Federico Sollazzo
Tra totalitarismo e democrazia
La funzione publica dell’etica
Nuova edizione
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KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Prima edizione digitale: 2015
In copertina: particolare de La tempesta, di Giorgione (1505-1508) attualmente esposta alla Galleria del’Accademia di
Venezia
ISBN 9788899214142
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Nuova introduzione
Perché pubblicare questo lavoro, la Tesi di Dottorato in Filosofia presentata presso
l’Università Roma Tre, a distanza di qualche anno dalla sua discussione? Le ragioni sono
sostanzialmente due.
La prima, più propriamente scientifica, è perché in quest’opera vengono affronati i più
recenti temi e autori (in particolare di provenienza continentale) della filosofia morale e della
filosofia politica, contribuendo così a delinearne un chiaro ed approfondito profilo e favorendone un
ulteriore approfondimento grazie alla bibliografia ragionata presente al termine del volume, che per
questa pubblicazione è stata ampliata potendo così rappresentare un punto di riferimento per lo
studente e di confronto per lo studioso.
La seconda, è che il tema di fondo della parte propositiva di questo lavoro consiste
nell’identitificazione di quella che in queste pagine cerco di definire come una nuova forma di
totalitarismo post-totalitario. Ovvero, un sistema coordinato e unificato da una forma di razionalità
impersonale, che ritengo essere la razionalità strumentale, tipica della forma più avanzata della
società occidentale, ergo una problematica che attraversa da cima a fondo le democrazie occidentali
liberali. Si può discutere su come definire tale fenomeno, ovvero se il termine di nuovo
totalitarismo o totalitarismo post-totalitario sia adeguato o meno, ma non credo si possa mettere in
questione la presenza del fenomeno in sé che quindi, per la rilevanza che ha, necessita di essere
interpretato e decifrato come una vera e propria, nuova, categoria filosofica.
Si badi, a scanso di equivoci, che con questo non si sta auspicando, quale possibile via di
fuga, un ritorno al passato. Sia perché, concettualmente, il mito dell’età dell’oro è reazionario, come
tutti i miti. Sia perché, praticamente, i risultati del passato appaiono obsoleti di fronte all’attuale
livello di sviluppo intellettuale e materiale, quando non anche viziati nel merito. L’intento è invece
quello di decifrare la struttura pratico-operativa e ontologica della società occidentale. Operazione
preliminare che si pone come una conditio sine qua non sia per poter andare in cerca di una
possibile soluzione ai suoi mali, fermo restando che rimane aperta la questione della migliorabilità,
intesa come trascendimento, o della definitiva ipostatizzazione dell’esistente, sia per poter
lucidamente analizzare cosa accada nella sua ibridazione con altri modelli, sostanzialmente
provenienti dal passato (come oggi accade emblematicamente in realtà quali, ad es., la Russia e
ancor più la Cina).
Come sintesi filosofica di tale prospettiva, ritengo essere utile un mio recente articolo che,
come ulteriore arricchimento del volume in occasione della presente pubblicazione, ripropongo qui
di seguito.
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Quando una crisi non è un'opportunità: la coincidenza con
ciò che si vorrebbe superare1
Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un
confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca
M. Heidegger, L’abbandono
Ritenere – come da più parti avviene, spesso anche a prezzo di inflazionamenti banalizzanti
del discorso – che oggi si viva in un sistema di manipolatoria eterodirezione della vita, di
predeterminata produzione della stessa, significa ritenere che vi sia l’esercizio di una pressione
sull’individuo che gli impedisce di poter essere autodeterminato, libero, autentico. Ma ciò significa
ritenere anche – ed è questo che vorrei qui problematizzare – che tale individualità sia ancora,
almeno potenzialmente, eccedente rispetto alla situazione data, poiché proprio nello scarto dal già
dato si colloca la sua autonomia; è ancora possibile affermare questo scenario? O siamo oggi in una
nuova fase di eterodeterminazione dell’individualità in cui non si dà più lo scarto tra questa e il
sistema che la contiene? In tali termini non è più necessaria alcuna operazione di colonizzazione
dell'individualità, di produzione della soggettività, poiché questa già aderisce completamente al
sistema in cui è posta.
Innanzitutto vorrei prevenire alcuni possibili fraintendimenti. Sollevando il problema
dell’eterodeterminazione non intendo né avallare teorie complottiste (buone per chi desidera
spiegazioni fumettistiche della realtà), né intendere che l’optimum sia l’autonomia assoluta, la totale
libertà da tutto e tutti, questa è infatti una condizione esistenziale, oltre che impossibile poiché la
vita è sempre condizionata da ed in contingenze specifiche, non auspicabile in quanto indica verso
l’eliminazione del mondo (Benjamin asseriva fosse una posizione “di destra”).
Con eterodirezione intendo invece una determinazione della vita che non viene lasciata
libera di espandersi autonomamente – fermo restando che un’autodeterminazione si esercita sempre
dentro ineludibili contingenze relazionali che la influenzano – ma che è indirizzata, vincolata verso
forme e modalità prestabilite.
Terminologicamente, va inoltre notato come per condurre tale argomentazione sia preferibile l’uso
dell’articolo indeterminativo: una autodeterminazione. Questa infatti non è mai l’unica possibile ma
sempre una possibile autodeterminazione, dato che la sua forma (individuale e collettiva) è –
dovrebbe essere; lo è ancora? – il risultato di una scelta che si esercita di volta in volta e non un
assoluto da replicare eternamente uguale a se stesso.
Tornando alla eterodeterminazione così come qui la intendo, la si può allora caratterizzare
come l’esito influente dello spirito dei tempi dentro cui, volenti o nolenti, consapevoli o meno, ci si
trova a vivere; heideggerianamente come il portato dell’Essere, che infatti non è semplicemente
congiunto al- ma è tempo.
Se questo è il quadro di riferimento, dobbiamo allora chiederci chi sia l’Essere della nostra
epoca, il soggetto che determina la vita di chi vive in questo tempo. E, a dispetto delle
semplificazioni che mass-media e gruppi di potere continuamente propagandano, tale soggetto non
lo si troverà né nella dimensione politica né in quella economica. Inoltre, non si tratta neanche di un
soggetto identificabile. Esso è infatti impersonale. È la razionalità strumentale – come hanno
focalizzato per primi, ciascuno nei propri termini, gli autori della prima Scuola di Francoforte,
Adorno, Horkhemier e Marcuse, ma anche Benjamin e Pasolini e ovviamente Heidegger, e si badi
che questo tema era già all’opera all’interno del nazismo se Arendt descrive Eichmann non come un
mostro ma come un egregio professionista, un perfetto funzionario funzionale al suo sistema di
1
Pubblicazione originale in «LiberaParola», 27/05/2014.
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riferimento, proprio come l’odierno manager.
L’avvento della razionalità strumentale, evidentemente un precipitato dello sviluppo
tecnologico da cui non siamo stati in grado di impermeabilizzarci, offre una conferma (nefasta)
della hegeliana dialettica servo-padrone, che respinge ogni Marx renaissance. Infatti, l’apice dello
sviluppo del capitale è determinato dal fatto di essere il capitale stesso l’Essere: il capitale
schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone,
la tecnica il servo. Un servo che poi (peraltro in tempi molto rapidi) hegelianamente prende il
sopravvento sino a diventare il padrone, heideggerianamente l’Essere, e il capitale il servo. Basti
pensare al fatto che oggi, senza un adeguato supporto tecnologico, il capitale non si muove. Ecco
perché la sola critica dell’economia politica non è più in grado di restituire la nostra epoca. È oggi
indispensabile una critica della razionalità strumentale.
Bene, a proposito di quest’ultima si è detto che è impersonale e al tempo stesso dominante.
E tuttavia è impersonale se la consideriamo come una forma di razionalità in sé conclusa, ma non lo
è se consideriamo i suoi rappresentati e agenti, gli oggetti tecnologici. Sono questi che,
circondandoci, continuamente ripetono i suoi principi. Trova così conferma sia la teoria pasoliniana
della pedagogia delle cose che la concezione foucaultiana della microfisica del potere, inteso come
rete di relazioni. Si può così ora specificare meglio la natura di questa eterodeterminazione: essa dà
luogo ad un controllo eteronomo non solo nella misura in cui preorienta atteggiamenti,
comportamenti, ragionamenti, bisogni e desideri – repetita iuvant: non semplicemente interagisce
con-, ma pre-orienta l’uomo, ergo produce individui – ma anche e soprattutto nella misura in cui
l’uomo non ha più alcun controllo su tale preorientamento, coincidendo ormai la sua individualità
con la razionalità strumentale; egli quindi non è più il soggetto della storia, del tempo che abita
(Galimberti, Severino) ma, in un rovesciamento hegeliano, l’esecutore del nuovo Essere
(nonostante, o meglio proprio in virtù del fatto che non problematizzi tale questione). La razionalità
strumentale, calcolante, efficientista esercita dunque un indirizzamento eteronomo sia in un senso
verticale (dominio) che orizzontale (relazioni), la sua onnipervasività è così completa. La sua
definitività sta nel fatto che, a differenza delle precedenti fasi della civilizzazione occidentale, essa
produce rapporti sociali immodificabili, dunque, antropologicamente, un irreversibile nuovo tipo
d’uomo, che non ha più le stesse caratteristiche del precedente e che non occupa più la stessa
posizione del precedente – da empatico ad anaffettivo, da soggetto della storia ad appendice del
nuovo soggetto della storia. Non si tratta quindi di una fine della storia tout court (Fukuyama), ma
della fine di una certa storia, quella di un certo vivente e dell’inizio di una certa altra storia, di una
“Dopostoria” (Pasolini).
A scanso di equivoci, non si tratta qui certamente di essere tecnofobi né di aspirare al ritorno
a condizioni di vita pre- o paleo-tecnologiche, ma di fissare con lucidità quel certo tipo di relazione
che intratteniamo con la razionalità tecnologica e che ne fa l’Essere del nostro tempo. Tale relazione
è qui sotto accusa, ovvero, il soggetto ad essa assuefatto che la invera lasciandola accadere, e non la
tecnologia in sé.
Ed eccola, brevemente affrescata, la forma di eterodirezione cui siamo assoggettati, che
reifica gli individui sotto forma di cliché misurabili e interscambiabili, esecutori di funzioni
(Ghelen) non solo quando svolgono un lavoro – sulla cui natura e scopi finali si è del tutto
deresponsabilizzati: uno strumento esegue e basta – ma anche ed a partire dalla complessiva
personalità, che altro non è che l’indossare lo stereotipo di un personaggio: la madre e donna, la
donna in carriera, il maschio atletico, il capitano d’industria (prima) o il manager rampante (poi),
l’intellettuale, nelle varianti del serioso e del faceto, la giovane coppia che risolverà ogni
vicissitudine con l’amore, ecc., il tutto integrato con una modificazione architettonico-urbanistica
finalizzata all’esposizione di tali modelli, con palazzi costituiti da vetrate e open space interni.
Ora – e questo è il punto dirimente – tali condizionamenti sono stati introiettati al punto tale
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che ormai, con un paradosso che è solo apparente, non si può neanche più parlare di introiezione,
perché essa presupporrebbe un’interiorità individuale distinta e autonoma dal mondo esterno, cosa
che oggi non è, essendosi realizzata la coincidenza dell’individualità con le condizioni della propria
eterodeterminazione (ed ecco spiegato il titolo di questo breve intervento). L’eterodirezione
scompare sotto la forma di uno “spontaneo” modo di vivere.
Prova ne sia il fatto che oggi la richiesta più “sovversiva” che viene espressa è quella di non
essere disoccupati e che nel lavoro siano contemplati i diritti sindacali. Se tale richiesta non è
associata alla comprensione dello scenario in cui è dato vivere e alla tensione al trascendimento di
questo, altro non è che la richiesta di panem condito con un po’ di circenses. L’esito di tale
dinamica – che continua a sfuggire a chi professando un illuminismo, un liberalismo, un
progressismo astorico, non si avvede di come essi siano oggi diventati vettori di conformismo – è
che richieste originariamente progressive, perché dirompenti in statu quo ante, vengono codificate
in diritti che veicolano conformismo, sotto forma di adattamento in statu quo nunc. In un regime di
conformismo, la realizzazione di diritti che consentono l’accesso a tale regime non fa altro che
promuovere chi li ottiene al rango di “conformato”. A conferma di ciò, si osservi come la lotta, oggi
tanto à la page, per i diritti dei non eterosessuali – la cui discriminazione è un atto di barbarie, ma
non è questo il punto dirimente –, sia divenuta nient’altro che un modo per annettere anch’essi
all’ordine stabilito delle cose, con la peculiarità che sono essi stessi, proprio come Mamma Roma di
Pasolini, a supplicare per la loro stessa Anschluss.
Declinando la questione in termini politici, si osserva che il segno che garantirebbe della
bontà della società esistente è il suo (presunto, poiché solo formale) pluralismo. La pluralità dei
partiti politici, dei mezzi d’informazione, dei comportamenti possibili, delle offerte
d’intrattenimento, costituisce il mantra delle democrazie occidentali liberali con il quale si vuole
affermare la loro radicale discontinuità rispetto ai totalitarismi storici. Peccato che ci si dimentichi
sempre di osservare come il pluralismo misuri la quantità di un qualcosa, non la sua natura, non la
sua qualità. Se si osservasse quest’ultima, invece, non sarebbe difficile notare come le alternative
pluralistiche offerte dall’occidente liberale altro non sono che una lista di cliché, dunque un
pluralismo meramente formale e nominale che copre – neanche tanto bene, eppure in maniera
bastante per diventare ideologia – un’unidemensionalità sostanziale. Ne deriva che questa specie di
cultura democratica favorisce l’eteronomia sotto la specie dell’autonomia, e che un tale tipo di
pluralismo in realtà milita contro l’autodeterminazione. Ecco perché appare necessario traslare il
concetto di totalitarismo da un piano storico ad uno filosofico, rendendolo una categoria concettuale
con cui si descrive (indipendentemente dalle sue forme storiche) una determinazione eteronoma
della presunta autodeterminazione, presunta, perché evidentemente in questi termini non è più tale.
Certamente si apre qui il problema di se e come possa allora esercitarsi
un’autodeterminazione – ed anche il problema del se esista una possibile autodeterminazione o se
invece, secondo la provocazione spinoziana di Zizek, “siamo liberi solo nella misura in cui non
riusciamo a cogliere le cause che ci determinano”.
Varie risposte sono state date, ognuna nei suoi propri termini: il dialogo solitario con se
stessi, con il proprio daimon (Socrate), il giudizio di fronte al tribunale della propria ragione
(illuminismo) e sensibilità (romanticismo), l’etica dell’epimeleia seauton, della cura di sé
(Foucault), l’eccedenza dal già dato, che promette la bonheur (Marcuse), la ricerca dell’unicità e
dell’irripetibilità. Tutte queste prospettive sono puntate in direzione della comprensione/costruzione
di se stessi, ergo dell’autodeterminazione. E tuttavia mi sembra che esse condividano un medesimo
rischio (del quale, a dire il vero, mi sembrano ben consapevoli Marcuse e Pasolini, che infatti hanno
portato a tema la questione del “rifiuto”): la mancata considerazione di cosa accade quando tali
progetti etici sono condotti con “materiale da costruzione” viziato senza, peraltro, che il costruttore
se ne avveda – come accade proprio nella nostra epoca, ad opera della razionalità tecnologica che
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predetermina il campo e gli strumenti del ragionare. Ma, a conferma del fatto che qui non si tratta
certo di essere tecnofobi, è da affermare con forza come questo problema si presenti quale che sia il
cosiddetto spirito dei tempi, sebbene nella sua connotazione odierna abbia raggiunto, a causa di una
certa relazione che intratteniamo con questo, il massimo livello di pervasività. Come uscire da
questa impasse?
Esercitando il negativo (il rifiuto, il no). Infatti, perseguendo la realizzazione di
un’individualità, di una soggettività, di un’alterità in termini affermativi, si è costantemente esposti
al rischio di continuare a muoversi dentro il perimetro dell’ordine stabilito delle cose, che ha ormai
assorbito anche le figure della differenza – si pensi al cliché del ribelle o del rivoluzionario, ridotti a
personaggi (accessoriati di tutto: dall’abbigliamento al modo di portare barba e capelli, dal
linguaggio ai consumi, dai divertimenti alle idee da contestazione/conversazione), maschere che
devono semplicemente essere indossate. Diversamente, con un movimento di sottrazione dal, con
una dinamica di rifiuto del paradigma affermativo vigente, qualsiasi esso sia, si accede ad un
territorio di pura negatività, unica dimensione in cui è possibile generare qualcosa di originale e
autentico. Per evitare i cliché delle differenze ormai integrate al sistema, e praticare una negatività
che sia effettivamente tale, l’atteggiamento “etico-esistenziale” da adottare verso l’esistente lo
definirei come quello di una consapevole indifferenza.
Certo, anche in un simile scenario nulla garantisce che quel che si sia creato per tal via non
venga poi ricondotto all’ordine stabilito delle cose, riducendolo in un cliché – basti vedere le
iconizzazioni standardizzanti di intellettuali che hanno invece sempre combattuto contro dinamiche
di omologazione massificante, di produzione seriale di soggettività, da Pasolini a Foucault – ma ciò
non annulla la validità di questo percorso, ma testimonia di come, da un lato, questa traiettoria sia
ripercorribile da ogni generazione, anzi da ogni nuovo nato e, dall’altro, di come la dimensione
dirimente da cui tutto, nel bene e nel male, prende corpo sia quella dell’individuo.
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Introduzione
Originariamente nato come una ricerca vertente, attraverso una prospettiva pluridisciplinare,
sul concetto di totalitarismo, il lavoro si è poi (quasi inevitabilmente) espanso, allargandosi a quelle
tematiche che costituiscono la naturale prosecuzione di quella prima riflessione. Il concetto di
totalitarismo, infatti, richiama ineluttabilmente quello del suo, almeno apparente, opposto: la
democrazia; sicché, il ragionamento sull’uno apparirebbe menomato senza quello sull’altra. A sua
volta, la riflessione sulla democrazia apre il campo alle più recenti argomentazioni etiche, volte alla
ricerca di una pacifica, armoniosa e soddisfacente convivenza umana, al punto tale che il passaggio
dall’analisi dell’una (la democrazia) a quella delle altre (le nuove correnti etiche), appare come la
declinazione dello stesso discorso, quello sulla convivenza umana, nei suoi due complementari
versanti: quello politico e quello morale. Infine, si tenterà di far confluire questo percorso fatto di
categorie concettuali necessariamente inanellate le une alle altre, in una proposta filosofica,
sinteticamente definibile con la formula di “sintesi disgiuntiva”, tesa all’individuazione di un
possibile percorso di pacificazione sociale, basato su di una “moralità minima condivisibile”,
affondante le sue radici nella biologia umana e nelle emozioni.
La scelta del totalitarismo (investigato nel suo profilo teorico e pratico, filosofico e storico)
come punto d’avvio della ricerca trova la sua motivazione nel fatto che esso rappresenta la prima
forma di regime sociale repressivo a darsi in un momento storico (l’inizio del XX sec.) in cui tale
repressione non risulta più motivabile e comprensibile nei termini di lotta per la sopravvivenza;
conseguentemente, le motivazioni di una simile oppressione e coercizione necessitano di essere
chiarite. Ora, confrontando le analisi di Hannah Arendt (concentratasi quasi esclusivamente sul
modello totalitario del nazionalsocialismo) con gli studi di “teoria critica della società” della prima
Scuola di Francoforte (sostanzialmente riconducibili ad autori come Theodor W. Adorno, Max
Horkheimer ed Herbert Marcuse, osservanti prevalentemente le occidentali società del “benessere”),
si nota come la prima si dedichi alla descrizione delle caratteristiche pratiche, delle manifestazioni
storiche tramite le quali si è mostrato il fenomeno del totalitarismo novecentesco (imposizione
violenta di un’ideologia sulla realtà, presenza di un partito unico, controllo dei mezzi di
comunicazione ed eliminazione fisica dei dissidenti), comprendendo in esse anche le
“manifestazioni psicologiche”, come la perdita della facoltà di giudizio, mentre i secondi si
concentrino sulle ragioni filosofiche che rendono possibile un qualsiasi sistema repressivo
(soffocamento delle facoltà psico-fisiche umane, trionfo della razionalità strumentale, del
consumismo e dell’industria del divertimento e dell’informazione, “unidimensionalità”),
indipendentemente dalle modalità contingenti tramite le quali si manifesta tale repressività.
Pertanto, l’integrazione di queste due diverse prospettive consente di osservare il fenomeno del
totalitarismo/autoritarsimo nella sua totalità: gli studi arendtiani rivelano come il totalitarismo si è
originariamente manifestato, quelli francofortesi in che cosa consista la sua essenza. Inoltre,
continuando a seguire il percorso della riflessione filosofica occidentale sulle forme moderne e
contemporanee della convivenza umana, si devono tenere presenti due autori italiani quali Pier
Paolo Pasolini ed Antonio Negri che, seppure da punti di vista diversi (morale l’uno, politico
l’altro), denunciano l’avvento di nuove forme di mali sociali che designano, rispettivamente, come
l’era del “nuovo fascismo consumistico” e dell’Impero.
A quest’altezza del discorso, dopo avere sviscerato le forme ed i contenuti della malattia
sociale par excellence dell’era contemporanea, ci si può dedicare all’analisi della sua alternativa,
formalmente identificata con il termine di democrazia, che racchiude in sé un’amplissima gamma di
significati, sfumature e contenuti, per descrivere i quali si è qui deciso di seguire un determinato
percorso di riflessione. Non casualmente, il primo passo consiste nel chiarire l’antico ed originario
senso della pratica della democrazia, così come essa era vissuta nelle pòleis greche: condivisione di
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parole e azioni fra uomini, basata sul metodo della partecipazione della più ampia parte possibile
dei cittadini ai processi decisionali e della persuasione, al fine, però, non di tanto di contribuire
all’amministrazione della cosa pubblica, quanto piuttosto di lasciare nella storia un segno duraturo
del nostro passaggio nel mondo; l’autore di riferimento sarà qui la Arendt. Successivamente, si
tratterà dello status che la democrazia dovrebbe darsi per potersi considerare tale: quello
sinteticamente definibile come “società aperta”; termine coniato da Karl R. Popper. Infine, si
vedranno le modalità con le quali, una volta venutasi a creare un’autentica democrazia, la si possa
difendere da qualsiasi rischio degenerativo, in particolare da un pericolo endogeno: quello di una
sua dissoluzione dall’interno; tema centrale nell’opera di Norberto Bobbio.
Ora, nella filosofia contemporanea le proposte relative all’edificazione di una società ideale
(o quantomeno migliore di quella esistente) non si muovono esclusivamente su un piano politico,
che abbiamo visto fare principalmente capo al termine di democrazia, ma anche su uno morale,
imperniato su concetti chiave come, ad esempio, quelli di libertà, uguaglianza e giustizia. In tale
versante del ragionamento l’accento è posto non tanto sui meccanismi politici regolanti la
convivenza, quanto sul comportamento che ciascun uomo può adottare relativamente alle dinamiche
della convivenza stessa; anche nell’analisi di tali questioni etiche si è scelto uno specifico percorso
riflessivo. Innanzitutto, appare doveroso prendere le mosse dal movimento di “riabilitazione della
filosofia pratica”: esso infatti ha rinnovato l’interesse della filosofia per le questioni giuridicopolitiche, affrontate però non da una prospettiva “istituzionale”, bensì morale, inerente cioè al
comportamento umano; nonostante l’appartenenza anche di Hans-Georg Gadamer alla
Rehabilitierung, si seguiranno qui le riflessioni di Karl-Otto Apel e, soprattutto, di Jürgen
Habermas. Risulta poi interessante accostare fra loro tre diverse correnti etiche che disegnano un
arco concettuale che va da un estremo al suo opposto, ma non per questo contrario:
l’individualismo, rimandante, ovviamente, a teorie liberali, il neocontrattualismo, che si pone come
un tentativo conciliatorio fra differenti istanze morali, ed il comunitarismo, sorta di “alter ego”
dell’individualismo, esaltante le caratteristiche di ogni singola comunità, in luogo di quelle di ogni
singolo individuo; in questa fase del lavoro gli autori di riferimento saranno, rispettivamente,
Robert Nozick e Friedrich A. von Hayek, John Rawls, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor. Infine,
questa parte del lavoro viene chiusa da due movimenti etici rimandanti a dei veri e propri stili di
vita: la Naturphilosophie, che nasce come monito per le conseguenze delle azioni del moderno
“Prometeo scatenato”, ed il pensiero dell’alterità, proposta di un nuovo modo di relazionarsi al
prossimo; questioni affrontate, rispettivamente, sulle orme di Hans Jonas e del pensiero francese
contemporaneo (Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida).
Si giunge così all’ultima parte del lavoro, quella propositiva, nella quale si vuole evidenziare
come le speculazioni politiche e morali relative all’edificazione ed al miglioramento della società,
per non collassare su loro stesse, necessitino di solide fondamenta antropologiche: solo a partire da
una determinata immagine dell’uomo, si può costruire la dimora a lui più idonea. Si pone quindi il
problema del chiarimento della costituzione antropologica elementare, basilare, contenente cioè
quegli elementi che, relativamente all’essere umano, possono essere considerati universali. Ora,
essendo l’uomo una sorta di allotropo empirico-spirituale, tali “universalizzabili” sono rintracciabili
nella biologia (come sostiene Eugenio Lecaldano, proponente l’edificazione di un’etica su base
biologica) e nelle emozioni (come afferma Martha Nussbaum, che vede nelle emozioni l’origine
stessa dell’etica). In altre parole, ogni uomo è in possesso di necessità e capacità psico-fisiche,
emozionali e fisiologiche, dalla cui soddisfazione dipende sia la sopravvivenza che la realizzazione
di un’esistenza autenticamente appagante. Il riconoscimento di tutto ciò costituisce una sorta di
collante morale, di etica minima condivisa, che, conseguentemente, cancella l’idea del pluralismo
etico (ad una struttura antropologica basilare, corrisponde una possibile etica minima), ma non
quella del pluralismo culturale, inteso come una pluralità di modi storicamente diversi, di
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realizzazione della stessa etica minima. Per decifrare un simile scenario, negli ultimi anni si è
proposto di utilizzare lo strumento concettuale del multiculturalismo, il quale però sembra
contenere in sé un pericolo ed un’imprecisione. Il pericolo, risiede nel fatto che il multiculturalismo
sembra non rappresentare altro che la faccia liberale del fondamentalismo: entrambi condividono la
visione della società come un sistema di ghetti e di logiche identitarie, mediabili solo tramite la
violenza fisica e/o la giurisprudenza. L’imprecisione, consiste nella descrizione inadeguata che
viene offerta dell’attuale scenario globale (e globalizzato), il quale risulta meglio descrivibile con il
termine di “interculturalismo”: correntemente, infatti, non si ha l’esistenza di una cultura accanto ad
un’altra, quanto la presenza di una cultura all’interno di un’altra. Il confronto fra culture diverse
deve allora svolgersi all’insegna di un altro concetto, ovvero quello di una sorta di “sintesi
disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle identità costituisce il trait d’union fra le stesse. In
questa nuova prospettiva l’idea di tolleranza appare antiquata e pertanto sostituita da quella di
rispetto: solo rispettando l’altro si può innescare con lui un’autentica comunicazione in cui l’identità
culturale di ciascuno viene contaminata, inquinata e quindi arricchita da elementi esogeni. Verrebbe
così ad essere preservata sia l’unicità e, conseguentemente, l’universalità dell’etica che la pluralità
(ma non per questo l’incomparabilità) delle culture.
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Cap. I Sul totalitarismo
L’uomo non può essere libero se non sa di essere soggetto alla necessità, perché la sua libertà è sempre guadagnata nei
suoi tentativi, mai pienamente riusciti, di liberarsi dalla necessità
H. Arendt, Vita activa
La violenza e la soppressione vengono promulgate, praticate e difese dai governi democratici e autoritari in ugual
misura e la gente sottoposta a questi governi viene istruita a sostenere tali pratiche come necessarie
H. Marcuse, Tolleranza repressiva
1.1 Per una prima definizione
La lotta per la sopravvivenza è un fenomeno caratterizzante l’intero regno della vita vegetale
e animale, dunque anche l’uomo. Ma se nei secoli precedenti al XX tale fenomeno era motivato
dalla penuria delle risorse per la sopravvivenza, dal XX secolo in poi, almeno nei Pesi cosiddetti del
Primo Mondo, la suddetta motivazione viene meno grazie ai progressi scientifico-tecnologici;
ciononostante è, paradossalmente, proprio in quei Paesi e in quel periodo che compaiono i primi
regimi totalitari. Per questo il totalitarismo è stato scelto come l’emblematico punto d’avvio di un
lavoro teso al raggiungimento del suo opposto: la pacificazione sociale.
Per cercare di definire il fenomeno del totalitarismo nelle sue varie articolazioni e
sfaccettature, è necessario investigarne le origini storico-filosofiche, l’humus che ne favorisce
l’insorgere e gli eventuali “parametri” che ne consentono di riconoscere la presenza. A tal fine le
analisi di Hannah Arendt, che fu tra i primi autori ad esaminare frontalmente l’argomento,
costituiscono un imprescindibile punto di riferimento.
Nell’opera Vita activa la riflessione della Arendt raggiunge l’apice della critica della
modernità, dando un più ampio respiro alle tematiche già affrontate nella precedente, e forse più
nota, opera Le origini del totalitarismo, estremamente legata ai caratteri tipici del
nazionalsocialismo. In Vita activa la Arendt compie un’analisi fenomenologica delle condizioni
strutturali dell’esistenza umana, delle sue attività peculiari e delle dimensioni in cui queste si
svolgono. Per la Arendt le attività fondamentali che caratterizzano la condizione umana sono il
lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro costituisce l’insieme delle attività necessarie a garantire la
sopravvivenza biologica e l’essere che lavora a questo scopo è definito come animal laborans2;
l’opera (che a differenza del lavoro non è prodotta dall’intero corpo in generale, ma
specificatamente dalle mani3) è quella funzione tramite la quale l’uomo «fabbrica l’infinta varietà
delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale»4, e la figura a ciò corrispondente è
quella dell’homo faber; l’azione, caratteristica esclusivamente umana non legata a mere necessità
biologiche e/o istintuali, rappresenta la capacità di iniziare qualcosa che ancora non è in atto:
«Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare […] mettere in movimento
qualcosa»5, e la massima azione umana è l’azione politica che inizia con la nascita ed è costituita da
un insieme di relazioni dirette con gli altri, attuate senza la mediazione di oggetti materiali bensì
tramite il linguaggio, che ne conserva anche la memoria grazie al racconto, l’azione manifesta
quindi la pluralità del genere umano, il fatto che sulla Terra non ci sia l’uomo ma gli uomini6.
2
Cfr. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, e, per un’introduzione generale, biografica e filosofica, E. Young-Bruhel, Hannah Arendt,
Bollati Boringhieri, Torino 1990, S. Forti (cura), Hannah Arendt, Mondadori, Milano 1999, J. Kristeva, Hannah Arendt: la vita, le parole, Donzelli,
Roma 2005, e S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Mondadori, Milano 2006.
3
Cfr. H. Arendt, “Il lavoro del nostro corpo e l’opera delle nostre mani”, in Ibidem.
4
Ibidem, p. 97.
5
Ibidem, pp. 128-129.
6
Per la Arendt, l’azione politica non abbisogna di una fondazione filosofica poiché la politica è essenzialmente condivisione di parole, discorsi e
azioni fra i cittadini al fine di giungere alla più larga partecipazione possibile dei membri della comunità ai processi decisionali; questa concezione è
stata criticata in almeno due aspetti da Jürgen Habermas, per il quale la politica necessita di una fondazione filosofica volta all’edificazione di una
12
Queste tre attività si collocano necessariamente all’interno di una fra le seguenti dimensioni:
la sfera privata e lo spazio pubblico; dimensioni che però hanno ormai un significato distorto
rispetto a quello autentico ed originale che, in passato, possedevano all’interno di quello che per la
Arendt rappresenta un modello ideale di comunità: la pòlis greca al tempo di Pericle7. In tale
comunità, infatti, la sfera privata era percepita come una sorta di male necessario, ovvero come una
limitazione della libertà personale a causa dello svolgimento del lavoro necessario per garantire la
sopravvivenza, mentre lo spazio pubblico era vissuto come il “trionfo della libertà”, come un
ambito autenticamente politico, inteso come quello spazio in cui era possibile agire e parlare
insieme ad altri, lasciando un segno duraturo del nostro passaggio; attualmente invece, la sfera
privata è vissuta come la sfera della privatezza del possesso (proprietà privata) e dell’intimità
(privacy), e lo spazio pubblico si è ridotto nel sociale, inteso come la pubblicizzazione di temi che
in passato erano privati (come gli eventi della nascita e della morte, ed il lavoro per la
sopravvivenza che nel loro intervallo di tempo si svolge). Tali mutazioni sono avvenute a causa
della proiezione del “sociale” sul “politico”: quella che era un’alleanza finalizza alla sola
sopravvivenza (il sociale), si è sostituita all’interazione fra gli uomini finalizzata all’edificazione del
mondo (il politico)8. Conseguentemente la politica viene assorbita dal sociale, si ha un dominio del
sociale al quale vengono delegati compiti che prima erano privati: le funzioni atte alla
sopravvivenza. Questo processo di degenerazione dello spazio pubblico è stato causato, per la
Arendt, dal cristianesimo (in particolare da Tommaso d’Aquino) e dal marxismo; entrambi hanno
infatti alterato il significato greco dello spazio pubblico, riducendolo o a mera contemplazione e
attesa dell’al di là, o alla lotta per l’edificazione di una determinata società terrena, ed hanno inoltre
sostituito le tre attività fondamentali di lavoro, opera e azione, o con quelle di vita materiale (male
necessario) e di vita contemplativa (bene verso il quale tendere), o con quelle di lavoro
improduttivo (che non lascia traccia) e di lavoro produttivo (di beni).
Più dettagliatamente, le critiche della Arendt sono rivolte alla distinzione operata da Karl
Marx (peculiare però, fa notare la Arendt, anche di Adam Smith) fra lavoro produttivo e lavoro
improduttivo, ed il conseguente disprezzo per quest’ultimo. Il lavoro improduttivo viene infatti
considerato da Marx (e da Smith) come un’attività che non introduce nulla nel mondo, non
contribuendo, pertanto, ad arricchirlo e migliorarlo. Ora, per la Arendt, quelle che Marx definisce
come lavoro produttivo e lavoro improduttivo non sono altro che le categorie (proprie della
condizione umana) di lavoro ed opera. Ci troviamo così, dalla prospettiva arendtiana, in presenza di
un duplice errore marxiano: il primo consiste nella mancata comprensione dell’importanza della
categoria, all’interno della condizione umana, di lavoro (definito da Marx come lavoro
improduttivo) come fattore per la cura ed il mantenimento della vita biologica; il secondo,
nell’avere assorbito la categoria di opera all’interno del concetto di lavoro (segnatamente in quello
produttivo, ma ciò che conta è la riduzione dell’opera al lavoro), facendo così cadere le differenze
tra il lavoro e l’opera. Infatti
sia Smith sia Marx convenivano con l’opinione pubblica moderna nel disprezzare il lavoro improduttivo come
parassitario, in effetti una specie di perversione del lavoro, come se non fosse degno del nome di lavoro se non
un’attività che arricchisce il mondo […] (ed i “servi domestici” non lo arricchiscono di certo) Tuttavia erano proprio
questi servi domestici, questi oiketai o familiares, che lavoravano per la mera sussistenza, necessari per il consumo
ozioso piuttosto che per la produzione, che tutte le epoche precedenti alla moderna avevano in mente quando
morale pubblica, e la Arendt rischia di ridurre in toto la politica al solo modello normativo della pòlis greca, come se quello fosse l’unico paradigma
possibile di politica, cfr. J. Habermas, La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, in «Comunità», n. 183, 1981, e R. Gatti, Pensare la
democrazia, AVE, Roma 1989.
7
Per un’analisi dell’idea arendtiana di pòlis cfr. P. P. Portinaro, Hannah Arendt e l’utopia della «polis», in «Comunità», n. 183, 1981, D. Sternberger,
Die versunkene Stadt, in Die Stadt als Urbild, Suhrkamp, Frankufurt a. M. 1985, A. Dal Lago, «Politeia» Tradizione e politica in Hannah Arendt, in
Il politeismo moderno, Unicopli, Milano 1985, e AA. VV., Hannah Arendt tra filosofia e politica (Atti del Convegno di Messina del 25-26 Novembre
2004), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
8
Cfr. H. Arendt, Lo spazio pubblico e la sfera privata, in Vita activa, cit.
13
identificavano la condizione del lavoro con la schiavitù […] la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo
contiene, benché in modo distorto, la distinzione più fondamentale fra lavoro e opera9
Oltre a ciò, prosegue la Arendt, è contraddittorio in Marx il fatto che la libertà, alla quale il
telos insito nella storia del genere umano tende, sia descritta come emancipazione dal lavoro,
laddove però quest’ultimo è inteso come eterna necessità imposta dalla natura, sicché «Siamo
lasciati nell’alternativa piuttosto angosciosa fra schiavitù produttiva e libertà improduttiva»10. Tale
contraddizione origina dalla riduzione dell’opera al lavoro, che priva gli uomini del senso della
produttività inerente all’opera: in Marx, il lavoro (che ha del tutto assorbito la categoria di opera)
consiste nella messa in pratica della forza lavoro, la quale è finalizzata esclusivamente alla
produzione di ciò che sottende al mantenimento della vita biologica, a differenza della produttività
dell’opera che introduce nel mondo oggetti artificiali, indipendenti dalle funzioni, di competenza
del lavoro, di mantenimento della vita biologica.
Ridurre l’opera al lavoro significa, altresì, perdere le differenze tra la figura dell’homo faber
e quella dell’animal laborans. Il primo è, infatti, colui che letteralmente opera, fabbricando con le
proprie mani: «l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale
dell’uomo»11, oggetti caratterizzati dall’elemento della durevolezza e per produrre i quali egli usa
violenza alla natura, utilizzandola come materiale per le proprie fabbricazioni, comportandosi così
come il “prometeico” (poiché la sua produttività implica la distruzione di parte della natura) signore
e padrone della Terra, nonché delle proprie opere: esse hanno sempre un inizio ed una fine definiti e
prevedibili sicché, una volta concluso il processo di fabbricazione, sono a sua disposizione; il
secondo è, invece, colui che propriamente lavora, (ri)producendo con il proprio corpo la vita,
rimanendo pertanto asservito alla natura, alle necessità, senza inizio né fine, della propria vita.
L’homo faber è dunque un “fabbricante di strumenti” che poi l’animal laborans usa per lavorare, in
altre parole, se il fine ultimo dell’homo faber consiste nella progettazione ed invenzione di
strumenti, quello dell’animal laborans risiede nella (ri)produzione della vita, attraverso il consumo
dei prodotti del lavoro (che, in quanto tale, si differenzia qualitativamente dall’uso delle opere
fabbricate).
Tuttavia (come si vedrà meglio in seguito), nell’epoca moderna giunge ad una totale (e
definitiva?) affermazione quel principio che il cristianesimo aveva introdotto nel mondo antico: la
vita come bene supremo. Assunto che, pur essendo di origine cristiana, è sopravvissuto, nella
modernità, alla secolarizzazione ed al declino della fede, venendo così applicato non nei confronti
dell’immortalità della vita, ma in una prospettiva, immanente, di mantenimento della vita biologica,
individuale (ciascun uomo) e collettiva (specie umana):
In ultima analisi, è sempre la vita il punto di riferimento supremo, e gli interessi dell’individuo come quelli del
genere umano sono sempre identificati con la vita individuale o con la vita della specie come se fosse scontato che la
vita è il bene più alto12
Ne consegue che il fabbricare dell’homo faber non viene più inteso come un modo per
produrre cose e dominare la natura, bensì come un processo lavorativo finalizzato unicamente alla
produzione di ciò che deve essere consumato, per garantire la sopravvivenza dell’uomo, sicché non
un generico concetto di lavoro, ma questa specifica concezione del lavoro diventa dominante nella
modernità.
9
Ibidem, p. 62, parentesi mia; qui la Arendt non specifica se l’arricchimento del mondo sia da intendersi solamente in senso materiale od anche
intellettuale, a mio avviso, in Marx la distinzione fra lavoro materiale ed intellettuale è applicabile sia al lavoro produttivo che a quello improduttivo,
mentre nella Arendt l’opera è
da intendersi sempre e soltanto in senso materiale.
10
Ibidem, p. 74.
11
Ibidem, p. 97.
12
Ibidem, p. 232.
14
L’emancipazione del lavoro non ha dato luogo all’eguaglianza di questa attività con le altre della vita activa,
ma al suo quasi indiscusso predominio. Dal punto di vista del “lavorare per vivere”, ogni attività non connessa al lavoro
diventa un “hobby”13
Fa così la sua comparsa quella moderna figura antropologica a proposito della quale si può
dire che
il tempo dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e
insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati – così che il consumo non è più limitato alle
cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue – non muta il carattere di questa società, ma nasconde il
grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo14
Si impone così nella modernità quella dinamica, tipica dell’animal laborans, di
(ri)produzione (soggetta a criteri di efficienza e funzionalità) e consumo (sfruttamento
dell’esistente), che reca in sé i germi, sottoforma di condizioni di possibilità, della mentalità
totalitaria. L’homo faber è infatti in grado di dare luogo ad uno spazio pubblico, seppure non di
carattere politico ma commerciale: il mercato di scambio come luogo d’esposizione delle merci e
della loro fabbricazione; diversamente, l’animal laborans risulta essere del tutto privo di un
qualsiasi spazio pubblico, la cui assenza è, per la Arendt, la pre-condizione di ogni sistema
totalitario.
In Le origini del totalitarismo la Arendt ripercorre quel processo che, in termini storici, ha
condotto alle dittature europee ed alla seconda guerra mondiale e, in termini filosofici, allo
svilimento dell’agire politico. I momenti decisivi di tale processo sono individuati
nell’antisemitismo (derivante dal crollo degli Stati nazionali successivo alle due guerre mondiali
che provocò la comparsa di “apolidi” senza nazione, senza cittadinanza e, per questo, senza diritti
umani; inoltre, durante la metà del Novecento, tale questione si è aggravata a causa di divisioni
geografiche effettuate per interessi politici e non tenenti conto dei vari gruppi etnici, cosicché «Per
gruppi sempre più numerosi di persone cessarono improvvisamente di aver valore le norme del
mondo circostante»15), nell’imperialismo («che aveva imposto il suo dominio sul pianeta grazie a
un articolato sistema di stati nazionali al di fuori dei quali i diritti dell’uomo avevano perso ogni
valore»16) e nella trasformazione plebiscitaria delle democrazie occidentali (nelle quali è ormai
presente «L’identificazione del diritto con l’utile»17, con il pericolo che ciò che risulta “utile” per la
maggioranza può non esserlo per le minoranze che rimangono così escluse dalla formazione di un
mondo-con-gli-altri).
Uno dei primi effetti della complessiva spoliticizzazione (rispetto al modello ideale
dell’Atene periclea) della modernità è quello della perdita, per determinate categorie di persone, dei
diritti umani (intesi come la possibilità di agire e pensare), per recuperare i quali è necessario
comprendere come essi non siano basati su motivazioni naturalistiche, storiche, religiose, politiche
o utilitaristiche, ma si fondino unicamente in una dimensione decisionale e collettivamente
partecipativa alla creazione del mondo, infatti
Non si nasce eguali; si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi
reciprocamente eguali diritti. La nostra vita politica si basa sul presupposto che possiamo instaurare l’eguaglianza
13
Ibidem, p. 91.
Ibidem, p. 94; Hans Jonas, che negli anni Venti segue con la Arendt i corsi di Martin Heidegger a Marburgo, concorda con tali posizioni della sua
ex collega di studi in Handeln, Erkennen, Denken, in «Merkur», n. 341, 1976.
15
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999, p. 373.
16
E. Traverso, L’immagine dell’inferno, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, p. 30.
17
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 414.
14
15
attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e
soltanto con essi18
E’ a seguito di queste riflessioni che la Arendt caratterizza il totalitarismo come la negazione
della realtà effettiva per farla combaciare con un’ideologia, pertanto come una possibilità sempre
presente in ogni piega del quotidiano. Tale male assoluto rappresenta un fenomeno del tutto nuovo,
e quindi incomparabile alle precedenti e conosciute forme di regime autoritario: esso rappresenta la
cristallizzazione non necessaria delle contraddizioni dell’epoca moderna. Di conseguenza il
modello totalitario moderno possiede delle caratteristiche peculiari, che la Arendt riconosce nella
cieca fiducia e obbedienza nei confronti del capo, nell’uso della violenza fisica e del terrore (per
inibire le relazioni sociali e favorire l’atomizzazione delle masse), nell’esaltazione di una ideologia
(veicolata con lo strumento della propaganda), nella presenza di un partito unico (strutturato con
una forma gerarchica paramilitare, cosicché gli incarichi istituzionali vanno di pari passo con la
carriera militare), nella esplicita subordinazione delle relazioni affettive alla cosiddetta “ragion di
Stato” (al fine di annullare qualsiasi vincolo sociale che possa incrinare la totale fedeltà al regime),
e nell’intolleranza verso qualsiasi forma di opposizione al punto di eliminare i dissidenti piuttosto
che albergarli all’interno della società (è interessante notare che tale eliminazione avviene solo dopo
che ai dissenzienti sia stato sottratto il loro status di cittadini, e dunque di soggetti politici,
privandoli dei diritti umani ad esso correlati: «In altre parole, è stata creata una condizione di
completa assenza di diritti prima di calpestare il loro diritto alla vita»19). All’interno di tale
caratterizzazione del totalitarismo ricadono sia il nazismo che il comunismo, ed il “campo di
stermino”, come luogo di sospensione dei diritti umani e di destrutturazione dell’uomo, ne diventa
la metafora più emblematica20.
Probabilmente, fra i suddetti elementi, il più interessante che la Arendt individua nei
totalitarismi novecenteschi è quello dell’ideologia. Essa consiste in un meccanismo razionale che, a
partire da premesse “dogmatiche”, deduce conseguenze logiche, il suo scopo è quello di sostituirsi
alla realtà effettiva, per ottenerlo ha bisogno, oltre che di un determinato uso del terrore e di una
efficiente propaganda, di inibire la capacità di pensare e per inibirla inchioda il pensiero stesso agli
stringenti vincoli del ragionamento logico: il pensiero è ridotto a calcolo; a tal fine nulla cambia se
l’ideologia si richiama a delle presunte leggi della Natura, come il nazionalsocialismo, o della
Storia, come lo stalinismo. L’ideologia, insomma, designa una sorta di “metafisica totalitaria” e
descrive il totalitarismo come una vera e propria categoria concettuale, all’interno di un’opera
(quella arendtiana) che lo ha invece prevalentemente descritto come una esperienza storica,
affondante le sue radici nella degenerazione della vita pubblica21.
Ecco perché, nell’interpretazione arendtiana il totalitarismo appare non solo e non tanto
come una categoria filosofica, quanto piuttosto come un determinato evento storico-politico,
caratterizzato da un preciso contesto d’origine e momenti di sviluppo, in altre parole, la Arendt
attribuisce al totalitarismo un significato riconducibile «a uno sviluppo storico definito e
storicamente ricostruibile (i cui elementi originari, sociali e politici risalgono alle fine del XVIII
secolo)»22. Se quindi da un lato si può osservare la carenza filosofica di tale approccio, dall’altro si
18
Ibidem, p. 417.
Ibidem, p. 409.
20
Il superamento di una simile forma di totalitarismo sembrerebbe risiedere in una prassi politica, per così dire, “movimentista”, cioè sganciata dalle
ideologie e dai partiti. A proposito, poi, dell’equiparazione fra nazismo e comunismo (in particolare quello staliniano) si deve notare come l’analisi
molto più storica che filosofica di tali movimenti, impedisca alla Arendt di cogliere che la tragicità del primo risiede nell’avere fedelmente realizzato
le sue premesse teoriche mentre la drammaticità del secondo sta nell’avere abbondantemente tradito il proprio disegno teorico: «Certamente c’è una
differenza importante tra i due movimenti: magari usavano gli stessi mezzi atroci e disumani, ma mentre nel nazismo erano ugualmente condannabili
sia i mezzi sia i fini, invece nel comunismo lo erano i mezzi non i fini, spesso nobili (liberazione dall’oppressione dei rapporti di lavoro, pari dignità
sociale dei cittadini)» F. Manni, Intervista a Norberto Bobbio: il filosofo e i comunisti, in «la Repubblica», 04/05/01.
21
Cfr. H. Arendt, Ideologia e terrore, in Le origini del totalitarismo, cit., capitolo ristampato in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo,
Einaudi, Torino 2004; cfr. inoltre, S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001.
22
A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, nota 67, p. 32.
19
16
devono però evidenziare la nitidezza e la puntualità con le quali è stato sviscerato fin nei minimi
particolari, un male che ha afflitto l’Europa nella prima metà del Novecento; tuttavia, a mio avviso,
solo nella comprensione della sua essenza, piuttosto che delle sue peculiari manifestazioni storiche,
risiede la possibilità di evitarne un nuovo (per forme e condizioni) ritorno.
1.2 Il totalitarismo come male prettamente politico
Per giungere all’essenza del totalitarismo è preliminarmente utile muovere da una
dimensione, quella politica, che, pur non rappresentandone l’essenza, ne contiene però i più vistosi
ed espliciti effetti, attraverso i quali è possibile tendere a quella. I regimi totalitari hanno infatti
manipolato la politica, rendendola funzionale al mantenimento del potere da parte loro, hanno, cioè,
visto nella politica lo strumento privilegiato per la gestione del potere. Non è infatti un caso che la
Arendt si sia prevalentemente dedicata alla descrizione degli aspetti politici del fenomeno
totalitario. Ovviamente, ciò non significa che il totalitarismo non investa anche campi extra- e/o
meta-politici, ma che il controllo sulla vita (bios) avviene attraverso un determinato uso della
politica; si palesano così i germi della foucaultiana trasformazione della politica in biopolitica, la
quale non si accontenta di subordinare la libertà individuale alla ragion di Stato (come nel
machiavelliano Il Principe) né di ridurla a merce cedibile (come nell’hobbesiano Leviatano), ma
pretende di far scomparire l’idea stessa di libertà23.
Ma perché il totalitarismo ha investito così violentemente l’ambito della politica? Per
rispondere bisogna ricordare che l’esperienza totalitaria affonda le sue radici nella crisi storica e
teoretica della democrazia, quindi, se si vuole comprendere la genesi politica della società
totalitaria, si deve chiarire la relazione che essa intrattiene con la democrazia. Infatti, non solo e non
tanto dalle ceneri di Weimar, ma soprattutto dalle questioni teoriche lasciate irrisolte dalla
democrazia, ha tratto impulso il totalitarismo.
Con il progredire della burocrazia amministrativa statale, lo Stato appare sempre più come
un’entità indipendente ed impersonale, si realizza così il distacco fra questo e la società civile:
Il potere appare come un luogo vuoto, e coloro che lo esercitano appaiono come semplici mortali, che non lo
occupano se non temporaneamente, o che non possono collocarvisi se non con la forza o l’astuzia. Nessuna legge che
possa più essere stabilita per sempre, i cui enunciati non siano passibili di essere contestati, i cui fondamenti non siano
suscettibili di essere rimessi in questione […] La democrazia inaugura l’esperienza di una società inafferrabile,
incontrollabile, nella quale il popolo sarà detto sovrano, certo, ma non cesserà di mettere in discussione la propria
identità e quest’ultima rimarrà allo stato latente24
La modernità ha dunque prodotto una “rivoluzione democratica”, che è stata però rifiutata e
rigettata dal corpo sociale che in precedenza l’aveva desiderata, poiché questa aveva creato un
vuoto sociale (l’assenza di regole, valori e verità incontestabili) che gli individui, stretti fra
l’inaccessibilità alle istituzioni e la deresponsabilizzazione politica, non erano in grado di colmare,
se non delegando la risoluzione del problema ad un “potere superiore”.
Il totalitarismo, quindi, getta le sue radici in quegli spazi vuoti perché abbandonati dai
cittadini a causa di una mancanza di responsabilità politica, indotta e rafforzata dai fenomeni di
massificazione e burocratizzazione; il suo a priori consiste, pertanto, in un mancato uso della
ragione, anzi, nel completo trionfo dell’antiragione, che solo in un secondo momento genera un
vero e proprio male politico, originando delle società barbariche. Uno smarrimento dell’uomo a se
stesso sembra, allora, essere l’humus ideale per l’avvento di qualsiasi perversione politica,
23
Cfr. D. Scalzo, Vita ufficiale e male amministrato, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, cit., e C. Galli, Potere, in P. P. Portinaro (cura), I
concetti del male, Einaudi, Torino 2002.
