che doveva essere molto grande; inciampai sul primo gradino di una scalinata e, dopo averne superati altri dieci, entrai in un'anticamera, dove trovai un servitore tedesco che disse agli altri: Va bene; ritiratevi, perché non siete più necessari. Se ne andarono tutti e il tedesco, togliendomi la benda, mi mostrò cosa dovevo fare. Mi misi al lavoro come un bravo operaio e in un'ora fu tutto finito. Mi pagarono in buoni luigi d'oro, mi bendarono di nuovo, mi fecero salire sulla carrozza, mi fecero scendere proprio nel punto in cui ero salito, mi augurarono buon viaggio ed eccomi qui.

    -Ed eccomi qui, senza aver visto nulla, nemmeno con la coda dell'occhio? Che diavolo, una benda non è così stretta da non poter vedere nulla, nulla a destra o a sinistra.

    -Oh, oh!

    -Forza, forza! Confessa di aver visto qualcosa", disse lo straniero con vivacità.

    -La verità è che ho fatto un passo falso e, urtando contro il primo gradino, ne ho approfittato per fare un gesto e quindi la benda era un po' scomposta.

    -E poi?" chiese lo straniero con la stessa vivacità.

    -Ho visto una fila di alberi alla mia sinistra, il che mi ha fatto credere che la casa fosse su un viale; ma questo è tutto.

    -Tutto?

    -Parola onorevole.

    -Beh, questo non dice molto.

    -È vero, considerando che i viali sono lunghi e che c'è più di una casa con una grande porta e un portico dal Café St. Honoré alla Bastiglia.

    -Quindi non riconosceresti l'edificio?

    Il fabbro pensò per un attimo.

    -No, infatti, disse, non ne sarei in grado".

    Lo straniero, il cui volto sembrava non dire altro che ciò che desiderava, era apparentemente soddisfatto di questa assicurazione.

    -Ma, esclamò all'improvviso, come se passasse a un altro ordine di idee, come mai, quando ci sono fabbri a Parigi, le persone che hanno bisogno di porte segrete le mandano a prendere a Versailles?

    Mentre pronunciava queste parole, riempì il bicchiere di vino del suo compagno e batté sul tavolo la bottiglia vuota, affinché il padrone di casa ne portasse un'altra piena.

    Capitolo II

    IL MAESTRO GAMAIN

    Il fabbro sollevò il bicchiere all'altezza dei suoi occhi e guardò il vino con evidente compiacimento. Poi lo assaggiò con soddisfazione.

    -Sì, disse, ci sono fabbri a Parigi". -E bevve qualche goccia di vino. E anche gli insegnanti.

    E bevve di nuovo.

    -Ecco cosa mi sono detto", disse il suo interlocutore.

    -Sì; ma ci sono maestri di maestri.

    -Ah, ah, esclamò lo straniero, sorridendo, vedo che sei come Sant'Eloy, maestro dei maestri.

    -E soprattutto. Sei del mestiere?

    -Quasi, quasi.

    -E qual è il tuo mestiere?

    -Sono un armaiolo.

    -Hai qui un campione del tuo lavoro? Sì, quasi.

    -Guardi questa pistola.

    Il fabbro prese la pistola dalle mani dello sconosciuto, la esaminò attentamente, fece funzionare le molle, approvò, con un cenno della testa, lo scricchiolio del grilletto e, infine, leggendo il nome inciso sulla canna e sulla chiave, disse: "Leclére!

    -Leclére? -chiese. "È impossibile, amico mio! Leclére ha al massimo ventotto anni e noi ci stiamo avvicinando ai cinquanta, senza dispiacerti.

    -È vero, rispose l'altro, io non sono Leclére, ma è la stessa cosa.

    -Cosa intendi con è la stessa cosa?

    -Senza dubbio, visto che sono il suo padrone.

    -Ah, bene, esclamò il fabbro, ridendo; sarebbe una gomitata se ti dicessi: 'Non sono il Re, ma è la stessa cosa'".

    -Cosa?" esclamò lo straniero.

    -È chiaro, perché sono il suo padrone", disse il fabbro.

    -Oh, esclamò lo straniero, alzandosi e parodiando il saluto militare, vorrei avere l'onore di parlare con il Maestro Gamain?

    -Di persona e al vostro servizio, se posso", rispose il fabbro, soddisfatto dell'effetto che il suo nome aveva prodotto.

    -Il diavolo! -esclamò il suo interlocutore, non sapevo di avere a che fare con un uomo così notevole.

    -Cosa?

    -Con un uomo così notevole", ripeté lo straniero.

    -Così coerente, se permetti.

    -Venga, mi scusi, continuò l'armaiolo, sorridendogli; ma lei sa che un uomo del mio mestiere non parla francese come un maestro". E un maestro del re di Francia!

    E poi, continuando la conversazione con un tono diverso, aggiunse:

    -Dimmi, credo che non sarà divertente essere il padrone del Re.

    -Perché?

    -Quando devi essere sempre pronto a dire buongiorno o buonasera!

    -Non è niente.

    -Quando è necessario dire: Prenda questa chiave nella mano sinistra o Signore, prenda questa cartella nella mano destra.

    -Ebbene, è proprio qui che risiede il fascino del Re, perché ti assicuro che è un uomo buono di cuore. Una volta in fucina, quando aveva il grembiule e le maniche della camicia arrotolate, non avresti mai detto che era il figlio maggiore di San Luigi, come lo chiamano.

    -Infatti, hai ragione, è straordinario che un re assomigli così tanto a un altro uomo.

    -Non è così? È da molto tempo che chi si avvicina a lui non lo vede.

    -Oh, non sarebbe nulla se solo coloro che gli si avvicinano lo avessero notato, disse lo straniero, con uno strano sorriso; ma sono soprattutto coloro che si allontanano a notarlo".

    Gamain guardò il suo interlocutore con un certo stupore.

    Ma il corazziere, che aveva già dimenticato la sua parte, prendendo una parola per un'altra, non gli diede il tempo di pensare al valore della frase che aveva appena pronunciato e riprese la conversazione, dicendo:

    -Trovo umiliante che un uomo che è come un altro venga chiamato Signore e Maestà.

    -Ma non devi chiamarlo così; una volta nella fucina, non c'è più nulla di tutto ciò; io lo chiamo Cittadino e lui mi chiama Gamain, ma mi ha chiamato per nome e io non l'ho chiamato per nome.

