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La guerra Afghana 2001-2021

2021, Alternative per il socialismo N° 62

Il 31 agosto 2021 è ufficialmente terminata la guerra afghana americana, la più lunga costosa ed inutile delle guerre. Guerra afghano americana per distinguerla dalle guerre afghano-inglese, afghano russe e civile che hanno insanguinato e immiserito il paese per oltre un secolo e mezzo. Inutile, ma non per tutti. Non per quelli che hanno spremuto 2000 miliardi di dollari da un paese che – di suo- aveva un PIL di 4 miliardi, salito a 20 nel periodo dell’effimero pompaggio degli aiuti occidentali, anche includendo quella parte di PIL, dal 15 al 20 % del totale, prodotta dall’esportazione di eroina. La guerra sarà presto dimenticata da chi non l’ha vissuta e svaniranno nella nebbia le pur vaghe motivazioni delle sue cause e dei suoi obiettivi. Si confonderà la nozione stessa di chi ha vinto e chi ha perso. Anche solo per mantenere questa memoria è necessario riavvolgere il nastro degli avvenimenti, cominciando dalla baraonda che ha accompagnato il tragico ritiro delle truppe americane e dei loro alleati dall’aeroporto di Kabul.

A proposito di Afghanistan Una scelta di pace da incoraggiare Il 31 agosto è ufficialmente terminata la guerra afghana americana, la più lunga costosa ed inutile delle guerre. Guerra afghano americana per distinguerla dalle guerre afghano-inglese, afghano russe e civile che hanno insanguinato e immiserito il paese per oltre un secolo e mezzo. Inutile, ma non per tutti. Non per quelli che hanno spremuto 2000 miliardi di dollari da un paese che – di suo- aveva un PIL di 4 miliardi, salito a 20 nel periodo dell’effimero pompaggio degli aiuti occidentali, anche includendo quella parte di PIL, dal 15 al 20 % del totale, prodotta dall’esportazione di eroina. La guerra sarà presto dimenticata da chi non l’ha vissuta e svaniranno nella nebbia le pur vaghe motivazioni delle sue cause e dei suoi obiettivi. Si confonderà la nozione stessa di chi ha vinto e chi ha perso. Anche solo per mantenere questa memoria è necessario riavvolgere il nastro degli avvenimenti, cominciando dalla baraonda che ha accompagnato il tragico ritiro delle truppe americane e dei loro alleati dall’aeroporto di Kabul. La stampa occidentale, pressoché unanime si aspettava quella baraonda e la prevedeva anche peggiore di quella che è stata, ma la supponeva collocata dall’altra parte, prevedendo che i vincitori si sarebbero azzuffati tra di loro e temendo o forse augurandosi che si scatenassero in sanguinose rappresaglie e vendette indiscriminate che invece non ci furono. O che per lo meno non ci furono in quel momento. A dispetto di contorcimenti e ipocrisie della stampa occidentale, dei governi e della stessa opinione pubblica, risulta chiaro che gli afghani hanno preferito la pace alla guerra. E per uscire dalla guerra non hanno scelto il peloso aiuto degli occidentali, che comunque non facevano che peggiorare le cose. Gli occidentali, insoddisfatti del risultato di venti anni di guerra hanno risposto mettendo in campo il Tribunale Internazionale dell'Aja, la Banca mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e le Nazioni Unite, con in subordine la Croce Rossa e l'UNHCR. Per vendicarsi anzitutto della mancanza di rispetto del popolo afghano che alle loro truppe ben vestite e calzate e alle loro ipocrisie ha preferito delle bande di straccioni barbuti e in ciabatte. Nello stesso tempo, per mantenere vivo il sacro fuoco dell'ipocrisia, invocano giustizia per le donne afghane e libertà per i profughi innocenti e minacciati. Percossi e attoniti di fronte alla disordinata fuga americana dall’Afghanistan, pochi hanno fatto lo sforzo di spiegare razionalmente l’accaduto. E cioè perché un’organizzazione altamente professionale ed esperta fosse arrivata a commettere errori di logistica, di organizzazione e di tattica che gli esperti definiscono banali e che gli stessi comandanti delle truppe alleate, interpellati dai rispettivi giornali nazionali, riferivano con sgomento, senza riuscire a spiegarli. Eppure c’era il precedente vietnamita paventato ed esorcizzato, ma puntualmente ripetuto, semmai in versione extralarge. Il tracollo repentino e inaspettato dell’alleato afghano, tanto esaltato prima quanto vilipeso poi, non può spiegare tutto, anche perché la sua reale situazione ignota al pubblico e ignorata dai giornalisti, non poteva essere sfuggita in maniera così clamorosa all’intelligence americana. Che l’esercito afghano esistesse solo sui fogli paga era talmente chiaro che gli occupanti avevano allestito un sofisticato incrocio di dati, parte della più generale schedatura di tutti gli afghani, proprio per scovare gli imbrogli più madornali. All’attenzione del mondo avrebbero dovuto esserci notizie di massacri vendette e crudeltà e invece sulla scena sono rimasti i vent’anni di guerra americana e la loro sconfitta: le cose sono andate storte, non c’è stato neanche un presidente impiccato come era stato con Najibullah, il presidente della Repubblica Democratico Pplare dell’Afghanistan quando i talebani gli avevano messo le mani addosso, nel 1996. Anche le affermazioni di Biden, che sarebbero passate inosservate o forse persino accettabili in una situazione bellica, sono parse stonate e persino ridicole. La fuga Nel corso delle interminabili trattative di Doha gli americani avevano finito per credere di potersene andare dall’Afghanistan indisturbati, insalutati ospiti, secondo quel modello impareggiabile che era stata l’uscita di scena degli inglesi dall’India nel 1947. Perché non avrebbe dovuto andare così anche in Afghanistan? E invece ancora una volta gli Afghani si sono dimostrati tatticamente, militarmente e diplomaticamente superiori agli avversari persino rispettando la loro parte di impegni. Americani e alleati hanno fatto tutto da soli senza farsi mancare niente: né una ritirata disastrosamente caotica, né l’abbandono dei propri, né l’incapacità di controllare anche solo il perimetro dell’imbuto in cui si erano concentrate le vie di fuga, né la vendetta cieca e casuale che dopo l’attentato dell’ISIS Khorasan ha fatto l’ennesima strage di bambini innocenti, figli per di più di un loro collaboratore: seguito, identificato e sterminato con la sua famiglia da un manovratore di droni intelligenti. Con tante scuse per l’equivoco. L’operazione ritiro è fallita in maniera catastrofica non perché i comandanti americani fossero distratti o incompetenti; neanche perché avessero sopravvalutato la capacità di resistenza dell’esercito afghano, ma più semplicemente perché è fallito il piano di filarsela all’inglese, alla chetichella. Il riferimento agli inglesi non è solo lessicale perché è proprio così che fecero gli inglesi quando se ne andarono dall’India il 15 agosto 1947 e furono proclamati i due stati indipendenti di India e Pakistan. Avevano seminato faziosità e odio fino all’ultimo tra la comunità Hindù e quella musulmana e accesero la miccia degli scontri interetnici che fecero un milione di morti e quattordici milioni di sfollati. Questo incendio intenzionalmente appiccato permise alle loro truppe di ritirarsi senza dare troppo nell’occhio, senza che i riflettori della stampa si accendessero su di loro, la ritirata restando un episodio tutto sommato marginale nell’immane tragedia. Se ne andarono senza quella pompa che avevano ostentato nei tre secoli di occupazione, volendo far credere che se ne andavano spontaneamente, per saggezza politica, avendo capito in che verso si moveva la storia. Così avrebbero fare anche gli americani dopo vent’anni di occupazione e di guerra in Afghanistan, ma l’operazione poteva conservare il basso profilo per cui era stata pensata solo a condizione che tutti gli occhi, non tanto degli afghani quanto della stampa e degli osservatori internazionali fossero puntati su un paese che andava a fuoco. Tale condizione essendo venuta a mancare è rimasta l’impressione dell’attore mediocre che vorrebbe uscire di scena di soppiatto mentre tutti gli occhi sono puntati sui fuochi d’artificio o su qualche altra diavoleria. Ma i fuochi non ci sono stati e sulla scena è rimasta solo una figura patetica che esce di soppiatto senza riuscirci; e la scena, da ridicola si è trasformata in tragica. Si scambia un’errata valutazione politica per errore tecnico o di intelligence ed è questa la vera battaglia finale politica e diplomatica che i talebani vinsero, in ossequio alla sempre valida osservazione di Sun Tzu che il più grande dei generali è quello che vince senza combattere. Narrazioni ipocrite e partigiane Dopo la caotica e umiliante ritirata - qualcuno ha detto prosaicamente che se l’erano data a gambe – la stampa occidentale ha seguito sostanzialmente due argomenti, con voce univoca se non per qualche variazione di accenti. In un primo tempo la situazione stessa imponeva che si parlasse delle promesse fatte e non mantenute a tutti i collaboratori delle forze d’occupazione, per quanto fossero state stilate da tempo liste di priorità (A, B, C). Né si sa delle famose liste quale sia stata la percentuale di salvati e quella di abbandonati, se pure vogliamo usare questi termini impropri. Subito dopo però il problema è stato ribaltato e non è stato più l’incapacità degli occidentali a provvedere ai propri collaboratori, ma la riluttanza dei talebani a riconoscere quello come il problema della massima urgenza. E si può anche capirli, visto che la responsabilità di un paese di 38 milioni di affamati ricadeva interamente sulla spalle di un governo che gli occidentali si rifiutavano di riconoscere e a cui avevano sequestrato tutti i fondi che il precedente governo aveva depositato presso la Banca Mondiale e che risultavano indebitamente trattenuti dalla Federal Reserve in attesa di un qualche Guaidò di comodo cui poterli consegnare. Ma non è solo da questa infelice diatriba che si vede la coda di paglia egli occidentali quando trattano il problema