Le metamorfosi
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Info su questo ebook
Edizione integrale con testo latino a fronte
È uno dei classici dell’antichità più amati non solo da grandi poeti e scrittori ma anche da un pubblico vastissimo di lettori: Ariosto ne era innamorato, Dante lo cita più volte, ha ispirato Shakespeare, D’Annunzio e Montale, commuove con le sue tragiche storie d’amore, diverte con la sua ironia. Ovidio racconta duecentoquarantasei bellissime favole, tutte dedicate al tema inquietante e “fascinans”, tanto caro ai Greci, del cambiamento improvviso e totale, della trasformazione. Sorprende e fa riflettere scoprire che protagoniste di questi ultimi e definitivi esiti di passioni, di offese mortali e follia sono soprattutto donne, dai nomi fatali: Europa, Armonia, Medea, Medusa, Filomela, Arianna, Tisbe, Eco, come a testimoniare la sensibilità di Ovidio – poeta romano esiliato, cacciato e abbandonato come qualcuna delle sue eroine – per l’universo femminile. Con la profondità del sentire e la potenza dell’invenzione poetica, ci trascina attraverso i quindici libri del suo capolavoro come attraverso un mare di immagini, dove prendono vita i personaggi più diversi, ma dove soprattutto è la voce delle donne a modulare la paura, l’amore, l’odio e la disperazione a fronte di un universo maschile che è già di pietra.
Ovidio
Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona nel 43 a.C. Di famiglia benestante, fu mandato a Roma a studiare eloquenza e a tentare la carriera pubblica. Si segnalò presto come poeta con gli Amores, cui seguiranno le Heroides e la tragedia Medea, andata perduta. La sua opera più famosa resta Le metamorfosi. Esiliato a Tomi, sul Mar Nero, nell’8 d.C., vi morì nel 17. La Newton Compton ha pubblicato in edizione integrale con testo latino a fronte L’arte di amare - Come curar l’amore - L’arte del trucco e Le metamorfosi.
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Recensioni su Le metamorfosi
1.529 valutazioni35 recensioni
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5The half star missing in this review is a self rebuke, rather than any problem with the work. I feel, with every word that I read, the lack of ability to read the original. This is a wonderful translation, thankfully offered in sympathetic text, rather than cod rhyme but, the original must be so much better.Having showed my ignorance, let's get back to the book itself: this is an amazing collection of stories; some new to me and many the prototypes for stories made popular by later authors. There is an early version of Romeo and Juliet, Icarus' forbear and many others that have echoes in more modern fables.I find it intriguing how the gods are worshipped, but often not respected by their acolytes. Gods are cruel, vain but unbeatable. There is not a single story in which the gods come off worse, at the hands of humanity, although, there are occasions whereby a higher god takes pity and issues retribution for cruelty (not that many cases admittedly).Now all I need to do is learn to read ancient Greek poetry, and I'll be able to appreciate Ovid to the full.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5An elegant, easy-to-read translation in unobtrusive iambic pentameter. Maybe not for purists, as the translator sometimes adds asides within the text (always in square brackets) and he turns the song of the daughters of Pierus into a rap (which I happen to think is a stroke of genius). If you're studying Ovid, this may not be the edition for you. But if you want to read Ovid for pleasure, in consistently articulate, poetic and vivid language, which brings the ancient myths to life, I'd thoroughly recommend this translation. It's also received critical acclaim: it won the Harold Morton Landon Translation Award from the Academy of American Poets.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5Unieke en originele verwerking van het hele Griekse en Romein¬se mythologische materiaal. Vele pareltjes.Favoriet van het postmodernisme. Amorele sfeer, en vandaar verwondering lof Augustus (die toch familiewaarden wilde herstellen). Mijn favoriet: Philemon en Baucis
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/533. Metamorphoses by Ovid, translated by A. D. Melville, notes by E. J. Kenneyoriginal date: circa 8 cetranslated 1986format: Paperbackacquired: Library book sale 2012read: July 23 - Aug 15rating: 5I'm not and cannot properly review Ovid's Metamorphoses. Instead just scattered notes.- Metamorphoses has tended to fall out of favor at different times because it's mainly entertaining. It seems it kind of mocks serious study, or can in certain perspectives.- And it is entertaining in a very flexible way. You can read it straight through, or a story at time - usually only a few pages - or in many other ways, including in a reading slump, like I was in when I started. The only thing really daunting about it, assuming you have a decent translation or read Latin, is its length.- The quality of the translation is maybe not that critical. He'll be entertaining regardless. - It's almost chronological, beginning with creation and a few other foundation stories (which for me struck a bunch of interesting notes right off) and ending with Roman history. - Except that Ovid dodges a lot. He avoids, mostly, overlap with Virgil and Homer and other prominent works, finding niches that are generally overlooked, or working in more obscure stories. He has a whole book (there are 15 books) on mostly eastern stories. Anyway, he won't replace your [[Edith Hamilton]] or other Greek mythological guides.- He filled in a lot stories I hadn't caught in ancient literature - like Atalanta and the Calydonian Boar hunt, the battle of the Lapiths and the Centaurs and Pirithous's wedding, or Venus and Adonis.- But main story lines around Theseus, Minos, Hercules, Jason and the Argo and the hunt for the Golden Fleece, most of the Trojan War or even the basic history of the gods or their battle with the giants all get only cursory coverage.- He knew everything, or so it seems. Like his previous works, he works in references to practically all known literature of all types. Some more prominent than others, and many lost. - He also probably (hopefully) made a lot of stuff up.- So he writes a bit like a scholar and bit like creator.- This is largely humor, but it's not funny exactly, or even exactly satire, it's just very clever. He creates entertaining situations and then might overdo it a bit. I don't think I ever really minded, even when he got quite gory. - I think Ovid influences everyone, including many famous art works, but the main work that came to mind as I read it was Spenser's [Faerie Queene]. Not that Spenser has Ovid's mythology, but just that they left me with a very similar sense. All that work they put in and how far and deeply it pulls you out of the world and how yet mainly it's playful, how it can leave you with that magical sense that only exists around the fringes of your consciousness or awareness.- recommended to anyone, because it seemed like it has almost universal appeal, but not everyone, if that makes sense.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5I read 228 out of 554 pages of Charles Martin's translation of "Metamorphoses" by Ovid before deciding not to finish the book. Ovid was a Roman poet (roughly 43 BC to 17 AD), but his "Metamorphoses" is essentially a book of Greek myths originating hundreds of years before Ovid's time. The entire work is in hexameter poetry, and Charles Martin does an excellent job with this. I particularly love his incorporation of certain modern phrases and wording (e.g. Book V, Line 63: "The crowd went totally ballistic, then") and when the daughters of Pierus challenge the Muses to a poetry contest, and their poetry is rendered in rhyming couplets full of modern urban slang (Book V, Lines 449-495). Martin is clearly very talented, and he's done a brilliant job. I can't envision a translator doing better, at least until English has evolved and a more modern update is in order.So, if I liked Martin's poetry, why didn't I finish the book? Well, I didn't like Ovid's part. Scores of Greek myths are told in a perplexing order, without apparent chronology or sequence. Sometimes a myth is set up as a framing story for another myth (e.g. "So-and-so began to tell her tale, thus:"), and then the book never returns to the framing story, instead proceeding as if the sub-tale were the main tale. Ovid assumes the reader already knows about the most famous mythological figures (e.g. Jason, Perseus, etc.) and jumps to particular, lesser-known episodes in these heroes' lives, omitting their greatest adventures. Inconsistencies in the way certain figures are presented in different parts of the book (e.g. the Sun god) makes it feel like a work written by multiple authors over a long time period. The result is that the book is probably best appreciated as a bunch of tidbits without a larger coherent structure or plot.They myths are filled with cruel, vain, and vindictive gods and the suffering they inflict upon hapless mortals- and sometimes on others, such as when Latona's son (i.e. Apollo) defeats a satyr in a pipe-playing contest and then, as the satyr "cries, the skin is stripped from his body/until he's all entirely one wound:/blood runs out everywhere, and his uncovered/sinews lie utterly exposed to view;/his pulsing veins were flickering, and you/could number all his writhing viscera/and the gleaming organs underneath his sternum" (Book VI, Lines 555-560). Roughly every other story involves a punishment (typically permanent transformation into a plant or animal, but occasionally violent death) that seems like a total perversion of justice. If a book anything like "Metamorphoses" were written today in modern language, it would not be published, and it might be considered the work of a psychopath."Metamorphoses" feels like a confusing blur of stories of cruelty, vindictiveness, and injustice. The excellent poetry cannot ultimately save a story that is so fundamentally unpleasant to read. I understand that "Metamorphoses" is a cultural artifact and a window into the myths of the ancient Greeks, and thus it has value beyond the enjoyment a reader may get from the plot and characters. But Ovid's omission of the most culturally important stories means his work is only suitable for people already versed in the myths. "Metamorphoses" would be a good choice for Greco-Roman scholars or aficionados. Most people would do better with a collection like "D'Aulaires' Book of Greek Myths," a beautifully-illustrated volume that was my own childhood introduction to the Greek myths (and which inspired wonder and enduring love of these stories in a way that Ovid does not).
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Gods and their love affairs. Gods and their love affairs with mortals. Fate, covetousness, allegiance, brutalities, treachery and chastisements metamorphosing from the cocoon of mighty love. The discordant waves of love dangerously destabilizing romantic notions; overwhelming morality and raison d'être of Gods and mortals alike. Ovid makes you want to write intense poetry and feel affectionate to the idea of love as a device of alteration for better or worse. Love does not conquer all; it destroys and alters everything it touches. That is the best part in Ovid’s poems. They do not have happy endings. Lust or romantic love or ardent worship, acquired in any form changes a person, landscapes, communities mutating elements of fate and tragedies.
Metamorphoses elucidates the consequence of origin and transformation in its entirety.
My soul is wrought to sing of forms transformed to bodies new and strange! Immortal Gods inspire my heart, for ye have changed yourselves and all things you have changed! Oh lead my song in smooth and measured strains, from olden days when earth began to this completed time!
Ovid commences his poems by showing appreciation to God (which he says is yet unknown) for carving a loose mass of earth into a picturesque bounty of nature. The amorphous chaos changed into a convex ecstasy of pathless skies, terrains, rivers, the color and prototypes of birds and animals came through a process of love and hate. Ovid represents the mythical world of story telling and repeating fables with morality lessons. The justifications of rape or incest in Ovid’s works segregate the idea of faithful devotion from the viciousness of powerful acquisition that overcomes delusional love. Betrayals are penalized and loyalties are commended. The treatment of love is sagacious and didactic in this book as compared to his other works in the relating genre. It moves onto a broader scenario, becoming a defining factor in wars, altering powers between constituencies, breaking and making of civilizations. Ovid intends the reader to see the probable metaphoric significance of change as a crucial and homogeneous factor in life itself.
And now, I have completed a great work, which not Jove's anger, and not fire nor steel, nor fast-consuming time can sweep away. Whenever it will, let the day come, which has dominion only over this mortal frame, and end for me the uncertain course of life. Yet in my better part I shall be borne immortal, far above the stars on high, and mine shall be a name indelible. Wherever Roman power extends her sway over the conquered lands, I shall be read by lips of men. If Poets' prophecies have any truth, through all the coming years of future ages, I shall live in fame.
As he concludes this epic of transforming love, he credits the survival of Rome to his own prominence making it one of the most influential and renowned works over centuries. Metamorphoses is translated frequently by several modern poets and literary elites. - Valutazione: 4 su 5 stelle4/5This is THE Metamorphoses translation to read. Others can't even hold a candle to it (I know, I read some side by side to compare). Beautiful, touching, amazing.