24
C. Lefort, L’immagine del corpo e il totalitarismo, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., pp. 120-121.
17
smarrimento superabile con una sorta di nuovo umanesimo in cui l’uso della ragione non sia solo
fonte di responsabilità politica, ma di libertà.
Il totalitarismo infatti rappresenta uno dei massimi paradigmi dell’antiragione all’opera nella storia. Laddove
l’antiragione viene scambiata per ragione e la tecnica viene confusa con la scienza, laddove l’esistenza rimane
imprigionata nelle maglie dell’esserci e si rompe la comunicazione tra le persone, là il totalitarismo trova il suo terreno
più propizio, là il male trova la sua affermazione. Ma ciò non accade fortuitamente, l’antiragione prevale solo se la
ragione non è più se stessa, se smarrisce il suo senso di responsabilità25
E lo smarrimento di tale senso di responsabilità è un rischio sempre presente, al punto tale
che, gli atteggiamenti che, puntualmente, Karl Jaspers descrive come tipici della popolazione
tedesca degli anni Trenta, si attagliano anche a molti altri contesti socio-politici:
disinteresse per la costituzione, facilità a lasciarsi trascinare dai sentimenti nazionalistici […], incapacità
generale a considerare obiettivamente i problemi cruciali, e una certa tendenza a cullarsi nelle illusioni.26
Ora, tale ragionamento di Jaspers sul concetto di responsabilità può sicuramente interagire
con la arendtiana crisi della capacità di giudizio (di cui si tratterà nel par. 1.4), da cui scaturisce ogni
male, tanto più radicale quanto più banale27.
Tornando ora ai meccanismi totalitari di controllo del potere, si è già rilevato come essi
designino l’insorgere della biopolitica, intesa come il potere di gestione della vita, che si manifesta
sia come cura della vita biologica che come ricerca della felicità:
Il nazismo, dopotutto, non è altro che lo sviluppo parossistico dei nuovi meccanismi di potere instaurati a
partire dal XVIII secolo […] Potere disciplinare, bio-potere: tutto ciò ha attraversato e sostenuto materialmente fino
all’estremo la società nazista (presa in carico e gestione del biologico, della procreazione, dell’ereditarietà, così come
della malattia, degli incidenti e via di seguito). Nessuna società è stata più disciplinare e al contempo più assicurativa di
quella instaurata, o in ogni caso progettata, dai nazisti. Il controllo dei rischi specifici dei processi biologici era infatti
uno degli obiettivi immediati del regime28
Il biopotere è, però, un tratto inscritto nel funzionamento di tutti gli Stati moderni, che i
totalitarismi non hanno fatto altro che inaugurare, prima, ed estremizzare, poi:
Mi sembra che uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo sia stato ciò che si potrebbe chiamare la presa in
carico della vita da parte del potere. Si tratta, per così dire, di una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di
una sorta di statalizzazione del biologico […] di una tecnologia di potere che ha come oggetto e come obiettivo la vita29
La biopolitica è, pertanto, l’eredità del totalitarismo dalla quale gli Stati di oggi non si sono
ancora affrancati. Tuttora, infatti, il potere politico si presenta innanzi tutto come garante della
sicurezza, della salute e della prosperità di un intero popolo, imponendosi, per tali vie, come una
forma di controllo totale e capillare, invadendo l’esistenza di tutti e tutta l’esistenza. Così, sia negli
Stati totalitari che nei moderni regimi democratici, è presente la configurazione del potere
25
F.Miano, Esistenza e responsabilità, in R. Gatti (cura), Il male politico, Città Nuova, Roma 2000, pp. 44-45.
K. Jaspers, Totalitarismo e cultura, Comunità, Milano 1957, p. 309; nello stesso saggio si ricorda l’importanza delle Università e dei mezzi
d’informazione come luoghi di ricerca dell’uomo sull’uomo e, quindi, di autoeducazione.
27
Cfr. H. Arendt – K. Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, e H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1999; per il dibattito
filosofico, in particolare di matrice ebraica, intorno al concetto di male cfr. F. Rella (cura), Il male, Pendragon, Bologna 2001.
28
M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., pp. 100-101, saggio già stampato come ultima
parte di M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 1998, corrispondente all’ultima parte del corso da Foucault tenuto nel 1976
al Collège de France.
29
M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., pp. 77 e 95.
26
18
sottoforma di biopotere, con tutte le conseguenze antropologiche ed ontologiche che ne derivano,
ovvero la ridefinizione dell’umano30.
Ora, l’alternativa a questa forma di dominio sociale non consiste certo nella rinuncia, da
parte della politica, alla progettazione di forme di convivenza umana fondate sulla giustizia, intesa
come la difesa delle esigenze e la maturazione delle facoltà biologiche ed emozionali dell’uomo.
Tuttavia, ed è questo il punto discriminante, tutto ciò deve avvenire all’insegna di una correlazione
tra etica e politica, mettendo la seconda al servizio della prima, ovvero, conferendo alla pratica
politica un contenuto etico. E l’etica che a tale fine servirebbe deve di necessità essere un’etica
“umana”, fatta dagli uomini per loro stessi, che, pur consapevole dei propri limiti e della propria
finitudine, rifiuta di avvalersi di un qualsiasi potere superiore, sia esso naturalistico, storico o
metafisico31, il ricorso al quale riproporrebbe fatalmente la problematica della
deresponsabilizzazione etico-politica.
Inoltre, il soggetto di una auspicabile accettazione della responsabilità etico-politica deve
essere non l’individuo, ma la “persona”: uno Stato che voglia tentare d’esprimere valori etici deve
avere a suo fondamento teoretico non il concetto di individuo, bensì quello di persona. Difatti l’idea
di persona, rimandando alla rete di interazioni con il prossimo, consente lo sviluppo della vita
associata come un tutto unitario. Al contrario, la nozione di individuo disgrega la “tensione
emotiva” che regge una comunità politica, sostituendo la società con una massa, in cui gli individui
risultano uniti non “interiormente”, ma per una mera contiguità spaziale; ne consegue un’ampia
manipolabilità dell’ individuo-massa, condizione fondamentale di ogni totalitarismo32.
Correntemente, la necessità di comprendere e combattere ogni forma di totalitarismo si è
fatta sempre più pressante giacché le potenzialità distruttive in mano all’uomo si sono enormemente
incrementate, a seguito dello sviluppo tecnologico, raggiungendo la possibilità della totale
soppressione della vita su scala globale. Insomma, non è del tutto improbabile che un odierno
regime totalitario, a partire da un abuso del potere tecnologico, possa causare una catastrofe
planetaria33.
L’uomo si trova oggi in una situazione nuova e particolare, potendo potenzialmente
annientare non solo la propria vita ma anche quella di tutti gli altri esseri. Sembra allora
indispensabile mettere dei limiti alla figura di quel «Prometeo definitivamente scatenato»34 che
nutre una fiducia acritica nelle potenzialità scientifico-tecniche, applicate anche all’edificazione
della convivenza umana, coltivando il sogno di una società perfetta come una teoria scientifica o
una macchina tecnologica, e sostituendo scienza e tecnica all’etica nel compito di dare un
fondamento all’azione politica.
Ancora una volta l’origine del male politico risiede nella dismissione dell’impegno del
pensiero che, in questo caso, rimette le proprie responsabilità ad una ratio ipertrofica.
Non è un caso che due importanti pensatori del Novecento abbiano ripetutamente insistito
sulla centralità della responsabilità personale nell’ambito delle dinamiche sociali:
Il punto decisivo è questo: non esiste una legge di natura né una legge storica che determina l’andamento delle
cose nel loro complesso. L’avvenire dipende dalla responsabilità delle decisioni e azioni di uomini e infine di ogni
singolo tra i miliardi di individui che formano l’umanità. Tutto dipende da ogni singolo. Col suo tenore di vita, con le
sue piccole azioni quotidiane, con le sue grandi decisioni egli attesta a se stesso ciò che è possibile. Con questa sua
presente realtà egli collabora impercettibilmente all’avvenire
30
Cfr. S. Forti, Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», n. 3, 2003.
Già nel 1944, dalle pagine di «La France Libre», Raymond Aron definisce i totalitarismi, distinguendoli dai regimi tirannici, quali religioni secolari;
essi infatti offrono un progetto ideologico internamente coerente che, come nel caso delle dottrine religiose, si pone come orizzonte salvifico, facendo
apparire il movimento, prima, e il partito, poi, come anticipatori della futura umanità redenta. Cfr. R. Aron, L’avvenire delle religioni secolari, in S
Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit.
32
Cfr. E. Stein, Una ricerca sullo Stato, Città Nuova, Roma 1993.
33
Tale pericolo è ovviamente presente in tutti i tipi di governo che dispongono della tecnologia a ciò sufficiente.
34
H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002, p. 233.
31
19
Le grandi decisioni, per il bene e per il male, avvengono […] sul piano politico. Ma noi tutti possiamo
preparare in modo invisibile il terreno cominciando da noi stessi. L’inizio, come tutto ciò che è buono e giusto, è ora e
qui35
Insomma, che si tratti di forze trascendenti (come la religione) o di forze secolari, immanenti
(come la natura, la storia, l’estremizzazione della ratio tecnico-scientifica o, più prosaicamente,
l’autorità delle istituzioni), delegare ad esse le decisioni etico-politiche dell’uomo, significa aprire le
porte a dinamiche deresponsabilizzanti che determinano la rinuncia alla partecipazione alla
costruzione della società, lasciando tale compito a quei sedicenti poteri superiori. Non a caso, il
totalitarismo arendtiano si può definire come la distruzione dell’idea di spazio pubblico, ereditata
dalle pòleis greche, delle quali infatti, l’aspetto che l’autrice maggiormente rimpiange è quello della
partecipazione ampia e diretta dei membri della comunità ai processi decisionali. Per la Arendt,
infatti, la pòlis è tutt’altro che un mero fenomeno storico-politico, essa rappresenta il paradigma di
una forma di comunità basata sull’«organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire
e parlare insieme»36, ed è proprio l’eclissi di questo spazio pubblico che priva gli uomini della
possibilità di un confronto dialogico sui principi normativi della vita pubblica.
1.3 Capitalismo e totalitarismo
Capitalismo e totalitarismo sono i due fenomeni sociali della modernità ad essere stati
maggiormente indagati, da molteplici prospettive, dalle scienze umane. Ma è presente, ed
eventualmente di che natura è, una correlazione tra i due? Si tenterà qui di risolvere questo
interrogativo seguendo essenzialmente due itinerari di riflessione: quello arendtiano e quello
marcusiano.
Secondo la Arendt, la modernità si apre con l’affermazione dell’homo faber,
successivamente sostituito dalla figura dell’animal laborans. Infatti, come si è già visto, all’inizio
dell’epoca moderna le attività del fare e del fabbricare, peculiari dell’homo faber, sono divenute
centrali nella vita dell’uomo.
Ciò era abbastanza naturale, dato che era stato uno strumento, e quindi l’uomo nella sua veste di creatore di
strumenti, a condurre alla rivoluzione moderna. Da allora in poi, ogni progresso scientifico è stato connesso allo
sviluppo di attrezzi e strumenti sempre più perfezionati37
La modernità nasce quindi nel segno delle prerogative del fare e del fabbricare,
massimamente enfatizzate dall’esperimento: «L’uso dell’esperimento a fini conoscitivi fu già la
conseguenza della convinzione che si può conoscere solo ciò che si fa»38. Tutto ciò conduce alla
svolta dalle questioni del “che cosa” e del “perché” qualcosa è, alla questione del “come” qualcosa
possa essere, spostando così l’attenzione della conoscenza sui processi e sui mezzi di produzione.
Dal punto di vista dell’homo faber, è come se il mezzo, il processo di produzione o di sviluppo, fosse più
importante del fine, del prodotto finito39
Una delle conseguenze più vistose di tale visione del mondo, è l’abbandono del tentativo di
comprensione di tutto ciò che non è prodotto dall’uomo, ed il relativo volgersi dell’attività
conoscitiva solo sulle produzioni umane, e tale prospettiva, essendo quella dominante nella società,
35
K. Jaspers, Autobiografia filosofica, Morano, Napoli 1969, p. 121, e H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, p. 54.
H. Arendt, Vita activa, cit., p. 145.
37
Ibidem, p. 219.
38
Ivi.
39
Ibidem, p. 221.
36
20
viene applicata anche ai processi formativi e regolativi della società stessa: ai sistemi politici. Ora,
secondo la Arendt, Thomas Hobbes è stato il primo pensatore della modernità ad avere applicato le
prerogative dell’homo faber alla politica, mosso dalla convinzione che uno Stato si possa fabbricare
come un qualsiasi artificiale prodotto umano, sostituendo così al consenso dialogico fra i cittadini
(tipico della cultura greca antica) la figura del “sovrano definitore” dal quale (e solo dal quale)
dipende la determinazione e l’imposizione, tramite il “timore della spada”, delle norme della
convivenza.
In altre parole, il processo che […] invase le scienze artificiali con l’esperimento, nel tentativo di imitare in
condizioni artificiali il “fare” attraverso il quale una cosa naturale si forma, serve altrettanto bene o anche meglio come
principio del fare nel dominio delle cose umane. Infatti qui i processi della vita interiore, individuati nelle passioni
attraverso l’introspezione, possono diventare i criteri e le regole per la creazione della vita “automatica” di quell’“uomo
artificiale” che è “il grande Leviatano”40
Dunque, in tutti i versanti della modernità sono inscritti gli atteggiamenti tipici dell’homo
faber, tra i cui principali troviamo: la strumentalizzazione del mondo, la riduzione di ogni cosa al
principio dell’utilità, la visione della natura come fondo a cui attingere, il disprezzo per ogni forma
di pensiero che non sfoci nella produzione di oggetti e strumenti, e la «identificazione acritica della
fabbricazione con l’azione»41; tuttavia, la figura dell’homo faber è andata progressivamente
dissolvendosi, essenzialmente per due motivazioni. In primo luogo, a causa della ritorsione del
criterio d’utilità contro lo stesso homo faber, infatti, poiché la massima utilità di uno strumento
risiede nella sua capacità di conferire soddisfazione all’uomo, viene meno la centralità della
fabbricazione e diviene primaria la ricerca del piacere. In secondo luogo, per il fatto che
l’evoluzionismo ha scardinato la visione meccanicistica del mondo, tipica dell’homo faber.
Ma cosa è avvenuto successivamente alla disfatta dell’homo faber? Per rispondere è
preliminarmente necessario ricordare come in tutta l’età moderna sia sempre stato presente, e tuttora
lo è, un elemento concettuale derivante direttamente dal cristianesimo: la sacralità della vita. La
credenza
nella sacralità della vita è sopravvissuta (senza mai esserne scossa) alla secolarizzazione e al generale declino
della fede. In altre parole, la rivoluzione moderna seguì e lasciò immutata la più importante rivoluzione con cui il
cristianesimo aveva fatto irruzione nel mondo antico, una rivoluzione di portata più grande e, storicamente, più durevole
di qualsiasi specifico contenuto o credenza dogmatici42
Sacralizzare la vita significa elevare, al di sopra di qualsiasi altro possibile bene, la
soddisfazione dei bisogni e delle necessità della vita terrena, conferire all’evasione di bisogni e
necessità organiche il rango di massima attività umana e, conseguentemente, svalutare l’attività
politica poiché in essa non risulta presente il soddisfacimento immediato delle priorità biologiche, al
servizio delle quali, anzi, la politica va posta. La politica diviene così uno strumento finalizzato alla
cura ed alla tutela della vita. Quanto a fondo tale credenza cristiana, in cui è senz’altro presente
un’eredità ebraica, sia radicata nel mondo occidentale risulta comprensibile dal fatto che solo dopo
l’avvento del cristianesimo, la vita terrena divenne ciò che tuttora è: il più alto bene dell’uomo.
Tutto questo, oltre alla già citata svalutazione dell’azione politica (anticamente intesa) in favore
della gestione della vita privata, determina un ulteriore effetto: una prima rivalutazione, rispetto
all’antichità, dell’attività lavorativa, del lavoro finalizzato al sostentamento biologico, obiettivo,
quest’ultimo, che nella modernità diviene quello principale, fino a restare l’unico, della vita
dell’uomo.
40
41
42
Ibidem, p. 222.
Ibidem, p. 227.
Ibidem, p. 234.
21
Ora, il cristianesimo non elaborò mai una definitiva esaltazione del lavoro su qualsiasi altra
attività umana, infatti:
La ragione per cui il cristianesimo, nonostante la sua insistenza sul carattere sacro della vita e sul dovere di
mantenersi in vita, non sviluppò mai una positiva filosofia del lavoro risiede nella indiscussa priorità data alla vita
contemplativa su tutti i generi di attività umana. Vita contemplativa simpliciter melior est quam vita activa, e quali che
possano essere i meriti di una vita attiva, quelli di una vita dedicata alla contemplazione sono “più effettivi e più
efficaci”43
Tuttavia, nonostante il venire meno, nella modernità, della vita contemplativa
l’epoca moderna continuò ad operare sul presupposto che la vita, e non il mondo, è il bene più alto per l’uomo
[…] Per quanto siano stati meticolosi e coscienziosi i pensatori moderni nei loro attacchi alla tradizione, la priorità della
vita su qualsiasi altro valore aveva acquistato per essi il carattere di una “verità immediata”, e come tale è sopravvissuta
nel nostro mondo, che ha già cominciato a lasciarsi dietro l’epoca moderna e a sostituire a una società di lavoro la
società degli impiegati44
Insomma, poiché nell’età moderna la vita rimane il bene più alto e poiché in tale età la vita
attiva non risulta più essere inferiore a quella contemplativa (fatto questo che frenava l’ascesa
dell’attività lavorativa), il lavoro assurge al grado di massima attività umana. Si sono così venute a
creare le condizioni ideali per la vittoria dell’animal laborans.
Questa vittoria si completa definitivamente tramite il processo di secolarizzazione che,
facendo perdere la certezza di un futuro mondo ultraterreno, provoca il ripiegamento dell’uomo su
se stesso, con il relativo interesse solo per gli appetiti, i bisogni e i desideri corporei. L’immortalità
diviene un attributo tipico non più del corpo politico, come nell’antichità, né della vita ultraterrena,
come nel Medioevo, ma della specie umana. Inoltre, la vittoria dell’animal laborans viene favorita
anche dal marxiano spostamento d’accento teoretico, dall’individuo all’uomo socializzato, categoria
questa che descrive l’umanità non come una pluralità di uomini, bensì come un unico essere sociale,
il cui scopo è quello di mantenersi in vita:
la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuità della propria vita e di
quella della propria famiglia (e della propria specie), fu tutto quanto bastava45
Per tal via il pensiero si trasforma in mero “calcolo” finalizzato alla sopravvivenza («col
risultato che gli strumenti elettronici adempiono queste funzioni molto meglio di noi»46), il lavoro
in impiego funzionale alla vita della specie, e ogni attività in un processo rivolto unicamente al
mantenimento della vita.
Insomma, l’uomo ha esplicitamente allontanato da sé la capacità di costruire
partecipativamente il mondo fin dal Leviatano e dal Contratto Sociale, opere nelle quali l’azione
politica è intesa come un ché di cedibile ad altri, cioè a quei pochi che sono in grado di
amministrarla poiché ne conoscono i “mitici” fondamenti eterni e indiscutibili; così, la politica
moderna si allontana dalla politeia, dalla compartecipazione della cittadinanza, divenendo un
sistema di norme e regole, scaturenti da un’autorità superiore. L’umanità si è progressivamente
spinta in una condizione di assenza di un mondo comune, nel quale potersi dare autonomamente dei
precetti pratici, oscillando così fra una solitudine individualistica ed un’anonima massificazione. Si
è pertanto persa la centralità di quel mondo comune che
43
Ibidem, p. 237; come è noto, la Arendt attribuisce principalmente all’opera di Tommaso d’Aquino (del quale viene frequentemente citata la Summa
theologiae) la “vittoria” della vita contemplativa su quella attiva.
44
Ivi.
45
Ibidem, p. 239, parentesi mia.
46
Ibidem, p. 240.
22
è la dimensione politica che salva dall’alienazione propria dei regimi totalitari, dall’isolamento dell’individuo
su cui s’instaurano sia il sospetto reciproco generalizzato, sia la devozione al leader e al regime promossa
dall’ideologia47
Per questo il laborans non è un homo, ma è propriamente un animal: esso si cura solo delle
sue funzioni animali (nascono da qui le questioni della ricerca di gratificazioni consumistiche come
compensazione del quotidiano malessere, e della mancata comprensione teorica di tutto ciò, con
relativa inibizione di una prassi liberatrice; questioni che verranno affrontate nei prossimi
paragrafi).
Dunque, sia nel fabbricare dell’homo faber (figura antropologica tipica della rivoluzione
scientifica), sia nel lavorare dell’animal laborans (figura antropologica tipica della società
capitalistica ed industrialmente avanzata), si giunge, seppur per motivazioni diverse, allo stesso
esito: la perdita del significato politico antico dell’azione; in entrambe queste figure della modernità
è presente il rischio (se non addirittura la certezza) del totalitarismo, inteso come conseguenza della
spoliticizzazione della vita.
Veniamo ora all’interpretazione marcusiana dei rapporti tra capitalismo e totalitarismo,
un’interpretazione che scorge la genesi del nazismo nel passaggio dal capitalismo concorrenziale a
quello monopolistico, nel quale industria partito ed esercito (la totalità della classe dirigente) sono sì
distinti ma risultano accomunati dagli stessi interessi, incarnati dal Führer, e nella conquista della
sfera privata, e che vede nei totalitarismi del XX secolo un’aggressiva modificazione della forma
del capitalismo ottocentesco.
Ovviamente Herbert Marcuse non è l’unico esponente della cosiddetta Scuola di Francoforte
ad avere esaminato tali fenomeni, tuttavia si è preferito qui il suo approccio sia per i punti di
confronto delle sue tesi con quelle arendtiane, sia perchè in lui le analisi del capitalismo e del
nazismo sfociano direttamente nella successiva critica della società industriale avanzata. Pertanto, il
lavoro di Marcuse va inserito in un più ampio dibattito, interno all’Istituto per la Ricerca Sociale,
sulle nuove forme assunte dal capitalismo contemporaneo, dibattito del quale sarà allora utile
definire i contorni.
Negli anni Quaranta Friedrich Pollock definisce il nazismo come la versione totalitaria del
capitalismo di Stato48, il quale rappresenta il nuovo ordinamento sociale del capitalismo
monopolistico, a sua volta derivante dall’economia liberale del laissez faire. Il tratto fondamentale
del capitalismo di Stato risiede nell’avere eliminato la causa decisiva delle crisi economiche,
sopprimendo l’autonomia del mercato e creando così una forma duratura di organizzazione sociale.
E’ per questa ragione che, per Pollock, il nazismo non sarebbe mai potuto crollare dall’interno, ma
solo a causa di un fattore esogeno come, ad esempio, la sconfitta militare49. Stimolato dalla, e
sostanzialmente d’accordo con, l’ipotesi di Pollock sul capitalismo di Stato, Max Horkheimer
contribuisce al dibattito con l’articolo Lo Stato autoritario (inizialmente avente come titolo Il
capitalismo di Stato50), in cui specifica come la stabilizzazione economica statale avvenga tramite
una trasformazione dei rapporti fra politica ed economia. Il potere politico, infatti, si fonde con
quello economico, dando vita ad una nuova forma di potere impersonale, poiché non controllato né
dai politici, né dagli imprenditori, ma dalla nuova figura sociale del manager, che diventa così
l’emblema di una nuova era e di una nuova classe dominante. In disaccordo con la tesi del
capitalismo di Stato si pone invece Franz Neumann, per il quale il capitalismo ha tutt’altro che
47
E. Pasini, Alienazione, in P. P. Portinaro (cura), I concetti del male, cit., p. 15.
Cfr. F. Pollock, Capitalismo di Stato: possibilità e limiti, in Teoria e prassi dell’economia di piano, De Donato, Bari 1973.
49
Cfr. F. Pollock, Il nazionalsocialismo è un ordine nuovo?, in G. Marramao (cura), Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Liguori, Napoli
1981.
50
Cfr. M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi, Torino 1979; per l’inquadramento di questo saggio nell’ambito
dell’ampio dibattito tedesco sullo “Stato totale”: C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», n. 1, 1997.
48
23
risolto le sue contraddizione interne51. Tali contraddizioni sono state semplicemente spostate ad un
livello più alto, e coperte da un imponente apparato burocratico e dall’ideologia völkisch. Esse, in
verità, non solo permangono ma vengono perfino accentuate dal processo di monopolizzazione
capitalistica, che rafforza il potere dei grandi “capitani d’industria” ed indebolisce i ceti medi e
bassi. Secondo Neumann, il nazismo riesce a mantenersi economicamente dinamico e produttivo
non perché abbia eliminato l’autonomia del mercato, come per Pollock ed Horkheimer, ma
nonostante abbia eliminato i meccanismi del mercato: esso impone un potere politico totalitario che
alimenta l’economia unicamente per soddisfare in maniera diretta ed immediata le proprie esigenze.
Per Neumann il nazismo non è una forma di capitalismo di Stato, per il semplice fatto che il
nazismo è un non-Stato, esso costituisce infatti
una forma di società in cui i gruppi dominanti controllano il resto della popolazione in modo diretto, senza la
mediazione di quell’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi conosciuto come Stato52
Di fronte al dibattito francofortese sul nazismo, Marcuse cerca di operare una sintesi fra le
diverse posizioni esistenti nell’Istituto53, mosso dalla convinzione che lo Stato totalitario possa
essere compreso e superato solo a partire dalla chiarificazione dei mutamenti sociali che, dall’età
del laissez faire e passando attraverso le varie forme assunte dalla società industriale, ne hanno
determinato l’avvento (è interessante notare come tale proposito e tale approccio storico-filosofico
sia simile a quello arendtiano; le differenze, che emergeranno a breve, nella definizione del
totalitarismo derivano essenzialmente dalla prospettiva marxista marcusiana, del tutto estranea alla
Arendt).
Il primo contributo di Marcuse allo studio del nazionalsocialismo è rappresentato dal saggio
La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, concepito come commento al
discorso tenuto da Adolf Hitler nel 1934 agli industriali di Düsseldorf54. In esso si sottolinea come
le differenze fra liberalismo e Stato totalitario siano superficiali, nonostante il secondo si presenti
come una contrapposizione al primo, entrambi condividono infatti, essenzialmente, la credenza
nelle leggi naturali, la radicale opposizione al marxismo e la difesa del modo di produzione
capitalistico; le loro differenze sono meramente funzionali alla transizione dal capitalismo
competitivo, basato sull’impresa individuale, a quello monopolistico, concentrante il potere
economico nelle mani di pochi grandi trust,
si può dire che sia il liberalismo stesso a «generare» lo Stato totalitario ed autoritario, che ne è il
perfezionamento in uno stadio avanzato di sviluppo. Lo Stato totalitario ed autoritario fornisce l’organizzazione e la
teoria della società che corrispondono allo stadio monopolistico del capitalismo55
In altre parole, la concezione totalitaria dello Stato ha dato vita ad una forma di capitalismo
meno competitiva e meno anarchica, non lasciante spazio all’attività individuale; tuttavia, come si è
visto, ciò non comporta una rottura col passato liberale, poiché non risulta intaccata la precedente
struttura economica, che viene anzi esaltata nella figura “eroica” del capitano d’industria:
La nuova concezione del mondo disprezza il «mercante» ed esalta il «geniale capitano d’industria»: così però
maschera soltanto il fatto che essa lascia intatte le funzioni economiche del borghese […] Il pensiero carismatico-
51
Cfr. F. Neumann, Behemoth, Mondadori, Milano 1999.
Ibidem, p. 512.
53
Le diverse interpretazioni del nazismo segnano, probabilmente, la fine della Scuola di Francoforte come orientamento unitario di pensiero, facendo
emergere tutte le differenze teoriche dei vari intellettuali orbitanti attorno all’Istituto per la Ricerca Sociale.
54
Cfr. J. Habermas, Dialettica della razionalizzazione, Unicopli, Milano 1983.
55
H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 19.
52
24
autoritario del capo è già prefigurato nella celebrazione del geniale capitano d’azienda, del boss «nato», compiuta dal
liberalismo56
In un successivo lavoro, il nazismo viene definito come una forma di “tecnocrazia” poiché
in esso la ricerca del profitto è stata gradualmente sostituita da quella dell’efficienza tecnica:
Nella Germania nazista il regno del terrore non è sostenuto solo dalla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma
anche dall’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia […] Questa tecnocrazia terroristica non si può
attribuire alle eccezionali esigenze dell’“economia di guerra”; quest’ultima non è che lo stato normale di
quell’ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia rappresenta uno dei
principali stimoli57
Inoltre, anticipando le riflessioni de L’uomo a una dimensione, Marcuse distingue qui fra
“tecnica”, l’apparato dell’industria, dei trasporti e delle comunicazioni, in sé neutrale, e
“tecnologia”, un determinato modo di produzione. Per questo la tecnologia è sempre
una forma di organizzazione e perpetuazione (o trasformazione) dei rapporti sociali, una manifestazione del
pensiero e degli schemi di comportamento prevalenti e uno strumento di controllo e di dominio58
E la tecnologia, asservita al nazismo, rappresenta
Un esempio evidente delle modalità in cui un’economia altamente razionalizzata e meccanizzata e dotata della
massima efficienza produttiva può operare nell’interesse dell’oppressione totalitaria59
Ma quali sono i tratti distintivi che caratterizzano lo Stato totalitario? Esso ha trasformato i
rapporti economici in rapporti politici, conseguentemente lo Stato monopolizza l’economia,
strumentalizzandola per i propri interessi:
il nazionalsocialismo ha soppresso i tratti distintivi che hanno caratterizzato lo Stato moderno. Esso tende ad
abolire ogni separazione tra Stato e società attraverso il trasferimento delle funzioni politiche ai gruppi sociali
attualmente al potere […] (il nazismo tende così) all’autogoverno diretto e immediato dei gruppi sociali dominanti sul
resto della popolazione60
Se tale impostazione, da un lato porta evidenti vantaggi per i grandi cartelli industriali, a
causa dell’identificazione immediata dei loro interessi con quelli statali, dall’altro richiede alle
industrie l’abolizione d’ogni forma d’indipendenza: nello Stato totalitario non esiste nessuno scarto
tra la politica e la società; tutte le relazioni sociali devono tradursi in relazioni politiche.
Le relazioni economiche, dunque, devono essere trasformate in relazioni politiche; l’espansione e il dominio di
tipo economico non solo devono essere integrati, ma anche superati dall’espansione e dal dominio di tipo politico […]
nella misura in cui le forze economiche diventavano direttamente forze politiche, esse perdevano il loro carattere
indipendente. Esse potevano sbarazzarsi delle loro limitazioni e dei loro disordini interni solo rinunciando alla propria
libertà61
56
Ibidem, pp. 11 e 18.
H. Marcuse, Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, in G. Marramao (cura), Tecnologia e potere nelle società post-liberali, cit., p.
138.
58
Ibidem, p. 137.
59
Ibidem, p. 138.
60
H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 15, parentesi mia; questo saggio
nasce dalla rielaborazione del testo di una conferenza tenuta nel 1941 presso la Columbia University di New York, all’interno di un ciclo di
conferenze organizzate dall’Istitute of Social Research, cui seguirono, fra gli altri F. Neumann (The New Rulers in Germany) e F. Pollock (Is
National Socialism a New Social and Economic System?).
61
Ibidem, pp. 19-21.
57
25
L’abbattimento delle barriere che separano l’individuo dalla società richiede, inoltre, la
conquista di una nuova frontiera del dominio: la sfera privata62. Anch’essa deve infatti essere
politicizzata facendo sì che il tempo libero sia, da un lato, asservito all’incremento della produttività
e, dall’altro, costantemente controllato dal Reich, che previene così la formazione di un’eventuale
pensiero critico nei suoi confronti.
Ed ancora, la classe dirigente dello Stato totalitario dispone di una specifica struttura
multipla63. Il potere è infatti diviso tra la grande industria, il partito e l’esercito, e tali forze si
ritrovano, a volte, in conflitto fra loro; tuttavia, ciò che le tiene insieme è il comune interesse nella
sopravvivenza del regime, emblematicamente rappresentato dalla figura del Führer. Egli si pone
quindi come figura mediatrice fra le forze sociali, e solo in conseguenza di tale funzione (pertanto
indirettamente e non direttamente, come per la Arendt) come “sovrano”; la sua autorità resterà
inalterata solo fintantoché egli riuscirà a garantire il funzionamento dello Stato.
Lo Stato nazionalsocialista emerge in questo modo come la sovranità tripartita dell’industria, del partito e
dell’esercito, che si sono divisi fra di loro quello che un tempo era il monopolio della forza legittima […] Gli attuali
gruppi al potere non credono nelle ideologie e nel potere misterioso della razza, ma seguiranno il Führer fintantoché
egli resterà ciò che è stato fino ad ora, il simbolo vivente dell’efficienza64
L’attenzione di Marcuse non è però rivolta solo ai meccanismi politico-economici che
tengono in vita il nazionalsocialismo, ma anche al suo impatto sociale, da cui si sviluppa un nuovo
tipo di razionalità: la “razionalità tecnica”. Essa rappresenta l’uso della razionalità come strumento
di dominio di massa, e deriva dall’applicazione a tutte le relazioni umane dei meccanismi tipici del
processo tecnologico: nello Stato nazista tutte le relazioni sociali sono all’insegna dei criteri della
velocità, della produttività e dell’efficienza.
Questa razionalità funziona secondo criteri di efficienza e precisione, ma nello stesso tempo è separata da tutto
ciò che la lega ai bisogni umani e ai desideri individuali, ed è interamente adattata ai bisogni di un dominio
onnicomprensivo. I soggetti umani e il loro lavoro organizzato in modo burocratico sono solo mezzi per un fine
oggettivo: il mantenimento dell’apparato con un grado sempre crescente d’efficienza65
Questo Stato funziona, quindi, come una grande impresa, come «un gigantesco cartello
monopolistico che è riuscito a controllare la competizione interna e a sottomettere la masse dei
lavoratori»66. Per questo, il fatto che il nazionalsocialismo faccia ricorso a dei principi mitici (che
per Marcuse costituiscono il “livello mitologico” della nuova mentalità tedesca) che si
contrappongono ai principi fondamentali della civiltà occidentale, non significa che il nazismo sia
l’inevitabile risultato delle radici culturali irrazionali del mondo germanico, affondanti
sostanzialmente in Martin Lutero, Johann G. Herder e Friedrich Nietzsche67, al contrario, il livello
mitologico della nuova mentalità tedesca svolge il ruolo di “comunità linguistica sovra-tecnica”,
mascherando l’avvento della razionalità tecnica. La nuova mentalità tedesca ha quindi poco in
comune con quella precedente, di cui si spaccia come restaurazione, ed è invece simile a quella
62
A questo proposito cfr. E. Jünger, La mobilitazione totale, in «il Mulino», n. 5, 1985, e C. Galli, Ernst Jünger: la mobilitazione totale, in
Modernità, il Mulino, Bologna 1988.
63
La descrizione di tale struttura è mutuata dal Behemoth di Neumann.
64
H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, cit., pp. 22-23.
65
Ibidem, p. 24; affine a questa linea di pensiero è anche l’interpretazione offerta dal testo di Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna
2002, per il quale l’Olocausto può essere visto come «un raro, ma tuttavia significativo e affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società
moderna […] di fronte all’efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a
subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista. Il mondo hobbesiano dell’Olocausto […] è apparso sulla scena […] a bordo
di un veicolo uscito da una fabbrica, cinto di armi che soltanto la tecnologia più avanzata è in grado di produrre, eseguendo un itinerario tracciato da
organizzazioni gestite con criteri scientifici. La civiltà moderna non è stata la condizione sufficiente dell’Olocausto, ma ha rappresentato senza alcun
dubbio la sua condizione necessaria», pp. 30-32.
66
H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, cit., p. 27.
67
Cfr., ad esempio, P. Viereck, Dai romantici a Hitler, Einaudi, Torino 1948.
26
delle moderne democrazie occidentali. Inoltre, è estremamente interessante il fatto che Marcuse
avesse previsto come il superamento della forma mentis nazista sarebbe avvenuto solo proponendo,
in alternativa a quella nazista, una società altrettanto efficiente ma in grado di conservare le libertà
politiche liberali, che il nazismo ha dovuto abolire68; viene per tal via previsto l’insorgere di quella
società consumistica, successivamente descritta ne L’uomo a una dimensione.
Non c’è pertanto da stupirsi se l’adesione di Heidegger al nazismo segna la fine dei rapporti
personali di Marcuse con il suo primo maestro. Significativa a questo proposito è la risposta che,
nell’ambito di un carteggio risalente al 1947-’48, il filosofo francofortese dà all’autore di Essere e
tempo, dopo che quest’ultimo ha equiparato il genocidio ebraico perpetrato dai nazisti alla
deportazione dei tedeschi dell’Est operata dagli Alleati:
Con questa affermazione Lei non si pone al di fuori della dimensione in cui, in generale, ogni conversazione è
possibile – fuori dal Logos? Perché solo fuori della dimensione della «logica» è possibile spiegare, relativizzare,
«comprendere» un crimine, affermando che gli altri hanno fatto la stessa cosa. Ed ancora: com’è possibile mettere sullo
stesso piano la tortura, la mutilazione, l’annichilimento di milioni di uomini, con il trasferimento forzato di gruppi di
popolazione che non hanno sofferto nessuno di questi oltraggi (a parte forse casi molto eccezionali)?69
Cercando ora di riassumere i termini del confronto sulla concezione del totalitarismo nella
Arendt e in Marcuse, così da illuminare, attraverso tali prospettive, il rapporto che quest’ultimo
intrattiene con il capitalismo, ed in generale, con la struttura economica della società, si può partire
dalla constatazione che, per la prima, il termine totalitarismo descrive una forma politica
radicalmente nuova e incomparabile con le forme storicamente precedenti di regime autoritario.
Nella sua genesi, lo Stato totalitario è favorito da determinate pre-condizioni (che la Arendt
individua essenzialmente nell’antisemitismo, che invece per Marcuse è solo una parte della più
generale offensiva che il totalitarismo conduce contro il logos umano, e nell’imperialismo), si
sviluppa attraverso specifici meccanismi (fra cui i principali sono l’uso della violenza e del terrore,
la presenza di un partito unico, l’assoluta centralità della figura del capo e, soprattutto, l’elemento
ideologico) e perviene ad una sospensione del diritto, funzionale alla destrutturazione e
ricostruzione dell’umano (come è avvenuto in ogni “campo di sterminio”). Diversamente dalla
Arendt, Marcuse ritiene il totalitarismo una tappa (quella specificatamente tedesca) della generale
evoluzione del sistema capitalistico-industriale che, in contesti diversi, si manifesta in forme
storiche diverse (come ad esempio, il liberalismo, il nazi-fascismo, il comunismo sovietico70 ed il
consumismo). Conseguentemente per Marcuse, i criteri identificati dalla Arendt non sono sufficienti
per delineare una forma sociale totalitaria,
Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società,
ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni
da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del
sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un
sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un «pluralismo» di
partiti, di giornali, di «poteri controbilanciantesi», ecc.71
68
Cfr. H. Marcuse, La nuova mentalità tedesca, in Davanti al nazismo, cit.
H. Marcuse, Carteggio con Heidegger, in Davanti al nazismo, cit., p. 133. Il carteggio venne pubblicato per la prima volta in lingua originale
(tedesco) sulla rivista «Pflasterstrand», n. 279/280, 1985, e tradotto in italiano in «Fenomenologia e Società», n. 1, 1989; in entrambi i casi, però, è
assente la lettera di Heidegger, e quelle di Marcuse sono mancanti di alcuni periodi, mentre, nel volume, da cui è tratta la citazione, si traducono
integralmente le lettere di Marcuse, così come appaiono in P.-E. Jansen (cura), Befreiung Denken – Ein politischer Imperativ, Verlag 2000, Offenbach
1990, rimane però assente quella di Heidegger, pubblicata parzialmente in «Reset», n. 50, 1998.
70
Sebbene Marcuse critichi la riduzione del marxismo ad ideologia positiva (cfr. H. Marcuse, Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968), egli però rifiuta
l’equiparazione arendtiana di comunismo e nazismo, continuando a riporre fiducia nelle potenzialità “umanistiche” del comunismo marxiano
originario.
71
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 17; tale posizione avvicina Marcuse ad Emmanuel Lévinas e Vladimir
Jankélévitch che, già dagli anni Trenta, interpretano il totalitarismo come l’evento nientificatore per eccellenza della moderna umanità occidentale,
cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, e V. Jankélévitch, Il nazismo e l’essere, in «Micromega»,
n. 5, 2003.
69
27
L’avere interpretato il totalitarismo novecentesco come uno stadio del complessivo sviluppo
capitalistico-industriale, consente a Marcuse di intravedere, negli anni Settanta, l’avvento di una
nuova fase di tale sviluppo72, prefigurando quel fenomeno oggi chiamato “globalizzazione”. Ma
prima di giungere a ciò, e dopo essere passati attraverso la descrizione delle strutture politiche ed
economiche totalitarie, è opportuno analizzare quello che rende possibili tali strutture: la morale e la
coscienza dell’uomo totalitario.
1.4 Crisi della capacità di giudizio e della ragione
Sono molteplici gli effetti disumanizzanti prodotti dal totalitarismo, e sono molteplici le
descrizioni che ne sono state offerte. Con lucidità, la Arendt descrive tali effetti come
l’annientamento degli uomini su tre diversi livelli. Il primo è dato dall’“uccisione del soggetto di
diritto che è nell’uomo”. Questa forma di uccisione rappresenta il perfezionamento totalitario dello
sfruttamento e della persecuzione politica proprie dell’imperialismo e corredate dal pregiudizio
culturale e razziale tipico dell’antisemitismo moderno; il suo esito è quello della sottrazione dei
diritti civili, e quindi di ogni tipo di protezione legale, a determinate categorie di persone. Il secondo
livello risiede nell’“uccisione nell’uomo della persona morale”. Tale uccisione si esplica tramite la
mortificazione della persona ed il relativo annientamento di ogni forma di dignità umana; questo
fenomeno coinvolge tanto le vittime quanto i carnefici, poiché nei Lager entrambi risultano
spogliati della propria umanità. Il terzo livello consiste nella “uccisione dell’individualità”.
Anch’esso si ripercuote sia sulle vittime che sui persecutori: così come i primi risultano
disumanizzati ed infine eliminati, i secondi vengono assorbiti nella massa amorfa, atomizzata e
fusa, generante un’indistinta Volksgemeinschaft73.
Dalla sovrapposizione di questi tre elementi, l’uomo risulta non solo annichilito ma anche
ricostruito: si assiste così alla nascita di un nuovo tipo d’uomo, inaugurante una mutazione
antropologica senza precedenti. La perdita di un mondo comune rappresenta l’esito ultimo di quei
processi disumanizzanti sopra descritti: l’eclissi di una dimensione plurale e condivisa, rinchiude il
singolo in un isolamento che lo rende facile preda della logica dell’ideologia, ovvero di quell’
unica facoltà della mente umana che non ha bisogno dell’io, dell’altro o del mondo per funzionare, e che è
indipendente dall’esperienza come dalla riflessione74
Tale logica fatta di rigida consequenzialità, si potrebbe sintetizzare in un fiat veritas et
pereat mundus, irresponsabile nel suo estremismo. Quindi per perpetuarsi, l’ideologia non
abbisogna né dell’uomo unico nella sua irripetibilità, né tanto meno di una pluralità di uomini, ma
di un mero esecutore, ecco perché la fisionomia del cittadino “ideologgizzato” è quella
dell’esemplare interscambiabile e, pertanto, in sé superfluo. Il cittadino-modello dello Stato
totalitario è allora quell’individuo che fugge dalle responsabilità del Selbstdenken (leit motiv di tutta
l’opera arendtiana), del pensiero e del giudizio autonomo. Egli diviene per tal via incapace di
distinguere la realtà dalla finzione ideologica, che permea tutta la sua esistenza, spogliandolo di un
qualsiasi convincimento autentico. In lui si riscontrano l’assenza del pensiero e l’atrofia della
facoltà di giudizio, non v’è alcuna traccia, insomma, di quell’antico demone socratico-platonico che
costringe al dialogo con se stessi. Il funzionario nazista può, dunque, essere dipinto come una sorta
72
Cfr. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.
Per la descrizione di questi tre livelli di disumanizzazione cfr. H Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 612-629.
74
Ibidem, p. 654; per questo «visti attraverso le lenti dell’ideologia i campi hanno quasi il difetto di avere troppo senso, di attuare la dottrina con
troppa coerenza», Ibidem, p. 626.
73
28
di anti-Socrate che, incapace di pensare, non può fare altro che obbedire “cadavericamente” alle
norme del contesto in cui vive, qualsiasi esse siano.
Evidentemente, il superamento di tale problematica richiede, innanzi tutto, il ripristino di un
mondo comune che oggi, nell’età della globalizzazione, potrebbe avvenire solo tramite l’esercizio
di un ethos universalistico. Ed all’interno di tale mondo comune deve caparbiamente essere
combattuta ogni sorta di “fuga dalla realtà” (come fa la Arendt nei confronti dell’ideologia), quale
forma di cieca complicità con il male (rischio questo dal quale deve guardarsi in modo particolare la
filosofia, costantemente soggetta al pericolo dell’estraniazione dalla realtà effettiva). Insomma, la
Arendt sembra affermare che l’“umanità dell’uomo” non è un dato, ma un progetto, ed in quanto
tale può realizzarsi solo se viene scelto e praticato attraverso l’iniziativa umana; conseguentemente,
il suo primo nemico è la passività, il cedimento passivo ai processi che ci inglobano75. Contro un
simile atteggiamento passivo, dagli esiti nichilistici, l’uomo è chiamato dalla Arendt ad esercitare la
propria responsabilità attraverso risorse, forse fragili, ma propriamente umane, quali
sostanzialmente, la capacità di essere un inizio, l’agire ed il parlare insieme in uno spazio comune e,
soprattutto, la facoltà del giudizio. Ma cosa intende, più specificatamente, la Arendt quando parla di
tale facoltà?
Nella Critica della ragion pratica, Immanuel Kant, tratta della facoltà legiferatrice della
ragione, asserendo che il principio legislativo, espresso nell’“imperativo categorico” (“agisci
sempre in modo tale che il principio della tua azione possa diventare una legge generale”), si basa
sulla necessità che il pensiero razionale sia in accordo con se stesso. Tuttavia nella Critica del
giudizio, che per la Arendt è la più grande opera di filosofia politica kantiana, viene sostenuta una
diversa posizione. L’accordo razionale con se stessi viene qui ritenuto insufficiente per
l’edificazione di una pacifica società, obiettivo per il quale risulta invece indispensabile la capacità
di saper ragionare al posto dell’altro:
Il «modo di pensare ampio», l’apertura mentale, gioca un ruolo cruciale nella Critica del giudizio. Esso si
realizza «paragonando il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli
effettivi, e ponendoci al posto di ciascuno di loro». La facoltà da cui ciò è reso possibile si chiama immaginazione. Il
pensiero critico è possibile solo là dove i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Quindi il pensiero
critico, purtuttavia un’occupazione solitaria (ossia, per un’illuminista quale Kant, un Selbstdenken), non ha reciso ogni
legame con «tutti gli altri»… [Con] la forza dell’immaginazione esso rende gli altri presenti e si muove così
potenzialmente in uno spazio pubblico, aperto a tutti i partiti e a tutti i confronti; in altre parole, adotta la posizione del
kantiano cittadino del mondo. Pensare con una mentalità larga – ciò vuol dire educare la propria immaginazione a
recarsi in visita76
In tal modo il giudizio rimane un atto in cui il soggetto è completamente solo, un
Selbstdenken, ma diviene un atto soggiacente alla comunicazione (sia anticipata, come previsione,
sia effettiva) con gli altri; solo in questi termini può nascere un accordo fra gli uomini. E’ per questo
che il giudizio obbliga a trascendere le proprie limitazioni individuali, l’isolamento, la solitudine, in
direzione del riconoscimento della presenza degli altri. Non può esistere il giudizio senza la
presenza altrui. Ne consegue che ogni giudizio, pur avendo un valore specifico, non potrà mai avere
un valore assoluto: non potrà mai avere un valore superiore a quello che hanno gli uomini che
hanno partecipato alla sua elaborazione.
La differenza più decisiva tra la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio è che le leggi morali della
prima sono valide per tutti gli esseri capaci di intelletto e di conoscenza, mentre la validità delle regole della seconda è
75
Questa prospettiva arendtiana ha molti punti di contatto con quella delineata da Martha Nussbaum in La fragilità del bene: come per la Arendt,
anche per la Nussbaum, il destino dell’uomo è quello di dover agire all’interno di circostanze contingenti, rispetto alle quali ogni soggetto è chiamato
a pronunciarsi, senza lasciarsene travolgere.
76
H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 551, parentesi mia; ed ancora: «Il gusto è questo “senso comunitario” (gemeinschaftlicher Sinn)», Ibidem, p.
563.
29
strettamente circoscritta agli esseri umani sulla terra […] Dice Kant: il giudizio vale «per ogni singola persona che
giudica»; ma l’accento cade su «che giudica»: non vale dunque per chi non giudica o per quanti non sono membri di
quel mondo pubblico nel quale appaiono gli oggetti del giudizio77
Arriviamo così ad un aspetto determinante di tutta l’opera arendtiana: il giudizio è tutt’altra
cosa rispetto alla sapienza, tipica del filosofo:
la differenza tra l’intuizione del giudizio e il pensiero speculativo è nell’avere il primo le sue radici in quello
che chiamiamo di solito il common sense, mentre l’altro lo trascende sempre. Il common sense, che i francesi chiamano
in modo così suggestivo «buon senso», le bons sens, ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti
noi: grazie al buon senso, i nostri cinque sensi, strettamente privati e «soggettivi» e i dati da essi forniti, possono
adattarsi a un mondo non soggettivo, ma «oggettivo», che abbiamo in comune e dividiamo con altri (Il senso comune:
assai presto Kant ebbe la consapevolezza di un che di non-soggettivo in quello che sembra il senso più privato e
soggettivo. Tale consapevolezza si esprime così: si dà il caso che le questioni del gusto [«il bello»] «interessano solo in
società… Un uomo abbandonato a se stesso in un’isoletta deserta non ornerebbe né la sua capanna, né la sua persona…
[L’uomo] non è appagato da un oggetto, se non ne può sentire la soddisfazione in comune con gli altri», mentre, invece,
noi disprezziamo noi stessi se bariamo al gioco, ma ci vergogniamo soltanto quando siamo scoperti. O ancora: «In
materia di gusto, dobbiamo rinunciare a noi stessi a favore degli altri» o al fine di piacere agli altri – Wir müssen uns
gleichsam anderen zu gefallen entsagen). Il giudicare è una delle più importanti, se non la più importante attività nella
quale si manifesti il nostro «condividere il mondo con altri»78
Dunque, per la Arendt, il giudizio è un’intuizione che non necessita di alcuna fondazione
filosofica poiché nasce unicamente dal e nel confronto con gli altri, e che è potenzialmente propria
di ogni uomo in quanto essere politico.
Risulta così maggiormente comprensibile la questione, che si affronterà tra poco, relativa
alla radicalità ed alla banalità del male. Infatti, per il Kant de La religione nei limiti della semplice
ragione, il radikale Böse non deriva dalla negazione della ragione, ma dalla corruzione della retta
facoltà di giudizio. E’ per questo che quando la Arendt parla di “assenza di pensiero”, ciò va inteso
come carenza della facoltà di giudizio, ovvero della facoltà politica per antonomasia, tanto
importante quanto fragile. Ma diversamente da Kant, per il quale il male radicale è sempre
potenzialmente vincibile grazie all’esercizio della virtù del ragionamento e quindi imputabile
all’uomo quando ciò non avviene, la Arendt introduce un’innovativa nozione, definibile come una
sorta di “imputabilità non soggettiva”. Esistono, cioè, delle strutture sistemiche nelle quali diviene
impossibile attribuire la colpa morale (non quella giuridica) di un crimine ad un soggetto. Per
esercitarsi infatti, la facoltà di giudizio ha preliminarmente bisogno di uno spazio comune,
all’interno del quale gli uomini possano entrare in contatto fra loro tramite le proprie parole ed
azioni; è stata proprio la carenza di tutto ciò ad avere innescato il male totalitario. Ma se sono
queste le radici del male (anche di quello smisurato), allora esso non è mai né profondo né radicale,
come rileva anche Jaspers in una missiva di risposta ad una precedente lettera della Arendt:
Il suo modo di vedere la cosa mi sembra un po’ inquietante (la Arendt aveva affermato che la mostruosità dei
crimini nazisti rendeva impossibile una loro valutazione in chiave giuridica, opinione che poi abbandonerà, mantenendo
però l’idea di una non imputabilità morale) poiché la colpa, che sopravanza ogni crimine finora concepito, assume
inevitabilmente […] un connotato di grandezza – di satanica grandezza – e ciò è assolutamente estraneo ai miei
sentimenti nei confronti del nazismo, così come il discorso sul “demoniaco” in Hitler e simili. Mi sembra, poiché così è,
che si debbano ricondurre le cose alla loro pura e semplice banalità, alla loro piatta nullità […] I batteri provocano
epidemie capaci di annientare intere popolazioni, eppure restano batteri e nulla più. Provo paura quando mi accorgo che
da qualche parte sta sorgendo un mito o una leggenda, e ogni oggetto indeterminato è già un oggetto del genere […].