dei profughi. Chi sono gli afghani da soccorrere e da salvare? Sono le migliaia di giovani che arrivano in Turchia e alle frontiere europee spinti dalla miseria e dalla disperazione? Quelli che vengono sistematicamente respinti, imprigionati, bastonati, umiliati e rinviati al loro paese? Per la stampa occidentale gli afghani da soccorrere e da salvare sono i collaboratori delle truppe d’occupazione. Tra di essi ci sono sicuramente delle brave persone che si sono limitate a fare da interpreti, da autisti o da impiegati. Ma alle spalle ci sono anche venti anni di guerra sporca e dunque di delazioni, torture, interrogatori rafforzati, rapimenti, renditions, impiccagioni stupri rappresaglie, Guantanamo: in altre parole crimini di guerra e crimini contro l’umanità che accompagnano ogni guerra di questo genere e questa più delle altre. Crimini per i quali il tribunale Internazionale dell’Aja sostiene di avere raccolto molte prove schiaccianti. E qualcuno deve pure averli commessi questi crimini, o afghani o alleati, e nessun governo affiderebbe ai complici e mandati dei criminali il diritto insindacabile di decidere della loro sorte, nella totale indifferenza per le vittime. Se c’è un argomento rispetto al quale i falchi americani e cosmopoliti avrebbero avuto gioco facile è quello delle centinaia di migliaia di collaboratori e aperti sostenitori che gli americani hanno abbandonato nelle mani del nemico. Potrebbero usare gli argomenti abituali del loro repertorio retorico come l’onore, la lealtà, la parola data, la riconoscenza: ma stranamente non affondano il coltello. Certo, finanzieranno volentieri un film su qualche Rambo che corre in Afghanistan per strappare l’amico afghano dalle grinfie dei talebani, dopo averne uccisi qualche migliaio mandando in visibilio le platee dei fascisti bianchi. Ma prendersi in casa 2-300.000 musulmani à un’altra faccenda; e non solo perché per loro vale il detto che il solo musulmano buono è quello morto, ma anche perché questi musulmani non sono esattamente raccomandabili, per più motivi. In Afghanistan ci sono stati venti anni di guerra civile, che è guerra sporca per eccellenza e qualcuno si deve pur essere occupato di arresti, torture detenzioni illegali, delazioni e stupri. Il regime, come ammettono gli stessi americani era super corrotto; e qualcuno deve pure avere rubato, nascosto venduto, magari con la complicità degli americani stessi. Si dirà che è tutta gente che ha interesse a tacere, ma impareranno presto che la legge statunitense può essere benevola verso chi denuncia i complici e addirittura i mandanti; del resto i profughi per il resto hanno poco da aspettarsi dalla gente e dalle autorità. Saranno presto delusi, sconfortati, amareggiati e arrabbiati. Del resto in casi del genere gli esempi di una sorta di rivolta individuale non mancano. Se ne accorsero i francesi, quando diedero la nazionalità agli Harki che avevano combattuto con loro nella guerra d’Algeria e i cui problemi e la cui insoddisfazione non si sono esauriti con la prima generazione, ma continuano con la seconda e con la terza. E se ricordano bene gli stessi americani di quanto pesi la sindrome della guerra persa che, ai tempi del Vietnam fece sì che nello spazio di dieci anni dal rimpatrio la metà dei cinque milioni di ex combattenti americani era finita in galera per reati comuni e comportamenti antisociali; e oltre centomila reduci si suicidarono: il doppio dei caduti sul campo. Finché resteranno in Afghanistan l’amico afghano potrà dire ciò che vuole e denunciare chi gli pare, ma sarà facile liquidare tutto come propaganda talebana. La cosa cambierebbe aspetto e peso se le stesse dichiarazioni venissero fatte in America alla stampa americana. Afghani da salvare Una guerra civile finisce per opporre le classi sociali e per estendersi quindi sul terreno della lotta di classe. In questo caso, da dove sarebbe nata, o meglio, dove sarebbe stata radicata la fazione che oggi si dichiara incondizionatamente e nostalgicamente a favore dell’Occidente? Possiamo presumere che avere fatto filtrare in vent’anni la somma enorme di duemila miliardi di dollari attraverso le strutture di un paese che produceva, al massimo della sua espansione, un PIL di sedici/venti miliardi di dollari, abbia fatto nascere non certo una borghesia produttiva ma un esercito di traduttori, interpreti, impiegati a vario titolo, autisti, servitori e commessi di ogni genere, oltre naturalmente alla pletora di speculatori, borsaneristi e mezzani che accompagna tutte le avventure politiche di questo genere. Ma questa non è una classe sociale e neanche un ceto, ma solo la ricaduta sociale di una situazione anomala, di un paese inopinatamente sommerso, per ragioni esterne da una valanga di soldi. Si chiude il rubinetto e da un momento all’altro tutta quella gente non ha più niente da dire, né interessi da difendere. E tuttavia il salvataggio urgente di questi afghani per i quali si sono richiesti ponti aerei e corridoi umanitari ha fatto passare in seconda linea tutti quegli afghani che sbrigativamente si potrebbero chiamare migranti economici e che sono vittime in quanto tali della guerra ventennale, ma che possono anche essere possibili bersaglio di vendette trasversali o di rappresaglie indiscriminate di cui purtroppo gli occidentali non hanno l’esclusiva. Per questi profughi minori non c’è pietà e non c’è interesse. Per loro si alzano i muri di Erdogan e quelli della Grecia, il loro destino è di raggiungere i loro compatrioti sotto i fili spinati e prendere le bastonate di serbi, ungheresi e sloveni. Ancor meno parole si spendono per i milioni di Afghani che premono alle frontiere del loro paese dopo essere fuggiti in Iran e in Pakistan a causa dei bombardamenti, dei vari programmi di search & destroy e delle implacabili mine. Adesso vorrebbero rientrare, e sono quasi cinque milioni di persone. A volte fuggite da decenni, in molti casi nate e vissute nei campi rifugiati. Per loro non c’è programma di rientro, né si prevedono corridoi umanitari anche perché gli occidentali vogliono evitare trattative col governo afghano legittimato dalla vittoria. Sono disposti a versare montagne di quattrini a Erdogan perché trattenga i profughi, ma non sono disposti a parlare con i talebani perché li riaccolgano a casa loro, anche se sarebbe nell’interesse di tutti. La guerra imperialista ha tentato di portare nel paese la guerra civile – non ad altro miravano i due documenti americani del 2006 e del 2007, ma per farlo doveva almeno di cercare di conquistare “il cuore e la mente” di una parte della popolazione, per riprendere un vecchio slogan della guerra vietnamita. Anche lì i risultati furono scarsi e scarsissimi sono stati in Afghanistan. Qui come là la conquista di cuori e menti si riduceva a elargizioni di soldi, niente più di questo I soldi possono aumentare il numero dei collaborazionisti o dei collaboratori, se il termine collaborazionista dovesse sembrare poco riguardoso. Un mondo di Steinbeck In una guerra sporca durata vent’anni ci sono quelli che quella guerra l’hanno fatta giorno per giorno. Ci sono state prigioni, delazioni, torture, illegalità prepotenze, massacri indiscriminati, ogni tipo di violenze e abbiamo già detto che ci sono ovviamente tanti che a quelle responsabilità si vorrebbero sottrarre e che gli occidentali vorrebbero far passare per profughi, dopo avergli già assicurato l’immunità attraverso i buoni uffici del Tribunale dell’Aja. Ma la questione ha un altro risvolto sul quale l’opinione pubblica occidentale avrebbe diritto di dire la sua anche perché la tocca direttamente. La stampa occidentale in Afghanistan si è comportata come uno Steinbeck redivivo moltiplicato per mille. Durante la guerra del Vietnam, mentre sfuggivano al controllo del governo americano i Pentagon papers, mentre cadevano milioni di tonnellate di bombe, mentre andava a fuoco un intero paese, mentre il tribunale Russell rendeva pubbliche ogni sorta di testimonianze sul napalm, sulle prigioni, sulle torture, sui crimini di guerra, sul trattamento dei prigionieri, mentre si sperimentavano armi chimiche di ogni genere sulla carne umana, sugli animali, sui campi e sulle foreste, c’era un prototipo di giornalista embedded che non si accorgeva di nulla. Era famoso e capace e aveva ricevuto il premio Nobel ma fu capace di descrivere un Vietnam di truppe liberatrici accolte con gioia e simpatia, di gesti coraggiosi ed eroici, di fraternità e di devota riconoscenza. Senza droga, senza puttane, senza napalm, senza diossina, senza defolianti. Senza corruzione, senza milioni di tonnellate di bombe, senza autolesionismi e senza gli oltre centomila suicidi tra i reduci american. Un Vietnam idilliaco ad uso dei berretti verdi che lui trasferì nei pietosamente ignorati Dispatches from the War. Non si avvide dei villaggi fortificati in cui s’imprigionavano centinaia di miglia di contadini impedendogli di fare il loro lavoro, né della quotidiana conta dei morti - il body count, ossia la conta dei cadaveri per cui ogni cadavere era un vietcong e più ne contavi più la guerra stava andando bene -, fossero anche bambini di pochi anni, donne e vecchi. Una cosa del genere, una sorta di accecamento generale è capita in Afghanistan dove per decenni giornalisti bravi e competenti e senz’altro consapevoli hanno taciuto perché non è neppure pensabile che come Steinbeck non si fossero accorti di niente. Adesso il Tribunale dell’Aja ci comunica prima di amnistiarli tutti gli americani e i loro alleati si sono resi responsabili di crimini di guerra e ci assicura che ce ne sono le prove. Se fosse imperizia sarebbe grave, ma non così grave. Se fosse condivisione dei metodi e convinta complicità con azioni criminali sarebbe grave, ma non così grave. In fin dei conti i fascisti a questo mondo esistono e forse un giorno faranno i conti con la loro coscienza o con qualcos’altro che il destino gli riserverà. Ma la cosa e più grave ancora perché non