Rereading bits of this at work 6/11. So good. - Valutazione: 4 su 5 stelle4/5The Metamorphoses is not a modest work in scope: in his 12,000-line epic, Ovid tells us that he's attempting nothing less than to give us the history of the world from its creation out of Chaos right up to the time of Julius Caesar. The opening section is a grand, orchestral description of the creation in the spirit of Epicurean philosophy, and the final section includes a long speech by Pythagoras exposing a number of his scientific ideas (and arguments for vegetarianism), but what everyone remembers - and what gives the poem its usual title - is the material that fills the middle 13 books, a vast and unruly collection of stories of sex, violence and magical transformation gleaned from authors like Hesiod, Vergil and Homer (or simply made up on the spot by Ovid himself). Gods (of either sex) lust for mortals (of either sex) and have their wicked way or are frustrated; mortals lust for the wrong other mortals; individuals make rash promises or accidentally find themselves in the wrong place; revenge and jealousy get out of hand; or there is simply too much testosterone and alcohol about. And when things go wrong or a god gets peeved, then it's usually the unfortunate mortal who gets changed into an animal, tree, or rock, according to taste. According to Bernard Knox, there are over 250 transformations in the course of the poem (and that's presumably not counting the unnumbered myrmidons and dragon's teeth...). Most of them seem to end unhappily for the mortal in question - in a few cases the transformation saves someone from an imminent danger of rape, but then they are stuck as a tree for the rest of their life. Iphis and Ianthe are the one couple who seem to profit long-term - Iphis is turned into a boy on the eve of the wedding so that they don't violate the Cretan same-sex marriage ban in force at the time. (This is the story Ali Smith uses in Girl meets boy.)One moral that really comes out of the story is that we should be very careful not to give our children names that sound like animals or plants. That's just asking for trouble. Especially if they happen to be called "Cycnus" - there are three separate characters with this name, in Books II, VII and XII, and they all get turned into swans. Nominative determinism gone crazy...!Of course, Ovid being such an accessible source for subsequent poets, painters, dramatists, opera librettists and others, many of the stories are very familiar, but what is really striking when you read the whole thing is the pace. Ovid rarely lingers over descriptions (when he does, he's usually making some sort of satirical point), but hammers through the story at maximum speed, and segues into a new and quite different story - connected or not - as soon as he gets to the climax of the previous one. Or inserts a story in the middle of another one, down to two or three levels (not quite as much deep recursion as the Panchatantra, though). From the Big Bang to the moment when "terra sub Augusto est", the music never stops. Even the transition from one book to the next is usually just the flick of an eye - Ovid knows all about cliffhangers and doesn't hesitate to use them.The speed and efficiency of his storytelling come across most obviously in Books XII-XIV, where we cover essentially everything Ovid thinks we need to know about the Iliad, Odyssey and Aenead. The Iliad, in particular, is masterfully handled as a single "brain vs. brawn" debate between Ajax and Ulysses, in which the two of them make speeches as if in court to justify their respective contributions to the war effort. In case we hadn't guessed it already from all the scenes where Ovid gleefully shows us muscle-bound heroes acting like dangerous idiots, the poet is firmly on the side of Ulysses. Ovid enjoys himself making gentle fun of the conventions of Big Epic and can't resist teasing Vergil about some small continuity errors in the Aenead. But it's all quite respectful fun - Ovid isn't suggesting for a moment that we don't need to read these great poets. Working out where Ovid himself stands isn't easy at this distance. And he presumably doesn't want it to be easy either - he's writing at the height of Augustus's somewhat hypocritical clampdown on the morals of the Roman upper classes, and whatever he thinks himself, he certainly doesn't want to say anything that counts as explicit blasphemy or corrupting public morals. He's only reporting well-known bits of Greek mythology, after all. It's all the fault of our own dirty minds if we get the impression that the gods and goddesses as portrayed in Ovid are a pretty rotten lot, with only one important claim on our piety, their power to harm us if we annoy them (rather like Augustus, in fact...). And it's for us to decide whether a belief in petulant supernatural interventions is compatible with the logical Epicurean world-view set out in Book I or the Pythagorean pantheism gently mocked in Book XV. From this distance, we can't really know what Ovid expected his sophisticated Roman readers to think, but on the whole I'm inclined to suspect that there's more mockery than piety going on.The Charles Martin translationMy Latin is just about good enough to work my way through Ovid in the Loeb parallel text, but when I tried that it quickly became obvious that I couldn't possibly keep up with Ovid's frenetic narrative pace, so I switched to the Charles Martin translation, mostly because of the few that came to hand, it seemed the best compromise between closeness to the text and readability. Martin chooses to translate Ovid's hexameters into a loose and free-running version of English blank verse (which is based on the iambic pentameter line, of course). This turns out to be a really good choice. It's a form with a very solid track-record, of course, and we're so used to hearing it that it reads very naturally. It does mean that the book gets longer, though - it seems to take Martin about 30-40% more lines than Ovid to say something, so it's not easy to go backwards and forwards between translation and original. The language Martin uses occasionally looks alarmingly modern and American, but he avoids gratuitous anachronisms, and is conscientious about not putting anything in that doesn't have a proper basis in the original text. The one place where he really lets himself go is in the contest between the Muses and the daughters of Pierus in Book V, which he reads as a satire on bad poetryWe’ll show you girls just what real class isGive up tryin’ to deceive the massesYour rhymes are fake: accept our wagerLearn which of us is minor and which is majorThere’s nine of us here and there’s nine of youAnd you’ll be nowhere long before we’re through {...}So take the wings off, sisters, get down and jamAnd let the nymphs be the judges of our poetry slam!...and even that isn't very far from what it says in the Latin, and Martin apologises for it in the introduction and tells us he couldn't help it.Here and there he gives us an editorial interjection if it's needed to explain something like a pun that is only obvious in Latin, but he always marks them off clearly with square brackets. The text also comes with short and unpedantic notes and a very handy index/glossary of names and places that you will need for all those times when you really can't work out whether Jupiter is that person's grandfather, father-in-law, or uncle - or all three. An oddity in this book is that the publishers have used as Introduction an essay Bernard Knox published in the NYRB in 1998, in which he compares the currently-available translations of Ovid and finds them all wanting, except for the work-in-progress by Martin, whose completion he eagerly awaits. Of the current ones, Ted Hughes gets most points for style, but not many for accuracy. That feels almost like the Elizabethan habit of binding favourable blurbs from other poets as part of your book!
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5History of the world
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5To fully investigate the entirety of Greek and Roman mythology would take a lifetime. Luckily, Ovid did all the heavy lifting two thousand years ago. Every mythological figure you can think of is in here—from Jupiter to Perseus to Jason to Pygmalion to Romulus. Ovid’s history start at the creation of the universe and goes up to the Caesars of Rome and paints the chronology as a series of changes. In fact, the first lines have the poet saying “My soul would sing of metamorphoses.” Also playing a heavy part is the role of the love god Amor, who is constantly affecting the course of history. I can in no way speak to whether this is a faithful or true translation of Ovid’s work, but I can say that Mandelbaum’s translation is eminently readable and flows well. In some ways, I don’t care if the translation is good or not. It’s the story that matters. Many works of literature and art created since this reference these gods and goddesses, and it was nice to get back to the source material. It’s in Chaucer, in Dante, in Shakespeare, and even in modern jazz (see Patricia Barber and Branford Marsalis). This one may take a while, but it’s well worth the effort. A truly epic book.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Ovid's "Metamorphoses" is one of the those classics that I probably would have never bothered to read if not for my pursuit of the 1,001 list. I'm glad I finally picked it up to read it though, even if most of the stories were somewhat familiar from other reading.I really enjoy mythology and found A.D. Melville's translation fairly easy to follow. Ovid flits through Greek and Roman mythology to highlight stories that feature a transformation of some kind... (lots of trees and birds result from these transformations.) He skips some of the major plot points of some myths just to get to the transformation stuff, which I found odd (and it knocked off a star for me.) This is definitely a must-read for those who enjoy mythology... (but if you're one of those people, you've probably already read it anyway!)
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Short version: loved the writing, got a bit worn out by the subject matter.Ovid is one of the great writers of Western literature and that's pretty obvious from reading The Metamorphoses. I don't know how well Allen Mandelbaum's translation conveys the original Latin, but I enjoyed it. J.C. McKeown's introduction was enough to orient me to the poem and give it some historical context without being overwhelming. (FYI for those who care: beyond that introduction and an afterword in the Everyman's Library edition, there are no other explanatory notes.)I have a lifelong interest in Greek and Roman mythology and many of these stories were not new to me—and many of them were, and that was wonderful. I appreciated Ovid's ability to pull all these stories together (Wikipedia helpfully tells me that there are more than 250 myths involved) into one narrative, with stories nested within other stories. Many retellings of myths focus on plot rather than character: A happened, then B happened, and it ended at C. Ovid gives the characters time to reflect on their desires or actions, to waver in their decisions, to almost save themselves. Even as I was figuratively glaring at Juno while she plotted the destruction of still yet another of Jove's victims/lovers, I enjoyed seeing her point of view.But, well, it's over 500 pages of stories with mostly unhappy endings. Very few people are changed into something else except as a punishment. Love, for so many of the gods and men, was interchangeable with rape. Even when a couple found mutual love, it often ended in death or unwanted transformation. None of this was new to me; it was just wearying reading so much of it at once. So while I loved this book, it'll be a while before I consider rereading it.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Metamorphoses by Ovid is a captivating collection of myths. Am I the only person to wish for a flow chart of events and relationships? I loved it, however, I found myself obsessed with researching many of the stories on the internet. Not that I ever have a problem with this but it started to feel compulsive. So many brutalities due to spurned god love.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5I can't find the original version that I read in my classical civilization course. This is still the same. Ovid is an excellent writer and this compendium of translated "stories" is a beautiful read for those looking for a slice of classical mythology. My favorite is still Orpheus and Eurydice.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5The classic work in mythology, comprising the original iteration of many of the now-cliche forms of Greek (and Roman) myths. This is not to say that these myths are in their original form, Ovid (a Roman author) tends toward the romanticized versions of Greek myths, but in general delivers quick, accessible reads, all based loosely on the theme of metamophosis from one form to another, like nymphs turning into trees. Flows better than my favorite collection (Hamilton's Mythology) for those who are more interested in reading myths for the sake of literature, but probably not recommended for scholars unless they are serious about the scholarship. If you simply want a collection of myths for reference, quick study, or random reading, go with Edith Hamilton.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5I love Metamorphoses -- it's on my list of books everyone should read. I generally prefer the Greek writers over the Romans, but Ovid is one you don't want to miss. The myths included range from the popular tales that we all know and love to more obscure events that are like gems to mythology buffs. I do have to say, though, that the Penguin Classics version that I have is a prose translation, and I don't care for that at all. It's one clunky paragraph after the next, and I find it hard to read. I recommend finding a more verse-like translation.
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5Were Metamorphoses contemporary it would be a tv clip show called "World's Most Amazing Transformations!", would be aired during the graveyard slot on a Tuesday night, and would be narrated by Jamie Theakston or some other washed up has-been whose one marketable quality lies in having a voice people might recognise. What's more, it would still be a thousand times better than this horrible book.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5A great classical work. How gods and goddesses, heroes and heroines are transformed according to the ancient myths.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Was Ovid the most talented poet of all time? Who outdid him?