77
H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 550, e La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p.
283.
78
H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, cit., p. 284, testo fra parentesi: H. Arendt, La vita della
mente, cit., p. 561.
30
Nel fenomeno nazista non c’è alcuna idea né alcuna sostanza (Da ciò si può anche notare come Jaspers abbia
contribuito all’elaborazione del concetto arendtiano di “banalità del male”)79
Andando alla ricerca delle fondamenta del male, la Arendt giunge infine alla conclusione
che esso ne è sempre sprovvisto, configurandosi pertanto come un ché di superficiale, di banale. Ma
ciò non ne sminuisce l’atrocità, anzi la incrementa poiché mostra quanto sia facile e comodo
etichettare il male come un qualcosa di “normale”, rinvenendo quindi senza difficoltà nella
popolazione, personale a sufficienza per poterlo mettere in pratica. L’essenza dell’individuo nazista
non è allora quella del fanatico e/o del folle, bensì quella del “borghesuccio” che compie ligiamente
il proprio dovere, all’insegna di tutte le rispettabili abitudini del buon pater familias che si cura
della propria moglie e si sforza di assicurare un buon futuro ai propri figli; egli è insomma un gran
lavoratore ed un onesto padre di famiglia. La sua piccolezza e banalità, risiede nell’essere capace di
tutto, purché venga sollevato da qualsiasi tipo di responsabilità («Credo sia stato Péguy a chiamare
il padre di famiglia “grand aventurier du 20 siècle”, ma è morto troppo presto per imparare che quel
tipo d’uomo era anche il grande criminale del secolo»80).
Seguendo come inviata del «New Yorker» il processo di Otto Adolf Eichmann a
Gerusalemme, la Arendt ha potuto trovare in quell’ufficiale nazista una conferma delle sue tesi sulla
banalità del male. L’incapacità di Eichmann di riflettere in modo autonomo e critico si palesa sin
dalle sue credenze religioso-mitologiche: nell’aula del Tribunale infatti, egli si definisce come un
Gottgläubiger, un “credente in Dio” che ha però rotto con il cristianesimo (si rifiutò infatti di
giurare sulla Bibbia), intendendo Dio come un Höherer Sinnesträger, un “Essere razionale
superiore” conferente significato alla vita umana, che altrimenti ne sarebbe priva. Ora, a parte il
predisporre alla sottomissione ad un’autorità superiore (sottomissione risuonante apertamente nella
definizione dell’«imperativo categorico nel Terzo Reich […] agisci in una maniera tale che il
Führer, se conoscesse le tue azioni, le approverebbe»81), che addirittura dona senso alla vita, questa
concezione mitologica è interessante anche da un punto di vista terminologico: avendo infatti i
nazisti mutato il termine di Befehlsempfänger, “colui che riceve ordini”, in quello di Befehlsträger,
“colui che porta gli ordini”, definire Dio un Höherer Sinnesträger, significa inserirlo nella gerarchia
militare, e la manipolazione linguistica è palese anche quando Eichmann definisce ripetutamente la
“soluzione finale” come “evacuazione” o “trattamento speciale”, la deportazione come un
“cambiamento di residenza” e la sua stessa obbedienza al Führer come una “obbedienza da
cadavere” (Kadavergehorsam). Ma Eichmann non è un caso isolato, anzi la sua incapacità di
giudicare quanto accade intorno a lui è tipica di tutta la massa burocratica del Reich, composta da
individui perfettamente normali, benché autori di azioni mostruose:
Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali […] Non era uno Jago né un Macbeth, e nulla
sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” come Riccardo III […] Dal punto di vista delle nostre
istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme,
poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro difensori – che questo nuovo tipo
di criminale, realmente hostis generi umani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di
accorgersi o di sentire che agisce male82
79
H. Arendt – K. Jaspers, Carteggio, cit., p. 71, parentesi mie. Sulla transizione dalla radicalità alla banalità del male cfr. S. Forti, Banalità del male,
in P. P. Portinaro, I concetti del male, cit.: «l’obbedienza viene elevata a virtù […] diventa un fine in sé; uno stato permanente in cui le pecore
perseguono il bene sottomettendosi costantemente ai loro pastori», p. 43.
80
H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 2003, p. 71; per le riflessioni della Arendt
sulla mentalità tedesca del periodo bellico cfr. The Aftermath of Nazi-Rule, in «Commentary», 10/10/50, ora in Zur Zeit, Rotbuch, Berlin 1986.
81
H. Frank, Die Technik des Staates, Deutscher Rechtsverlag, Berlin-Leipzig-Wien 1942, pp. 14-15, trad. mia.
82
H. Arendt, La banalità del male, cit., pp. 281, 290 e 282. E’ interessante notare come tale atteggiamento sia riscontrabile anche nell’odierno mondo
del lavoro in cui, spesso, il lavoratore ignora il senso complessivo della propria attività, cfr. H Arendt, Vita activa, cit., p. 263, nota 6; su tale
questione cfr. anche la visione gehleniana dell’uomo come “titolare di funzioni” in A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003,
soprattutto il Cap. VIII: Automatismi.
31
La figura di Eichmann mette quindi in evidenza la pericolosità dell’incapacità di elaborare
un autonomo e critico giudizio, l’assenza, o meglio, la corruzione del quale provoca allontanamento
ed estraniazione dalla realtà effettiva; in quell’ufficiale nazista trovano applicazione e conferma
(semmai ne avessero bisogno) i concetti chiave dell’etica socratica, secondo cui “nessuno pecca
volontariamente” e “chi fa il male, lo fa per ignoranza del bene”: il male compiuto da Eichmann
nasce dalla mancata comprensione della natura delle sue azioni (egli agì sempre eseguendo gli
ordini, indipendentemente da quali essi fossero), che la Arendt definisce più dettagliatamente,
rispetto al socratico termine di ignoranza, come una crisi della facoltà di giudizio, sempre possibile
laddove venga meno uno spazio pubblico condiviso dagli uomini83. Non a caso, anche negli ultimi
istanti di vita prima dell’esecuzione, il gerarca nazista pronuncia meccanicamente ancora una volta
quelle pompose frasi di rito che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua carriera.
In quegli ultimi minuti era come se lo stesso Eichmann traesse il bilancio della lunga lezione di abiezione
umana alla quale avevamo assistito. Il bilancio della spaventosa banalità del male di fronte alla quale la parola si blocca
e il pensiero fallisce84
Ma la concezione arendtiana della banalità del male contiene in sé anche le possibilità del
suo superamento, che può giungere solo interrogandosi sul significato del pensare.
La lezione che il Terzo Reich ci ha impartito riguarda la facilità con cui gli individui possono conformarsi a
nuove regole, e questo indipendentemente dal fatto che esse prescrivano un “devi uccidere!” piuttosto che il suo
contrario. I peggiori criminali del XX secolo sono stati uomini che non hanno pensato. Una conclusione sulla quale
meditare, per non convivere in modo banale con l’assassino in cui ciascuno di noi potrebbe mutarsi85
Gli assassini non si sono mai percepiti come tali, paradossalmente, il più grande assassinio
di massa della storia non è stato commesso da assassini, ma da professionisti che hanno svolto
egregiamente e diligentemente il proprio dovere “lavorativo”. E ciò vale tanto per chi gli ordini li
esegue, quanto per chi li progetta, anch’egli infatti si percepisce come un mero esecutore di un
progetto superiore, ovvero, arendtianamente, come un esecutore di una ideologia, il ché rende del
tutto superflua qualsiasi forma di confronto con gli altri, unica strada, invece, che permetterebbe
una sana espansione della facoltà di giudizio. Se è questa la ragione di fondo, non solo della Shoah,
ma di ogni atrocità, allora noi tutti dobbiamo guardarci dal ritenere queste forme di violenza delle
parentesi della storia umana, oggi irripetibili. Il rischio del riprodursi, anche se in nuove vesti, di
fenomeni analoghi è insito nella costante presenza, anche e forse soprattutto nel civile Occidente, di
movimenti e partiti dichiaratamente e orgogliosamente intolleranti nei confronti degli “ebrei di
turno”.
1.5 Dal “sistema” all’Impero
Con il crollo dei regimi politici totalitari, la problematica del controllo totale sugli individui
è stata superata? Molti autori contemporanei ritengono che tale problematica persista all’interno
della società odierna, avendo semplicemente mutato forma e modi d’attuazione; ciò rende
necessario il ricorso ad un nuovo vocabolario concettuale del quale, due rilevanti esempi, sono
83
E’ però da specificare che la Arendt intende lo spazio pubblico come un luogo fisico nel quale gli uomini possano fisicamente incontrarsi; cosa
accade nel momento in cui tale spazio pubblico diviene virtuale, telematico, lo hanno mostrato, per primi, gli autori della prima Scuola di Francoforte:
gli strumenti tecnologici che filtrano i rapporti umani, sottomettono gli stessi ai principi della razionalità tecnologica.
84
H. Arendt, La banalità del male, cit, p. 259.
85
B. Assy, Eichmann, Riccardo III e Socrate, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, cit., p. 179; cfr. anche C. Vallee, Hannah Arendt: Socrate
e la questione del totalitarismo, Palomar, Bari 2006.
32
quelli dei termini di “sistema” ed “Impero”. Prima di descriverli è però interessante vedere come le
prime tracce della modificazione delle strutture di controllo sociale, siano state notate da autori
provenienti dall’Est Europa, ovvero da quei Paesi in cui è stata più tangibile la transizione da
vecchie a nuove forme di dominio totale.
Il ricorso ad una “neolingua”, come la chiama George Orwell in 1984, è, secondo Václav
Havel, il modo in cui un nuovo potere totalitario (di cui Havel intravede l’avvento nella
Cecoslovacchia degli anni Settanta e Ottanta) impedisce il sorgere di un “pensiero eretico”. In
alternativa alla liquidazione fisica di tutti quegli strati della popolazione che non aderiscono agli
assunti dell’ideologia-verità, tale nuovo totalitarismo mira ad una strumentalizzazione del
linguaggio, finalizzata all’inibizione di ogni giudizio indipendente e, quindi, all’accettazione
passiva di determinati comportamenti esteriori. Da un totalitarismo violento, che si insedia al potere
a “colpi di fucile”, si passa così ad un “totalitarismo mite”, che mantiene il potere a “colpi di
linguaggio” standardizzato, originando così delle vere e proprie “logocrazie di massa”. La
manipolazione linguistico-concettuale, con relativa alterazione della memoria storica, rappresenta
quindi il nuovo strumento di controllo sociale:
La coscienza è memoria […] creature la cui memoria sia effettivamente manipolata, programmata e controllata
dall’esterno, non sono più persone in senso proprio […] Questo è ciò che i regimi totalitari tentano incessantemente di
ottenere. Persone la cui memoria – individuale o collettiva – venga nazionalizzata, divenga una proprietà dello Stato,
completamente manipolabile e controllabile, si trovano del tutto alla mercè dei loro dominanti; sono state deprivate
della propria identità; sono indifese e incapaci di mettere in discussione alcunché di ciò che è stato detto loro di credere.
Non si ribelleranno mai, non penseranno mai, non creeranno mai (non a caso, oggi non si assiste ad una distruzione
della memoria storica, come nel caso del nazi-fascismo, ma al sorgere di una “cattiva memoria storica”, subordinata al
controllo del potere, ovvero ad una sorta di industria della storia che produce i ricordi ufficiali, in modo così
convincente da riuscire a contaminare la memoria personale, colonizzandola)86
Il potere non è più interessato all’adesione fideistica all’ideologia87, da parte dei cittadini,
ma all’instaurarsi di un regime di conformismo che risulti, senza spargimenti di sangue, impossibile
da rifiutare, criminalizzando coloro che ne tentano il rigetto. Così, ogni uomo risulta coinvolto nella
struttura di questo nuovo potere “autototalitario”, la cui legittimità dipende, come in un circolo
vizioso, dall’adesione ad esso da parte dei cittadini.
Nell’universo post-totalitario il male non produce più l’immenso numero di cadaveri degli uomini “di troppo”,
perché nella demoralizzazione sistematica che abbassa a vittima innocente nel momento in cui eleva a colpevole,
ognuno ha trovato la propria collocazione […] l’autototalitarismo sociale […] dà all’uomo l’illusione di essere una
persona con un’identità ed una dignità; gli permette di ingannare la propria coscienza e di mascherare al mondo il suo
inglorioso modus vivendi; di confondere il proprio ruolo di vittima con quello di parte in sintonia con l’ordine cosmico88
Uscire, grazie ad un pensiero autonomo, dall’indifferenza nei confronti della propria e
dell’altrui esistenza è l’unico modo, per Havel, per sottrarre al potere la sua indispensabile risorsa:
la complicità di tutti e di ciascuno. Ed è proprio per non avere concesso tale complicità che Jan
Patočka, maestro di Havel, muore (nel Marzo del 1977), dopo un estenuante interrogatorio della
polizia ceca, lasciando in eredità la concezione di un pensiero filosofico cui spetta la missione di
porsi “sulla linea del fronte”, poiché la vera lotta di ogni totalitarismo è condotta essenzialmente
contro la riflessione filosofica che, non diversamente dal “Thinking” arendtiano, non ha nulla a che
fare con l’accumulazione del sapere, essendo piuttosto una radicale e permanente (ri)costruzione
dell’esistente. Per Patočka, la filosofia deve costantemente opporsi all’“ordine del giorno”, alla
86
L. Kolakowski, Il totalitarismo e la virtù della menzogna, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., p. 130, parentesi mia.
Ecco perché, per la comprensione di questo “totalitarismo post-totalitario”, non risultano più efficaci locuzioni quali “religioni politiche” (cfr. E.
Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano 1993) o “religioni secolari” (cfr. R. Aron, Machiavelli e le tirannie moderne,
SEAM, Roma 1998).
88
V. Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991, pp. 40 e 20.
87
33
supina accettazione dell’esistente, a quelle “contingenze secondarie” (poiché la “contingenza
primordiale” è quella della finitudine umana) che pretendono docilità, obbedienza, subordinazione.
La filosofia, insomma, deve essere una “filosofia del notturno” che, in quanto tale, si oppone a tutte
le potenze affermative e positive che vogliono l’assoggettamento della possibilità alla realtà89.
Insomma, diversi pensatori del Novecento, seppur attraverso una terminologia ed un
itinerario concettuale diverso, giungono ad individuare all’interno della società contemporanea, e
quindi posteriore al totalitarismo inteso come evento storico, una problematica simile a quella che la
Arendt pone alla base del male totalitario: la degenerazione della capacità di pensare
autonomamente, ovvero al di fuori di uno schema ideologico, problematica questa che già la stessa
Arendt aveva notato essere presente non solo nel cittadino-tipo dello Stato totalitario, ma anche
nelle figure antropologiche dell’homo faber e dell’animal laborans.
Possiamo ora introdurre la marcusiana concezione di “sistema”, che rappresenta una ricca e
articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio. Esso affonda le sue
origini in una determinata modalità di produzione tecnologica, ispirata da una falsa razionalità, che
conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma d’efficienza e produttività,
funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominazione:
Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura giunse così a fornire i concetti
puri non meno che gli strumenti per un dominio sempre più efficace dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il
dominio della natura90
Ma a tale esito non si è giunti per il progresso della tecnica (in sé neutrale in quanto
sprovvista di un telos), bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia (la forma storica
della tecnica), che ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico. Esso
infatti perde i suoi tipici connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per perseguire ogni
possibile “chiarimento ontologico” tra status quo e sue alternative, tra essere e dover essere, tra
esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace
di qualsiasi critica nei confronti del reale. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra cultura e
realtà, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà, come ad esempio,
l’alienazione artistica. L’arte infatti, così come l’alta cultura, risulta “desublimizzata”, ovvero
spogliata della sua facoltà d’immaginare una realtà altra, e assorbita all’interno dell’ordine di cose
esistente, così, la ragione si trasforma in mero strumento d’analisi e di descrizione di fatti empirici.
Anche il linguaggio viene oggettivato, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali e
limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. «In questo universo di
comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere
assorbito dalla parola»91.
Per tal via il pensiero, l’arte, l’alta cultura ed il linguaggio, insomma l’uomo, acquistano
quel carattere di “unidimensionalità” consistente nell’incapacità di vedere oltre la dimensione
esistente, prospettandone delle alternative.
In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere
radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della
Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società
industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a
sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di
89
Cfr. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Cseo, Bologna 1981, su questo cfr. R. Esposito, Oltre la politica, Mondatori, Milano 1996,
e J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
90
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 172.
91
Ibidem, p. 104.
34
vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano
veicolo del potere repressivo nell’insieme92
Il sistema, quindi, non solo inibisce la formazione di un pensiero critico ma impedisce anche
il riconoscimento della presenza di tale forma di repressione. E’ questo infatti l’esito della
“desublimazione repressiva”, ovvero dell’assorbimento e dell’appiattimento in un’unica dimensione
di tutte quelle forze culturali ed artistiche che, nella società pre-tecnologizzata, costituivano una
dimensione opposta a quella reale. L’arte e l’alta cultura sono infatti essenzialmente alienazione, e
L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irriconciliabili con il “principio di
realtà” stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili ma persino edificanti ed utili93
Ma, nell’attuale momento storico, la desublimazione repressiva riduce queste “immagini
culturali” alla società esistente. Anche la liberazione sessuale, che appare come una conquista della
modernità, è, a causa della desublimazione, assorbita dal sistema che permette un soddisfacimento
sessuale solo secondo tempi e modi da esso imposti. Così l’Eros, inteso come energia libidica che
pervade l’intero organismo e si può manifestare in tempi e modalità diverse, si muta in attività
sessuale localizzata in precise zone del corpo e limitata a precisi criteri di svolgimento. Per tal via,
l’attività sessuale viene inscritta all’interno della sfera del tempo libero, inteso come quel tempo di
riposo necessario agli individui per poter essere efficientemente re-immessi nel processo produttivo.
Un ulteriore esito della desublimazione è, come già accennato, la trasformazione del linguaggio che,
mirando unicamente ad una rapida ed efficace descrizione della funzione di una cosa, non lascia
spazio alla critica ed alla riflessione, esso quindi descrive qualcosa ma non significa qualcosa.
I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica
rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere
l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] (il
concetto) non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di
questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla
pubblicità […] La parola diventa clichè94
Questa impostazione sociale si condensa in una “coscienza falsamente felice”, la cui
illusoria felicità poggia sulla mancata comprensione delle forme di dominio cui è sottoposta.
L’uomo che vive in un’unica dimensione, quella del sistema, è dunque colui per il quale la ragione
si è identificata con la realtà al punto tale che, al di fuori di quest’ultima, non vi sono altre
possibilità d’esistenza. Dunque, la società industriale avanzata è caratterizzata da una nuova forma
di repressione che prevede il consenso dei dominati, ottenuto appiattendo le aspirazioni e i bisogni
umani sulle necessità del sistema e quindi facendoli coincidere con esso. Si realizza così una nuova
forma di amministrazione totale descrivibile come una sorta di sistema democratico totalitario, in
cui il controllo e la manipolazione degli individui avviene non tramite gli “arendtiani” strumenti
della violenza fisica, della censura e del terrore, bensì attraverso una determinata impostazione
tecnologica95.
Tuttavia, per Marcuse l’uso repressivo della tecnologia non è altro che l’esito finale di una
“scelta iniziale” con la quale una società organizza la vita dei suoi membri, scelta iniziale che può (e
92
Ibidem, pp. 30-31; sono diversi gli scritti in cui Marcuse affronta, da varie prospettive, queste problematiche, significativi di una prima
elaborazione, risalente agli anni Trenta, sono Il concetto di essenza, Sul carattere affermativo della cultura, e Filosofia e teoria critica,
rispettivamente in Fenomenologia ontologica-esistenziale e dialettica materialistica, Unicopli, Milano 1980 il primo, e in Cultura e società, cit. i
successivi, risale invece alla fase matura del suo pensiero Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, cit.
93
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 90.
94
Ibidem, pp. 103 e 104-105, parentesi mia; cfr. anche M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
95
E’ altresì interessante notare la somiglianza, nei due pensatori, del concetto di ideologia, che per entrambi descrive un’idea, dotata di una logica
interna, che investe la società causando la degenerazione della facoltà di giudizio (per la Arendt) e del pensiero critico (per Marcuse).
35
per Marcuse deve) essere ridiscussa, ridefinendo i fini e l’orizzonte dello sviluppo tecnologico,
mettendo quest’ultimo al servizio di una liberazione spazio-temporale delle facoltà psico-fisiche
umane. Ovviamente, tale ipotesi poggia sulla concezione di una sostanziale ambiguità della tecnica:
essa può essere sia fonte di asservimento che di liberazione umana. E la liberazione è oggi possibile
poiché l’automazione raggiunta dal progresso tecnologico, sotto la spinta del principio di
prestazione, permetterebbe un risparmio d’energie, da sottrarre al lavoro e da dedicare allo sviluppo
di quelle facoltà umane oggi represse. In altri termini, la società iper-repressiva può affrancarsi dal
principio di prestazione, e dalla repressione addizionale (o surplus di repressione) ad esso correlata,
conciliandosi il più possibile con il principio del piacere96. Ci porterebbe ora troppo lontano vedere
come, in opere quali Ragione e rivoluzione, La fine dell’utopia, Saggio sulla liberazione e
soprattutto La dimensione estetica (ultima sua opera), il Marcuse maturo formuli la proposta del
Grande Rifiuto (o negazione determinata) nei confronti dello status quo, vedendo nei giovani e
negli intellettuali, ovvero in tutti i non integrati nel sistema, negli outsiders, il nuovo soggetto
rivoluzionario di una auspicata rivoluzione culturale, volta alla liberazione degli uomini e
all’edificazione di una società “estetica”, di una “società come opera d’arte”.
Insomma, per Marcuse il sistema è l’esito di una generale crisi della ragione che comporta
inevitabilmente una degenerazione della società. Tale prospettiva è simile a quella adottata da
Horkheimer nell’analisi del totalitarismo, da lui inteso come una tappa di quel generale processo di
degenerazione che è la civilizzazione occidentale; tale modo d’intendere il processo civilizzante
occidentale dà al sociologo tedesco la possibilità non solo d’interpretare il regime nazista come una
tappa di quello stesso processo, ma anche di individuare le possibili linee di sviluppo dello stesso,
confluenti in una forma di illibertà post-nazista, da Marcuse descritta proprio come sistema.
Come per la Arendt, anche per Horkheimer la paura e il terrore sono funzionali a
quell’atomizzazione sociale che costituisce l’humus ideale per ogni regime totalitario: «Il terrore nel
quale si rifugia la classe dominante è raccomandato dagli scrittori autoritari fin dal tempo di
Machiavelli»97; ma diversamente dalla Arendt, per Horkheimer i germi di ciò si trovano
essenzialmente nella kantiana Critica della ragion pratica, il cui imperativo categorico impedisce
qualsiasi forma d’opposizione all’autorità dominante:
Secondo la Ragion Pratica il popolo deve obbedire come in una casa di disciplina con la differenza che insieme
allo sgherro di qualunque potere deve avere come spinta all’obbedienza e come guardiano, anche la coscienza […] il
conoscitore di Kant sa che la «morale interna» non può protestare contro il duro lavoro raccomandato da qualunque
potere98
Dunque, per Horkheimer, la legge universale alla quale il comportamento personale deve
tendere non è altro che la legge imposta dall’autorità dominante. Ne consegue che il potere
dominate non ha neanche bisogno di opporsi ad una eventuale richiesta di libertà da parte dei
cittadini, poiché questi, semplicemente, dimenticano cosa sia la libertà e quindi, come nel
marcusiano sistema, non ne avvertono la mancanza.
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni
caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto
che la parola «libertà» non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio99
96
Cfr. H. Marcuse, Principio del piacere e principio della realtà, in Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967; in questa prospettiva, la criminalizzazione di
tutti i comportamenti ostili al, o non integrati nel sistema, non è altro che uno dei modi con cui quest’ultimo preserva se stesso da possibili mutamenti.
97
M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, Savelli, Roma 1978, p. 45.
98
Ibidem, p. 46.
99
M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 87-88.
36
Quasi gettando le fondamenta del marcusiano “uomo a una dimensione”, Horkheimer nota
come le più grandi trasformazioni sociali, introdotte dal nazismo e destinate a sopravvivergli, siano
riconducibili alla perdita del potere, precedentemente proprio della ragione, di trascendimento della
realtà; dal nazismo il pensiero è ridotto in una sorta di funzione economica fredda e lucida,
finalizzata al profitto. Come sarà per Marcuse, anche per Horkheimer ciò provoca un generale
decadimento sociale, di cui un evidente indicatore è l’imbarbarimento del linguaggio:
L’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare
ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali100
Ciò conduce ad un’esaltazione dello status quo e degli oggetti in esso presenti:
I ragazzi osservando l’auto o l’apparecchio radio imparano presto a conoscerli […] il padre […] è sostituito dal
mondo delle cose101
Ed alla riduzione strumentale dell’amore in sesso:
La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato
di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo102
Anche Horkheimer, come tutti i pensatori che hanno affrontato queste problematiche,
rintraccia la possibilità di un superamento delle stesse, in quell’attività ormai quasi del tutto
dimenticata: «Il pensare è già di per sé un segno di resistenza che sta ad indicare l’impegno a non
lasciarsi più ingannare»103.
Inoltre, anche Habermas ravvisa nel Novecento un momento di crisi della razionalità, a
partire da problematiche economiche che divengono poi inevitabilmente delle problematiche sociopolitiche. Nelle società liberal-capitalistiche, infatti, le crisi si manifestano sottoforma di irrisolti
problemi economici di controllo sociale, causando così un’immediata minaccia per l’integrazione
sociale che il capitalismo liberale persegue unicamente tramite logiche di mercato. Nella fase più
matura dello stesso capitalismo liberale, questa tendenza viene estremizzata completando così la
sostituzione del sistema amministrativo con quello economico. Sintomatico di ciò è il passaggio del
potere da determinati gruppi dominanti ad anonimi soggetti privati, ed il trionfo della “ideologia
della prestazione” che investe ogni ambito della vita. L’economia quindi entra
nell’amministrazione, anzi diviene amministrazione, la quale si riduce ad amministrazione della
produzione e della distribuzione di merci, causando un “deficit di razionalità”, ovvero una mancata
comprensione di tutto ciò che risiede al di fuori del mondo economicamente produttivo,
riscontrabile, secondo Habermas, nella sostituzione del concetto di “senso” con quello di “valore”,
nella separazione tra il diritto e la morale, in un generico common sense che (lungi dall’avere la
stessa “funzione salvifica” che ha nella Arendt) è privo di ogni problematicità trascendente,
riducendosi a mero utilitarismo, e nel condensarsi nell’arte (come per Marcuse) di tutti quei valori
espulsi dalla società borghese. Questo deficit di razionalità, allora, blocca la società su tutti i livelli
al punto tale che, l’unico modo per superare questa impasse è quello di mettere in crisi il sistema
avanzando nei suoi confronti delle aspettative, per lui impossibili da soddisfare. In tal senso, la più
grande aspettativa (che aprirebbe la più rivoluzionaria delle crisi) che si può avanzare nei confronti
del sistema è quella della richiesta di una sua legittimazione ad esistere. Una simile aspettativa
100
M. Horkheimer, Ragione e Autoconservazione, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 111-112.
Ibidem, pp. 115 e 117.
102
Ibidem, p. 118.
103
M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., p. 90.
101
37
potrebbe essere soddisfatta solo in termini etici, poiché è l’etica la base di ogni possibile
legittimazione, e l’etica che Habermas propone è un’etica “discorsiva”:
Un’etica rimane […] il fondamento della legittimazione […] Solo l’etica comunicativa assicura l’universalità
delle norme lecite e l’autonomia dei soggetti agenti (diversamente dall’etica formalistica kantiana che scinde la legge
morale universale dal livello contingente della socializzazione), unicamente con la soddisfacibilità discorsiva delle
pretese di validità con cui le norme si presentano, ossia per il fatto che possono pretendersi valide solo le norme su cui
tutti gli interessati si accordano […] in quanto partecipi di un discorso, se entrano […] in un processo di formazione
discorsiva della volontà104
Se nella sua idea di partecipazione, generalizzata e con uguali possibilità, degli uomini ai
processi discorsivi di formazione della volontà, l’etica comunicativa ricorda le tesi arendtiane sullo
spazio pubblico antico, l’irriducibile differenza fra i due pensatori sta però nel fatto che Habermas
rifiuta la concezione di una spontaneità discorsiva sottratta alla riflessione. Anzi, è imputabile
proprio ad una carenza di razionalità, il sorgere, oggi, di democrazie che rendono possibile il
benessere senza la libertà. Esse infatti adottano un sistema di norme che, pur non mancando di spazi
per la comunicazione, si fonda
sul timore e sull’assoggettamento alle sanzioni indirettamente minacciate, oltre che sulla pura sopportazione
(compliance) determinata dalla consapevolezza della propria impotenza e dalla mancanza di alternative (fantasia
imbrigliata) […] La fede nella legittimità si riduce a fede nella legalità105
Prima di proseguire, è interessante notare come anche per Theodor W. Adorno, l’origine dei
mali socio-politici, dei quali il totalitarismo rappresenta solo una possibilità, sia sempre ascrivibile
ad una malattia della ragione che, anziché orientarsi verso una autoconsapevolezza critica, si
indirizza verso una pianificazione del dominio. La secolarizzazione, enfatizzata dall’illuminismo,
ha prodotto un fraintendimento del rapporto che lega il soggetto all’alterità, poiché è stata intesa
come un mero passaggio di consegne dal sacro al profano, dall’autorità di forze trascendenti
(sostanzialmente Dio) all’autorità di forze immanenti. Così, la forza totalizzante del mito metastorico, dalla quale il soggetto moderno106 mira a sottrarsi, viene ricreata nella storia. Il pensiero
infatti elimina il mito irrazionale, rigettandolo, ma si appropria del potere in esso contenuto, cioè dei
suoi essenziali caratteri di forza fondativa, autarchia, cominciamento assoluto e chiusura totale in
sé. Se il pensiero esce, quindi, da un orizzonte di senso assoluto, entra però nell’ambito
dell’assolutizzazione del proprio orizzonte finito: la razionalità moderna smantella il potere
totalizzante del mito, ma si rivela essa stessa una ragione totalitaria. Questa nuova forma di potere
totalitario, radicato nella realtà esistente, produce un’apologia di quest’ultima, mascherandone le
carenze razionali con schemi di semplificazione della realtà, quali ad esempio, le polarità amiconemico, potenza-impotenza, bianco-nero, espresse negli
slogan pubblicitari che si siano rivelati efficaci per l’incremento del fatturato. Questa standardizzazione
coincide con il ragionare stereotipato e con il desiderio di un infinito, immutato ritornello107
Insomma, la malattia del pensiero moderno, che per Adorno è riscontrabile non solo
nell’illuminismo ma anche nell’idealismo hegeliano e di cui si trova un’anticipazione nel
cristianesimo, consiste nella pretesa di voler conciliare finito e infinito in un’unica dimensione,
producendo una «proiezione distorta di uno stato pacificato, non più antagonistico, sulle coordinate
104
J Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 98-99, parentesi mia.
Ibidem, pp. 106 e 108.
106
La figura di Ulisse, descritta nella Dialettica dell’illuminismo, tratteggia le vicende del soggetto moderno che si emancipa dal potere totalizzante
del mito, per poi riprodurlo in tutto e per tutto uguale.
107
T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma 1994, p. 86.
105
38
di un pensiero riflessivo, espressione del dominio»108. La tensione verso una sedicente pacificazione
sociale si impone così prepotentemente da sostituire la realtà con un’immagine della realtà, con
un’ideologia, prodotta dal pensiero.
Possiamo ora giungere a quello che Michael Hardt ed Antonio Negri definiscono come
“Impero”, e che sembra rappresentare una sorta di trasposizione politologica delle concezioni sin
qui analizzate (in particolare quella marcusiana di sistema), inerenti alla modificazione dei
meccanismi di controllo sociale nella modernità.
Similmente a quanto espresso dalla Arendt nel capitolo de Le origini del totalitarismo
intitolato Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, anche Hardt e Negri ritengono
che nella modernità lo Stato-nazione sia entrato in crisi, perdendo la propria sovranità. Ma l’esito
fondamentale di tale crisi non è per i due autori quello individuato dalla filosofa tedesca, ovvero la
nascita di una massa di apolidi senza Stato e dunque senza diritti, bensì quello di avere prodotto un
passaggio di sovranità dagli Stati nazionali ad un nuovo “soggetto politico”: l’Impero. Il declino
della sovranità dello Stato-nazione non ha prodotto, quindi, il declino del concetto di sovranità, ma
la sua collocazione nelle mani di una serie di organismi nazionali e sovranazionali, uniti da un’unica
logica di potere originante, pertanto, una sovranità globale. Le sue caratteristiche sono quelle di
essere un sistema di controllo decentrato, deterritorializzante ed onnicomprensivo; le sue frontiere
non sono infatti individuabili, cosicché esso si trova a non avere confini o limiti, né territoriali, né
storici, né sociali. Territorialmente si estende infatti sull’intero pianeta, in modo particolare sul
mondo “civilizzato”. Storicamente si presenta non come un regime transitorio, ma come
l’eternizzazione necessaria di un determinato ordine sociale. Ed infine agisce su tutti i livelli della
vita sociale, regolando le interazioni umane e cercando di controllare la stessa natura umana. La
sovranità globale e assoluta di cui si è appropriato, legittima, ed anzi invoca, il suo potere
d’intraprendere guerre eticamente giuste, ovvero in nome della pace e dell’ordine, attraverso
interventi militari che hanno ormai assunto l’aspetto di operazioni di polizia internazionale, dato che
in un sistema di controllo globale ogni guerra è sempre una guerra civile, combattuta non contro
“barbari” esterni, ma contro ribelli interni109. E’ così che avviene la transizione dalla società della
disciplina a quella del controllo (già prefigurata nei lavori foucaultiani sul concetto di biopolitica), il
cui scopo rimane quello di dare norme alla vita, prescrivendo i comportamenti normali e
normalizzanti e quelli deviati e devianti, ma la normalizzazione avviene non tramite l’imposizione
delle regole, bensì tramite la loro interiorizzazione, esse vengono infatti veicolate ed addirittura
legittimate dall’industria della comunicazione e dello spettacolo, generando un complesso
dispositivo di immagini ed idee che producono le opinioni e regolano il discorso pubblico
(ovviamente tali processi sono supportati da uno sviluppo tecnologico, giunto oggi al livello
dell’informatizzazione, che, lungi dall’essere un ché di neutrale, contribuisce ad una nuova
definizione della condizione umana)110. Quindi, il potere assorbe la vita e per mezzo di essa si
riproduce. Ed in questa nuova forma di controllo, l’Impero si avvale di un risultato ereditato dagli
Stati nazionali: la riduzione della moltitudine a totalità ordinata, a popolo. Infatti, attingendo al De
Cive di Hobbes, i due autori scrivono:
108
T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 23.
La trasformazione degli eserciti nazionali in polizia internazionale sarebbe accettabile, e forse addirittura auspicabile, se fosse la conseguenza della
«stabilizzazione di uno stato di cittadinanza universale (che) comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate e
condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse all’interno di un qualsiasi ordine costituito […]
(ciò) preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un’indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi
di discriminazioni morali di “nemici”. Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno stato e di un
governo mondiali. Ma come minimo è necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di giustizia
internazionale e l’integrazione dell’Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un “secondo livello” di rappresentanza dei cittadini», J.
Habermas, Umanità e bestialità, in «Caffè Europa», n. 33, 1999, parentesi mie.
110
Sulla produzione delle soggettività tramite l’interiorizzazione dei modelli di dominio, veicolati dai mass-media e dall’industria del divertimento,
esiste una bibliografia amplissima di cui, alcuni significativi risultati sono: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit.; A.
Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit.; H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit.; G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi,
Milano 1997.
109
39
«E’ contrario al governo civile e, in particolare, a quello monarchico, che gli uomini non distinguano bene tra
popolo e moltitudine. Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica. Nulla
di ciò si può dire della moltitudine. Il popolo regna in ogni stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda:
infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […]». La moltitudine è una molteplicità […] Il popolo
tende invece all’identità e all’omogeneità interna […] Il popolo fornisce un’azione e una volontà uniche indipendenti in
conflitto con le volontà e le azioni della moltitudine111
Per questa via, non solo il popolo rappresenta la moltitudine, ma rappresenta tutta la
moltitudine, nel senso che al di fuori di esso, cioè al di fuori della sovranità imperiale sul popolo
globale, non può e non deve esserci niente. E se qualcuno si ostina a porsi al di fuori dell’Impero,
viene etichettato come appartenente ad una cultura diversa e, ovviamente, inferiore.
Con il passaggio all’Impero, le differenze biologiche sono state rimpiazzate da significanti sociologici e
culturali intorno ai quali si costituiscono le rappresentazioni dell’odio e della paura della differenza razziale […] Dato
che la biologia è stata abbandonata nella sua funzione di supporto e di fondamento (del razzismo) […] la cultura finisce
per sostituirla nel ruolo che essa svolgeva in precedenza112
Ciò non significa che all’interno dell’Impero non ci sia un pluralismo di differenze culturali,
ma che esse vengono accettate solo se si lasciano assorbire e amministrare. Di fronte a tutto ciò è
necessario rispondere, secondo i due autori, sia con un ragionamento “critico e decostruttivo”, che
sovverta i linguaggi e le strutture sociali egemoni, sia con un ragionamento “costruttivo ed eticopolitico”, che crei una credibile ed immanente alternativa politico-sociale, c’è bisogno, in altri
termini, di un “rifiuto costruttivo” (simile a quel Grande Rifiuto di Ragione e rivoluzione). E tale
argomentazione non si fonda su una speranza bensì su una realistica possibilità, poiché è l’Impero
stesso a generare
Un potenziale rivoluzionario assai più grande di quello creato dai moderni regimi di potere, poiché ci mostra,
accanto alla macchina di comando, un’alternativa effettiva: l’insieme degli sfruttati e dei sottomessi, una moltitudine
che è direttamente, e senza alcuna mediazione, contro l’Impero113
Infine, non si può ignorare come, fin dal primo dopoguerra, in Italia Pier Paolo Pasolini
abbia individuato una dissociazione fra il progresso scientifico, tecnico ed industriale, e lo sviluppo
culturale e civile. Una dissociazione, dagli esiti tragici, dovuta ad
un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo
sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante114
Ricordando alcune tra le più significative tesi elaborate parallelamente ed autonomamente
da molti altri intellettuali europei, anche Pasolini ravvisa nel capitalismo non un mero fenomeno
economico, ma un grande fenomeno culturale inaugurante una vera e propria “mutazione
antropologica”, a causa di una modificazione materiale (i nuovi oggetti prodotti) e mentale (il
nuovo linguaggio utilizzato) del mondo. Anche lui vede nel conformismo consumistico una nuova
forma di controllo sociale che opera omologando materialmente e culturalmente gli individui, ed
individua in una sorta di ribellione costruttiva l’unica via di miglioramento sociale. Tuttavia, per
111
M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 107, sulla dicotomia moltitudine-popolo cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine,
DeriveApprodi, Roma 2002. Per non avere colto tutto ciò ed essersi limitata alla denuncia della distruzione della sfera pubblica democratica, Hardt e
Negri criticano lo studio arendtiano sul totalitarismo; ma, a “discolpa” della Arendt, si deve ricordare come ella intenda il totalitarismo come un
determinato evento storico-politico e non come una categoria concettuale.
112
M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 182, parentesi mia; su una nuova forma di razzismo, sganciata da un’accezione biologistica di razza cfr. E.
Balibar, Esiste un “Neorazzismo”?, in I. Wallerstein – E. Balibar, Razza nazione classe, Edizioni Associate, Milano 1996.
113
M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 364.
114
P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003, p. 12, cfr. G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo, Mondadori, Milano 2005.
40
Pasolini, differentemente che per Marcuse, il movimento del ’68 non rappresenta altro che un
momento di ribellismo borghese destinato, in ultima istanza, a confermare il sistema esistente:
l’autentico rifiuto del potere non si attua scontrandosi con questo, ma non lasciandosene sedurre;
infatti, come scrive ad un suo immaginario allievo nel 1975, nell’ambito di un’opera pedagogica
intitolata Gennariello e non terminata a causa della prematura morte,
Ti descriverò prima i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «obbedienti» (il fatto che qualche
volta si atteggino a contestatori, estremisti, ribelli ecc. non ha alcuna importanza: come non hanno importanza i loro
capelli lunghi, cristallizzati ormai nelle ridicole e un po’ schifose acconciature di un’iniziazione totalmente
conformista). Poi ti descriverò i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «disobbedienti», cioè i pochi veri
estremisti sopravvissuti, i disadattati, i devianti e infine – questi rarissimi – i «colti»115
Va infine ricordato come, diversamente dagli autori della prima Scuola di Francoforte,
Pasolini non riconduca queste problematiche ad un generale processo di degenerazione insito nella
civilizzazione occidentale, ma ad un ceto politico incapace e corrotto, per indicare il quale conia il
termine di “Palazzo”.
Concludendo, si può notare come nel mondo occidentale la cultura letteraria e filosofica
abbia pressoché sempre scorto enormi mali connessi all’avvento della modernizzazione scientificotecnico-industriale. Tuttavia ciò non sta ad indicare, come potrebbe sembrare, un’avversione
dell’intellighenzia nei confronti della modernità. Infatti, che lo si definisca come capitalismo,
totalitarismo, sistema, Impero o Palazzo, il trait d’union che lega le varie interpretazioni critiche
dell’epoca moderna risiede nella constatazione dell’eliminazione, in essa, della forza del pensiero
autonomo, ovvero di quell’ultima possibilità di resistenza al male, di quella forza, potenzialmente
propria di ogni uomo, che permette di mantenere la propria assoluta libertà.
115
Ibidem, p. 57.
41
Cap. II Sulla democrazia
Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perché queste li dispensano dallo studiare i casi particolari
A. de Tocqueville, La democrazia in America
2.1 Il modello democratico delle pòleis
La democrazia è la risposta che, sia sul piano concettuale che fattuale, il mondo occidentale
ha dato per superare i vari mali della politica, dal dispotismo al totalitarismo, inteso in tutte le sue
possibili accezioni e varianti teorico-pratiche. Eppure, nella cultura occidentale, sono presenti anche
delle critiche nei confronti dell’idea e/o della messa in pratica della democrazia: da Platone, che la
considera una forma di degenerazione dello Stato, al pari della timocrazia, dell’oligarchia e della
tirannide, a chi, come ad esempio Alexis de Tocqueville, ne denuncia l’insito pericolo “dispotico”,
ovvero quello di una tirannia della maggioranza116. Il limite della democrazia appare allora quello
della possibile cristallizzazione di determinate regole e procedure, rischio però evitabile
mantenendo una costante rivedibilità delle norme, alla cui (ri)definizione possa partecipare
chiunque, avendo i requisiti necessari117, desideri farlo.
Significativo, a questo proposito, è il soffermarsi della Arendt sulla definizione aristotelica
di uomo come zōon politikon, in essa è infatti presente la concezione greca della politica, intesa
come bios politikos, come un vivere politico che non rappresenta una semplice dilatazione della vita
privata (come nel caso della phratria e della philē), ma un nuovo ordine d’esistenza (inaugurato
dalle pòleis) fondato su ciò che, a parte le necessità biologiche, accomuna gli uomini: praxis
(l’azione) e lexis (il discorso). Fra questi due elementi costitutivi delle pòleis, il secondo ha preso
gradualmente il sopravvento sul primo (distinguendosi peraltro in retorica, l’arte del discorso
pubblico, e dialettica, l’arte del discorso filosofico), portando così Aristotele ad una seconda
definizione di uomo, quella di zōon logon ekhon (essere vivente capace di discorso/ragionamento;
il termine logos racchiude entrambi i significati). Così, per la Arendt, le pòleis hanno infine adottato
la parola e la persuasione come strumento decisionale, considerando la violenza ed il potere
incontrastato di uno o pochi uomini, delle forme relazionali prepolitiche, tipiche della vita
domestica o degli imperi asiatici, per questo considerati barbarici; in politica, insomma, non esiste
alcun pater familias. Per questo la Arendt critica le traduzioni, riconducibili a Tommaso d’Aquino,
di zōon politikon come essere sociale, e di zōon logon ekhon come essere razionale; in entrambe
queste traduzioni infatti, si perde la concezione originale greca della politica: nel primo caso si
confonde il bios politikos con una generica societas, nel secondo si commette l’errore di supporre
che, per i greci, il logos sia una facoltà propria di tutti gli uomini, anziché comprendere come esso
rappresenti un modus vivendi tipico solo di chi vive nel bios politikos. A causa di queste scorrette
traduzioni, il cui errore di fondo sta nell’avere voluto adattare al pensiero romano-cristiano
espressioni provenienti da un altro mondo culturale, quello greco antico, la sfera politica è stata
gradualmente sostituita da quella sociale.
Nelle pòleis la sfera della politica è la sfera della libertà, e in quanto tale si oppone alla sfera
delle necessità, cioè alla sfera domestica. In quest’ultima gli uomini si uniscono spinti dai loro
bisogni e dalle loro necessità, e l’uso della forza e della violenza è giustificato poiché rappresenta il
solo modo per avere ragione della necessità; nella sfera domestica vige una rigida disuguaglianza
116
Cfr. Platone, Repubblica, in Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, e A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET,
Torino 1968-1969, 2 voll.
117
Ritengo infatti che l’accesso alla vita politica debba essere filtrato dal conseguimento di requisiti “tecnici” (funzionamento delle istituzioni) e
culturali, che possano essere potenzialmente conseguiti da chiunque.
42
che consente il dominio del pater familias118. La sfera politica, al contrario, si basa sulla libertà e
sull’eguaglianza di tutti i suoi membri, infatti, essere liberi significa essere liberi dalle urgenze della
vita e dalla disuguaglianza gerarchica relativa ad ogni forma di dominio. La sovrapposizione della
sfera domestica su quella politica genera la società, la cui caratteristica di fondo consiste pertanto
nel significato pubblico assunto dalle necessità private, in primo luogo quelle biologiche (non a
caso prima dell’avvento della sfera sociale la schiavitù viene considerata un male peggiore della
morte e gli schiavi vengono considerati dei codardi per non preferire la morte alla condizione
servile, opinione questa incompatibile con la sacralizzazione della vita successivamente operata dal
cristianesimo). Quindi, nella sensibilità antica, vivere nella sfera domestica è tutt’altra cosa che
vivere nella sfera pubblica, nella prima infatti l’uomo è privato della possibilità di mostrare ed
esprimere le sue facoltà più alte, e dunque non è considerato propriamente umano.
Una delle caratteristiche della vita privata […] era che l’uomo esisteva in questa sfera non come un vero essere
umano ma solo come un caso della specie animale del genere-umano. Questa, precisamente, fu la ragione ultima dello
straordinario disprezzo concepito per essa dall’antichità119
Ora, l’avvento del sociale non solo sposta nella politica temi considerati nell’antichità pre- o
addirittura anti-politici, come ad esempio il mantenimento della vita biologica, ma determina anche
una “gerarchizzazione della vita pubblica”. Infatti, la disuguaglianza tipica della sfera domestica
investe la società, si passa così dalla gerarchia dei membri di una famiglia, alla gerarchia dei gruppi
di una società. Tuttavia, a differenza dell’ordine familiare, nell’ordine sociale non è identificabile il
soggetto detenente il potere, il quale diviene così impersonale, cioè burocratico, ma non per questo
privo di forza, anzi, la sua forza risiede nell’affidare a ciascun membro della società un genere di
comportamento, così da “normalizzarne” la condotta, escludendo in lui la possibilità di azioni
spontanee, impreviste o eccezionali. Se l’azione è tipica della sfera politica antica, il
comportamento lo è della società moderna: l’azione è una modalità di relazione tra gli uomini,
grazie alla quale potersi distinguere dagli altri, tramite gesta e imprese fuori dal comune, ovvero
eccellendo; il comportamento descrive fatti tipici di interi gruppi sociali nei quali i gesti del singolo,
non solo sono irrilevanti, ma se si discostano troppo dai modelli sociali dominanti, dal conformismo
che essi impongono, determinano la asocialità o la anormalità di quel singolo, per questo i
comportamenti vengono descritti con le leggi della statistica. Così, la società uniforma gli uomini
permettendo un solo interesse ed una sola opinione, in altri termini, non è tollerata alcuna forma di
differenza rispetto al “comportamento sociale”. Queste problematiche sono, per la Arendt,
inevitabilmente legate al venire meno della sfera pubblica, in altre parole, non è possibile
allontanarsi dal paradigma politico antico, senza incorrere nei suddetti problemi poiché la
dimensione pubblica antica costituisce l’unico spazio adeguato al raggiungimento dell’eccellenza
umana in una qualsiasi attività, eccellenza che risulta, nella modernità, priva di una sede in cui
potersi manifestare. Inoltre, è corresponsabile della perdita dello spazio pubblico così come era
inteso nelle pòleis, qualsiasi pensiero che si basi sull’assunto che il mondo non durerà: per tal via si
inibisce ulteriormente il desiderio di eccellere, poiché esso è legato alla volontà di determinare
anche nel futuro, oltre che nel presente, una traccia duratura della propria esistenza, ricercando così
l’immortalità, ovvero il ricordo da parte delle future generazioni:
118
Per la Arendt, ciò è massimamente evidente nella legislazione ateniese di Solone, che limita il potere paterno solo nel caso in cui esso confligga
con l’interesse della pòlis, inoltre, i diritti connessi alla domestica patria potestas rendono comprensibili fenomeni quali l’esposizione e la vendita dei
lattanti: «il potere paterno era limitato solo quando veniva in conflitto con l’interesse della polis, e mai a vantaggio del singolo membro della
famiglia», H. Arendt, Vita activa, cit., p. 246, nota 16 al Cap. II.
119
Ibidem, p. 34.
43
Alla base dell’antica stima riservata alla politica è la convinzione che l’uomo in quanto uomo, ogni individuo
nella sua irripetibile unicità, appare e conquista la sua identità nel discorso e nell’azione, e che queste attività, malgrado
120
la loro futilità da un punto di vista materiale, posseggono una qualità durevole perché provocano il ricordo di sé
Ciò non sta ad indicare la presenza, negli antichi greci, di una sorta di egoismo
individualistico, ma il fatto che, per essi, si potesse avere un’identità personale solo avendo una
“storia” da condividere con gli altri uomini e da lasciare in eredità, sottoforma di “fama immortale”,
alle future generazioni. Da questa prospettiva, la pòlis rappresenta lo scenario ideale nel quale poter
acquisire, tramite la condivisione di parole e atti, tale fama immortale. La pòlis è, quindi, memoria
delle gesta del passato e “palcoscenico” per quelle del presente, finalizzate all’essere ricordati nel
futuro. Pertanto le pòleis non si debbono considerare solo come delle Città-Stato fisicamente situate
in un territorio, ma come una specifica organizzazione umana scaturente dall’agire e dal parlare
insieme all’interno di un determinato spazio comune in cui poter apparire; insomma per la Arendt,
la pòlis è l’esatto opposto di ciò che è il totalitarismo: essa rappresenta non un determinato evento
storico-politico, ma una vera e propria categoria concettuale, indipendente dalle coordinate spaziotemporali di realizzazione.
