LUNIGIANA
DANTESCA
ISSN 2421-0190
INDICE
ATTIVITÀ DEL CLSD pp. 2-8
Il ‘Presepe esteso’
di groppoli di Mulazzo p. 9
SAPIENZIALE
ANNO XX n. 190 – DIC 2022
CENTRO LUNIGIANESE
DI STUDI DANTESCHI
Bollettino on-line
Comitato di Redazione
Direttore
Il congedo di Wagner: ‘Parsifal’, l’opera della Conversione’ p. 10
COMPAGNIA DEL VELTRO
COMPAGNIA DEL SACRO CALICE
Astro del Ciel pp. 11
Se qualcuno ti dice che non ci
sono Verità, o che la Verità è
solo relativa, ti sta chiedendo di
non credergli.
E allora non credergli.
ROGER SCRUTON
MIRCO MANUGUERRA
Redattori
ANGELA AMBROSINI
STEFANO BOTTARELLI
NUNZIO FESTA
MIRCO MANUGUERRA
MARIA ADELAIDE PETRILLO
DAVIDE PUGNANA
Comitato Scientifico
EGIDIO BANTI
GIUSEPPE BENELLI
JOSÉ BLANCO JIMÉNEZ
FRANCESCO CORSI
FRANCESCO DI MARINO
SILVIA MAGNAVACCA
MIRCO MANUGUERRA
SERENA PAGANI
DAVIDE PUGNANA
2003-2022 CLSD
www.lunigianadantesca.it
lunigianadantesca@libero.it
AVVERTENZE
È concesso l’utilizzo di materiale ai
soli fini di studio citando sia l’Autore
che la fonte bibliografica completa.
Ogni Autore può disporre liberamente dei propri scritti, di cui è unico responsabile e proprietario, citando comunque la presente fonte editoriale in
caso si sia trattato di I pubblicazione.
Il Bollettino è diffuso gratuitamente
presso i Soci del CLSD e tutti coloro
che ne hanno fatto esplicita richiesta
o hanno comunque acconsentito tacitamente alla ricezione secondo i
modi d’uso. Per revocare l’invio è
sufficiente inviare una mail di dissenso all’indirizzo
lunigianadantesca@libero.it
Copyright Immagini
Le immagini presenti negli articoli
sono utilizzate a scopo puramente illustrativo e didattico. Qualora dovessero violare eventuali diritti di Copyright, per la rimozione delle stesse si
prega di scrivere immediatamente all’indirizzo email:
lunigianadantesca@libero.it
CHE IL VELTRO
SIA SEMPRE CON NOI
Max Weber e la
società corporativistica p. 12
SEVERINIANA
LA VOCE DEL VELTRO
di Natale p. 13
Il tempo
DANTESCA
Un giorno la Paura bussò alla
porta, il Coraggio
andò ad aprire
e vide che non c’era nessuno.
MARTIN LUTHER KING
I grandi contributi del CLSD
(III) L’enigma dei due angeli di
Pur VIII p. 14
Lettura sinottica del Canto di
Sordello (Pur VI) secondo le interpretazioni di De Sanctis, Croce e Gentile pp. 15-40
La Divina Commedia in vernacolo spezzino: Inf XXV pp. 41-42
Sulle tracce siciliane di un possibile Codice autografo dell’Inferno (IV) p. 43
TEOLOGICA
Correggio: ‘Adorazione dei pastori’, o ‘La Notte’ pp. 44-46
OTIUM
Un’idea di Pasolini pp. 47-49
Un’esperienza di studio in Spagna p. 50
LA POESIA DEL MESE ‘Dicembre’
di Cesare Angelini p. 51
La ‘Rappresentazione dei Re Magi’: i
primordi del Teatro in Spagna
IL SOFÀ DELLE MUSE
pp. 52-53
VISIBILE PARLARE La
za’ del Bernini pp. 54-55
‘Costan-
RECENSIONI
‘Il crepuscolo degli idioti’; ‘Storia della Cristianità occidentale’
Jules-Joseph-Lefebvre
La Verità (1870)
pp. 56-57
ARCADIA PLATONICA L’ultima
fatica di Aldo Nove p. 59
Un evento speciale: Rapallo per
il 50^ di Pound p. 62
Contributi poetici p. 60-66
La Tradizione non è il passato,
ma quello che non passa.
DOMINIQUE VENNER
Anche se il Timore avrà più
argomenti, tu scegli la
Speranza.