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5A surprisingly pacey read; whilst somewhat lacking in structure, there is at least some overall thematic cohesion, and the writing itself is superb. If girls being turned into trees is your thing, then this is the epic poem for you. Also, rape.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Seemingly dozens of rape stories, and the only prevention mechanism was to be morphed into a laurel tree, cow, toaster oven, you name it. And sometimes even that didn't stop these twisted deities. There were many other snippets of the well known stories of Perseus, Theseus, Icarus, Jason, etc., as well as some "new" takes on Aeneas and Ulysses. I was intrigued by the brief comments about natural history (ie, spontaneous generation).The stories and characters are many; it can get confusing. Also, I don't think I caught much of Ovid's humor. I listened to the Blackstone Recording and Mr. Kraft is an excellent, dramatic reader. Sometimes however he did sound like the possessed Rick Moranes character in the first Ghostbusters movie.Overall, it was a very fanciful and worthwhile experience.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5It seems to me that reading Metamorphoses at least once is worthy of the effort, if only to be exposed to this grand writing, and learn the origin stories of things we already know in our contemporary lives. Black ball, Midas touch, hyacinth and Pygmalion come to mind.There’s so much going on in this work. It is grand and sweeping, and sometimes choppy and even more difficult. I would like to have a better grounding in the literature of the time so that I could understand the allusions and homages more easily. Romans loved their blood and guts and adventure tales.In fact, Metamorphoses is rife with violence, gruesome in its detail and astonishing in the litany of names of characters involved in all the “stabbity-stab-stab.” Rape is another prevalent topic, as is punishment by the gods and goddesses.This is not a nice, tidy look at the story of Rome, fiction or not. There were numerous times when I had to stop and remind myself that Metamorphoses was written for an audience who had certain expectations for a great story, and for whom violence was nothing to be squeamish about.The attitudes towards women are difficult, but again, this was written in first century CE, when the very idea of women speaking up for themselves and showing agency was frowned upon at best, punishable at worst. Ancient Rome was a very stratified society, even wealthy women were held to be barely better than the slave class. So it is no surprise this found its way into the literature.There’s so much to enjoy, and revile, in Metamorphoses, it’s impossible to recount them in any way that makes sense. I could comb back through each book’s commentary and look for things to write about here. But I won’t.What I will say is that reading Metamorphoses was a journey worth taking. One which I am just as happy to have completed, leaving me to move on to less complicated books in my stacks. One lasting effect I am sure of, nothing I see or read will ever be the same since reading it.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5I absolutely love this Renaissance translation. The long lines are quite a workout, but the beautiful language makes it completely worth it. When using Ovid as a reference, this is definitely the translation to use for eloquence.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Important Note: This review is for the edition translated by Z. Philip Ambrose. Seeing as the review focuses mainly on the translation, this will not work for all copies of the book. You have been warned.Introduction:Right of the bat, I'll admit I'm slightly biased. The translator for this version, Ambrose, was my professor for my greek and roman mythology class I took at UVM. This was a required text and took me about five minutes to realize he was the translator once I got into class. That automatically made the class special. Of all the ancient translations I've read, I can finally say I've known the translator. Just keep this in mind as I continue my review.Content:Ovid is great, pure and simple. I love his stories and the way he writes them. Every time once of my friends asks for a story when we're bored I immediately go to my memories of Ovid and pick out one of my favorites stories. Usually this is the tale of Narcissus and Echo or Atremis and Actaeon.Translation and Notes:If anyone is interested in reading Ovid they already know the value of his works and what they contain (if you don't, then the rest of this review may not be as important to you). Henceforth, that is not the primary focus of my review and will, instead, focus on the translation, notes, and diagrams included in this edition. There is a formidable Table of Contents that lists each story for easy reference. At the end there contains an index/glossary that is near sixty pages in length, chronicling each place, god, and mortal, who they are and when they appear. This is much more handy that it first sounds and I've used it constantly. The introduction, which for me is normally boring and overly long, gives a brief synopsis of each book and the tales included within. That helped me to no end when studying for a test!Notes in the book were on the bottom of the page and usually helped the reader with synonyms (like Abantaides is Perseus), places, and names. Easy and very important.The two most important things in this edition are the illustrations and the translation itself. The illustrations, of which there are many, added greatly to the events depicted in each tale. I found that I used these illustrations as landmarks for individual tales more than the Table of Contents or the Index. For these alone I would recommend this edition yet we have not even touched upon the translation! Fortunately, the translation was just what I wanted: readable and very true to the original Latin. When I first read this translation as a sophomore, I thought it fun to read. Not necessarily easy (for I think poetry and classical texts should be a brain-working experience and require a decent amount of effort put into it) but still fun. When I revisited the text as a senior and translated the original Latin I developed a new appreciation for Ovid and Ambrose. Ovid's Latin was great (of course) and Ambrose did his utmost best to stay true to the original. I used Ambrose's work as a 'cheat sheet', if you will, as I read the Latin for class. The translation was almost word for word, line for line, and a young Latin student's gift from the gods. Until you've tried translating for yourself you can't imagine how great this was, to have each line match up with the original. Just...superb!However, I must note that I have not read a different translation. Overall, I don't think it would matter. Penguin comes out with decent translations (and they have the most, by far) and Oxford World Classics give even better translations with awesome notes except I found both these translations lacking something special when I glanced over them in the bookstores. Perhaps because they didn't have those wonderful illustrations or they aren't set-up as neatly, I still have no desire to further explore my dislike. Take this new bit of information as you will, my view of this translation will certainly not change.Conclusion:A great literal, but definitely readable, translation of Ovid's well-known work of stories and myths, complete with illustrations. Great for the beginner and Latin student alike. Highly recommended.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5I would've given this book four stars if it's more organized. The frequent jumps from one story to another really annoyed me. I think I like Bulfinch's Mythology better.Anyway, the title is damn right accurate since many people/deities here were turned into birds, rivers, stones, etc whether as forms of punishments or pity from the gods. Speaking about the gods, yes, I should repeat this: they're a bunch of vengeful, petty, envious rapists/douche bags. I don't think I can find any favorite. Definitely don't wanna live in a world full of those scumbags.Some stories are great, some are downright boring, if not repetitive. But, still worth to read, I guess.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5I read parts of this in high school, where we translated many of the texts from this book. As this is a different kind of experiences, focusing on reconstructing the sentences anew, I would like to take up Metamorphoses at another time, in order to experience it more as a reader and to get a better idea of the stories within.
- Valutazione: 2 su 5 stelle2/5#2 on the 1,001 Books to Read list. 999 to go. The takeaway was that I'm now properly prepared for the Jeopardy! category of Roman Gods, should I ever get on the show, and should that come up. Absent that, I was in a fog most of the time, barely able to follow the narrative, which read much like Ginzberg's Legends of the Jews, in that it took fragmented, eclectic tales and fashioned them into a linear story. The violence was a bit disturbing at times, Blood Meridian style, and I did enjoy learning a bit more about these myths I knew vaguely, but honestly, I was just happy to be done so I could move on to the next book.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Enertaining, enlightening, but ultimately light.All the known myths and stories from the Greek/Roman world, with the exception of a few from Homer and Virgil are contained in this lengthy poem to unending transformation.Ovid's boast in the epilogue, "Thoughout all ages, if poets have vision to prophesy the truth, I shall live in my fame." is certainly true.A note on this translation: I have only a smattering of Latin, but found this text to be far superior to the clunky Charles Martin translation, despite Bernard Knox's enthusiasm. The notes were especially helpful. The unnumbered notes are contained in the back of the book so a reader needs two bookmarks. Notes are for the convience of the reader, why put them at the back instead of the foot of the page? and unnumbered too?
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Sex, violence, and humor are often painted as low and primitive: the signs of a failing culture. Yet it is only in cultures with a strong economy and a substantial underclass that such practices can rise from duty to pastime. As Knox's introduction reminds us, Ovid's time was one of pervasive divorce, permissive laws, and open adultery, and our humble author participated in all of them.Eventually, the grand tyrant closed his fist over the upper classes, exerting social controls and invoking the moral standard of an imagined 'golden age' in order to snatch power and discredit his rivals. Though already a popular and influential author and speaker, Ovid was exiled for being both wanton and clever.Both he and Virgil were sent to the extremities of the empire by Augustus, and both wrote epics from their solitude that would equal Homer's. While Virgil's was a capitulation to the emperor, honoring his fictitious lineage and equating heroism with duty, Ovid's was a sly, labyrinthine re-imagining of classic tales, drawing equally on the gold of Olympus brow and the muck between a harlot's toes.Ovid remained more coy about his dirt than Apuleius or Seneca, maintaining plausible deniability with irony and entendre throughout the complex work. Every view, vision, and opinion is put forth at some point, and very rarely are they played straight. Ovid's characters are remarkable creations, each one a subversion of the familiar legend that surrounds them. Of course, by this point many of us are more familiar with Ovid's versions than the ones he was making light of.Virgil inspired the proud, righteous men of words: Dante, Tasso, Milton. Ovid created a style for the tricksters and the conflicted: Petrarch, Donne, Shakespeare, Ariosto, Rabelais. Each of Ovid's myths was a discrete vision, not only by plot, but by theme. His tales were not simply presentations of ideas, but explorations that turned back on themselves over and over.The metaphysical poets would come to adopt this style, creating short works that explored themes, even ritualizing the idea's reversal in the sonnet's volta. The active, visual nature of Ovid was a progression from the extended metaphors of the philosophers to what could be called a true conceit: a symbolic representation at once supportive of and in conflict with the idea it bears.Each of Ovid's tales flows, one into the next, building meaning by relations, counterpoints, repetition, and structure. Each small part builds into a grander whole. Just as all the sundry stories become a mythology, the many symbolic arguments become a philosophy.Instead of the Virgilian heroic mode, where one man wins, thereby vindicating his philosophy, Ovid shows a hundred victories and losses, creating an aggregate meaning. That isn't to say that there isn't depth and conflict between characters and ideas in Virgil, but his centralized, political theme deprives him of the freedom to move from one idea to the next.This lack of freedom is a boon for most authors. The most structured style is the one which most benefits an unskilled author, because it gives tangible boundaries and tools with which to create. With no boundaries, the author has no way to judge himself, and nowhere to start.Imagine a man is given all the parts to a lawnmower. He can build little else than a lawnmower, but his chances of being successful are fairly high. Now give the same man all the uncut materials and tools in a shop. He could now make nearly any small machine, but it would take much more knowledge and skill.Likewise, it's easier to write good poetry when the rhyme scheme, scansion, and meter are pre-determined than to create a beauty and flow in blank verse. Yet Ovid deconstructed his stories, starting and stopping them between books and moving always back and forth. He provided himself with absolute freedom, but maintained his flow and progression, even without the crutches of tradition.While his irony and satire are the clearest signs of his remarkable mind, the most impressive is probably this: that he flaunted tradition, style, and form, but never faltered in his grand work.Virgil knew what he did when he attached himself to Augustus' train; likewise Ovid recognized how his simultaneous praise and subversion of Augustus' legacy would play: none could openly accuse him of treason, but anyone with a solid mind would see the dangerous game Ovid played with his king and patron.He did not shy from critiquing Augustus even as he wrote for him, for his nation, and for history. Ovid's parting shot is the famous assertion that as long as Rome's name is spoken aloud, so will be Ovid's. This has been echoed since by Chaucer, Shakespeare, and Milton, so that what Ovid realized we would never doubt today.Even banished to the wilderness, out of favor, the only way to silence the artist is to kill him, and this must be done long before he has an audience. Augustus got his month, but his empire fell. Ovid's empire grows by books and minds each year, and its capital is still The Metamoprhoses.I researched long trying to decide on a translation. Though there are many competent versions out there, I chose Martin's. I recall seeing the cover and coveting it, but distrusting the unknown translation. Imagine my surprise after my research turned up my whim.I enjoyed Martin's translation for the same reason I appreciate Fagles': the vibrancy, wit, and drive of the language. Both are poetic, exciting, risk-taking, but also knowledgeable and deliberate. Every translation is a new work of art, all it's own, and I respect translators who don't pretend otherwise.The translators of the fifties were more staunchly academic, capturing meaning and precision, but in enshrining the classics, they fail to take the sorts of risks that make a work bold. Contrarily, the early translators, like Pope, recreated the work in their own vernacular, not merely as a translation, but as a new work, as Shakespeare's plays are to Plutarch's Lives.Martin (and Fagles) take the more modern approach, championed by the literary style of T.S. Eliot and James Joyce, whose works are solidly grounded in their tradition, deliberately and knowledgeably drawn, but with the verve and novelty of the iconoclast. There is something particularly fitting in this, since Ovid himself was an iconoclast who mixed formalized tradition with subversion and irony.Martin proved himself utterly fearless in the altercation between the Pierides and the Muses. Martin styles their competing songs as a poetry jam, drawing on the vocal forms of rap music. I must admit I was shocked at first, and unable to reconcile, but as I kept reading, I came to realize that it was not my place to question.For translation is the adaptation of one style to another, one word or phrase or invocation to something more familiar. In his desire to capture the competition and skill of song in these early contests, he drew on what may be the only recognizable parallel to modern man. What is remarkable is not how different the two styles are from one another, but how similar.It is comical, it is a bit absurd, but he is altering the original purpose less than Pope, who translated all of the poetry into anachronism. I never thought I would prefer a translation of Ovid which contained the word 'homie', but if Martin can be true enough to the poetry to write it, I can be brave enough to laud it.I still laugh, but only because Martin has revealed to me something of the impossibility and oddity inherent to translation. This certainly isn't your grandfather's Ovid, but then, your grandfather's Ovid wasn't the real one, either.I also appreciated Knox's introduction in both Martin's and Fagle's work, though Knox's Homeric background is stronger. I found the end-notes insightful and useful, though they are never quite numerous to suit me, but such is the nature of reading in translation.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5The Metamorphoses is a poem in fifteen books by the Roman poet Ovid describing the history of the world from its creation to the deification of Julius Caesar within a loose mythico-historical framework. Completed in AD 8, it is recognized as a masterpiece of Golden Age Latin literature. The recurring theme, as with nearly all of Ovid's work, is love—be it personal love or love personified in the figure of Amor (Cupid). Indeed, the other Roman gods are repeatedly perplexed, humiliated, and made ridiculous by Amor, an otherwise relatively minor god of the pantheon, who is the closest thing this putative mock-epic has to a hero. Apollo comes in for particular ridicule as Ovid shows how irrational love can confound the god out of reason. The work as a whole inverts the accepted order, elevating humans and human passions while making the gods and their desires and conquests objects of low humor.I read this both with the Sunday Morning Group and as the text for a University of Chicago weekend retreat. Not unlike many works of classical literature this has been a rich cultural resource ever since including authors from Chaucer and Shakespeare to, more recently Ted Hughes, and composers from Gluck and Offenbach to Britten. Ovid based these tales on Greek myths, albeit often with stylistic adaptations.
Anteprima del libro
Le metamorfosi - Publio Ovidio Nasone
398
Titolo originale: Metamorphoseon libri XV
Consulenza redazionale di Enrico V. Maltese
Prima edizione ebook: gennaio 2013
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4393-7
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Publio Ovidio Nasone
Le metamorfosi
Cura e traduzione in versi di Mario Scaffidi Abbate
Edizione integrale con testo latino a fronte
Newton Compton editori
Introduzione
L’uomo e il poeta
«Quartus ab his», «quarto dopo di loro» si dichiara Ovidio, riferendosi ai poeti elegiaci, cioè dopo Gallo, Tibullo e Properzio. Dante, per bocca di Virgilio, lo giudica il terzo della «bella scola di quel signor dell’altissimo canto», dopo Omero e Orazio, ma sarebbe in realtà il quarto se si inserisce in quella schiera anche Virgilio, che non può nominare se stesso.
