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Stirpe di lupo
Stirpe di lupo
Stirpe di lupo
E-book187 pagine2 ore

Stirpe di lupo

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Info su questo ebook

Quando questa serie apparve su Weird Tales all'inizio degli anni Trenta, riscosse immediatamente un enorme successo. Un alieno proveniente da una lontana galassia, atterrato in prossimità di Babilonia, viene raggirato da una strega locale che, con un incantesimo, lo racchiude nel corpo di un essere umano. Uccisa la strega in un impeto di furia irrazionale, egli non ha più la possibilità di fare ritorno al natio pianeta di Nitrhys e, da questo momento, sfoga la sua rabbia e il suo odio contro tutto il genere umano, in partlcolare contro i discendenti della strega che lo ha incatenato alla Terra. La narrazione copre un vastissimo arco di tempo, e ci porta attraverso tutta una serie di grandi avvenimenti storici quali la disfatta della Grande Armada, la Guerra dei Trent'Anni, l'Inquisizione e la scoperta del Nuovo Mondo, per arrivare a concludersi ai giorni nostri con un finale veramente singolare.


Harold W. Munn

Harold Warner Munn nacque nel 1903, nell'Indiana. Scrittore fantastico di razza esordì nel 1925 sulla rivista Weird Tales ed è proprio di quell'anno il suo primo racconto basato sui lupi mannari. È opinione comune che a spronarlo a scrivere su questa tematica sia stato H.P. Lovecraft, e studi recenti accreditano la tesli che il «Solitario di Providence» abbia addirittura partecipato alla stesura di alcuni suoi scritti. Dal 1931 al 1966, Warner Munn rimase totalmente inattivo, riprendendo poi a scrivere ma non solo in campo fantastico: al suo attivo annovera tra l'altro un robusto poema sulla figura di Giovanna d'Arco.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854142114
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    Anteprima del libro

    Stirpe di lupo - Harold Warner Munn

    editori

    1. Il naufragio della Santa Ysabel

    Il tempo, sebbene sia giugno, è brutto come fosse dicembre. Nessuno ricorda un tempo simile in questa stagione. È ancora più strano, visto che siamo in missione per il nostro Signore, e deve esserci qualche ragione per quello che è accaduto. (Lettera del Duca di Medina Sidonia a Filippo II, Re di Spagna, da Coruna).

    Dio ha fatto soffiare i venti, ed essi ci hanno dispersi! (Iscrizione su medaglie coniate per commemorare la sconfitta dell’Armada).

    Tutto il giorno la Santa Ysabel, dilaniata dalle pallottole, aveva navigato alla deriva nella Manica: i suoi ponti, armati di uno scarso equipaggio, erano un ammasso di cadaveri. All’avvicinarsi della notte, il galeone, insieme alle navi superstiti di quella che una volta era la Grande Armada, si preparava ancora a resistere e lottare.

    La battaglia fu breve e letale. Di nuovo la piccola nave degli attaccanti inglesi manovrò più agilmente dei goffi vascelli spagnoli. Di nuovo la scarica obliqua di palle incatenate e la grandine di pallottole dei falconi, dei falconetti, e dei moschetti, seminò distruzione sui tre ponti dell’alto galeone. Gli ombrinali si arrossarono di nuovo durante la scarica di colpi, come se la struttura stessa del vascello sanguinasse.

    Era l’anno di Nostro Signore 1588. Il giorno era il 9 agosto, e la scena, la battaglia di Gravelines.

    La battaglia era avvenuta mentre le navi spagnole fuggivano e le inglesi le inseguivano. Medina Sidonia aveva sperato sino alla fine di riunirsi al Granduca di Parma e di avere rinforzi, ma i brulotti e gli scoppi avevano disperso la sua flotta, e il fuoco mortale dei rapidi vascelli corsari inglesi aveva falciato i soldati delle sue goffe navi piene di truppe. Quei galeoni, che un tempo sovrabbondavano di uomini, ora correvano il pericolo di sbattere contro le scogliere per mancanza di mani abili.

    La battaglia di Gravelines si svolgeva lontano da Parma. La formazione ad aquila, che era stata tanto utile nella battaglia di Lepanto, veniva ancora mantenuta. I pesanti galeoni costituivano il centro, le navi più leggere — comprese le galeazze — erano le ali, e le navi cariche di truppe fungevano da coda del grande uccello da combattimento.