SENECA
1
LETTURA SINOTTICA
DEL CANTO DI
SORDELLO (PUR VI)
SECONDO LE
INTERPRETAZIONI DI
DE SANCTIS, CROCE E
GENTILE
Abstract. La lettura sinottica è
derivata dall’intervento in remoto
al Convegno per l’anno del
centenario
dantesco
2021
organizzato dalla Universidad
Complutense di Madrid. I
materiali e gli spunti discussi
sono partiti dalla comparazione di
tre basilari raccolte di saggi
danteschi:
precisamente
di
Francesco De Sanctis, Lezioni e
saggi su Dante (Einaudi 1955, a
cura di Sergio Romagnoli); di
Benedetto Croce, La poesia di
Dante (Laterza 1921 [1. ed.
1920], utilizzato in una ristampa
del 1966) e di Giovanni Gentile,
Studi su Dante (Sansoni 1965,
raccolti da Vito A. Bellezza). Il
termine di paragone, all’interno
della trattazione organica di
ciascun critico della materia
dantesca,
è
stato
ridotto
all’episodio di Sordello (presenza
che occupa i canti dal VI al IX
del Purgatorio), un minimo
comun denominatore suggerito
dalla ‘lettura’ alla Casa di Dante
in Roma il 19 marzo 1939 che
diede Giovanni Gentile.
E però il poeta deve sempre cogliere nel particolare la parte
ideale ed umana, che si riferisca
cioè all’umanità e non alla tale o
tale società
(Francesco De Sanctis1)
[…] dopo di lui [De Sanctis],
nonostante che in Italia fossero
molto ammirate (ma piuttosto come arte che come scienza) alcune
sue pagine su personaggi ed episodî danteschi, le menti si distornarono da quei problemi, perché,
com’è noto, si entrò allora nel
periodo filologistico degli studî
storici e letterarî, corrispondente
al generale naturalismo e positivismo filosofico
2
(Benedetto Croce )
1 - Introduzione
Si propone una lettura comparata
del canto sesto del Purgatorio,4 in
analogia con quanto avviene, specialmente negli studi danteschi
anglo-americani, per le “letture
verticali” di canti corrispondenti
per posizione numerica nelle tre
cantiche. Le vertical readings5
sono foriere di acquisizioni critiche interessanti e nuove, come è
dimostrato ormai da una ricca
bibliografia. Del resto l’approccio
delle letture verticali non farebbe
altro che riproporre sul piano
esegetico quella che dovette essere l’attività preparatoria di Dante
per la stesura della Commedia6:
un poderoso esercizio dell’arte
4
I materiali erano stati raccolti in origine per il convegno internazionale
di Madrid, organizzato dalla Universidad Complutense, dal titolo
L’ombra sua torna: Dante, il Novecento e
oltre, inizialmente previsto per il
[…] ecco una battuta d’aspetto,
come egli [Dante] suole ne’ suoi
intermezzi teologici e dottrinali,
del cui carattere strutturale,
come dicono, o semplicemente
connettivo, si possono meravigliare soltanto quei critici, che a
furia di analisi smontano l’organismo poetico, e finiscono col
trovarsi in mano tanti pezzi eterogenei: parte prosaici, artificiosi e
morti, e parte membra vive o che
paion tali, ancora capaci di
movimento e di resistere con la
loro indistruttibile vitalità poetica
a ogni violenza di anatomia. [...]
Come non si sapesse che la
poesia non è nelle parti singole,
ma nel tutto, nella sua unità
indivisibile
(Giovanni Gentile3)
1
Francesco De Sanctis, Lezioni e
saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Einaudi, Torino 1955 (d’ora
in avanti De Sanctis 1955), p. 470.
2
Benedetto Croce, La poesia di
Dante, Laterza, Bari 1921 (1. ed.
1920); utilizzato per le citazioni in
una ristampa del 1966 (d’ora in avanti Croce 1966), p. 199.
3
Giovanni Gentile, Studi su Dante,
raccolti da Vito A. Bellezza, Sansoni,
Firenze 1965 (d’ora in avanti Gentile
1965), p. 224.
15
2020, ma poi slittato all’anno del
centenario e svolto a distanza per la
pandemia. Ne approfitto per ringraziare e salutare: Carlota Cattermole
Ordóñez per l’organizzazione del collegamento in remoto, Lino Pertile
chairman della sessione intitolata
“Interpretazioni” e i compagni di sessione Marco Carmello e Matteo Maselli. Il mio intervento ha avuto per
titolo: “Per un ripasso impregiudicato del dantismo di Benedetto Croce: tra De Sanctis e Gentile”.