Ovidio era tutto l’opposto di Virgilio: leggero, spensierato, amava la vita mondana, era di facili costumi ma non depravati, avrebbe voluto conquistare tutte le belle donne che incontrava: «L’acerba età m’infiamma», scrive negli Amores, «bellezza matura m’attrae... Non c’è in Roma una sola bellezza che non seduca questo mio insaziabile cuore». Ma dice pure: «Odio me stesso, e tuttavia non posso non essere quello che sono». E riconosce le sue colpe: «Non oso negare di essere un libertino, non voglio scusare le mie colpe, anzi, le confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma dopo che le ho confessate ricado negli stessi errori»: un atteggiamento che ricorda Petrarca e Sant’Agostino, nei quali pure è presente, come in genere nei mistici e nei santi, il conflitto fra la carne e lo spirito.
Ovidio non era invidioso, come tanti del suo tempo, non sapeva odiare, ma del resto era incapace di provare sentimenti forti e profondi. Era tuttavia figlio del suo tempo, per nulla amante della semplicità e della severità degli antichi, e si vantava e si diceva felicissimo di essere nato in quell’epoca, che considerava la vera età dell’oro. «Haec aetas moribus apta meis», dice nell’Ars amatoria (III, 113 sgg.): «Questa è l’età adatta ai miei costumi». E aggiunge: «Sono felice di essere nato a Roma nel secolo veramente dell’oro, dell’opulenza e del lusso».
Era il tempo in cui Roma, cessate le lotte politiche, appariva in tutto il suo splendore («Cessò la guerra, che prolungarono / le nostre liti», cantava Orazio): caput mundi, capitale di un vasto impero, aveva assimilato nei costumi e nella cultura la civiltà di molti popoli, dell’Occidente come dell’Oriente. Ovidio era l’espressione più alta e consapevole di quel mondo spensierato, dedito al lusso e ai piaceri della carne, che anche altri descrivevano, come Catullo e Orazio, che si definiva un porcellino del gregge di Epicuro (Me pinguem et nitidum bene curata cute vises / cum ridere voles Epicuri de grege porcum: «Quando vuoi ridere, Albio, vieni da me: mi vedrai / lucido e grasso maiale del gregge di Epicuro», Epistole, I, 4,15-16, Ad Albio Tibullo).
Ovidio, però, non possedeva l’equilibrio di Orazio e, nella pratica, non conosceva il suo est modus in rebus. Amava il divertimento, e voleva divertire. Amava anche la gloria, ma sempre per divertimento. Possedeva una genialità davvero eccezionale, una sorprendente fantasia, una facilità e proprietà di linguaggio sia nel parlare che nello scrivere, tanto che egli stesso in Tristia dice: Sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos / et quod temptabam scribere versus erat («La poesia spontaneamente si disponeva nei giusti ritmi e qualunque cosa io volessi scrivere mi veniva in versi»).
Ovidio è poeta della forma più che della sostanza, e tuttavia la sua opera è rimasta, e vola ben più alta di quella del Monti o del Marino. D’altra parte non è detto che la poesia debba avere per forza dei contenuti, esprimere dei sentimenti e magari trattare di problemi etici o sociali. I contenuti, essendo legati alle vicende umane, sono passeggeri, mutevoli e caduchi, mentre la forma, o l’idea, è immutabile, eterna. «Gli dèi di Omero sono morti da un pezzo, ma è rimasta l’Iliade», osservava Francesco De Sanctis. E ancora: «Potrà perire ogni memoria di guelfi e di ghibellini: resterà la Divina Commedia». Di quante opere contemporanee, legate solo alla cronaca senza un soffio di universalità, si potrà dire altrettanto?
Del resto anche la nuda poesia, quando l’ispirazione sia alta e profonda, può celare dentro di sé dei contenuti universali, come certi passi dei canti leopardiani, in cui i concetti filosofici non sono espliciti ma si ricavano dal contesto. Pascoli diceva che l’uccellino canta per cantare, ma dentro quel canto, senza che l’uccellino lo voglia o lo sappia, c’è la vita. Che meraviglia, dunque, e quale rimprovero si può muovere ad Ovidio se ha fatto della parola lo strumento fondamentale della sua poesia?
Parola, o cosa mistica e profonda;
ben io so la tua specie e il tuo mistero
e la forza terribile che dentro
porti e la pia soavità che spandi!
Così canta d’Annunzio, che molto somiglia a Ovidio, del quale pure si può dire che se ignorò la parola in cui si racchiude la sostanza speculativa e logica delle cose fu perché delle cose egli ebbe una visione armonica e totale, che lo portò ad immedesimarsi anche nel mondo animale e vegetale, che pure è presente nell’uomo.
Cesare Cantù definisce Ovidio «l’autore più piano alla intelligenza per naturalezza d’idee, per netta espressione, per lo splendore che getta su tutti i pensieri e sulla dicitura». Gli rimprovera però la scarsa diligenza «così penosa e così necessaria» della lima, un difetto che del resto Ovidio stesso confessa in un passo delle Epistulae ex Ponto (III, 9)
Non eadem ratio est sentire et demere morbos...
Saepe aliquod verbum cupiens mutare, relinquo,
judicium vires destituuntque meum.
Saepe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)
Corrigere, et longi ferre laboris onus...
Corrigere at refert tanto magis ardua, quanto
magnus Aristarcho major Homerus erat.
Simile cosa non è sentire un male e guarirlo...
Spesso, benché lo desideri, rinuncio a mutare un vocabolo,
quando allo scarso vigore cede la mia volontà.
Spesso (infatti perché dovrei nasconderti il vero?)
m’urta il correggere, il peso d’una stancante fatica,
visto che questa è una cosa tanto più ardua per me
quanto dal grande Omero era Aristarco lontano.
La grande facilità di versificare gli faceva perdere anche il senso della misura: da qui l’abbondanza che a volte degenera in prolissità, in lungaggini e inutili ripetizioni, con la conseguenza che il verso prima scorrevole s’infiacchisce. Sicché per essere troppo agile nello scrivere Ovidio finisce con l’essere non solo incurante ma anche poco capace del lavoro della lima. Molte volte la sua sorprendente facoltà di improvvisatore lo fa essere poco elegante, cosa che non accade a Tibullo o a Properzio. Spesso si ripete, o si perde in particolari inutili che, pur se arricchiscono la scena e mostrano quale acuto regista egli sia, alla lunga stancano, come il passo in cui Filemone e Bauci preparano la mensa per Giove, che si protrae per una trentina di versi (VIII, 647 sgg.). Né mancano gli errori di grammatica. Con tutto ciò Ovidio aveva l’ambizione di farsi leggere ad ogni costo, e lo dichiara egli stesso nei Remedia amoris (565): «Dummodo sic placeam, dum toto canar in orbe».
Che significa: «Mi si critichi pure purché io piaccia e sia letto in tutto il mondo».
Ma tali difetti trovano giustificazione oltre che nella sua confessata indolenza
anche nel fatto che non ebbe tempo di rivedere il poema, tanto che, impossibilitato a farlo perché condannato all’esilio, lo diede alle fiamme proprio perché lo riteneva imperfetto (imitando Virgilio che in punto di morte aveva chiesto di bruciare l’Eneide). Un gesto che aveva già compiuto per altri suoi scritti, come egli stesso dichiara nei Tristia:
Multa quidem scripsi, sed quae vitiosa putavi
emendaturis ignibus ipse dedi.
Tunc quoque, cun fugerem, quaedam placitura cremavi,
iratus studio carminibus meis.
Molti poemi ho composto, ma ciò che ritenni imperfetto
diedi in passato io stesso al fuoco purificatore.
Ora che sono in esilio, acceso da grande passione
per i miei scritti, ho bruciato altri pur validi versi.
Ovidio però sapeva bene che gli amici custodivano copie delle Metamorfosi, tanto che aveva espresso il desiderio che il poema nel caso in cui venisse pubblicato portasse a mo’ di epigrafe questa avvertenza: «Non il poeta l’ha pubblicato: è quasi un avanzo rapito al suo funerale. È imperfetto il poema, ma lo avrei tutto quanto emendato se me lo avessero concesso» (emendaturus, si licuisset, eram).
Immense furono nell’antichità la fama e la fortuna di Ovidio, letto e ammirato da Velleio Patercolo, Marziale, Lucano, Seneca e persino dai cristiani. Sui muri delle case di Pompei delle mani ignote graffiavano suoi versi, nel Medioevo Ovidio era secondo solo a Virgilio, sia per la poesia amorosa che per quella fantastica delle Metamorfosi, a lui guardarono i poeti latini dell’evo carolingio, i poeti francesi del secolo dodicesimo, i volgarizzatori, i chiosatori, gli eruditi, i letterati e i grandi poeti italiani, a partire da Dante e da Petrarca, su su per tutti i secoli successivi.
Non fu esente da critiche, come uomo e come poeta, ma i suoi meriti sono di gran lunga superiori ai suoi difetti. Per Seneca il Vecchio (padre di Lucio Anneo) «Ovidio non riesce a capire ciò che sarebbe bene che non dicesse, e non accontentandosi di dir bene una cosa una sola volta finisce col non dirla bene»; Leopardi nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica osservava:
Imitò la natura Ovidio; chi ne dubita? E le imitazioni sue paiono quadri, paiono cose vive e vere. Ma in che modo la imitò? Mostrando prima una parte e poi un’altra e dopo un’altra, disegnando colorando ritoccando, lasciando vedere molto agevolmente e chiaramente com’egli facea colle parole quella cosa difficile e non ordinaria né propria di esse, ch’è il dipingere, manifestando l’arte e la diligenza e il proposito, che scoperto, fa tanto guasto; brevemente imitò la natura con poca naturalezza, parte per quel tristissimo vizio della intemperanza, parte perché non seppe far molto con poco, né sarebbe evidente se non fosse lungo e minuto. Con questa non efficacia ma pertinacia finalmente viene a capo di farci vedere e sentire e toccare, e forse talvolta meglio che non fanno Omero e Virgilio e Dante. Con tutto ciò qual uomo savio antepone Ovidio a questi poeti? anzi chi non lo pospone di lungo tratto? Chi non lo pospone a Dante? il quale è giusto il contrario d’Ovidio, in quanto con due pennellate vi fa una figura spiccatissima, così franco e bellamente trascurato che appena pare che si serva delle parole ad altro che a raccontare o a simili usi ordinari, mentreché dipinge superbamente, e il suo poema è pieno d’immagini vivacissime, ma figurate con quella naturalezza della quale Ovidio scarseggiando, sazia in poco d’ora, e non ostante la molta evidenza, non diletta più che tanto, perché non è bene imitato quello ch’è imitato con poca naturalezza, e l’affettazione disgusta, e la maraviglia è molto minore.
Questo, infine, il giudizio di Luigi Alfonsi (Letteratura latina, Sansoni 1960):
Questo poeta di facile vena e di morbido sentimento, di tenerezze e di sogni, non digiuno di filosofia, aperto alla comprensione umana, espresse, nonostante la sua sorridente lascivia poi largamente scontata, bisogni spirituali di rinnovamento, in nome delle esigenze dell’anima, che fermentavano in un’età che si iniziava pervasa di istanze religiose... Artefice perfetto del verso, seguace di un illuminato purismo nella scelta della parola, estremamente limitato nell’introduzione di neologismi, perspicuo nell’espressione, pecca qualche volta di trascuratezza verbale e di artificio: ma egli è stato uno dei tramiti più ricchi per cui l’antichità è passata nel mondo moderno, una delle glorie più alte della letteratura romana.
La vita
Fonte principale della vita di Ovidio sono le sue stesse opere. Ciò spiega perché (a parte le schede che si trovano in codici medioevali) non esista una tradizione biografica su di lui, in quanto ai fini biografici bastavano appunto le sue opere. Per tale ragione Svetonio, nelle Vite dei poeti, non ritenne opportuno soffermarsi sulla sua vita: Ovidius Naso nascitur in Paelignis, scrive (senza specificare la città, sia perché questa insieme ad altri due municipi Peligni costituiva come una sola unità, sia perché Ovidio stesso, pur citando talvolta Sulmona, si definiva semplicemente Paeli - gnus, o Paelignis natus). E conclude: Ovidius poeta in exilio diem obiit, et iuxta oppidum Tomos sepelitur.
Ecco come il Poeta stesso accenna alla sua nascita e alle sue inclinazioni nei primi versi dei Tristia:
Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui novies distat ab Urbe decem.
Editus hic ego sum: nec non ut tempora noris,
cum cecidit fato consul uterque pari.
È la mia patria Sulmona, ricca di gelide acque,
dista novanta miglia dalla città di Roma.
Qui sono nato io, se vuoi conoscere il tempo,
quando morirono insieme i due consoli [Irzio e Pansa].