è pensabile che le centinaia o migliaia di giornalisti occidentali che hanno seguito la vicenda afghana siano una massa di fascisti o che siano una massa di venduti. Pensiamo anzi il contrario, che nella grande maggioranza siano democratici e progressisti, ma allora come hanno fatto a non accorgersi di niente? Perché credevano più o meno tutti, che l’Occidente stesse facendo il proprio dovere con le inevitabili sviste stupidità ed errori, come in ogni guerra. E che andasse perdonato in nome dei valori superiori di cui era portatore. Questo è ancora più grave e richiede qualcosa di più di un esame di coscienza- Spiegazione e interpretazione dei fatti a seconda dei punti di vista. Destra + Biden. E’ stato fatto tutto bene. Forse bisognava picchiare più duro. La sinistra democratica è maggiormente in imbarazzo, perché ha rinunciato alle categorie che avevano caratterizzato il suo racconto sul Vietnam. Un discorso di pace e di ricostruzione non può partire da un discrimine così insolente come quello operato dal Tribunale Internazionale dell’Aja. Richiede un programma di ricostruzione e di rientro nel paese. Un programma di salvaguardia per i collaborazionisti. Un risarcimento quanto meno monetario per tutte le vittime della guerra e la persecuzione in giustizia dei crimini di guerra. Un programma nazionale di sminamento e di rilancio dell’agricoltura e dell’artigianato, sostenti da investimenti sufficienti. Chi taglia i salari alle donne afghane? Si chiamano Clinics e i giornali italiani hanno tradotto con cliniche, ma sono poveri ambulatori, baracche o tende, dove si somministra il poco che esiste di la sanità afghana sul territorio e nei campi di rifugiati. Servono in media da venti a trentamila persone ciascuno– molti di più nei campi di rifugiati- e si occupano di tutto, dalle emergenze chirurgiche alle gravidanze difficili alla prevenzione e cura della tubercolosi, delle diarree infantili e della tbc, ed era il lavoro cui sovraintendeva chi scrive; e oggi naturalmente anche del COVID. Lo fanno con risorse che in genere non vanno oltre un armadietto di farmaci elementari, quando pure ce ne siano. Ci lavorano 20000 persone di cui settemila sono donne, ma al governo talebano sono stati tagliati i fondi della Croce Rossa per pagarle. La Croce Rossa chiede all'ONU di sbloccare urgentemente i 38 milioni necessari per pagarli. Il segretario del Norwegian Refugee Council ha sollecitato il segretario dell'ONU Gutierres e David Millpass, segretario della Banca mondiale, perché sblocchino la situazione finanziaria. Il primo, perché il trust fond dell'ONU riprenda i pagamenti dei salari pubblici, il secondo perché provveda ai relativi fondi scongelando quelli ora congelati presso la Banca Mondiale stessa e custoditi materialmente dalla Federal Reserve di New York Si consideri che oltre 9 miliardi di dollari del Governo Afghano sono bloccati all'estero e insieme al loro congelamento, per non dire sequestro, c'è stato quello dei prestiti da parte della banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Il governo Talebano per ora deve contentarsi di trenta milioni di dollari offerti dalla Cina e del primo carico di aiuti cinesi arrivato il 28 settembre a Kabul. Bibliografia. Barnett Rubin. The fragmentation of the Afghanistan. Yale Un. Press, 2002 Definizione della guerra afghana Come vogliamo definirla questa guerra? Guerra di liberazione? Guerra civile? Guerra imperialista? Guerra d’aggressione? E ancora: guerra di liberazione dagli oppressori talebani o guerra di liberazione dagli invasori stranieri? La definizione di guerra civile si va facendo strada, come la più comoda per gli sconfitti, ma lascia perplessi alla luce del suo svolgimento e della sua conclusione. Tra le forze in campo, assai più che nel caso della precedente guerra sovietico afghana, si è vista una colossale sproporzione di uomini, mezzi, armamenti, risorse finanziarie, appoggio internazionale e sostegno militare straniero; eppure le forze superiori sono state annichilite e già questo mette seriamente in dubbio la semplice ipotesi che si sia trattato di una guerra civile. Dopo che è finita - e non esistono dubbi che effettivamente lo sia - dopo aver parlato unanimemente di sconfitta, di disastro e di crollo, la stampa occidentale per settimane ha riempito le sua cronache di voci dall’Afghanistan. Resoconti univoci che ci parlavano di persone impaurite che rimpiangevano la presenza straniera, che pensavano solo a fuggire, che chiedevano aiuto per poterlo fare. E non c’è motivo per dubitare della veridicità di quelle testimonianze, di quei servizi. Tuttavia, se questa grande maggioranza di afghani, per non dire totalità, che parlavano con un’unica voce, era così saldamente schierata dalla parte occidentale, dove erano tutti quanti solo poche settimane prima? Quando erano sicuramente in grado di opporre ai temuti nemici uno degli eserciti meglio armati ed equipaggiati del mondo, dotato di risorse illimitate, appoggiato da ancor più armate e combattive forze straniere e praticamente da tutti gli stati del mondo? Dov’erano tutti quanti quando il loro esercito, che non era fatto di fantasmi ma di uomini e donne, verosimilmente i loro fratelli, figli, padri, cugini si scioglieva senza combattere nello spazio di un mattino? Come hanno fatto i talebani, inferiori di numero, di mezzi e di risorse, appoggiati in maniera ambigua dal solo Pakistan e in maniera più che ambigua dall’Iran a sconfiggerlo e a farlo semplicemente sparire? Questa domanda non trova risposta né spazio sui giornali occidentali perché in questa narrazione univoca c’è più di un conto che non torna. Si può anche sostenere, se si vuole, che il male ha sconfitto il bene, ma non si può sostenere che si sia trattato di una guerra civile che presuppone, anche senza voler distribuire torti e ragioni, che ci sia una parte consistente della popolazione schierata contro un’altra parte consistente della stessa popolazione e una parte residuale nel mezzo tra le due. Guerra civile fu quella spagnola del 36-39, che fu anche guerra di classe e guerra antifascista. La Spagna aveva all’epoca una popolazione equivalente all’attuale popolazione afghana e un territorio ugualmente impraticabile; e probabilmente le analogie non vanno molto oltre. Ma se alla guerra civile sostituiamo i termini di guerra d’invasione e di guerra imperialista non sono il talebani ad aver invaso alcunché, né sono loro ad aver condotto una guerra imperialista per affermare il dominio del capitale finanziario. Anche per questo i due termini sono stati accuratamente evitati e questo evidentemente non aiuta ma confonde i lettori. Considerazioni sulla guerra afghana - Falchi e colombe In misura più o meno omogenea, con lievi sfumature, i giornali occidentali hanno parlato di sconfitta afghana. Ma la maggior parte dell’umanità vive la vicenda afghana come una vittoria e la grande maggioranza delle persone di questo mondo come una propria vittoria. Contraddizione non da poco che sfugge a quanti parlano di rischio di perdita di credibilità senza accorgersi che parlare di disastro dove gli altri parlano di vittoria sembra esprimere proprio il concetto opposto, ossia che della credibilità non importa proprio niente; talché si dà spazio senza una minima presa di distanza a quei bianchi che insistono nel dire: la guerra era giusta, la sua conduzione è stata sbagliata. Bisognava picchiare più duro, andare più a fondo. Si aggiungono gli immarcescibili sostenitori della guerra nucleare, tra gli altri. E ringraziamo la Russia Sovietica prima e Putin dopo se le loro reiterate e virulente richieste dai tempi di Corea e di MacArthur non sono andate esaudite. C’è anche spazio per le lacrime del deputato inglese reduce: Che devo dire di fronte ai sacrifici dei miei compagni? Forse che sono stati mandati a combattere una guerra sbagliata. Una guerra fascista, coloniale e imperialista dopo che gli avevano spiegato ben bene che le ideologie non esistevano più, che tutto era molto più semplice. Di qui c’è il bene, perché lo dico io, di là c’è il male. La risposta di Johnson: come continuare se al picco della faccenda su 132.000 soldati impegnati, 90.000 erano americani. E questo sarebbe il Global Britain dei conservatori inglesi installati a Helmond nel Sud; gli italiani a Herat. Spese britanniche militari all’anno: 47 mld. di Euro. Poco meno dei russi. Quest’anno nel Regno Unito saranno accolti 5.000 afghani. A termine dovrebbero essere i 20.000 il cui caso si sta esaminando. Dal 2008 al 2020 UK ha espulso 15.000 afghani richiedenti asilo. Davvero a Biden e Johnson è stato detto così poco dell’Afghanistan da non far loro intuire neanche lontanamente che il legittimo governo afghano - riconosciuto e sostenuto da 180 paesi - non avrebbe retto neanche un mese, neanche una settimana, neanche un giorno? Sarà pur vero, in parte ma in parte questo è un ribadimento della politica di ipocrisia/ipocritica. Vittoria militare dei talebani Nel commento alle vicende afghane anche recenti si trascura un’analogia pesante tra USA e Afghanistan che è il culto delle armi diffuso in entrambi i paesi e soprattutto popolare nelle Tribal zones della North West Frontier Province, le zone di frontiera pakistane a legislazione tribale dove la fabbricazione artigianale di armi e il loro smercio non è vietata, Altra analogia, ancor più imbarazzante è e lo scarso rispetto dei diritti umani, negli USA dei detenuti, dei migranti, dei negri, delle donne, dei pazienti psichiatrici, degli homeless e dei minori, oltreché dei cittadini non americani in genere. Scarso rispetto che viene stigmatizzato ed esecrato in Afghanistan, poco o niente considerato quando si perpetua negli USA. I Talebani non avrebbero vinto se non avessero avuto il supporto di una parte consistente – e maggioritaria nelle zone rurali – della popolazione e se non avessero avuto il sostegno dichiarato del Pakistan, non solo sul piano logistico, , potendo usare le tribal zones