5
Cfr. Vertical readings in Dante’s
‘Comedy’, edited by George Corbett
and Heather Webb, Open Book Publishers, Oxford 2015-2016, in 2 voll.,https://library.oapen.org/bitstream/id/2f
c631a8-f37c-47a0-a62f46121e913121/633789.pdf.
6
Su un piano micronarrativo e stilistico Giorgio Padoan, Sulla datazione
del ‘Purgatorio’ e del ‘Paradiso’ (e
la dedica a Cangrande), in Id., Il lungo cammino del “poema sacro”: studi danteschi, Olschki, Firenze 1993,
pp. 93-120, ha segnalato una serie di
riprese e di «rinvii allusivi, anche per
antifrasi» tra i blocchi di Inf I-V e
Pur I-V (pp. 94-95). Il motivo di una
sinossi della Commedia, anche solo
figurata per luoghi e nomi di personaggi, ritorna nel film Dante di Pupi
Avati (2021), nella scena in cui Dante al lume di candela traccia su un
lenzuolo che porta sempre con sé dei
nomi e una topografia dell’aldilà, con
l’ “alpigiana gozzuta” (figura tratta
dal Trattatello di Boccaccio) che gli
chiede se sta scrivendo un “libro dei
morti”.
della memoria secondo l’insegnamento della Retorica antica.
Tutto il palcoscenico della Divina
Commedia forma un paesaggio immaginato con strutture topologiche
ben determinate: […] l’Inferno con i
suoi nove cerchi; il Purgatorio, con le
nove cornici; il Paradiso, con le sue
nove sfere celesti […] le anime dannate, penitenti o salvate nei tre regni
dell’Aldilà si trovano tutte “collocate” in determinati luoghi assegnati
7
loro dal […] giudizio divino.
All’interno di quella topografia si
situano i defunti, protagonisti o
semplici comparse, caratterizzati
però in un modo a volte ‘eroico’
che li rende riconoscibili di cantica in cantica. Sordello, per esempio, è definito da Croce il
“Farinata del Purgatorio” per il
«suo grande e tacito amore nella
patria».8 Ma Gentile sfumando
precisa che «la tempra di questo
magnanimo non è la rigida brutale fierezza di Farinata indifferente e insensibile anche al dolore
paterno del vicino Cavalcante».9
Per riprendere il brusco inserto
dell’invettiva del Dante-profeta
che segue l’incontro e la mozione
di affetto filiale di Sordello verso
Virgilio, possiamo dire che l’apostrofe offre l’occasione per affiancare verticalmente i canti sesti
delle tre cantiche:
- in Inf VI, il terzo cerchio dei golosi, la profezia di Ciacco sottolinea i mali di Firenze e striglia i
fiorentini illustri e dannati;
- di Pur VI vedremo meglio fra
poco il passo declinato sul livello
metastorico di nazione;
- in Par VI si ha l’invettiva-profezia di Giustiniano contro le mire dei guelfi e dei ghibellini, intrecciate all’esito perverso dello
scontro fra papato e impero:
Omai puoi giudicar di quei cotali /
ch’io accusai di sopra e di lor falli, /
che son cagion di tutti vostri mali
(97-99).
Nel corso di questo scritto invece
l’approccio sarà piuttosto intratestuale, di tipo sinottico o oriz7
Harald Weinrich, La memoria di
Dante, Accademia della Crusca, Firenze 1994, pp. 14-15.
8
Croce 1966, p. 111.
9
Gentile 1965, p. 230.