E così prosegue:
Se può avere importanza, provengo ab antiquo dall’ordine equestre, non di recente, cioè per via di un patrimonio. Non sono l’unico figlio, essendo venuto al mondo dopo un fratello, nato un anno prima di me. Insieme a lui sono stato istruito sin da piccolo e per desiderio di mio padre siamo andati entrambi a Roma presso maestri insigni nella loro arte. Mio fratello fin dall’adolescenza aveva attitudine per l’eloquenza, essendo nato per le forti armi del facondo Foro, a me, al contrario, fin da fanciullo piaceva il divino culto della Poesia, che di nascosto mi trascinava nel suo lavoro. Spesso mio padre mi diceva: «Perché vuoi dedicarti ad una occupazione che non dà alcun profitto? Persino Omero non ha lasciato alcuna ricchezza».
Ovidio, dunque, nacque a Sulmona il 20 marzo del 43 a.C. da ricca famiglia di rango equestre. A 12 anni, insieme col fratello Lucio (che morirà prematuramente), si recò a Roma per assistere alle lezioni di grammatica e di retorica di insigni maestri, fra cui Marco Arellio Fusco e Marco Porcio Latrone, rivelandosi discepolo docile e al tempo stesso brillante e suadente in quei saggi chiamati suasoriae, in cui l’allievo immaginava di rivolgersi a un personaggio famoso, della storia o del mito. La scuola di retorica fu dunque una palestra quanto mai opportuna e utile in cui Ovidio poté affinare e perfezionare le sue innate attitudini al virtuosismo della parola e alla osservazione psicologica.
Successivamente si recò in Grecia e durante il viaggio di ritorno visitò le città dell’Asia minore, l’Egitto e la Sicilia, dove soggiornò per un anno. Ebbe così modo di visitare i luoghi divenuti famosi per i miti che avrebbe narrato.
Tornato a Roma, per volere del padre che desiderava per lui e per il fratello la professione politica e forense, intraprese la carriera pubblica: fece parte dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri (probabilmente i funzionari di polizia giudiziaria) e ottenne la questura. Ben presto, però, vista la sua straordinaria capacità di comporre versi, abbandonò quegli studi e si dedicò alla poesia (Tristia IV, 10,26). Fece parte del Circolo di Messalla Corvino e di quello di Mecenate, venendo così a conoscere i più importanti poeti del tempo, Orazio, Properzio, Tibullo e Virgilio, e diventando il poeta più letto e apprezzato, specchio di un’epoca e di una società in cui si sentiva sommamente a suo agio. Già a vent’anni era famoso e celebrato negli ambienti mondani, favorito dai suoi modi signorili e dalla sua sensibilità.
Si sposò tre volte: delle prime due mogli non si sa nulla, salvo che da una di loro nacque Perilla, della terza, Fabia, si sa che fu buona e fedele, come egli stesso ricorda nelle sue opere.
Nell’8 d.C. venne da Augusto relegato a Tomi (oggi Costanza), sul Mar Nero, nella Scizia, e lì rimase, nonostante le suppliche sue, della moglie e degli amici, sino alla morte, avvenuta nel 17 o 18 d.C. Non si conoscono le vere ragioni di quell’esilio, è però molto probabile che Ovidio sia stato involontariamente complice o testimone di qualche grosso scandalo che coinvolse la famiglia imperiale. Nei Tristia (II, 1, 207 sg.) scrive: «Perdiderint cum me duo crimina, carmen, et error; alterius facti culpa silenda mihi» (Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore: di questo debbo tacere quale è stata la colpa).
Su quell’error è stato costruito un castello di motivazioni, alcune delle quali anche fantasiose, che sono rimaste avvolte nel dubbio. Queste le ipotesi: Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con l’imperatrice Livia Drusilla, cantata negli Amores con lo pseudonimo di Corinna; sarebbe stato complice di Giulia, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, o quanto meno l’avrebbe favorita, nelle sue relazioni col giovane patrizio Decimo Bruto Silano; avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto o curiosato sulla condotta privata e sulle abitudini intime dell’imperatrice; avrebbe assistito a qualcuno degli sfoghi d’ira di Augusto o partecipato alla congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono, contro Tiberio. E così via.
Il termine carmen si riferirebbe invece alle opere di Ovidio (in particolare l’Ars amatoria), che contrastavano con i princìpi della restaurazione augustea. Sennonché Ovidio da tempo non scriveva più poesie erotiche e quindi quel provvedimento sarebbe giunto in ritardo. Resta dunque in piedi l’ipotesi che alla base della condanna ci fosse un fatto personale molto grave riguardante anche membri della famiglia imperiale. Certo è che da un giorno all’altro il Poeta dovette lasciare Roma. Ecco come descrive nei Tristia (I, 3) quel terribile giorno:
Cùm subit ìlliùs tristissima nòctis imàgo
quà mihi sùpremùm tèmpus in ùrbe fuìt,
cùm repetò noctèm, qua tòt mihi càra relìqui,
làbitur èx oculìs nùnc quoque gùtta meìs.
Quando m’assale il ricordo di quella tristissima notte,
l’ultimo tempo che fu della mia vita romana,
quando ripenso alla notte in cui tanti beni lasciai,
lacrime amare ancora scendono giù dai miei occhi.
Molto soffrì Ovidio in quell’esilio, tantopiù in un paese quasi selvaggio, privo del conforto di una natura amica e leggiadra, fra gente rozza che non lo conosceva e a cui non poteva confidare le sue pene e leggere i suoi versi. Come passasse le giornate a Tomi lo dice egli stesso nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto, che sono una sequela di lamenti, da cui traspaiono una certa superficialità e monotonia e che denunciano la stanchezza della sua fantasia. Fin dal primo giorno della sua relegazione a Tomi la vita di Ovidio era davvero spenta.
Questa, possiamo dire, la sua ultima voce:
Hìc ego, fìnitimìs quamvìs circùmsoner àrmis,
trìstia, quò possùm, càrmine fàta levò...
Ergo quòd vivò durìsque labòribus òbsto,
nèc me sòllicitaè taèdia lùcis habènt,
gràtia, Mùsa, tibì: nam tù solàcia praèbes,
tù curaè requiès, tù medicìna venìs...
Tù mihi, quòd rarum èst, vivò sublìme dedìsti
nòmen, ab èxsequiìs quòd dare fàma solèt.
Qui, benché frastornato dal cupo fragor delle armi,
cerco alleviar con i versi il mio funesto destino...
Dunque se io sopravvivo e resisto alle dure fatiche,
se non mi spegne ancora la noia di tanto penare,
offrimi, o Musa, un conforto, un farmaco e un po’ di riposo...
Tu, cosa rara, m’hai dato, da vivo, un nome sublime,
dammi dopo la morte la gloria per quella mia fama.
Questa l’epigrafe che Ovidio stesso dettò per la sua tomba:
Guarda, qui giaccio sepolto, poeta dei teneri amori,
io, che perii ucciso dal mio ingegno stesso.
Tu, che accanto mi passi, se mai provasti l’amore,
mormora: «Ossa di Ovidio, abbiate infine la pace».
Le opere
La produzione poetica di Ovidio, pervenutaci quasi completa, è molto vasta e comprende diversi generi, dovuti all’ispirazione o alle esigenze del momento in cui egli scriveva. Le sue opere si dividono in tre gruppi: giovanili (che hanno per tema l’amore), della maturità, dell’esilio. Altre sono andate perdute, altre sono state attribuite ad Ovidio erroneamente.
Opere giovanili
Amores, 3 libri comprendenti 50 elegie che narrano la storia d’amore per Corinna, un personaggio letterario. Il Poeta, soggiogato dalla donna, è geloso e soffre per le sue infedeltà, anche se considera l’amore come un gioco: una concezione nuova rispetto a quella della poesia tradizionale. Perciò egli ama più di una donna contemporaneamente e non pretende fedeltà da nessuna: meglio ignorarne i tradimenti per poter continuare ad amarle.
Ars amatoria, in 3 libri, di cui i primi due sono un vero e proprio trattato di tecnica erotica su come conquistare una donna e mantenerne i favori. L’opera è notevole per grazia, spontaneità e per il tono ironico e di leggera parodia.
Remedia amoris, un’operetta di 400 distici elegiaci, che tratta lo stesso tema ma in relazione ai rimedi che si possono utilizzare per liberarsi dalla passione amorosa.
Medicamina faciei, un trattato di cosmetica femminile svolto sul filo dell’ironia ma piuttosto esile.
Heroides, lettere immaginarie in distici elegiaci scritte da eroine del mito ai loro amanti, di cui 3 con le relative risposte: da Penelope, Briseide, Fedra, Didone, Arianna, Medea, Laodamia, Ipermetra; di Elena a Paride e di Paride a Elena; di Ero a Leandro e di Leandro a Ero; di Cidippe ad Aconzio e di Aconzio a Cidippe. Quest’opera costituisce un nuovo genere letterario, che comprende: quello epistolare, l’elegia e il monologo drammatico. Vi sono influssi da Euripide, da Apollonio Rodio, da Catullo e dagli elegiaci alessandrini. La donna è sempre vittima dell’amore e ogni epistola contiene gli stessi ingredienti: il ricordo della passata felicità, con la rievocazione degli incontri amorosi, la gelosia e l’attuale disperazione. Tutto ciò condito con reminiscenze mitologiche, immagini barocche, descrizioni retoriche e una grande abilità descrittiva. Come in questo passo dell’epistola di Leandro (55 sgg.): «Sul far della notte (mi piace ricordarlo) uscivo dalla porta della casa paterna in preda all’amore; e senz’indugio deponendo insieme la paura e la veste agitavo le braccia flettendole nel limpido mare; la luna offriva al mio procedere una luce quasi tremula come una premurosa compagna di viaggio».
Medea, tragedia non pervenutaci: ne possediamo due soli versi, oltre ai giudizi dei contemporanei che la lodavano, da cui sappiamo che era destinata alla declamatio, non alla rappresentazione. Da ciò si deduce che l’elemento tragico, non confacente all’indole di Ovidio, fosse sostituito da quello patetico.
Opere della maturità
Metamorfosi, 15 libri in esametri. Sono il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell’esilio. Contengono circa 250 favole di trasformazioni, dal Caos all’apoteosi di Cesare e di Augusto, distribuite in ordine cronologico, anche se Ovidio molto spesso inserisce fatti anteriori o posteriori a quello che narra. Il poema è molto ricco e nondirado troppo esuberante, con descrizioni analitiche di cose e di persone in uno stile barocco e a volte molto artificioso. Ciò che colpisce è la straordinaria abilità di legare fra loro delle storie che non hanno un filo logico comune e perciò spesso si avvertono delle forzature.
Fasti, in 6 libri: dovevano essere di 12, ma Ovidio ne scrisse solo 6 a causa dell’esilio. Il Poeta intendeva illustrare (sull’esempio degli Aitia di Callimaco) le feste religiose e le varie ricorrenze del calendario romano. Sono un’opera erudita, in cui Ovidio racconta leggende e fatti della storia di Roma, parlando di astronomia e illustrando usanze e tradizioni popolari.
Opere dell’esilio
Tristia, 5 libri in distici elegiaci in cui Ovidio riprende una caratteristica della poesia elegiaca, il lamento. Non hanno un destinatario.
Epistulae ex Ponto, 4 libri di lettere poetiche indirizzate a vari personaggi romani (fra cui la terza moglie del Poeta, rimasta a Roma) affinché intercedano presso l’imperatore per il ritorno di lui, a Roma o quantomeno in una località vicina.
Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, suo ex amico.
Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto, a cui il Poeta si dedicava per scacciare la noia.
Phaenomena, poema astronomico non pervenutoci.
Altre opere minori
Canti di vario genere ai quali il poeta allude in particolare nelle Epistulae ex Ponto:
un carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare);
un carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri;
un elogio in morte di Messalla Corvino;
un epitalamio per le nozze dell’amico Paolo Fabio Massimo.
Opere attribuite erroneamente ad Ovidio
Nux, poemetto di 182 versi (in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve ingiustamente dai passanti);
Consolatio ad Liviam, carme consolatorio alla moglie di Augusto per la morte del figlio Druso.
MARIO SCAFFIDI ABBATE
Le Metamorfosi
Taci. Sulle soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Gabriele D’Annunzio
In principio era il Mito
Tutti gli esseri si trasformano: la farfalla all’origine è un bruco che alla fine si libera dal bozzolo mediante le zampe e le mandibole che nel frattempo si sono sviluppate; dalle uova di rana escono le larve che crescendo diventano girini, finché non scompaiono la coda e le branchie e la rana diventa adulta; il camaleonte modifica il colore della propria pelle a seconda degli stimoli esterni. E così via.