    Contro Hawkins — Achimes lo chiamavano per scherno gli spagnoli — e Drake — El Draqu, o il Dragone — questa goffa formazione aveva combattuto ed era rimasta intatta, fatta eccezione per la perdita di qualche nave sbandata che era rimasta indietro. Ora le due potenze erano impegnate nella battaglia finale, dopo dieci giorni di combattimenti in navigazione. Tutto quello che rimaneva per combattere erano quaranta navi, dopo che i brulotti avevano disperso la flotta. La maggior parte navigava sottovento verso i banchi di Dunkerque.

    Gli inglesi continuavano a colpire la Santa Ysabel, ogni volta che cannoni e moschetti sparavano, con una forza sufficiente a frantumare una roccia. Nessuna nave si era arresa, sebbene la flotta inglese ne avesse abbattuto un pennone dopo l’altro. Gli spagnoli avevano sopportato cinque ore di fuoco, con le navi fatte a pezzi dalle palle di cannone.

    A tre ore dal tramonto, gli spari si erano fusi in un rombo continuo. Gli artiglieri assordati manovravano ancora moschetti e falconetti, che era tutto quello che restava dell’armamento della Santa Ysabel. Dalla coffa di maestra non si vedeva niente attraverso il fumo, ma più sotto, dove la cappa era più densa, lance e brigantini si avvicinavano al galeone, scaricavano i cannoni nelle sue fiancate e facevano posto alla nave successiva.

    Qui e là, qualche cannoniera spagnola armata di rematori, interveniva nel combattimento, incontrava una lancia inglese e l’affondava, ma ormai non ce n’erano più molte.

    Non si muoveva nessuno sul ponte della Santa Ysabel. Mentre l’aria veniva scossa dal ruggito dell’artiglieria, i sacerdoti camminavano avanti e indietro sotto i colpi di cannone, con il crocifisso in mano, a confessare e assolvere i moribondi.

    Al rullio dei tamburi e al grido di San Giorgio per la bella Inghilterra!, una nave corsara si avvicinò e scaricò una bordata nello scafo del galeone. Un rauco grido di acclamazione si alzò dalle gole arse quando un boato e un’esplosione di fiamme bianche mostrarono che il deposito di armi della nave era esploso.

    Se non fosse stato per il fatto che la polvere da sparo era pressoché finita, quella sarebbe stata la fine per la Santa Ysabel. Ma, sebbene danneggiata, non affondò. Andava alla deriva con lingue di fiamma che uscivano da ogni oblò e avvolta da nere nubi di fumo.

    All’arrembaggio!, risuonavano delle voci da sotto, mentre la piccola lancia si preparava ad abbordare quella nave gigantesca ma, prima che questo avvenisse, ci fu un’interruzione.

    Da dietro il galeone in fiamme, una galeazza, simile a una pulce d’acqua dalle molte zampe, arrivò con tutto il suo sfarzo di remi ondeggianti e attaccò la lancia. Le bandiere svolazzavano libere e allegre quando si scontrarono, ma una delle palle incatenate abbatté lo stendardo spagnolo e una tempesta di pallottole buttò giù l’albero maestro insieme a una vela che si gonfiò sull’imbarcazione, e a cui fu dato fuoco.

    Una seconda scarica colpì la galeazza tra prua e poppa e, con un’esplosione di gorgoglìi e grida soffocate, la nave sbandò e colò a picco, portando con sé soldati, marinai e duecento inermi schiavi incatenati ai loro panconi.

    Questa battaglia, breve e decisiva, aveva distratto l’attenzione degli inglesi dalla Santa Ysabel, un errore di cui si accorsero quando le loro vele penzolarono inutili al di sotto della gigantesca fiancata del galeone.

    Palle di cannone infuocate caddero dall’alto nella stiva della lancia, e il galeone si avviò con difficoltà verso le navi sorelle. Bruciava ancora in qualche punto, ma si lasciò dietro la lancia ridotta ormai una colonna di fiamme che ben presto affondò nel mare scuro.

    Prima del tramonto si alzò il vento, l’incendio cessò, e la cappa di fumo si dissolse.

    Lontana dal grosso della flotta spagnola, la Santa Ysabel versava in condizioni disperate. I soldati, sebbene poco numerosi, superavano i marinai, e assunsero il controllo della nave, decisero la rotta e costrinsero il timoniere ad andare dove piaceva a loro. L’ovvio risultato fu che, dopo una notte terribile passata a curare i feriti, a gettare fuori bordo i morti e a esaminare i danni subiti dal vascello, restarono così indietro che la flotta era a malapena visibile.