zontale, con il raffronto delle interpretazioni ricavabili dagli scritti danteschi dei tre insigni critici e
filosofi.10 Il risultato sarà la conferma di vulgate critiche che proprio da loro hanno preso inizio,
con eventuali precisazioni in sede
estetica. Per restringere il campo
si è scelto di partire da un unico
episodio della Commedia. Il canto di Sordello fu trattato in una
lettura tenuta da Giovanni Gentile
nella Casa di Dante in Roma il 19
marzo 1939.11
In essa si trova un richiamo intriso di orgoglio al patriottismo, che
l’anno di vigilia rispetto all’ingresso dell’Italia nel II conflitto
mondiale rende di stringente attualità allora come purtroppo
oggi, novembre del 2022. Gentile
distingueva tra «il patriottismo
che si rivolge all’esterno; ai nemici contro i quali la patria si
deve difendere» e quello che «ne
suppone un altro, che è la sorgente del primo: che è l’amor della patria, sentita come la nostra
patria, quella patria che esiste
infatti perché e in quanto noi la
sentiamo, e noi la evochiamo alla
vita e la facciamo esistere nel nostro cuore».12
Un parallelo di quel tralignamento politico descritto e denunciato da Dante per la Firenze a
cavallo del XIII e XIV secolo,
dove la sorte poteva portare ad avere membri della stessa famiglia
in guerra tra di loro, con l’attualità è dato dalla guerra in corso
tra Russia e Ucraina, scoppiata
nel febbraio 2022. I calcoli di
Realpolitik, da parte di entrambi
gli schieramenti di Occidente e
Russia, hanno determinato il resto.13 Nel conflitto tra russi e ucraini vi è un aspetto di guerra
fratricida se consideriamo le popolazioni russofone dei territori
occupati dell’ex repubblica sovietica dell’Ucraina, e poi annessi
a forza; in una regione che pure
ha dato i natali a Michail Bulgakov, cioè un gigante della letteratura russa.14 In modo inverso
vi sono famiglie e persone ucraine che avevano la loro vita in
Russia.
10
Il legame tra filologia e filosofia è
ritenuto da Pier Vincenzo Mengaldo,
Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (d’ora
in avanti Mengaldo 1998), in questi
termini: «penso che ci siano solo due
vere forme di critica: quella filosofica
e quella filologica, ben intendendosi
che dalla seconda si può arrivare alla
prima (molto più difficile per non dire impossibile l’inverso)», dalla Premessa, p. 14.
11
Il testo uscì su «Nuova Antologia»,
16 maggio 1939, pp. 121-133; poi in
modo autonomo nella collana di Sansoni “Lectura Dantis”, Firenze 1940.
Occupa le pp. 215-235 di Gentile
1965.
12
Gentile 1965, p. 227. Un altro cortocircuito con il presente, Gentile aveva avuto modo di svolgere una
ventina di anni prima con il discorso
del febbraio 1918, La profezia di
Dante considerata «quasi grido della
nostra attuale coscienza di grande popolo, ferito, non domo, risoluto, come sei secoli addietro, a mostrare la
fronte all’ultimo erede del sacro romano impero», rivendicando il ruolo
dell’Italia nella sconfitta degli imperi
centrali dopo la Grande Guerra.
16
13
La volontà di potenza geopolitica
che caratterizza i grandi blocchi di
alleanze mondiali trova descrizione
in un’altra celebre invettiva dantesca,
questa volta su scala municipale: la
condanna della sete di guadagno e di
espansione di influenza; ambizioni le
quali sempre portano guerre: Godi,
Fiorenza, poi che se’ sì grande / che
per mare e per terra batti l’ali, / e
per lo ’nferno tuo nome si spande!
(Inf XXVI 1-3).
14
Riporto un’opinione dell’amico
slavista Andrea Oppo: «la nuova Ucraina non potrà leggere Bulgakov,
nato a Kiev nel 1891, autore di quello
che è forse, o sicuramente, il più
grande romanzo del XX secolo al
mondo, Il maestro e Margherita),
perché scriveva in russo e aveva in
testa mondo e cultura russa». Sull’acredine tra i due paesi pesano fatti
storici sanguinosi come il cosiddetto
Holodomor, del 1932-33, una carestia
provocata dall’Unione Sovietica per
affamare l’Ucraina, tradizionale paese granaio su scala continentale e oggi globale.
2 - Perché Sordello?
Da picaro a profeta15
Il personaggio di Sordello – noto
come il più famoso e il più importante dei trovatori italiani16 –
accompagna l’ascesa di Dante e
Virgilio, quasi scortandoli e facendo loro da guida per la durata
di tre canti, dal VI all’VIII, dall’Antipurgatorio verso le prime
balze del “monte di purgazione”,
fino alla valletta (de la lacca, ne
la lama, Pur VII 71, 90) dove si
trovano riuniti i principi della
cristianità negligenti per aver indugiato nell’adempiere il proprio
dovere e oranti il Salve Regina.