    -Sì, ma quando era ora di pranzare o cenare, Gamain veniva mandato in cucina, con i servi e i camerieri.

    -Oh, non lo faceva mai; anzi, mi faceva portare un tavolo già servito nella fucina e spesso si sedeva a pranzo con me. Bah, disse, non andrò dalla Regina per pranzare con lei, e così non avrò bisogno di lavarmi le mani.

    -Non capisco bene.

    -Non capisci che il Re, quando lavorava con me, aveva le mani come le nostre quando maneggiava il ferro? Questo non ci impedisce di essere onorevoli; ma la Regina gli disse, con la sua aria timorosa: "Perché, signore, le vostre mani sono sporche, come se poteste averle pulite quando avete appena lavorato alla fucina!

    -Non parlarmi, disse lo straniero, perché fa piangere".

    -In breve, il Re era felice solo lì, o nel suo gabinetto di geografia, con me o con il suo bibliotecario; ma credo che fosse più affezionato a me.

    -Non importa, credo sempre che non sia divertente essere il maestro di un cattivo allievo.

    -Un cattivo allievo! -Oh, niente affatto; non devi dire una cosa del genere; ed è addirittura una vergogna che venga al mondo come un re e che si occupi di queste follie che lo distraggono, invece di fare ulteriori progressi nella sua arte. Non sarà mai più di un povero monarca; è troppo onesto e sarebbe stato un eccellente fabbro.

    -C'è un uomo che aborrivo, all'epoca di cui parlo, per le ore che perdevo con lui: era il signor Necker. Mio Dio, quanto tempo perdeva con i suoi consulti e le sue lezioni!

    -E con le sue perline blu, o perline in aria, come si diceva una volta.

    -Beh, amico mio, ma di'... ....

    -Cosa?

    -Che deve essere una fortuna per te avere un discepolo di quel calibro.

    Ebbene, niente di tutto questo, ed è proprio su questo punto che vi ingannate; è per questo motivo che porto rancore a Luigi XVI, il padre della patria, il restauratore della nazione francese; si pensa che io sia ricco, come Creso, e sono povero come Giobbe.

    -Che sei povero? Ma cosa è stato fatto con il denaro?

    -Perché il re dava una metà ai poveri e l'altra ai ricchi; così non aveva mai un quarto, per non parlare dei Coigny, dei Vaudreuil e dei Polignac, che saccheggiavano il povero. Un giorno voleva ridurre lo stipendio di M. de Coigny; ma quest'ultimo andò ad aspettarlo alla porta della fucina e, cinque minuti dopo essere uscito, entrò nelle sue stanze molto pallido, dicendo: Ah, pensavo che mi avrebbe picchiato. E lo stipendio, signore, gli chiesi, l'ho lasciato così com'era, rispose, non avevo scelta". Un altro giorno volle fare delle osservazioni alla Regina su un cesto di Madame de Polignac, che valeva trecentomila franchi.

    -Cosa ne pensi?

    -Molto bene.

    Beh, non era abbastanza; la Regina voleva che gliene desse uno del valore di cinquecentomila; ed ecco che questi Polignac, che dieci anni fa non avevano un quarto, hanno appena lasciato la Francia con due milioni. Se valevano qualcosa, lasciateli passare; ma date a tutti un'incudine e un martello, e non saranno abbastanza bravi da forgiare un ferro di cavallo; e date loro una lima, e non saranno in grado di fare una vite da serratura! Invece sono dei bravi oratori, dei gentiluomini, come si dice, che hanno fatto avanzare il Re e che oggi lo fanno uscire dalle sue difficoltà come possono, con M. Bailly, Monsieur de Lafayette e Mirabeau; mentre io, che gli ho dato un così buon consiglio, se mi avesse ascoltato, mi lascia così con millecinquecento sterline di stipendio che mi ha indicato; io, il suo miglior maestro, io, il suo amico, io, che gli ho messo la lima in mano!

    -Sì, ma quando lavori con lui, ci sarà sempre una certa gratificazione.

    -Se lavorassi con lui ora? Per prima cosa, sarebbe un compromesso con me stesso! Non avevo più messo piede a palazzo dalla presa della Bastiglia; una o due volte lo incontrai, ma la prima volta c'era molta gente per strada e lui mi salutò soltanto; la seconda volta fu sulla strada per Satory; eravamo soli e lui fermò la sua carrozza. Buongiorno, mio povero Gamain, disse sospirando.

    -Non è forse vero che le cose non stanno andando come vorresti? - Gli dissi. E tua moglie e i tuoi figli, stanno tutti bene? Perfettamente, con un appetito del diavolo, e questo è tutto... Ecco, disse il Re, devi dare loro questo piccolo regalo da parte mia. E rovistando nelle sue tasche, raccolse la somma di nove luigi. È tutto quello che ho, mio povero Gamain, disse, e mi vergogno di farvi un regalo così povero. In effetti, converrai che c'è qualcosa di cui vergognarsi: un re che ha solo nove luigi in tasca, un re che fa un regalo di nove luigi a una sua creatura, un amico....

    -Hai rifiutato?

    -No. Mi sono detto: Devo prenderli lo stesso, perché troverei qualcuno meno vergognoso che li accetterebbe. Ma è lo stesso, e puoi stare molto tranquillo, perché non metterò piede a Versailles se non mi mandi a chiamare; eppure, eppure... - Non metterò piede a Versailles se non mi mandi a chiamare".

    -Cuore grato, mormorò l'armaiolo.

    -Che ne dici?

    Dico che è commovente, maestro Gamain, vedere un'abnegazione come la vostra, che sopravvive alle disgrazie. Che l'ultimo bicchiere di vino vada alla salute del nostro discepolo!

    -Ah, non se lo merita molto; ma non importa, alla sua salute!

    E bevve.

    -E se penso, continuò, che aveva nelle sue cantine diecimila bottiglie, di cui la più economica valeva dieci volte tanto, e che non diceva mai a uno dei suoi camerieri: 'Così e così, porta qualche bottiglia di vino a casa del mio amico Gamain'. Ah, sì, preferiva che le sue guardie del corpo, i suoi svizzeri e i suoi soldati del reggimento delle Fiandre bevessero. Gli faceva molto bene!