come retroterra sicuro, ma anche sotto forma di finanziamenti e armi. Né il governo di Kabul né tanto meno gli americani potevano inseguire i talebani al di là di una frontiera che valeva solo per loro. Poco sappiamo dell’uccisione di Osama e della strage di alcuni suoi famigliari, se non per il fatto che il governo pakistano ha sempre negato di aver ceduto la sovranità essendo stato preventivamente informato del piano americano sul suo territorio e avendovi consentito. La vittoria dei talebani, fin qui, è stata considerata solo sul piano politico, trascurando che l’imperialismo è stato sconfitto militarmente, sul campo. È un fatto che richiede invece una particolare, scrupolosa considerazione; e non è avvenuto come dicono i sostenitori dell’ultima raffica perché non si è voluto andare fino in fondo, ossia perché, in definitiva non si è voluto vincere a qualsiasi costo. Sono esattamente gli stessi discorsi che si facevano durante e dopo la guerra in Vietnam: se i morti vietnamiti fossero stati sei o dodici milioni invece di tre; se gli americani fossero stati disposti ad accettare cinquecentomila morti americani invece di cinquantamila, la guerra alla fine sarebbe stata vinta. Ai tempi del Vietnam questa era diventata una dottrina, la dottrina dell’escalation; fino ad oggi niente e nessuno ne ha dimostrato la veridicità. È in fondo, l’eterno argomento di tutti i generali sconfitti. La condotta militare della guerra afghana, sul piano strategico e tattico, è molto diversa da quella della guerra vietnamita. Ed è molto diversa dalla condotta della guerra di liberazione cinese, dalla guerra maoista di lunga durata, dalla guerra di liberazione jugoslava. È molto diversa e lontana dalle teorie guevariste del focolaio di guerriglia, anche nelle sue versioni più evolute come quella delle FARC o dei naxaliti. I talebani si sono dimostrati capaci di una tattica e di una strategia sofisticata ed evoluta rispetto alla stessa stagione della guerra antisovietica. A chi sostiene, senza prove, che gli occidentali hanno perso perché hanno sbagliato tatticamente in questo o in quello, per esempio abbandonando il territorio al nemico e riducendosi in sostanza alla difesa delle città, potrebbero rispondere gli stessi generali americani che queste cose le hanno studiate bene perché è il loro mestiere. La tecnica del search and destroy, la tecnica dei villaggi fortificati (o campi di concentramento), la tecnica delle milizie popolari di autodifesa, avrebbe richiesto indubbiamente un numero considerevolmente maggiore di uomini e mezzi – dieci, venti volte quelli [impiegati] messi in campo. E tuttavia, i cinquecentomila soldati americani impiegati contemporaneamente in Vietnam, unitamente ai tre milioni dell’esercito vietnamita che li affiancava non erano bastati ad avere la meglio sull’esercito popolare di liberazione; il costoso apparato messo in campo continuava ad essere inadeguato; e i comandanti americani e vietnamiti continuavano a domandare ampliamenti di uomini e mezzi e allargamenti di regole di ingaggio fino a rovesciare sul Nord Vietnam più bombe che su tutta l’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Questa era l’escalation che si domandava anche per l’Afghanistan. La NATO è stata coinvolta pretestuosamente nella vicenda afghana anche perché non si sapeva bene cosa farle fare dopo la caduta dell’URSS. A 5.000 km di distanza dall’Atlantico la NATO non avrebbe avuto tecnicamente nessuna attinenza con il quadro bellico afghano e, sempre astrattamente, ne avrebbe avuto molto di più la SEATO che però sconta l’originaria debolezza e soprattutto la riluttanza di molti dei suoi partner a mostrare i muscoli in un teatro dove la Cina resta l’attore e il partner economico principale. Per quanto anche per la SEATO ci sarebbero stati gli stessi problemi tecnici e diplomatici, dato che per la NATO è stato utilizzato l’art. 5 del Patto che prevede la hot pursuit, l’inseguimento a caldo, in questo caso dei presunti attentatori dell’11 settembre 2001. Ma come si fa dopo vent’anni a parlare di obblighi difensivi “a caldo”? Potenza della guerra! Ma l’equivoco politico maggiore è stato un altro: quello di affidare alla NATO, organizzazione difensiva militare il compito di riaggiustare gli obiettivi traballanti di una guerra che cominciata come hot pursuit, inseguimento a caldo, era diventata quasi subito Nation Building, costruzione di una nazione, termine analogo a quello di esportazione della democrazia occidentale parlamentare. Questo compito affidato a un’organizzazione tipicamente militare come la NATO ha avuto come risultato che il divario tra spese militari e spese civili è stato di 19 a 1. E quel 5% di spese civili, per più di un terzo è tornato in Occidente sotto forma di stipendio ai cooperanti, acquisto di attrezzature e commissioni varie. Sempre dando per scontato ciò che scontato non è: che quegli interventi civili fossero effettivamente utili alla popolazione, che non fossero del tipo del finanziamento italiano dei campi di concentramento libici, che non fossero corruzioni e ruberie, quelle stesse che oggi gli alleati occidentali imputano al loro governo fantoccio nel tentativo di scaricare su di esso le responsabilità della loro sconfitta. Si consideri anche che dello scarsissimo incentivo a progetti civili, solo un decimo spettò all’agricoltura, in un paese di 40 milioni di abitanti dove il 90% della popolazione è occupato in agricoltura. Anche questo dice qualcosa di quanto è successo. Quello che ha esportato quell’intervento è stato solo inflazione, sia perché gli stipendi dei cooperanti – da 10 a 50 volte lo stipendio medio afghano – non facevano che alimentare l’inflazione, provocando rancore e frustrazione negli afghani, sia perché interventi civili produttivi fatti a titolo gratuito non potevano che costituire distorsione della concorrenza in un tessuto economico imprenditoriale già fragilissimo e per di più martoriato dalla guerra e dall’inflazione. Dopo vent’anni di questo tipo di interventi, che percentuale di voti poteva toccare a dei partiti filoccidentali? Il 3%? Il 5%? Tanto più che le precedenti elezioni afghane “libere” erano state scandalosamente inquinate da brogli “filoccidentali”, oltre ad aver visto percentuali di votanti ridicolmente basse che la propaganda occidentale aveva descritto con il fatidico “fin dall’alba lunghe fila di afghani davanti ai seggi”. Nella pretesa, per altro, che queste elezioni farsa imposte da una coalizione militare occupante, tra bombardamenti e massacri, andassero a sostituire d’autorità le regole di partecipazione tradizionale alle decisioni, i consigli degli anziani, l’organizzazione tribale e clanica e la stessa legge coranica che piaccia o non piaccia, è la forma attuale tradizionale della società afghana. E qui torniamo al tema della sfolgorante avanzata talebana che non avrebbe potuto essere tale se la gran parte degli afghani – in città e campagna – non si fossero sentiti umiliati e offesi da quella che gli occidentali presentavano come una bonanza immeritata. Si torna a parlare d’imperialismo È importante che dopo decenni di oblio si torni a parlare di imperialismo. A partire dagli anni ’70, dopo la sua clamorosa sconfitta in Vietnam, quella voce era via via scomparsa dal lessico, quasi fosse parte di un’indecente propaganda; e non perché fosse scomparso l’imperialismo e neanche perché non ci fossero gruppi ristretti di intellettuali marxisti che continuavano a usare quella categoria, ma perché il pubblico generale, in Occidente e non solo, non voleva più ascoltare quella parola con tutto ciò che essa implica. C’è voluta la sconfitta umiliante dell’imperialismo americano in Afghanistan per frastornare le coscienze e riproporre un concetto pressoché dimenticato. Il disorientamento delle coscienze è quanto si è visto dopo la liberazione di Kabul. Quanto durerà questa nuova imprevista fase non è dato sapere, ma verosimilmente non molto tenendo conto che le voci razionali quelle che dovrebbero traghettare le coscienze da un mero frastornamento a un vero e stabile risveglio, sono poche e flebili. Imperialismo non è, genericamente, una politica come un’altra. E non è solo quello che pur rappresenta per il mondo presente e futuro: l’asservimento dei popoli agli interessi del capitale finanziario e la premeditata distruzione del mondo. La ri-apertura della discussione sull’imperialismo e lo sforzo perché si passi da una superficiale e occasionale critica a uno schierarsi consapevole consente di aprire la discussione su molti terreni e chiama in causa molti dei presunti valori occidentali, e delle istituzioni accettate per decenni se non come un bene quanto meno come il minore dei mali. Non dimentichiamo che l’opinione pubblica occidentale nella sua maggioranza ha saputo digerire concetti e azioni come quelli di guerra fredda, di esportazione della democrazia, di Nation Building, per non dire dei superiori valori dell’Occidente. La brutale conclusione della guerra afghana mette in discussione molte certezze. Sulla NATO e la sua funzione, ad esempio. Sul ruolo dominante degli americani e su quello servile dei loro alleati. Sulla CIA e sull’altra dozzina di servizi di intelligence americani. Sul diritto e sul fatto che si sia decisi a rispondere agli attacchi senza riguardo alcuno per le leggi e il diritto internazionale e lo stesso diritto interno americano, con un presidente che – moderno dictator fuori dal recinto delle mura di Roma – si arroga ogni diritto e si prende la briga di sospendere ogni diritto al di fuori dei confini della sua nazione. Per vent’anni si è cancellato il diritto internazionale con rapimenti e uccisioni al di fuori dei propri confini, con le torture, le rendition, le deportazioni, con gli omicidi mirati e con i famigerati danni collaterali. La NATO e la CIA hanno una funzione pacificatrice o una funzione di guerra? Le attività degli ultimi decenni fanno pensare che delle due cose valga la seconda. E