I potenti vengono passati in rassegna, insieme alla propria discendenza, causa ulteriore di de15
L’interrogativo è ripreso dalla romanista Maria Luisa Meneghetti,
Sordello, perché...: il nodo attanziale
di Purgatorio VI (e VII-VIII), in Dai
pochi ai molti: studi in onore di Roberto Antonelli, a cura di P. Canettieri - A. Punzi, Viella, Roma 2014,
vol. II, pp. 1091-1101 (d’ora in avanti Meneghetti 2014), sulla scorta della
stessa domanda enunciata in perfetta
sincronia da Paolo Cherchi, Canto
VII del Purgatorio [1983-1984], in
Id., L’alambicco in biblioteca: distillati e rari, a cura di F. Guardiani, E.
Speciale, Longo, Ravenna 2000, pp.
75-91, in particolare p. 77; e da Maurizio Perugi, Il Sordello di Dante e la
tradizione mediolatina dell’invettiva,
in «Studi danteschi», 55, 1983, pp.
23-135, in particolare p. 30.
16
Per delle schede monografiche di
Sordello si vedano la voce in Enciclopedia Dantesca, a cura di Marco
Boni; il quale aveva curato nel 1953
una nuova edizione critica delle Poesie di Sordello, “con studio introduttivo, traduzioni, note e glossario”, Libreria antiquaria Palmaverde, Bologna 19542; oggi disponibile online a
https://documen.site/download/sordellole-poesie_pdf#. Quel testo aggiornava
l’ormai introvabile e incompleta edizione (in seguito alle scoperte di nuovi componimenti, fatte da Giulio Bertoni e da Alfred Jeanroy) curata da
Cesare De Lollis, Vita e poesie di
Sordello di Goito, M. Niemeyer, Halle 1896, rist. Forni, Bologna 1969.
Per una voce di Sordello più recente
si veda nel Dizionario Biografico
Italiano, Treccani, 93, 2018, a cura di
Marco Grimaldi.
https://www.treccani.it/enciclopedia/sorde
llo-da-goito_%28DizionarioBiografico%29/.
generazione della sovranità, da
Sordello nel canto VII. Il tralignamento dai padri ai figli è un
peccato reversibile, almeno con le
speranze riposte nelle generazioni
successive: ben andava il valor di
vaso in vaso (Pur VII 117), ma
non per virtù di sangue – tiene a
precisare Dante –, bensì per un
dono divino. Rade volte risurge
per li rami / l’umana probitate; e
questo vole / quei che la dà, perché da lui si chiami (121-123).17
Il tono della guida, il cicerone
Sordello, è dolente a causa dell’attesa nel vestibolo del Purgatorio. La mestizia di Sordello,
della stessa natura di quella dei
principi, gli conferisce un aspetto
contrito, a causa dei «loro atti,
quasi di statue viventi» (l’osservazione è di Chiavacci Leonardi
nel suo commento, Introduzione
al canto Pur VII). Nella nota ai
vv. 107-108 l’interprete ritorna
sulla similitudine: «In questa rassegna, Dante sembra quasi ritrarre delle statue, colte in atti fissi
ed espressivi, di cui questo è il
più plastico ed evidente». Su
queste similitudini di statuaria avremo modo di tornare più ampiamente in seguito.
Se anche Dante ha avuto i suoi
traviamenti giovanili e una certa
licenziosità di contenuti nei testi
di quel periodo, come dimostra la
dibattuta tenzone con Forese, a
maggior ragione nell’itinerario di
purgazione egli, di volta in volta,
avrà modo di identificarsi nei vari
poeti chiamati sulla scena del
viaggio. Essi gli servono per rievocare delle «tappe, autobiografiche, di un gradus poetico che,
superati i “nodi” di propensioni
stilistico-tematiche basse e medie, è destinato a chiudersi nella
prospettiva del sublime paradisiaco».18 Infatti Maria Luisa Meneghetti ha parlato di “nodo attanziale” a proposito del ruolo svolto
dal personaggio di Sordello nell’economia morale del poema:
«se ne colloca la figura nella corretta posizione di ipostasi di un’i17
Il tema era stato sviluppato da
Dante nel IV libro del Convivio: «’l
divino seme non cade in ischiatta,
cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone» (xx 5).
18
Meneghetti 2014, p. 1101.