    -Come deve essere! -disse l'armaiolo, scolandosi il bicchiere a sorsi; "i re sono così, tutti ingrati. Ma, chist, non siamo soli.

    Infatti, tre individui, due uomini del villaggio e un pescivendolo, erano appena entrati nella stessa taverna ed erano seduti al tavolo di fronte a quello dove lo straniero stava bevendo la sua seconda bottiglia con Mastro Gamain.

    Il fabbro fissò gli occhi sui nuovi arrivati e li esaminò con un'attenzione che fece sorridere l'armaiolo.

    In effetti, questi tre personaggi sembravano degni di attenzione.

    Dei due uomini, uno era tutto busto e l'altro tutto gambe; quanto alla donna, sarebbe stato difficile capire cosa fosse.

    Di questi due uomini, il primo sembrava un nano, poiché la sua altezza era di appena un metro e mezzo, forse a causa della conformazione delle ginocchia che, quando l'individuo stava in piedi, si toccavano all'interno, nonostante la deviazione dei piedi. Il suo viso, invece di compensare questa conformità, sembrava renderla più marcata; i capelli, unti e sporchi, si appiattivano su una fronte depressa; le sopracciglia, mal disegnate, sembravano cresciute per caso; gli occhi, vitrei in condizioni normali, erano spenti e opachi come quelli di un rospo; ma nei momenti di irritazione scintillavano come la pupilla contratta di una vipera furiosa; il naso era schiacciato e, deviando dalla linea retta, faceva risaltare maggiormente la prominenza degli zigomi delle guance; infine, a completare questo insieme ripugnante, una bocca storta, con labbra giallastre e alcuni rari denti neri e vacillanti.

    A prima vista, quest'uomo sembrava avere fiele al posto del sangue nelle vene.

    Il secondo uomo, a differenza del primo, le cui gambe erano corte e storte, sembrava un airone sui trampoli; la sua somiglianza con l'uccello a cui l'abbiamo appena paragonato era ancora maggiore perché, gobbo come lui e con la testa completamente persa tra le spalle, si distingueva solo per due occhi, che sembravano due macchie di sangue, e per il naso, appuntito come un becco. A prima vista si sarebbe pensato che, come l'airone, sarebbe stato in grado di allungare il collo, come una molla, per fare del male a una certa distanza; ma non era così; solo le sue braccia erano dotate dell'elasticità che mancava al collo e, seduto com'era, gli sarebbe bastato allungare un dito, senza la minima inclinazione del corpo, per raccogliere un fazzoletto che gli era appena caduto, dopo essersi asciugato la fronte, inumidita subito dal sudore e dalla pioggia.

    Il terzo, o la terza, come preferisci, era un essere anfibio, la cui specie poteva essere riconosciuta molto bene; ma era difficile distinguere il sesso. Era un uomo o una donna di età compresa tra i trenta e i quarant'anni, che indossava un elegante costume da pescivendola, con catene d'oro, orecchini d'oro e un fazzoletto di pizzo. I suoi lineamenti, per quanto si potessero distinguere attraverso lo strato di bianco e rossore che li ricopriva, e le mosche di ogni forma che sembravano costellazioni su quello, erano leggermente consumati, come si nota nelle razze volgari. Quando si videro e il suo aspetto ispirò il dubbio che abbiamo appena espresso, ci si aspettava con impazienza che la sua bocca si aprisse per pronunciare qualche parola, pensando che il suono della sua voce avrebbe comunicato a tutta la sua dubbia persona un carattere da cui sarebbe stato possibile riconoscerla. Ma non fu così: la sua voce da soprano lasciò il curioso e l'osservatore più profondo nel dubbio sulla sua persona; l'orecchio non spiegava l'aspetto, né completava l'insieme.

    Le calze e le scarpe degli uomini, così come quelle della donna, indicavano che stavano camminando per strada da molto tempo.

    -Strano, disse Gamain, mi sembra di conoscere la donna".

    -Forse; ma nel momento in cui queste tre persone si trovano insieme, mio caro signor Gamain, disse l'armaiolo, prendendo la pistola e tirandosi il berretto fino alle orecchie, è perché hanno qualcosa da fare e, stando così le cose, devono essere lasciate sole".

    -Ma tu li conosci? -chiese Gamain.

    -Sì, di vista", rispose l'armaiolo. E tu?

    -Direi che non è la prima volta che vedo quella donna.

    -A corte, probabilmente", rispose lo straniero.

    -Un pescivendolo!

    -Ci vanno spesso da un po' di tempo.

    -Bene, se conosce queste persone, mi faccia il nome dei due uomini e questo mi aiuterà sicuramente a riconoscere la donna.

    -I due uomini?

    -Sì.

    -Quale vuoi che ti nomini per primo?

    -Il Patiozambo.

    È Jean-Paul Marat.

    -Ah, ah!

    -Che altro?

    -Come si chiama il gobbo? Prospero Varrieres.

    -Prospero Varrieres.

    -Ah, ah!

    -Dai, ora ti ricorderai chi è il pescivendolo?

    -Sono sicuro di no.

    -Cerca.

    -Non ne ho idea.

    -Beh, il pescivendolo... Aspetta...

    -Aspetta... ma no... -Sì... no... sì... no... sì... no.

    -Dai, sì.

    -È impossibile!

    -Beh, sembra di sì.

    -Lo è?...

    -Ebbene, vedo che non la nominerai mai e che devo farlo io: il pescivendolo è il Duca d'Aiguillon.

    Sentendo pronunciare questo nome, la pescivendola rabbrividì e girò la testa dall'altra parte, così come le sue due compagne.

    Tutti e tre fecero un movimento per alzarsi, come si farebbe con un capo a cui si vuole mostrare una differenza.

    Ma lo straniero si portò un dito alle labbra e passò oltre.

    Gamain lo seguì, pensando che stesse sognando.

    Sulla porta inciampò in un uomo che sembrava fuggire, inseguito da persone che gridavano:

    -Il parrucchiere della Regina, il parrucchiere della Regina!

    Tra gli inseguitori che correvano e gridavano ce n'erano due che portavano ciascuno una testa insanguinata all'estremità di una picca. Erano quelle di due sfortunate guardie, Varicourt e Deshuttes, che, separate dal corpo da un uomo chiamato il grande Nicolas, erano state messe sulle picche dalla folla.