la NATO che titolo ha per proporsi come un ombrello di pace per America ed Europa? La CIA esporta tranquillamente e regolarmente guerra anche dove gli Usa non sono in campo con le loro forze armate. Anche quando le operazioni erano coperte, per non dire segrete, si è fatto il possibile per aggiungere una copertura di legalità, ma è una legalità che sa di escamotage giuridici. Di trucchi, più che di affermazione del diritti. Il fatto stesso di chiamare gli avversari nemici combattenti illegali è servito a cancellare ogni norma di diritto militare di guerra a loro favore, ogni tipo di crimine di guerra nei loro confronti. Come diceva elegantemente Bush “Non mi frega niente degli avvocati internazionali, andremo a prenderli a calci in culo”. L’imperialismo è un’ideologia falsa e bugiarda. Ha bisogno di esserlo. S’inventa armi speciali di distruzione di massa in mano altrui per usarle esso stesso, e lo ha fatto. Con la differenza che le chiama armi scientifiche. Ha agito per decenni al di fuori di ogni legalità, rapendo e uccidendo in stati stranieri di cui disconosce abitualmente la sovranità; come disconosce quella dei suoi stessi alleati. Ha speso migliaia di miliardi di dollari facilitando ovunque la corruzione. Ha invaso, occupato e distrutto due stati sovrani e si appresta a fare lo stesso con altri due. Ha torturato, chiamando la tortura “tecniche di interrogatorio potenziato”. Dopo aver bruciato migliaia di miliardi in spese militari, ha spesso abbandonato le proprie armi agli avversari. Queste migliaia di miliardi hanno arricchito le lobby delle forniture militari e della sicurezza. L’imperialismo non si contenta di sottomettere i paesi. Come giustamente anticipavano Lenin e Luxemburg è molto più conveniente distruggerli: non c’è paese che frutterebbe 8.000 miliardi di dollari come ne ha fruttato in vent’anni la guerra al terrorismo contro Iraq, Afghanistan, Siria e Libia. Per non dire di quanto stanno spendendo gli alleati dell’imperialismo nelle guerre per procura. Senza prendersi il disturbo di dichiararne neanche una perché i poteri presidenziali si sono allargati a dismisura mentre calavano quelle delle due camere USA e si cancellava il diritto internazionale. Mentre Bush si preparava a dare i suoi calci nel culo agli avvocati della Casa Bianca lui stesso combinava leggi che affondavano il diritto internazionale colpendo duramente anche i diritti dei propri cittadini. Questo è l’imperialismo, che si pretende paladino della democrazia. Di quale democrazia? Con il fuggi fuggi Biden ha rinnegato non solo il Nation Building ma anche il Counterinsugency (la teoria prevalente del 2007-2008 in Iraq) ed è quanto i falchi del suo paese – gli unici che contano - meno gli perdonano. Lawyering to death è il giudizio sprezzante che i falchi della democrazia autoritaria oppongono a chi risponde agli avversari nel rispetto delle regole che il paese stesso si è dato e vuol dire: Ci faranno morire di legalità Il governo americano non solo ha fatto di tutto per ignorare la legge, ma ha cercato con ogni mezzo di piegarla ai propri fini. Sicché si è tornati a legittimare la tortura semplicemente cambiandole nome in “tecniche di interrogatorio potenziato”. Con l’aggiunta di sottili disquisizioni sulla psicologia del torturatore che diverrebbe tale a termini di legge, solo se intendeva uccidere o se uccide anche al di là della sua volontà. Tutto questo si ricava dai documenti dell’ufficio per la consulenza legale (OLCC) del Department of Justice. Imperialisti disorientati di tutto il mondo Quando si è esaurita la missione di vendetta e sicurezza e quando l’America, cioè il mondo, si è potuta riconoscere al sicuro dalla minaccia terroristica? Nel 2011, con l’omicidio di Osama? O quando è stato arrestato e incarcerato per otto anni il il suo successore? Se l’obiettivo della missione era quello di “sventare la minaccia terroristica” a che titolo si è messo in libertà il successore di Abu Omar, che ha condotto le trattative a Doha? Gli avversari – i feroci, ma poco duttili talebani nella descrizione americana – si sono dimostrati più fini diplomatici degli americani stessi. Hanno ottenuto nientemeno che la resa senza condizioni; neanche concedendo ai vinti americani la possibilità di controllare in qualche modo l’evacuazione. Anche la richiesta americana di fare dell’aeroporto di Kabul una sorta di zona franca sotto controllo americano nelle fasi dell’evacuazione, è caduta nel vuoto. L’invio precipitoso di soldati americani nei giorni del crollo non ha modificato la situazione e non è diventata tragedia americana solo per la prudenza dei capi talebani, rispettosi del principio “a nemico che fugge, ponti d’oro”. Ma questo è stato l’unico ponte regalato al nemico in fuga. Se i talebani, in meno di dieci giorni, hanno conquistato 25 città, questo significa non solo che l’apparato militare e civile del governo collaborazionista era un’epifania, ma anche che un qualche considerevole aiuto/sostegno/simpatia i talebani dovevano pur averlo tra i cittadini oltre che nell’apparato statale; e anche per questo l’offensiva talebana ha trionfato con minimo spargimento di sangue. Sono stati beffati anche in questo gli auspici delle cancellerie occidentali che avrebbero preferito una strage – sempre a carico del popolo afghano – che permettesse di dire che loro avevano fatto il possibile contro dei barbari sanguinari. Dopo la figuraccia afghana, temporaneamente disorientati, gli imperialisti di tutto il mondo, cominciano a porsi delle domande. Ma non c’è da illudersi che alla base dei loro interrogativi ci sia una qualche ispirazione autocritica, magari una tenue intenzione di ravvedimento. No, l’esigenza che li muove è quella di ritrovare rapidamente credibilità, scacciare via i dubbi di milioni di persone abbindolati per anni dalle loro balle afghane, riproponendo contro tutti e tutti il mito dell’invincibilità per ora compromessa e tornando a far brillare alta la stella polare di ogni propaganda: è impensabile che il nemico vinca; tornino dunque i bianchi ad essere fiduciosi della loro superiorità e invincibilità, quello afghano è – al più – un malinteso. Si rimette in moto, un po’ frastornato, anche il giornalista di regime che sentenziosamente si domanda e domanda ai suoi lettori se le democrazie sono in grado di governare meglio delle autocrazie. Che è poi nient’altro che la versione politichese appena elaborata della domanda se è meglio un governo giusto o un governo ingiusto. Una minima iniezione di razionalità suggerirebbe di domandare prima i quali sono i criteri di giusto e di ingiusto, anche perché quello che è giusto per un paese, un popolo, per una fase storica, non lo è per un’altra [che cosa è giusto per un paese, un popolo, una storia, che cosa non lo è]. Più correttamente e in maniera meno banale la domanda da porsi potrebbe essere: se è più giusto per la nazione che sia essa stessa a determinare il suo destino o se sia bene, se sia lecito e consigliabile che lo facciano altri paesi. Che è poi quello che hanno fatto gli imperialisti bianchi nei confronti di tutto il mondo negli ultimi cinque secoli. E questi paesi, con vocazione al dominio, in nome di quale principio o piuttosto di quali interessi sarebbero autorizzati a farlo? Cioè ad assumere su di sé questo gravoso e non richiesto servizio di tutela? E con quali strumenti è lecito farlo? Perché è evidente che gli opuscoli di propaganda o i film autopromozionali sono una cosa, i bombardamenti, i rastrellamenti, i blocchi economici e finanziari, i campi di detenzione e lo sterminio sistematico degli oppositori della propria politica in ogni parte del mondo, sono un’altra cosa. Di sicuro gli eventi afghani incoraggiano a respingere l’idea che il giudizio di merito più importante sia quello di chi è più potente e armato. Che il giudizio del più forte sia insomma anche il più importante. Non c’è criterio di equità e di giustizia in questo. Il titolare del giudizio dovrebbe essere chi patirebbe le conseguenze di un’eventuale azione. E da questo punto di vista il giudizio di afghani, iracheni, libici e yemeniti è univoco: era meglio prima che i tanti benefattori non invitati intervenissero a salvare il loro paese [che è quanto ci insegnavano come cosa ovvia al liceo quando si arrivava a parlare dell’intervento straniero in Italia dalla fine del ‘400 in poi]. Ma i benpensanti occidentali bianchi non sono affatto convinti, si lamentano e chiedono a gran voce che finalmente si prendano a calci in culo – Bush dixit _ iraniani e venezuelani. Un’ancor più vasta platea disorientata Possiamo metterla così: se c’è una scelta di campo da fare chi sono i più pericolosi nemici dell’umanità e il destino stesso della terra? Chi rende difficile o impossibile la vita materiale di centinaia di popoli e nazioni? Chi si arroga il diritto di consumare il 90% delle risorse del pianeta pur costituendo il 10% della popolazione? Chi ha sulle spalle un’impressionante storia di prepotenza, violenza, distruzione e deportazioni messa in atto negli ultimi cinque secoli e che ha chiamato civiltà? Cinque secoli contro gli altri e contro se stessi. E l’altra domanda è: si può, ci sono le condizioni o per lo meno le possibilità e le speranze di risolvere tutto questo pacificamente in grazia di un’autoeducazione, di una spontanea correzione di rotta, di tutto ciò che in qualche maniera si chiama riformismo? Nel 1975 molti di noi salutavano la liberazione di Saigon (Giai Phong! La liberazione di Saigon era il titolo del libro di Terzani su quei giorni; e Giai Phong vuol dire appunto liberazione). Oggi si parla di occupazione di Kabul e, più spesso, di caduta. Come si parlava dopo i primi cento anni di crociate di caduta di Gerusalemme Le crociate in Oriente (1095-1270) furono sette. La prima portò all’occupazione di Gerusalemme. La II e la III fallirono. La IV saccheggiò la cristiana Costantinopoli. La V fallì, la VI finì con la cattura del re di Francia e la VII