“Ovunque andrete, voi sarete una polis”: queste parole famose non solo furono la parola d’ordine della
colonizzazione greca, ma esprimevano la convinzione che l’azione e il discorso creano uno spazio tra i partecipanti che
può trovare la propria collocazione pressoché in ogni tempo e in ogni luogo121
Tuttavia, da ciò non si deve erroneamente evincere che la Arendt aneli all’
esclusione o (al)la negazione della sfera sociale, che non avrebbe senso in una moderna concezione dell’agire,
ma (al)la sua necessaria sottomissione alla sfera della politeia. In altri termini, per poter agire in pubblico, con gli altri,
un essere umano deve radicarsi necessariamente nel privato – deve esistere come creatura, grata delle sue origini e sola
dinanzi alle domande poste dal mero fatto di esistere – ma, a partire da tale solitudine e privatezza, egli può fondare con
gli altri uno spazio comune, in cui le differenze originarie non contano più. L’isonomia, tipo ideale della forma politica
in Hannah Arendt, è infatti la conquista dell’uguaglianza, davanti alle legge comune, di esseri che restano
essenzialmente diversi122
Ma diversamente, e ben distante, dai desideri della Arendt, ciò che si manifesta nella
moderna dimensione sociale, non è più l’aretē o la virtus, bensì sono le passioni e le emozioni
soggettive che, uscendo dall’ambito dell’intimità ed invadendo la dimensione dell’essere in
comune, causano il rischio di una deriva solipsistica, che mette in dubbio la certezza della realtà del
mondo e degli altri uomini. Ciò accade perché nella moderna società di massa le relazioni fra gli
uomini sono più rare e difficoltose che nel mondo antico. In esso infatti la condivisione della sfera
pubblica offre agli uomini la possibilità di relazionarsi tra loro, mentre, nella società di massa non
esiste alcun mondo comune (poiché lo spazio sociale è disgregato in una serie di proiezioni
dell’intimità individuale) che possa mettere in relazione fra loro gli uomini. Ma, quando la Arendt si
lamenta dell’assenza di un mondo comune, non si deve fraintendere ciò, supponendo che essa
desideri l’esistenza di un’unica prospettiva dalla quale osservare la realtà (cadendo così nella sua
stessa critica al concetto di ideologia), quello che rimpiange è invece l’esistenza di uno spazio
comune all’interno del quale poter confrontare prospettive diverse: la distruzione di un mondo
comune
120
Ibidem, p. 153, corsivo mio; anche la riflessione filosofica solitaria e la pratica della bontà cristiana contribuiscono alla distruzione dello spazio
pubblico: la prima si basa su un dialogo solitario tra “sé e se stesso” (fondamentale come momento preliminare all’accesso alla sfera pubblica,
deleterio per quest’ultima se fine a se stesso), la seconda si fonda sull’assunto che le buone azioni, per essere tali, non debbano essere né viste, né
udite, né ricordate e, dunque, assenti da un mondo comune; cfr. La posizione delle attività umane, in Ibidem.
121
Ibidem, p. 145, corsivo mio.
122
A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 43-44, parentesi mie.
44
può avvenire in condizioni di radicale isolamento […] Ma può anche accadere nelle condizioni di una società
di massa o di isterismo di massa, in cui vediamo tutti comportarsi improvvisamente come se fossero membri di una sola
famiglia, moltiplicando e prolungando ciascuno la prospettiva del suo vicino. In entrambi i casi gli uomini sono divenuti
totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell’essere visti e dell’essere uditi da
loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se
la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte123
Quindi, se il termine “privato” nel suo uso originario indica la privazione della vita politica,
esso indica invece oggi la privazione di una qualsiasi forma di relazione con gli altri, al punto tale
che qualunque cosa un uomo faccia nella sua privacy, rimane senza significato e senza importanza
per gli altri. Non a caso la Arendt individua nella solitudine il fenomeno di massa par excellence
dell’attuale società124. La tendenza a rinchiudersi nella privacy si trova in nuce nel cristianesimo,
per il quale la politica costituisce un peso che qualcuno deve assumersi per il bene di chi, libero da
tale fardello, possa occuparsi della gestione della propria casa e della salvezza della propria anima;
il radicarsi di tale prospettiva nell’odierna società conferisce talmente tanta importanza alla privacy,
da esaltare tutto ciò che è in essa contenuto, in primo luogo la proprietà privata e la ricchezza.
Significativo a questo proposito è il fatto che nel mondo antico il peculium, il possesso privato di
uno schiavo, potesse ammontare a somme considerevoli, testimoniando dunque come la ricchezza
non fosse tenuta in gran considerazione, in quanto ininfluente ai fini della vita politica;
nell’antichità le ricchezze sono ininfluenti ai fini dell’ammissione alla vita pubblica, per accedere
alla quale i requisiti richiesti sono quelli della libertà e dell’appartenenza alla comunità. Risulta in
tal modo ancora più chiaro come la transizione dal mondo culturale antico a quello moderno
consista essenzialmente nella trasformazione della cura privata dei beni privati (nei quali rientra sia
la vita biologica che la ricchezza privata) in una preoccupazione pubblica125. Per la Arendt, quindi,
lo spazio privato priva gli uomini di una “esistenza autentica”, raggiungibile solo in uno spazio
pubblico nel quale l’uomo possa realizzare appieno la sua natura di “essere politico”. Quello
politico è, essenzialmente, un atto creativo, per potersi dedicare al quale la conditio sine qua non è
la libertà dalle necessità naturali.
A mio avviso, questo però non significa che, come da alcuni interpreti dell’opera arendtiana
è stato detto, l’azione sia, essenzialmente, contro natura, come se, nelle loro funzioni più alte, le
pòleis rappresentassero una negazione della natura:
Esistenza contro natura. Contro natura è la cultura, la storia, epperciò anche (forse soprattutto) il senso che
talvolta l’esistenza riesce a conferire alle cose del mondo e alle relazioni fra gli uomini126
Diversamente, ritengo che l’azione non sia, per la Arendt, una forma di opposizione alla
natura, bensì una forma di trascendimento della natura, un andare oltre la natura, emancipandosi da
essa il più possibile (tendendo, cioè, al balzo dal regno delle necessità a quello della libertà), senza
per questo negarla: senza la vita biologica, l’esistenza politica non potrebbe avere luogo. Semmai,
da tale prospettiva, la natura può rappresentare una negazione della cultura (in quanto una vita spesa
unicamente nella dimensione biologica, come accade all’animal laborans, è del tutto impolitica),
ma se la cultura distruggesse la natura, distruggerebbe le sue stesse fondamenta, collassando. La
cultura non è contro natura, è oltre la natura.
123
H. Arendt, Vita activa, cit., p. 43.
Sulla solitudine e l’isolamento come fenomeni della moderna società, cfr. D. Riesman, La folla solitaria, il Mulino, Bologna 1956.
Esemplificativo di ciò è il fatto che, nella modernità, i soggetti benestanti non usano le proprie ricchezze come un fondo esonerante dal lavoro che
consenta loro di accedere alla sfera pubblica, ma per l’accumulazione di ulteriore ricchezza, utilizzando il potere politico unicamente come protezione
di questa.
126
P. Flores d’Arcais, L’esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in H Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985, p. 17, cfr., dello
stesso autore, Hannah Arendt: esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi, Roma 2006.
124
125
45
Una delle prime conseguenze che deriverebbero dall’applicazione delle teorie politiche
arendtiane al contesto contemporaneo, sarebbe quella della scomparsa della figura del politico di
professione. Egli infatti, insieme ai partiti, rappresenta la causa della trasformazione della politica,
da azione ad amministrazione, la quale si esplica non tramite la condivisione di parole e azioni, ma
attraverso delle precise tecniche, note solo ai professionisti della politica. L’agorà si muta così in
“Palazzo”, testimoniando il fatto che il primo pericolo che ogni democrazia corre è quello di una
degenerazione dall’interno. Tale disintegrazione del sistema politico ne mina la legittimità, poiché
dilata le distanze fra i cittadini e gli amministratori del potere, ponendo a quelli dei dubbi
sull’autorità governativa di questi; si generano così delle tensioni sociali che, non di rado, sfociano
in episodi di violenza. Ma, avverte la Arendt, per contestare e contrastare la degenerazione della
politica esiste un’alternativa alla violenza: la disobbedienza civile127.
La disobbedienza civile esprime la posizione di un gruppo di persone accomunate da una
medesima opinione che, nonostante sia, o proprio in quanto è un’opinione minoritaria, sentono il
desiderio di manifestare. La disobbedienza civile nasce da un accordo reciproco fra coloro che la
praticano e tale accordo non è assimilabile né ad una sorta di patto religioso né laico. Nel primo
caso infatti, i partecipanti dovrebbero obbedire ad ogni cosa che venisse loro rivelata da un’autorità
superiore; nel secondo, dovrebbero rinunciare ai propri diritti, affidandosi ad un potere politico
assoluto; in entrambi i casi stipulerebbero un patto verticale. La disobbedienza civile è invece
assimilabile, per la Arendt, ad una sorta di contratto sociale orizzontale, simile a quello descritto da
John Locke nei Due trattai sul governo. Esso infatti produce un accordo fra pari, che si impegnano
reciprocamente fra loro, originando una societas (nel senso latino di alleanza) orizzontale che
costituisce la base per l’istituzione di un governo, base che, anche qualora il governo dovesse
sciogliersi, rimarrebbe intatta128. Inoltre, la disobbedienza civile, rappresenta una possibilità di
azione politica diretta in un mondo in cui tale possibilità è limitata all’elezione di rappresentanti;
disobbedendo civilmente si può (ri)assaporare il gusto di una vita pubblica fatta di condivisione di
esperienze e di relazioni con gli altri. La disobbedienza civile offre, insomma, la possibilità di fare
attivamente politica, trascendendo i limiti della rappresentatività della quale, però, la Arendt
riconosce la necessità, dovuta alle ampie dimensioni delle società attuali. Quello di cui, infatti, ella
va in cerca è un modo per unire le esigenze della politica contemporanea, con lo spirito della Grecia
classica, ovvero «un principio di organizzazione completamente diverso, che ha inizio dal basso,
continua verso l’alto e alla fine porta a un Parlamento»129.
E’ per queste ragioni che la Arendt, fin dagli anni Quaranta, ha proposto una soluzione
politica della disputa israelo-palestinese. Non è però uno Stato binazionale, ebraico ed arabo, ciò di
cui la filosofa tedesca auspica l’avvento, esso infatti continuerebbe a propinare l’idea di un “blocco”
israeliano contrapposto ad uno palestinese, costituendo così la trasposizione parlamentare di quegli
scontri extra-parlamentari che vorrebbe risolvere: lo Stato israeliano e quello palestinese si
porrebbero, l’uno nei confronti dell’altro, in un atteggiamento di chiusura o, nella migliore delle
ipotesi, di filantropica tolleranza. Al contrario, una Federazione costringerebbe i diversi soggetti
politici che la compongono a dialogare fra loro (ovvero a condividere parole e atti in uno spazio
comune) al fine di edificare un’unica e comune realtà politica: «Una vera federazione è composta
da diversi elementi nazionali chiaramente distinti, o da altri elementi politici, che insieme
organizzano lo Stato»130. La Federazione, quindi, dovendo pervenire ad un’unica e condivisa
127
L’importanza, agli occhi della Arendt, di queste due forme di contestazione è comprensibile sin dai titoli di saggi come: La disobbedienza civile, e
Sulla violenza, in Ibidem.
128
E’ interessante notare che, da questa prospettiva, la societas rappresenta per la politica moderna quel sostrato indispensabile che, per la politica
antica, era dato dalla sfera privata.
129
H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 281.
130
H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica, Comunità, Torino 2002, p. 89; poco prima (pp. 66 e 86) viene criticamente ricordato come il
programma di uno Stato binazionale sia stato proposto, per la prima volta, da Judah Leon Magnes, fondatore della Yichud; sui rapporti della Arendt
con la cultura ebraica cfr. F. G. Friedman, Hannah Arendt, Piper, München-Zürich 1985.
46
definizione della propria costituzione, non si limita ad affiancare fra loro diversi soggetti politici
(come nel caso di uno Stato plurinazionale), ma obbliga questi ultimi ad interagire per giungere ad
un accordo sui propri principi universali. Portando avanti tali considerazioni negli anni Quaranta, la
Arendt rintraccia negli Stati Uniti d’America, nell’ Unione Sovietica e nel Commonwealth
britannico, i più rilevanti esempi di Federazione. Non deve pertanto stupire il fatto che il modello
della Federazione venga proposto come modello da applicare anche in Europa (precorrendo così il
sorgere dell’attuale Unione Europea), cioè in quel continente in cui
La vittoriosa avanzata degli eserciti alleati, la liberazione della Francia e la continua disgregazione della
macchina militare e del terrore tedesca hanno riportato alla luce la struttura originaria di questa guerra, che ha avuto
inizio come guerra civile intereuropea131
Se la Seconda Guerra Mondiale può essere interpretata, almeno nelle sue origini, come una
guerra civile, possono allora, a maggior ragione, essere così interpretati tutti i conflitti dell’odierno
mondo globalizzato; diviene pertanto ancora più degno d’attenzione il modello politico federativo.
In esso, dovremmo oggi chiederci, se e come sarebbe possibile realizzare una democrazia che sia
confronto con gli altri, senza travolgerli o esserne travolti, cioè senza fondersi con gli altri, ma
mantenendo la propria individualità all’interno di un paradigma politico condiviso e unificato, ma
non per questo omogeneo.
In conclusione, è doveroso ricordare come la Arendt più matura (quella cioè successiva a Le
origini del totalitarismo ed a Vita activa), trovi una conferma delle proprie fondamentali linee di
riflessione, nel pensiero politico di Tocqueville132. Anche per il pensatore francese infatti la natura
della politica, in generale, e quella della democrazia, in particolare, risiede nella libertà di
autodeterminare le proprie azioni e, afferma Tocqueville, la possibilità di fare ciò, dedicandosi alla
politica, è, in America, garantita a tutti i cittadini (e non solo a chi risulta esonerato dallo
svolgimento di attività pre-poltiche), grazie all’“uguaglianza delle condizioni”:
Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che l’eguaglianza delle condizioni esercita sull’andamento della
società; essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi
principi, ai governati abitudini particolari […] più studiavo la società americana, più vedevo nell’eguaglianza delle
condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare133
Forse è proprio cercando di mediare, sotto l’influsso di Tocqueville, fra una politica elitaria,
aristocratica, ed una “popolare”, dal basso, che rilasciando un’intervista nel 1972 allo scrittore
Adelbert Reif, la Arendt ebbe a dire:
Non è affatto necessario che tutti quelli che vivono in un paese siano membri di un consiglio. Non tutti
vogliono o debbono preoccuparsi degli affari pubblici. In questo modo è possibile un processo di autoselezione per
mettere assieme una vera élite politica nel paese. Chiunque non è interessato agli affari pubblici si accontenterà
semplicemente di vedere che siano decisi senza di lui. Ma a ogni persona deve essere data la possibilità di formare un
nuovo concetto di Stato134
2.2 Le ragioni della società aperta
131
Ibidem, p. 121.
Cfr. H. Arendt, Politica e menzogna, cit.; bisogna però rilevare come la Arendt non si confronti col secondo libro della Democrazia in America,
quello cioè che sottolinea il carattere onnipervasivo del potere amministrativo, l’apatia dei singoli divenuti folla e l’abrutimento sia dei lavoratori
salariati che dei capitalisti.
133
A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., vol. 2, p. 15; sull’argomento cfr. G. Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza,
Roma-Bari 1996.
134
H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 282.
132
47
La dottrina del popolo eletto rappresenta una delle più semplici ed antiche forme di
storicismo, inteso come quel movimento di pensiero ritenente che la storia abbia un intrinseco telos.
Tale dottrina si basa su un’interpretazione teistica della storia, ovvero, riconosce Dio come autore
della storia e vede in un determinato popolo (quello eletto) lo “strumento storico” della volontà
divina. Ora, da questa prospettiva il nazi-fascismo ed il marxismo possono essere considerati, come
ha rilevato Karl R. Popper, due varianti di tale dottrina, anzi, essi rappresentano le
due più importanti versioni moderne dello storicismo […]: la filosofia storicistica del razzismo o fascismo da
una parte (destra) e la filosofia storicistica del marxismo dall’altra (sinistra) […] al popolo eletto il razzismo sostituisce
la razza eletta […] considerata come lo strumento del destino e alla fine destinata a dominare la terra. La filosofia
storicistica di Marx sostituisce al popolo eletto la classe eletta, considerata come lo strumento per la creazione della
società senza classi e, nello stesso tempo, come classe destinata a dominare la terra135
Quindi, in tutte le sue possibili varianti (di cui le principali sono quella teistica, quella
biologica e quella economica), lo storicismo rappresenta sempre una malattia del pensiero, poiché
porta gli uomini a rifiutare le proprie responsabilità nei processi di edificazione della società,
sottomettendosi ad un superiore “destino storico”.
Con la critica dello storicismo, Popper non fa altro che ribadire e confermare, in maniera
personale, la critica operata da pressoché tutta l’intellighenzia europea nei confronti della
dismissione del ragionamento indipendente e della conseguente deresponsabilizzazione morale, con
le relative conseguenze socio-politiche. Ma il suo pensiero diviene invece assolutamente innovativo
nella formulazione di un altro male socio-politico che, lo stesso autore, chiama “teoria cospiratoria
della società”. Essa, contrariamente allo storicismo, consiste nel ritenere che nella storia non vi sia
un telos, immanente o trascendente, al quale l’uomo debba sottomettersi, bensì che la storia sia il
prodotto di determinate istituzioni umane, svincolate da qualsiasi telos, attraverso le quali alcuni
uomini detengono il potere. Per questo (cioè per la sua assenza di fede in un superiore fine ultimo),
essa non può essere considerata solo come una forma di secolarizzazione delle superstizioni
religiose: essa rappresenta l’idea di una autonomizzazione ed emancipazione delle forze che
controllano la società, da una qualsiasi prospettiva teleologica. Pertanto, la teoria cospiratoria della
società rappresenta l’
opinione secondo cui tutto quel che accade nella società – comprese le cose che la gente, di regola, non ama,
come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie – sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni
individui, o gruppi potenti136
Secondo il pensatore austriaco, la teoria cospiratoria della società ha la sua debolezza nel
fatto che le cospirazioni, anche qualora fossero tentate, sono per la maggior parte destinate al
fallimento. Infatti, secondo la teoria cospiratoria, le istituzioni e gli eventi sociali dovrebbero essere
degli esiti voluti di determinati progetti, mentre, secondo Popper, la maggior parte delle
conseguenze delle nostre azioni intenzionali, sono inintenzionali, dunque, «poche di queste
cospirazioni alla fine hanno successo […] (in quanto) i cospiratori raramente riescono ad attuare le
loro cospirazioni»137.
Tuttavia, il più grande male socio-politico scorto da Popper risiede, notoriamente, nel
programma politico di Platone, i cui aspetti fondamentali sono, a giudizio di Popper, i seguenti: la
135
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1996, vol. 1, p. 29; sulla critica di Popper allo storicismo cfr. C. Simkin, Popper’s
Views on Natural and Social Science, E.J. Brill, Leiden-New York-Köln 1993, G. Graziano, Karl Popper: la razionalità nella scienza e nella politica,
PLUS, Pisa 2004, e G. Cotroneo, Popper e la società aperta, Armando Siciliano, Messina 2006.
136
K. R. Popper, Previsione e profezia nelle scienze sociali, in Congetture e confutazioni: Popper e il dibattito epistemologico post-popperiano,
Paravia, Torino 1988, p. 580; sullo stesso argomento cfr. K. R. Popper, Come io vedo la filosofia, in «La Cultura», n. 4, 1976.
137
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. 2, p. 114, parentesi mia. Probabilmente, però, ciò non distoglie chi crede nella teoria della
cospirazione dal ritenere che la cospirazione nella quale egli crede sia una delle poche, se non addirittura l’unica, ad essere stata realizzata.
48
rigida divisione delle classi; l’identificazione della sorte dello Stato con quella della sua classe
dirigente; una serie di privilegi della classe dirigente sulle altre; l’impossibilità di cambiare
l’organizzazione sociale; la sottomissione del singolo alla comunità; la divulgazione di menzogne
propagandistiche (prima fra tutte, quella della tripartizione dell’anima); il potere politico
incontrastato dei filosofi, che si ritengono in contatto con la verità unica ed assoluta (alētheia).
L’approccio platonico alla politica è, per Popper, viziato da un grave difetto definibile come
“ingegneria utopica”, consistente in un progetto di ricostruzione globale della società, finalizzato
all’edificazione di un mondo che sia del tutto esente da qualsiasi tipo d’imperfezione. L’utopismo, il
perfettismo e l’estetismo sono, allora, le linee guida di questa ingegneria utopica che, per il
pensatore viennese, determinano il carattere totalitario della teoria politica platonica138.
Ora, se Platone è direttamente il teorico antico del totalitarismo, G. W. F. Hegel lo è
indirettamente nell’epoca moderna. La filosofia di Hegel poggia infatti, per Popper, su due pilastri:
la legge della dialettica e la filosofia dell’identità. La prima è una variante ottimistica (al contrario,
ad esempio, di quella di Oswald Spengler) dello storicismo, secondo la quale l’ineluttabile sviluppo
della dialettica coincide con il progresso della civiltà e si concretizza nello Stato (ovviamente Hegel
allude a quello prussiano). La seconda rappresenta un’applicazione della dialettica che porta Hegel
ad affermare
che tutto ciò che è razionale dev’essere reale e che tutto ciò che è reale dev’essere razionale e che lo sviluppo
della realtà è lo stesso che quello della ragione […] il suo risultato fondamentale è un positivismo etico e giuridico, la
dottrina che ciò che è, è bene, dal momento che non ci sono altri standard all’infuori di quelli esistenti; è la dottrina che
la forza è diritto139
Tali ragionamenti sono stati, per Popper, l’arsenale di tutti i moderni movimenti totalitari,
poiché hanno generato idee quali: il nazionalismo, inteso come l’incarnazione dello Spirito nello
Stato; la concezione di una “inimicizia naturale” fra uno Stato e tutti gli altri; l’“eticizzazione” della
guerra; il mito del “Grand’Uomo”; l’ideale della vita eroica140. Ovviamente, quale trasposizione
materialistica dell’hegelismo, il pensiero di Karl Marx risulta, agli occhi di Popper, profondamente
intriso di quegli stessi errori di cui si nutre: il materialismo storico e dialettico rappresenta una sorta
di storicismo economico, giacché si fonda sulla previsione di un’ineluttabile evoluzione economica,
alla quale seguirà un’altrettanto ineluttabile mutazione politico-sociale141.
Ma qual è l’alternativa che Popper propone, in luogo di ogni forma di autoritarismo e di
storicismo? La risposta è nota: la “società aperta”142. Essa consiste nell’accoglimento e nel
138
Ora, ritengo che sia necessario focalizzare almeno tre aspetti del pensiero politico platonico, che Popper non considera: primo, Platone vive il
tramonto dell’epoca d’oro della Grecia periclea, ovvero, la sconfitta di Atene contro Sparta a seguito della guerra del Peloponneso (404 a.C.), il
conseguente governo filo-spartano di Atene, quello dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.), la condanna a morte di Socrate da parte del mondo politico
ateniese (399 a.C.), tutto ciò è interpretato dal filosofo greco non come una mera crisi politica ma come una complessiva crisi dell’uomo, superabile
solamente con una rinascita filosofica e, solo in conseguenza di ciò, politica; secondo, i miti sono delle invenzioni filosofiche i cui fini non sono, però,
quelli di ingannare gli uomini, bensì quelli di a) rendere più accessibile ed intuitiva la comprensione dei ragionamenti filosofici, e b) riuscire ad
alludere ad idee che si trovano al di là dei limiti del logos (ragionamento/linguaggio); terzo, l’instaurazione dello Stato ideale platonico non avviene
perché imposta (esplicitamente o coattamente) da un tiranno, da un gruppo di oligarchi o dalla maggioranza, bensì solo se e quando tutti i cittadini la
desiderano.
139
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. 2, p. 52; ed ancora, «il pubblico si attende, a partire da Hegel, e ancor più a partire da
Spengler, che un saggio, e in particolare un filosofo o un filosofo della storia, sia in grado di predire il futuro», K. R. Popper, La liberazione di sé
mediante il sapere, in Alla ricerca di un mondo migliore, Armando, Roma 1989, pp. 142-143; sulle critiche ad Hegel cfr. anche, K. R. Popper, Contro
i paroloni, in Ibidem. Come nelle critiche a Platone, Popper sembra non considerare il complessivo paradigma filosofico dell’autore, infatti per Hegel
il pensiero svolge sempre una funzione conciliante: egli non nega l’esistenza del molteplice, ma si sforza di comprenderlo all’interno del tutto.
140
Cfr., K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, cit., vol. 2, pp. 75-92.
141
L’unico merito, benché a suo dire sopravvalutato, che Popper riconosce a Marx, è quello di avere rivelato l’esistenza di una interazione fra le
condizioni materiali d’esistenza (in primo luogo quelle economiche) e le idee, cfr. Ibidem, pp. 126-128.
142
Nonostante che il termine di società aperta sia divenuto identificativo dell’opera popperiana, lo stesso Popper afferma che «parlare di società è
estremamente fuorviante. Naturalmente si può usare un concetto come la società o l’ordine sociale; ma non dobbiamo dimenticare che si tratta solo di
concetti ausiliari. Ciò che esiste veramente sono gli uomini […] Questo è ciò che esiste davvero», K. R. Popper, La scienza e la storia sul filo dei
ricordi, Jaca Book-Casagrande, Bellinzona 1990, pp. 24-25, tesi che ricorda quella arendtiana sull’esistenza al mondo non dell’uomo ma degli
«uomini nella pluralità», H. Arendt, Vita activa, cit., p. 4.
49
confronto, all’interno della società, di una molteplicità di prospettive e valori filosofici, religiosi e
politici, insomma, di punti di vista diversi, di proposte differenti e magari contrastanti143; essa
accetta qualsiasi gruppo ed individuo, ad eccezione degli intolleranti, poiché essi si pongono al di
fuori dell’idea sociale basilare, quella di tolleranza:
se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti
saranno distrutti, e la tolleranza, con essi […] noi dovremmo […] proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non
tollerare gli intolleranti144
Ma perché l’idea di tolleranza deve costituire il principio fondamentale della società aperta?
Ciò dipende da due ragioni essenziali: la fallibilità della conoscenza umana ed il politeismo dei
valori. La prima è un’idea che non necessita di spiegazioni (soprattutto all’interno del pensiero di
uno “scientista”). Il secondo punto merita, invece, un chiarimento. Secondo Popper, il risultato più
importante cui la ragione può pervenire in campo etico, è quello di mostrare come l’etica non sia
una scienza e come, conseguentemente, i valori ultimi non siano “teoremi”, ma proposte ed ideali di
vita, in merito ai quali ciascuno di noi compie una scelta personale. In altre parole, i valori ultimi si
fondano su argomentazioni (e sul loro confronto) che, a loro volta, non si fondano su nulla; i valori
ultimi derivano, in maniera logica, da argomentazioni che, a loro volta, non derivano da nulla; i
valori ultimi non si possono né dimostrare né confutare razionalmente, ma solo accettare o
respingere in base ad una personale e libera scelta di coscienza145. Fallibilità della conoscenza
umana146 e inderivabilità delle proposte etiche dalla logica sono, quindi, i due pilastri su cui si erge
la società aperta. Essi consentono di immunizzare la società da presunte leggi ineluttabili e
necessarie, e di edificare la stessa per mezzo del confronto di opinioni che, come e oltre la Arendt,
non solo non richiedono una fondazione ultima, ma non devono e non possono avere una simile
fondazione, in caso contrario la società sarebbe chiusa all’interno di quella che, di volta in volta, si
porrebbe come la sua fondata e, dunque, assoluta verità. Uno dei primi effetti di una simile
impostazione è quello di sottrarre qualsiasi pretesa razionale alla domanda “chi deve comandare?”:
a nessuno, uomo o gruppo di uomini, inerisce razionalmente l’attributo della sovranità. Pertanto, la
razionale e determinante domanda politica che dobbiamo porci è, per Popper
Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti
facciano troppo danno?147
Come, in altri termini, uomini fallibili, portatori di idee fallibili, possono controllare altri
uomini fallibili, portatori di altre idee fallibili, che momentaneamente governano la società? Per
rispondere, Popper si spinge a fissare delle precise regole, funzionali alla trasposizione della
democrazia dalla teoria alla pratica politica: a) in una democrazia, la maggioranza ha il diritto di
governare ma, se non vuole trasformarsi in una tirannia, ha il dovere di lasciare alla minoranza la
possibilità di attuare un cambiamento politico pacifico, divenendo maggioranza; b) in senso lato,
143
A proposito del confronto fra prospettive diverse: «L’idea di Popper riguardo la disponibilità a ricevere delle critiche mi sembra anche di grande
importanza pratica. Le nostre istituzioni politiche sono tristemente poco attrezzate per eseguire una tale funzione, mentre troppa attività governativa –
in particolare le relazioni tra il governo, gli interessi dei gruppi e le attività delle comunità con una responsabilità politica – non è affatto soggetta a un
sincero esame pubblico», J. Shearmur, Il pensiero politico di Karl Popper, Società Aperta, Milano 1997, p. 199, cfr. anche E. Döring – W. Döring,
Philosophie der Demokratie bei Kant und Popper, Akademie Verlag, Berlin 1995.
144
K. R. Popper, Utopia e violenza, in Congetture e confutazioni, cit., p. 605.
145
Su ciò sia consentita la seguente osservazione: per Popper la libera scelta di coscienza è la scelta che la coscienza compie quando è libera dalla
razionalità, tuttavia per lui non vi sono dubbi sul fatto che all’assenza della razionalità corrisponda la presenza del nulla; ma se fosse in balia del
nulla, come potrebbe la coscienza compiere una qualsiasi scelta?
146
L’idea della tolleranza come risultato dello scetticismo sulla bontà di qualsiasi idea è presente già nel Saggio sulla tolleranza di Locke del 1667, in
cui l’autore cerca un superamento politico delle controversie religiose; inoltre già nella successiva Epistula de tolerantia Locke afferma che questa (la
tolleranza) vada negata agli intolleranti, giudicati un pericolo per l’intera società.
147
K. R. Popper, La società aperta e suoi nemici, cit., vol. 1, p. 156; su ciò cfr. anche K. R. Popper, Società aperta, universo aperto, Borla, Roma
1984.
50
sono possibili solo due forme di governo, fra cui siamo chiamati a scegliere: la democrazia o la
tirannide; c) in democrazia deve essere possibile qualsiasi tipo di cambiamento politico, ad
eccezione di quello che può mettere in pericolo il carattere democratico di uno Stato; d) in un
regime democratico, la maggioranza protegge le minoranze, ad eccezione di coloro che dovessero
incitare al rovesciamento della democrazia stessa; e) il controllo governanti-governati deve essere
reciproco e costante poiché, in entrambi i gruppi, potrebbero insorgere tendenze anti-democratiche;
f) la democrazia tutela i diritti umani, quindi, la sua distruzione comporterebbe la loro eliminazione;
g) i suddetti principi offrono la possibilità di instaurare e mantenere la democrazia, dunque, laddove
la loro comprensione non fosse sufficientemente sviluppata, essi vanno promossi: «se essa (la
democrazia) effettivamente sopravviverà o meno, il nostro compito è comunque lavorare per la sua
salvezza»148. Insomma, per Popper
Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla
violenza, cioè senza giungere alla soppressione fisica dei suoi componenti. E’ questa la caratteristica di una democrazia
[…] La differenza fra una democrazia e una tirannide è che nella prima il governo può essere eliminato senza
spargimento di sangue, nella seconda no […] per quanto sia ben consapevole delle sue molte imperfezioni, penso che la
democrazia sia, nella storia del genere umano, la migliore e più nobile forma di convivenza sociale mai realizzata149
Da tutte le suddette argomentazioni si può notare come ciò di cui Popper va in cerca sia,
similmente alla Arendt, un superamento della semplicistica concezione della democrazia intesa
come governo della maggioranza: «L’idea di democrazia come governo del popolo deve venire
sostituita dall’idea di democrazia come giudizio del popolo»150. Popper è infatti consapevole di quel
“paradosso della democrazia”, con il quale si è dovuto confrontare pressoché ogni pensatore
politico, consistente nel pericolo di una tirannia della maggioranza, che egli risolve affermando che,
qualora lo spirito democratico venga messo in crisi dalla stessa maggioranza, essa va rimossa,
utilizzando ogni mezzo necessario:
Io non sono contrario, in tutti i casi e in tutte le circostanze, alla rivoluzione violenta. Io credo […] che sotto
una tirannide può davvero non esserci alcuna altra possibilità e che una rivoluzione violenta può essere giustificata. Ma
credo anche che qualsiasi rivoluzione del genere debba avere come scopo soltanto l’instaurazione di una democrazia151
Per concludere, è interessante notare come le teorie politico-sociali di Popper non abbiano
lasciato indifferenti i pensatori moderni che, anzi, si sono spesso divisi fra entusiastici estimatori e
aspri critici di tali teorie. Fra i primi, è di particolare rilievo l’ammirazione di Norberto Bobbio nei
confronti della formulazione della società aperta, ammirazione che lo porta addirittura ad affermare
che «La democrazia, o è la società aperta, in contrapposto alla società chiusa, o non è nulla, un
inganno di più»152. Fra i secondi invece, spicca la contrarietà di Adorno alla concezione popperiana
dell’avalutatività delle scienze sociali. Se infatti, per Popper, le scienze sociali devono essere
guidate da una logica avalutativa, nella loro descrizione della società153, per Adorno, questo “zelo
puristico”, è semplicemente impossibile poiché «I metodi non dipendono dall’ideale metodologico,
148
K. R. Popper, Epistemologia e industrializzazione, in Il mito della cornice, il Mulino, Bologna 1995, p. 271, parentesi mia, su questo cfr., K. R.
Popper, La società aperta e suoi nemici, cit., vol. 2, pp. 189-190.
149
Rispettivamente in K. R. Popper – H. Marcuse, Rivoluzione o riforme?, Armando, Roma 1977, p. 46, K. R. Popper, L’opinione pubblica e i
principi liberali, in Congetture e confutazioni, cit., p. 595, e K. R. Popper, Epistemologia e industrializzazione, in Il mito della cornice, cit., p. 270.
150
D. Antiseri, Karl Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, p. 207.
151
K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 2, cit., pp. 177-178.
152
N. Bobbio, Società chiusa e società aperta, in «Il Ponte», 1946, p. 1045; recensione pubblicata da Bobbio poco tempo dopo la prima edizione
(quella in lingua inglese) de La società aperta e i suoi nemici; inoltre, l’interesse suscitato in Bobbio dalle teorie politiche popperiane, lo porta ad
attribuire a queste ultime una portata tale che «Dalla teoria popperiana della società aperta in poi, l’opposizione chiuso/aperto ha preso il posto
dell’opposizione illuministica luce/tenebre», N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1991, p. 119,
opera nella quale l’applicazione della democrazia viene propugnata non solo nell’ambito istituzionale ma anche in quello imprenditoriale.
153
Cfr. K. R. Popper, La logica delle scienze sociali, in AA. VV., Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972.
51
ma dalla cosa»154, ovvero, il metodo non è indifferente all’oggetto di studio. Ecco perché per
Adorno una teoria sociale è critica, non semplicemente quando essa consiste in un’analisi razionale
dei fatti, come è invece per Popper, bensì quando essa si alimenta nelle e delle contraddizioni
sociali: sono esse a dover essere criticate, decriptate, e ciò non è possibile da farsi se non
assumendo tali contraddizioni all’interno di un determinato pensiero, annullando così le distanze fra
il soggetto e l’oggetto, fra il puro pensiero e le contraddizioni sociali, fra la “dialettica” e la società.
Oggi, è probabilmente questa la differenza discriminante fra un pensatore “empirista” e/o
“postivista” e/o “razionalista”, e un “dialettico”: non più, come in passato, un diverso atteggiamento
nei confronti dei sentimenti e del “mondo interiore” in senso lato, bensì il fatto che, per i primi, il
pensiero debba essere una funzione staccata dalla società ed operante in base a delle regole proprie,
mentre, per i secondi, il pensiero si esplica, inevitabilmente, all’interno di una determinata società,
decifrabile da quello, solo non staccandosene; è questa, forse, l’odierna differenza fra la ratio e il
logos.
2.3 La difesa della democrazia dai suoi avversari esterni ed interni
Continuando a ricercare il significato concettuale del termine democrazia, è ora interessante
passare attraverso le tematizzazioni di Bobbio che, come la Arendt, costruisce le proprie
argomentazioni a partire dal confronto con la cultura greca antica, citando, a tal fine, la famosa
orazione funebre periclea, i cui passi principali sono i seguenti:
Il nostro governo si chiama democrazia in quanto si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le
leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un trattamento eguale, ma quanto alla reputazione
di ognuno, il prestigio […] non lo si raggiunge in base allo stato sociale di origine, ma in virtù non soltanto per quanto
attiene i rapporti con la città, ma anche relativamente ai rapporti quotidiani […]: nessuno si scandalizza se un altro si
comporta come meglio gli aggrada […] La cura degli interessi privati procede per noi di pari passo con l’attività
politica, ed anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza degli
affari pubblici. Noi non pensiamo che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi
le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono155
Interpretando i precedenti passi Bobbio nota come, nel mondo politico antico, in particolare
modo in quello pericleo, la condizione preliminare per il funzionamento di un regime democratico
consista nell’interesse dei cittadini (non di tutti, ma solo di quella parte che può accedere allo spazio
della politica) verso la cosa pubblica e nella buona conoscenza della sua natura. Ora, nonostante le
profonde differenze esistenti fra la nostra condizione politica e quella antica, sia a livello teorico che
pratico (basti pensare, ad esempio, all’estensione dell’ambito territoriale che ha per effetto il
passaggio dalla pratica politica diretta alla politica rappresentativa), per Bobbio la definizione
periclea di democrazia continua tuttora ad essere valida: nell’idea di democrazia sono presenti degli
immutabili valori ultimi «in base ai quali noi distinguiamo i governi democratici da quelli che non
lo sono, (tali valori ultimi) sono la libertà e l’eguaglianza»156. Ma questi valori ultimi non possono
essere perseguiti attraverso delle regole rigorose che, se soddisfatte, ne garantirebbero la
realizzazione; ad essi si può solo tendere tramite dei principi generali, degli “universali procedurali”
che, di volta in volta, designano la metodologia che viene ritenuta idonea per la realizzazione della
democrazia che, in questi termini, si configura allora non come una meta, ma come una via, come
un percorso la cui importanza non risiede nel raggiungimento di un obiettivo ultimo, ma nella
154
T. W. Adorno, Sulla logica delle scienze sociali, in Ibidem, p. 127, e per un confronto fra la prospettiva popperiana e quella adorniana, cfr., R.
Dahrendorf, Note sulla discussione di K. R. Popper e Th. W. Adorno, in Ibidem.
155
Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 37-41, citato in N. Bobbio, Democrazia: le tecniche, in Teoria generale della politica, Einaudi, Torino
1999, p. 370, ristampato in N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, Nuova Cultura, Roma 2003, pp. 102-103.
156
N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., pp. 109-110, parentesi mia.
52
tensione ad esso. Per questo «La democrazia perfetta non può esistere e di fatto non è mai
esistita»157. Pertanto la stessa “regola di maggioranza”, che sembrerebbe essere il cardine di ogni
regime democratico, può invece venire critica, evidenziando come essa non sia necessariamente
garanzia di libertà ed uguaglianza; infatti, alla considerazione che
Il dominio della maggioranza, caratteristico della democrazia, si distingue da ogni altro tipo di dominio perché,
secondo la sua più intima essenza, non soltanto presuppone, per definizione stessa, un’opposizione – la minoranza –, ma
anche perché riconosce politicamente tale opposizione e la protegge nei diritti fondamentali e con le libertà
fondamentali158
Si può controargomentare come
Che una decisione collettiva sia presa a maggioranza […] non prova assolutamente nulla rispetto alla minore o
maggiore libertà con cui quella decisione è stata presa. E pertanto attribuire alla regola della maggioranza il potere di
massimizzare la libertà o il consenso è attribuirle una virtù che non le appartiene. Spesso, purtroppo, le maggioranze
sono formate non dai più liberi ma dai più conformisti. Di regola, anzi, tanto più alte sono le maggioranze, specie quelle
che sfiorano l’unanimità, tanto più sorge il sospetto che l’espressione del voto non sia stata libera159
Pertanto, se «La regola della maggioranza è un docile strumento […] ritorna il problema
ineludibile della contrattazione come mezzo alternativo di decisione collettiva»160, ritorna dunque
quella che la Arendt chiama (come si è già visto) la condivisione di parole e azioni.
Interessante, a tale proposito, notare come anche nella più recente letteratura in tema di
democrazia ci si ponga in una simile prospettiva:
Che cos’è esattamente la democrazia? Innanzitutto occorre evitare l’identificazione fra democrazia e governo
della maggioranza. La democrazia ha esigenze complesse, fra cui, naturalmente, lo svolgimento di elezioni e
l’accettazione del loro risultato, ma richiede inoltre la protezione dei diritti e delle libertà, il rispetto della legalità,
nonché la garanzia di libere discussioni e di una circolazione senza censura delle notizie. In realtà, anche le elezioni
possono essere del tutto inutili se si svolgono senza avere offerto alle diverse parti un’adeguata possibilità per
presentare le loro posizioni, o senza concedere all’elettorato la possibilità di avere accesso alle notizie e valutare le
opinioni di tutti i contendenti. La democrazia è un sistema che esige un impegno costante, e non un semplice
meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente e isolato da tutto il resto161
Ora, se la libertà è (così come l’eguaglianza) uno dei valori fondamentali della democrazia,
cui essa si ispira e che tenta di concretizzare, è allora utile ricordare come Bobbio distingua nel
concetto di libertà due diverse sfumature, definite come “libertà negativa” e “libertà positiva”.
Secondo Bobbio, la libertà negativa è quella in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere
impedito e/o costretto da altri soggetti, è la libertà d’azione, è definibile come “libertà da”, è la
forma di libertà dei moderni, ha il suo prototipo nelle libertà civili, e nasce da autori quali Hobbes,
Locke e Charles de Secondat Montesquieu; la libertà positiva è quella in cui un soggetto ha la
possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo senza essere determinato dal volere altrui, è
157
Ibidem, p. 109.
H. Kelsen, La democrazia, il Mulino, Bologna 1987, pp. 141-142.
159
N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., p. 133; l’argomento per il quale ad un maggiore consenso su/successo di qualcosa,
corrisponda una minore qualità di quel qualcosa, è presente già in Platone come irrisione delle opere di Aristofane, tuttavia qui la differenza tra Hans
Kelsen e Bobbio sembra risiedere nel fatto che il primo, a differenza del secondo, non considera i fattori di condizionamento psicologico che
inibiscono la libertà di pensiero, anche in politica.
160
Ibidem, p. 155, corsivo mio; sulla logica dei meccanismi istituzionali di regolamentazione della convivenza cfr. P. Rossi (cura), Norberto Bobbio
tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005.
161
A. Sen, La democrazia degli altri, Mondadori, Milano 2005, pp. 61-62, corsivo mio, ed ancora, è da evitare l’errore di «considerare la democrazia
in modo troppo ristretto e limitato – in particolare, soltanto nei termini di votazioni pubbliche – e non nei più ampi termini di ciò che John Rawls
definiva «l’esercizio della ragione pubblica» […] Nella più ampia prospettiva della «discussione pubblica» (ossia della partecipazione popolare alla
discussione dei problemi di governo), la democrazia deve assegnare un posto di primaria importanza alla garanzia di un dibattito pubblico libero e di
interazioni deliberative nel pensiero e nella pratica politica, non semplicemente attraverso e in vista di elezioni», Ibidem, pp. 7-8 e 10; dello stesso
autore cfr. The Possibility of Social Choice (Discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Nobel per l’Economia nel 1998), in «The
American Economic Review», n. 89, 1999.
158
53
la libertà della volontà, è definibile come “libertà di”, è la forma di libertà degli antichi, e nasce da
autori quali Jean-Jacques Rousseau, Kant ed Hegel. Il punto di contatto fra queste due forme di
libertà risiede nel fatto che l’una implica sempre l’altra, infatti
La ‘libertà da’ e la ‘libertà di’ si implicano nel senso che, essendo due aspetti della stessa situazione, l’uno non
può stare senza l’altro o, in altre parole, in una situazione concreta nessuno può essere ‘libero da…’ senza essere ‘libero
di…’ e viceversa […] non vi è ‘libertà da’ che non liberi una o più ‘libertà di’, così come non vi è una ‘libertà di’ che
non sia una conseguenza di una o più ‘libertà da’162
Ora, la libertà, indipendentemente dalle sfumature di significato sopraesposte, risulta sempre
soppressa dall’instaurazione di una qualsiasi forma di “potenza”, come ad esempio (e sono queste
per Bobbio quelle che hanno più profondamente segnato la storia dell’Occidente) la potenza
ideologica (quella cioè delle grandi concezioni del mondo), la potenza economica (quella inerente al
possesso delle ricchezze) e la potenza politica (quella relativa al controllo delle istituzioni); dunque,
non c’è da meravigliarsi che le principali lotte di liberazione combattute, sia a livello teoretico che
pratico, in Occidente, siano quelle contro ogni forma di dogmatismo, contro le soggezioni
dell’economia e contro la monopolizzazione della politica da parte del/dei sovrano/i di turno. Si
potrebbero addirittura schematizzare le suddette linee di tendenza come segue:
Potenza: ideologica
Mezzi di coercizione: idee, ideali, concezioni del mondo
Lotta per la libertà come: liberazione dalla superstizione religiosa (libertà di pensiero contro la
Chiesa e le Chiese)
Potenza: economica
Mezzi di coercizione: possesso della ricchezza
Lotta per la libertà come: liberazione dai vincoli di una struttura economica (libertà di
disposizione dei beni e libertà di commercio contro il sistema feudale)
Potenza: Politica
Mezzi di coercizione: possesso della forza
Lotta per la libertà come: liberazione da un sistema politico e legislativo concentrato in una
ristretta cerchia di dominanti (libertà civili e libertà politica contro lo Stato assoluto) / lotta contro il
dispotismo sotto la triplice forma di dispotismo sacerdotale, feudale e principesco
Ciò che invece sorprende Bobbio, è che l’Occidente, nel tentativo di liberarsi da quelle
potenze, non sia pervenuto all’instaurazione di una forma di autentica libertà, bensì al liberalismo,
che Bobbio considera come
Un certo modo d’intendere e di attuare la libertà che, nello stesso tempo in cui rompeva catene antiche, altre, e
ancor più dure e forti, ne forgiava e ne ribadiva163
E le nuove catene alle quali Bobbio si riferisce sono quelle della tecnica e della scienza
(come avevano già ravvisato gli autori esaminati nel cap. I), di quei fattori, cioè, che pur non
162
N. Bobbio, (voce) Libertà, in «Enciclopedia del Novecento», 1979, vol. 3, ristampata in N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., pp.
60 e 61, esemplificando: «Quando io dico […] che sono ‘libero di’ esprimere le mie opinioni, dico, e non posso non dire, nello stesso tempo che sono
‘libero da’ una legge che istituisce la censura preventiva. Così come quando io dico che sono ‘libero da’ qualsiasi norma che limiti il mio diritto di
voto, dico e non posso non dire nello stesso tempo che, sono ‘libero di’ votare», Ivi; su ciò cfr. M. Ravelli (cura), Norberto Bobbio: maestro di
democrazia e di libertà, Cittadella, Assisi 2005.
163
N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., p. 83.
54
provocando la perdita delle libertà civili e politiche, determinano la mancanza della libertà di
sviluppare tutte le facoltà della natura umana; in tale modo, ciò che provocano non è un semplice
processo di asservimento, ma una generale dinamica di disumanizzazione che si manifesta, a livello
psicologico come conformismo di massa, a livello economico come mercificazione e reificazione di
ogni relazione umana e a livello politico come disinteresse verso ogni forma di partecipazione attiva
ai processi decisionali. E’ questo, per Bobbio, il totalitarismo (prodotto tipico della nostra epoca), il
quale
non è soltanto un tipo di sistema politico (onde non è del tutto corretto parlare di “Stato totalitario”) ma è un
tipo di sistema sociale, nella sua globalità, o, se si vuole, è un tipo di Stato solo nel senso in cui, essendo cancellata la
distinzione tra società civile e Stato da cui è stata contraddistinta la storia dello Stato moderno, la società intera si
risolve nello Stato, è una società integralmente statalizzata […] Ma a differenza delle società sinora esistite […] (essa
percepisce la sua mancanza di libertà) non più come una privazione ma come l’appagamento di un bisogno, il bisogno
appunto di non essere liberi: quel che in altri tempi era la fuga dalla schiavitù si convertirebbe nel suo contrario, nella
“fuga dalla libertà”164
Paradossalmente quindi, la sostanza dell’odierna (apparente) libertà, non è la libertà. A
differenza di quest’ultima, l’eguaglianza non è una qualità od una proprietà di un soggetto (fisico
e/o morale), ma è una relazione fra soggetti, il cui contenuto è storicamente condizionato; pertanto
anche il suo contrario, la disuguaglianza, non è altro che una relazione che può essere riempita dei
più diversi significati, sempre storicamente determinati165. Ma, prosegue Bobbio, esiste un punto di
contatto fra questi due opposti, entrambi infatti devono essere tesi al raggiungimento della giustizia
che, in senso lato, consiste nella possibilità di ciascuno di sviluppare le proprie capacità.
Eguaglianza e disuguaglianza, insomma, sono solo delle modalità relazionali, e «ciò che dà a questo
rapporto un valore, cioè ne fa un fine umanamente desiderabile, è l’essere giusto»166.
Conseguentemente, Bobbio rifiuta sia il liberalismo (sbilanciato a favore della disuguaglianza),
tendente ad uno Stato limitato e garantista, che l’egualitarismo (sbilanciato a favore
dell’eguaglianza), tendente ad uno Stato espansionista ed interventista, ritenendo invece la
democrazia l’unico regime in grado di conciliare armonicamente la “qualità” della libertà con la
“relazione” della (dis)eguaglianza.
Ma, per meglio comprendere in cosa consista la democrazia, Bobbio ne offre una
descrizione sia storica che concettuale. Storicamente essa rappresenta il quarto stadio di una sorta di
evoluzione dei sistemi politici in cui, al primo livello troviamo lo stato anarchico o di natura
(caratterizzato dalla hobbesiana bellum omnium contra omnes), al secondo un sistema di equilibrio
fra potenze (descrivibile come un pactum societatis, inteso come un patto di non aggressione con il
quale le parti rinunciano all’uso della forza reciproca: ad esempio, la pace intesa come una
momentanea tregua fra due guerre), al terzo l’ordine derivante dal predominio di una potenza o di
un sistema egemone (in tale stadio la forza di un soggetto o di una comunità di soggetti è utilizzata
per impedire l’uso della forza reciproca, cosicché la pace si pone come il risultato di un atto di
forza, come nel caso dell’antica pax romana o dell’odierna pax americana; in questo scenario, chi
detiene il potere lo detiene contro chi ne è escluso), al quarto l’accettazione consensuale, e pertanto
stabile, di un ordine democratico (caratterizzato da un pactum subiectionis che, diversamente dal
terzo stadio, è fondato sul consenso e non imposto con la forza, solo così si può giungere a regole
collettivamente stabilite e collettivamente vincolanti). Da una prospettiva concettuale, invece, la
democrazia è descrivibile come un sistema in perenne trasformazione: ogni popolo ed ogni
164
Ibidem, pp. 87 e 90, seconda parentesi mia.
Ecco perché, anche nel campione dell’egualitarismo, Rousseau, si trova uno spunto a favore delle disuguaglianze, quelle naturali che, in quanto
tali, vengono considerate benefiche o, perlomeno, moralmente indifferenti, cfr. J. J. Rousseau, Discorso sull’origine delle disuguaglianze fra gli
uomini, Feltrinelli, Milano 1997; cfr. J. Carter (cura), L’idea di uguaglianza, Feltrinelli, Milano 2001.
166
N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., p. 10.