    Queste teste, come abbiamo detto, servivano da vessillo per il popolo che correva all'inseguimento del disgraziato con cui Gamain stava per scontrarsi.

    -Prendi questo! -esclamò, "è Leonardo.

    -Silenzio, non nominarmi", gridò il barbiere, entrando di corsa nella taverna.

    -Cosa vogliono da lui? -chiese il fabbro allo straniero.

    -Chi lo sa? -Forse vogliono che arricci le teste di quei poveri diavoli. Idee così singolari vengono concepite in tempo di rivoluzione!

    E si allontanò tra la folla, lasciando Gamain, dal quale aveva senza dubbio ottenuto tutto ciò di cui aveva bisogno, e che si diresse in direzione di Versailles, verso quella che chiamava la sua bottega.

    Capitolo III

    CAGLIOSTRO

    Per lo straniero era più facile confondersi tra la folla quando questa era molto numerosa.

    Era chiamato l'avanguardia del seguito del Re, della Regina e del Delfino.

    Il Re disse che era partito da Versailles verso l'una del pomeriggio.

    La Regina, il Delfino, Madame Royale, il Conte di Provenza, Madame Isabella Andrea, avevano preso posto nella carrozza.

    Un centinaio di carrozze conducevano gli individui dell'Assemblea Nazionale che si erano dichiarati inseparabili dal Re.

    Il Conte di Charny e Billot erano rimasti a Versailles, per adempiere ai loro ultimi doveri nei confronti del Barone Giorgio di Charny, morto, come abbiamo già detto, in quella terribile notte del 5 e 6 ottobre, e per evitare che il suo corpo fosse mutilato, come erano stati mutilati quelli delle guardie del corpo Varicourt e Deshuttes.

    L'avanguardia, di cui abbiamo già parlato, che aveva lasciato Versailles due ore prima del Re, precedendolo di circa un quarto d'ora, si era in un certo senso unita a coloro che portavano le due teste delle guardie come vessillo.

    Poiché l'avanguardia si era fermata davanti alla taverna del ponte di Sevres, le teste rimasero immobili.

    Questa avanguardia era composta da uomini miserabili, quasi senza barba, che galleggiavano come schiuma sulla superficie di qualsiasi fiume, sia esso acqua o lava.

    All'improvviso ci fu un gran trambusto tra la folla: si erano appena viste le baionette della guardia nazionale e il cavallo bianco di Lafayette che seguiva la carrozza del Re.

    Lafayette amava molto le riunioni popolari; in mezzo al popolo di Parigi, di cui era l'idolo, regnava davvero.

    Ma non gli piaceva il popolo.

    Parigi, come Roma, aveva la sua plebe.

    Non gli piaceva soprattutto quel tipo di esecuzioni che il popolo praticava di propria mano e abbiamo già visto cosa fece quando fu possibile salvare Flesselles, Foullon e Bertier de Sauvigny.

    Quell'avanguardia aveva preso l'iniziativa di nascondere il proprio trofeo, conservando le insegne insanguinate che provavano la loro vittoria.

    Ma sembra che, rafforzati dal triumvirato che avevano avuto la fortuna di trovare nella taverna, i portabandiera abbiano trovato il modo di eludere Lafayette, poiché si rifiutarono di marciare con i loro compagni, sostenendo che, poiché Sua Maestà aveva dichiarato di non volersi separare dalle sue fedeli guardie, avrebbero aspettato il Re per servirlo al suo seguito.

    A seguito di ciò, l'avanguardia, recuperate le forze, si rimise in marcia.

    Quella folla che avanzava lungo la strada reale da Versailles a Parigi, come una fogna straripante che dopo la tempesta trascina nelle sue profondità nere e fangose gli abitanti di un palazzo che ha trovato sul suo cammino e che ha rovesciato con la sua violenza, quella folla, diciamo, aveva su ogni lato della strada una sorta di vortice formato dalle popolazioni dei villaggi vicini, che venivano a vedere cosa stava succedendo. Di coloro che erano giunti in questo modo, alcuni, ed erano il minor numero, si mescolarono alla folla per far parte del corteo del re, unendo le loro grida e i loro pianti a quelli già uditi; ma la maggior parte dei curiosi rimase su entrambi i lati della strada, immobile e silenziosa.

    Dovremmo forse dire che erano solidali con il Re e la Regina? No, perché, a meno che non appartenessero alla classe aristocratica della società, tutti, anche la classe media, si risentivano poco o tanto della terribile carestia che aveva appena invaso l'intera Francia. Pertanto, per non insultare il Re, la Regina e il Delfino, tacquero e il silenzio della folla è forse ancora peggiore dei loro insulti.

    Al contrario, la folla ha gridato a gran voce: Viva Lafayette! e lui ha alzato di tanto in tanto il cappello con la mano sinistra, salutando con la spada nella destra. Si sentivano anche le grida di Viva Mirabeau! e di tanto in tanto egli sporgeva la testa dalla porta della carrozza in cui viaggiava, stretto tra gli altri, ansioso di prendere l'aria esterna, necessaria per i suoi grandi polmoni.

    Così lo sfortunato Luigi XVI, per il quale tutto era silenzio, sentiva applaudire davanti a sé ciò che aveva perso, la popolarità, e ciò che gli era sempre mancato, il genio.

    Gilbert, proprio come aveva fatto durante il viaggio del Re da solo, si stava mescolando con tutti gli altri alla porta destra della carrozza del monarca, cioè al fianco della Regina.

    Maria Antonietta, che non era mai riuscita a capire quella sorta di stoicismo di Gilbert, al quale la rigidità americana aveva conferito la massima asprezza, guardò con stupore quest'uomo che, senza amore e abnegazione per i suoi sovrani, si limitava a compiere vicino a loro quello che lei chiamava un dovere, mostrandosi pronto a praticare in loro favore tutto ciò che si fa per fedeltà e affetto.

    Tanto più che non avrebbe esitato a morire per loro; e molti sacrifici d'amore non arrivano a tanto.