finì a Tunisi con la sua morte.. Segno evidente che chi scrive a quel modo si sente, volente o nolente “da quella parte”. Anche se riconoscono di avere torto marcio ad essere lì. Ed è, intendiamoci, una curiosa situazione psicologica. Parliamo dei buonisti, di quegli internazionalisti all’acqua di rose che si trovano in mezzo tra chi li accusa di essere loro i responsabili della disfatta e il nuovo che avanza. E non sanno bene da che parte stare. Tendenzialmente starebbero con chi piange per la caduta di Kabul, ma si sentono scomodi e in cattiva compagnia. Afflitti, dunque, e con malcelato rammarico. Questi i sentimenti prevalenti negli occidentali democratici. Debbono constatare che la loro maniera di vedere il mondo – la loro democrazia, come loro la chiamano – è un bene ahimè difficilmente esportabile e forse non esportabile del tutto. E qui si fermano. Si rifiutano di pensare che forse il problema non è solo l’esportazione armata del proprio punto di vista, ma più in generale l’ingerenza negli affari interni degli altri paesi. I G7 e i G20 che si riuniscono per regolare gli affari del mondo – dei presenti e soprattutto degli assenti – le organizzazioni militari cosiddette di difesa, ma sempre alla ricerca di un bersaglio da attaccare, le stesse nazioni dominanti con le loro regole fatte per mantenere il predominio dei bianchi, forse questi sono i veri problemi. E questa ultima disgrazia, come la vedono loro, non fa che confermare quanto già dimostrato da una serie di disgrazie precedenti, che si chiamano Somalia, Iraq, Siria e Libia. L’imperialismo morde. Ogni tanto viene fermato e una nazione ricomincia a respirare ma l’imperialismo morde da un’altra parte, com’è nella sua natura. Continuerà a farlo finché sarà definitivamente sconfitto. Né cambierà, perché cambiare non è nella sua natura. Mentre da una parte si lamentano per la condizione delle donne e per la miseria e la fame che l’egemonia talebana non farebbe che accrescere dall’altra sono già disposti a sottoscrivere il sequestro delle riserve afghane detenute in Occidente, un vero e proprio atto di pirateria come quello simile già condotto nei confronti del Venezuela, salvo aggiungere che il legittimo governo, vuoi venezuelano vuoi afghano, affama intenzionalmente il popolo. Abbandonati a se stessi collaboratori e collaborazionisti, si tengono ben stretti i soldi altrui provvidenzialmente sequestrati nelle proprie casse. E su questa base si pretende di dettare condizioni al nemico vincitore, facendo nel contempo appello alla Comunità Internazionale, leggi alla Cina e alla Russia, proprio mentre Biden li indica come il nuovo bersaglio su cui concentrarsi. Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione è eccellente per chi sta dalla parte giusta. I bianchi democratici moderati continuano a dire che nonostante gli errori – vuoi d’impostazione, vuoi di condotta della guerra – loro continuano a stare dalla stessa parte e cioè dalla civiltà occidentale. Non è letteralmente possibile per loro fare o pensare in altra maniera, perché dall’altra parte, dalla parte cioè dei vincitori, c’è solo arretratezza culturale e ideologica, primitivismo e superstizione; dunque, sostengono, chi sta da quella parte sta dalla parte di tutte queste cose abominevoli. In particolare, si dice, e questo suona come un mantra autoassolutorio, chi sta dalla parte dei talebani, chi gioisce della loro vittoria perché accecato dall’odio antiamericano, condivide il loro odio e disprezzo per le donne e di conseguenza ha torto su tutta la linea. È questa una maniera corretta di ragionare? No, ma l’argomento è serio e va preso in considerazione: se cioè nella costituzione di un fronte antimperialista e nel celebrare una sua vittoria valga la proprietà transitiva o proprietà commutativa per cui le idee o inclinazioni dell’uno diventano idee o inclinazioni di tutti. Se dovessimo applicare questa proprietà a entrambi i campi dovremmo dire che i punti più neri della coalizione – le torture, i danni collaterali, la guerra sporca, il razzismo latente e manifesto che hanno caratterizzato tutto il processo dell’intervento – rappresentino un terreno comune e condiviso dei bianchi fascisti militaristi e/o dai bianchi democratici innamorati dei valori occidentali, cosa che questi fieramente negano pretendendo che si può essere sostenitori della coalizione occidentale e persino seguire a rimorchio la sua leadership estremista, guerrafondaia e fascista, anche criticando e rifiutando tutti questi aspetti, sui quali peraltro per vent’anni si è passato un pietoso velo di bugie, omissioni, cancellazioni e così via. Ma se questo è vero per i pii bianchi democratici perché non dovrebbe essere vero all’opposto per chi milita nel campo antimperialista? Così come i bianchi democratici sono senza ombra di dubbio contrari alle torture, etc. – sempreché non le considerino, come spesso hanno fatto, un male minore e necessario; allo stesso modo e forse con più solide e motivate e antiche ragioni, i militanti del fronte antimperialista possano dirsi e considerarsi ed essere considerati estranei ed ostili a gran parte dell’apparato ideologico e culturale dei talebani. Parliamo di diritti umani Parliamo di diritto, parliamo di Abu Ghraib e di Guantanamo. Della base di Bagram. Parliamo di renditions. Sarebbe così sbagliato dire che si vogliono prendere le distanze da quell’alleato così ingombrante, testardo e bullo? Che i valori che immeritatamente gli vengono attribuiti venissero invece ripresi seriamente in esame e si dicesse dove e come e perché saranno attuati? Con chi ha parlato Minniti quando parlava con i “sindaci” libici e metteva le basi dell’infame accordo sui poveri tra i poveri? Non sono donne quelle che venivano quotidianamente violentate nelle carceri libiche e che arrivano incinte in Italia o affondano coi barconi? Chi ha invitato in Italia in veste ufficiale uno dei capi riconosciuti degli sfruttatori di migranti, accettando che si presentasse come uno dei capi della guardia costiera libica? Chi ha dato ordine di spiare per mesi i giornalisti italiani che si occupavano di traffico di esseri umani? Un giorno ci sarà una Norimberga per il genocidio programmato ed eseguito nel Mediterraneo. Un giorno sfileranno come imputati tutti coloro che hanno dato ed eseguito ordini di strage, coloro che consapevolmente hanno cancellato richieste di aiuto, coloro che hanno dato ordini d’invertire la rotta, Quel giorno ancora non è venuto, ma verrà. Ora è il tempo delle indispensabili domande politiche. Perché nonostante la sconfitta seriale gli Stati Uniti conservano la loro egemonia e di conseguenza Israele continua ad esercitare il suo dominio coloniale e razzista sul popolo palestinese? Qual è la responsabilità dell’opinione pubblica bianca? Un fronte antimperialista Torniamo alla questione del fronte antimperialista. Ammettere che i talebani, protagonisti di una ventennale e vittoriosa guerra di popolo, facciano parte del fronte antimperialista non vuol dire che ne faccia parte l’organizzazione terroristica miliardaria di Al Qaeda; né che ne faccia parte l’ISIS, per lo meno fino a quando si opporrà sanguinosamente agli altrettanto imperscrittibili diritti di altro popolo come quello curdo. Possiamo temere che situazioni simili si ripropongano anche in Afghanistan? Indubbiamente sì, per cui quello con gli afghani talebani non può essere un fraterno, ingenuo appassionato abbraccio e ha in sé molto del matrimonio di convenienza con dei rischi che non sono da sottovalutare ma sono da assumere, sperando che anche tra i talebani possano emergere e risultare vincenti le ipotesi più progressive che indubbiamente ci sono rispetto ad altri più regressive. Rifacendosi ad esperienze del passato in un terreno di guerra simile e vicino, il KMT cinese aveva tra le sue componenti i più feroci avversari e i più solidi alleati del PCC. I nostri valori, i valori comuni all’Occidente sono l’invenzione proterva degli intellettuali bianchi che, come naturale e comune, tendono ad affidare alla propria lingua parlata una centralità globale. Ah! Povero Occidente. Cerchi di fare del bene e guarda cosa succede! E allora ci si domanda: chi sono i nostri? Erano nostri i Mau Mau, i combattenti del FLN, i Viet Minh, Viet Cong, i contadini cinesi dell’Armata Rossa? Erano davvero i nostri o era gente da prendere in qualche modo con le pinze perché facevano sempre qualcosa di sbagliato o di troppo, qualcosa che non confaceva alle anime bianche e belle occidentali. Stare dalla parte dei negri e stare coi negri sono due posizioni diverse. La prima è una concessione, una benevolenza, la seconda è una scelta di campo. L’errore del Comintern, quando venne meno la guida di Lenin, il più asiatico dei marxisti occidentali fu che in Asia si dovesse ripetere schematicamente il modello della Rivoluzione russa, con la presa del potere effettuata a partire da una insurrezione cittadina operaia, appoggiata e sorretta da una insubordinazione di massa dell’esercito; e il Comintern infatti non condivise mai la strategia maoista, l’accerchiamento delle città dopo la conquista delle campagne. Nello schema cominternista la guerra civile seguiva la presa del potere; in quella maoista la precedeva. Con la vittoria antimperialista afghana la discussione politica per lo meno per quanto traspare attraverso i giornali occidentali, sembra essere vivacizzata sganciandosi in qualche modo dal grigiore dell’ineluttabilità che la segna da decenni. È successo qualcosa di nuovo e di sorprendente e non per via della sconfitta americana largamente prevista. Né era la prima, anche solo a considerare il periodo post settembre 2001: l’Iraq, la Siria e la Libia e la stessa faccenda Guaidò l’avevano preceduta. E prima c’erano state tutte le sconfitte seguite a quella Vietnamita, la Somalia e l’Iran e quelle seguite alla guerra di Corea, il Libano, etc. La sorpresa era stata che il campione del mondo era stato messo ko da un colpo