17
stanza intellettuale», che trova
degli addentellati puntuali come
per esempio l’ordinamento gerarchico “ab imperatore” (colui che
più siede alto, Pur VII 91) dei
sovrani negligenti.19
Anche il vizio spicciolo del gioco
d’azzardo, soggetto con cui si
apre il canto Pur VI,20 sembra
avere un legame con Sordello,21
in base alle voci che egli fosse
stato in gioventù un accanito giocatore ai dadi, capace di perdere
nel gioco palafreni e destriero,
secondo quanto ci tramanda una
cobla polemica anonima.22 L’invettiva di Dante contro la corrotta
Italia e contro Firenze (Pur VI
76-151), nella sua forza di denuncia, deve tenere conto dei difetti e
della volontà di riscatto, sia a livello di preciso individuo che di
generico uomo investito di cariche pubbliche; essa deve essere
atteggiata in un «discorso su una
costellazione di valori e di model19
A chi ha fatto notare che l’aggettivo “negligente” è esplicitamente attribuito al solo Rodolfo d’Asburgo
(Cherchi), si può replicare con Silvio
Pasquazi, Sordello e la valletta dei
principi (1966), in Id., All’eterno dal
tempo: studi danteschi, Bulzoni, Roma 19853, p. 233: «l’oggetto […] del
“compianto” in morte di Blacatz […]
è costituito, assai più che da singoli
personaggi, proprio da quella Europa
disordinata che Dante ha rappresentato nella Valletta».
20
Meneghetti 2014, pp. 1091, 1093 e
nota 7, 1094.
21
Sul perché Dante abbia scelto il
personaggio storico di Sordello, dalla
vita movimentata, tra i diversi contributi storici è ancora utile la puntuale nota “a proposito di recenti pubblicazioni” di Ernesto Giacomo Parodi, sul BSDI, n.s. 4, 1897, n. 11-12,
pp. 185-197 (testo online, d’ora in
avanti Parodi 1897). Le pubblicazioni
pertinenti recensite da Parodi sono la
“bella conferenza” di Vincenzo Crescini e quella di Francesco D’Ovidio
del 1892.
22
Si veda il numero monografico di
«Cultura neolatina», 60, 2000, con
gli atti del Convegno internazionale
di studi su Sordello di Goito; il contributo di Elsa Gonçalves analizza
questo aspetto, “… soo maravilhado
/ eu d’En Sordel …”, si trova alle pp.
371-386. Gli Indici della rivista per
gli anni 1971-2001 si trovano qui:
https://www.mucchieditore.it/images/Indi
ciRiviste/Indici1971_2001.pdf
li di comportamento di carattere
atemporale».23
Sordello è il primo poeta ad
apparire nella seconda cantica,
dopo che da lettori ci siamo
imbattuti in personaggi anche
pertinenti alla poesia: il musico e
cantore Casella (Canto II, abbracciato invano da Dante ai vv. 7981) e il liutaio Belacqua (canto
IV). Il suo è un ruolo chiave e di
prolessi per quello che sarà il “girone dei poeti” di Pur XXIVXXVI.
La supplenza che Sordello svolge, come controfigura e maschera
ideologica di Dante – Meneghetti
ha scritto di “doppio politico di
sé”24 –, si spiega perché la «storia
e la politica sono quasi assenti
dalle Rime di Dante»,25 ma non lo
possono essere dalla Commedia!26 Tra i due corre solo una generazione, così che i signori sovrani citati da Dante appaiono
preoccupati per la condotta dei
loro principi ereditari vissuti o
ancora vivi ai tempi del viaggio
di finzione dantesco alla svolta
del secolo.
Il Dante “giovinetto” sarebbe venuto a conoscenza di una leggenda su Sordello sorta dopo il rientro di questi in Italia al seguito
della campagna di Carlo d’Angiò:
«il trovador mantovano, mutato
23
Secondo le parole di Stefano Asperti, Sordello tra Raimondo Berengario V e Carlo I d’Angiò, «Cultura
neolatina», 60, 2000, pp. 141-159
(d’ora in avanti Asperti 2000).
24
Meneghetti 2014, p. 1101.
25
Così Claudio Giunta nel commento
alle Rime, per l’edizione delle “Opere
di Dante”, vol. I, diretta da Marco
Santagata, Mondadori, Milano 2011,
p. 540: «il Dante lirico non è quello
che si definirebbe oggi un poeta
militante, che parteggi per l’una o
l’altra fazione. È semmai, in certe
canzoni, un moralista».
26
Come pure ha sottolineato Alberto
Varvaro in un’altra lettura di Purg.
