Moni

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Moni
Nomi alternativiDjonggunu, Jonggunu, Migani
Luogo d'originePapua
Popolazione20000[1] – 25000[2] persone
LinguaMoni
ReligioneCristianesimo, animismo

I Moni, anche chiamati Djonggunu, Jonggunu o Migani,[1] sono un gruppo etnico che vive sugli altipiani ad est del maggiore dei laghi Paniai, nella provincia autonoma indonesiana di Papua, sull'isola di Nuova Guinea.

Un primo contatto con i Moni è stato probabilmente stabilito dalla spedizione congiunta americana e olandese del 1926 guidata da Micheal Stirling; nella sua relazione, uno dei componenti usa per indicare un vicino gruppo etnico il termine Ndani, di origine Moni, per la prima volta.[3] Il primo incontro documentato avvenne per merito del funzionario olandese Writser Jans Cator,[4] che nel 1937 raggiunse il villaggio di Kugapa.[2] Nel 1939 il governatore designato, Jean Victor de Bruijn, raggiunse il villaggio di Enatorali, sui laghi Painai;[5] nei successivi cinque anni apprese molte cose sui Moni, che descrisse nei suoi documenti come un popolo fiero, dignitoso, riservato e superiore ai confinanti nell'arte della guerra. Al termine della seconda guerra mondiale nei loro territori cominciarono a stabilirsi diverse missioni.[2]

Il termine Moni deriva probabilmente dal termine usato per definire questa popolazione dal vicino gruppo etnico degli Ekari; i Moni chiamano sé stessi Me e gli appartenenti alle loro tribù Migani, che significa “la gente vera”.[6]

Vivono in piccoli villaggi abitati dalle 10 alle 60 persone, a poca distanza gli uni dagli altri. La loro sussistenza è basata sulla coltivazione della patata dolce, del taro e di altri meno importanti vegetali; l'allevamento dei maiali costituisce anch'esso una delle principali occupazioni. Vivono in case formate da palizzate di legno e coperte da cortecce d'albero.[6]

Gli uomini indossano un astuccio penico; gli individui in età di matrimonio cominciano a portare una cartella, indossata sul lato destro, nella quale ripongono sigarette, amuleti e conchiglie. Si adornano con collane con denti di cane o zanne di cinghiale, e nelle cerimonie indossano braccialetti di corda e si dipingono i volti. Tradizionalmente le donne non sposate portano un gonnellino di corteccia; quelle sposate coprono natiche e genitali con due o tre gonne di corde cucite tra loro con un ago d'osso. I seni sono in genere coperti da denti di cane o da altri ornamenti. Gli indumenti di foggia occidentale sono però sempre più largamente usati.[6]

asce e coltelli in metallo importati dagli occidentali hanno lentamente sostituito gli strumenti tradizionali in pietra; i Moni portano per cacciare archi in legno. L'uso della lancia, al contrario di quanto avviene presso i vicini Dani, non è testimoniato.

La società è divisa in clan patrilineari, i cui membri non possono sposarsi tra di loro. Il legame di solidarietà tra clan non è però forte quanto quello familiare o quello di affinità.[6]

La lingua Moni è inserita nel raggruppamento di famiglie trans-Nuova Guinea, e più precisamente nella famiglia delle lingue dei laghi Wissel-Kemandoga, assieme ad altri idiomi come l'Ekari e il Wolani.[7][8] Si stima che la lingua sia parlata da circa 20000 persone.[1]

  1. ^ a b c (EN) Moni, su ethnologue.com, Ethnologue. Languages of the World. URL consultato il 3 gennaio 2014.
  2. ^ a b c Pickell.
  3. ^ (EN) Karl G. Heider, The Dugum Dani: A Papuan Culture in the Highlands of West New Guinea, Chicago, Aldine Publishing, 1970, p. 303, ISBN 9780202369587.
  4. ^ Cator era partito da Fakfak per trovare un punto in cui stabilire un posto di polizia all'interno dell'isola. Vedi de Beer, p. 20
  5. ^ de Beer, p. 20.
  6. ^ a b c d (EN) Bernard Otto van Nunen, The community of Kugapa (PDF), Irian. Bulletin of Irian Jaya Development. University of Cenderawasih. Vol. II. N° 2, giugno 1973. URL consultato il 3 gennaio 2014 (archiviato dall'url originale il 16 ottobre 2012).
  7. ^ (EN) Language Family Trees. Trans New Guinea, West, Wissel Lakes, su archive.ethnologue.com, Ethnologue. Languages of the World. URL consultato il 3 gennaio 2014 (archiviato dall'url originale il 3 gennaio 2015).
  8. ^ (EN) Merritt Ruhlen, A Guide to the World's Languages: Classification, Stanford University Press, 1991, p. 356, ISBN 9780804718943.

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