secco, messo fuori gioco ed espulso dal campo, impossibilitato a dire la propria in quell’angolino dell’Afghanistan nel quale aveva dovuto precipitosamente mandare 6.000 soldati, più dei 3.000 che avrebbe dovuto evacuare; talmente fuori gioco/fuori partita che dopo gli attentati del 26 agosto – una strage di afghani ma anche di 12 militari americani – aveva dovuto giustificarsi perché anche in quel piccolo perimetro la sicurezza – e dunque anche la sicurezza del suo personale – non era di sua competenza: ossia i 6.000 militari in campo non garantivano neanche se stessi; pur non essendo assediati non erano protetti/garantiti da alcun accordo e si affidavano alla benevolenza degli arci-nemici talebani. Questo era il fatto sorprendente, inimmaginabile: il bullo americano – in quella situazione, in quel frangente – non era neanche in grado di pestare a destra o a manca per fare un po’ di paura. Non era neanche in grado di minacciare sfracelli. Era solo in grado di commettere qualche omicidio intimidatorio, a caso, di quelli che hanno segnato la sua politica negli anni. Qual era dunque il vero obiettivo che perseguivano dopo l’omicidio di Osama Bin Laden? Sicuramente di fare come in Iraq: distruggere l’avversario– nel caso iracheno il regime di Hussein - a costo di distruggere il paese. Perché la stessa operazione non è riuscita in Afghanistan? I sostenitori della guerra ad oltranza dicono perché non si sono impegnate abbastanza risorse, perché non si è voluto andare fino in fondo. Qualche commentatore sostiene che la missione era impossibile proprio per le modalità di impiego delle risorse, quanto più si incentiva in aiuti – tralasciando i micidiali effetti della guerra – tanto più si aumentano le diseguaglianze, la corruzione, l’inflazione, la distruzione dell’agricoltura sana e la sua sostituzione con la coltura dell’oppio che i talebani avevano quasi sradicato; e grazie a tutto questo cresceva il sostegno popolare di massa ai talebani, nelle città e soprattutto nelle campagne. L’argomento, apparentemente valido, non considera il fatto che l’intervento civile e militare in Iraq aveva le stesse caratteristiche, ma lì le cose funzionarono – nemico annientato, paese distrutto; mentre in Afghanistan no: paese distrutto, nemico trionfante. Perché una così abnorme differenza di risultati? Qualche commentatore, Massimo De Carolis sul Manifesto del 27 agosto ha preso atto che di fronte alla vittoria/sconfitta afghana la sinistra torna a parlare di imperialismo e la destra di sovranismo nazionale e ne deduce che in fin dei conti le due posizioni si saldano in un’unica richiesta: che ciascuna nazione torni a rinchiudersi dentro i propri confini, disinteressandosi del resto del mondo. Il giudizio, oltre a essere ingeneroso nei confronti di qualunque politica antimperialista, ci dice a quale basso livello sia scesa la conoscenza stessa dell’imperialismo e di quanti gli si oppongono e che hanno sempre pensato allla lotta antimperialista come lotta internazionalista. E non perché, banalmente, l’unione fa la forza ma perché l’imperialismo è la sola politica che rende possibile l’espansione e la sopravvivenza del capitalismo finanziario, che è internazionale e globale per definizione. Viceversa, De Carolis sostiene che le tre politiche dalle quali attingeva linfa l’intervento occidentale in Afghanistan – espansione dei mercati, espansione della democrazia e strapotere americano – sarebbero politiche interscambiabili con politiche opposte. Come se il mercato non avesse la necessità vitale di espandersi per sopravvivere facendolo attraverso un controllo politico – che lo si chiami esportazione della democrazia o in qualsiasi altro modo – garantito dall’intervento militare. Questo, nell’analisi leniniana, ma finanche dei liberali alla Hobson o dei socialdemocratici alla Hilferding non è una opzione possibile ma è l’unica opzione che si offre al capitale finanziario, quale che sia la potenza o le potenze imperialiste che si contendono il mercato. Uso fraudolento della storia Dov’è la generazione che nel 1968 contestava Green Berets? Forse il suo epigono Out Post (L’Avamposto) non è neppure uscito nella sale, rendendo con ciò improponibile la stessa contestazione davanti alle sale. C’è da augurarsi che sia così. Da Biden in giù la ritirata degli americani dall’Afghanistan, che qualcuno ha definito una ritirata programmata, qualcun altro una fuga e che qualcun altro ancora ha descritto con “se la sono squagliata” è stata accompagnata dalle più svariate dichiarazioni; ma il succo era sempre quello, avevamo una missione e l’abbiamo compiuta. Delle faccende interne di un altro paese non ce ne importa nulla. Del resto, non eravamo noi che volevamo occuparcene: erano i radical chic e quei frignoni dei nostri alleati che parlavano di scuola, di libertà democratiche, di libere elezioni e di quel bull shit di burka. Noi eravamo lì per fare la guerra. Punto. E la guerra abbiamo fatto con tutti i danni collaterali che la guerra comporta. 1500 danni collaterali (leggi: morti senza colpa) per 41 bersagli centrati: queste sono le cifre non proprio esaltanti della guerra virtuale, della guerra chirurgica. E i 41 bersagli chi li aveva scelti, chi li aveva condannati a morte? C’era stato un processo, un’istruttoria, un’accusa, una difesa, magari un appello? C’era forse un codice che stabilisse gravità dei reati e entità delle pene? O quella condanna senza appello era stata, poteva essere stata il frutto di una delazione rancorosa, di una falsa informazione, il prodotto di un atto di corruzione o il frutto di una confessione che avevamo estorta con la tortura e condannare il “bersaglio” senza contraddittorio e senza appello? Ma se pure volessimo prendere per buone queste argomentazioni di Biden & C. l’esecuzione di Bin Laden non è stata forse eseguita in Pakistan? E non risale a dieci anni fa? E allora perché i dieci anni di guerra successiva in Afghanistan? Se quei talebani che oggi prendono il potere rappresentavano gli eredi e i continuatori di quel pericolo, perché adesso che hanno vinto quello stesso pericolo non esiterebbe più? In questo film del 2020 c’è tutto quello che ci si può aspettare di trovare in un film patriottico fascista americano, ma c’è soprattutto, a caratterizzarlo, il profondo definitivo implacabile disprezzo per l’alleato afghano: il più vile, inaffidabile, corrotto, traditore – e naturalmente perfido – degli alleati. E il giudizio inappellabile viene ribadito in modo più che caricaturale ogni volta – e sono parecchie – che l’alleato afghano compare sulla scena del film in maniera tale da indurre lo spettatore a domandarsi perché i buoni americani non si sbarazzino fisicamente di un simile alleato, pur avendo chiaro che una gran parte di quanto accade nel piccolo out post e nel complessivo teatro di guerra è colpa proprio degli spregevoli alleati. Dopo i radical chic e il perfido alleato afghano il terzo responsabile dell’esito disastroso della guerra sono quei generali pusillanimi che 1) l’hanno condotta male; 2) non l’hanno condotta con la necessaria durezza e implacabilità. Nella guerra fredda e dopo gli Stati Uniti e i loro alleati hanno inanellato una serie di sconfitte quando non di poco onorevoli ritirate. Corea, Vietnam, Libano, Somalia, Iraq, Siria. Gli è andata meglio quando hanno lasciato fare alla gente del posto, come in Cile, in Guatemala, etc. Gli sono andate meglio le proxy wars, la guerra per interposta persona, ma non si diventa generali a quattro stelle senza fare guerre. Nonostante questo la loro posizione strategica non ne sarà indebolita almeno fino a quando mancherà un fronte opposto, che è appunto il tema posto dall’odierno successo dei talebani E adesso cosa succederà? Presto tutto tornerà come prima – è successo dopo il Vietnam e dopo l’Iraq – ma la botta è stata forte e qualche conseguenza la porterà con sé. Certo la credibilità dell’Occidente è ridotta ai minimi termini, ma i soldi compreranno nuovi regimi alleati. Tuttavia, lo spettacolo e il business devono andare avanti e quell’apparato economico militare che guida gli Stati Uniti e l’Occidente sta sicuramente pensando in quale scenario si trasformeranno prossimamente le prospettive di guadagno. Sarà il Venezuela? Sarà l’Iran? Sarà Cuba? Quale situazione verrà ad accendere i riflettori della stampa imperialista e improvvisamente diventare un pericolo incombente per l’umanità? Con ogni probabilità sarà il Venezuela, che si trova in un teatro meno rischioso e più controllabile di quello asiatico. Probabilmente verranno da lì e dalla sofferenza del popolo venezuelano i prossimi mille miliardi di dollari di guadagno su spese militari e c. Certo il boccone prelibato sarebbe la Russia, ma la Russia ha quella benedetta arma nucleare di cui purtroppo bisogna tenere conto. Decisione della corte dell’Aja Il procuratore capo della Corte Internazionale ha dichiarato di avere sottoposto ai giudici della Corte l’approvazione finale per l’apertura di un’inchiesta sui crimini di guerra compiuti in Afghanistan dal 2003, l’’anno in cui il governo afghano ha sottoscritto lo Statuto di Roma, pur avendo poi adottato quello stesso governo nel 2008 una legge di amnistia e avendo scelto l’impunità come politica istituzionale. La decisione della Corte dell’Aja è stata immediatamente notificata al governo dei Talebani attraverso l’ambasciatore afghano in Olanda Il 27 settembre 2021, con decisione che altro non può essere definita che politica il procuratore inglese Karim Ahmad Kan del Tribunale Internazionale dell’Aia ha amnistiato americani, alleati ed ex-governo filo-occidentale dalle accuse per crimini di guerra, violenze, abusi, persecuzione di donne e ragazze, crimini contro i bambini; e non perché non si siano raccolte prove di questi crimini nei passati dieci anni, ma perché non ci sarebbero risorse per perseguirli. Ci sono invece le risorse per perseguire gli stessi crimini commessi dai talebani e contro di loro si darà