165
55
generazione ha la responsabilità di trovare la propria via alla democrazia, essendo essenzialmente
questa, per Bobbio,
un insieme di regole (mai cristallizzate, definitive) di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui
è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati […] (ovvero) l’unico modo d’intendersi
quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla
caratterizzata da un insieme di regole – primarie o fondamentali – che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le
decisioni collettive e con quali procedure167
Ne deriva che per Bobbio (similmente a Popper) la democrazia non è un qualcosa che nasce
spontaneamente, al contrario, essa può sorgere solo laddove gli uomini prendono una decisione in
tal senso. Questa considerazione (oltre a confermare che la democrazia esiste solo idealmente,
mentre di fatto esistono le democrazie) apre il problema della formazione della, e della
partecipazione alla democrazia:
l’unico modo per fare di un suddito un cittadino è quello di attribuirgli quei diritti che gli scrittori di diritto
pubblico del secolo scorso avevano chiamato activae civitatis, e l’educazione alla democrazia si svolge nello stesso
esercizio della pratica democratica168
Allora, praticando attivamente la democrazia ci si (auto)educa alla democrazia stessa. Per
questo la passività dei cittadini è uno dei principali ostacoli per la realizzazione della democrazia,
per questo ogni forma di regime autoritario ha bisogno di “passivizzare” politicamente i cittadini,
mentre la democrazia necessita di cittadini attivi che, in vari modi, partecipino alla formazione delle
decisioni169. Quello invece a cui, secondo Bobbio, si assiste oggi, è il dilagare del fenomeno
dell’apatia politica, per la quale le persone sono «semplicemente disinteressate per quello che
avviene, come si dice in Italia, con felice espressione, nel “palazzo”»170. L’apatia politica non
conduce solo ad un generale disinteresse nei confronti della dimensione politica, ma anche ad una
deresponsabilizzazione nell’uso del proprio voto (del quale anche i politicamente passivi, apatici
dispongono) utilizzato come una merce di scambio, in base a quel do ut des, già denunciato alla
propria Camera dei deputati da Tocqueville, che in pieno Ottocento (ma con una sorprendente
somiglianza con i giorni nostri) si chiedeva
se non fosse aumentato il numero di coloro che votano per interessi personali e non sia diminuito il voto di chi
vota sulla base di un’opinione politica […] (sicché) chi gode dei diritti politici ritiene di farne un uso personale nel
proprio interesse171
Se quello della mercificazione del voto è il problema che (troppo) spesso caratterizza i
votanti, quello del cosiddetto “potere invisibile” è invece il male che altrettanto (troppo) spesso
caratterizza i votati (e, più in generale, chiunque detenga il potere). Il potere invisibile è quel potere
che nasce con le teorie della Ragion di Stato, in base alle quali allo Stato è lecito ciò che non è
lecito ai cittadini: secretare172 determinate questioni. Ma, afferma Bobbio, quando si è costretti a
tenere segreta un’azione, vuol dire che quella azione non sarebbe possibile da compiere (almeno in
167
N. Bobbio, Premessa, e Il futuro della democrazia, in Il futuro della democrazia, cit., pp. XXII e 4, parentesi mie.
Ibidem, p. 20.
169
Le condizioni preliminari perché ciò accada sono essenzialmente due: a) che i cittadini possano usufruire di una libera ed onesta informazione, b)
che la politica non venga ridotta agli arcana imperii, accessibili solo ai “tecnici”.
170
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 21.
171
A. de Tocqueville, Discorso sulla rivoluzione sociale, in Scritti politici, cit., p. 271, parentesi mia.
172
«Al pari di Dio, il potente tende a rendersi inaccessibile: gli arcana dominationis sono una imitazione degli arcana naturae (o degli arcana Dei).
Elias Canetti ha scritto pagine memorabili sul “segreto”, come essenza del potere, che meritano di essere meditate (come del resto l’intero libro,
Massa e potere): il potere deve essere imperscrutabile, appunto come i decreti di Dio. Non deve essere visto perché ciò gli consente di vedere meglio
quello che fanno gli altri: “Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie. Egli deve essere sommamente
riservato: nessuno può sapere ciò che egli pensa, ciò che si propone”» N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 216, Bobbio cita da E. Canetti,
Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 353.
168
56
quegli stessi termini) se fosse resa pubblica e, per Bobbio, nessuno Stato che voglia essere
democratico (ovvero che voglia dare ai cittadini la possibilità di compartecipare alle decisioni
politiche) può agire in tale modo. Deriva da qui l’obbligo, per uno Stato democratico, della
pubblicità degli atti di governo, poiché essa, la pubblicità, è già di per sé una forma di controllo. A
tale proposito Bobbio ricorda come
Nell’Appendice alla Pace perpetua Kant enunciò e illustrò il principio fondamentale secondo cui «Tutte le
azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste»173
Insomma, il governo della democrazia è il governo del potere pubblico in pubblico, cosa
che, nota Bobbio, ha significativamente colto Habermas mostrando come la trasformazione dello
Stato moderno consista nel graduale emergere della “sfera privata del pubblico” (ovvero, della
rilevanza pubblica della sfera privata), cioè di quell’opinione pubblica che, nella modernità,
pretende di discutere gli atti del potere esigendone, pertanto, la pubblicizzazione174.
Inoltre, anche Gustavo Zagrebelsky fa notare come Bobbio ne Il futuro della democrazia
annoveri lo “spirito democratico” fra le “promesse non mantenute della democrazia”. Per Bobbio
infatti, così come per Zagrebelsky, l’attaccamento alla democrazia non si sviluppa da solo,
spontaneamente, bensì esso va sollecitato costantemente poiché, quando tale sollecitazione viene
meno
Invece dell’attaccamento cresce l’apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per
convinzione, ma per assuefazione e l’assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto175
A tal proposito, Zagrebelsky si spinge fino a codificare i passaggi civici fondamentali ai fini
dell’edificazione di un’autentica democrazia:
1) La fede in qualcosa che vale. La democrazia è relativistica, non assolutistica […] 2) La cura delle
individualità personali. La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa […] 3) Lo spirito del dialogo. La
democrazia è discussione, ragionare insieme; è, socraticamente, filologia […] 4) Lo spirito dell’uguaglianza. La
democrazia è basata sull’uguaglianza; è insidiata dal privilegio […] 5) Il rispetto delle identità diverse. In democrazia le
identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società […] 6) La diffidenza verso le decisioni irrimediabili. La
democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa) […] 7)
L’atteggiamento sperimentale. La democrazia è orientata da principi ma deve imparare quotidianamente dalle
conseguenze dei propri atti […] 8) Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza. In democrazia, nessuna
deliberazione si interpreta nel segno della ragione e del torto […] 9) L’atteggiamento altruistico. La democrazia è forma
di vita di esseri umani solidali […] 10) La cura delle parole. Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le
parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessun’altra forma di governo176
E’ interessante notare come, nonostante le ovvie somiglianze, i precetti individuati da
Zagrebelsky, si differenzino dalle regole pro democrazia di Popper, nella loro essenza; queste
ultime, infatti, descrivono un possibile modo di realizzazione di una democrazia, mentre il
Decalogo descrive lo spirito della democrazia. E non potrebbe essere altrimenti dato che, per
Bobbio e Zagrebelsky, la democrazia non è una rigorosa formula scientifica, ma è un valore che può
essere realizzato in molteplici (forse infinite) modalità, a patto che queste non ne alterino l’essenza,
173
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 18, la citazione, che è tratta da I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET,
Torino 1956, p. 330, rappresenta l’applicazione, operata dallo stesso Kant, del già formulato imperativo categorico, al diritto, in quanto Per la pace
perpetua risale al 1795, mentre la Critica della ragion pratica è del 1788.
174
Ovviamente, Bobbio si riferisce a J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971, opera alla quale imputa però il limite di
non distinguere tra un uso del termine “pubblico” inteso come ciò che pertiene allo Stato, alla res publica, allo ius publicum, e un uso di “pubblico”
inteso come manifesto, palese.
175
G. Zagrebelsky, Decalogo contro l’apatia politica, in «la Repubblica», 04/03/05. Pubblicazione dell’intervento tenuto in occasione del Convegno
“Una scuola per la cultura, il lavoro, la democrazia”, svoltosi nel 2005 presso l’Università Roma Tre.
176
Ivi.
57
lo spirito. Ritorna dunque anche nell’analisi della democrazia, così come era in quella del
totalitarismo, la duplice possibilità d’intenderla come un particolare evento o come una categoria
filosofica. Ora, a mio parere, solo intendendola in quest’ultimo modo è possibile chiarire lo spirito
della democrazia, ed è questo l’unico modo per evitare che essa si trasformi nel suo contrario: il
totalitarismo. Quest’ultimo ne rappresenta, infatti, il contrario, ma non necessariamente l’opposto: il
totalitarismo è un rischio insito all’interno della stessa democrazia (basti ricordare la felice
espressione tocquevillina di “dispotismo democratico”), ed il rispetto di specifiche regole
procedurali non mette al riparo da tale pericolo. E’ invece necessaria una generale comprensione
dell’essenza della democrazia, intesa non come una determinata forma di governo politico, bensì
come un valore. Solo comprendendo lo spirito della democrazia, si può realizzare una democrazia.
58
Cap. III Etiche pubbliche
Grazie al principio dell’amore reciproco gli uomini sono destinati ad avvicinarsi l’un l’altro continuamente, e grazie al
rispetto, che essi si debbono vicendevolmente, a tenersi a una certa distanza l’uno dall’altro; e se mai una di queste due
grandi forze morali venisse a mancare, allora ‘il nulla dell’immoralità inghiottirebbe nelle sue fauci l’intiero regno degli
esseri (morali), come una goccia d’acqua’
I. Kant, Metafisica dei costumi
Lo scandalo è la mera esistenza dell’altro. Ogni altro “occupa troppo posto” e va ricacciato nei suoi limiti che sono
quelli del terrore illimitato
M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo
3.1 Riabilitazione della filosofia pratica ed “etica del discorso”
La crisi di quei potenti sistemi concettuali, come lo strutturalismo ed il marxismo, che hanno
tentato di pensare il mondo dell’uomo come un tutto unitario e coerente, ha prodotto l’idea che sia
impossibile pensare la storia umana in termini di orizzonti generali di senso, e che anzi tale
paradigma non rappresenti un progetto di emancipazione ma, al contrario, una gabbia che
imprigiona l’uomo177. E’ questa la scintilla che ha generato le cosiddette etiche pubbliche (o
pratiche), proponentesi “socraticamente” come un discorso sulla società non esterno ad essa, come
un dibattito coinvolgente non solo e non tanto il puro specialista ma la società nella sua interezza,
con l’ambizione e la speranza di pervenire ad una regolamentazione comportamentale condivisa e
consapevole dell’uomo nel mondo, anche dopo il tramonto dei grandi sistemi di filosofia della
storia.
Il movimento della cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, nato in Germania agli
inizi degli anni Sessanta con la formula di Rehabilitierung der praktischen Philosophie, si connota
come un movimento di rinascita dell’interesse filosofico per le tematiche della morale, del diritto e
della politica, affrontate da una prospettiva alternativa rispetto sia a quella tecnico-scientifica che a
quella metafisico-trascendentale178. Per superare il relativismo ed il pluralismo etico della moderna
società, globalizzata e policentrica, il movimento della Rehabilitierung rifiuta sia il modello della
razionalità tecnico-scientifica (avvalendosi in ciò delle argomentazioni della prima Scuola di
Francoforte) con il suo “divisionismo etico”179, sia quello metafisico con la sua lontananza dagli
ambiti della vita pratica (a partire dalla sua pretesa fondazione trascendentale), volgendosi invece
alla ricerca di un modello di razionalità che, conciliando l’ethos con il logos (quindi né tramite una
ratio calcolante e strumentale, né tramite la fede in ciò che risiederebbe prima e/o oltre la vita
pratica), possa fungere da guida per l’azione.
Hans-Georg Gadamer può essere considerato il padre putativo della Rehabilitierung180,
anche se quest’ultima non deve essere considerata come un movimento unitario, bensì come un
generale ambito di riflessione, all’interno del quale si trovano molteplici teorie, fra le quali, una
delle fondamentali è costituita dall’etica comunicativa o del discorso, elaborata da Karl-Otto Apel e
177
Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 e J.-F. Lyotard, Il post moderno e la nozione di “resistenza” (intervista del
09/05/94 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi), in «Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche», Rai Educational, non datato, e, per
una visione d’insieme, G. Patella, Sul postmoderno, Studium, Roma 1990, e D. Tarizzo, Il pensiero libero, Cortina Milano 2002.
178
Cfr. J. Habermas, Morale Diritto Politica, Comunità, Milano 2001. Per un primo approccio orientativo cfr. AA. VV., «Fenomenologia e società»,
n. 2, 1988 (monografia intitolata Verso un’etica pubblica), R. Bernstein, La nuova costellazione, Feltrinelli, Milano 1994, W. Privitera, Il luogo della
critica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, S. Maffettone, Etica pubblica, il Saggiatore, Milano 2001, e A. Honneth, Critica del potere, Dedalo, Bari
2002.
179
Il divisionismo etico è quella posizione che divide nettamente i fatti dai valori, ritenendoli appartenenti a categorie del tutto disomogenee, tra le
quali non sussiste alcun rapporto: i fatti sono oggetti del conoscere e quindi della scienza, i valori appartengono invece all’ambito delle scelte e delle
preferenze soggettive. Il divisionismo etico risale all’empirismo di David Hume (si veda la “legge di Hume”, di George E. Moore) e, più
recentemente, alla sociologia avalutativa di Max Weber.
180
Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, 2 voll., e H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Napoli, Guida 1974.
59
(soprattutto) da Habermas. Se l’ermeneutica filosofica di Gadamer si richiama al paradigma
filosofico del “neoaristotelismo” (da Aristotele infatti Gadamer trae la distinzione fra la phrónesis e
l’epistème, il sapere morale e quello teoretico), l’etica della comunicazione di Habermas si rifà a
quello del “postkantismo” (da Kant infatti Habermas mutua il progetto di un’etica svincolata dalle
peculiarità del contesto dell’agire), se il metodo ermeneutico gadameriano si esercita
nell’immediatezza della situazione, il metodo discorsivo habermasiano si basa su regole generali
che precedono l’azione, se Gadamer può essere considerato “contestualista”, in quanto sottolinea il
carattere storico di una ragione che non esiste mai allo stato puro ma solo nelle impurità e nelle
particolarità delle diverse tradizioni linguistiche, Habermas lo si può considerare “universalista”,
poiché insiste sul valore decontestualizzante della comunicazione linguistica e sulla sua relativa
capacità di superare i condizionamenti situazionali. Per descrivere in cosa consista l’etica del
discorso, con il suo proposito di fondazione razionale dei principi dell’agire, lo stesso Habermas ne
traccia il profilo, definendola come deontologica, cognitivistica, formalistica ed universalistica.
Che cosa vuol dire etica del discorso? In via preliminare vorrei illustrare il carattere deontologico,
cognitivistico, formalistico ed universalistico dell’etica kantiana […] I giudizi morali chiariscono come i conflitti
d’azione si possono risolvere sulla base di un accordo razionalmente motivato. In senso lato, essi servono a giustificare
le azioni alla luce di norme valide o la validità delle norme alla luce di principi degni di essere riconosciuti […] A
questo riguardo parliamo di un’etica “deontologica”. Questa intende la giustezza delle norme o dei comandi in analogia
con la verità di una proposizione assertoria […] In questo senso noi parliamo anche di un’etica “cognitivistica”. Questa
deve poter rispondere alla domanda sul modo come si possano fondare le asserzioni normative […] Sotto questo
aspetto, noi parliamo di un’etica “formalistica”. Nell’etica del discorso il posto dell’imperativo categorico viene preso
dal procedimento dell’argomentazione morale […] “Universalistica”, noi chiamiamo, infine, un’etica la quale sostiene
che questo principio morale (o uno simile) non solo esprime le intuizioni di una determinata cultura o di una
determinata epoca, ma vale universalmente181
Quindi, l’etica comunicativa riconosce nel discorso lo strumento al quale si deve fare
riferimento per dirimere i conflitti morali, attraverso un accordo che legittimi l’esistenza di norme
universali, accordo di comprensibile importanza capitale nelle discussioni di carattere etico. A ciò
Habermas approda riformulando i passaggi fondamentali del pensiero morale kantiano,
svincolandolo da ogni possibile riferimento metafisico, cosicché il discorso possa essere accessibile
a tutti e le norme possano essere verificate da chiunque182:
Da questa prospettiva anche l’imperativo categorico deve venir riformulato nel senso proposto. Invece di
prescrivere a tutti gli altri come massima valida quella di cui io voglio che sia una legge universale, io devo proporre a
tutti gli altri la mia massima allo scopo di verificare discorsivamente la sua pretesa di universalità. Il peso si sposta da
ciò che ciascuno (singolo) può volere senza contraddizione come legge universale a ciò che vogliamo di comune
accordo riconoscere come legge universale183
In tale modo, la Diskursethik soddisfa le “pretese di validità” (Geltungsansprüche) delle
conclusioni alle quali si approda attraverso una discussione ragionevole (ovvero razionalmente
sensata); in altri termini, per tale via si può giungere alla costituzione di una tavola di valori
condivisi, originanti la cosiddetta “opinione pubblica”. Quest’ultima, nella modernità, nasce nella
sfera pubblica borghese che, differentemente da tutte le precedenti impostazioni sociali, affonda le
proprie origini nella libera circolazione delle merci e delle notizie: così come la libera circolazione
di merci e notizie è un processo che non esclude potenzialmente nessuno, allo stesso modo la
181
J. Habermas, Si addicono anche all’etica del discorso le obiezioni di Hegel contro Kant?, in W. Kuhlmann (cura), Teoria della morale, Laterza,
Roma-Bari 1994, pp. 7-9.
182
Per raggiungere una “situazione discorsiva ideale”, in grado cioè di coinvolgere tutti gli interessati, è altresì necessario che il dialogo si insaturi al
livello delle “narrative contingenti”, sempre in fieri, delle quali ciascun uomo è depositario e portatore.
183
J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 76; sull’argomento cfr., A. Fabris, Etica del discorso, Carocci, Roma 2006, e U.
Steinhoff, Kritik der kommunikativen Rationalität: eine Darstellung und Kritik der kommunokationstheoretischen Philosophie von Jürgen Habermas
und Karl-Otto Apel, Mentis, Paderborn 2006.
60
formazione dell’opinione pubblica in una società (quella borghese) basata su tale processo, non
esclude potenzialmente nessuno (diversamente sia dal mondo greco antico che da quello che va
dall’impero romano alla rivoluzione francese, nei quali la sfera pubblica è accessibile,
rispettivamente, solo ai cittadini liberi e solo agli esponenti di determinati ceti). Ora, tale libera
circolazione di merci e notizie pone il peculiare problema, nuovo, di dover essere amministrata, ma,
se è da questa circolazione che sorge l’opinione pubblica, allora amministrare tale circolazione vuol
dire amministrare la stessa opinione pubblica. Ed infatti, nasce così un’amministrazione stabile,
sottoforma di una attività statuale continuativa: questo è, difatti, il ruolo del potere pubblico
borghese, al punto tale che, nella modernità, il termine pubblico diviene sinonimo di statuale. Lo
statuale rappresenta quindi il soggetto amministrante la circolazione delle merci e delle
informazioni, ma dove tale circolazione è localizzata? In quale dimensione ha luogo? Nella società
civile. Ecco perché, solo nella modernità
Come pendant dell’autorità si costituisce la società civile […] Nella trasformazione dell’economia tramandata
dall’antichità in economia politica si riflettono i mutati rapporti184
Avviene così quella dinamica (già descritta dalla Arendt di Vita activa) in base alla quale un
potere pubblico che amministra la società civile (intesa come la sfera dei privati), eleva a questione
di pubblico interesse la riproduzione della vita, portando quindi tale problematica al di là dei limiti
della sfera domestica privata:
Mentre la vita privata si pubblicizza, la sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità […] (poiché) la
società contrappostasi allo Stato da un lato delimita chiaramente un ambito privato nei confronti del pubblico potere,
dall’altro, però, eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, oltre i limiti di un potere domestico
privato […] A questa sfera privata, divenuta pubblicamente rilevante, della «società civile» allude Hannah Arendt,
quando caratterizza, diversificandolo dall’antico, il moderno rapporto della sfera pubblica con quella privata, mediante
lo sviluppo del «sociale»185
Ora, ciò che Habermas vuole evidenziare, è che la strutturazione delle regole funzionali alla
amministrazione della società da parte del potere pubblico, avviene attraverso una modalità senza
precedenti: la pubblica argomentazione razionale. Anche se è noto che questo è già il tipico modo di
fare politica delle pòleis, l’originalità rilevata da Habermas risiede (oltre che nella diversità del
concetto e dei contenuti della politica fra l’antichità e la modernità) nel fatto che in tutte le epoche
precedenti a quella borghese la dimensione politica, quella in cui si forma l’opinione pubblica
giuridicamente rilevante in quanto produttrice di leggi, non è accessibile a tutti gli uomini, ma solo
a quelli che possiedono determinati requisiti (come la libertà nell’antica Grecia e l’appartenenza ad
un certo ceto nelle epoche successive), in base ai quali assumono lo status di cittadini, mentre, con
la società borghese, la politica diviene potenzialmente accessibile ad ogni uomo che, per il semplice
fatto di essere tale, è allo stesso tempo un cittadino: prima dell’avvento della società borghese si è
un semplice uomo o un cittadino, dopo si è un uomo e un cittadino. Non potrebbe essere spiegato
altrimenti il fatto che solo nella società borghese ogni individuo è, almeno in teoria, libero di
muoversi dalla dimensione della società civile a quella della politica, e viceversa: «Alla separazione
tra Stato e società corrisponde “la scissione dell’uomo (bourgeois) in uomo pubblico (citoyen) e in
uomo privato (homme)”»186.
Tuttavia, nella modernità mancano spesso e palesemente le condizioni economiche, sociali e
culturali, in virtù delle quali ciascun uomo possa essere, di fatto e non solo formalmente, anche un
cittadino (veste, quest’ultima, che rimane così solamente “ufficiale” ed “ornamentale”), e tali
184
185
186
J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., p. 32.
Ibidem, pp. 190, 38 e 32, parentesi mia; su ciò cfr. Genesi della sfera pubblica borghese, in Ibidem.
Ibidem, p. 151, parentesi mie.
61
condizioni vengono a mancare non solo a causa di determinati rapporti di forza nella (ri)produzione
della vita (poiché la nostra è «una società mondiale contraddistinta da una distribuzione
estremamente ingiusta delle chances di vita»187), ma anche (e forse soprattutto) a causa della
cosiddetta cultura di massa188, che si manifesta attraverso quei fenomeni di mercificazione della
cultura, di conformismo sociale, di marketing politico, di manipolazione delle opinioni,
d’indottrinamento sistematico di nuovi valori, già approfonditamente colti e descritti dalla prima
Scuola di Francoforte. Per tal via, l’accesso, potenziale, alla politica è reso, di fatto, impossibile e/o
non attraente: l’uomo è esplicitamente impedito e/o latentemente reso disinteressato a divenire un
cittadino, è privato delle possibilità concrete e/o delle motivazioni necessarie per decidere
responsabilmente tra opzioni con conseguenze prevedibili. Tuttavia, poiché uno dei tratti
determinanti della modernità è quello, derivante dalla rivoluzione francese, in base al quale ciascun
uomo è depositario del diritto/dovere di non essere un mero “consociato” (ovvero, colui che gode
della protezione della legge, ma non del diritto di legislazione, di elaborazione della stessa189),
anche l’uomo disinteressato al suo status di cittadino è periodicamente chiamato ad esprimere le
proprie opinioni politiche che, a causa dell’impossibilità d’accesso alla e/o del disinteresse per la
e/o della manipolazione delle informazioni sulla politica stessa, non risultano essere il frutto di una
riflessione critica, ma l’esito artificioso prodotto da determinate forze dominanti. In questo modo,
l’opinione pubblica degenera da strumento di liberazione ad istanza di conformismo ed oppressione.
Questo è ciò che avviene quando l’autocoscienza politica dei cittadini non dispone più di un luogo
nel quale poter dare vita ad un’autentica comunicazione pubblica, questo è ciò che avviene quando
accademie, università, musei, teatri, ecc. vengono spogliati della loro veste di “infrastrutture
culturali”, ed assoggettati ai modelli del mercato. Si assottiglia, così, «quel cuscinetto politicoculturale su cui lo Stato di diritto democratico deve essere poggiato per rimanere stabile»190.
Dinamica, questa, che dalle società occidentali sta contagiando quelle orientali, sempre più tese ad
emulare le prime, e descritta da Habermas con il termine di “rivoluzione recuperante”191. Tale
termine, per il pensatore francofortese, sta ad indicare la diffusione su scala planetaria di una cultura
industriale (mossa unicamente da logiche economiche), figlia del razionalismo occidentale, con
effetti omogeneizzanti, visibili tramite l’irrigidimento di determinati stili di vita ed il conseguente
blocco della capacità d’immaginazione rivolta al futuro, al punto tale che, l’unica operazione
concettuale che gli individui riescono a portare avanti è quella del recupero nel presente degli
elementi già esistenti nel passato. In altri termini, assistiamo ad una irresistibile inclinazione a
recuperare i modelli del passato come schemi interpretativi del presente e, soprattutto, del futuro, a
vedere, cioè, “il passato come futuro” anziché “il passato per il futuro”. Ma, nonostante che quella
della rivoluzione recuperante sia una problematica derivante dall’estremizzazione della ratio
illuministica (già notoriamente messa sotto accusa, per primi, da Horkheimer ed Adorno nella
187
J. Habermas, Dopo l’utopia, Marsilio, Venezia 1992, pp. 8-9, è infatti palese che «Il mondo in cui viviamo è allo stesso tempo notevolmente
comodo e assolutamente povero […] La contemporanea presenza di opulenza e agonia nel mondo che abitiamo rende difficile evitare interrogativi
fondamentali sull’accettabilità etica dell’organizzazione sociale prevalente», A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 11.
188
«La cultura di massa deriva infatti il suo nome equivoco dal fatto che l’allargamento della diffusione viene raggiunto con l’adattamento alle
esigenze di distensione e di distrazione di gruppi di consumatori di livello culturale relativamente basso e senza invece preoccuparsi di educare il
vasto pubblico a una cultura sostanzialmente integra […] La cultura si trasforma in merce non solo secondo la forma, ma anche secondo il contenuto,
lascia cadere alcuni elementi, la cui ricezione presuppone un certo apprendistato, grazie al quale l’appropriazione “consapevole” accresce a sua volta
la consapevolezza. Non già la standardizzazione come tale, ma quel particolare precondizionamento dei prodotti che conferisce loro piena fruibilità,
cioè la garanzia di poter essere recepiti senza rigorose premesse e, ovviamente, senza tracce durevoli, pone la commercializzazione dei beni culturali
in un rapporto inverso rispetto alla loro complessità […] l’area di risonanza di un ceto colto educato all’uso pubblico della ragione è compromessa; il
pubblico è diviso fra minoranze di specialisti che discutono in modo non-pubblico e la grande massa dei consumatori che recepiscono
pubblicamente», J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., pp. 198-199 e 209; in sintesi, l’area di coloro che discutono pubblicamente
di argomenti pubblicamente rilevanti subisce una mutilazione sia quantitativa (poiché molti sono impossibilitati o disinvogliati a partecipare a tale
discussione) che qualitativa (per l’abbassamento culturale dei concetti e dei termini con i quali si trova ad avere a che fare chi desidera partecipare al
dibattito).
189
Non a caso, la Dichiarazione dei diritti del 1789 è rivolta sia all’uomo che al cittadino.
190
J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., p. 48
191
“Rivoluzione recuperante” è la traduzione letterale di Die nachholende Revolution, titolo di un volume di Habermas tradotto in italiano come La
rivoluzione in corso, Feltrinelli, Milano 1990.
62
Dialettica dell’illuminismo), ciò non significa che la ragione stessa debba essere depotenziata, al
contrario, solo un supplemento di ragione può combattere le problematiche provocate da una
razionalità distorta, in quanto viziata da logiche calcolanti e strumentali. Per questo, si può
considerare l’etica del discorso come l’esito della
ricerca delle tracce di una Ragione che unifichi senza annullare le distanze, che colleghi senza dare lo stesso
nome a cose diverse, che tra estranei renda riconoscibile ciò che vi è in comune, ma lasciando all’altro la sua alterità
[…] (ma ciò non è possibile) se ci lasciamo semplicemente trascinare nel vortice di atmosfere da fine del mondo invece
di farci ammaestrare dai nostri sentimenti […] Ciò di cui abbiamo bisogno sono più pratiche fondate sulla solidarietà;
senza di ciò, anche l’agire intelligente rimane privo di fondamento e senza conseguenze. Tali pratiche, tuttavia, da parte
loro necessitano di istituzioni razionali, di regole e forme di comunicazione che moralmente non esigano troppo dai
cittadini e, anzi, richiedano loro con moderazione il tributo della virtù orientata al bene comune […] Io penso che
l’approccio della teoria del discorso possa dare buoni frutti non solo per la morale, ma anche per il diritto e la politica.
Così quella della democrazia diventa la questione della istituzionalizzazione di procedure e di circuiti di comunicazione
che rendano possibile una formazione più o meno discorsiva della volontà e dell’opinione192
La ragione, quindi, può (e per Habermas deve) avere una funzione normativa “filtrata” dai
sentimenti e portata avanti dalla e nella comunicazione; tuttavia, nella modernizzazione occidentale,
questa funzione è formalmente riconosciuta alla ragione in campo morale, e di fatto disconosciuta
in quello giuridico, politico ed istituzionale, nei quali determinati valori (fra i quali svettano il
denaro ed il potere) sono stati affrancati dalla ragione ed inseriti in una dimensione delinguistificata,
guidata da una logica efficientista. Tale logica si autolegittima attraverso una determinata industria
della comunicazione (che comprende tanto l’industria dell’intrattenimento quanto quella
dell’informazione), che non solo esprime, ma soprattutto produce valori morali e regole giuridicopolitiche preconfezionate, sottraendole, quindi, a processi di formazione tramite discussione. Questa
sembra essere la zona d’ombra della teoria dell’agire comunicativo: l’etica del discorso può darsi in
maniera autentica solo se in una comunità, i processi decisionali discorsivi non siano né fisicamente
impediti, né psicologicamente inibiti, né in alcun modo manipolati, insomma, solo se l’individuo
conserva quella libertà materiale ed intellettuale che gli è oggi in larga parte negata; viene altrimenti
a mancare la condizione di possibilità par excellence di un “buon esito” dell’agire comunicativo: la
libertà dei parlanti. Inoltre, bisogna tenere presente che anche nel caso di una perfetta pratica
dialogica, esisteranno sempre posizioni inconciliabili, valori non discutibili, di fronte ai quali non si
può fare altro che prenderne atto, riconoscendo da parte di tutti ciò che viene incondizionatamente
difeso da ciascuno; pertanto, un regime democratico deve garantire non solo l’esistenza di uno
spazio pubblico di confronto, ma anche quella della sfera delle libertà personali, una sfera nella
quale ciascuno cura ciò che per lui non è negoziabile: «Un processo democratico non approda (solo)
alla formazione di una volontà generale, ma (anche) al riconoscimento dell’area della libertà di
ciascuno»193 (in tale prospettiva, liberalismo e comunitarismo rappresentano, rispettivamente,
l’estremizzazione del secondo e del primo dei due poli di quel processo democratico).
3.2 L’individualismo nelle teorizzazioni liberali
Di fronte alla questione (già affrontata con Popper194) delle catastrofi sociali prodottesi a
causa della pretesa del potere politico di realizzare la giustizia, di fare, quindi, dello Stato il
soggetto particolare di un presunto ordine universale, l’incarnazione di un ché di assoluto e,
conseguentemente, di non discutibile, vi sono autori che reagiscono ipotizzando un determinata
192
J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., pp. 121, 96, 99 e 128, parentesi mia; cfr. anche, dello stesso autore, La costellazione postnazionale, Feltrinelli,
Milano 2002.
193
A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 264, parentesi mie.
194
Cfr. par. 2.2 del presente lavoro.
63
impostazione sociale, politica ed etica, che possa essere esente da una simile problematica, e vi sono
autori che vedono in una qualsiasi eventuale organizzazione del potere statale una forma di
limitazione della libertà individuale e che, pertanto, immaginano una impostazione sociale in cui il
potere politico sia ridotto al minimo indispensabile. E’ questo, in prima approssimazione, il punto di
vista dei pensatori liberali, fra i quali si pone la recente teoria nozickiana dello “Stato minimo”,
proponente la tesi di un interventismo statale ridotto allo stretto indispensabile, nella
regolamentazione dei rapporti interpersonali. Con una simile argomentazione, Robert Nozick, da un
lato opera una critica della teoria della giustizia di John Rawls, e dall’altro si pone nel solco del
liberalismo e dell’individualismo radicale di Friedrich A. von Hayek.
Rawls viene difatti da Nozick criticato in quanto, la sua teoria della giustizia, legittimando
un’onerosa tassazione finalizzata ad aiutare i ceti più svantaggiati, sottrae agli individui più abili e
più capaci una parte del frutto del loro lavoro, violando così la loro libertà. Infatti, assorbendo gli
insegnamenti lockiani, Nozick ritiene che ogni individuo sia padrone di se stesso, del proprio lavoro
e dei frutti che ne ricava, pertanto, una tassazione redistributiva origina una sorta di schiavitù poiché
costringe l’individuo a lavorare non per se stesso ma per gli altri:
Nozick, nella sua polemica contro lo Stato distributivo, non usa mezzi termini: «La tassazione dei guadagni di
lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato», la giustizia distributiva realizza solo ingiustizia, perché serve a premiare
soltanto l’«invidia» di coloro che sperano di vivere di rendita alle spalle degli altri195
Ecco perché, in luogo della teoria rawlsiana della giustizia, Nozick propone la “teoria del
titolo valido”196, per la quale il diritto alla proprietà privata, se è posseduta a giusto titolo, non può
subire nessuna limitazione:
1. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nell’acquisizione (Una ricchezza è
giusta se la sua acquisizione originale fu giusta e pure giusto è stato ogni passaggio successivo da persona a persona; o
se ogni precedente ingiustizia è stata sanata) ha diritto a quella proprietà.
2. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nel trasferimento, da qualcun altro
avente diritto a quella proprietà, ha diritto a quella proprietà.
3. Nessuno ha diritto a una proprietà se non con applicazioni (ripetute) di 1 e 2
(In conclusione) Il principio completo di giustizia distributiva direbbe semplicemente che una distribuzione è
giusta se ciascuno ha diritto a possedere le proprietà che possiede con quella distribuzione197
Come si vede, la nozickiana teoria del titolo valido consiste nell’applicazione del concetto di
giustizia non alla ripartizione delle risorse, come avviene nelle teorie di giustizia distributiva, ma
all’acquisizione delle stesse, potendosi così definire come una «teoria della giustizia nella
proprietà»198, il cui fondamento risiede nel carattere storico della giustizia nel possesso della
proprietà. Ovviamente, l’humus del quale si nutre tale teoria è quello, lockiano, della concezione
dell’inviolabilità della proprietà privata, quest’ultima infatti porta, per Nozick, alcuni importanti
benefici, fra cui: l’aumento della ricchezza sociale (mettendo i mezzi di produzione nelle mani di
coloro che li sanno usare con efficienza e profitto); l’incremento dell’iniziativa e della
sperimentazione; la possibilità per le persone di stabilire come investire le proprie risorse senza
intermediari.
Da Hayek, invece, Nozick mutua l’idea che il liberalismo non sia una mera concezione
economica, ma una sorta di visione del mondo con riflessi in ambito sociale, politico, giuridico e
psicologico. In particolar modo quest’ultimo (quello psicologico) è, per Hayek, un campo di ricerca
195
N. Matteucci, Il liberalismo, il Mulino, Bologna 2005, p. 78, e cfr. R. Nozick, La giustizia distributiva, in Anarchia, stato e utopia, Le Monnier,
Firenze 1981.
196
Con la perifrasi “Titolo valido”, si è reso l’originale termine di “entitlement”, cfr. Ibidem, p. 160, nota del traduttore.
197
Ibidem, p. 161, prima parentesi p. IX, ultima parentesi mia.
198
Ibidem, p. 163.
64
molto fecondo poiché rende evidenti quelli che lui ritiene essere i danni che lo statalismo provoca
sulla mentalità di ciascun individuo. Secondo il filosofo viennese, infatti, uno Stato onnipresente,
oltre a mortificare l’economia di mercato, tende ad inibire il “gusto” della libertà d’iniziativa,
incidendo, così, negativamente sulla forma mentis delle persone. Ogni forma di liberticidio,
insomma, non colpisce solo la struttura esterna della realtà, ma blocca anche la spinta all’azione che
ogni individuo porta in sé. Di conseguenza, una teoria della giustizia sociale che implichi una
qualsiasi forma di controllo sulle risorse economiche dei cittadini (ad esempio, ridistribuendo le
ricchezze attraverso un determinato sistema di tassazione) rappresenta una violazione della libertà
degli individui, i quali possono condividere le proprie ricchezze con gli altri, solo se desiderano
farlo, ma in nessuno caso essendo moralmente e/o legalmente obbligati a farlo. La fiducia in una
simile visione della giustizia sociale è, in Hayek, sostituita da quella nel libero mercato, nella sua
capacità di armonizzazione spontanea fra le decisioni dei produttori ed i desideri dei consumatori199.
E’ questa la via che conduce alla formazione di quella che Hayek chiama la “Grande Società”,
ossia, una società complessa, non sottostante ad una pianificazione centralizzata, ed affidata
all’iniziativa individuale ed alla libera concorrenza. In una simile società la politica appare non solo
come un male necessario, ma addirittura come un meccanismo imperfetto rispetto alle regole del
libero mercato, regole alle quali la politica, per migliorarsi, dovrebbe tendere, a partire dall’ambito
terminologico: il termine democrazia (governo del popolo) dovrebbe essere sostituito da quello di
“demarchia” (governo delle regole). Hayek si spinge inoltre sino ad ipotizzare gli organi
costituzionali che una tale demarchia dovrebbe avere: un’“ assemblea legislativa”, costituita da
persone fra i 45 ed i 60 anni, che restano in carica per quindici anni, con il compito di tutelare la
sfera privata da qualsiasi coercizione, ed un’“assemblea governativa”, che latu sensu corrisponde ai
parlamenti, composta da persone, suddivise in partiti, elette periodicamente, con il compito di
occuparsi degli interessi particolari200.
Ora, pur proseguendo su questa linea di riflessione, Nozick non estremizza le
argomentazioni di Hayek, giungendo alla conclusione della doverosità dell’eliminazione dello Stato
di diritto, sulla necessità del quale come rimedio agli “inconvenienti” dello stato di natura si trova in
accordo con Locke, ma le rielabora sino a giungere alla teoria del cosiddetto Stato minimo, inteso
come quello Stato che interviene il meno possibile nella regolamentazione dei rapporti (in primo
luogo) economici e (in generale) sociali, fra gli individui. Lo Stato minimo è alternativo a quello
contrattualista poiché non nasce da un accordo sul potere politico, fra quanti dovranno poi
sottoporvisi, infatti la genesi dello Stato minimo è da Nozick immaginata come l’estendersi
progressivo di un processo fondamentalmente mercantile: gli individui che si trovano nello stato di
natura, anziché accordarsi in un patto, comprano protezione da associazioni che siano disposte a
fornirgliela. La garanzia della sicurezza (considerabile forse come l’elemento di contatto fra
l’assolutismo ed il liberalismo poiché anche per Hobbes essa è la funzione fondamentale dello
Stato, benché derivante, diversamente da Nozick, da un patto sociale) giunge, così, attraverso una
via puramente di mercato. Ovviamente, tale proposta poggia sul postulato che gli individui abbiano
una sorta di primato sulla società, infatti, oltre agli individui stessi, non esistono, per Nozick, entità
moralmente e politicamente rilevanti. In questa prospettiva, lo Stato assume esclusivamente la
funzione di “guardiano notturno”:
uno stato minimo, ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di
esecuzione dei contratti, e così via, è giustificato; […] qualsiasi stato più esteso violerà i diritti delle persone di non
199
E’ forse superfluo osservare come tale punto sia in assoluto disaccordo con le posizioni di molti autori continentali, come quelli trattai nei parr. 1.3,
1.4, e 1.5 del presente lavoro.
200
Cfr.F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano 1986.
65
essere costrette a compiere certe cose, ed è ingiustificato […] (pertanto) Lo stato minimo è lo stato più esteso che si può
giustificare201
Quello minimo è, allora, non solo uno Stato necessario, ma addirittura l’unico Stato
giustificabile, poiché soltanto esso riesce contemporaneamente ad evitare l’anarchia ed a garantire
che la libertà individuale non venga limitata dagli interessi statali. E’ questa quindi, per Nozick,
l’unica forma di ordinamento socio-politico realizzante quell’utopia socio-politica che il pensiero
occidentale moderno ha sempre ricercato, e che egli, diversamente dalla tradizione che va da
Tommaso Moro al socialismo utopistico, non interpreta come il perseguimento di un determinato
genere di vita valido per tutti, bensì come la possibilità di un ordinato con-vivere, che si colloca a
metà strada fra lo statalismo e l’anarchia, e nel quale ciascun individuo sia libero di ricercare il
proprio stile di vita202.
In altri termini, lo Stato minimo si potrebbe definire come uno Stato razionale, anzi,
addirittura come l’esito ultimo della razionalizzazione dello Stato, dato che, per Nozick
se c’è una cosa che continua (dopo le “destabilizzazioni antropologiche” portate da Niccolò Copernico, Charles
Darwin e Sigmund Freud) a conferire all’umanità uno status speciale, questa è la razionalità. Forse questo nostro
importante attributo non viene esercitato sempre con coerenza; nondimeno esso fa di noi un caso a parte203
Lo Stato minimo rappresenta, dunque, la casa ideale per un simile “caso a parte”. Tuttavia,
lo stesso autore ritiene anche che la razionalità sia «una forza che fa parte integrante di un contesto,
in cui gioca un ruolo insieme ad altre componenti, non un’istanza esterna ed autosufficiente che
giudichi ogni cosa»204. La razionalità, insomma, influenza il ed è influenzata dal contesto in cui si
trova, e lo stesso vale per i risultati ai quali giungiamo attraverso il suo uso. Un esempio di ciò,
Nozick lo rintraccia nell’interazione razionalità-società, tipica della modernità occidentale, che ha
prodotto un mondo in cui
calcolo economico e monetario, razionalizzazione burocratica, regole e procedure generali hanno finito per
prendere il posto di un’azione basata sui legami personali e i rapporti di mercato sono stati estesi a nuovi campi205
Ora, se la razionalità, ed i risultati cui si perviene con il suo utilizzo, è sempre
contestualizzata (come già affermava il padre dell’ermeneutica, Gadamer), ciò significa che
l’ordinamento sociale liberalista, che in Nozick sfocia nella teoria dello Stato minimo, può essere,
tutt’al più, il migliore ordinamento sociale per la moderna società occidentale, ma non il miglior
ordinamento sociale in assoluto. Tutto ciò non toglie certo importanza e valore alla teoria liberalista
dello Stato minimo, ma la colloca in una prospettiva in cui tale teoria appare esclusivamente come il
possibile frutto di un determinato contesto sociale (avvicinando così, stranamente, il liberalismo ad
una delle idee portanti del comunitarismo).
Infine, è interessante ricordare le osservazioni di Bobbio il quale, cercando di decifrare
l’essenza del liberalismo, a partire dal chiarimento della questione “Quale liberalismo?”, afferma
che questo, come teoria economica, sostiene l’economia di mercato, e come teoria politica, sostiene
lo Stato ridotto al minimo necessario, ma, a ben vedere, queste due teorie si fondono, poiché
Sotto entrambi gli aspetti, economico e politico, il liberalismo è la dottrina dello stato minimo: lo stato è un
male necessario, ma è un male. Non si può fare a meno dello stato, e quindi niente anarchia, ma la sfera in cui si estende
il potere politico (che è il potere di mettere in galera le persone) sia ridotta ai minimi termini206
201
R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, cit., pp. XIII e 159, parentesi mia.
Cfr. R. Nozick, Un’impalcatura per utopia, in Ibidem.
203
R. Nozick, La natura della razionalità, Feltrinelli, Milano 1995, p. 12, parentesi mia.
204
Ibidem, p. 170.
205
Ibidem, p. 237.
202
66
Ma, avverte lo stesso Bobbio, comunque la si voglia impostare, nessuna società può fare a
meno di quel collante costituito da una determinata distribuzione delle ricchezze e delle risorse,
infatti «Perché una qualsiasi società stia insieme occorre introdurre anche qualche criterio di
giustizia distributiva»207. Quest’ultima è invece assente in quel ritiro dello Stato dalla sfera
dell’economia, dell’istruzione e dell’assistenza, propugnato da Nozick, un ritiro che rischia di
innescare dei conflitti sociali che, in assenza di una qualsiasi forma di giustizia distributiva, possono
essere sedati solo con mezzi repressivi, il che ricorda, paradossalmente, il modus operandi delle
società totalitarie. In altre parole, nelle teorie liberali è presente un individualismo proprietario che
fa astrazione dal carattere ineludibilmente sociale e cooperativo di ogni attività umana.
Quasi come a voler rispondere a tale monito, la conciliazione del liberalismo con i principi
più classici della giustizia sociale, ovvero la messa a punto di una nuova teoria della giustizia, è la
sfida lanciata dal moderno neocontrattualismo.
3.3 Il neocontrattualismo come strumento di giustizia sociale
Se il movimento di riabilitazione della filosofia pratica si può considerare, in senso lato,
come un tentativo di (ri)connessione della dimensione etica con quella politica (che nella modernità
si sono sempre più palesemente allontanate l’una dall’altra), allora anche la riflessione
neocontrattualista può essere collocata all’interno di tale movimento208.
Ora, il metodo del contrattualismo è stato, in epoca contemporanea, ripensato da Rawls
come strumento di giustizia sociale che, a sua volta, viene dal pensatore statunitense considerata
come il possibile trait d’union fra la sfera dell’etica e quella della politica209. Queste infatti per
Rawls, risultano oggi essere distanti e non comunicanti, non solo a causa dell’influenza di autori
che ne hanno esplicitamente teorizzato la separazione (primo fra tutti, Machiavelli), ma anche, e
soprattutto, a causa del modo in cui si sono affrontati i grandi temi della modernizzazione come, ad
esempio, le nuove potenzialità della tecnologia, le scoperte dell’ingegneria genetica, i processi di
globalizzazione, la crisi del Welfare State ed il sorgere delle società multietniche: la politica
occidentale affronta queste problematiche ignorando il dibattito etico che vi si svolge attorno. In
aggiunta a ciò, vi sono determinati indirizzi di pensiero, come quello della filosofia analitica o
dell’utilitarismo che, con il loro spinto formalismo e con l’estrema considerazione per le regole
procedurali, contribuiscono a perpetuare la separazione tra un’etica pubblica (o politica) ed un’etica
privata (o personale); chiaro esempio di tale separazione è la “ragion di Stato”, in nome della quale
sono concesse (se non addirittura dovute) azioni considerate invece moralmente riprovevoli, se
svolte per fini privati. Insomma, così come la verità deve essere il primo requisito dei sistemi di
pensiero, la giustizia lo deve essere per le leggi e le istituzioni che, pertanto, vanno abolite o
riformate se si rivelano ingiuste, anche qualora fornissero un certo grado di benessere alla società
nel suo complesso. Pertanto, Rawls rifiuta il principio, tipico dell’utilitarismo, secondo il quale il
bene della maggioranza rende sacrificabili gli interessi della minoranza.
Dopo essersi allontanato dall’orizzonte filosofico analitico-utilitaristico, Rawls si volge
verso il liberalismo ed il marxismo-leninismo, scorgendo in essi una latente affinità: entrambi
risultano essere animati dalla volontà di legare l’etica alla politica, recuperando così la dimensione
206
N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in Il futuro della democrazia, cit., p. 132.
Ibidem, p. 121.
208
Per un’introduzione all’argomento cfr. F. Zanuso, A proposito di neoutilitarismo e neocontrattualismo, in G. Piaia (cura), Etica e politica: la prassi
e i valori, Gregoriana, Padova 1990, P. Comenducci, Contrattualismo, utilitarismo, garanzie, Giappichelli, Torino 1991, A. Cardonaro – C. Catarsi,
Contrattualismo e scienze sociali: storia e attualità di un paradigma politico, FrancoAngeli, Milano 1992, e A. Burgio, Per un lessico critico del
contrattualismo moderno, La scuola di Pitagora, Napoli 2006.
209
Cfr. E. Griffo, Il pensiero politico di John Rawls nel liberalismo contemporaneo, Zaccaria & C., Napoli 1999, e A. Punzi (cura), Omaggio a John
Rawls (1921 - 2002): giustiza, diritto, ordine internazionale, Giuffrè, Milano 2004.
207
67
etica dell’agire politico. Tuttavia, liberalismo e marxismo-leninismo hanno assolutizzato,
rispettivamente, i valori della libertà individuale e della uguaglianza sociale; in altre parole, il
liberalismo accetta alcune forme di ineguaglianza sociale, in nome della libertà, ed il marxismoleninismo giustifica una certa limitazione della libertà individuale, in nome dell’uguaglianza
sociale. Ricercando un’armoniosa conciliazione fra queste posizioni, fra la libertà individuale e
l’uguaglianza sociale, Rawls propone, in Una teoria della giustizia, una forma di contratto sociale
negoziato a partire da una condizione di originaria “ignoranza sociale”, ovvero, ignorando la
posizione che ciascun uomo occupa nella scala sociale. In tal modo, Rawls inaugura un
neocontrattualismo che, pur prendendo le mosse dalle teorie classiche del contratto sociale («è mio
scopo presentare una teoria della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione
la nota teoria del contratto sociale, quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant»210), si
distanzia dalle dottrine contrattualistiche, il cui scopo è quello di giustificare razionalmente
l’esistenza dello Stato e del suo potere politico, muovendo invece in cerca di un generale modello di
società giusta. Quest’ultima è per lui una società definibile come “bene ordinata”, ovvero, una
società orientata da una concezione pubblica della giustizia, una società in cui ogni individuo accetti
determinati principi di giustizia, con la garanzia che anche gli altri li accettino, ed in cui le
istituzioni soddisfino in modo riconosciuto tali principi. Per tendere verso una simile impostazione
sociale, egli propone la teoria del cosiddetto “velo d’ignoranza” (veil of ignorance) il quale,
mascherando la posizione occupata da ciascun individuo nella scala sociale, ha il compito di
escludere la conoscenza di quei fattori contingenti che porrebbero gli uomini in conflitto tra loro,
rendendo impossibile qualsiasi accordo sui principi di giustizia; conseguentemente, il velo
d’ignoranza porta ogni uomo a privilegiare un’organizzazione sociale che massimizzi i benefici per
i meno abbienti, potendo chiunque trovarsi in tale situazione. Per questo, la teoria politica rawlsiana
si può definire come una teoria della “giustizia come equità”: la scelta dei principi di giustizia
avviene fra persone razionali, poste in una condizione di eguaglianza iniziale.
I principi in base ai quali (una persona) agisce non vanno adottati a causa della sua posizione sociale o delle
sue doti naturali, o in funzione del particolare tipo di società in cui vive, o di ciò che gli capita di volere. Agire in base a
questi principi significherebbe agire in modo eteronomo. Il velo di ignoranza priva le persone in maniera originaria
delle conoscenze che le metterebbero in grado di scegliere principi eteronomi. Le parti giungono insieme alla loro
scelta, in quanto persone razionali libere ed eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di
principi di giustizia211
E gli imprescindibili principi di giustizia individuati da Rawls, come fondamento di una
società equa, sono i seguenti due: il primo principio afferma che una persona debba disporre del più
ampio sistema possibile di libertà, compatibile con una pari libertà degli altri (è questo un principio
fondamentale del liberalismo, rintracciabile, difatti, già in un classico del liberalismo stesso: «Il solo
scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una società
civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri »212); il secondo sostiene che le
disuguaglianze nella distribuzione dei beni sociali principali, come ad esempio le ricchezze
economiche e le cariche politiche, sono ammesse solo se producono benefici compensativi per tutti,
in particolare per i più svantaggiati della società, le disuguaglianze, così, vengono messe al servizio
210
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2004, p. 27. Per comprendere la teoria rawlsiana della giustizia sarà utile considerare come,
per il filosofo statunitense, la giustizia debba «in primo luogo essere considerata come uno standard rispetto al quale vengono valutati gli aspetti
distributivi della struttura fondamentale della società», Ibidem, p. 26, corsivo mio; tale prospettiva, considerante i processi (re)distributivi come vie
d’accesso privilegiate alla giustizia, viene criticata da chi ritiene che la stessa giustizia non sia primariamente una questione (re)distributiva, ma
relazionale: inerente ai rapporti sociali che consentono o limitano l’azione, cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.
211
J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 216, parentesi mia, cfr. anche, dello stesso autore, Giustizia come equità, Feltrinelli, Milano 2006, su
questo aspetto del pensiero rawlsiano, C. Ruscitti, La teoria della giustizia di John Rawls, Tracce, Pescara 2005, e più in generale sull’argomento, S.
Maffettone – S. Veca, L’idea di giustizia da Platone a Rawls, Laterza, Roma 2004.