La vita è mutamento, nessun essere animato è mai identico a se stesso, ma, come il sole di Orazio, è alius et idem, uguale e diverso nel medesimo tempo: ciò che gli dà il senso dell’identità e dell’unità è la coscienza, o l’anima. Dunque le Metamorfosi di Ovidio, come quelle di altri poeti e scrittori (quali Apuleio, Nicandro di Colofone, Kafka, sino ai creatori di personaggi come l’uomo ragno o il rospo in cui si cela il principe azzurro) hanno le loro radici nella natura stessa. È da lì che nasce il mito, e poiché mito significa parola
(passatapoi a significare anche discorso
o racconto
), possiamo dire che «In principio era il Mito, e il Mito era presso Dio e il Mito era Dio, e tutto è stato fatto per mezzo del Mito». La parola dunque crea: tutta la magia cerimoniale è basata sul potere della parola. I Dogon, popolazione dell'Africa occidentale, definiscono la parola «un sacrificio sonoro che dà vita alle cose», «l’energia vibrante della cosa pronunciata». «La parola divina è come il fuoco», dice Geremia, e come fuoco appare Dio a Mosè sul monte Sinai. Che c’è di strano, dunque, se Giove si trasforma in aquila, in un torello candido e lascivo o in polvere d’oro?
Per Vico il mito è il segno linguistico per eccellenza, un «carattere poetico» che esprime o interpreta una realtà. Nella introduzione alla Scienza Nuova Seconda («Idea dell’opera») il filosofo scrive: «Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truova essere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici... Sì fatti caratteri, divini o eroici, si truovano essere state favole, ovvero favelle vere; e se ne scuoprono le allegorie contenenti sensi non già analoghi ma univoci, non filosofici ma istorici di tali tempi de’ popoli della Grecia». Favelle vere, quindi, in ogni caso, non invenzioni, storielle campate in aria: l’uomo non inventa nulla, scopre e rende manifesto ciò che è già dentro di lui.
Con quei «caratteri poetici» gli uomini primitivi più che parlare scrissero, cioè raffigurarono immagini di dèi o di eroi. Il linguaggio dei miti è dunque un linguaggio visivo, nato per natura, non per convenzione. Possiamo dire che il linguaggio dei miti è il primo dei mass-media, un linguaggio visivo perché la vista era inizialmente il mezzo più adatto con cui l’uomo poteva stabilire una relazione coi suoi simili e con l’universo.
I primi uomini, dice sempre Vico, parlavano per cenni, e così credettero che conformemente alla loro natura anche Giove parlasse per cenni, attraverso i fulmini e i tuoni, e che quelli fossero parole reali, e che la natura tutta fosse la lingua di Giove: da qui la scienza della divinazione, chiamata dai Greci teologia
, cioè scienza del parlare degli dèi
.
Mito e parola, dunque, alla nascita delle lingue e della scrittura erano una stessa, identica realtà. I miti sono stati per l’uomo il suo primo linguaggio e il suo primo pensiero. Il mito non è soltanto il contenuto di un racconto, ma è la forma linguistica stessa di quel contenuto che si è fatto esprimibile e comunicabile.
Dice ancora Vico: «Gli uomini, ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, dànno alle cose la loro propria natura, e la natura loro era, in tale stato d’uomini tutti, robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa».
I Greci personificarono il cielo dandogli il nome di Urano e immaginarono che, stesosi sulla Terra in un abbraccio amoroso, la fecondasse. Da quella unione - racconta Esiodo nella Teogonia (la Nascita degli dèi) - nacquero i Titani, anch’essi personificazioni di qualche cosa, come la forza, l’intelligenza, la legge: Oceano, Coio, Crio, Iperione, Giàpeto, Crono, Tea, Rea, Temi, Mnemosine, Febe e Teti. (Per inciso, Giàpeto ha affinità con Jàfet, il figlio di Noè, non solo per via del nome ma perché anche la Bibbia dice che da Jàfet discesero i Greci: dove si vede che i miti di popoli diversi s’incrociano e si mescolano fra loro, e in questa concordanza c’è un fondo di verità).
Il più giovane dei Titani era Crono, personificazione del Tempo.
Da Crono nacque Zeus, e via via gli altri dèi, alcuni dei quali in realtà erano degli esseri mortali, poi assunti a divinità dell’Olimpo. Come Diana, la quale altri non era che una cacciatrice («mortale guidatrice d’oceanine vergini» la chiama il Foscolo), e come Venere, una donna di non comune bellezza che regnava sull’isola di Citèra (da qui Citerèa, uno dei suoi appellativi). Così Saturno sarebbe stato un agricoltore, Dedalo un umile artigiano, e in greco l’artigiano si riallaccia a daidàllo, che significa lavorare con arte
... Fra l’altro Dedalo era pure un assassino: ammazzò infatti il nipote perché gli rubava il mestiere (pare che avesse inventato il trapano e la sega). Condannato, andò in esilio a Creta (così dice il Mito, o mythos delòi), e qui Pasifae, moglie di Minosse, s’innamora di un toro e chiede a Dedalo di costruirle una vacca di legno («Nella vacca entra Pasife perché il torello a sua lussuria corra», scriverà Dante). Da quell’unione nasce il Minotauro, e Dedalo costruisce per lui il labirinto. Domanda: Dedalo ammazzò il nipote perché doveva andare a Creta a fabbricare la vacca di legno e il labirinto, o fabbricò la vacca di legno e il labirinto perché aveva ammazzato il nipote? Questo il Mito non lo dice: o Mythos non delòi.
In principio dunque era il Caos, un orrido e confuso miscuglio di materia senza peso, un brulichìo di elementi discordi. A un certo punto da quell’ammasso informe spuntò Gea, la Terra, che generò la Notte e il Giorno. Poi la Terra si unì col Cielo e nacquero i Ciclopi, i Giganti e i Titani. Uno di questi, Crono, figlio ribelle e contestatore ante litteram, spodestò il padre Urano, e poi, via via che gli nascevano i figli, nel timore che uno di essi potesse a sua volta detronizzarlo, li inghiottiva. Si salvò solo Giove, il quale, quando divenne adulto, affrontò il padre e gli fece vomitare ad uno ad uno tutti i figli. Ma, dato il suo carattere dispotico, dovette fronteggiare una serie di congiure che miravano a spodestarlo: da parte dei Titani, che capeggiati da Tifèo, diedero la scalata al cielo sovrapponendo due monti e salendo l’uno sull’altro, dei Giganti e persino dei suoi stessi figli, istigati da Giunone, alla quale Giove - liberato da Briarèo, un gigante dalle cento braccia (solo lui, infatti, poteva sciogliere i cento nodi fatti dagli dèi) - riservò un trattamento quale nessun marito, fra i comuni mortali, ha mai usato verso la propria moglie. La fece infatti appendere per i polsi con due incudini legate ai piedi. E poiché a un certo punto Vulcano ebbe l’ardire di liberarla (dopotutto era sua madre), Giove lo scaraventò giù dall’Olimpo. E fu così che il dio del fuoco si azzoppò.
Questo, almeno, stando ad una delle versioni del Mito, perché il Mito si presta a diverse interpretazioni.
Gli antichi espressero in forme umane e materiali le leggi che governano il mondo. Come i segni grafici dei bambini prima che acquistino l’uso della parola sono disegni, così gli uomini primitivi fecero ricorso a delle immagini, ma dietro quelle immagini, per quanto possano apparire strane e fantasiose, si celano grandi verità.
Il problema relativo al significato del mito sorse già nell’età classica. Nel Fedro di Platone (229b-230a) Fedro chiede a Socrate se sia vera la leggenda secondo cui Borea, il vento del nord, avrebbe rapito Orizia, figlia del leggendario re di Atene Eretteo. Socrate risponde che potrebbe non crederci e dire, ragionevolmente, che la ragazza è stata semplicemente portata via da un colpo di vento.
Questa interpretazione razionalistica ebbe il suo più noto rappresentante in Evemero e fu accettata anche dai padri della Chiesa.
Accanto ad essa si sviluppò la tesi che nel mito si celassero, espresse in forma allegorica, verità profonde e insegnamenti morali.
Così pensava anche Bacone (De sapientia veterum). Ma il vero atto di nascita del mito si ha con Vico, che nella Scienza Nuova ne sostiene l’autonomia, affermando che il mito non ha «sapienze riposte» da rivelare, ma esprime la concezione genuina del mondo propria dell’uomo primitivo.
Sono comunque tante le ipotesi che si sono formulate sulle cause che hanno dato origine al mito e sul suo significato. Secondo A. Jensen (Mito e culto fra i primitivi) i miti «tendono a realizzare la vera natura dell’uomo, rendendolo cosciente della sua origine divina e della sua partecipazione al divino»; per Eliade il mito, come tutti gli altri fenomeni del sacro, è una «ierofania che possiede contemporaneamente un valore storico e un valore archetipale universale» (Trattato di storia delle religioni); per Alberto Albini «il mito è bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura, spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde a esigenze della tribù». E così via.
Molti miti rispecchiano la storia politica e religiosa del paese in cui sono nati. Scrive Robert Graves:
Perseo (probabilmente Pterseus ‘il distruttore’) non fu un archetipo della figura della morte, ma rappresentava forse gli Elleni patriarcali che invasero la Grecia e l’Asia Minore all’inizio del secondo millennio prima di Cristo. La Medusa era un tempo la Dea stessa che si nascondeva dietro la profilattica maschera della Gorgone: un volto orrendo inteso a sgomentare coloro che volessero violare i Misteri. Perseo che decapita Medusa ricorda gli Elleni che occuparono i principali templi della dea, strapparono alle sue sacerdotesse le maschere di Gorgoni e si appropriarono dei sacri cavalli (una primitiva immagine della dea con la testa di Gorgone e il corpo di cavalla è stata ritrovata in Beozia). Bellerofonte, il doppione di Perseo che uccide la Chimera licia, ricorda gli Elleni che annullarono il calendario di Medusa e lo sostituirono con un altro. E ancora, Apollo che uccide il Pitone a Delfi pare ricordi gli Achei che conquistarono il santuario della Madre Terra cretese; e lo stesso dicasi del tentativo compiuto da Apollo di violare Dafne, che. non era affatto una vergine sgomenta. Il suo nome è una forma contratta di Daphoene ‘la sanguinaria’, cioè la dea in preda al furore orgiastico le cui sacerdotesse, le Menadi, si inebriavano masticando foglie di alloro, e le foglie di alloro contengono cianuro di potassio. I collegi sacerdotali di codeste Menadi furono soppressi dagli Elleni e soltanto i sacri boschi di alloro restarono a dimostrare che Daphoene era anticamente signora di quei templi. In Grecia, fino ai tempi dell’occupazione romana, masticare alloro era tabù per tutti fuorché per la sacerdotessa pitica che profetizzava a Delfi in nome di Apollo.
Le Metamorfosi di Ovidio sono come un’immensa ragnatela, i cui fili, coi loro intrecci e i loro punti d’incontro (le vicende, i tempi, le cause e gli effetti), sono tutti collegati fra loro. C’è come un filo sottilissimo che al di là di ogni forma e mutamento unisce tutte le vite disseminate nei secoli e le accomuna e le affratella, coscienti o non coscienti, volenti o non volenti che esse ne siano. Tutto, anche il fatto più banale e insignificante, nel mondo accade con la partecipazione dell’intero universo, tutto occorre e concorre alla vita di ogni singolo essere, dal più grande al più piccolo, dal più nobile al più spregevole, in una interdipendenza delle più diverse nature, per cui ciò che fa uno è come se lo facessero tutti simultaneamente in una susseguente molteplicità e diversità di tempi e di luoghi.
Un sentimento di fratellanza universale corre dunque lungo tutto il poema, ma il poeta non lo dice e non può dirlo esplicitamente, come non può collegare fra loro, materialmente, tutti i fatti in una visione unitaria: da qui quella impressione di frammentarietà che inevitabilmente ne deriva, tanto più perché i miti narrati sono ben duecentoquarantasei: «246 miti», osserva Cesare Cantù, «raccozzati con intrecci poco naturali, a cui Ovidio non seppe dare quasi altro collegamento fuor quello della successione. Invano dunque vi cercheresti il semplice ed uno che Orazio pretendeva» («Fa’ quel che vuoi, ma sia semplice e uno»). Ma Orazio si riferisce alla pittura, e quella regola non può valere per uno scrittore o per un poeta, che avendo a che fare con le parole non potranno mai dare una visione simultanea e al tempo stesso chiara e distinta di tutte le tessere che compongono il mosaico. L’unità di un’opera letteraria va ricercata altrove.
Il centro delle Metamorfosi è l’uomo e in lui e per lui si realizza la consapevolezza di quella parentela con tutte le altre creature. Da qui l’umanizzazione di tutte le cose, comprese le pietre. Dafne, mutata in alloro, conserva la sua umanità, e Febo continua ad amarla anche come pianta, ne abbraccia i rami come se fossero ancora le sue braccia, bacia la corteccia, e così via. Il Ciclope, innamorato di Galatea che lo sfugge, intona per lei uno dei canti più belli e delicati:
O Galatea, più candida del petalo
del ligustro, ubertosa più di un prato,
più slanciata dell’ontano svettante,
più splendente del vetro, più giocosa
d’una gaia capretta appena nata...