    Non c’era acqua dolce, come non c’era polvere da sparo, tranne quella che si trovava nei cannoni carichi sul ponte e nei pochi moschetti sottocoperta. Erano rimasti un centinaio di uomini affamati, disperati e abbattuti. Stavano entrando nel Mare del Nord, ma in quel momento si trovavano in acque sempre meno profonde, cosicché vedevano la schiuma gialla là dove le onde si rompevano sui banchi di sabbia. Gli inglesi, minacciosi e truci, erano a un miglio a poppa ma, poiché pescavano più del galeone, non osavano avanzare.

    Verso l’una, fortunatamente, il vento virò a sudovest e, con i brandelli di vele che le restavano, la Santa Ysabel si allontanò dai bassi fondali. Gli inglesi la seguirono nel Mare del Nord, ma sembravano propensi a lasciare che la furia degli elementi finisse il lavoro che loro avevano cominciato.

    Due giorni dopo, oltrepassarono le foci del Forth, e la flotta che li inseguiva tornò indietro. Ancora lontana dai resti dell'Armada, la Santa Ysabel continuò a navigare, con l’equipaggio ridotto alla metà.

    Una prova terribile delle sofferenze per la fame che doveva torturare la flotta, fu data agli uomini della Santa Ysabel la mattina. Il galeone mutilato avanzava tra le carcasse di molte centinaia di asini e di cavalli che erano stati buttati fuori bordo durante la notte per conservare l’acqua per gli uomini.

    La Santa Ysabel continuò quell’inseguimento disperato, in mezzo a una burrasca che andava aumentando. Oltrepassarono le Orcadi, dalle coste flagellate dai marosi, con un tempo sempre peggiore, e si imbatterono in altri due galeoni ridotti nelle loro stesse condizioni. Dagli altri appresero che la flotta si era separata e che ogni vascello navigava da solo. I tre galeoni superarono le selvagge coste occidentali delle Ebridi, si dispersero nuovamente durante una tempesta violenta e, con solo quattordici uomini ancora vivi, la Santa Ysabel si diresse verso l’Islanda.

    Gli altri due galeoni si frantumarono contro le scogliere di Connaught, e quelli dell’equipaggio che sfuggirono ai pugnali e alle asce dei selvaggi irlandesi allettati dal bottino, furono impiccati dalle truppe inglesi che erano di guarnigione su quella costa.

    Il cielo era buio tutt’intorno alla Santa Ysabel. A babordo, in lontananza, una vampata di luce rossastra illuminò le nubi. Dopo qualche secondo, un rombo echeggiò sulle acque scure. Da qualche parte un comandante, piuttosto che essere catturato o dover naufragare sulle coste inospitali, doveva aver gettato una torcia nel deposito delle polveri ed era colato a picco con tutti i suoi sogni di conquista.

    Leon Gunnar era appoggiato alla murata, indebolito dalla fame e dalla sete. Si chiedeva se quei morti sconosciuti fossero più felici in mare o solo più tranquilli di prima che l’esplosione del deposito delle polveri li avesse privati di tutti i problemi terreni. Questo dubbio che gli ossessionava la mente da giorni, gli impediva di porre termine alle sue sofferenze in mare.

    Per lunghi giorni e lunghe notti terribili, disperate, il galeone aveva continuato a navigare, mentre da sotto coperta arrivavano le grida infernali e le imprecazioni provocate dal delirio della febbre. Leon era grato che, alla fine, la nave si fosse liberata di quell’orrore.

    Navigavano a pelo dell’acqua, visto che poche ore prima si era aperta una falla. Mentre i sopravvissuti andavano alla deriva verso le coste irlandesi, Leon analizzava con indifferenza quale sarebbe stata la sua morte. Sarebbero affondati prima di fracassarsi contro le rocce della Sligo Bay? Non gli importava molto: la fine sarebbe stata la stessa in entrambi i casi, o almeno così sembrava.

    Gli ufficiali erano morti da molto tempo, e molti dell’equipaggio erano morti nella lotta disperata per tornare a casa: erano morti per puro esaurimento e affaticamento. Per quattro giorni, un Secondo Ufficiale era stato comandante del galeone. Per quattro giorni e quattro notti non aveva dormito. La mattina del quinto giorno — ricordò Leon — il Secondo Ufficiale aveva guardato con gli occhi iniettati di sangue il sole che sorgeva, aveva sorriso misteriosamente a qualcosa che vedeva solo lui, era salito sulla murata e aveva camminato a braccia aperte verso il sole e verso quell’amico il cui nome era Morte.

    Lontano, a poppa, nel deserto di acque agitate e scure, splendeva una luce: tremolava e ondeggiava, come se rispondesse alla lanterna di ferro attaccata all’alta poppa intagliata della Santa Ysabel.