VI; si trova in Casa di Dante in Roma, Purgatorio: letture degli anni
1976-79, [a cura di Silvio Zennaro],
Bonacci, Roma 1981, pp. 123-133, a
p. 128: «non credo possibile considerare il personaggio dantesco altro che
il raggrumarsi, spesso felicissimo, in
una figura e in un destino umani di
un discorso etico e poetico che li trascende, anche se certo non li annulla».
d’animo e d’aspetto, il crine canuto, severo il volto, ricco di senno e di sapere, famigliare d’un
gran principe».27 Così la carriera
letteraria di Sordello passò dalla
dimensione cortese a quella cortigiana e cancelleresca al servizio
di Carlo d’Angiò tra il 1248 e il
1265. Sordello visse in prima
persona le relazioni diplomatiche
di quella corte, gli screzi con lo
stato pontificio a proposito della
campagna militare con la quale
ebbe fine la potenza della casa di
Svevia, dopo che proprio da Clemente IV era venuta la prima istigazione agli angioini a muoversi.
Per capire come possa essere avvenuta la conoscenza dell’opera e
del personaggio di Sordello, anche da fonti indirette, da parte di
un attento lettore e critico letterario quale Dante indubbiamente
fu, si può prendere come componimento-guida una cantio illustris
di Aimeric de Peguilhan, il collega trovatore autore del serventese Totas honors e tuig fag benestan, che è un “pianto” in morte di Manfredi di Hohenstaufen.28
27
Sordello «Era libero e nelle grazie
di Carlo, ormai re di Sicilia, quando
il 5 (o forse il 12) marzo 1269 –
nell’ambito di una distribuzione di
feudi ai baroni – questi gli concesse i
castelli abruzzesi di Monte Odorisio,
Monte San Silvestro, Paglieta e Pila e
il casale di Castiglione […]. Il 30
giugno dello stesso anno, infine, nel
rassegnare alla curia regia i castelli di
Monte San Silvestro, Pila e Paglieta,
ricevette in cambio il castello di
Palena in Abruzzo» (Grimaldi). Su
quest’ultima tenuta di Sordello si
veda la pagina a cura dell’Associazione culturale di Palena, piccolo
comune pedemontano in provincia di
Chieti,
http://www.associazioneculturalepalenese.
com/casa_artisti/medici/Sordello_di_Goit
o.html.
28
Il brano fu edito da Giulio Bertoni,
Il “pianto” in morte di Manfredi, su
«Romania», 43, 1914, p. 168 sgg.
Riccardo Bruscagli, La poesia politica delle origini: Dante e Petrarca,
in Letteratura italiana e Unità nazionale, atti del convegno internazionale
di studi, Firenze, 27, 28, 29 ottobre
2011, a cura di R. Bruscagli, A. Nozzoli, G. Tellini, SEF, Firenze 2013,
pp. 3-20 (d’ora in avanti Bruscagli
2013), ha allegato la testimonianza
storiografica di Carducci, Dello svolgimento della Letteratura nazionale
(1874), nella quale si ricorda che
18
Si avrebbe così un pendant a
ruoli invertiti, tra un rimatore
provenzale che compone l’elegia
per la tragica fine del re di Sicilia,
e il collega mantovano Sordello
che ‘piange’ nel 1237 per il signore di Provenza Blacas d’Aulps, protettore della poesia trobadorica alla corte di Berengario
IV.
Inoltre i due suddetti rimatori
sono in un altro rapporto di disputa di tipo moralistico, si potrebbe dire, perché Aimeric, ormai anziano e in servizio presso i
Malaspina, scrisse un sirventese,
Li fol e-il put e-il filol, «contro gli
intemperanti giullaretti vaganti
che affollano le corti dei signori
settentrionali dell’epoca», in una
cobla riferendosi proprio a Sordello «tratteggiato come un accanito giocatore di dadi, cui la fortuna volge sovente le spalle».29
Serve ora tornare ad Aimeric e ad
un’altra sua cantio illustris dal
titolo Si com l’arbres, que per sobrecargar (citata da Dante in
Dve, II VI 6, quale esempio di
canzone dal costrutto eccellente).
Fu un testo fortunato considerato
l’indice di copiatura. Tra i testimoni vi è il canzoniere occitanico
P (Pl. XLI 42, BML, Firenze),
«trascritto da una mano umbra e
verosimilmente legata alla Firenze dell’ultimo quarto del Duecento, visto che residuano nel codice
diverse tracce di intermediazioni
[grafico-fonetiche], appunto, fiorentine». Dalla sottoscrizione
sappiamo che si tratta di un copista di Eugubio (Gubbio), destinato a copiare un altro ms. importante, il Martelli 12 latore agli
inizi del Trecento di testi danteschi.30
Il canzoniere P probabilmente fu
letto dal giovane Dante, che così
avrebbe avuto modo di familial’unico poeta di corte a scrivere un
compianto per il martirio del re Manfredi ad opera degli angioini (spedizione nella quale partecipò probabilmente Sordello) è il già ricordato
trovatore Americo di Peguilhan.