212
J. S. Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1981, p. 32.
68
del miglioramento di tutti (tale principio rappresenta, comprensibilmente, una rottura con la
tradizione classica del liberalismo). In altri termini,
La società che verrebbe scelta, è quella che consente le diseguaglianze in una misura rigorosamente limitata, e
ciò solo in quanto generano benefici per tutti. Le conseguenze politiche di un’impostazione del genere sono, in soldoni,
molto chiare: le ineguaglianze di reddito di una società capitalistica possono essere accettabili e non inique solo se,
grazie a un robusto intervento redistributivo, contribuiscono a garantire a tutti quei beni sociali fondamentali grazie ai
quali gli individui possono costruire i loro progetti di vita213
Così, mettendo da parte le propria condizione sociale, si può ottenere, per Rawls, un
“consenso per sovrapposizione” (overlapping consensus), inteso come il raggiungimento di
posizioni comuni sulle grandi questioni concernenti i diritti e le libertà degli individui. Il «consenso
per intersezione di dottrine comprensive ragionevoli»214 rappresenta quindi lo strumento in grado di
superare le differenze presenti tra dottrine morali inconciliabili fra loro, grazie all’accordo sulle
questioni politiche fondamentali: la rawlsiana società bene ordinata è al contempo moralmente
eterogenea e politicamente omogenea, in altri termini, non si basa su una comune visione della
morale bensì della giustizia applicata alla politica, infatti «le dottrine ragionevoli fanno propria,
ciascuna dal suo punto di vista, la concezione politica»215.
Ora, a mio parere, le teorie politiche di Rawls rappresentano il più grande progetto di
“revisione” del liberalismo e, forse proprio per questo, contengono alcuni passaggi necessitanti di
ulteriori chiarimenti216. Innanzi tutto, Rawls sembra ritenere che la condizione sociale cui si
appartiene sia il più importante fattore (se non addirittura l’unico) nella determinazione della forma
mentis e della “visione del mondo” di una persona, al punto tale che mascherando le differenze
sociali si risolverebbero i diversi punti di vista in un’unica visione della società; tale teoria, quindi,
non considera il fatto che anche fattori immateriali (come le idee ed i concetti) possano concorrere
alla determinazione della mentalità di una persona. In secondo luogo, la giustizia sociale è data
come esito del consenso per intersezione (termine che indica la sovrapposizione delle diversità, ma
non una loro interazione che implichi un vicendevole “inquinamento”, un reciproco
influenzamento), il quale è reso possibile dalla presenza del velo d’ignoranza. In tal caso però, al
disvelamento delle varie posizioni sociali dovrebbe corrispondere il riaccendersi della conflittualità
sociale che rimetterebbe in discussione i risultati precedentemente conseguiti: il consenso raggiunto
grazie al velo d’ignoranza è mantenibile solo mantenendo il velo stesso. Inoltre, con la teoria del
velo d’ignoranza Rawls vuole esprimere l’esigenza che i principi di giustizia vengano scelti
indipendentemente dalla condizione sociale di appartenenza, tuttavia, tale teoria implica il fatto che
le persone scelgano e stabiliscano determinati principi di giustizia, solo in quanto potrebbero
tornargli utili in prima persona; così facendo, Rawls sostituisce all’eteronomia effettiva,
l’eteronomia potenziale: le persone non compiono determinate scelte di giustizia in base alla loro
presente posizione sociale, bensì in base a quella che potrebbe essere la loro futura collocazione
sociale; ma i principi di giustizia non dovrebbero essere elaborati indipendentemente dalla propria
condizione sociale sia effettiva che potenziale (fermi restando gli inevitabili condizionamenti delle
contingenze), ovvero solo in quanto ritenuti corretti in loro stessi?
Ad ogni modo,
213
S. Petrucciani, La giustizia per contratto, in «Il Manifesto», 27/11/02.
J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1999, p. 123.
215
Ivi; sulla funzione pubblica dell’overlapping consensus cfr. L’idea di consenso per intersezione, in Ibidem, e V. Iorio, Istituzioni pubbliche e
consenso in John Rawls, Ed. scientifiche italiane, Napoli 1995.
216
Cfr., il commento alle teorie politiche rawlsiane di J. Habermas, Reconciliations throght the Public Use of Reason: Remarks on John Rawls’s
Political Liberalism, in «Journal of Philosophy», n. 92, 1995.
214
69
Rawls torna a indicare una strada lungo la quale credevamo di esserci smarriti. Quella che ci obbliga a pensare
giustizia e libertà come due concetti che o stanno insieme o cadono. E quindi a ripensare il nesso anche più profondo
che lega etica e politica217
Le teorie politiche neocontrattualiste hanno quindi introdotto nel dibattito occidentale un
nuovo paradigma di giustizia sociale, riossigenando così il discorso culturale sulle questioni sociopolitiche, proponendo una teoria sociale posta a metà strada, e pertanto alternativa, rispetto ai due
grandi movimenti contemporanei del liberalismo e del comunitarismo.
3.4 Il comunitarismo come risposta alla crisi del soggetto morale ridotto ad
io puntiforme
Come si è già visto, la moderna crisi delle ideologie, da un lato ha travolto i grandi sistemi
di filosofia della storia, e dall’altro ha determinato il sorgere delle cosiddette etiche pubbliche; fra di
esse, oltre al movimento della Rehabilitierung, si assiste ad una rinascita dei motivi tipici
dell’individualismo, per il “padre” del quale, le ideologie non sono altro che «teorie provvisorie,
modelli costruiti dalla mente ingenua per spiegarsi la connessione esistente fra alcuni dei fenomeni
singoli che noi osserviamo»218, in contrapposizione alle quali viene affermato il primato
dell’individuo sulla società, portante, nelle sue più spinte teorizzazioni, alla già affrontata questione
dello Stato minimo. La concezione dell’individualismo è quindi inevitabilmente legata alle teorie
politico-economiche liberali, che si oppongono a qualsiasi forma di giusnaturalismo e/o di
contrattualismo. Ora, alla rinascita di tali temi liberali si oppone non solo e non tanto la teoria
rawlsiana della giustizia (la quale, infatti, non rifiuta il liberalismo, ma ne tenta l’integrazione con
dei principi di “equilibrio distributivo”), quanto il movimento dei cosiddetti communitarians219, a
proposito della cui genealogia si deve notare come:
L’indebolimento, e talvolta addirittura il crollo, dello Stato nazional-liberale, che è insieme causa e effetto
della scissione fra economia e cultura, ha provocato la diffusione del comunitarismo, nonché di forze economiche
transnazionali. Questa ideologia predica la completa corrispondenza nell’ambito di un determinato territorio di
organizzazione sociale, orientamenti e pratiche culturali e potere politico, in vista della creazione di una società totale
[…] Possiamo […] parlare di comunitarizzazione (Vergemeinschaftung), quando un movimento culturale, o più spesso
una forza politica, crea in maniera volontaristica una comunità, eliminando tutti quelli che appartengono a un’altra
cultura o a un’altra società, oppure non accettano il potere dell’élite dirigente220
Per i comunitaristi, quindi, la comunità è dotata di una soggettività autonoma ma non
alternativa a quella dell’individuo, poiché essa è costituita dalle e contribuisce a formare le identità
individuali. Fin dall’Ottocento, con Ferdinand Tönnies, la società (Gesellschaft) è intesa come una
struttura fondata su regole impersonali, mentre la comunità (Gemeinschaft) è intesa come il luogo
delle relazioni dirette, autentiche e “di sangue”, che dotano di senso la vita delle persone221. I
communitarians (i cui massimi esponenti sono Charles Taylor ed Alasdair MacIntyre), si
oppongono all’individualismo liberale ritenendo che esso abbia smarrito il significato della
concezione di comunità e, quindi, dei valori morali insiti nella tradizione storica di ogni specifica
comunità222.
217
S. Givone, Addio a Rawls, coniugò libertà e giustizia, in «Il Messaggero», 27/11/02.
F. A. von Hayek, L’abuso della ragione, Vallecchi, Firenze 1987, p. 156; cfr. anche R. Cubeddu, Sul tema dell’individualismo metodologico, in «Il
Politico», n. 2, 1989.
219
Per un’introduzione sul comunitarismo cfr. AA. VV. Le forme del comunitarismo, Il cantiere delle idee, Parma 2000, I. Colozzi, Varianti di
comunitarismo, FrancoAngeli, Milano 2002, e V. Pazé, Il comunitarismo, Laterza, Roma 2004.
220
A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, cit., p. 176.
221
Cfr. F. Tönnies, Comunità e società, Comunità, Milano 1979; cfr. inoltre, E. Vitale, Il soggetto e la comunità, Giappichelli, Torino 1996.
222
Su tale contrapposizione cfr. A. Ferrara (cura), Comunitarismo e liberalismo, Ed. Riuniti, Roma 2000, e E. Caniglia – A. Spreafico (cura),
Multiculturalismo o comunitarismo?, LUISS University Press, Roma 2003.
218
70
Giudicando non soddisfacente lo schema empiristico stimolo-risposta come termine di
spiegazione per l’agire umano, dato che talvolta la risposta precede lo stimolo e/o varia di fronte ad
uno stesso stimolo, Taylor, rintraccia in elementi soggettivi, quali le intenzioni, i desideri, le
inclinazioni, gli scopi, quei fattori che svincolano il comportamento umano da una causalità di tipo
oggettivo. Fra tali elementi soggettivi rientrano anche i beni che, quando sono intesi come assoluti,
Taylor definisce “iperbeni”, ovvero
I beni di livello superiore […] quei bei che, oltre a essere incomparabilmente più importanti degli altri,
rappresentano il punto di vista a partire dal quale gli altri beni vanno valutati, giudicati e scelti223
L’intenzionalità rappresenta, allora, una sorta di categoria esistenziale che fa sì che il
comportamento umano non sia mai totalmente oggettivabile. Ora, l’intenzionalità è ovviamente un
ché di soggettivo, dipende, cioè, dall’identità personale che però, a sua volta, risulta oggi essere
affetta da patologie quali isterie, fobie, fissazioni e anomia. Per Taylor, questi aspetti patologici
sono il sintomo della crisi di quei “quadri di riferimento” che permettono di dare un senso e un fine
alle decisioni personali; al filosofo nordamericano sembra infatti
che il cambiamento relativamente recente intervenuto nelle forme di patologia dominanti rispecchi la
generalizzazione e la volgarizzazione culturale di quella “perdita di orizzonte” che pochi spiriti lungimiranti sono andati
profetizzando da un secolo o più224
Ora, per Taylor, ciascun quadro di riferimento contiene una determinata visione dei beni e
questi ultimi si pongono, all’interno del “quadro”, come ordinati gerarchicamente (altrimenti
verrebbe meno la distinzione fra beni relativi ed assoluti, gli iperbeni), come ineludibili (i moderni
disagi umani dipendono infatti dall’averli trascurati) e come pre-razionali (situati, cioè, in una sorta
di preconscio spirituale). Nei beni è infatti presente
una gradualità di conseguimento […] ma se sono fortemente impegnato nella promozione di un bene che
considero il più alto di tutti, sarò convinto che il si o il no che esprime la direzione corrispondente del mio impegno è
assolutamente decisivo per ciò che sono come persona […] Qui sono in gioco intuizioni morali non solo universali, ma
anche particolarmente profonde e forti: così profonde e forti da apparire radicate nell’istinto e non legate, come altre
reazioni morali, all’educazione e all’istruzione225
Pertanto, l’identità del soggetto dipende dal riferimento ad un quadro contenente una
determinata immagine dei beni e degli iperbeni. E’ ora fondamentale chiarire che, per Taylor, questi
quadri di riferimento si determinano nella storia: i loro contenuti sono storici e, per i moderni
occidentali, derivano dall’illuminismo; discendono da ciò due conseguenze. Innanzi tutto, i quadri
di riferimento non sono mai un qualcosa di definitivo, ma una tappa storica destinata, prima o poi,
ad essere superata; inoltre, a culture diverse corrispondono percorsi storici diversi, una diversa
sequenza di paradigmi, di quadri di riferimento. Chi non si avvede dell’importanza di tutto ciò, e
ritiene che il nostro sia un paradigma definitivo e che il cammino che ha portato alla sua formazione
debba essere ripetuto da ogni altra cultura, come se esistesse un “pacchetto illuministico” ripetibile
all’infinito in ogni tempo e in ogni luogo, cade in un atteggiamento definito da Taylor come
223
C. Taylor, Radici dell’io, Feltrinelli, Milano 1993, p. 91. Su Taylor cfr. P. Costa, Verso un’ontologia dell’umano, Unicopli, Milano 2001, A.
Allegra, Le trasformazioni della soggettività: Charles Taylor e la tradizione del moderno, AVE, Roma 2002, A. Pirni, Charles Taylor, Milella, Lecce
2002, N. H. Smith, Charles Taylor: meanings, morals and modernity, Polity, Cambridge 2002, R. Abbey (cura), Charles Taylor, Cambridge
University Press, Cambridge 2004, P. Nepi, Charles Taylor, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004, e N.
Genghini, Identità comunità trascendenza: la prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2005.
224
Ibidem, p. 34; seppure nell’ambito di una riflessione antropologica sulla tecnica, anche Arnold Gehlen rileva come nella modernità «mancano
all’esterno punti d’appoggio stabili per i nostri principi, i nostri impegni e persino le nostre opinioni, manca una riserva costante di usi e consuetudini,
di istituzioni, simboli, ideali e “immobili culturali” ai quali si possa affidare la guida del nostro comportamento con la sensazione di fare cosa giusta»,
A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 78.
225
C. Taylor, Radici dell’io, cit., pp. 90 e 17.
71
“aculturale”, etnocentrico ed ipervalutante. Dunque, per Taylor esistono tante identità culturali
quanti paradigmi valoriali, e ciascuna di esse è il frutto di un determinato cammino storico.
Insomma, ogni comunità è perennemente in itinere: la sua identità dipende dalla sua storia passata,
dalla tradizione, e si modificherà nel futuro. Risulta così evidente come, nel comunitarismo, si
dissolva l’io puntiforme lockiano, fondamento delle teorie individualistico-liberali, che dichiara la
sua indipendenza dalla e supremazia sulla comunità e/o società, e si affermi un soggetto umano la
cui identità si costituisce sul modello identitario della comunità di appartenenza. Una persona che
non si costituisce a partire da una individualistica rappresentazione del mondo, ma come
espressione di sé in un orizzonte dato226.
Ma, avverte Taylor, se i beni e gli iperbeni sono dei valori morali, si impone allora alla
filosofia morale un nuovo compito: quello di inaugurare una ontologia morale che possa definirli
concettualmente; compito che nella modernità è stato disatteso e sostituito da quello, pratico, di
stabilire che cosa sia giusto fare. Taylor rileva infatti come la filosofia contemporanea ritenga
importante la morale non in sé, ma solo in relazione ai fatti, solo se essa funge da guida per
l’azione, così
la moralità affronta il problema di che cosa è giusto fare, non di che cosa è bene essere. Conseguentemente
l’obbiettivo della teoria morale viene identificato nella definizione del contenuto dell’obbligo, non nella natura della
vita buona […] Al centro dell’attenzione ci sono i principi, gli imperativi o i criteri guida dell’azione, mentre la
preoccupazione di mettere a punto delle visioni del bene è completamente assente. La morale si occupa esclusivamente
di quello che dobbiamo fare, trascurando il problema di che cosa sia apprezzabile in sé o di che cosa dovremmo
ammirare o amare227
Poiché una determinata concezione morale è uno degli elementi fondamentali che
concorrono all’elaborazione di quegli ineludibili quadri di riferimento i quali, a loro volta,
forniscono l’orizzonte dentro il quale la vita acquista un significato, l’indebolimento della teoria
morale provoca inevitabilmente la già menzionata crisi dell’identità soggettiva. Quindi, per Taylor,
il superamento di quella crisi ed il relativo recupero dell’identità personale, può avvenire solo
ripristinando uno spazio morale (il quadro di riferimento) all’interno del quale il soggetto morale
possa autodefinirsi, ma tale “rivitalizzazione morale” può darsi solo attraverso uno specifico
percorso concettuale. Innanzi tutto, è necessario costituire un’immagine dell’identità personale
come storia, infatti, così come per una comunità, anche per un soggetto la propria identità è sempre
in itinere e costituita grazie al percorso che si è svolto: l’identità di una persona ha necessariamente
uno spessore temporale e, quindi, una struttura narrativa. Inoltre, tale narrazione non può
prescindere, come invece accade all’immagine individualistica dell’uomo come io puntiforme,
dall’interazione con gli altri: la storia di una persona e/o di una comunità è sempre intrecciata con le
storie di altre persone e/o di altre comunità, difatti «noi conseguiamo l’identità in mezzo ad altri io
[,,,] Il mio scoprire la mia identità non significa che io la elaboro in completo isolamento, ma che la
negozio attraverso il dialogo – in parte aperto, in parte interiorizzato – con gli altri»228, quegli altri
già definiti da George Herbert Mead come “altri significativi”. Ed ancora, la questione dell’identità
non va affrontata con una metodologia neutrale, tipica della scienza, ma attraverso una prospettiva
antropocentrica: non esiste un’antropologia distaccata dalle persone, si cadrebbe altrimenti
226
Cfr. A. Honneth, L’antropologia filosofica di Charles Taylor, in «Fenomenologia e società», n. 1-2, 1996.
C. Taylor, Radici dell’io, cit., pp. 109 e 115. Tali osservazioni, che hanno ovviamente nel movimento di riabilitazione della filosofia pratica il loro
principale bersaglio polemico, sono volte ad affermare la supremazia della teoria sulla prassi, ma personalmente ritengo che qualsiasi ragionamento
che volesse attestare il primato dell’una o dell’altra, dovrebbe confrontarsi con la posizione dell’ultimo Max Scheler a proposito della parità (pur nella
differenza) del Geist con il Drang: «Lo spirito e l’impulso, i due attributi dell’Essere, non sono completi in sé senza una mutua progressiva
penetrazione, nella quale è inscritto il loro fine», M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1999, p. 190.
228
C. Taylor, Radici dell’io, cit., p. 72 e Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 56; per la nozione di “altri significativi” cfr. G. H.
Mead, Mente, sé e società, Barbera, Firenze 1966. Qui, però, sembra insorgere una zona d’ombra in Taylor: se l’identità è narrazione, e le narrazioni
si intersecano fra loro, come si stabiliscono i limiti, i confini che determinano l’identità, la purezza di una narrazione, nelle sue interazioni con le
altre?
227
72
nell’errore di quanti pensano che «noi abbiamo un io nello stesso senso in cui abbiamo un cuore e
un fegato – ossia che ciò rappresenti un dato di fatto che sfugge all’interpretazione»229. Infine, i beni
morali oltre a dover essere teorizzati, vanno espressi, esplicitati, l’implicito deve avere una sua
articolazione (e ciò viene fatalmente ostacolato dall’attuale declino del logos).
A questo punto, è interessante notare come Taylor trovi una conferma delle proprie analisi
sociali nella filosofia di Hegel, nella hegeliana visione di una conciliazione dialettica fra soggetto e
oggetto, che non annulli le differenze fra i due, ma anzi manifesti l’identità dell’uno in relazione a
quella dell’altro. Tale prospettiva rafforza, in Taylor, l’idea che l’uomo non sia un “animale con in
più la ragione”, bensì una totalità in cui coscienza e naturalità si compenetrano, plasmandosi
vicendevolmente. Ma in Hegel la tensione alla conciliazione ha anche un risvolto sociale, quello
dello Stato nazionale. Esso rappresenta infatti la conciliazione dello Spirito con la realtà e, quindi,
l’attestazione che la storia acquista un senso solo quando è inserita in un orizzonte più ampio
(quello che Hegel chiama “Assoluto” e Taylor “quadro di riferimento”). Per questo il pensatore
canadese rifiuta qualsiasi concezione etica che desuma i propri principi unicamente dalla volontà
razionale del singolo, per questo Taylor rifiuta il concetto kantiano, emergente dalla Critica della
ragion pratica, di Moralität; quest’ultima infatti designa l’emancipazione dell’uomo dal contesto in
cui si trova e la fede in una volontà individuale decontestualizzata, come unico mezzo per
determinare il contenuto del dovere: «Il soggetto morale è dunque autonomo in un senso radicale.
Segue soltanto i dettami della sua propria volontà»230. Ora, proprio il trionfo della Moralität nella
modernità, produce individui che trovano unicamente nella propria razionalità, e quindi non in uno
specifico contesto di comune appartenenza, la fonte della propria identità e che, conseguentemente,
possono definire i criteri della propria convivenza con gli altri, solo in termini utilitaristici e/o
contrattualistici. In alternativa a ciò, Taylor propone il recupero del concetto hegeliano di
Sittlichkeit, rappresentante l’unione di dover essere e essere, del Sollen e del Sein, del soggetto con
un più alto ordine morale. Pertanto, solo
la dottrina che pone la Sittlichkeit al vertice della vita morale esige che si guardi alla società come a una vita
sociale più ricca […] della quale l’uomo partecipa in quanto componente […] questo concetto di società eleva il centro
di gravità, per così dire, dall’individuo alla comunità, la quale diventa il luogo della soggettività vivente, che gli
individui, come momenti, punteggiano […] La Sittlichkeit è l’espressione di quella dimensione dei nostri doveri che
siamo chiamati a sostenere e a continuare231
Le pòleis rappresentano, per Taylor, il massimo esempio di compenetrazione fra lo spirito di
una società ed i cittadini che la compongono, situazione ideale resa possibile dal riconoscimento
senza fratture di questi ultimi nella società, frattura che invece interviene con la morte di Socrate: la
sua condanna è stata emessa dalla comunità ateniese, ma non rispecchia il comune sentire degli
ateniesi. In quell’istante si è prodotta la scissione del soggetto dalla comunità, scissione che, oggi,
sfocia nell’individualismo, minacciando di dissolvere l’hegeliano Volkgeist232. Ora, sebbene Taylor
non veda, come Hegel, nei Volkgeister l’incarnazione di un presunto spirito sociale
sopraindividuale, bensì delle culture storiche, anch’egli giudica disastrosa una loro eventuale
sparizione. Infatti per Taylor, la realizzazione, a qualsiasi livello, dell’essere umano, non è mai un
processo che possa prescindere dalla situazione storica in cui si svolge, ovvero, non è possibile
229
C. Taylor, Radici dell’io, cit., p. 144.
C. Taylor, Hegel e la società moderna, il Mulino, Bologna 1984, p. 112.
231
Ibidem, pp. 124 e 177.
232
Come in tutta la sua opera, anche qui Taylor dà per scontata l’esistenza di un’identità singolare e collettiva “pura” che si confronta con altre
identità singolari e collettive “pure”, e che gli uomini non devono far altro che riscoprire; ma quali sono i criteri di definizione di tali identità? Essi
non sembrano poter essere altro che convenzionali, sicché l’uomo non (ri)scopre la sua identità, ma la costruisce.
230
73
specificare alcun contenuto per la nostra azione al di fuori di una situazione che ci fissi degli scopi, che dia
quindi forma alla razionalità e fornisca un’ispirazione alla creatività233
Ecco perché, per Taylor, i fondamentali disagi della modernità consistono
nell’individualismo, nel primato della ragione strumentale e nella perdita (quasi inconsapevole)
della libertà. L’individualismo è infatti una conseguenza della perdita di ampi orizzonti morali in
grado di dotare di senso l’esistenza fornendo prospettive di tipo religioso, politico o storico, la cui
scomparsa provoca un “disincantamento” del mondo che porta l’individuo ad incentrarsi sul suo
proprio io, che risulta così essere dotato di posizioni morali non fondate su ragionamenti, ma
adottate semplicemente perché attraenti. Ma l’individualismo stesso è al contempo anche la causa
della perdita di un complessivo significato esistenziale, la scomparsa del quale rende l’uomo una
sorta di materia prima utilizzabile strumentalmente per il raggiungimento di determinati standards
di efficienza: le persone vengono costrette ad accettare le esigenze della razionalità moderna, e
coloro che rifiutano tale accettazione sembrano non avere nessun’altra alternativa che una sorta di
auto-marginalizzazione sociale; tuttavia, per Taylor la filosofia può contribuire ad elaborare una
nuova maniera d’intendere la ragione strumentale e la tecnologia, inserendole in una prospettiva
alternativa a quella del dominio, ovvero in
un’etica della benevolenza pratica […] Ma questa benevolenza va a sua volta situata entro la cornice di una
giusta comprensione dell’agente umano, e non messa in relazione con lo spettro di una ragione disincarnata che abita
una macchina oggettificata […] La tecnologia al servizio di un’etica della benevolenza rivolta a persone reali, in carne e
ossa234
Un diffuso disinteresse nei confronti dell’autogoverno, disinteresse originante il pericolo di
uno slittamento della democrazia in una “sorveglianza duttile”, forma di potere già da Tocqueville
descritta come «dispotismo morbido […] potere immenso e tutelare»235, risulta essere l’inevitabile
conseguenza politica per l’individuo chiuso in se stesso ed oppresso dalla razionalità calcolante ed
efficientista, ovvero, per una popolazione sempre meno capace di darsi una finalità comune e di
realizzarla, in una società afflitta da
una grande crescita dei contatti impersonali e casuali, che sostituiscono le più intense relazioni faccia a faccia
dei tempi passati. Tutto questo non può non generare una cultura in cui la mentalità dell’atomismo sociale mette radici
sempre più profonde236
Per superare simili problematiche, riemerge con forza la necessità di avvalersi di un
determinato orizzonte di riferimento all’interno del quale le persone possano confrontare,
dialogicamente, le proprie identità, esprimibili sottoforma di narrazioni, storie. In sintesi,
l’importanza dell’appartenenza ad una data comunità viene, da Taylor, così motivata:
Se l’autenticità significa essere fedeli a noi stessi, ricuperare il nostro peculiare «sentiment de l’existence»,
allora forse possiamo realizzarla compiutamente soltanto se riconosciamo che questo sentimento ci congiunge a una
totalità più ampia237
Proprio per definire i tratti specifici di questa totalità più ampia, MacIntyre si propone di
descrivere l’unitaria configurazione teorico-pratica delle tradizioni, applicando ad esse il concetto di
233
C. Taylor, Hegel e la società moderna, cit., p.p. 219-220.
C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma–Bari 1994, p. 124; per Taylor, in M. Heidegger, La questione della tecnica (in Saggi e
discorsi, Mursia, Milano 1985), è presenea la ricerca di una simile delimitazione alternativa della tecnica che, a mio parere, è pure presente nella
concezione gehleniana dell’ascesi e degli ideali ascetici, cfr. A Gehlen, Esperienza ed ethos, in L’uomo nell’era della tecnica, cit. e L’alternativa
dell’ascesi, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990.
235
A. de Tocqueville, La democrazia in America, cit., p. 812.
236
C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., p. 69.
237
Ibidem, p. 107.
234
74
“crisi epistemologica”, elaborato da Thomas S. Kuhn per interpretare la storia delle rivoluzioni
scientifiche238. Per MacIntyre, una crisi epistemologica non si esaurisce nel suo aspetto scientifico
che, anzi, ne rappresenta solo una sfaccettatura, ma rispecchia un complessivo cambiamento
valoriale, all’interno di una certa tradizione morale, mutamento che, in prima istanza, viene sempre
colto e descritto nelle opere letterarie, anziché dalla saggistica scientifica, per la loro aderenza
all’esperienza vissuta. Ecco perché
La risposta (ad una crisi epistemologica), invece di essere cercata nella storia della scienza (crisi di vecchi
paradigmi, conflitto tra nuovi e vecchi), viene cercata da MacIntyre nella vita quotidiana e negli esempi tratti da opere
drammatiche e narrative e non da opere filosofiche239
L’approdo cui MacIntyre giunge con una simile analisi, è che una crisi epistemologica in
una tradizione etica si dà quando non vi è più corrispondenza tra il “sembrare” e l’“essere”, ossia,
quando tutto ciò che è normale, improvvisamente non lo è più. A conferma di ciò, egli nota come
nella modernità occidentale, la crisi epistemologica fondamentale, sia quella che ha segnato il
passaggio dal paradigma illuministico a quello individualistico, del quale, per il pensatore scozzese,
Nietzsche è il maggiore interprete. Ora, l’importanza di una simile interpretazione delle crisi
epistemologiche risiede nel fatto che, per tale via, l’individuo acquisisce la sua identità all’interno di
un determinato paradigma epistemologico. Da questa prospettiva, MacIntyre individua
nell’illuminismo e nell’individualismo la “colpa” di avere trascurato come un’esistenza sia narrabile
solo se inserita all’interno di una certa tradizione, infatti, per il nostro autore, ogni uomo può e deve
affermare:
Sono nato con un passato; e tentare di tagliarmi fuori da questo passato alla maniera individualistica vuol dire
deformare i miei rapporti attuali. Il possesso di un’identità storica e il possesso di un’identità sociale coincidono […]
Che lo riconosciamo o no, noi siamo il prodotto del passato, e non possiamo estirpare da noi stessi […] quelle parti di
noi che sono costituite dalla nostra relazione con ciascuna fase formativa della nostra storia240
Come si è notato, da tale prospettiva viene criticato sia l’illuminismo, per il quale esiste un
concetto universale di ragione, indipendente dalle tradizioni241, sia l’individualismo, che postula
l’esistenza di “soggetti senza passato”. Per superare simili problematiche, il filosofo scozzese,
propone di recuperare la nozione aristotelica di phrònesis, intendendola come una forma di
razionalità, diversa da quella scientifica, che non si basa su rigorose dimostrazioni, ma su
prescrizioni comportamentali derivanti da giudizi di valore che, ovviamente, attengono ai modelli
morali della tradizione di cui si fa parte, e che originano determinati costumi e istituzioni. In una
simile visione la phrònesis si configura come capacità “opinativa” della ragione, come una saggezza
che
non è riservata in alcun modo ai filosofi, nemmeno a quelli che esercitano la filosofia pratica, ma è alla portata
di tutti gli uomini saggi, che sanno governare bene se stessi, la propria casa o la propria città242
E la “scienza politica”, in quest’ottica neoaristotelica e quindi vicina all’ermeneutica
gadameriana, si delinea come l’applicazione della phrònesis stessa agli scopi pratici. Questa teoria
238
Cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969. Su MacIntyre cfr. S. Mendus, After MacIntyre, Polity, Cambridge
1994, e C. Rapposelli, Tradizioni e razionalità, la narrativa genealogica di Alasadair MacIntyre, Aracne, Roma 2005.
239
F. Restaino, Filosofia e post-filosofia in America, FrancoAngeli, Milano 1990, p. 192, prima parentesi mia.
240
A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 264 e 158, cfr. anche S. D. Carden, Virtue ethics: Dewey and MacIntyre, Continuum,
London-New York 2006.
241
Le critiche comunitariste all’illuminismo si basano su una visione “totalitaristica” dello stesso, che è invece assente nelle sue originarie
teorizzazioni, cfr. I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit.
242
E. Berti, La filosofia pratica di Aristotele nell’odierna cultura anglo-americana, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n. 145, 1992, p.
38.
75
della ragione come opinione conduce inevitabilmente (ed è questo che preme particolarmente a
MacIntyre) ad affermare che non esiste la tradizione ma le tradizioni, per ciascuna delle quali è
costantemente possibile (come si è già visto) una variazione nella propria struttura epistemologica, e
ciascuna delle quali rappresenta il termine di confronto delle scelte morali dei soggetti che la
compongono. Per questo MacIntyre rifiuta le etiche esclusivamente normative che, basandosi
sull’immagine di un individuo ontologicamente solo, formulano regole impersonali, formali ed
universali; al contrario è necessario
richiamare l’attenzione sul carattere del soggetto agente non solo come un fattore in più di cui tenere conto
nella situazione, ma come quello che definisce la situazione stessa; l’etica dovrebbe essere elaborata secondo il punto di
vista del soggetto agente, il cui carattere è decisivo e principale per la situazione243
In altre parole, per superare il confine di un’etica puramente formale, impersonale e
minimale (come è, ad esempio, quella di Nozick), essa deve essere strutturata non in terza, ma in
prima persona. Nella modernità, al contrario, si è affermata un’etica deontologica in terza persona:
Un’etica simile si caratterizza per la produzione di regole impersonali e giuridiche, che non tengono in alcun
conto le motivazioni più profonde e originarie dell’uomo244
Un’etica, quindi, non fatta per le persone ma per i “personaggi”, ovvero per quei gehleniani
titolari di funzioni che ricoprono determinate mansioni sociali, e nei quali ciascuna persona è
chiamata a riconoscersi, riducendovisi: l’identità del soggetto moderno è data da «quei personaggi
che ricoprono e rappresentano i ruoli sociali predominanti»245. Si impone quindi, per MacIntyre,
l’esigenza di separare l’etica delle virtù (presenti in ogni tradizione) da qualsiasi concezione
metafisica dell’essere; tuttavia egli non si preoccupa di salvaguardare la pluralità delle tradizioni
affermando, anzi, che quando una di esse risulta essere superiore ad un’altra, dimostrandone la
pochezza dei fondamenti, la assorbe, assimilandola.
Ora, quest’ultima idea conduce ad una possibile transizione dalle storie (tradizioni) degli
uomini alla storia dell’uomo, ma anche all’interno di un’unica storia dell’uomo non sarebbero
presenti le storie di comunità ed individui? Ancora una volta, i confini identitari del concetto di
storia (e quindi di tradizione e di comunità) appaiono tracciabili solo convenzionalmente. Infatti,
l’identità di una comunità (ma anche quella di una persona) si costituisce tramite l’aggregazione di
più elementi, ma come decidere quanti e quali fattori sia necessario e sufficiente aggregare perché si
dia una comunità, se non convenzionalmente? Per di più, i comunitaristi sembrano trascurare il fatto
che tali fattori non derivano esclusivamente dal passato (prossimo o remoto che sia), ma anche
dall’impatto sociale prodotto nel presente, o forse di presente in presente, dall’avvento di tutte le
possibili modificazioni delle condizioni (immanenti, concrete e trascendenti, spirituali) di esistenza.
Insomma, ciò che vorrei sostenere è che l’interazione cui sempre, ma soprattutto oggi nell’era della
globalizzazione, assistiamo, non sia quella fra comunità (definibili e definite solo
convenzionalmente) ma quella fra elementi di diversa natura (culturali, storici, geografici,
economici, fisici…), alcuni provenienti dal passato (più o meno arcaico), alcuni derivanti dalle
peculiarità del presente: i fattori che provengono “orizzontalmente” dal passato e che si intersecano
fra loro, vengono a loro volta intersecati “verticalmente” dai nuovi fattori del presente; fra tutti
questi, ogni uomo definisce la sua identità prendendo posizione su quegli elementi con i quali riesce
243
G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, LAS, Roma 1995, p. 95.
M. Matteini, MacIntyre e la rifondazione dell’etica, Città Nuova, Roma 1995, p. 77; cfr. anche G. Maddalena, La lotta delle tradizioni, L’arciere,
Dronero 2000.
245
A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 50.
244
76
ad entrare in contatto, partendo, perciò, da quelli a lui più prossimi che però, non per questo, è detto
che debbano essere gli unici:
Nella nostra vita siamo tutti individualmente coinvolti in identità di varia natura, in contesti disparati […] Una
persona può considerarsi italiana, donna, agnostica, medico e così via […] Ognuna di queste collettività – e la persona
in questione appartiene a tutte – le fornisce una particolare identità, di diversa importanza a seconda del contesto, che,
quando implica atteggiamenti differenti, entra in competizione con le altre per l’attenzione e la fedeltà della persona.
Non è possibile attribuire all’individuo l’appartenenza esclusiva – o prevalente, a seconda dei casi – a un unico gruppo.
Ognuna di queste categorie può essere di importanza cruciale in particolari contesti. Nella determinazione del peso
relativo di queste identità e nella definizione di un ordine di priorità che, a sua volta, può variare con le circostanze, è
fondamentale il ruolo della riflessione246
In altri termini, l’identità è una sorta di mosaico rispetto al quale non si può fare altro che
Continuare ad incastrare insieme i pezzi […] Ma incastrarli insieme una volta per tutte,
trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco d’incastro? No, grazie, questo è
qualcosa di cui si fa volentieri a meno247.
Dunque, la persona, ben lungi dall’essere un soggetto individuale indivisibile, come il
termine in-dividuo vorrebbe, può essere considerata come un insieme di elementi diversi, nessuno
dei quali determinante per l’identificazione dell’identità, ma ciascuno contribuente alla costituzione
della stessa. Pertanto, asserire che l’identità personale dipende da ragioni comunitarie significa
ridurre l’identità stessa ad uno solo degli elementi che la costituiscono (nel caso specifico,
l’appartenenza ad una data comunità), scelto arbitrariamente, in base a priorità soggettive248. Ora,
benché la scelta di tali priorità sia un’ineludibile esigenza esistenziale, è importante che essa sia
consapevole, affinché ciascuna persona sappia di essere una somma di diversi elementi, ordinati
“gerarchicamente”, e non l’espressione di un solo fattore. Pertanto, l’appartenenza ad una comunità,
la cui stessa identità (definibile, come si è visto, solo convenzionalmente) è oggi più che mai in
costante mutamento, è soltanto uno degli elementi che concorrono alla definizione dell’identità
personale: comunitarismo e personalismo non debbono essere sovrapposti.
3.5 Le nuove (co)responsabilità del soggetto morale: Naturphilosophie ed
“euristica della paura”
Le tematizzazioni che si sono seguite sino ad ora, sono accomunate, pur nelle loro
irriducibili differenze, dal ritenere che i valori morali e le norme politiche debbano derivare o
dall’autonomia decisionale del soggetto o dalle tradizioni delle comunità; esiste, tuttavia,
un’ulteriore prospettiva filosofica per la quale i principi etici rappresentano una sorta di ordine
oggettivo stabilito dalla natura delle cose, che l’uomo non deve fare altro che comprendere ed
assecondare. Il bene morale si pone, così, come mantenimento dell’ordine naturale, pertanto, in tale
prospettiva viene rifiutata la visione dell’etica come un grande criterio regolatore all’interno di un
quadro neutro e/o relativistico, e viene (ri)assunta l’idea dell’etica come discorso intorno al bene e
246
A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 47 e 53-54, secondo corsivo mio; ed ancora: «L’identità personale (e collettiva) […] è capace di
divisioni e prospera con esse […] io acquisto un’identità più complessa di quella che l’idea di tribalismo (comunitarismo) suggerisce. Mi identifico
con più di una tribù: sono americano, ebreo, abitante della East Coast, intellettuale, professore. Immagino una simile moltiplicazione di identità nel
mondo», M. Walzer, La rinascita della tribù, in «Micromega», n. 5, 1991, p. 110, parentesi mie; cfr. anche F. Garritano, Aporie comunitarie, Jaca
Book, Milano 1999.
247
Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 63.
248
Inoltre, sostenendo che «l’identità fornita all’individuo dalla comunità sia quella principale o dominante (forse persino l’unica significativa) […]
(si può) incoraggiare un atteggiamento di indifferenza verso quegli “altri” che non condividono la nostra peculiare identità», A. Sen, Globalizzazione
e libertà, cit., pp. 57-58, seconda parentesi mia; cfr. anche, dello stesso autore, Other people, in «The New Republic», 18/12/00.
77
al male; ritorna, così, il primato del bene sul giusto249. Ma ciò non significa che la teoria morale
debba essere scissa dall’agire materiale, anzi, proprio lo scarto tra il pensiero e la realtà produce,
puntualmente, le più grandi tragedie, come osserva Adorno, a proposito del nazi-fascismo:
La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato in pezzi la base dell’unificabilità
del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza250
Ora, volere unificare oggi la sfera riflessiva con quella esperienziale significa,
inevitabilmente, affrontare le questioni relative alle nuove potenzialità ed ai nuovi orizzonti
scientifico-tecnologici, infatti
il controllo biologico dell’essere umano, particolarmente il controllo genetico, suscita delle questioni etiche di
un genere completamente nuovo a cui nessun pensiero e pratica anteriori ci avevano preparati. Infatti, è in gioco qui
nientemeno che la natura stessa e l’immagine dell’uomo251
In una simile prospettiva, l’etica rappresenta lo spazio nel quale l’uomo è chiamato a meditare su se stesso, in
un orizzonte di senso che, se vuole uscire dai limiti del soggettivismo e del relativismo, deve essere, come ha fatto
notare Jonas, naturalistico252.
Sono queste le premesse di quella nuova prospettiva etica, inaugurata dallo stesso Jonas,
denominata come “etica della responsabilità”253; essa muove alla ricerca di una fondazione
razionale dell’etica, in un orizzonte di pensiero metafisico-religioso, ma teso al superamento della
metafisica “pura”, in direzione delle forme storiche del pensiero metafisico. Questo paradigma etico
nasce come risposta critica verso la totale oggetivizzazione del mondo e la totale soggettivizzazione
dell’azione umana, rappresentate, per Jonas, dal “disincanto del mondo” e dall’esistenzialismo, la
prima, e dalla filosofia nietzscheana e heideggeriana, la seconda; tutti questi movimenti di pensiero
producono infatti, per Jonas, esiti nichilistici (sostanzialmente, la riduzione del mondo a cosa e la
deresponsabilizzazione del soggetto di fronte ai suoi simili, problematiche, queste, sempre derivanti
da una frattura “ontologico-esistenziale”, sia essa quella fra l’uomo e il mondo, fra il soggetto e
l’oggetto o fra lo sviluppo tecnico e quello morale), che Jonas evidenzia, richiamandosi a Weber:
quel che Max Weber descrive come “etica dell’intenzione”, contrapponendola in politica all’“etica della
responsabilità”, è soltanto quell’assolutezza nell’abbracciare una causa intesa in modo incondizionato, incurante di tutte
le conseguenze all’infuori del successo possibile, per il cui conseguimento essa non considera troppo elevato nessun
prezzo (che dovrà essere pagato dalla collettività), ritenendo degno di un tentativo persino il rischio del fallimento con
relativo sfacelo totale. Per contro il “politico della responsabilità” pondera le conseguenze, i costi e le chances, senza
mai dire a proposito di nessuno scopo: “pereat mundus, fiat iustitia” (o qualunque altra cosa sia il bene assoluto)254
L’etica della responsabilità è, quindi, antindividualistica e, pertanto, non kantiana:
«L’imperativo categorico kantiano era diretto all’individuo»255. Per Jonas infatti, quando il filosofo
249
Cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 2001, e P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, Milella, Lecce 1995, A. Prieri,
Hans Jonas, Atheneum, Firenze 1998, L. Alici, Hans Jonas: il male come irresponsabilità del potere, in R. Gatti (cura), Il male politico, cit., e P.
Nepi, Individui e persona, Studium, Roma 2000, quest’ultimo anche su Taylor e MacIntyre. In una simile prospettiva è insito il percorso inverso
rispetto a quello che, nella modernità, porta dalla morale universale alle etiche applicate.
250
T. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 326.
251
H. Jonas, L’ingegneria biologica: una previsione, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 221.
252
Cfr. H.Jonas, Tra il nulla e l’eternità, Gallio, Ferrara 1992.
253
Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., dello stesso Jonas, L’etica della responsabilità, in «Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche», Rai Educational, non datato, e, per un quadro d’insieme, M. A. Foddai, Agire eticamente: Jonas e le nuove responsabilità, Moderna,
Sassari 2005.
254
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 169, nota 5. Cfr. anche M. Gauchet, Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992; Jonas, rifacendosi
a Weber (cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1973), definisce della “responsabilità” (Verantwortung) quell’etica
che, non procedendo ideologicamente, si distingue da quella della “convinzione” (Gesinnung).
255
Ibidem, p. 17; tuttavia, si deve ricordare come in Kant la problematica dell’individualismo trovi il suo superamento nella nozione di regno dei fini:
«Kant, per giungere all’etica, doveva compensare la mancanza di intersoggettività trascendentale con un ricorso ad hoc alla nozione metafisica di
“Reich der Zwecke” (regno dei fini), cioè di una comunità ideale di esseri ragionevoli», K. O. Apel, La crisi ecologica come problema per l’etica del
discorso, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 189, parentesi mia, cfr. anche C. Bonaldi (cura), Hans Jonas, Albo Versorio, Milano 2004.
78
di Königsberg ha tentato di dare all’azione dell’uomo un fondamento razionale, ha formulato un
imperativo contrassegnato dal limite dell’individualismo, al contrario, solo oltrepassando tale limite
e pensando l’uomo non come individuo ma come membro di un genere, si può fondare una società
responsabile. Responsabilità, oggi più che nel mondo pre-moderno, urgente da fondare e da
praticare poiché nella modernità l’azione dell’uomo nel e sul mondo acquista determinate
caratteristiche come: l’estensione indefinita nel tempo e nello spazio, la capacità di modificare la
natura, l’irreversibilità di particolari processi. Se, da un lato, tutto ciò aumenta la capacità d’azione
dell’homo faber, dall’altro ne diminuisce la responsabilità, a causa dell’estensione, prodotta dalla
scienza e dalla tecnica, dello scarto spazio-temporale esistente tra un’azione ed i suoi effetti,
insomma, l’accrescimento
della portata d’efficienza delle azioni dell’homo faber illustra la sfida che l’istituzione di un’etica
dell’interazione umana rappresenta per la capacità razionale ed immaginativa dell’homo sapiens256.
Per Jonas, l’accrescimento quantitativo del potere umano implica un mutamento qualitativo
dello stesso. Per focalizzare tale questione, lo stesso pensatore tedesco trae ispirazione dall’antico
ammonimento sulla natura del potere umano, contenuto nel coro dell’Antigone di Sofocle (“molte
ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo”), descrivente le
potenzialità distruttive insite nella stessa costituzione ontologica dell’uomo e che sembrano essersi
compiutamente incarnate nelle inquietanti potenzialità acquisite dall’uomo con la tecnica257.
Secondo una nota metafora che, non casualmente, si diffonde durante la rivoluzione
scientifica, i moderni sono descritti come nani e gli antichi come giganti, ma i primi, nonostante la
loro limitata statura, riescono a vedere più lontano dei secondi, salendo sulle loro spalle258. Ma se al
“nanismo conoscitivo” si può porre tale rimedio, al “nanismo etico” non vi è soluzione, ecco
perché, l’uomo di oggi può compensare le proprie carenze nozionistiche, incrementando così il
potere del proprio agire, ma non le proprie mancanze in termini di consapevolezza e responsabilità:
La terra vergine della prassi collettiva, in cui ci siamo addentrati con l’alta tecnologia, è per la teoria etica
ancora terra di nessuno […] tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo
di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi259
Esiste però per l’uomo la possibilità di recuperare quel sapere intorno agli scopi: la
riflessione filosofica. Il pensiero rappresenta, infatti, un’insostituibile ed essenziale fonte per lo
sviluppo critico del sapere (metafisica) e dell’agire (etica), al punto tale che, per Jonas, anche il
nazismo, come qualsiasi altro male socio-politico umano, si spiega con il declino della filosofia, sia
nel suo versante metafisico che in quello etico:
fin dai tempi antichi, molto più di ogni altra forma del sapere, la filosofia ha coltivato l’idea di non essere solo
al servizio del sapere, ma di educare il comportamento di coloro che le sono devoti, e cioè in direzione del bene verso
cui necessariamente tende il sapere […] L’immagine di Socrate che ha illuminato fin dai suoi inizi il cammino della
filosofia non permette che si estingua la fede in questa nobile forza. Sicché l’adesione del più profondo pensatore del
XX secolo (Heidegger) alla marcia fragorosa dei battaglioni delle camice brune non rappresenta solo un’amara
delusione personale ma, ai miei occhi, altresì un’autentica catastrofe della filosofia: quest’ultima, non solo un uomo,
aveva rinunciato a se stessa260
256
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 161.
Come è noto, anche Heidegger, uno dei primi maestri di Jonas, passa attraverso l’Antigone di Sofocle, in M. Heidegger, Introduzione alla
metafisica (Mursia, Milano 1990), cfr. M. T. Pansera, L’uomo e i sentieri della tecnica, Armando, Roma 1998, e S. Mancini, Per un’interpretazione
fenomenologica di Jonas, in «Rivista di Filosofia neo-scolastica», n. 1, 1993.
258
Cfr. R. K. Merton, Sulle spalle dei giganti, il Mulino, Bologna 1991; sull’interpretazione jonasiana della rivoluzione scientifica cfr. H. Jonas, Dopo
il XVII secolo: il significato della rivoluzione scientifica e tecnologica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit.
259
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., pp. XXVII e 31.
260
H. Jonas, La filosofia alle soglie del Duemila, il melangolo, Genova 1994, pp. 40-41, parentesi mia. La delusione di Jonas per l’adesione di
Heidegger al nazionalsocialismo, non gli impedisce, però, di ricordare con ammirazione il suo maestro: «ancor prima di comprenderlo, si era in suo
257
79
Pertanto, per non cadere né in una forma di sapienza astratta, completamente scissa dalla
realtà, né in un agire miope, incapace di vedere oltre se stesso, non è sufficiente ristabilire
l’importanza della metafisica e dell’etica, esse devono anche essere (ri)messe in relazione. E’
questo lo scopo che si prefigge l’etica della responsabilità: ristabilire l’insostituibile ruolo della
filosofia nella società, come pensiero metafisico in grado di orientare l’agire umano, collocandolo
in un orizzonte di senso. Ora, per evitare qualsiasi forma di dualismo che limiterebbe lo studio
dell’interiorità alle discipline umanistiche e quello dell’oggettività alle scienze esatte, lacerando così
l’immagine dell’uomo, quel suddetto orizzonte di senso deve essere in grado di (ri)conciliare
nell’uomo lo spirito con il corpo. La Naturphilosophie, l’indagine sull’essere della natura, è, per
Jonas, l’unica prospettiva che possa conciliare nell’uomo, la componente spirituale, coscienziale,
con quella corporea, organica. Nasce così, una sorta di “ontologia dell’essere corporeo” che, a
partire dalla considerazione che l’uomo non è né solamente un essere spirituale, né solamente un
corpo materiale, rifiuta qualsiasi forma di dualismo e/o di esaltazione dell’una o dell’altra
componente umana (come accade, ad esempio, nello spiritualismo e nel materialismo), concependo
l’essere umano come un tutto unitario, non però perché egli sia composto da un unico fattore, bensì
in quanto i due elementi (spirito e corpo) che lo compongono si fondono (in maniera indissolubile)
generando una creatura che rappresenta qualcosa di più, rispetto alla mera somma delle sue parti261.
Ecco perché, essendo l’etica della responsabilità pensata per un soggetto organico dotato anche dei
caratteri dell’interiorità, la sua elaborazione implica il gesto
di superare fra l’altro il dualismo, che già da tempo mi era familiare nel suo errore e nella sua seduzione.
L’interpretazione ontologica dell’organismo doveva offrire la correzione e nello stesso tempo un contributo alla dottrina
universale dell’essere. Nella ricomposizione in unità essenziale di “interno” ed “esterno”, di soggettività e oggettività,
di io spontaneo e di entità determinata da una causa, quale appare nell’essere organico, si colmava per me l’abisso fra
materia e spirito e si superava l’ipoteca legata all’eredità cartesiana che aveva spinto il pensiero moderno all’aut aut di
materialismo da un lato e idealismo dall’altro, ambedue in se stessi frammentari, e confutata dall’evidenza
dell’organismo262
Ma per costruire un’etica adeguata alle esigenze del soggetto contemporaneo, non è
sufficiente avere una determinata immagine dell’uomo, è anche necessario chiarire quali siano le
circostanze storiche nelle quali egli si muove. La collaborazione, tipica della modernità, fra la
scienza e la tecnica ha profondamente mutato il rapporto fra il sapere teorico e quello pratico.
Per quanto riguarda il sapere è evidente che la veneranda divisione di “teoria” e “prassi” è scomparsa per
entrambe le parti. Per quanto intatta possa continuare a sussistere la sete di conoscenza pura, la compenetrazione tra
sapere sulle vette e fare nella pianura della vita è divenuta indissolubile e l’aristocratica autosufficienza della ricerca
della verità fine a se stessa non esiste più263
Nella modernità, quindi, viene meno la distinzione fra il conoscere e l’agire: sapere e potere
coincidono. Inoltre
potere […] Qualcosa si svolgeva dinanzi a noi, qualcosa era in atto lì e si era tentati di dire: “è il pensiero che pensa in lui” […] il filosofo, mentre
insegna, fa nello stesso tempo filosofia. Infatti non si studiava “filosofia” semplicemente come materia, ma si andava appunto da Husserl, Heidegger,
Hartmann, Jaspers», H. Jonas, Scienza come esperienza personale, Morcellania, Brescia 1992, pp. 17-18 e 16, cfr. anche, dello stesso autore,
Heidegger e la teologia, Medusa, Milano 2004; sul confronto fra Heidegger ed una altro suo importante allievo, la Arendt, cfr. S. Maletta, Hannah
Arendt e Martin Heidegger, Jaca Book, Milano 2001.
261
Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, Einaudi, Torino 1999, su ciò cfr. N. Russo, La biologia filosofica di Hans Jonas, Guida, Napoli 2004. Tali
osservazioni avvicinano Jonas alla riflessione dell’ultimo Scheler su Geist e Drang (cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit.), ed a
quelle di Helmuth Plessner su Körper e Leib (cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2006).