    Leon corse a poppa, sollevò la lanterna e la fece oscillare. Il pensiero che fosse un vascello spagnolo fu subito vanificato quando, flebile e attutito dalla lontananza, arrivò un grido in inglese al di sopra degli spruzzi di spuma che seguivano l’alta poppa.

    Leon buttò la lanterna in mare e corse a prua dove gli uomini esausti lavoravano alle pompe. Colpiti dalle violente raffiche di vento e dalla pioggia sferzante, alzarono tutte le vele rimaste, e navigarono un po’ più in fretta verso la pericolosissima costa.

    Quando sorse il sole, la Santa Ysabel non era altro che un relitto: un altro albero era crollato, e delle vele restava solo qualche brandello. Terribilmente vicina e minacciosa, l’inseguiva una corvetta, un’imbarcazione piccola, ma carica di cuori intrepidi. Il suo comandante, arrivato tardi per la battaglia di Gravelines, aveva giurato di tornare indietro solo dopo aver affondato un galeone. Alla fine aveva scorto la preda da lungo cercata, ma a un quarto di lega di distanza. Con costanza, il piccolo Vindictive si era accostato al titano e, un’ora dopo l’alba, aveva fatto fuoco. Il terzo colpo, cui la Santa Ysabel non aveva risposto, aveva fracassato il timone del galeone e l’aveva azzoppato come un grande elefante ferito.

    Il vascello spagnolo oscillò e con la prua colpì il ventre dell’onda. Sbandò quindi violentemente, e la schiuma spumeggiò intorno ai monconi degli alberi.

    Gli inglesi gridavano e si avvicinavano. Nella mischia, una palla di cannone colpì in pieno la Santa Ysabel, aggiungendo una nuova minaccia per i pochi sopravvissuti. Attraverso questo squarcio, l’acqua si riversò nella stiva da una miriade di falle che si chiudevano e si aprivano a seconda della grandezza delle onde.

    Il Vindictive si accostò a una fiancata. Un marinaio, legato sulla cima dell’unico albero con una decina di moschetti accanto a sé, dal barile che fungeva da coffa di combattimento, colpiva uno alla volta gli uomini sudati ed esausti che lavoravano alle pompe. Da differenti punti del ponte partì in risposta una scarica di colpi, ma nessuno ebbe effetto. Il fuoco di risposta cessò poco dopo, perché la polvere da sparo era finita.

    Sospettando un trucco, la corvetta arretrò e lanciò una palla incatenata contro un pennone, che cadde schiacciando due uomini e nascondendo sotto la vela Leon Gunnar. Questi si sentì avviluppato da un groviglio soffocante di corda che mordeva e pungeva come uno staffile d’acciaio. Un nodo della corda gli si strinse intorno alla gola, ma la pressione dolorosa fu veramente breve perché spari, grida, il fischio del vento e il rombo del mare, si unirono in una solenne nota d’argento, e il silenzio e l’oscurità si accesero di fiamme.

    Gli inglesi si avvicinarono di nuovo, mentre il marinaio sull’albero, avvolto dal fumo, faceva oscillare un oggetto sibilante al di sopra della testa. Alla fine lo lanciò sul ponte del galeone. Il vaso di terracotta pieno di materiale infiammabile si ruppe e sparse il suo contenuto letale che esplose sotto una pioggia di sabbia bagnata di aceto che era stata preparata nel timore di un attacco del genere.

    Poi, con grande stupore di tutti, una folata di vento e un’ondata cospirarono per far fracassare il Vindictive, troppo vicino, contro la fiancata frastagliata della Santa Ysabel. L’imbarcazione più fragile fu schiacciata.

    Qualche inglese, aggrappandosi agli intagli ornamentali, ai cannoni e alle catene, riuscì ad arrivare alle murate. Un’onda ne trascinò tre in mare, ma cinque riuscirono a raggiungere il ponte spagnolo.

    Nove uomini spauriti e insanguinati, e gli ultimi sopravvissuti della Santa Ysabel, con la follia negli occhi arrossati, si fecero loro incontro. Le spade incontrarono i pugnali: esplose un moschetto. Uno spagnolo soffocò quando i denti di un inglese moribondo addentarono la sua giugulare. I suoi calcagni batterono una o due volte sul ponte fracassato, poi solo il ruggito delle onde si sentì sul galeone che affondava.

    Era di nuovo notte, quando un’onda gigantesca irruppe attraverso un foro nelle murate, entrò e uscì dagli ombrinali, e bagnò di acqua ghiacciata la

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