    Ai lati della carrozza del Re e della Regina - oltre a quella sorta di schiera di persone a piedi che avevano preso possesso del luogo, alcune per curiosità, altre per essere pronte a soccorrere gli augusti viaggiatori in caso di necessità, essendo ben pochi quelli che avevano cattive intenzioni - avanzavano lungo le due sponde del fiume, avanzavano lungo i due lati della strada, affondando nel fango, che era profondo quindici centimetri, le forti donne e gli uomini del mercato, che sembravano far rotolare di tanto in tanto, in mezzo alla loro folta schiera di mazzi e nastri, un oggetto più compatto.

    Forse si trattava di un cannone o di un furgone carico di donne che cantavano rumorosamente, gridando con voce rotta.

    Quello che stavano cantando era la nostra vecchia canzone popolare, che inizia così:

    Il panettiere ha i quartieri,

    ma le costano poco.

    Quello che dicevano era la nuova formula delle loro speranze:

    Non ci mancherà mai il pane, perché porteremo il fornaio, il fornaio e il garzone del fornaio.

    La Regina sembrava ascoltare tutto questo senza capire nulla. Aveva tra le gambe, in piedi, il piccolo Delfino, che guardava la folla con quell'aria di orrore con cui i figli dei principi guardano la folla - nell'ora delle rivoluzioni - come noi abbiamo visto guardare il Re di Roma, il Duca di Bordeaux e il Conte di Parigi.

    Ma la nostra folla era più sprezzante e più magnanima dell'altra, perché era più forte e capiva che le era stato dato di essere gentile.

    Il Re, dal canto suo, guardava tutto questo con un'espressione grave e triste; aveva dormito poco la notte precedente; aveva mangiato male a pranzo; non aveva avuto il tempo di incipriarsi di nuovo la testa; la sua barba era troppo lunga e la sua biancheria troppo stropicciata, cose che lo infastidivano infinitamente. Ah, il povero Re non era un uomo adatto alle circostanze difficili, e così in tutte queste circostanze chinò la testa! Solo un giorno la alzò, e fu sul patibolo, nel momento in cui stava per cadere!

    Madame Elizabeth era quell'angelo di dolcezza e rassegnazione che Dio aveva posto accanto a due esseri condannati; doveva consolare il Re nel Tempio, per l'assenza della Regina, e poi consolare la Regina nella Conciergerie per la morte del Re.

    Il Conte di Provenza, come sempre, aveva il suo sguardo obliquo e falso; sapeva bene che, almeno per il momento, non c'era alcun pericolo che lo minacciasse, perché in quel momento era molto popolare in famiglia. Perché? Nulla si sa; forse perché era rimasto in Francia, mentre suo fratello, il Conte di Artois, era partito.

    Ma se il Re fosse stato in grado di leggere nel cuore del Conte di Provenza, resta da vedere se ciò che vi trovò lo avrebbe lasciato intatto dalla gratitudine che gli aveva dimostrato per quello che considerava un atto di abnegazione.

    Quanto ad Andrea, aveva un aspetto marmoreo; non aveva dormito più della Regina, né mangiato meglio del Re, ma le necessità della vita, a quanto pare, non avevano intaccato quella natura eccezionale. Non aveva nemmeno avuto il tempo di rammendare il suo copricapo o di cambiare il suo costume; ma non un capello della sua testa era fuori posto, non una piega del suo vestito mostrava un attrito insolito.

    Come una statua, quelle onde che si muovevano intorno a lei, senza che la sua attenzione fosse fissata su di esse, sembravano renderla più liscia e bianca; era evidente che quella donna aveva nel profondo della testa o del cuore un unico e luminoso pensiero per se stessa, al quale la sua anima tendeva, come l'ago magnetico tende alla stella polare. Una specie di ombra tra i vivi, solo una cosa indicava che era viva, ed era il lampo involontario che le sfuggiva dagli occhi ogni volta che incontravano quelli di Gilberto.

    A un centinaio di passi dalla taverna di cui abbiamo parlato, il corteo si fermò e le grida raddoppiarono su e giù per la fila.

    La Regina si inchinò leggermente fuori dalla porticina e questo movimento, sebbene sembrasse un saluto, fece mormorare la folla.

    -Signor Gilberto", disse.

    Il dottore si avvicinò alla porta e, dato che portava il cappello in mano da Versailles, non fu necessario che si scoprisse in segno di rispetto verso la Regina.

    -Cosa desiderate, signora? -chiese.

    Queste parole, per l'intonazione con cui furono pronunciate, indicavano che Gilbert era completamente agli ordini della Regina.

    -Signore Gilberto, continuò, cosa canti ora, cosa gridi o cosa dice il tuo popolo?

    Dalla forma stessa di questa frase, che la Regina aveva preparato in anticipo e che senza dubbio stava mormorando da tempo tra i denti, era evidente che la sua intenzione era quella di gettarsi in faccia alla folla che attraversava il cancello.

    Gilberto emise un sospiro che significava: "Sempre lo stesso!

    Poi, con una profonda espressione di malinconia, esclamò:

    -Ahimè, Madame, quella città che chiamate mia, un tempo era vostra, e meno di vent'anni fa Monsieur de Brissac, il seducente cortigiano che sto inutilmente cercando qui, vi mostrava dal balcone del Palazzo di Città quella stessa città, gridando: Viva la Delfina! e poi dicendovi: Madame, lì avete duecentomila amanti!

    La Regina si morse le labbra; era impossibile trovare un difetto nella risposta, né nel rispetto.

    -Sì, è vero, disse la regina, è solo la prova che le persone cambiano".

    Questa volta Gilbert si inchinò, ma senza rispondere.

    -Vi avevo fatto una domanda, signor Gilberto", disse la Regina, con quell'insistenza che manifestava in ogni cosa, anche in quelle che le sarebbero state sgradite.

    -Sì, signora, disse Gilberto, e risponderò, visto che Vostra Maestà insiste. Il popolo canta:

    Il panettiere ha i quarti di dollaro,

    ma le costano poco.

    -Sai chi è il fornaio che il popolo chiama?

    -Sì, signore, so che mi fate questo onore; ma sono abituata ai soprannomi e in passato mi chiamavano signora Deficit. C'è qualche analogia tra il primo nome e il secondo?

    -Sì, signora, e per averne la certezza basta pensare ai primi due versi che ti ho raccontato:

    Il fornaio ha dei quarti di dollaro,

    ma le costano poco.

    La regina ripeté queste parole e poi disse:

    -Non capisco, signore.

    Gilberto rimase in silenzio.