262
H. Jonas, Scienza come esperienza personale, cit., p. 27; sempre di Jonas cfr. anche Tra il nulla e l’eternità, cit.
263
H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, cit., p. 18; sullo stesso argomento cfr. anche M. Monaldi, Tecnica, vita, responsabilità: qualche riflessione su
Hans Jonas, Guida, Napoli 2000.
80
Prima sia il sapere, sia il potere erano troppo limitati perché si includesse nelle previsioni anche il futuro più
lontano e nella coscienza della propria causalità tutta la terra. Solo la tecnica moderna con la ricchezza senza confronti
delle sue imprese apre questi orizzonti nello spazio e nel tempo264
Da tali premesse ne consegue che un’etica per la moderna società tecnologica debba fare i
conti con la mutata natura del sapere/potere dell’uomo nel mondo: l’uomo d’oggi abbisogna di
un’etica “cosmica”, che coinvolga tutto il genere umano e che sia proiettata verso il suo futuro.
Pertanto, l’etica odierna deve uscire da una prospettiva meramente antropocentrica, e prendere in
considerazione le conseguenze (nello spazio e nel tempo, per i viventi e per la Terra) insite nel
sapere/potere tecnoscientifico:
ora l’intera biosfera del pianeta, con tutta la ricchezza delle sue specie e la sua vulnerabilità – scoperta di
recente – di fronte all’eccessivo intervento dell’uomo, rivendica la sua parte nell’attenzione che spetta a tutto ciò che
porta in sé il suo scopo – cioè a tutto il vivente. Il diritto esclusivo dell’uomo alla considerazione umana e al rispetto
morale è stato spezzato proprio con la conquista di un potere quasi monopolistico su ogni altra forma di vita265
L’“intera biosfera del pianeta” rappresenta quindi l’oggetto di una simile etica, il cui
soggetto è pur sempre l’uomo, con il suo (enormemente accresciuto) carico di responsabilità per le
conseguenze del proprio agire.
In quanto potenza planetaria di prim’ordine egli non può più pensare solo a se stesso. Il precetto di non lasciare
ai nostri discendenti un’eredità devastata esprime questo ampliamento del campo d’azione etico ancora sempre nel
senso di un dovere dell’uomo nei confronti dell’uomo266
Così, l’etica mantiene la sua dimensione umanistica, in un orizzonte però non più
antropocentrico, ma fondato sulla preservazione della vita di tutti i viventi e dell’ambiente che li
ospita. Per tale via, prendendo l’uomo coscienza delle sue responsabilità verso se stesso, gli altri ed
il mondo, acquisisce di pari grado la consapevolezza di essere l’artefice della storia, con tutto ciò
che questo comporta267. Quella di Jonas è, quindi, un’etica su base metafisica268, basata, cioè, sulla
convinzione dell’esistenza ontologica di un “valore assoluto” comprensibile intuitivamente, e sulla
derivazione da esso dell’etica, insomma, sulla relazione “essere-dover essere”. L’intuizione, infatti,
rende comprensibile come
Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-sé, la cui infinita superiorità
rispetto ad ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa269
E tale bene-in-sé è, per Jonas, l’esistenza stessa delle cose, della vita e dell’umanità, poiché
se tutte le cose che esistono valgono in relazione ad un fine, allora
Questa “cascata di fini” (Rombach) può essere fermata soltanto se c’è un fine che può essere considerato come
valore in sé. Questo fine deve essere utile a se stesso. Jonas trova questa utilità per se stesso nella finalità “esistenza”270
Solo dopo avere posto queste fondamenta metafisiche, si può costruire un’etica fondata su
quel “principio responsabilità”, che intuisce il dovere di preservare l’esistenza come la massima
264
Ibidem, p. 32.
Ivi.
266
Ivi.
267
Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il melangolo, Genova 2002.
268
Cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, che evidenzia la differenza tra l’etica metafisicamente fondata di Jonas e la
concezione dell’etica nel movimento di riabilitazione della filosofia pratica. E’ altresì interessante notare come l’etica jonasiana sia fondata sulla
metafisica e non, al contrario, fondante per la metafisica, come avviene, ad esempio, in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001.
269
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 102, corsivo mio.
270
M. Rath, Das Prinzip Verantwortung di Hans Jonas e la psicologizzazione in etica, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 206.
265
81
responsabilità dell’essere umano271. Ora, data la sua fondazione metafisica, questo principio è per
Jonas universalmente valido, e la sua applicazione è oggi particolarmente urgente poiché essendo le
religioni diventate un fatto soggettivo e personale, non rappresentano più delle universali fonti
normative. Spetta allora alla filosofia, in particolar modo alla metafisica, il compito di riempire tale
“vuoto etico”, visto che
la fede è quindi molto bene in grado di fornire il fondamento dell’etica, ma non è disponibile su ordinazione,
per cui non è possibile appellarsi alla fede mancante o discreditata neppure con il fortissimo argomento della necessità.
Per contro la metafisica è stata da sempre una faccenda della ragione e quest’ultima si può incomodare a richiesta272
In questo, la proposta di Jonas si differenzia dal pensiero ambientalista273: la responsabilità
etica verso l’esistenza è metafisicamente fondata. Di qui la duplice critica all’etica non teleologica
del “dovere per il dovere”, rappresentata dall’etica kantiana. Questa infatti è, in primo luogo,
fondata non metafisicamente, ma solo logicamente, sicché
un’azione è da considerarsi immorale quando essa risulta contraddittoria, quando cioè il principio che la ispira
non può essere universalizzato […] Ma – replica Jonas – oggi dobbiamo fare i conti con l’ipotesi, per nulla irrealistica,
che l’umanità cessi di esistere; e tale idea non è affatto contraddittoria: qualcuno potrebbe ritenere opportuno sacrificare
il futuro al presente, ricercare quindi la felicità e la soddisfazione delle generazioni presenti a scapito dell’esistenza di
quelle future. E una simile idea non potrebbe essere confutata, in quanto autocontraddittoria274
In secondo luogo, l’etica kantiana presuppone una condizione di parità fra i membri di una
comunità, ma relativamente alle conseguenze ad ampio spettro e a lungo termine dei moderni
processi tecnologici, tale parità non si realizza nei confronti delle generazioni future, né degli altri
viventi. Inoltre, un’etica ispirata dal principio responsabilità è, per Jonas, più appropriata per la
moderna società tecnologica, non solo in quanto essa supera i suddetti limiti della precedente etica
kantiana, ma anche in quanto riesce a coniugare “programmaticamente” la nozione di paura con
quella di speranza, ponendosi nel mezzo fra le due. Si passerebbe così da un atteggiamento che
contrappone immotivatamente l’ottimismo (speranza) al pessimismo (paura), ad un ragionamento in
cui la paura rappresenta la spinta verso la responsabilità che, a sua volta, legittima la speranza; il
principio responsabilità è quindi connesso ad una “euristica della paura” che, come Hobbes, seppure
in un altro contesto, aveva già tematizzato,
assume come punto di partenza della morale, anziché l’amore verso il summum bonum, il timore di un
summum malum […] La paura […] fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza275
Hobbes è infatti considerato «l’unico filosofo, secondo Jonas, ad avere anticipato (pur
dandone una lettura esclusivamente politica) la propria euristica della paura»276, difatti, «Hobbes la
sapeva più lunga facendo della paura il primum movens della ragione nelle faccende del bene
comune»277. Tuttavia, l’euristica della paura non deve sfociare in forme di catastrofismo
apocalittico, né di perfettismo utopistico278, essa deve invece descrivere una forma di speranza
271
Cfr. C. Foppa, L’essere umano nella filosofia della biologia di Hans Jonas: qualche aspetto, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit.
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 57.
273
Cfr. sul rapporto uomo-natura in Jonas, dello stesso autore, Sull’orlo dell’abisso: conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino
2000, e M. L. Furiosi, Uomo e natura nel pensiero di Hans Jonas, Vita e Pensiero, Milano 2003, e sullo stesso tema ma da diverse prospettive, G.
Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, F. Viola, Dalla natura ai diritti, Laterza, Roma-Bari 1997, e AA. VV., Etiche della
terra, Vita e Pensiero, Milano 1998.
274
A. Da Re, La saggezza possibile, Gregoriana, Roma, 1994, p. 238.
275
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., pp. 36 e 284.
276
H. Achterhuis, La responsabilità fra il timore e l’utopia, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 103, parentesi mia.
277
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 291, nota n. 27.
278
Cfr., come esempi emblematici di tali tendenze, rispettivamente G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, e E. Bloch, Il
principio speranza, Garzanti, Milano 1994, 3 voll.
272
82
responsabile che, lo stesso Jonas, sintetizza in un nuovo imperativo categorico: «agisci in modo che
le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana
sulla terra»279. Ovviamente, tale imperativo, per dare dei frutti, necessita di essere declinato anche
in sede politica, passando dunque dal piano della responsabilità individuale a quello della coresponsabilità politica: così come i genitori si prendono cura dei figli, allo stesso modo lo Stato
deve proteggere i propri cittadini, sostiene Jonas, che a tale proposito propugna la creazione di
un’autorità mondiale e di istituzioni sopranazionali che garantiscano l’umanità dal rischio
distruttivo insito nel potere tecnoscientifico:
Si tratta insomma di stabilire, almeno in via ipotetica, se alla cieca autonomia del mercato e del progresso
tecnico e scientifico, sia preferibile un centro decisionale, dotato di responsabilità per l’intera umanità. E’ questa una
domanda a cui oggi nessuno può realisticamente rispondere280
Per concludere, si deve onestamente notare come l’appello jonasiano a far sì che «la
responsabilità morale, e non indebite pretese allo sfruttamento indiscriminato della biosfera,
costituisca la “specificità” dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi»281, abbia la sua zona d’ombra
nella considerazione che «Non sarebbe difficile mostrare quanto di nichilismo, di utopismo, di
ingenuità, siano ancora presenti in queste posizioni di Jonas»282. In Jonas, cioè, il tentativo di
evitare gli esiti nichilistici cui è destinato ad approdare il “Prometeo scatenato”283, poggia
sull’argomentazione dell’esistenza di un telos immanente nell’ordine naturale, che, dunque, l’uomo
non deve fare altro che assecondare e preservare; ma, in una simile prospettiva, l’uomo perderebbe
un suo peculiare tratto antropologico (già tematizzato, seppure con modalità diverse, dai padri
dell’antropologia filosofica moderna, Scheler, Gehlen e Plessner): la possibilità di trascendere la
natura. In Jonas, insomma, l’uomo passa dall’estremo, cartesiano, di essere il maître et possesseur
de la nature, a quello di esserne il semplice guardiano, ma poiché l’uomo non è mera naturalità, per
assolvere tale compito dovrebbe negare una parte di se stesso. Forse è proprio questo il maggiore
limite di Jonas: l’assenza di un’adeguata riflessione antropologica, che possa saldare la metafisica,
l’ontologia all’etica. Infine, alla luce del concreto impatto sociale che le teorie jonasiane possono
produrre (si pensi al largo credito che esse hanno trovato in ambito bioetico), ci si dovrebbe
chiedere se non siano presenti delle tracce di autoritarismo in un pensiero che subordina la biologia
ad una data visione metafisico-ontologica, proposta, ovviamente, come oggettiva; come
compensare, dunque, la carenza di considerazione delle suggestioni soggettive presenti in una
concezione etica? In altri termini, il rispetto dell’uomo per la natura deve intersecarsi con il rispetto
dell’uomo per l’uomo.
3.6 Per un nuova possibilità etica: l’apertura all’alterità
Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine
e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di
Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende
chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto-referenziale (che si confronta solo con se
stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva
279
H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 16. «Questo imperativo che include non un dovere individuale ma un dovere collettivo di
propagazione, è la richiesta più ardita e più paradigmatica di una nuova etica della responsabilità per il futuro che sia stata fatta fino ad oggi come
risposta alla crisi ecologica», K. O. Apel, La crisi ecologica come problema per l’etica del discorso, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 181.
280
A. Dal Lago, Introduzione, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 24.
281
A. Da Re, La saggezza possibile, cit., p. 241.
282
C. Galli, Modernità della paura, in «il Mulino», n. 2, 1991, p. 190.
283
Cfr. R. Bodei, La decisione saggia, in AA. VV., Etica e politica, Pratiche, Parma 1984, sulla «rinuncia ad ogni concezione umanistico-prometeica
di poter guidare gli eventi mediante una ragione potente e dominatrice», Ibidem, p. 39, e G. Vaccaro, La ragione sobria, Mimesis, Milano 1998, sul
superamento del consumismo in direzione della “sobrietà”.
83
(il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da quella teoria della conoscenza,
centrale nella modernità, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla
questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere
rintracciate le nuove (co-)responsabilità dell’uomo. All’interno di tale orizzonte etico, il soggetto
non appare più come un io auto-fondantesi, bensì come un sé già costituito ed inserito in un mondo
di rapporti già istituiti, non creati da lui, ma ai quali è chiamato a corrispondere, anche con il
silenzio dell’ascolto; è solo nell’ambito di tale paradigma che il soggetto può tendere alla felicità,
individuale e collettiva. Si passa così dalla relazione teoretica, tipica della modernità occidentale,
che con il medium della conoscenza284 lega l’ego all’alter ego, alla relazione etica che tramite il
medium della cura unisce il sé agli altri da sé. Per questo, vi sono pensatori (in particolar modo
Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida) che, criticando ma non rifiutando la tradizione di pensiero
di cui l’Occidente è erede, focalizzano la loro attenzione non tanto sullo statuto delle responsabilità
dell’uomo moderno (come si è visto invece essere in Jonas), quanto sul modus grazie al quale gli
uomini si relazionano, costruendo (quasi come un effetto collaterale) in e per tali relazioni, quelle
responsabilità.
L’etica appare, così, non come un insieme di regole procedurali, ma come una modalità di
decifrazione dei rapporti fra gli uomini, approdante al rifiuto di qualsiasi forma di lotta per il
riconoscimento e di logiche utilitaristiche, che (come nel caso del secondo principio di giustizia di
Rawls) troppo spesso risolvono i nodi politico-morali con la schematica concessione di vantaggi per
i meno avvantaggiati, ed esortante alla loro sostituzione con un sentimento di rispetto disinteressato
per gli altri, riassunto da quel “comandamento dell’amore” che
è il comandamento che precede ogni Legge è la parola che l’amante rivolge all’amata: ‘Amami’ […] contiene
le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione ‘Amami’285
Per tale via appaiono superabili i termini del conflitto etico-politico contemporaneo fra
comunitaristi e liberalisti, fra differenza dei valori e universalismo delle norme, che rischia di
rimanere sterile in quanto
l’universalismo astratto ed estrinseco non è capace di valorizzare adeguatamente le diversità; il contestualismo
si autoconfina invece in un particolarismo che non sa andare oltre se stesso, in quanto le diversità, benché apprezzate,
non riescono a interloquire fra loro286
Sono queste le problematiche che con Lévinas possono essere superate, sostituendo la
soluzione “egologica” husserliana al problema dell’intersoggettività, con la questione
dell’alterità287. Lévinas infatti imputa ad Edmund Husserl l’avere affrontato il problema
dell’intersoggettività attraverso la categoria dell’ego cogito che, inevitabilmente, può cogliere
l’altro solo come alter ego, ma così facendo, l’ego rimane il momento originario e costituente del
mondo e degli altri, rispetto al quale l’alter appare inizialmente con i caratteri dell’estraneità288.
Contestando il “narcisismo del cogito” ed il mito dell’interiorità della coscienza, Lévinas si
concentra sull’esteriorità dell’assolutamente altro, emergente dal volto, volendo però liberare la
relazione con il volto dell’altro dalla dialettica del riconoscimento, tipica della modernità
284
«Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità», E. Lévinas, Totalità e infinito,
Jaca Book, Milano 1990, p. 41.
285
P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, pp. 15-16; cfr., sullo stesso tema, P. Ricœur, Il Giusto, SEI, Torino 1998.
286
A. Da Re, Figure dell’etica, in C. Vigna (cura), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 110.
287
Su Lévinas cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, G. De Gennaro, Lévinas profeta della modernità, Lavoro,
Lecce 2000, S. Malka, Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 2003, F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, Mondadori, Milano 2003, e M. Vitali Rosati,
Riflessione e trascendenza, ETS, Pisa 2003.
288
Tali osservazioni lévinasiane si riferiscono in particolar modo alla “quinta” delle “meditazioni cartesiane” di Husserl, cfr. E. Husserl, Meditazioni
cartesiane, Armando, Roma 1999, su ciò anche C. Dovolich, Pensare l’alterità, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano
2003, e G. Lissa, Emmanuel Lévinas, in Ibidem.
84
occidentale289. Per questo l’altro non è, per Lévinas, descrivibile come alter (io estraneo), ma come
autrui, pronome indefinito, riferibile solo alla persona, espressione quindi indicante la presenza di
qualcun altro, ma senza la pretesa di identificarlo inserendolo nelle categorie abituali del nostro
pensiero:
l’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello
determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in
quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale290
Il pronome autrui permette a Lévinas di descrivere una relazione con il prossimo alternativa
a quella
relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste(nte) nel neutralizzare l’essere per comprenderlo
o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo
[…] l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia291
Riduzione che rimane una costante anche dell’ontologia heideggeriana, che subordina la
relazione con gli altri, alla relazione con l’essere:
l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima
della giustizia. E’ un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro292
Ora, il fatto che Lévinas critichi la forma di fondamento autocosciente di ogni sapere e
potere assunta nella modernità dalla soggettività umana, non significa che egli rifiuti la questione
della soggettività, ma che voglia declinarla in una forma non egocentrata, bensì esposta all’evento
dell’altro. Una rilevante conseguenza di tale “riorientamento etico” consiste in una diversa
concezione della responsabilità che, da libero atto di volontà, diviene risposta all’appello
proveniente da autrui. In questi termini, essendo la responsabilità una risposta data all’Altro, essa si
colloca immediatamente in un contesto intersoggettivo, caratterizzabile come “paradigma della
cura” (alternativo al “paradigma dei diritti”), nel quale l’Altro, anziché ridursi al Medesimo,
mantiene la propria differenza, e nel quale la “morale del debito” viene abbandonata a favore
dell’“etica del dono”, tipica delle cosiddette relazioni “deboli” quali l’amore, l’amicizia, la
fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, da Lévinas esemplificate in figure quali l’orfano, la vedova,
l’ostaggio («Altri, che mi domina nella sua trascendenza è anche lo straniero, la vedova e l’orfano
verso cui ho degli obblighi»293). Siamo qui di fronte ad una innovativa prospettiva etica, in quanto
Il patto è un accordo di interessi […] Soltanto nel dono c’è una anticipazione assoluta. Se l’etica si costruisce
solo sul patto, in fondo è motivata dall’interesse. Lo scatto più grande è essere disponibili all’altro. E questo è il dono. E
c’è una parola che lo contrassegna, che si chiama “amore”. Il culmine dell’etica è la capacità di amare294
Per realizzare ciò, è però necessario porre al centro della riflessione etica non la libertà, ma
la giustizia, intesa come ineludibile condizione di ogni relazione all’alterità, infatti
289
Cfr. di E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova 1998, e Il volto infinito, Palomar, Bari 1999.
Nota del traduttore in E. Lévinas, Il tempo e l’altro, il melangolo, Genova 1993, p. 63; per un chiarimento dell’idea lévinasiana di alterità cfr., dello
stesso autore, Alterità e trascendenza, il melangolo, Genova 2006.
291
E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 43-44, parentesi mia; ed ancora: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia. Una riduzione
dell’Altro al Medesimo», Ibidem, p. 36; su quest’opera cfr. C. Canzi, Genealogia di Totalità e infinito, ExCogita, Milano 2004. Il confronto con
l’eredità husserliana ed heideggeriana è fortemente presente anche in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001. Un possibile
superamento degli esiti solipsistici dell’ontologia grazie all’etica come dimensione relazionale è presente anche in G. Vaccaro, Dall’esistenza alla
morale, Cadmo, Firenze 1996.
292
E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45; su questo cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro, Fondazione Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001.
293
E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 220.
294
S. Natoli, Che cosa sono i valori, in «Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche», Rai Educational, non datato.
290
85
La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica […] E allora la domanda etica diventa: qual è
la giusta relazione con l’altro? […] (ed a sua volta) la giustizia, come la non prevaricazione, è il dare ad ognuno come
dicevano i latini – quello che è suo, in una equa spartizione dei beni e delle risorse […] Una delle ragioni fondamentali
per cui si scatena nel mondo la violenza è l’ingiustizia295
Tuttavia, l’esigenza di riorientare l’etica in direzione della giustizia, può essere compresa
solo partendo da una nuova concezione dell’io. La questione dell’alterità, infatti, rende evidente che
l’ego si costituisce nell’ambito di una relazione con l’alterità stessa, relazione che, nella prima fase
del suo pensiero, Derrida chiama différance296, intendendo con tale termine non una differenza
destinata ad essere dialetticamente assorbita e superata in un momento successivo e superiore, ma
l’affermazione positiva di un’esistenza insuperabile nella propria singolarità.
A questo proposito, risulta illuminante il percorso filosofico compiuto da Ricœur nella
seconda metà del Novecento297. Egli, rielaborando l’eredità speculativa dei “maestri del sospetto”
Marx, Nietzsche e Freud, propone la concezione dell’io come identità narrativa che riesce ad
autocomprendersi, a trovare una sua ipseità, solo nel confronto con gli altri, strutturandosi infine in
una forma di soggettività descrivibile come un “Sé come un altro”. Il filosofo francese, infatti,
rileggendo Freud, giunge ad una concezione del sé come contemporaneità di essere ed atto, di
pensiero e concretezza:
La riflessione non è tanto una giustificazione della scienza e del dovere, quanto una riappropriazione del nostro
sforzo per esistere; di questo compito più vasto l’epistemologia è solo una parte: dobbiamo recuperare l’atto di esistere,
la posizione del sé in tutto lo splendore delle sue opere […] La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale […]
Il suo scopo è di cogliere l’ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere298
Viene così sostituita alla semplicità irriflessiva ed immediata del cogito, la ricchezza delle
forme concrete nelle quali il sé si oggettiva nel mondo e le loro possibili interpretazioni (in termini
teoretici, Ricœur abbandona qui gli strumenti concettuali heideggeriani, passando a quelli
lévinasiani299). Questa particolare concezione del sé, viene riassunta nell’espressione “metafora
viva”, indicante la commistione fra creatività filosofica e realtà concreta: la metafora offre la
possibilità di avere una nuova visione della realtà, “torcendo” (giocando con) il linguaggio, così da
poter ridescrivere il mondo, aprendolo a nuovi progetti. La metafora può, dunque, invogliare a
riplasmare la realtà, in tal modo, la riflessione filosofica ha uno specifico carattere pratico. Ora,
nonostante il fatto che il parallelo con la teoria critica francofortese, sulla necessità e sulle modalità
del riorientamento sociale, sia qui immediato, la specificità del pensiero ricœuriano consiste nel non
essere più rivolto al cogito, ma al sé, il quale si costituisce in una relazione all’alterità non più
modellata sulla dialettica servo/padrone, ma sulla scoperta di forme di alterità interne allo stesso sé,
ovvero
è necessario che l’irruzione dell’altro, spezzando la chiusura del medesimo, incontri la complicità di questo
movimento di eclissi attraverso cui il sé si rende disponibile all’altro da sé300
295
S. Natoli, L’etica della vita quotidiana, in «Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche», Rai Educational, non datato, parentesi mia.
Sulle tematiche della differenza e dell’alterità nel Novecento cfr. F. Colombo, Rappresentazioni dell’Altro, Guerini, Milano 1999, e A. Ales Bello,
Le figure dell’altro, Effatà, Torino 2000.
297
Su Ricœur cfr. A. Montalto, Storia, tempo e racconto in Paul Ricœur, Falzea, Reggio Calabria 2001, D. M. Conanzi, Paul Ricœur, Giappichelli,
Torino 2004, F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma 2006, e J. Michel, Paul Ricœur: une philosophie de l’agir humain, Les Editions du
Cerf, Paris 2006.
298
P. Ricœur, Dell’interpretazione, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 60-61; sulla definizione del sé come potenza ed atto cfr. anche P. Ricœur, Verso
quale ontologia?, in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002.
299
Per un confronto fra Lévinas e Ricœur cfr. L. Pialli, Fenomenologia del fragile, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1998, e L. Margaria, Passivo e/o
attivo, Armando, Roma 2005.
300
P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 262, e cfr. P Ricœur – G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, Lavoro, Roma 1998; sulla transizione ricœuriana
delle dialettiche identitarie dal cogito al sé cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento: tre studi, Cortina, Milano 2005, M. Pulito, Identità come
296
86
Nell’amicizia, Ricœur, rintraccia la chiave per avviare tale complicità, disponibilità;
l’amicizia è infatti una relazione di reciprocità, nella quale a ciascuno è nota l’identità dell’altro, ma
nessuno tende all’annullamento della stessa. Ora, tali considerazioni sono propedeutiche ad un
ampliamento del respiro del discorso ricœuriano che, infatti, basa su di esse l’etica, intesa come
l’aspirazione a «vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»301, distinguendola
dalla morale, intesa come una somma di norme costrittive. Tuttavia, il primato dell’etica sulla
morale non deve condurre al rifiuto di quest’ultima, anzi, etica e morale, universalismo e
contestualismo, devono essere tenute insieme (pur sempre in un rapporto gerarchico) da quella
“saggezza pratica”, che può dare forma alla giustizia e, dunque, alla “vita buona”. Quindi, se il
primo grande ambito di riflessione è quello relativo alla nostra “sensibilità” ed ai rapporti personali
su di essa basati, per evitare il rischio che, come nelle tragedie del XX secolo «lo spirito di un
popolo è pervertito al punto da nutrire una Sittlickheit assassina»302, il successivo nucleo teorico
deve riguardare l’applicazione istituzionale dell’etica, non solo nel campo della politica, quanto,
soprattutto, in quello del diritto. Infatti
l’oggetto principale della nostra cura era il legame fra etica e politica, mentre rimaneva una impasse sullo
statuto specifico del giuridico […] per quanto meravigliosa possa essere la virtù dell’ amicizia, essa non è in grado di
assolvere ai compiti della giustizia e nemmeno di generarla quale virtù distinta. La virtù di giustizia si stabilisce su un
rapporto di distanza dall’altro, altrettanto originario del rapporto di prossimità con l’altro, offerto dal suo volto e dalla
sua voce. Questo rapporto all’altro, se possiamo osare, è immediatamente mediato dall’istituzione. L’altro,
nell’amicizia, è il tu, l’altro, nella giustizia, è il ciascuno, come viene significato dall’adagio latino: suum cuique
tribuere, a ciascuno il suo303
Insomma, Ricœur punta ad integrare la “poetica dell’amore” con la “prosa della giustizia”:
In effetti, senza il correttivo del comandamento d’amore, la Regola d’oro (la giustizia che, pur incarnandosi in
giurisprudenza, resta sempre eccedente rispetto a quest’ultima) sarebbe continuamente forzata nel senso di una massima
utilitaristica (come, per Ricœur, avviene in Rawls, che riduce la società ad un’impresa di distribuzione di beni), la cui
formula sarebbe do ut des304
Solo una reciprocità non utilitarista consente di amare l’altro come se stesso, applicando così
il concetto aristotelico di philautía, inteso non tanto in senso limitativo (delle pulsioni negative)
quanto in forma attiva, non solo all’amicizia ma anche al senso di giustizia, infatti
attraverso la reciprocità l’amicizia è congiunta alla giustizia […] in Aristotele stesso l’amicizia fa da
transizione fra la prospettiva della ‘vita buona’ […] virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità
umana di carattere politico […] il tratto, che a lungo sembra avvalorare quella che pare proprio una raffinata forma di
egoismo, sotto il titolo di philautía, finisce per sfociare, in modo quasi inatteso, sull’idea che ‘l’uomo felice’ ha
‘bisogno di amici’. L’alterità ritrova, così, quei diritti che la philautía sembrava dover occultare […] Il versante
‘oggettivo’ dell’amore di sé farà sì che la philautía – che di ciascuno fa l’amico di se stesso – non sia mai predilezione
non mediata di se stessi, ma desiderio orientato al riferimento del buono305
Simili problematiche etico/politiche vengono prese in considerazione anche da Derrida, a
partire dalla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto
processo ermeneutico, Armando, Roma 2003, e L. Altieri, La metafora di Narciso: il Cogito itinerante di Paul Ricœur, La Città del Sole, Napoli
2004.
301
P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 470.
302
Ibidem, p. 362.
303
P. Ricœur, Il Giusto, cit., pp. 3 e 9, lo stesso autore, infatti, differenzia «le relazioni interpersonali, il cui emblema è l’amicizia, dalle relazioni
istituzionali, aventi per ideale la giustizia», P. Ricœur, La persona, Morcellania, Brescia 2006, p. 18; sulla questione della giustizia cfr., dello stesso
autore, Il male, Morcellania, Brescia, 1993, e L’idea di giustizia, in «Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche», Rai Educational, non
datato.
304
P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, p. 40, parentesi mie; sulle tematiche socio-politiche di Ricœur e Derrida cfr. A. M.
Nieddu, Amicizia e solitudine tra ricerca di autenticità ed esigenza di giustizia, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, cit.
305
P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 279, 277 e 278; cfr. A. Bruno, Un’etica della finitezza, Milella, Lecce 2000.
87
nazionale o continentale, sono oggi chiamate ad agire su scala globale, a rispondere
responsabilmente a domande di respiro mondiale306. Per Derrida, l’ a-venire, è il frutto della
risposta che, nel presente, diamo all’eredità di cui siamo portatori, ma la risposta che, in chiave
antropologica, la filosofia moderna ha dato307, consiste nella descrizione dell’uomo come di un
essere calcolabile, conseguentemente anche la morale è divenuta una faccenda di contabilità, nella
quale una colpa origina un debito. Alternativamente alla “morale del dovere”, delle obbligazioni,
Derrida propone un’“etica del dono”, nella quale i temi dell’amicizia, dell’ospitalità, della giustizia,
dei diritti umani e del cosmopolitismo vengono definiti come delle vere e proprie relazioni etiche di
risposta all’appello dell’altro, eccedenti qualsiasi norma, codice o calcolo di costi e benefici. L’etica
del dono rappresenta quindi un superamento della dialettica del riconoscimento, tipica della ragione
calcolante che conosce l’altro solo identificandolo secondo le categorie della propria razionalità, ed
una conseguente sopportazione dell’aporia del non sapere sull’altro; in altri termini, si tratta qui di
un
rifiuto ontologico del tradizionale soggetto forte, del cogito della filosofia occidentale […] (con conseguente
presa di posizione) nei confronti delle strutture politico-istituzionali che costituiscono e regolano il nostro lavoro, le
nostre competenze e le nostre prestazioni […] (elaborando così) una nuova problematizzazione della responsabilità,
problematizzazione che non necessariamente prende per buoni i codici ricevuti dal politico e dall’etico308
In questi termini, la giustizia si configura innanzi tutto come una “legge di giustizia” che,
senza comandare ed ordinare nulla di particolare, indica verso un senso di ospitalità, scardinante i
vincoli e i limiti identitari; essa rappresenta «lo spirito di ciò che orienta o fonda il diritto»309.
Esiste però una problematica, inerente all’applicazione della legge di giustizia alla pratica
politica: tale applicazione può infatti avvenire solo tramite delle leggi condizionate, le quali
generano il rischio di un decadimento del senso della legge di giustizia in mere considerazioni
economiche, calcolanti (come oggi spesso accade). Si impone così la necessità di articolare un
diverso pensiero politico, originante una nuova democrazia-a-venire, nella quale il diritto rimanga
costantemente ispirato a qualcosa di superiore ed incontaminabile dalla politica e dal diritto stesso,
infatti
la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina, e in verità inscindibile […] Voglio subito
insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma
che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto
quanto escluderlo310
Il principale risvolto politico di tale impostazione risiede nel fatto che, se il diritto è la forma
storica della giustizia, esso può manifestarsi solo con un atto di forza, attraverso un potere,
un’autorità riconosciuta che lo istituisce. Tuttavia, il fondamento della “forza di legge” è un
“fondamento mistico” poiché si giustifica da sé, affermando l’impossibilità di un principio
superiore “meta-giuridico”, sicché il diritto, “rappresentante in terra della giustizia”, non ha
306
Come testimonia il Colloquio di Royamont (1990), dal titolo L’etique du don, successivo a quello di Cerisy-la-Salle (1980), intitolato Le fins de
l’homme; su Derrida cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, C. Resta, L’evento dell’altro: etica e politica in Jacques Derrida,
Bollati Boringhieri, Torino 2003, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2005, A. Andronico, La disfunzione del sistema: giustizia,
alterità e giudizio in Jacques Derrida, Giuffrè, Milano 2006, e M. Iofrida (cura), Apres coup l’inevitabile ritardo: l’eredità di Derrida e la filosofia a
venire, Bulzoni, Roma 2006 (Atti delle giornate di Studi in memoria di Jacques Derrida; Bologna 13-14 Giugno 2005).
307
Derrida si riferisce in particolar modo a F. Nietzsche, Genealogia della morale (UTET, Torino 2003), specificatamente alla Seconda dissertazione,
contrapponendolo al non-sapere sull’altro, esito ultimo di E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., su ciò cfr. i lavori di C Dovolich, Derrida tra differenza
e trascendentale, FrancoAngeli, Milano 1995, Il soggetto etico e la decisione, in «Fenomenologia e società», n. 2, 1999, e Derrida di fronte alla
questione etica, in C. Di Marco (cura), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999.
308
J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, in «aut-aut», n. 208, 1995, pp. 13, 40 e 31, parentesi mie.
309
J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 45; cfr. anche J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
310
J. Derrida – A. Dufourmantelle, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 53, e J. Derrida, Forza di legge – Il «fondamento mistico
dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50; a proposito del concetto di “forza di legge”, lo stesso Derrida (cfr. Nome di Benjamin, in
Ibidem) afferma di avere ragionato attorno a W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus (Einaudi, Torino 1995).
88
alcun’altra legittimazione che quella dell’atto di violenza, il quale però, non costituisce un atto
ingiusto: la fondazione del diritto si pone anteriormente al diritto stesso, e dunque al di fuori di esso,
e non può pertanto essere giudicata con categorie giuridiche (similmente a quanto sostiene Kelsen
in merito alla Grundnorm)311.
Tutto ciò si condensa nell’esigenza di ripensare le grandi idee della nostra tradizione
culturale, a cominciare da quelle di uguaglianza, libertà e fraternità; l’amicizia rappresenta il vettore
tramite il quale operare tale reinterpretazione. Infatti, quelle relazioni, ed il modello di democrazia
da esse derivanti, sottintendono sia una simmetria nella quale chi dona è autorizzato ad aspettarsi
qualcosa in cambio, sia una “teologia politica ispocentrica”:
il parricidio e il regicidio non sono senza rapporto con una certa interpretazione genealogica, filiale e
soprattutto fraternalista dell’uguaglianza democratica (libertà, uguaglianza, fraternità): lettura del contratto ugualitario
istituito tra dei figli e dei fratelli rivali nella successione del padre, per la (s)partizione del kratos nel demos […] perfino
dalla teologia politica inconfessata, e altrettanto fallocentrica, fallo-paterno-filio-ispocentrica, della sovranità del popolo
– in una parola della sovranità democratica. L’attributo ‘ispocentrico’ attraversa e unisce in un sol tratto tutti gli altri
attributi312
Al contrario, l’amicizia è una relazione asimmetrica, dissimmetrica, nella quale il dono è
sempre eccessivo, immotivato e, soprattutto, incondizionato:
è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia
(filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrica? E’ possibile, facendosi
carico di una certa memoria fedele alla ragione democratica ed alla ragione tout court, direi anzi ai lumi di una certa
Aufklärung (lasciando così aperto l’abisso che si apre ancora oggi sotto queste parole), non già fondare, laddove non si
tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al “vieni” di una certa democrazia?313
In qualsiasi modo si voglia rispondere a tali questioni, il solo fatto che esse siano state in tal
modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia
concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza)
di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche; «non ha molto senso decostruire
la comunità se non si decostruisce l’individuo»314.
311
Cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico: undici tesi su Derrida, il melangolo, Genova 2006.
J. Derrida, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, pp. 38-39.
313
J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 361.
314
A. Masullo, Considerazioni sull’estraeno, in M. Fimiani (cura), Philía, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 30.
312
89
Cap. IV Prospettive di pacificazione sociale
In quasi diecimila anni di storia, noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato completamente e interamente
“problematico” per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma allo stesso tempo sa anche che non lo sa
M. Scheler, Uomo e storia
4.1 La nuova immagine dell’uomo
Gnothi sauton, conosci te stesso. L’antico precetto delfico e socratico esprime quella forma
di conoscenza indispensabile alla cura di sé (epimeleia heauton) la quale, a sua volta, è
propedeutica all’esercizio di un pensiero critico e di una prassi etica che permettono agli uomini di
(inter)relazionarsi armoniosamente. La risposta alla domanda “chi è l’uomo?” risulta così essere
l’imprescindibile punto di partenza per qualsiasi riflessione socio-politica, al punto tale che lo
sviluppo di tali riflessioni dipende dalla risposta che, direttamente o indirettamente, esplicitamente o
implicitamente, si dà a quella iniziale domanda. La questione dell’humanitas assurge così a
problema filosofico che, innanzi tutto, rende evidente come l’uomo non sia una mera somma di
animalitas e rationalitas, istinto e ragione, ma un complesso nodo di forze diverse che devono
equilibrarsi. Ora, nelle teorie socio-politiche sin qui analizzate è presente una zona d’ombra che, se
non viene chiarita, rischia di depotenziare il lavoro teorico che vi è attorno, essa è la questione
relativa all’Uomo.
Nelle precedenti teorie socio-politiche l’argomento uomo non è affrontato, se non in maniera
quasi accidentale: ci si dedica alla comprensione delle dinamiche socio-politiche ed alla risoluzione
di questioni particolari per settori specifici della vita umana, senza passare, se non in maniera
latente e/o quasi accidentale, attraverso una preliminare definizione della costituzione antropologica
del soggetto di tali dinamiche, senza porre la questione di chi sia quell’essere al quale le suddette
teorie si rivolgono. Ma come si può costruire una casa funzionale alle esigenze ed ai desideri
dell’uomo, senza prima interrogarsi sulle sue peculiarità antropologiche? Esse ineriscono,
essenzialmente, a quei due grandi pilastri che sostengono l’esistenza dell’uomo: la biologia e le
emozioni. La possibilità di superamento delle problematiche socio-politiche dipende, quindi, in
buona parte, dalla comprensione della costituzione biologica ed emozionale del soggetto che è
immerso in dette problematiche. E’ questo l’ineludibile punto di partenza con il quale deve
confrontarsi chi voglia elaborare una qualsiasi teoria socio-politica. A tale proposito, i contributi
teoreticamente più rilevanti della moderna antropologia filosofica sono stati portati da quei
pensatori che, appropriatamente, ne vengono considerati i “padri fondatori”: Gehlen, Plessner e
Scheler. Non a caso, pur con tutte le differenze che li contraddistinguono, scorrendo la loro opera ci
si trova di fronte all’immagine dell’uomo come di un essere costituito da una dimensione empirica,
fisica, corporea ed una psichica, trascendentale, spirituale; in loro, insomma, si trova una sostanziale
conferma della fusione empirico-trascendentale che caratterizza l’uomo e, quindi, un’implicita
ammissione del fatto che la vita umana, individuale e collettiva, vada curata in entrambe quelle
dimensioni.
Al pari di Plessner e Scheler, anche Gehlen avverte l’unicità dell’uomo rispetto a tutti gli
altri viventi ma, differenziandosi da loro, in particolar modo dal primo Scheler, il filosofo di Lipsia
colloca tale unicità esclusivamente nella dimensione naturale. Nell’“antropologia elementare”
gehleniana, infatti, l’uomo è interpretato come un “progetto particolare della natura”, egli cioè non
rappresenta l’ultimo anello di un unico processo evolutivo, ma il risultato di una peculiare linea
evolutiva, derivante da una biforcazione nel percorso evolutivo tipico delle scimmie antropoidi: «La
natura ha destinato all’uomo una posizione particolare […] ha avviato in lui una direzione evolutiva
che non preesisteva, che non era ancora mai stata tentata, ha voluto creare un principio di
90
organizzazione nuovo»315. Inoltre, tale progetto particolare è caratterizzabile come un “essere
carente”, non dotato, cioè, di organi specializzati per determinate funzioni; essendo pertanto
inadatto a vivere in qualsiasi ambiente naturale, la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di
crearsi un ambiente socio-culturale, un “mondo artificiale”, adeguato alle proprie esigenze. Ora,
benché Gehlen si sforzi di mantenere i suoi ragionamenti esclusivamente all’interno della
dimensione naturale, immanente, al punto tale che egli definisce la cultura come «quella parte di
natura da lui (l’uomo) dominata e trasformata in un complesso di ausili per la vita»316, sicché
l’uomo appare come «un architetto che edifica la cultura con materiale da costruzione naturale»317,
anch’egli ammette la presenza nell’uomo di una forza spirituale, trascendente la natura, anzi,
l’intera critica gehleniana alla standardizzazione dei comportamenti, tipica della tecnologica società
di massa in cui la maggior parte degli individui «viene amministrata fin dentro la sua vita
interiore»318, muove dai pericoli che l’autore vede nel soffocamento della dimensione spirituale,
problema che propone di fronteggiare con il recupero dei cosiddetti “ideali ascetici”, ovvero di
forze spirituali:
Se pensiamo il concetto di personalità cum emphasi, come la produttività veramente ammirevole, non la
troviamo oggi tanto nell’isolamento della cultura, nel campo letterario o artistico, quanto piuttosto là dove qualcuno si
sforza di far valere le esigenze dello spirito entro il meccanismo stesso dell’apparato […] l’ascesi, semmai comparisse,
sarebbe il segnale di una nuova epoca319
Nell’antropologia plessneriana l’immagine dell’uomo come un’unità empiricotrascendentale è ancora più forte, egli infatti non si limita semplicemente ad affermare l’esistenza di
tali componenti, spirito e corpo o, per utilizzare il vocabolario classico della filosofia, res cogitans e
res extensa, ma sostiene la necessità, per fondare un’antropologia filosofica, di intendere l’uomo
come una struttura unitaria, formata dalla mescolanza dell’elemento biologico-corporeo con quello
immateriale-intellettuale. L’uomo, unico tra tutti i viventi, rappresenta così il punto d’incontro fra la
dimensione fisica e quella psichica, risultando pertanto dotato di una “posizione eccentrica” che
«definisce ugualmente la sua organizzazione sia nelle zone intellettive che nelle zone vegetative, e
in entrambi i casi in modo ugualmente peculiare»320. L’uomo plessneriano, insomma, non solo ha
un corpo (Körper), ma è un corpo (Leib), ed in lui è presente un costante rapporto dialettico fra la
prima cosa, cioè la mera vita biologica, e la seconda, l’autocoscienza della propria esistenza; in tal
senso egli è propriamente eccentrico:
la vita dell’uomo, che pure non può infrangere la centralità, è contemporaneamente fuori dal centro, è
eccentrica. Eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, della sua disposizione frontale nei confronti dell’ambiente
circostante. Come Io, l’uomo non sta più nel qui ed ora ma si pone dietro di esso, in nessun luogo e in nessuno spazio
temporale. La perdita dello spazio e del tempo viene vista come perdita del proprio esser esteriore, quindi si deduce che
l’uomo non esiste solo per se stesso, bensì “in se stesso”, cioè come fondamento di se stesso […] il vivente è corpo, nel
corpo (come vita interiore o psichica) e fuori dal corpo, come punto di vista dal quale esso è entrambi. Un individuo che
315
A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 43; sull’antropologia filosofica gehleniana cfr., entrambi
di M. T. Pansera, L’uomo progetto della natura, Studium, Roma 1990, e (cura), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano
2005.
316
Ibidem, pp. 64-65, parentesi mia; ed ancora: «Non ci deve lasciar indurre alla supposizione che l’uomo sia solo gradualmente diverso dall’animale,
oppure a definirlo in base al solo “spirito”, e dunque, per lo più, nel senso di una caratteristica essenziale concepita in opposizione alla natura.
L’antropologia conquista fondamentalmente il campo suo proprio soltanto se si lascia alle spalle siffatti pregiudizi; essa deve tener fermo a una legge
strutturale particolare, la quale è la medesima in tutte le peculiari caratteristiche umane, e va compresa dal progetto posto in essere dalla natura di un
essere che agisce», Ibidem, p. 55.
317
A. Gehlen, L’immagine dell’uomo nell’antropologia moderna, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, cit., p. 20.
318
A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 146.
319
Ibidem, p. 148 e 80, secondo corsivo mio.
320
J. Habermas, Antropologia, in AA. VV., Filosofia, Feltrinelli, Milano 1996, p. 25; su Plessner cfr. V. Rasini, Filosofia della natura e antropologia
nel pensiero di Helmuth Plessner, in Annali del Dipartimento di Filosofia, Università di Firenze, n. 1, 1995.
91
ha questa triplice caratteristica posizionale si chiama persona. Esso è il soggetto del suo esperire, delle sue percezioni,
delle sue azioni e delle sue iniziative321
Plessner intende quindi la persona come colei che è corpo, che è nel corpo e che è fuori dal
corpo, insomma, come la più completa realizzazione dell’eccentricità.
Anche nell’antropologia filosofica scheleriana «la posizione particolare dell’uomo può
essere chiarita solo esaminando l’intera struttura del mondo biopsichico»322. Come abbiamo visto
essere implicitamente per Gehlen ed esplicitamente per Plessner, anche per il fenomenologo
personalista infatti, l’uomo risulta essere costituito da una commistione psico-fisica, al punto tale
che il suo comportamento
può e anzi deve essere chiarito sempre in duplice maniera, psicologica e fisiologica ad un tempo; per cui è
ugualmente errato preferire la spiegazione psicologica a quella fisiologica e viceversa. Il “comportamento” è il campo
“intermedio” di osservazione dal quale si deve si partire323
Ma, poiché un simile concetto di comportamento è attribuibile sia all’uomo che all’animale,
per distinguere i due Scheler ricorre ad una categoria filosofica che introduce una differenza di
“essenza” fra gli stessi; un “nuovo principio” che egli chiama “spirito”, esso
si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita”. Ciò che fa sì che l’uomo sia
veramente “uomo”, non è un nuovo stadio della vita – e neppure di una delle sua manifestazioni, la “psiche” –, ma è un
principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente
nuovo che come tale non può essere ricondotto alla “evoluzione naturale” della vita; ma semmai, solo al fondamento
delle cose stesse324
Per Scheler, quindi, la persona si differenzia dall’animale non per una maggiore e più
raffinata evoluzione psichica, poiché la psiche, per quanto evoluta possa essere, si trova sempre
nella dimensione naturale dove vive anche l’animale, bensì in quanto risulta essere dotata di un
peculiare principio spirituale, di una speciale scintilla divina che le consente, unica fra tutte le forma
di vita, di rifiutare la realtà esistente, trascendendola
La caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica,
consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico […] Paragonato all’animale che dice sempre di sì
alla realtà effettiva, anche quando l’aborrisce e fugge, l’uomo è colui che sa dir di no, l’asceta della vita, l’eterno
protestatore contro quanto è solo realtà […] l’uomo è l’eterno “Faust”, la bestia cupidissima rerum novarum, mai paga
della realtà circostante, sempre avida di infrangere i limiti del suo essere “ora-qui-così”, sempre desiderosa di
trascendere la realtà circostante325
Ora, posta in questi termini, l’“ambiguità” che Scheler rinviene nell’essere umano non è
tanto quella fra una dimensione fisiologica ed una intellettuale, come invece avviene in Gehlen e
Plessner, quanto quella fra il livello della realtà concreta, in cui convivono bios e psiche, e quello
trascendente, di cui lo spirito è testimonianza. Tuttavia, anche posta in questi termini la
fondamentale ambiguità dell’uomo, si giunge sempre ad ammettere la presenza in esso di due
differenti principi che lo costituiscono e la necessità di una loro conciliazione. A tale proposito
321
H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 361-363, corsivo mio; la posizionalità (Positionalität) è il concetto del quale Plessner si serve
per descrivere la capacità dell’essere vivente di “porsi” rispetto a se stesso e all’altro da sé, e grazie al quale può attribuire all’uomo il carattere
dell’eccentrictità (Excentrizität), dalla quale derivano le “tre leggi antropologiche fondamentali”: quelle dell’“artificialità naturale” (natürliche
Kunstlichkeit), dell’“immediatezza mediata” (vermittelte Unmittelbarkeit) e del “luogo utopico” (utopisches Standort).
322
M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 119, corsivo mio; su Scheler cfr. M. T. Pansera, Max Scheler: dall’etica all’antropologia
filosofica, in Ibidem.
323
M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 125.
324
Ibidem, p. 143.
325
Ibidem, pp. 144 e 159.
92
infatti, l’ultimo Scheler definisce lo spirito dell’uomo come Geist, e la sua irrazionale forza vitale
come Drang, sostenendo l’indispensabilità e l’uguale importanza dell’uno nei confronti dell’altro: il
Geist è infatti il portatore dei più alti valori umani, ma non ha in se stesso il potere, la forza per
realizzarli, il Drang è una potenza cieca, un impulso primitivo indifferente al bene e al male e,
pertanto, necessitante di essere guidato; sebbene essenzialmente diversi, nell’uomo questi due
elementi divengono interdipendenti, perseguendo così «la progressiva ideazione e spiritualizzazione
delle forze oscure celate dietro le immagini delle cose e il simultaneo potenziamento vivificatore
dello spirito»326.
Insomma, la fondamentale immagine dell’uomo che matura dalle ricerche dei padri
dell’antropologia filosofica contemporanea, e che qui si vuole accogliere, è quella di un essere
ambivalente, costituito dall’interdipendenza di due elementi che, comunque li si voglia chiamare e
definire, risultano allo stesso tempo profondamente diversi e profondamente legati l’uno all’altro,
così da rendere difficoltosa (se non addirittura impossibile) l’individuazione dei rispettivi confini e
zone d’influenza; va da sé quindi, che una vita completa e soddisfacente possa darsi solo nella cura
di entrambe queste regioni dell’umano, fra di loro indissolubilmente fuse.
4.2 All’origine di una moralità minima. Antropologia essenziale: biologia ed
emozioni
Una delle acquisizioni più consolidate della filosofia, ed in particolare dell’antropologia
filosofica, del Novecento è la convinzione che l’uomo non sia una mera somma di due sostanze (res
cogitans e res extensa, spirito e corpo), ma una struttura unitaria di corporeità ed extracorporeità327
nella quale questi due fattori si fondono. Ora, quello che qui si vuole sostenere, è che un essere così
caratterizzato possiede una determinata moralità minima (intesa come la percezione di bisogni e
desideri essenziali, derivanti dalle peculiarità antropologiche, originanti una determinata distinzione
tra bene e male, giusto e ingiusto, ed un conseguente comportamento) che, se proiettata sugli altri,
origina un’etica minima (intesa come l’attribuzione agli altri della nostra medesima sensibilità di
base, del nostro stesso sentire di fondo, insomma, come una condivisione dello stesso patire). In
altre parole, se l’essere umano esiste ancora, dopo più di duemila anni di storia, ciò significa che
dispone di una moralità minima condivisa da tutti che, proprio per questo, rende l’etica universale,
ma tale universalità dipende dagli “universalizzabili”, cioè, da quegli elementi condivisibili e
condivisi da tutti gli uomini, per il solo fatto di essere uomini. Pertanto gli universalizzabili devono
necessariamente essere basilari, minimi (andrebbe altrimenti perduta la loro condivisibilità), per
questo la proposta che qui viene avanzata verte sull’“universalizzabilità” della biologia e delle
emozioni umane, intesi come imprescindibili componenti della costituzione antropologica
essenziale. L’antropologia, così intesa, rappresenta quindi una via d’accesso privilegiata alla morale
e all’etica, intese come il perseguimento del benessere psico-fisico personale e collettivo328. Ora, il
mio intento non è né quello di descrivere la fisiologia umana, di delineare un modello di biologia
descrittiva delle funzioni organiche, né quello di disegnare una sorta di mappa delle emozioni
umane, nonostante che «sia sempre la nostra capacità di provare peculiari sentimenti morali che
326
Ibidem, p. 172.
Preferisco utilizzare il termine di extracorporeità, anziché quello di trascendentalità, poiché il primo designa la presenza di qualcosa di extracorporeo, senza però collocarlo necessariamente in una dimensione altra rispetto a quella umana.