inizio ai processi. Il motivo di tale scelta arbitraria, scandalosa e insindacabile è che “la natura continuativa dei presunti crimini dei talebani e dello stato islamico...richiede attenzione prioritaria e risorse appropriate.” Sembrerebbe uno scherzo laddove è evidente l’indifferenza per le vittime: il discrimine dunque non sono le vittime - tutte - cui è dovuta giustizia, ma i presunti criminali distinti in offensivi e inoffensivi, anche se le offese sono state dai due ugualmente praticate; e per di più concedendo impunità proprio quei presunti autori di crimini che stanno scomparendo dalla scena, cancellando prove e testimonianze; e che dovrebbero semmai essere perseguiti con solerzia laddove, da parte di tutte le giurisprudenze che si vogliono progressive, si riservano quanto meno sulla carta una particolare attenzione e misure più severe per chi manifesta pericolo di fuga e di inquinamento delle prove, che è esattamente quanto stanno facendo gli americani, i loro alleati e i collaborazionisti. Questa scandalosa auto-assoluzione tranquillizza i delinquenti e intenderebbe mettere una pietra tombale anche in questo caso sui delitti di chi sistematicamente si sottrae al giudizio del Tribunale Internazionale. In primis, come noto, il governo americano. Ritorna ancora una volta lo spettro del Vietnam e del Tribunale Russell che aveva accompagnato quelle vicende. Un tribunale neutrale e non di parte che diede voce alle vittime e anche ai loro carnefici, emettendo a guerra in corso un verdetto storico che influì grandemente sulla posizione dell’opinione pubblica internazionale nei confronti di quella guerra e sugli esiti stessi di quella guerra. Questa scandalosa decisone ufficiale ci conferma che l’imperialismo ha imparato la lezione del Vietnam non solo aggiungendo nuovi strumenti al un già ricco apparato di torture detenzioni arbitrarie, rappresaglie, rendition e stragi ora coperte dall’anonimato dei droni. Nessuno è più in grado di riconoscere un Tenente Calley che arriva nel villaggio sbagliato, se ne accorge e compie ugualmente la strage programmata, nessuno è più responsabile di niente perché questa è la guerra intelligente. Ma i morti sono ancora lì, gli unici non anonimi e senza difesa né prima né dopo la loro morte. La Corte dell’Aja, è un fatto, si è risvegliata solo dopo l’arrivo dei talebani a Kabul. Prima di allora e ancora il 16 marzo di quest’anno dava fiducia alla delegazione del governo afghano Guidata dal ministro degli esteri Ashraf Ghani allora in carica che chiedeva un rinvio della decisione, dichiarando, ed essendo naturalmente creduto, di avere i mezzi e la volontà politica per condurre esso stesso un’inchiesta. Chi, dopo questa imperdonabile acquiescenza non avrebbe più titolo per rappresentare la comunità internazionale, ha invece l’autorità e la sfacciataggine di mandare assolti quelli che non possono essere definiti altro che aggressori di un paese sovrano. Seppure Karim Ahmad Kan ha sostituito la procuratrice Fatou Bensoude nel giugno di quest’anno e non è, tecnicamente, il diretto responsabile di quella che è fin troppo benevolo definire acquiescenza scandalosa; resta il fatto che lui e tutto l’organismo da lui presieduto, hanno perduto l’autorità morale per prendere la decisione testé presa. La lezione afghana L’imperialismo è stato sconfitto in Afghanistan ma in generale continua a godere in buona salute e continua a rappresentare il più grande pericolo storico per la vita di questo pianeta e per la sua stessa sopravvivenza. Cosa accadrà in Afghanistan è difficile da prevedere, data anche l grande complessità della situazione interna che merita certo un approfondimento maggiore di quello che può offrire chi scrive. Che lo sviluppo della situazione sia pacifico o tendenzialmente pacifico è auspicabile, ma non probabile, almeno fino a quando il governo talebano non si libererà di quelle mine vaganti e sanguinarie che sono i gruppi legati ad Al Qaeda e all’IS-Khorasan. Il pericolo maggiore viene dagli sconfitti, gli Stati Unii e i loro alleati occidentali che parlano di pace e chiedono rassicurazioni al governo afghano mentre fanno il possibile per rendere la situazione più incandescente e pericolosa. Da questo punto di vista il blocco dei fondi del governo afghano nei forzieri della Banca Monfdale e il rifiuto di restituirli fino a data da destinarsi, la sospensione di tutti i programmi di cooperazione e del pagamento degli stipendi agli impiegati pubblici, ai sanitari e alle forze di sicurezza, insieme all’amnistia decretata unilateralmente dal Tribunale dell’Aja per gli acclarati crimini di guerra commessi dalle truppe occidentali e di loro alleati , le continue e minacciose violazioni dello spazio aereo non possono che peggiorare la crisi dello stato e quella che ci si compiace di chiamare crisi umanitaria, salvo fare di tutto per aggravarla. Tutto questo è l’opposto di quella non ingerenza che sarebbe la prima condizione per una fuoruscita pacifica del paese da quaranta anni di guerra: con l’unico intervallo del periodo 1996-2001, ossia quello dello Stato Islamico. Se tutti i paesi dell’area sono molto guardinghi nel timore di oscuri contagi, chi ha preso le iniziative più concrete per chiudere ogni possibile valvola di sfogo alla crisi afghana sono i paesi europei e la Turchia. I primi pensano solo ai loro profughi (peraltro senza molta convinzione) e respingono tutti quelli che considerano profughi economici che si preparano a respingere con le cattive dopo un nuovo accordo in merito con quel brav’uomo così attento ai diritti umani che è il presidente Erdogan. La Turchia, a parte ogni altra considerazione umanitaria, si prepara a utilizzare la nuova iniezione di valuta in arrivo dall’Unione Europea per destabilizzare l’intera area del Mediterraneo molto di più di quanto potrebbero fare i terribili Talebani nel corso di qualche secolo. Per i governi europei e in generale per tutte le formazioni politiche occidentali, governative e non, si pone il problema se continuare a seguire il bullo americano in tutte le sue disastrose avventure, nonostante gli errori, i passi falsi e la menzogne disseminate a piene mani, innanzitutto ai propri alleati che vengono ricompensati con un totale disprezzo, come ha confermato tutta la vicenda Afghana. L’interesse dell’Occidente, dovrebbero averlo capito anche i più atlantisti è unicamente l’interesse degli Stati Uniti, disposti ad abbandonare tutti gli alleati senza alzare un dito per aiutarli, se ricorresse quell’interesse- Per la stampa e per gli opinion maker occidentali si pongono questioni simili, se avranno il coraggio di fare una salutare autocritica, cosa di cui c’é molto da dubitare. L’opinione pubblica occidentale e in particolare quella che si considera democratica e progressista avrebbe molte ragioni per essere indignata nei confronti dei propri governi e degli organi d’informazione che l’hanno ripetutamente ingannata sulle motivazioni che li spingevano e sulle azioni che si commettevano, tacendole o negandole sfacciatamente o inventandosele di san pianta. Ma questa potrebbe anche essere una buona occasione per qualche riflessione perché anche quando le notizie sono sfuggite al controllo dell’informazione e parliamo delle torture di Abu Ghraib e di Bagram, delle rendition, degli interrogatori potenziati dei ripetuti errori umani che dall’alto dei cieli massacravano intere famiglie, della corruzione dei regimi amici, del diritto nazionale e internazionale calpestato, di guerre che nessuno ha mai dichiarato ha sempre lasciato correre, ben disposta a dimenticare rapidamente perché anch’essa in fondo persuasa dei superiori valori dell’occidente e disponibile a difendere strenuamente il diritto e i diritti umani, ma solo in casa altrui, mai in casa propria. Vale la pena di pensare se le sanzioni sparse con l’unico principio di punire i disobbedienti all’ordine americano sia davvero una politica che contribuisce alla pace, alla non ingerenza e alla risoluzione dei conflitti e se vi contribuiscano le provocazioni, le aggressioni e le dimostrazioni di forza. Se siano convenienti ai cittadini europei o solo al mantenimento dea supremazia americana nel mondo. . Se si sia davvero protetti, e da chi e da che cosa sotto l’ombrello della NATO e se la fedeltà atlantica sia un credo da paragonare quanto meno alla fede nella democrazia. Essere antimperialisti oggi non significa aderire a una politica astratta e nostalgica di un tempo che fu, ma aderire nel caso dell’Afghanistan al programma di pace che il popolo afghano ha indicato e su quello misurare la buona volontà dei propri governi. Non tocca ai G7 ai G20 alla Trojka formato Mosca di stabilire il futuro dell’Afghanistan, né alle riunioni convocate dall’India o dall’Iran se non per ribadire il principio della non ingerenza negli affari interni di un’altra nazione. Non tocca agli Stati Uniti e all’Occidente provocare la crisi umanitaria inevitabile nel momento in cui s sequestrano i fondi del governo afghano e si sospendono tutti i programmi di aiuto. Non tocca all’Occidente e ai suoi alleati stabilire preventivante chi è colpevole e chi no di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Dopo quaranta anni quasi ininterrotti di guerra il popolo afghano ha bisogno della solidarietà internazionale per un programma di rinascita che abbia le priorità da lui stesso fissate: un programma d’emergenza di sostegno alimentare e di assistenza sanitaria, il rientro di cinque milioni di profughi da Pakistan e Iran, un programma accelerato di sminamento che renda possibile il ritorno a un’attività agricola normale. Un vero programma di investimenti in agricoltura dopo che negli ultimi venti anni di duemila miliardi versati per l’Afghanistan neanche le briciole sono arrivate al settore fondamentale del paese. C:\Users\Luciano Beolchi\Google Drive\AAA Articoli e interventi Luciano Miscellanea politica\Afghanistan\A proposito di Afghanistan (3) Alternative.docx 2