    -Lasciaci andare, gridò la Regina con impazienza. -gridò la Regina con impazienza; non hai sentito che non capisco?

    -E Vostra Maestà insiste per avere una spiegazione?

    -Senza dubbio.

    -Ciò significa, signora, che Vostra Maestà ha avuto ministri molto cortesi, soprattutto quelli del Tesoro, e in particolare Monsieur de Calonne; il popolo sa che a Vostra Maestà è bastato chiedere per ottenere, e poiché chiedere costa poco quando si è Regina, dato che la richiesta è un ordine, il popolo canta: Il fornaio ha gli alloggi, ma le costano poco. Vale a dire che non le costano più del disturbo di chiederli.

    La regina premette la sua mano bianca sul velluto rosso della porta.

    -Bene, ora, disse, sappiamo cosa canta; e ora, Mr. Gilbert, visto che l'hai spiegato così bene, veniamo a quello che dice.

    -È questo: "Non ci manca più il pane, perché abbiamo il fornaio, la moglie del fornaio e il figlio del fornaio.

    -Vuoi spiegarmi questa seconda insolenza con la stessa chiarezza della prima? Confido che lo farò.

    -Signora, disse Gilberto, con la stessa malinconica dolcezza, se soppesasse bene, non le parole forse, ma l'intenzione delle persone, vedrebbe che non ha così tanto motivo di lamentarsi come pensa.

    -Vediamo, rispose la Regina, con un sorriso nervoso; sai che desidero solo istruirmi; dottore, dica, signore, sto ascoltando.

    -A torto o a ragione, signora, al popolo è stato detto che a Versailles c'era un grande commercio di farina e che per questo motivo non arrivava più a Parigi. Chi sfama la povera gente? Il fornaio e la fornaia del quartiere.

    A chi si rivolgono il padre, il marito e il figlio quando, privi di risorse, stanno morendo di fame? Al fornaio e alla moglie del fornaio, a chi pregano, dopo Dio, che fa crescere il raccolto? A coloro che distribuiscono il pane. Non siete forse voi, signora, il Re e il vostro augusto figlio i distributori del pane di Dio? Non stupitevi dunque del dolce nome con cui queste persone vi chiamano e ringraziatele per la speranza che il Re, la Regina e il Signor Delfino siano in mezzo a un milione e duecentomila affamati, e che questi ultimi non manchino di nulla.

    La Regina chiuse gli occhi per un attimo e fece un movimento con la mascella e il collo come per inghiottire l'odio, mentre la saliva amara le bruciava la gola.

    -E dovremmo ringraziare quella gente che grida laggiù, prima e dietro di noi, dovremmo ringraziarli, così come i soprannomi che ci danno, le canzoni che ci cantano?

    -Sì, signora, e ancora più sinceramente, perché quella canzone non esprime altro che il suo buon umore, e perché i soprannomi che vi dà non sono altro che la manifestazione delle sue speranze, mentre le grida che emette indicano il suo desiderio.

    -Ah, il popolo vorrebbe che i signori Lafayette e Mirabeau fossero vivi?

    La regina, a quanto pare, aveva sentito i canti, le parole e persino le grida.

    -Sì, madame, rispose Gilbert, perché i signori de Lafayette e Mirabeau, che sono separati, come vedete, in questo momento, dall'abisso su cui siete sospesi, in vita, potrebbero riunirsi e salvare la monarchia.

    -Quindi, cavaliere, esclamò la regina, la monarchia è così in basso che non può essere salvata se non da questi due uomini?

    Gilberto stava per rispondere, quando in quel momento si udirono delle grida di orrore, unite a risate atroci, e un grande movimento nella folla che, invece di allontanare il dottore, lo avvicinò alla porta, alla quale si aggrappò, intuendo che stava accadendo o stava per accadere qualcosa che avrebbe richiesto, per la difesa della Regina, l'uso della parola o della forza.

    Erano i due individui che portavano le teste sulle picche e che, dopo aver costretto l'infelice Leonard a spolverarle e ad arricciarle, volevano avere l'orribile soddisfazione di presentarle alla regina, proprio come altri, o forse gli stessi, si erano concessi il piacere di presentare a Bertier la testa di suo suocero Foullon.

    Queste furono le grida che furono pronunciate, alla vista delle due teste, dalla folla compatta, che si scostò e si allontanò con un'espressione spaventata, affinché i due individui potessero passare.

    -In nome del cielo, signora, disse il dottore, non guardate a destra!

    La Regina non era una donna che avrebbe obbedito a un'intimazione del genere senza accertarsi della causa della sua richiesta.

    Il suo primo movimento, quindi, fu quello di girare la testa dalla parte che Gilbert le aveva proibito e poi emise un grido terribile.

    Ma all'improvviso i suoi occhi si distolsero da quell'orribile spettacolo, come se ne avessero appena visto uno ancora più orribile, e si fissarono su quella che le sembrò una testa di Medusa, dalla quale non potevano separarsi.

    Questa testa di Medusa era quella dello straniero che abbiamo visto prima parlare e bere con il Maestro Gamain, nella taverna del ponte di Sevres, e che era in piedi, con le braccia conserte, appoggiato a un albero.

    La mano della regina si staccò dalla porta di velluto e, toccando la spalla del dottor Gilberto, gli schioccò contro con una forza tale che le sue unghie scavarono nei suoi vestiti.

    Gilberto si girò e vide la Regina, pallida, con le labbra livide e tremanti e la voce alterata.

    Forse avrebbe attribuito questa sovraeccitazione nervosa alla presenza delle due teste, se gli occhi di Maria Antonietta fossero stati fissi sull'una o sull'altra.

    Ma il suo sguardo era diretto più lontano, in orizzontale e all'altezza di un uomo.

    Gilberto seguì la stessa direzione e, mentre la regina emetteva un grido di terrore, lui ne emise un altro di stupore.

    E poi tutti e due mormorarono insieme:

    -Cagliostro!

    L'uomo, appoggiato all'albero, poteva vedere perfettamente la Regina.

    All'improvviso fece un segno a Gilberto, come per dirgli di avvicinarsi.

    In quell'istante le auto fecero un movimento per continuare la loro marcia.

    Come per un istinto naturale, la Regina spinse Gilberto in modo che le ruote non gli passassero sui piedi.

    Il dottore pensò che lo stesse spingendo verso l'uomo.