328
E’ opportuno chiarire che non si affronterà qui, se non incidentalmente, tutto il vasto insieme delle questioni medico-giuridiche che negli ultimi
anni sono state investigate sotto l’etichetta di bioetica, poiché ciò travalica lo scopo del presente lavoro, che resta quello della riflessione sulla
costituzione antropologica e sui diritti/doveri etici, personali e collettivi, da essa derivanti. Al contrario, per un’investigazione delle tematiche
propriamente bioetiche cfr. di E. Lecaldano, Etica, UTET, Torino 1995, (con altri) Dizionario di bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, La bioetica e i
limiti del diritto, in AA. VV., Democrazia e diritto, FrancoAngeli, Milano 2003, e Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2005, cfr. inoltre M. Buiatti, Le
biotecnologie, il Mulino, Bologna 2004.
327
93
ispira la nostra vita etica»329, bensì quello di estrarre una certa normatività (scaturente da principi e
valori che, relativamente all’uomo, possono essere considerati assoluti) dalla ambigua ma unitaria
costituzione antropologica umana. Ed in questo proposito non riscontro l’impossibilità di cui parla
Habermas, per il quale «non è possibile desumere dalla costituzione biologico-naturale dell’uomo
imperativi di tipo normativo per una ragionevole condotta di vita»330, infatti, pur condividendo
l’osservazione che «Dal punto di vista della teoria del diritto, i moderni ordinamenti giuridici
possono ricavare legittimità solo dall’idea dell’autodeterminazione: i cittadini devono potersi
pensare come gli autori di quello stesso diritto cui, come destinatari, sono sottomessi»331, ritengo
che il processo di autodeterminazione del diritto non sia in contrasto con l’esistenza di universali
principi ispiratori, che i cittadini poi decidono come concretizzare. L’obiettivo è, allora, quello di
passare dal principio della sacralità della vita, tipico della tradizione culturale occidentale, al
«principio della qualità della vita»332, ed evidentemente ciò presuppone l’abbandono di una
prospettiva religiosa (in ambito antropologico, morale ed etico), in favore dell’assunzione del dato
di fatto antropologico, relativo cioè alla biologia ed alle emozioni (ossia a quei costituenti che,
materiali o immateriali che siano, pertengono sempre all’essere umano), come unica fonte
normativa in campo morale ed etico, ne consegue pertanto il (già menzionato) rifiuto
dell’assunzione di uno specifico sentire religioso, politico, culturale, ecc, come origine del diritto.
Infatti, se si vogliono considerare gli argomenti sin qui trattati come tematiche pubbliche,
appartenenti cioè a tutti gli uomini, sia come creatori che come destinatari (ed è questo l’unico
modo per tendere verso una pacificazione sociale non omologante, salvante cioè l’eterogeneità della
società), allora il ragionamento su di essi deve essere impostato e condotto in maniera tale che sia
accessibile a qualsiasi uomo abbia il desiderio e le ragionevoli capacità critico-argomentative per
interessarsene.
Ora, per quanto concerne il versante biologico è sufficiente prendere atto delle basilari
esigenze fisiologiche per la sopravvivenza umana, le quali, più che originare felicità quando
vengono soddisfatte, provocano sofferenza quando non vengono evase, manifestandosi così come
una sorta di indispensabile sostrato, funzionale allo svolgimento di attività superiori, inerenti cioè
alla dimensione emozionale. Pertanto, poiché la scienza studia l’uomo esclusivamente come corpo,
come quantità, quello che essa potrà dirci sull’uomo stesso sarà sempre insufficiente per la
completa realizzazione dello stesso:
I problemi dell’umanità non si possono risolvere senza l’aiuto della scienza, ma neppure solo con la scienza.
Manca una coscienza umanista: la coscienza per la quale, a partire da certi livelli di conoscenza e di azione, niente di
tutto quello che facciamo è indifferente per l’altro, che non siamo soli nel nostro sapere e agire. Se si acquista questa
coscienza di responsabilità, sapere di più e potere di più significheranno allora amare di più333
Ora, le emozioni rappresentano quel secondo pilastro antropologico, che integra quello della
biologia, completando l’essenza dell’uomo. Ma come agiscono le emozioni nell’ e sull’uomo, e
quale ne è il significato (ovvero la traduzione razionale di tale fattore pre-razionale)? Ebbene, la
forza delle emozioni consiste nella loro capacità di essere un “collante” umano, un elemento di
aggregazione umana attraverso la condivisione di un medesimo sentire. Infatti, le emozioni non solo
consentono ad ogni singolo uomo di sentire qualcosa, di “patire”, ma permettono anche di proiettare
tale patire sugli altri, trasformandolo in un patire con-, in un’immedesimazione che diviene
partecipazione emotiva al destino di ciascun uomo. Tale ruolo cognitivo delle emozioni è, per
329
E. Lecaldano, Bioetica, cit., p. 30.
J. Habermas, Fatti e norme, Guerini, Milano 1996, p. 10; ricordo inoltre, che la mia proposta non poggia solo sulla caratterizzazione biologiconaturale ma anche sul versante emozionale dell’uomo.
331
Ibidem, p. 531.
332
P. Singer, Ripensare la vita, il Saggiatore, Milano 1996, p. 191.
333
L. M. Arroyo, Sfide etiche e antropologiche della genetica e della biotecnologia, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, cit., p. 69.
330
94
Martha Nussbaum, ben presente nelle rappresentazioni teatrali della tragedia classica e nei grandi
romanzi; ovviamente, ciò non vuol dire che altre forme artistiche siano sprovviste di tale significato,
ma quest’ultimo assume dei contorni maggiormente concreti e determinati in quelle espressioni
artistiche che esplicitano i propri contenuti emozionali con una nitidezza, una comprensibilità
indispensabile per poter incidere sul dibattito pubblico sui grandi temi sociali, infatti
La maggior parte delle opere musicali più importanti esprime un contenuto emozionale, e in molti casi (per
esempio le Sinfonie di Mahler) viene spontaneo pensare ad un dispiegarsi di quel contenuto in forma narrativa, pur
sapendo che qualsiasi rappresentazione reale di tale narrazione ne costituirà al massimo una debole versione334
In altre parole,
Il musicista compone e pensa. Ma, astraendosi da ogni realtà oggettiva, compone e pensa in suoni […] i suoni
stessi sono il linguaggio originario e intraducibile. Poiché il compositore è costretto a pensare in suoni ne consegue la
mancanza di contenuto in musica: infatti ogni contenuto concettuale si dovrebbe poter pensare in parole335
Ed è proprio di tale contenuto concettuale pensabile in parole che va in cerca la Nussbaum.
Pertanto, le opere artistiche sono ben lungi dall’essere una semplice attività ludica, un mero
divertissement, in quanto in esse è sempre presente un contenuto emozionale, questo però si traduce
in un vero e proprio contenuto concettuale solo in quelle “narrative”, che permettono a chi vi entra
in contatto di comprendere chiaramente e di partecipare emotivamente alle vicende descritte,
immedesimandosi nei personaggi, prendendo così posizione sui temi morali trattati, immaginando
la complessità emotiva insita nelle situazioni descritte. La grande letteratura, quindi, non è mai
neutra: essa rappresenta un «genere moralmente controverso, per il fatto che esprime mediante la
sua forma e il suo stile, mediante le sue modalità di interazione con i lettori, un senso normativo
della vita»336:
la narrativa mette in gioco una componente immaginativa, immagina cioè situazioni che «potrebbero»
verificarsi nella vita umana, apre a possibilità finora non sperimentate e non documentate. La letteratura diventa una
specie di regno dei «possibili» […] Il testo narrativo […] diventa così la proposta di un mondo abitabile, nel senso che
suggerisce al lettore possibilità d’azione, valutazioni etiche e progettazioni sul futuro mai prese in considerazione
precedentemente; spalanca mondi possibili che inevitabilmente ampliano la conoscenza e l’esperienza di chi li
immagina337
Per questo, l’“immaginazione letteraria” è, per la Nussbaum, la migliore cura che si possa
adottare per superare il male dell’utilitarismo che, oggi, si è trasformato in un complessivo criterio
per la gestione sociale che, come scrive Amartya Sen, riduce le persone a
Localizzazione delle loro rispettive utilità […] (a contenitori neutri) in cui risiedono attività del tipo del
desiderare, provare piacere e dolore […] (poiché) una volta considerata l’utilità della persona, l’utilitarismo non ha
alcun ulteriore diretto interesse a qualsiasi informazione su di essa […] Le persone non contano come individui più dei
singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale di petrolio338
334
M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, Feltrinelli, Milano 1996, p. 24; della stessa autrice cfr., sul sentimento della
compassione, Compassion: The Basic Social Emotion, in «Social Philosophy and Policy», n. 13, 1996, e Compassion and Terror, in «Dedalus», n. 1,
2003, sulla valenza formativa della tragedia classica, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2004, e sul contento emozionale che sta dietro le
partiture musicali delle sinfonie di Gustav Mahler, Musica ed emozione, in L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna 2004; sulla Nussbaum
cfr. F. Abbate, L’occhio della compassione, Studium, Roma 2005.
335
E. Hanslick, Il bello musicale, Aesthetica, Palermo 2001, p. 117.
336
M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., p. 20, corsivo mio.
337
F. Abbate, L’occhio della compassione, cit., pp. 19-20 e 52.
338
A. Sen – B. Williams, Utilitarismo e oltre, il Saggiatore, Milano 1984, p. 41, parentesi mie; la Nussbaum ha lavorato con Amartya Sen tra gli anni
Ottanta e Novanta come condirettrice di un progetto sulla valutazione della qualità della vita nei Paesi in via di sviluppo per conto del World Institute
for Development Economics Research (istituto di ricerca collegato all’ONU), producendo il seguente testo: M. Nussbaum – A. Sen, The Quality of
Life, Clarendon. Oxford 1993; dello stesso Sen, la Nussbaum elogia: Scelta, benessere, equità, il Mulino, Bologna 1986, e Il tenore di vita, Marsilio,
95
E lo stesso utilitarismo si protegge dalla razionalità alternativa della letteratura,
propagandando l’immagine di quest’ultima come un qualcosa di meramente ludico e/o superfluo, al
punto tale che
raccomandarla (la letteratura) nella sfera pubblica è difficile, perché molti sono convinti che la letteratura possa
sì aiutare a comprendere i meccanismi della vita privata e dell’immaginazione personale, ma sia inutile e superflua
quando sono in gioco gli interessi più ampi di classi e nazioni. Si crede che in questo caso vi sia bisogno di qualcosa di
più scientifico e affidabile, di più distaccato, di più razionale e saldo. Ma io dimostrerò che, a maggior ragione in questo
caso, il contributo che le forme letterarie hanno da offrire è unico339
Dunque, l’immaginazione narrativa, per la Nussbaum, può e deve orientare la formazione
della società, anche nei sui versanti economici, giuridici e politici340. Insomma, anche se non
espressa esplicitamente, la tesi di fondo della Nussbaum risiede nella convinzione che le emozioni
abbiano un valore morale ed etico tale da poter indurre l’uomo all’“autoredenzione”; obiettivo,
quest’ultimo, che la Nussbaum delinea attraverso la “teoria delle capacità”. Per capacità la
Nussbaum intende
ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere, avendo come modello l’idea intuitiva di una vita
che sia degna di un essere umano341
Così intese, le capabilities rappresentano un parametro di valutazione delle reali condizioni
di benessere delle persone, alternativo a quelle misure standardizzate, come ad esempio il PNL
(Prodotto Nazionale Lordo) o il reddito pro-capite, che, in quanto tali, riducono l’essere umano
appunto ad uno standard misurabile, considerandolo o come un numero di un calcolo statistico o
come un contenitore di istanze già costituite, che il sistema non deve fare altro che soddisfare.
Diversamente da ciò, la teoria delle capabilities considera le persone nella loro irriducibile
singolarità, dunque, come portatrici di bisogni e desideri, o, per usare le parole della Nussbaum
stessa, di preferenze342 specifiche. In tale prospettiva, la teoria delle capacità può contribuire anche
alla funzione normativa dei Governi, ispirandoli all’elaborazione di
norme universali riguardanti le capacità umane (tali norme) dovrebbero essere centrali in una strategia politica
che vada alla ricerca dei principi politici fondamentali da porre a sostegno di una serie di garanzie costituzionali in tutte
le nazioni343
Insomma, la teoria delle capacità ha un fine politico, consistente nella «promozione delle
capacità individuali»344, promozione che la politica deve rendere sempre possibile ma mai
obbligatoria, come afferma il liberalismo classico che la Nussbaum, pur non citando, riecheggia:
Venezia 1993; sul raffronto fra la Nussbaum e Sen cfr. S. Morcellin, Ripartire dalla vita buona: la lezione aristotelica in Alasdair MacIntyre, Martha
Nussbaum e Amartya Sen, Cleup, Padova 2006.
339
M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., p. 21, parentesi mia.
340
Seppure in forma diversa, la Nussbaum ricalca gli stessi motivi di preoccupazione, le stesse critiche della modernità e le stesse prospettive di
superamento, incentrate sul ruolo sociale dell’alta cultura e dell’arte, tipiche di gran parte della cultura europea novecentesca, e descritte nel Cap. I del
presente lavoro, in particolare nei parr. 1.3, 1.4 e 1.5.
341
M. Nussbaum, Femminismo e sviluppo internazionale, in Diventare persone, il Mulino, Bologna 2001, p. 19, opera nella quale si trova anche
l’esposizione della teoria delle capacità, a proposito della quale cfr. S. F. Magni, Etica delle capacità: la filosofia pratica di Sen e Nussbaum, il
Mulino, Bologna 2006, e, della stessa Nussbaum, Aristotelian Social Democracy, in R. B. Douglas – G. M. Mara – H. S. Richardson (cura),
Liberalism and the Good, Routledge, New York 1990, Human Functioning and Social Justice: In Defense of Aristotelian Essentialism, in «Political
Theory», n. 20, 1992, e Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, Reggio Emilia, 2003.
342
Cfr. M. Nussbaum, Preferenze adattive e scelte femminili, in Diventare persone, cit.
343
M. Nussbaum, In difesa dei valori universali, in Diventare persone, cit. 55, parentesi mia.
344
M. Nussbaum, In difesa dei valori universali, in Diventare persone, cit., p. 94.
96
il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una società civilizzata,
contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo sia esso fisico o morale, non è giustificazione
sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice,
perché nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto […] Il solo aspetto della propria condotta in cui ciascuno deve
rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto la sua indipendenza è, di
diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano345
Tuttavia, per concretizzare la teoria delle capacità, la Nussbaum è consapevole della
necessità di ripristinare la funzione pubblica della cultura, ed in particolar modo di quella che si
esprime narrativamente, attraverso la quale poter introdurre nella società determinati contenuti
emozionali che a loro volta rimandano ad una specifica forma di razionalità, ed è proprio questa
“ragione su base emozionale” che la Nussbaum considera indispensabile per la formazione della
società in tutti i suoi ambiti. Dall’istruzione “cosmopolita” delle nuove generazioni:
Il romanzo rende perfettamente chiaro quanto la propria posizione si sia allontanata
dall’approvazione dell’aristocrazia ereditaria, insistendo ripetutamente che sono le condizioni
materiali, condizioni che possono essere cambiate, a fare la differenza nel modo di pensare […] (ne
consegue che) coltivare l’umanità in modo complesso e interdipendente significa comprendere
come i bisogni e gli scopi comuni vengono realizzati in modo diverso in circostanze diverse […]
(rendendoci) cittadini in un mondo di esseri umani346
All’economia:
Non si tratta di condannare la crescita economica o di darne una lettura in negativo, ma piuttosto di dare il
primato alla politica e di domandarsi oggi quali siano gli obiettivi che essa deve perseguire per ciascun cittadino, prima
ancora di perseguire piani economici o di diventarne l’esecutrice347
Alla politica:
Se riteniamo che la scelta democratica sia semplicemente una procedura volta alla risoluzione degli scontri fra
interessi in competizione, allora la preferenza accordata alla democrazia rispetto alle altre forme di governo perde la sua
forza […] Per promuovere una democrazia riflessiva e deliberativa piuttosto che semplicemente un’arena per gruppi di
interesse in competizione, dobbiamo formare cittadini che abbiano la capacità socratica di ripensare criticamente le
proprie convinzioni348
In altre parole, l’immaginazione letteraria può svolgere una fondamentale funzione pubblica
che
guiderà i giudici nel loro giudicare, i legislatori nel loro legiferare, i politici nel misurare la qualità della vita di
persone vicine e lontane […] (per questo la grande letteratura deve abitare non solo nelle case private e nelle scuole, ma
anche) nei nostri ministeri e tribunali e nelle Facoltà di legge ovunque l’immaginazione pubblica venga foggiata e
nutrita in quanto parte essenziale di un’educazione alla razionalità pubblica349
E ciò non farà perdere al giudice, al legislatore ed al politico la propria imparzialità poiché,
pur leggendo gli eventi attraverso le emozioni, essi ne resteranno sempre degli spettatori esterni,
345
J. S. Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1981, pp. 32-33.
Rispettivamente, M. Nussbaum, The Princess Casamassima and the Political Imagination, in Love’s Knowledge, Oxford University Press, New
York 1990, p. 201, trad. mia, M. Nussbaum, La Vecchia Educazione e il Pensatoio, in Coltivare l’umanità, Carocci, Roma 2006, p. 25, e M.
Nussbaum, Educare cittadini del mondo, in Piccole patrie, grande mondo, Reset-Donzelli, Milano-Roma 1995, p. 24, parentesi mie; sul
cosmopolitismo della Nussbaum cfr. i suoi Kant and Stoic Cosmopolitanism, in «Journal of Political Philosophy», n. 5, 1997, e Sentimenti
cosmopoliti? (Lectio Magistralis per il conferimento della Laurea Honoris Causa), Università di Torino, Torino 2002.
347
F. Abbate, L’occhio della compassione, cit., p. 157.
348
M. Nussbaum, L’autoesame socratico, in Coltivare l’umanità, cit., p. 43 e 33.
349
M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., pp. 20-21, parentesi mia.
346
97
proprio come accade con la lettura dei romanzi; l’occhio delle emozioni dunque non inquina i
giudizi, al contrario, li rende più lucidi, più comprensivi delle molteplici sfaccettature di una
situazione fornendo una chiave interpretativa più approfondita per la comprensione della stessa,
insomma, più giusti350.
La biologia e le emozioni costituiscono, quindi, i pilastri della costituzione antropologica,
chiarendone l’essenza, un’essenza che è indispensabile tenere a mente per prospettare una
universale teoria della “giustezza”, ovvero, di ciò che per l’uomo è giusto. In tale prospettiva
la giustizia non esaurisce il dominio della giustezza: essa è piuttosto una forma di giustezza quando il nostro
problema è quello di giustificare, valutare o giudicare istituzioni, scelte collettive e provvedimenti che modellano i
nostri esperimenti di vita sociale. In questo senso possiamo accettare la tesi di Nozick secondo cui la filosofia morale
definisce lo sfondo più ampio e traccia i limiti per la filosofia politica351
In altri termini, il percorso che si vorrebbe qui delineare è quello che va
dall’autocomprensione della costituzione antropologica essenziale (pertanto universale) e dei
bisogni e desideri insiti in essa, alla valutazione delle procedure materiali (pertanto storiche) grazie
alle quali dare soddisfazione agli stessi. L’uomo, dunque, ha delle necessità e delle potenzialità
(meta)empiriche che devono essere comprese per poter essere soddisfatte.
Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in
comune, come un tavolo è situato tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra [in-between], mette in
relazione e separa gli uomini nello stesso tempo352
E la costituzione antropologica essenziale è il primario in-fra, essa infatti mette in relazione
gli uomini, poiché appartiene a tutti, e nello stesso tempo li separa, in quanto ciascuno ne è
portatore a suo modo.
4.3 Una etica minima
L’esistenza di un’unica costituzione antropologica basilare non è incompatibile con il
fenomeno, oggi più che mai visibile, del pluralismo culturale (del quale il pluralismo etico appare
essere nient’altro che una degenerazione); ma come si concilia l’esistenza di quella (un’unica
costituzione antropologica essenziale) con la presenza di questo (il pluralismo culturale)? Esiste, in
altri termini, un sostrato etico universale che funge da ponte tra questi due poli?
In una delle sue opere di maggior risonanza, Taylor individua nel rimpiazzamento del
riconoscimento dell’onore, come massimo valore umano, con quello della dignità, uno dei tratti
peculiari della modernità. La dignità dell’uomo viene infatti oggi posta come un vero e proprio
valore, identificabile come segue:
Il valore che qui viene individuato, dunque, è una potenzialità umana universale, una capacità comune a tutti
gli umani. E’ questa potenzialità, e non ciò che una persona può averne o non averne fatto, ad assicurarci che ognuno
merita rispetto […] (anche se) la richiesta di un uguale riconoscimento non si ferma a una presa d’atto dell’uguale
valore potenziale di tutti gli umani ma comprende anche l’uguale valore di ciò che essi hanno ricavato, di fatto, da
questa potenzialità353
350
Cfr. M. Nussbaum, Emotions as Judgments of Value, in «Yale Journal of Criticism», n. 5, 1992, e Poets as Judges: Judicial Rhetoric and Literary
Immagination, in «University of Chicago Law Review», n. 62, 1995.
351
S. Veca, Emozioni e ragioni in una teoria della giustezza, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, cit., p. 45; cfr. anche, dello stesso
autore, Cittadinanza, Feltrinelli, Milano 1990.
352
H. Arendt, Vita activa, cit., p. 39.
353
C. Taylor, Multiculturalismo, Anabasi, Milano 1993, pp. 63-64, parentesi mia; la transizione dall’onore alla dignità umana, che per Taylor è frutto
della modernità, ricorda quella dalla libertà alla sacralità della vita umana che per la Arendt di Vita activa deriva dal cristianesimo, cfr. par. 1.3 del
presente lavoro.
98
Di fronte a tale moderno valore, per Taylor, il liberalismo si è (pro)posto come quella forma
politica in grado di fungere da garante di questo valore stesso, che abbiamo visto essere la dignità
degli uomini, argomentando come al suo interno possano albergare uomini fra loro di fatto diversi,
ovvero, uomini che hanno realizzato diversamente quella che lo stesso Taylor chiama potenzialità
umana universale, vedendosi così riconosciuti e garantiti, indipendentemente dalle differenze, nella
loro dignità sia “potenziale” che “fattuale”. Tuttavia, prosegue Taylor, il liberalismo fallisce in tale
sua pretesa funzione di garante delle differenze e della universale dignità umana, per un duplice
ordine di motivazioni. In primo luogo, poiché il liberalismo più “duro” si basa su un sistema
cristallizzato di regole, refrattario a qualsiasi sorta di modificazione, che postpone i fini collettivi a
quelli individuali, dimostrandosi così ospitale verso gli individui e, al contempo, inospitale verso le
culture differenti dalla propria; insomma,
un certo tipo di liberalismo dei diritti, è inospitale verso la differenza perché a) tiene ferma l’applicazione
uniforme delle regole che definiscono i diritti e b) vede con sospetto i fini collettivi354
In secondo luogo, in quanto il liberalismo più “morbido” che, per la sua presunta neutralità,
si pone come garante e terreno d’incontro per tutte le culture, è invece il frutto di una determinata
cultura: quella cristiana, infatti
il liberalismo occidentale non è tanto un’espressione di quell’atteggiamento laico e postreligioso che è così
popolare fra gli intellettuali liberali quanto una filiazione organica del cristianesimo […] la divisione fra chiesa e stato
risale ai primissimi tempi della civiltà cristiana […] Lo stesso termine secolare apparteneva in origine al vocabolario
cristiano […] (pertanto) il liberalismo non può né deve arrogarsi una completa neutralità culturale. Il liberalismo è
anche un credo militante, e sia la variante ospitale […] sia le sue forme più rigide hanno degli steccati da innalzare355
In sintesi, il liberalismo o omogeneizza le differenti culture, o le riconosce formalmente
salvo poi non offrire loro la possibilità di sopravvivere356. Come è noto, per Taylor l’alternativa al
liberalismo risiede in un “multiculturalismo su base comunitarista”, che rappresenta
una via di mezzo fra la domanda, inautentica e omogeneizzante, di un riconoscimento di
uguale valore da un lato e il murarsi da sé entro i propri criteri etnocentrici dall’altro. Le altre
culture esistono, e dobbiamo vivere sempre più insieme, sia su scala mondiale sia, strettamente
mescolati, in ogni singola società357
Insomma, si può dire che oggi ci si trovi al cospetto di due vettori che spingono in direzioni
contrarie e, sembrerebbe, inconciliabili ma che, paradossalmente, fungono l’uno da propellente per
l’altro: la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione,
in altri termini, un processo omologante di de-territorializzazione versus un fenomeno diversificante
di ri-territorializzazione, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare nelle sue differenze
dalle altre (è chiaro che l’incremento di ciascuno di questi due processi sollecita, come risposta, la
crescita dell’altro); ed anche l’abbattimento delle “barriere” fisiche (emblematicamente
rappresentate dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e
nel 1990) viene assorbito in questa disputa, o come dimostrazione dei procedimenti
“deterritorializzanti”, o come stimolo ai fenomeni “riterritorializzanti”. Queste dinamiche, che
sottendono agli ormai noti conflitti di identità, sono state, a livello filosofico, derubricate come
contesa tra Liberalism e Communitarianism, ma a livello pratico-politico designano la scollatura fra
354
Ibidem, p. 87.
Ibidem, p. 89, parentesi mia.
356
Cfr. E. Pariotti, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Giappichelli, Torino 1997.
357
C. Taylor, Multiculturalismo, cit., p. 102.
355
99
il concetto di cittadinanza e quello di appartenenza. L’appartenenza, infatti, oggi non può più
risolversi completamente, come nel passato, nella cittadinanza, l’appartenenza viaggia ormai
attraverso delle categorie, simboliche, morali, valoriali, che la cittadinanza non è in grado di
soddisfare. Tuttavia, l’appartenenza stessa non può neanche risolversi solamente in logiche
identitarie comunitarie, poiché
La logica multiculturale […] finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze «blindate» che, a onta della
conclamata «politica della differenza» (politics of difference), si atteggiano come identità in sedicesimo: monadi o
autoconsistenze insulari interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza. Come infrangere questa
rigida clausola di non-ingerenza, che in apparenza estende ma in realtà stravolge l’idea di differenziazione
rovesciandola in frammentazione e proliferazione meccanica della logica identitaria?358
Personalmente, credo che la risposta alla suddetta domanda richieda un radicale mutamento
di prospettiva nell’affrontare le questioni inerenti al pluralismo culturale, ed al relativo sedicente
pluralismo etico; facendo mio un passo di Sen, ritengo infatti che gli approcci sinora esaminati
siano
accomunati dall’errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse
diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra
persone359
Intendere le relazioni umane come rapporti tra persone, anziché tra civiltà o comunità, è, a
mio avviso, l’unico modo per decriptare le questioni, attualissime, inerenti al riconoscimento delle
differenze identitarie, in un quadro di valori e principi universalmente valido per tutti gli uomini in
ogni tempo e sotto ogni clima: assumendo le persone come vertice ottico, risulta evidente come esse
siano al contempo diverse ed uguali fra loro. Le diversità originano dalla contingenza, ogni identità
è infatti sempre un’identità contingente, non solo e non tanto nel senso di essere situata, quanto
piuttosto nel senso di essere determinata sia da fattori indipendenti dalla volontà umana, sia da
scelte compiute, costantemente, da ciascun uomo. L’uguaglianza risiede invece in quella già
menzionata costituzione antropologica essenziale, che rappresenta una sorta di pattern universale,
sopra il quale ciascuno dipinge la propria esistenza come vuole e come può. Ne consegue pertanto,
che ad un sostrato antropologico comune sia applicabile una etica universale, ad esso rispondente, e
che ad una pluralità di “dipinti”, su tale sostrato eseguiti, corrisponda una pluralità di formae mentis
e di culture, le quali, per non scadere in un logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza
porte né finestre, di «piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa
dell’altra»360, devono essere costantemente aperte le une verso le altre; ma in che modo?
Da F.-M. A. Voltaire a Locke, sino a Popper, la tolleranza è sempre stata individuata come il
necessario baricentro della convivenza umana (un baricentro, a volte, anche strumentalizzato)361,
tuttavia tale concetto, che ha fatto compiere un incommensurabile balzo qualitativo alla nostra
civiltà, si espone ad un duplice ordine di critiche: innanzi tutto, la tolleranza viene elargita da chi ha
la volontà di tollerare, ma ciò significa che costui, in futuro, potrebbe non avere più tale volontà e,
358
G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 95. Riflettere sulla nozione di cittadinanza, significa farsi carico
dell’odierna caduta dei legami etico-politici e del compito di «ri-progettare e ripopolare l’agorà ora in gran parte vuota, il luogo d’incontro, di
dibattito e di negoziazione tra individuo e bene comune, pubblico e privato», Z. Bauman, La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002, p.
153, dello stesso autore cfr. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2006, e La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2006; sulla
questione della “differenza”, in chiave politica cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, cit.
359
A. Sen, Il ballo in maschera dell’Occidente, in «la Repubblica», 30/06/06.
360
A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., p. 59; cfr. anche, dello stesso autore, Reason Before Identity, Oxford University Press, Oxford-New Delhi
1999.
361
Cfr., per i riferimenti principali, F.-M. A. Voltaire, (voce) Tolleranza, in Dizionario filosofico, Mondadori, Milano 1970, J. Locke, Saggio sulla
tolleranza, Laterza, Bari 1996, J. Locke, Scritti sulla tolleranza, UTET, Torino 1997, K R. Popper, La società aperta e suoi nemici, cit., e H.
Marcuse, Tolleranza repressiva, cit.; sui meriti ed i limiti della nozione di tolleranza cfr. A. Masullo, I paradossi della tolleranza, in «La città nuova»,
n. 7, 1992.
100
dunque, non tollerare più; inoltre, il concetto di tolleranza tende a scivolare verso quello di
sopportazione, dietro il quale si cela una pressoché totale svalutazione delle posizioni altrui. Sono
queste le problematiche insite nella nozione di tolleranza, manifestantesi sia nella sua applicazione
interpersonale che in quella interculturale (si pensi al multiculturalismo ed alla cosiddetta “politica
della differenza”). Per questo, sarebbe oggi opportuno spostarsi dal tema della tolleranza a quello
del rispetto: non tollerando, bensì rispettando l’altro è possibile relazionarsi, confrontarsi
autenticamente con lui, “contaminandosi” vicendevolmente, in quanto ciascuno mantiene la propria
irriducibile autonomia e le proprie differenze specifiche, derivanti dal determinato, contingente
modo di sviluppo e soddisfazione delle facoltà e necessità umane, senza però trincerarsi in esse e
dunque modellandosi nel “contatto inquinante” con l’altro («non si può simultaneamente sciogliersi
nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare diversi»362). Se vogliamo vivere insieme,
non nonostante, ma grazie alle diversità,
Se vogliamo scongiurare lo sfruttamento meramente commerciale della diversità ed evitare lo scontro fra
culture che si verifica quando la diversità alimenta paura e rifiuto, dobbiamo attribuire un valore positivo a […]
contaminazioni e a […] incontri, che aiutano ciascuno di noi ad allargare la propria esperienza, rendendo così più
creativa la nostra cultura […] (per questo) Il cosmopolitismo, inteso realisticamente, significa […] accettare gli altri
come diversi e uguali. In questo modo viene nello stesso tempo svelata la falsità dell’alternativa tra diversità gerarchica
e uguaglianza universale. Così, infatti, vengono superate due posizioni, il razzismo e l’universalismo apodittico363
Risulta così evidente come l’irriducibilità di una persona ad un’altra, di una cultura ad
un’altra, non implichi l’impossibilità del confronto, al contrario, esso avverrebbe autenticamente
grazie ad una sorta di “universalismo della differenza”, di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio
l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse, potendo il tutto avvenire
sul terreno di una etica universale, antropologicamente fondata.
La civiltà mondiale non può essere altro che coalizione, su scala mondiale, di culture ognuna delle quali
preservi la propria originalità (difatti) le differenze non si identificano mai con l’essere, ma sempre lo differenziano. E
soltanto perché lo differenziano producono il fenomeno del divenire, della vita […] Solo per questa via, solo
affermando questo passaggio, possiamo far esplodere il dispositivo della metafisica, che poi fa tutt’uno con il
dispositivo del potere: l’idea dell’Uno come unità delle differenze364
4.4 Giustizia e diritti umani
Restano ora da valutare le modalità attraverso le quali i ragionamenti sin qui condotti
possano trovare concreta applicazione nella società odierna. La giustizia (che nella sua elaborazione
teorica la si può definire, come si è visto, giustezza) è sicuramente la tematica centrale intorno alla
quale si impernia l’etica, si potrebbe anzi dire che la giustizia rappresenti il “motore” dell’etica, la
questione per rispondere alla quale nascono le etiche, intendibili, quindi, come soluzioni diverse ad
una medesima domanda.
Per riuscire a mettere in pratica la giustizia, si è dato luogo ad una sua istituzionalizzazione:
il diritto, all’interno del quale si pongono i diritti umani che, pertanto, sebbene si manifestino sotto
forme istituzionalizzate, originano anch’essi (come lo stesso diritto e la stessa giustizia) da una
interrogazione etica. In questo scenario, la politica si pone come il “filtro” tramite il quale avviene il
passaggio dal piano etico-valoriale a quello pratico-istituzionale, ovvero, come un’infrastruttura
necessaria per conquistare e mantenere il potere che, a sua volta, rappresenta il primario mezzo per
362
C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984, p. 29.
A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, cit., p. 197, e, dopo la parentesi mia, U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005, p. 82.
364
C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 139, parentesi mia, e G. Marramao, Passaggio a Occidente,
cit., p. 215.
363
101
la concretizzazione/istituzionalizzazione dei valori. Pertanto, la definizione dello status concettuale
e pratico della giustizia, del diritto e dei diritti umani, si pone come uno dei primi e imprescindibili
compiti che ogni associazione umana deve soddisfare, senza però avere mai la pretesa di esaurire
poiché, sebbene la chiarificazione di dette questioni sia indispensabile perché si dia una pacifica
convivenza umana (dal momento che quei concetti sono depositari di universali e legittime esigenze
umane derivanti dalla basilare costituzione antropologica), non va però dimenticato come ogni loro
specifica definizione sia costantemente “precaria” (in quanto storicamente determinata).
Il tentativo di pervenire ad una definizione universalmente riconosciuta della giustizia e dei
diritti umani attraversa l’intera storia dell’umanità, al punto tale che la stessa può essere letta come
una costante lotta per l’affermazione di concezioni diverse, e non di rado antitetiche, dell’una e
degli altri, concezioni spesso considerate definitive da coloro che le professano, essendo esse
modellate sulla loro determinata visione della vita in società, e della vita tout court. Ma, come fa
notare Zagrebelsky, tale modo di procedere è sempre destinato al fallimento, in quanto: adotta come
posizioni iniziali degli assunti artificiosi e, spesso, immotivati; assoggetta a tali assunti ideali o
ideologici la giustizia ed i diritti umani, facendo sì che il loro contenuto sia determinato da quelli;
riduce la giustizia ed i diritti umani al mero risultato dell’applicazione di specifiche regole
procedurali e/o alla pedissequa conformità alla legge365. Per superare tale impasse, lo stesso
Zagrebelsky ipotizza che
Forse, l’origine del fallimento è nel carattere speculativo dei tentativi di comprendere la giustizia: speculativo,
sia nel senso di rispecchiamento intellettuale di qualche cosa che sta fuori di noi – ciò che è giusto – sia nel senso di
ragionamento che costruisce da sé i suoi oggetti – le idee di giustizia […] Forse possiamo dire che la giustizia è
un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione
alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva. Se non disponiamo di una formula
della giustizia che possa mettere tutti d’accordo, molto più facile è convenire – a meno che si abbia a che fare con
coscienze deviate – nel percepire l’ingiustizia insita nello sfruttamento, nella reificazione degli esseri umani da parte di
altri esseri umani366
Insomma, il modo migliore di comprendere la natura della giustizia sarebbe quello di partire
dall’osservazione dell’ingiustizia, poiché, se si tentasse di darne una definizione concettuale in
positivo trascurando l’esperienza dell’ingiustizia, si cadrebbe in quelle sopraesposte problematiche
che, sostanzialmente, dipendono dall’inconciliabilità di diverse prospettive, la cui diversità origina
però da una comune inconsapevolezza a proposito dell’argomento. Infatti, nel tentativo di darne una
definizione concettuale prescindente dalla conoscenza dell’ingiustizia «la giustizia rinuncia alla sua
autonomia e si perde negli ideali o nelle ideologie o nelle utopie»367. Ora, è possibile definire
concettualmente la (in)giustizia, nella maniera più universale possibile, senza per questo
assoggettarla ad ideali, ideologie o utopie? A mio parere, ciò risulta essere possibile ricorrendo alla
concezione della costituzione antropologica essenziale (descritta nel precedente paragrafo).
Cambiando la terminologia utilizzata da Veca, per il quale la giustizia deve essere una funzione mai
definitiva della giustezza368, si può affermare che, se si vuole evitare un catastrofico scollamento fra
il comune sentire umano e le regole che, di circostanza in circostanza, lo istituzionalizzano, la
giustizia (giustezza) deve rappresentare la fonte ispiratrice del diritto (giustizia), ovvero di un
insieme di norme per l’azione, proclamate, applicate e garantite da un’autorità, che non
365
«nell’identificazione della giustizia con la legalità c’è […] una forzatura: giungeremo a designare l’essere umano giusto come colui che sa solo
obbedire, esente da libertà e responsabilità: una negazione della dignità, questa, che può piacere soltanto agli “organizzatori sociali” di tutte le specie
politiche che […] possono solo creare formicai umani […] La voce della giustizia chiama invece sì all’osservanza della legge, ma sempre in nome di
ciò che supera la legge e di cui essa è espressione», G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in G. Zagrebelsky – C. M.
Martini, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003, p. 22.
366
Ibidem, pp. 15-16.
367
Ibidem, p.4; ricordiamo, a tale proposito, che già Platone definisce la giustizia a partire dal confronto con il suo opposto: «L’ingiustizia sorge
quando gli uguali sono trattai in modo ineguale, ed anche quando gli ineguali sono trattati in modo uguale», Le leggi, libro VI, 757.
368
Cfr. S. Veca, Emozioni e ragioni in una teoria della giustezza, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, cit.
102
necessariamente deve essere lo Stato (pensiamo, ad esempio, alle regole interne di una qualsiasi
associazione). Esiste tuttavia la problematica della reciproca influenza di giustizia e diritto, infatti,
nonostante dovrebbe essere un puro senso della prima a determinare il secondo, può però darsi il
caso in cui un ingiusto uso del secondo distorca la corretta percezione della prima, corretta
percezione che può invece essere garantita da un senso della giustizia e da una conseguente pratica
del diritto antropologicamente fondati, che non possono non riconoscere come diritti umani il
soddisfacimento delle basilari necessità biologiche ed emozionali dell’uomo, derivanti dalla sua
stessa struttura antropologica essenziale.
Ora, in una simile prospettiva, i diritti umani fondamentali sono da intendersi come una
modalità di minimizzazione delle sofferenze non desiderate e di massimizzazione delle possibilità di
soddisfazione; ma oltre ad individuarne tale funzione, è anche possibile offrirne una definizione?
Una risposta al quesito può ricavarsi da […] Ginsberg, il quale afferma chiaramente, in On Justice in Society,
che «non esistono… diritti naturali nel senso di diritti presociali, o diritti dell’uomo allo stato di natura» (nello stato di
natura vi sono necessità che, nello stato di diritto, si trasformano in diritti), ma precisa immediatamente che «esistono
però diritti naturali (ergo fondamentali) nel senso di ‘diritti razionalmente giustificabili’ (ed i diritti
antropologicamente fondati sono razionalmente giustificabili)»369
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, si pone come il moderno
manifesto di tali diritti, tuttavia, è necessario considerare che ogni atto umano, (anche quello che
volesse esprimere un’istanza universale come, per l’appunto, la Dichiarazione) è sempre
influenzato dal contesto storico-geografico in cui si svolge, al punto tale che
Nella considerazione dei diritti dell’uomo possiamo notare una persistente ambiguità e contraddittorietà. Da
una parte essi sono percepiti come assoluti, come esigenze imprescindibili, come valori irrinunciabili sotto ogni cielo e
in ogni tempo. Ma, dall’altra, non possiamo sottrarci alla constatazione che essi sono storicamente relativi. Hanno una
storia, una loro evoluzione e, in un certo senso, mutano. La lista dei diritti dell’uomo si è enormemente allungata e il
loro contenuto, dovendo fra l’altro far fronte a nuove situazioni storiche, è mutato370
Ora, a mio parere, la constatazione dell’ambiguità e della contraddittorietà della
Dichiarazione, con la quale si apre la precedente citazione, si supera nella considerazione che la
Dichiarazione è al tempo stesso universale, moderna ed occidentale: essa è universale per lo spirito
che la anima, moderna ed occidentale per l’humus che la genera; si potrebbe dire, universale nei
principi, moderna ed occidentale nelle prescrizioni. Conseguentemente, una Dichiarazione che
vuole essere universale non si può mai considerare definitiva, sia perché se la si considerasse
conclusa oggi, il mondo moderno-occidentale che l’ha partorita peccherebbe di arroganza e
presunzione nei confronti di quelle realtà storico-geografiche che non hanno contribuito alla sua
stesura, sia perché, anche qualora alla sua elaborazione partecipassero tutte le realtà storicogeografiche esistenti (ipotesi, forse, nel suo versante geografico non del tutto irrealizzabile nell’era
della globalizzazione e del cosmopolitismo), essa rappresenterebbe la visione che, dei diritti umani,
avrebbe l’umanità in un dato momento storico, visione, pertanto, mutabile nel futuro.
Ora, con tale ragionamento, è forse opportuno ribadirlo, non si vuole disconoscere
l’esistenza di universali esigenze umane (al contrario, esse esistono e sono antropologicamente
fondate), bensì, affermare che a tali esigenze universali, corrispondono modalità particolari di
369
V. Ferrari, Presentazione, in M. Ginsberg, La giustizia nella società, Giuffrè, Milano 1981, p. XXXVIII, parentesi mie; cfr., sui valori
antropologici originanti i diritti umani, F. Viola, Antropologia dei diritti dell’uomo, in «Nuove Autonomie», n. 2, 1995.
370
F. Viola, Diritti dell’uomo, diritto naturale, etica contemporanea, Giappichelli, Torino 1989, p. 157; è enorme la letteratura relativa ai diritti
umani, per un’introduzione filosofica (e giuridica) cfr. AA. VV., Human Rights in the World, Pennsylvenia University Press, Philadelphia 1992, F.
Viola, Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000, G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Laterza, Bari
2002, C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2002, B. Nascimbene, L’individuo e la tutela internazionale dei
diritti umani, in AA. VV., Istituzioni di diritto internazionale, Giuffrè, Milano 2002, e I. Adinolfi (cura), Diritti umani, Città Nuova, Roma 2004.
103
soddisfacimento: i diritti umani; ecco perché «la tutela di tali diritti […] significa soddisfacimento
dei bisogni primari»371; tutela che oggi deve manifestarsi non tanto attraverso una loro elaborazione
e/o revisione (processi, questi, già ampliamente presenti), bensì tramite la loro applicazione, infatti
Il problema di fondo relativo ai diritti umani è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di
proteggerli. E’ un problema non filosofico, ma politico: non si tratta di sapere quali e quanti siano questi diritti, quale
sia la loro natura e il loro fondamento, se siano diritti naturali o storici, assoluti o relativi, ma quale sia il modo per
garantirli, per impedire che nonostante le dichiarazioni solenni vengano continuamente violati372
Così, se è vero che oggi il problema cruciale dei diritti umani non è quello filosofico della
loro fondazione, bensì quello politico della loro attuazione, è altrettanto vero che quest’ultimo
problema (che sorge nell’istante in cui i diritti umani vengono filosoficamente fondati), si manifesta
correntemente con una modalità diversa rispetto al Novecento, nel quale la violazione dei diritti
umani era legata a doppio filo alla categoria della cittadinanza ed al fenomeno dell’apolidismo
(come la Arendt ha ampliamente mostrato373). Difatti, annodando i diritti umani alla categoria di
cittadinanza, essi vengono a coincidere con i diritti elargiti dallo Stato, come i diritti civili (tutelanti
l’esistenza di ciascun singolo individuo), i diritti sociali (tutelanti l’esistenza dei gruppi etnicoculturali) ed i diritti politici (tutelanti la libertà d’azione individuale e collettiva), cosicché, non
appartenendo ad uno Stato si è privi di qualsiasi diritto; attualmente invece, i diritti umani sono
scissi dall’appartenenza statale, potendo così essere riconosciuti anche a chi è privo di una
cittadinanza nazionale (in nome di quella che, sempre di più, viene chiamata cittadinanza globale),
in altre parole, essi vengono odiernamente considerati diritti conferiti «all’uomo senza altra
specificazione, senza frontiere e senza confini, senza ulteriori definizioni sociali»374. Ma allora, se
non è più la privazione della categoria della cittadinanza (con il relativo fenomeno dell’apolidismo)
il vettore attraverso il quale si perpetra oggi la violazione dei diritti umani, rimane da pensare che il
motore di tale violazione risieda nella mancata comprensione del fatto che
C’e una relazione tra i diritti umani e i bisogni umani […] (che) L’idea di “bisogni fondamentali” è costruita
intorno a questo: dal lato opposto della loro soddisfazione c’è la sofferenza (che) “Avere un diritto” significa innanzi
tutto che c’è un aspetto dell’essere umano che deve in qualche modo essere rispettato e tutelato nello svolgimento della
vita sociale e politica375
Concludendo, l’intento del presente lavoro è stato non solo quello di voler richiamare
l’attenzione del lettore sulle più urgenti questioni etico-politiche, necessitanti pertanto di un
chiarimento propedeutico ad una loro soluzione, quanto piuttosto quello di voler inquadrare tali
questioni attraverso una determinata prospettiva, quella della costituzione antropologica essenziale,
che trova proprio nella sua elementarità e semplicità, la sua universalità, necessitante però, di
contesto in contesto (e perfino di uomo in uomo), di trovare specifiche forme di applicazione.
371
G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma 2001, p. 165
N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2006, p. 16.
373
Cfr. il Cap. I del presente lavoro.
374
A. Touraine, Critica della modernità, il Saggiatore, Milano 1993, p. 376.
375
J. Galtung, Lo stato nazionale e la cittadinanza: e la cittadinanza globale?, in AA. VV., Educare alla pace, Esperia, Milano 1998, p. 290, e F.
Viola, Il carattere morale della pratica sociale dei diritti, in Etica e metaetica dei diritti umani, cit., p. 97, parentesi mie.
372
104
Bibliografia ragionata
Per analizzare il fenomeno del totalitarismo è, preliminarmente, necessario darne
un’articolata definizione, poggiante sullo svolgimento delle seguenti tematiche: investigare le
origini storico-filosofiche del fenomeno e le condizioni che ne favoriscono l’insorgere; distinguere
tra una forma materiale (basata su istituzioni concrete) ed una forma psicologica (basata
sull’indottrinamento delle coscienze) di manifestazione del fenomeno; cercare di stabilire dei
parametri tramite i quali poterne riconoscere la presenza. In questa sede si è cercato un approccio
pluridisciplinare alla tematica, utilizzando contributi derivanti dalle scienze politiche, dalla
sociologia e, soprattutto, dalla filosofia (in tale versante risultano illuminanti le ricerche arendtiane
e della prima Scuola di Francoforte).
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democrazia, ma, per non fare di questa una mera etichetta priva di un effettivo contenuto
democratico, è indispensabile investigarne il significato teorico e le forme d’attuazione pratica. I
seguenti testi offrono un excursus sulle più significative proposte filosofico-politiche di
superamento della problematica totalitaria e di genesi di una società autenticamente democratica.
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valoriali ed istituzionali; in tale processo l’etica può porsi come la “bussola” della politica,
svolgendo così la sua insostituibile funzione pubblica. Non a caso, le più recenti argomentazioni in
tal senso, si muovono, allo stesso tempo, nella dimensione dell’etica ed in quella della politica: dal
movimento di riabilitazione della filosofia pratica alla disputa tra liberalismo e comunitarismo,
rispetto alla quale il neocontrattualismo sembra poter fungere da strumento di mediazione, dal
movimento dell’etica della (co)responsabilità a quello dell’apertura all’alterità.
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Grazie alla comprensione della costituzione antropologica basilare (pertanto universale), è
possibile passare da una prospettiva filogenetica ad una ontogenetica, attraverso la quale inquadrare
i processi di modernizzazione (in particolar modo quindi, quello principale della globalizzazione),
nei quali sono insite molteplici tematiche di carattere etico, politico e giuridico, dalla prospettiva
antropologica di un uomo che, immerso in una società globalizzata e multiculturale, è portato a
116
riflettere sulla questione della propria e dell’altrui identità, ovvero, del rapporto con l’altro in un
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– Macht und Gegenmacht im Globalen Zeitalter, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2002.
– The Terrorist Threat: World Risk Society Revisited, in «Theory Culture and Society», n. 4, 2002.
– Towards a New Critical Theory with Cosmopolitan Intent, in «Constellations», n. 4, 2003.
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– “Le nuove forme del potere”. Intervista al filosofo Federico Sollazzo, (video) in «Liberi.tv»,
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– Pasolini e la “mutazione antropologica”, in E. Pîrvu (cura), Discorso, identità e cultura nella
lingua e nella letteratura italiana. Atti del Convegno Internazionale di Studi di Craiova, 21-22
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– Potere disciplinante e libertà controllata. Esiti morali della moderna configurazione del potere,
in «Lo Sguardo», n. 13, 2013.
– Quando una crisi non è un'opportunità: la coincidenza con ciò che si vorrebbe superare,
in «LiberaParola», 27/05/2014.
– “Teologia Politica”. Intervista al filosofo Federico Sollazzo, di Giancarlo Calciolari, (video) in
«Liberi.tv», 21/09/2012.
– Through Sartre and Marcuse: For a Realistic Utopia, in «Analele Universităţii din Craiova,
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L’autore
Federico Sollazzo è attualmente ricercatore post-dottorato e docente di Filosofia Morale e Filosofia
Politica presso l’Università di Szeged, dove tiene i suoi corsi in lingua inglese. Ha conseguito la
Laurea in Filosofia (2003), summa cum laude, presso l’Università Roma Tre con una Tesi dal titolo:
La concezione marxiana del lavoro alienato e il libero gioco delle facoltà umane in Marcuse, ed il
Ph.D. in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane (2007), presso la medesima Università con una
Tesi dal titolo: Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell’etica. Ha pubblicato
numerosi saggi e articoli accademici su riviste scientifiche italiane ed estere, tra cui: “Analele
Universităţii din Craiova, Seria: Filosofie”, “Cogito”, “Critica liberale”, “Lessico di Etica
Pubblica”, “Lo Sguardo”, “Nordicum-Mediterraneum”, “Observaciones Filosóficas”, “Orizzonti
culturali italo-romeni”, “Studi pasoliniani”, scrivendo su autori e temi del pensiero moderno, tra cui:
H. Arendt, N. Bobbio, A. Camus, J. Habermas, N. Machiavelli, H. Marcuse, P.P. Pasolini, J.-P.
Sartre, il concetto di potere nella modernità, la cultura di massa, la società industriale avanzata, la
razionalità strumentale. È autore del volume: Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, Roma,
2011. È ideatore e curatore del sito web “CriticaMente”: http://costruttiva-mente.blogspot.com
122
Collana Pratica filosofica
M. G. Farina, Ho messo le ali
Collana Maree
G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costume degl’italiani
I. Svevo, Racconti
A. Von Chamisso, Storia meravigliosa di peter Schlemihl
J. Roth, Giobbe
C. Dossi, La colonia felice
F. Tozzi, Con gli occhi chiusi
S. Slataper, Il mio Carso
Collana Growth Path
V. Mascherpa, Managing Zen
V. Mascherpa, Il potere della vision
A. Ceriani, Lo specchio magico
A. Ceriani, L’agire formativo
D. Rycken, L. Salganick, Abitare il futuro
Collana Viaggi e viaggiatori
L. Barzini, L’Argentina vista come è
A. Pigafetta, Relazione del primo viagio intorno al mondo
J. Verne, I viaggi di Marco Polo
G. Faldella, Un viaggio a Roma senza vedere il papa
Collana UnConventional Training
F. Varanini, Romanzi per i manager
A. Upadhyay, Right of Centre
A. Ceriani, Gamification
A. Ceriani, Action Learning Power
E. Poltronieri, S. Motta, Cantieri Creativi
P. Reggio, El cuarto saber
Collana Sentieri di critica
Adriano Piacentini, Tra il cristallo e la fiamma
Kathrin Beck, Erotica. Le posizioni dell’amore nella Bibbia
Gianfranco Freguglia, Il lupo e cappuccetto rosso. Passeggiate nel bosco di Stephen King
Gianfranco Freguglia, La morale della favola. Bene e male in Stephen King
123