Forse se tu mi conoscessi meglio
ti pentiresti d’essere fuggita.
Ascoltami: il mio corpo non è brutto
perché irto di dure e fitte setole:
brutto è l’albero spoglio, senza fronde,
il cavallo a cui manchi la criniera...
Anche nel petto di un mostro, di un essere brutto e deforme come il campanaro di Notre Dame de Paris, può battere un cuore sensibile e amoroso. Le Metamorfosi sono un’opera di umanità, in cui si coglie la partecipazione del Poeta al dolore e alla sofferenza.
I motivi della trasformazione sono diversi: un premio, una punizione o un rimedio per uscire da una situazione difficile, spesso per sottrarsi ad uno stupro.
Se il protagonista delle Metamorfosi è il Mito, il motivo ispiratore è l’Amore, che come nel De rerum natura di Lucrezio (a cui il poema si richiama) anima e sollecita tutte le creature. «La vera bellezza delle Metamorfosi», scrive Bignone, «è l’amore con cui il poeta compiaciuto accarezza il suo tema. Si sente ad ogni tratto che egli gode del sogno della sua fantasia; e anche che si compiace della sua stessa arte, della facilità con cui passa di mito in mito, della versatilità con cui alterna l’epico all’elegiaco, l’idillico al tragico. Qui unità è la stessa varietà; è il gioco della fantasia e il diletto dell’immaginazione. Arte, questa di Ovidio, che sembra l’opposto dell’arte classica più pura, per questo suo mostrarsi, inorgoglirsi, far pompa di sé. E ad ogni momento pare debba cadere nell’artifizio, e anche vi cade; ma è un artifizio melodioso e sorridente; a cui perdoniamo la bizzarria e talora persino l’irriverenza per quell’antico mondo, creato dalla più ingenua poesia dei popoli, in grazia della stessa intima gioia con cui il poeta lo ritrae».
Quello di Ovidio è perlopiù un amore fisico, carnale: Cupido colpisce al cuore ma in realtà è il sesso che risponde, e sono pochi gli esempi di un amore puro e fedele: Filèmone e Baucide, Orfeo ed Euridice, Cefalo e Procri, Ceìce ed Alcione, Deucalione e Pirra. Nelle Metamorfosi ovidiane l’incontro fra lui e lei non è mai cauto e discreto, non vi sono preliminari, l’innamorato parte subito all’attacco. La donna è quasi sempre una preda.
I personaggi, maschi e femmine, più che amare concupiscono, a prima vista, e vogliono subito arrivare al sodo. Spesso, poi, si tratta di un amore tradito o perverso (Medea, Mirra, che s’innamora del padre, Biblide, che spasima per il fratello, Scilla, Pasifae, che addirittura s’innamora di un toro). L’amore ovidiano è perlopiù concreto, è fiamma che brucia, che pervade tutto il corpo, e il Poeta stabilisce sempre paragoni o similitudini materiali (l’amore brucia come la paglia, come la cera, come un proiettile che attraversa l’aria, e così via). Questa sensualità serpeggia in tutte le Metamorfosi e si accompagna col paesaggio, che può essere un bosco, una fonte, un luogo fresco, in cui i personaggi cercano riparo dalla calura estiva e ristoro dalla stanchezza, della caccia o d’altro, ed è lì che l’amore opera, generalmente a mezzogiorno, quando il corpo è nel suo pieno vigore, non al sorgere del sole, quando, come dice Dante («Temp’era dal principio del mattino...»), è più facile dominare gl’impulsi della lussuria.
Gl’incontri avvengono nell’ora del meriggio anche perché quello per gli antichi era il momento culminante della manifestazione divina nella Natura. Il mezzogiorno era ritenuto addirittura un’ora di panico, perché si credeva che in quel momento gli dèi si mostrassero agli uomini più apertamente: «Medios cum sol accenderit aestus... Numina tum videntur», dice Servio nel suo commento a Virgilio, di cui cita la frase, riportata fra virgolette. E Catullo (carme 64,384-86):
Praesentes namque ante domos invisere castas
heroum et sese mortali ostendere coetu,
caelicolae, nondum spreta pietate, solebant.
Così una volta usavano i celesti
visitare le case dei potenti
e mostrarsi ai mortali ancora pii.
Gli dèi, prosegue Catullo, diradarono le loro visite agli uomini quando questi introdussero sulla terra il delitto: da allora tali apparizioni invece di essere desiderate furono temute, come osserva il Leopardi nel suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che a quel punto «tremarono al solo immaginarsi di poter vedere un Essere di cui non conoscevano la figura, e del di cui potere aveano una spaventosa idea».
Il numinoso
, il sentimento del numen praesens, si trova mirabilmente espresso da D’Annunzio giustappunto in Meriggio, in cui «perduta è ogni traccia dell’uomo» e il Poeta si sente vivere in tutto:
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
E la mia vita è divina.
Per Baudelaire la natura è un «verbe», una parola, un’allegoria,
un tempio pieno di voci, complessa ed una insieme, giacché i suoni, i profumi, i colori, che si «corrispondono» (nel senso che si parlano reciprocamente), sono strettamente uniti e riconducibili tutti alla stessa fonte.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
dans une ténébreuse et profonde unité,
vaste comme la nuit et comme la clarté,
les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
«Non è soltanto nel sogno», dice Baudelaire, «e nel leggero delirio che precede il sonno, ma anche da sveglio, quando ascolto della musica, trovo un’analogia e un’unione intima fra i colori, i suoni e i profumi». Tutto parla, tutto è parola: «Anche cose ideali», dice Poe, «producono oscuri suoni col battito delle loro ali immaginarie».
La psicanalisi ha costruito sui miti teorie o spiegazioni che spesso non stanno né in cielo né in terra, come il complesso di Edipo, che Freud in realtà ha ricavato dalle tragedie di Sofocle, che del Mito sono una tarda rielaborazione letteraria, perdipiù travisandole: Edipo, infatti, uccide il padre e sposa la madre senza minimamente sospettare che siano i suoi genitori.
«La seria analisi dei miti», scrive Robert Graves, «deve iniziare con lo studio dell’archeologia, della storia e delle religioni comparate, non nel gabinetto di consultazione di uno psichiatra. Benché i seguaci di Jung sostengano che i miti sono rivelazioni originali della psiche precosciente, involontarie affermazioni di ciò che avviene nell’inconscio
, la mitologia greca, nel suo contenuto, non era più misteriosa dei manifesti elettorali di oggi e si sviluppò per lo più in territori legati da stretti rapporti politici con Creta minoica, cioè con un paese tanto evoluto da avere palazzi a quattro piani con impianti igienici, porte con serrature che paiono moderne, marchi di fabbrica registrati, un sistema controllato di pesi e misure e un calendario fondato su attente osservazioni astronomiche». E conclude: «Plutarco, pur narrando che l’ippopotamo uccise il genitore e violentò la genitrice
, non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell’ippopotamo».
Ovidio non manca di una certa ironia, vista come una sorta di benevolo sorriso con cui guarda le vicende del mondo e i miti stessi, sui quali a volte avanza delle riserve, e in ciò egli mostra un fondo di saggezza: le Metamorfosi sono opera della maturità.
Non è filosofo, ma la concezione lucreziana indubbiamente lo ha colpito, e lo si vede chiaramente nell’ultimo libro, che si richiama al primo, e chiude il cerchio, o la cornice, con una autocelebrazione che è la consapevolezza di aver prodotto cosa nuova e grande, un’opera che non è soltanto una enciclopedia
dei miti, sia pure riveduta in una forma nuova, ma anche una visione ideale della vita, che sfiderà i secoli e resterà per sempre, quali che possano essere in futuro le concezioni filosofiche, religiose o scientifiche degli uomini.
MARIO SCAFFIDI ABBATE
Bibliografia essenziale
Manoscritti
Ars amatoria, Remedia amoris, Amores, Heroides, Medicamina faciei: Parisinus 7311 (Regius), sec. X; Parisinus 8242 (Puteanus), sec. XI.
Metamorfosi: Marcianus 225, Biblioteca Laurenziana di Firenze, sec. XI;
Neapolitanus IV F 3, Biblioteca Nazionale di Napoli, sec. XI.
Fasti: Petavianus (Vatic. Regin. 1709), sec. XV.
Tristia: Marcianus di Firenze 223, secc. XI e XV.
Epistulae ex Ponto: Hamburgensis, sec. IX o X.
Ibis: Cantabrigiensis, sec. XII.
Halieutica: Sannazarianus ora Vindobonensis 297.
Studi
F. ARNALDI, La retorica nella poesia di Ovidio, Paris 1958.
S. BATTAGLIA, La tradizione di Ovidio nel Medioevo, Napoli 1960.
C. MARCHESI, Un’arte di amare, quaderni A. C. I., Torino 1953.
N. SCIVOLETTO, class=par
Musa iocosa. Studio sulla poesia giovanile di Ovidio, Roma
1976.
C. SEGAL, Ovidio e la poesia del mito. Saggi sulle Metamorfosi, Venezia 1990.
In Ovidiana: Recherches sur Ovide, Publiées à l’occasion du bimillénaire de la nassaince du poète par N. I. Herescu, Paris 1958:
L. ALFONSI, L’inquadramento filosofico delle Metamorfosi.
H. BARDON, Ovide et le baroque.
D. MARIN, Intorno alle cause dell’esilio di Ovidio.
E. PARATORE, L’elegia autobiografica.
F. PEETERS, Ovide et les études ovidiennes actuelles.
In Atti del Convegno internazionale ovidiano di Sulmona del 1958, Istituto di Studi romani, 1959:
F. ARNALDI, L’episodio di Ifi nelle Metamorfosi di Ovidio e l’XI libro di Apuleio.
G. BALIGAN, L’esilio di Ovidio.
G. D’ANNA, La tragedia latina arcaica nelle Metamorfosi.
L. ILLUMINATI, Ovidii fletus, Ovidii funus, Ovidii fama.
K. MARÓT, Ovidio, il poeta di tutti.
G. B. PIGHI, La poesia delle Metamorfosi.
V. POESCHL, L’arte narrativa di Ovidio nelle Metamorfosi.
S. VIARRE, L’originalité de la magie d’Ovide dans les Métamorphoses.
Traduzioni italiane, integrali o parziali, delle varie opere
Ibis, A. LA penna, Firenze, La Nuova Italia, 1957.
Halieutica, F. capponi, Leida, Brill, 1972.
Medicamina faciei femineae, G. rosati, Venezia, Marsilio, 1985.
Remedia amoris, C. lazzarini, Venezia, Marsilio, 1986.
Heroides, G. rosati, Milano, Rizzoli, 1989.
Ars amatoria, E. pianezzola, G. baldo, L. cristante, Milano, Mondadori, 1991.
L’arte di amare, E. barelli, Milano, Mondadori, 1991.
Tristia, F. lechi, Milano, Rizzoli, 1993.
Amori, L. canali, Milano, BUR, 1994, Libro III, 4.
L’Arte di Amare, E. barelli, Milano, BUR, 1997, Libri I e III.
Traduzioni italiane delle Metamorfosi
NICCOLÒ DEGLI AGOSTANI, 1522.
LUDOVICO DOLCE, 1553.
GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, 1561.
Ferruccio bernini, Bologna, Zanichelli, 1958, Libro I.
PIERO bernardini Marzolla, Einaudi, 1979.
MARIO RAMOUS, Garzanti, 1992.
Questa versione è stata condotta sul testo eclettico
fornito da P. Bernardini Marzolla, «non al livello dei manoscritti, ma delle edizioni». Si conoscono infatti più di 400 manoscritti delle Metamorfosi di Ovidio e i sei codici più antichi (sec. IX-X) sono tutti discordanti e frammentari.
Nota alla traduzione
Non so quanto possano valere (a favore di questa mia versione poetica) certe riflessioni di Giacomo Leopardi sulle traduzioni, nondimeno mi piace e può tornare utile citarle.
Le traduzioni dei libri classici cattive e mediocri sono ingloriose a chi le scrive, inutili agli altri, le traduzioni buone e perfette oltremodo difficile a farle, rarissime a ritrovarne. Né si speri alcuno di farsi immortale con traduzioni che non sieno eccellenti. E quelli che degli autori greci o latini esprimono solo i pensieri, e non le bellezze e le perfezioni dello stile, non si può pur dire che traducano. Le traduzioni poetiche richiedono un grande ingegno e un vero poeta, senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta. La poesia si può tradurre solo con la poesia. Queste cose giova ed è a proposito il dirle, e anche il ripeterle spesso: acciocché altri non presuma (come si fa in questo secolo tutto giorno) dovere con ingegno forse meno che comunale, con poca o nessuna arte e fatica, ottenere quella medesima gloria che spesso con somma arte, con fatiche grandissime, non ottengono gl’ingegni sommi.