    Anche se la Regina non lo aveva spinto, quando aveva riconosciuto l'uomo per quello che era, in un certo senso non era più padrone di non andargli incontro.

    Di conseguenza, aspettò immobile che il corteo passasse e poi, seguendo il falso operaio, che di tanto in tanto girava la testa per vedere se era seguito, entrò dietro di lui in un vicolo che portava a Bellevue attraverso una salita piuttosto rapida e scomparve dietro un muro, proprio nel momento in cui, dal lato di Parigi, il corteo si perdeva alla vista, completamente nascosto dal pendio della montagna come se fosse stato in un abisso.

    Capitolo IV

    LA FATALITA’

    Gilbert seguì la sua guida per una ventina di passi fino a metà del pendio e lì, mentre si trovavano di fronte a una casa grande e molto bella, lo straniero estrasse una chiave dal suo tascabile e aprì una porticina destinata a far passare il padrone dell'edificio quando voleva uscire inosservato dai suoi servitori o tornare inosservato.

    Lasciò la porta socchiusa, indicando così, nel modo più chiaro possibile, che stava invitando anche il suo compagno ad entrare.

    Gilbert lo fece e spinse delicatamente la porta, che scivolò sui suoi cardini e si chiuse senza rumore.

    Una simile serratura avrebbe suscitato l'ammirazione del Maestro Gamain.

    Una volta entrato, Gilberto si trovò in un corridoio a doppia parete, nel quale erano incastonate, ad altezza d'uomo, cioè in modo che agli occhi non potesse sfuggire nessuno dei meravigliosi dettagli, delle lastre di bronzo, sul modello di quelle con cui Ghiberti aveva arricchito la porta del battistero di Firenze.

    I piedi affondavano in un morbido tappeto di tacchino. A sinistra c'era una porta aperta e, pensando che fosse stata lasciata aperta per farlo passare, Gilberto entrò in un salotto tappezzato di seta indiana, con mobili rivestiti dello stesso tessuto. Uno di quegli uccelli fantastici, come quelli che i cinesi dipingono o ricamano, copriva il soffitto con le sue ali d'oro e blu, tenendo tra gli artigli il lampadario che, con i suoi lampadari di magnifica fattura, rappresentava gruppi di usi che illuminavano la stanza.

    Un unico quadro adornava la lussuosa camera, in corrispondenza dello specchio sopra il fornello. Raffigurava una vergine di Raffaello. Gilberto era intento ad ammirare questo capolavoro, quando sentì, o meglio intuì, che una porta si stava aprendo alle sue spalle; girò la testa e riconobbe Cagliostro, che stava uscendo da una sorta di armadio boudoir.

    Un istante era bastato per cancellare le macchie dalle braccia e dal viso, per dare ai suoi capelli, ancora neri, la forma più aristocratica e per cambiare completamente il suo costume.

    Non era più l'operaio con le mani nere e i capelli appiattiti, le scarpe sporche di fango, i pantaloni di velluto a coste e la camicia di lino grezzo.

    Era l'elegante gentiluomo che abbiamo già presentato ai nostri lettori due volte, prima in José Bálsamo e poi in El Collar de la Reina.

    Il suo abito, ricoperto di ricami e le sue mani tempestate di diamanti, contrastavano con l'abito nero di Gilberto e con il semplice anello d'oro, regalo di Washington, che portava al dito.

    Cagliostro si fece avanti con un'espressione allegra e ridente e offrì le mani a Gilberto. Quest'ultimo si affrettò a stringerle.

    -Caro maestro! - esclamò.

    -Oh, rispose Cagliostro sorridendo, dall'ultima volta che ci siamo incontrati hai fatto tali progressi, soprattutto in filosofia, che oggi sei tu il maestro e io sono a malapena degno di essere il discepolo".

    -Grazie per il complimento, rispose Gilbert; ma supponendo che io abbia fatto grandi progressi, come fai a saperlo, visto che non ci siamo visti per otto anni?

    -Crede dunque, mio caro dottore, di essere uno di quegli uomini che vengono dimenticati perché non si vedono più? È vero che sono passati otto anni senza che io sapessi cosa hai fatto; ma potrei quasi dirti, giorno per giorno, di cosa ti sei occupato in questo periodo.

    -Oh, sembra impossibile.

    -Dubiti sempre della mia doppia vista?

    -Sai che sono un matematico.

    -Vieni, dunque: sei venuto per la prima volta in Francia, chiamato dai tuoi affari di famiglia; io non ho nulla a che fare con loro, e di conseguenza?

    -No, rispose Gilbert, pensando di confondere Cagliostro, di' quello che sai.

    -Ebbene, questa volta si trattava di provvedere all'educazione di tuo figlio Sebastian e di mandarlo a scuola in una piccola città a diciotto o venti leghe da Parigi. Volevi anche sistemare gli affari con il tuo inquilino, un brav'uomo che tieni a Parigi contro la sua volontà e che, per mille motivi, farebbe bene a stare con sua moglie.

    -A dire la verità, padrone, siete prodigioso!

    -Oh! La seconda volta sei venuto in Francia perché gli affari politici ti hanno portato, come molti altri; inoltre, avevi alcuni progetti, che hai inviato al re Luigi XVI, e poiché c'è ancora qualcosa del vecchio in te, e poiché sei più orgoglioso dell'approvazione di un monarca che forse di quella di colui che mi ha preceduto nell'educazione, di Jean-Jacques Rousseau, che sarebbe molto diverso da un re, se fosse ancora vivo, hai voluto sapere cosa pensava del dottor Gilbert, il nipote di Luigi XIV, di Enrico IV e di San Luigi. Purtroppo c'era una piccola questione a cui non avevi pensato; non ricordavi che un giorno ti trovai insanguinato, con una pallottola nel petto, in una grotta delle Isole Azzorre, dove la mia nave faceva scalo. La vicenda riguardava la signorina Andrea de Taverney, che era diventata contessa di Charny per servire il sovrano. Ora, poiché la regina non poteva rifiutare nulla alla donna che aveva acconsentito a sposare il conte di Charny, chiese e ottenne un mandato di arresto per te; fosti arrestato sulla strada da Le Havre a Parigi e portato alla Bastiglia, dove saresti ancora, caro dottore, se il popolo non l'avesse rovesciata. Da buon realista, amico mio, ti sei schierato a favore del Re, ed ecco perché sei il suo medico. Ieri, o meglio stamattina, hai contribuito in modo determinante alla salvezza della famiglia reale, accorrendo a risvegliare quel brav'uomo di Lafayette, che dormiva il sonno dei giusti; e un attimo fa, quando mi hai visto, credendo che la Regina - che, tra l'altro, ti aborrisce - fosse minacciata, ti sei preparato a fare da scudo al sovrano con il tuo corpo... Non è così? Ho forse dimenticato qualche dettaglio insignificante, come una seduta di magnetismo in presenza del Re e il recupero del mio scrigno da alcune mani che se ne erano impossessate grazie alla mediazione di un certo Passo del Lupo? Vediamo, decidi se ho commesso qualche errore o dimenticanza, perché sono disposto a rimediare all'errore.

