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COMMA 22
Ridendo sulla disfatta dell’esistenza. Serge di Yasmina Reza
Teresa Lussone
«Non è il massimo dell’allegria questa storia» dice Serge. «Il massimo dell’allegria è andato. Ma possiamo ancora ridere»,
risponde Jean, il fratello. Non c’è niente di allegro, eppure Serge, l’ultimo romanzo di Yasmina Reza pubblicato da
Adelphi nella traduzione di Daniela Salomoni, è esilarante. E sconveniente. Ma esilarante proprio perché
sconveniente. Si ride di tutto: di una pancia debordante, di una sacca del catetere che penzola, di una dentiera che si
stacca, di un oncologo che prescrive la cyclette a una malata terminale, di un’ebrea che si fa cremare, di un viaggio ad
Auschwitz «per farsi spennare dai polacchi», del feticismo della memoria. Yasmina Reza travalica ogni confine tra
comico e tragico, al punto che i suoi testi sono stati definiti osceni, squisitamente osceni per la precisione (Serrano
Mañes).
Il romanzo comincia in piscina, con un costume da bagno preso a noleggio e il fastidioso sospetto che non sia mai stato
lavato, con un bambino che sguazza nella vasca lavapiedi convinto che sia una piscinetta e un padre convinto che sia il
Gange. In Serge,genitori e figli non la pensano mai alla stessa maniera. E i loro rapporti sono spesso controversi: abbiamo
padri dispensatori seriali di sberle o puntualmente delusi dai figli (non abbastanza brillanti o non abbastanza belli), madri
iperprotettive che effondono lozioni antizanzare, figli che crescono con la sensazione di essere di intralcio, non si sa bene a
cosa.
La storia è quella dei Popper, famiglia sgangherata retta dalla madre, malata terminale con un debole per
Putin. La sua famiglia d’origine è stata sterminata ad Auschwitz, ma lei sembra essersi sgravata da quell’eredità. O almeno
fa finta di essersene liberata. Ha sostituito il pranzo del sabato con quello della domenica, ha rispolverato un po’ le tradizioni,
conservando solo quello che serve (di Israele, invece, non c’è bisogno, così dice). La domenica si procura il pollo migliore e lo
offre con le verdure surgelate: quanto basta per tenere insieme i suoi tre figli e i loro stralci di famiglia. Il maggiore dà il titolo
al romanzo: Serge, il re delle attività nebulose. È goffo ma si vanta di essere un donnaiolo ed è un genio nello
spaparanzarsi. Poi c’è Jean, il fratello di mezzo, ovvero il tipo del costume a noleggio. Avrebbe voluto una famiglia perfetta
ma non ci è riuscito. E infine, Nana, la figlia minore, la cocca di mamma, una femmina di classe secondo il padre. Ha sposato
Ramos Ocha, un iberico venuto da chissà dove assieme al quale si sente «fieramente pezzente» (il padre non ha retto il colpo
ed è morto un anno dopo il loro matrimonio).
Alla morte della madre il matriarcato crolla. I fratelli non sono in grado di continuare a tenere in piedi la baracca e
scoprono il paradosso della famiglia: quella «connivenza primigenia» che i familiari conservano sebbene non siano né così
simili né uniti (che poi è lo stesso paradosso su cui in Arte si regge l’amicizia). Le relazioni familiari sono cariche di
conflitti, dissapori, risentimenti, malintesi, cattiverie persino, eppure quando compare una «macchia» al fegato o
ai polmoni, ci si predispone improvvisamente a una tregua.
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Al centro del romanzo c’è un viaggio ad Auschwitz che i due fratelli e la sorella intraprendono per
assecondare un capriccio di Joséphine, la figlia di Serge (uno dei tanti capricci, al pari del corso di sopracciglia).
Diversamente da ogni aspettativa, la visita al campo diventa il momento della resa dei conti: i personaggi si trovano costretti
a confrontarsi con un doppio fallimento. Da un lato c’è il fallimento individuale che i tre fratelli si rinfacciano l’un
l’altro (ma del resto, «quale vita non è un fallimento?»). Dall’altro lato c’è il fallimento di un’intera generazione. Quello di
andare ad Auschwitz era ben più di un capriccio per Joséphine. «Giovane virgulto in cerca di identità» che si interroga sulle
proprie origini, la ragazza si contrappone ai padri e ai nonni che si erano sbarazzati della propria identità arroccandosi dietro
un proposito esistenzialista: «Non si dice abbastanza la leggerezza che procura l’assenza di eredità». Viene in mente Poulou,
il protagonista di Le Parole di Sartre, che si descrive «leggero» dopo la morte del padre. Esattamente come era per il filosofo,
la leggerezza rappresenta la condanna alla libertà dell’uomo gettato nel mondo, costretto a scoprirsi
responsabile delle proprie azioni. Solo che qui, diversamente da quanto vuole Sartre, questa generazione è incapace di
assumersi le proprie colpe, si limita a constatare la propria disfatta addossandone le ragioni alla storia: «Tutti quei bambini,
che spreco, dice, il declino dell’Europa viene da lì. Hanno ucciso l’anima pulsante dell’Europa. Gli ebrei rimasti non valgono
niente. Guarda che coglioni che abbiamo adesso».
Non c’è niente di allegro, ma «i grandi pessimisti» sono i soli con cui si rida, ha detto Yasmina Reza (L’Atelier du roman,
2001). Certo, l’unico riso possibile è quello «della disfatta dell’esistenza», così lo ha definito, quello che si risolve
nella constatazione della fragilità della condizione umana e che si estende a tutti gli aspetti della vita (ma proprio a tutti, a
dispetto della decenza o del politically correct).
Ma quello che rende Serge seducente, ovvero quel suo essere tanto sconveniente quanto esilarante, è allo stesso tempo quello
che rende la sua traduzione un’operazione complicata. Oggi più che mai, non deve essere stato facile resistere alla
tentazione di epurare o anche solo di limare leggermente un testo politicamente scorretto, persino spietato
talvolta (il ritardato… il nazista alla reception… gli ebrei antisemiti, i peggiori…). Inoltre, non c’è nulla di più complicato che
tradurre la comicità, ricreare i ritmi serrati e incalzati su cui si fonda, rendere le battute sferzanti, i dialoghi spumeggianti,
riprodurre la varietà linguistica (dall’uccello arrotolato a spirale in poi). Daniela Salomoni affronta brillantemente la sfida, ci
offre un testo che non porta le tracce delle difficoltà, restituisce a Serge il suo vigore e persino tutta la sua squisita oscenità.
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Adelphi
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Yasmina Reza
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