Qui mi fermo, pensando amaramente quanto sia vera quest’ultima affermazione, tanto più ai giorni nostri, e come basti essere già noti per potere «con poca o nessuna arte e fatica» ottenere una fama che non ottiene chi lavora davvero con arte, ingegno e fatica somma.
Ciò premesso, dirò che nella mia attività di traduttore (iniziata negli anni di liceo, con Orazio e i lirici greci) ho sempre desiderato di tradurre in versi, oltre all’Eneide, due opere: il De rerum natura di Lucrezio e le Metamorfosi di Ovidio. Ringrazio dunque i miei editori, e in particolare Raffaello Avanzini, per questa mia nuova e spero non ultima fatica.
Pur trattandosi di una traduzione in versi, era mio proposito attenermi letteralmente al testo originale, anzi, in un primo tempo ho pensato addirittura di mantenere l’esametro.
A un certo punto, però, mi sono detto, ripensando al Manzoni: «Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica» di tradurre in codesta forma i dodicimila versi del poema, «si troverà poi chi duri la fatica di leggerli?». Nella lingua italiana, infatti, il ritmo dell’esametro latino risulta monotono e noioso già dopo una diecina di versi, peggio di certe musiche di cui si sente solo l’insistente, ripetitivo e ossessivo tum tum.
Così ho abbandonato l’esametro e ho adottato l’endecasillabo, che consente ritmi più vari, sempre, però, tenendomi fedele al testo originario e rinunciando spesso ad effetti speciali
che sarebbero potuti derivare da una versione libera. Anche se a volte la traduzione letterale comporta versi meno gradevoli e perfetti. Ma questa è la regola a cui mi sono sempre attenuto: restare quanto più possibile aderente alla lettera e dare alla narrazione un andamento fluido e pulito, tenendo per così dire un occhio al passato e l’altro al presente, rispettoso, cioè, dell’originale ma al tempo stesso attento ai gusti e alle esigenze dei lettori di oggi. Un testo classico, ho già scritto altrove, è come un mobile antico abbandonato in una soffitta o in una cantina: si può restaurarlo, ma non si deve togliergli la patina del tempo. Non c’è dubbio che nel caso delle Metamorfosi una versione poetica ne esalta e ravviva i contenuti: per cantare le sue favole, Ovidio creò i versi più melodiosi e suggestivi. Talvolta ho usato forme desuete (come l’aulente dannunziano), ho coniato qualche vocabolo (come scaccialenubi
, riferito ai venti, e ‘l’occhistellato", riferito ad Argo); per esigenze di verso - per citare alcuni esempi - ho scritto sol invece di sole, furor invece di furore, l’acque invece che le acque, l’onde invece che le onde, il Cillenio dio invece che il dio Cillenio, e così via. Ho poi fatto ricorso a endecasillabi sdruccioli, che peraltro sono copiosi nei poemi italiani (li usa anche Carducci) e nelle traduzioni di opere latine e greche.
Un’ultima e doverosa precisazione: Mario Ramous, nella nota alla sua traduzione in prosa delle Metamorfosi, dichiara di essere debitore a P. Bernardini Marzolla «di alcune illuminanti e felicissime interpretazioni». Ebbene, anch’io, ma molto raramente, nel corso della mia versione poetica, ho raccolto da lui qualche lustrino.
Un ringraziamento a Fiammetta Giordani, redattrice della Newton Compton, per la pazienza e l’accuratezza che ha dimostrato nella revisione dell’opera, segnalandomi sviste e imprecisioni, inevitabili in una versione poetica di così vasta mole (più di 19.000 versi endecasillabi sui 12.001 esametri dell’originale).
M.S.A.
Personaggi e argomenti dei singoli libri
Libro primo
Origine del mondo, Creazione dell’uomo, Le quattro età del mondo, I Giganti, Concilio divino, Licaone, Il diluvio, Deucalione e Pirra, Pitone, Dafne, Io, Argo, Siringa, Fetonte.
Libro secondo
Fetonte, Elìadi, Cicno, Il Sole, Callisto, Arcade, Corvo, Coronide, Cornacchia, Ocìroe, Batto, Erse e Aglauro, Invidia, Europa.
Libro terzo
Cadmo, Attèone, Sèmele, Tiresia, Narciso, Eco, Penteo, Acete, I marinai etruschi, Fine di Penteo.
Libro quarto
Le figlie di Minia, Piramo e Tisbe, Venere e Marte, Leucòtoe e Clizia, Salmacide ed Ermafrodito, Minièidi, Atamante e Ino, Gli Inferi, Tisìfone, Le Ismenidi, Cadmo e Armonia, Peneo, Atlante, Andromeda, Perseo e Andromeda, Medusa.
Libro quinto
Perseo, Fineo, Ati e Licabante, La rissa, Fineo, Preto, Polidecte, Le Muse, Cireneo, Le Pièridi, Cerere e Proserpina, Ciane, Aretusa, Ascalafo, Le Sirene, Aretusa e Alfèo, Triptolemo.
Libro sesto
Pallade e Aracne, Niobe, I contadini della Licia, Marsia, Pelope, Tèseo, Progne e Filomèla, Borea e Oritìa, Zète e Càlai.
Libro settimo
Giàsone e Medea, Esone, Medea e Pelia, Fuga di Medea, Tèseo, Minosse, Eaco, Cefalo, La peste di Egina, I Mirmidoni, Cefalo e Procri.
Libro ottavo
Niso e Scilla, Minosse, Il Minotauro, Arianna, Dedalo e Icaro, Perdice, Il cinghiale di Calidone, Meleagro, Altea, I Meleagridi, Teseo, Acheloo, Le Echinadi, Perimele, Filemone e Bauci, Erisictone, La Fame, Mnestra.
Libro nono
Achelòo ed Ercole, Nesso e Deianira, Morte di Ercole, Lica, Alcmèna e Galanti, Driope e Loti, Iolao, Biblide e Cauno, Ifide.
Libro decimo
Orfeo ed Euridice, La foresta che cammina, Ciparisso, Ganimede, Giacinto,
I Cerasti e le Propetidi, Pigmalione, Mirra, Venere e Adone, Atalanta e Ippomene.
Libro undicesimo
Morte di Orfeo, Pena delle Menadi, Mida, Laomedonte ed Esione, Peleo e Teti, Ceìce, Dedalione e Chione, Il lupo di Peleo, Ceìce e Alcione, Il Sonno, Esaco.
Libro dodicesimo
Ifigenia, La Fama, Achille e Cigno, Cèneo, Centauromachia, Periclìmene, Morte di Achille.
Libro tredicesimo
Le armi di Achille, Aiace, Ulisse, Morte di Aiace, Ecuba, Le Troiane, Polissena, Polidoro, Polimestore, Memnone, I Memnonidi, Enea e Anio, Le figlie di Anio, Le figlie di Orione, Scilla, Aci e Galatea, Polifemo, Glauco.
Libro quattordicesimo
Glauco, Scilla e Circe, Enea, I Cercopi, La Sibilla, Achemenide e Polifemo, Macarèo, Ulisse e Circe, Pico e Canente, Enea, I compagni di Diomede, L’ulivo selvatico, Le navi di Enea, Ardea, Enea dio indigete, Pomona e Vertumno, Anassarete e Ifi, Tarpea, Romolo ed Ersilia.
Libro quindicesimo
Miscelo, Crotone, Pitagora, Egeria, Ippolito, Tacete, Cipo, Esculapio, Apoteosi di Cesare, Epilogo.
Metamorphoseon libri XV
Le metamorfosi
Liber primus
In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas)
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen!
Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum 5
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere chaos: rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene iunctarum discordia semina rerum.
Nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan, 10
nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe,
nec circumfuso pendebat in aere tellus
ponderibus librata suis, nec bracchia longo
margine terrarum porrexerat Amphitrite;
utque erat et tellus illic et pontus et aer, 15
sic erat instabilis tellus, innabilis unda,
lucis egens aer; nulli sua forma manebat,
obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno
frigida pugnabant calidis, umentia siccis,
mollia cum duris, sine pondere, habentia pondus. 20
Hanc deus et melior litem natura diremit.
Nam caelo terras et terris abscidit undas
et liquidum spisso secrevit ab aere caelum.
Quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,
dissociata locis concordi pace ligavit: 25
ignea convexi vis et sine pondere caeli
emicuit summaque locum sibi fecit in arce;
proximus est aer illi levitate locoque;
densior his tellus elementaque grandia traxit
et pressa est gravitate sua; circumfluus umor 30
ultima possedit solidumque coercuit orbem.
Sic ubi dispositam quisquis fuit ille deorum
congeriem secuit sectamque in membra coegit,
principio terram, ne non aequalis ab omni
parte foret, magni speciem glomeravit in orbis. 35
Tum freta diffundi rapidisque tumescere ventis
iussit et ambitae circumdare litora terrae;
addidit et fontes et stagna inmensa lacusque
fluminaque obliquis cinxit declivia ripis,
quae, diversa locis, partim sorbentur ab ipsa, 40
in mare perveniunt partim campoque recepta
liberioris aquae pro ripis litora pulsant.
Iussit et extendi campos, subsidere valles,
fronde tegi silvas, lapidosos surgere montes,
utque duae dextra caelum totidemque sinistra 45
parte secant zonae, quinta est ardentior illis,
sic onus inclusum numero distinxit eodem
cura dei, totidemque plagae tellure premuntur.
Quarum quae media est, non est habitabilis aestu;
nix tegit alta duas; totidem inter utramque locavit 50
temperiemque dedit mixta cum frigore flamma.
Inminet his aer, qui, quanto est pondere terrae
pondus aquae levius, tanto est onerosior igni.
Illic et nebulas, illic consistere nubes
iussit et humanas motura tonitrua mentes 55
et cum fulminibus facientes fulgura ventos.
His quoque non passim mundi fabricator habendum
aera permisit; vix nunc obsistitur illis,
cum sua quisque regat diverso flamina tractu,
quin lanient mundum; tanta est discordia fratrum. 60
Eurus ad Auroram Nabataeaque regna recessit
Persidaque et radiis iuga subdita matutinis;
vesper et occiduo quae litora sole tepescunt,
proxima sunt Zephyro; Scythiam septemque triones
horrifer invasit Boreas; contraria tellus 65
nubibus adsiduis pluviaque madescit ab Austro.
Haec super inposuit liquidum et gravitate carentem
aethera nec quicquam terrenae faecis habentem.
Vix ita limitibus dissaepserat omnia certis,
cum, quae pressa diu fuerant caligine caeca, 70
sidera coeperunt toto effervescere caelo;
neu regio foret ulla suis animalibus orba,
astra tenent caeleste solum formaeque deorum,
cesserunt nitidis habitandae piscibus undae,
terra feras cepit, volucres agitabilis aer. 75
Sanctius his animal mentisque capacius altae
deerat adhuc et quod dominari in cetera posset:
natus homo est, sive hunc divino semine fecit
ille opifex rerum, mundi melioris origo,
sive recens tellus seductaque nuper ab alto 80
aethere cognati retinebat semina caeli.
Quam satus Iapeto, mixtam pluvialibus undis,
finxit in effigiem moderantum cuncta deorum,
pronaque cum spectent animalia cetera terram,
os homini sublime dedit caelumque videre 85
iussit et erectos ad sidera tollere vultus:
sic, modo quae fuerat rudis et sine imagine, tellus
induit ignotas hominum conversa figuras.
Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo,
sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. 90
Poena metusque aberant, nec verba minantia fixo
aere legebantur, nec supplex turba timebat
iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti.
Nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem,
montibus in liquidas pinus descenderat undas, 95
nullaque mortales praeter sua litora norant;
nondum praecipites cingebant oppida fossae;
non tuba derecti, non aeris cornua flexi,
non galeae, non ensis erat: sine militis usu
mollia securae peragebant otia gentes. 100
Ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus,
contentique cibis nullo cogente creatis
arbuteos fetus montanaque fraga legebant
cornaque et in duris haerentia mora rubetis 105
et quae deciderant patula Iovis arbore glandes.
Ver erat aeternum, placidique tepentibus auris
mulcebant zephyri natos sine semine flores;
mox etiam fruges tellus inarata ferebat,
nec renovatus ager gravidis canebat aristis; 110
flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant,
lavaque de viridi stillabant ilice mella.
Postquam Saturno tenebrosa in Tartara misso
sub Iove mundus erat, subiit argentea proles,
auro deterior, fulvo pretiosior aere. 115
Iuppiter antiqui contraxit tempora veris
perque hiemes aestusque et inaequalis autumnos
et breve ver spatiis exegit quattuor annum.
Tum primum siccis aer fervoribus ustus
canduit, et ventis glacies adstricta pependit; 120
tum primum subiere domos; domus antra fuerunt
et densi frutices et vinctae cortice virgae.
Semina tum primum longis Cerealia sulcis
obruta sunt, pressique iugo gemuere iuvenci.
Tertia post illam successit aenea proles, 125
saevior ingeniis et ad horrida promptior arma,
non scelerata tamen; de duro est ultima ferro.