    Gilbert rimase stupito da quest'uomo singolare, che sapeva preparare così bene i suoi mezzi d'effetto, che era propenso a credere che, come Dio, avesse il dono di abbracciare il mondo intero e i suoi dettagli, e di leggere il cuore degli uomini.

    -Sì, disse, e tu sei sempre il mago, lo stregone, l'incantatore!

    Cagliostro sorrise soddisfatto; era evidente che era orgoglioso di aver prodotto su Gilberto l'impressione che quest'ultimo, suo malgrado, manifestava nel suo volto.

    Gilberto continuò:

    -E ora, dato che ti amo sicuramente quanto tu ami me, caro padrone, e dato che il mio desiderio di sapere cosa ne è stato di te dopo la nostra separazione è vivo almeno quanto il tuo, dato che ti ha spinto a informarti su di me, mi dirai, se la domanda non è indiscreta, in quale parte del mondo hai esercitato il tuo genio, manifestando il tuo potere?

    -Oh, per quanto mi riguarda, rispose Cagliostro sorridendo, ho visto dei re, e non pochi, ma con un altro scopo. Tu, vedo, ti avvicini a loro per sostenerli, mentre io mi avvicino a loro per rovesciarli; tu cerchi di fare un re costituzionale, e non ci riuscirai; io faccio imperatori, re e principi filosofi, e raggiungo il mio scopo.

    -È così? -interruppe il Dr. Gilbert, con aria dubbiosa.

    -Perfettamente così! È vero, erano stati preparati molto bene da Voltaire, Alembert e Diderot, quei nuovi Mecenate, quei sublimi disprezzatori degli dei, e anche, per esempio, da quel caro re Federico che abbiamo avuto la sfortuna di perdere; ma, dopotutto, sai, tranne quelli che non muoiono, come me e il conte di Saint-Germain, sono tutti mortali. Così come la regina è bella, mio caro Gilbert, e recluta soldati che combattono contro se stessi, ci sono re che favoriscono la caduta dei troni, con più forza di quanto Bonifacio XIII, Clemente VIII e i Borgia abbiano contribuito alla caduta dell'altare. Così, ad esempio, abbiamo dapprima l'imperatore Giuseppe II, fratello della nostra amata regina, che sopprime tre quarti dei monasteri, che sequestra i beni ecclesiastici, che espelle gli stessi carmelitani dalle loro celle e che invia a Maria Antonietta incisioni che rappresentano monache senza cappuccio che parlano delle nuove mode e frati senza abito che si arricciano i capelli. C'è il re di Danimarca, che iniziò facendo il boia del suo medico Struensée e che, filosofo precoce, a diciassette anni disse: Voltaire è colui che mi ha reso uomo e mi ha insegnato a pensare. Poi c'è l'imperatrice Caterina, che fece passi da gigante nella filosofia, smembrando ovviamente la Polonia, e alla quale Voltaire scrisse: Diderot, Alembert e io, vi erigiamo altari. Citerò, infine, la regina di Svezia e molti principi dell'impero in tutta la Germania.

    -Non vi resta che convertire il papa, caro maestro, e poiché credo che nulla sia impossibile per voi, spero che ci riuscirete.

    -Ah, per quanto riguarda questo, sarà difficile. Sono fuggito dalle sue unghie sei mesi fa, trovandomi nel castello di Sant'Angelo, proprio come tu eri nella Bastiglia.

    -Bah! E i Transteverini hanno abbattuto anche il castello di Sant'Angelo, come gli abitanti del sobborgo di Sant'Antonio hanno abbattuto la Bastiglia?

    -No, mio caro dottore, il popolo romano non è ancora arrivato a questo... Oh, stia tranquillo, un giorno arriverà; il Papato avrà il suo 5 e 6 ottobre, e in questo modo Versailles e il Vaticano saranno uguali.

    -Beh, pensavo che una volta entrati nel castello di Sant'Angelo, non se ne uscisse più.....

    -E Benvenuto Cellini?

    -E ti sarai fatto, come lui, un paio di ali per volare sul Tevere, come un nuovo Icaro?

    -Sarebbe stato molto difficile, perché ero rinchiuso, per amore della prudenza evangelica, in una prigione profonda e molto nera.

    -E alla fine ne sei uscito?

    -Vedi, visto che sono qui.

    -Senza dubbio hai corrotto il tuo carceriere con dell'oro.

    -Ero in disgrazia, perché il mio guardiano era incorruttibile.

    -Incorruttibile? Malvagio!

    -Sì, ma per fortuna non era immortale: il caso, o meglio la Provvidenza, ha voluto che morisse il giorno dopo aver rifiutato per la terza volta di aprirmi le porte della prigione.

    -È morto all'improvviso?

    -Sì.

    -Ah!

    -Dovette essere sostituito e un altro prese il suo posto.

    -E quello non era forse corruttibile?

    Oh, quello, il giorno stesso in cui iniziò il suo lavoro, mi disse, mentre mi portava la cena: Mangia bene e fatti forza, perché dovremo fare molta strada stanotte. Per Giove, quel brav'uomo non mentiva; quella stessa notte abbiamo rotto tre cavalli ciascuno e abbiamo cavalcato per cento miglia.

    -E cosa disse il governo quando vide la vostra fuga?

    -Hanno vestito il cadavere dell'altro carceriere, che non era ancora stato sepolto, con gli abiti che avevo lasciato; gli hanno sparato in faccia, hanno lasciato cadere la pistola accanto a lui e hanno

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