29
Cito da Meneghetti 2014, p. 1094 e
nota 10.
30
Per uno studio paleografico si veda
Sandro Bertelli, Nota sul canzoniere
provenzale P e sul Martelli 12, «Medioevo e Rinascimento», n.s. 18, 15,
2004, pp. 369-375.
rizzare con la figura di Sordello,
alla quale avrebbe riservato il
ruolo chiave che stiamo anatomizzando. Il Sordello che emerge
dai testi di P ha, dunque, una connotazione picaresca per quello
che viene detto delle sue abitudini di vita, mentre i testi autoriali
sono solo quattro tra le coblas
esparsas, parte attribuiti e parte
anonimi. Viene descritto un Sordello facile alle risse di taverna
che poco si adatta al «pensoso
moralista dipinto nella Commedia, un’immagine, questa seconda, che di necessità implica la conoscenza del filone più “alto”
della produzione del trovatore
mantovano, al cui interno spiccano il planh per Blacatz31 e l’Ensenhamen d’onor».32
Il Compianto funebre di Sordello
per il signore di Aups Blacatz
(risalente agli anni 1236-37),
«perché in lui ho perso un [buon]
signore e un buon amico, e poiché tutte le nobili qualità sono
scomparse con la sua morte»,33
sarebbe così stato il pretesto biobibliografico, ossia la fonte e lo
spunto per quella rassegna interessata che Sordello fa dei Principi, cooptato da Dante-autore
quale autore-guida specializzato
nel genere della lamentatio.
Il topos, a cui ricorre Sordello nel
planh, è quello del cuore estratto
dal cadavere dell’eroe e dato da
mangiare ai «baroni che vivono
privi di coraggio»34 affinché ne
traggano giovamento per svolgere
in modo adeguato la funzione
assegnata loro da Dio:
[…] che gli si asporti il cuore e che
ne mangino i baroni che vivono privi
di coraggio, poiché del cuore [di Blacatz] avranno beneficio. […] È peccato che, quando Dio innalza a grande potenza qualcuno, la mancanza di
31
Per il testo in originale si veda
http://www.rialto.unina.it/Sordel/437.24(
Boni).htm.
32
Meneghetti 2014, p. 1097.
Versi 3-4: «qu’en luy ai mescabat
senhor et amic bo, / e quar tug l’ayp
valent en sa mort perdut so».
34
Sul tema del cuore mangiato si
veda Luciano Rossi, Il cuore, mistico
pasto d’amore: dal Lai Guirun al Decameron, in Studi provenzali e francesi 82 (Romanica vulgaria: quaderni, 6), Japadre, L’Aquila 1983, pp.
28-128.
33
cuore lo faccia poi discendere di
pregio
[qu’om li traga lo cor e que-n maniol baro / que vivon descorat, pueys
auran de cor pro / […] / tortz es,
quan Dieus fai home en gran ricor
poiar, / pus sofracha de cor lo fai de
35
pretz bayssar].
Quel motivo, forse ricorrente anche per poligenesi, ritorna prima
in un epigono, Peire Bremon Ricas Novas, autore nel 1237 di un
planh sempre per la circostanza
della morte di Blacatz, composto
a imitazione di quello di Sordello.36 Anche lo schema metrico è
condiviso da altri sei componimenti seriori. Esso potrebbe probabilmente derivare dalla melopea epica della canzone di gesta.37
Il topos è una conferma della
frequentazione di Dante delle rime del trovatore di Goito, considerato che l’immagine del cuore
mangiato si ritrova nella Vita
nuova, nell’episodio iniziale del
sogno «ne lo quale m’apparve
una maravigliosa visione», con
l’ipostasi di Amore che esorta
prima il protagonista con l’imperativo «Vide cor tuum», mostrato
dalla personificazione; e poi Beatrice, assopita sulle braccia di Amore, «che le facea mangiare
questa cosa che in mano li ardea,
la quale ella mangiava dubitosamente» (Vn III 5-6). Dante nel
voler decriptare la “maravigliosa
visione” si «propuose di farla
sentire [la mirabil cosa] a molti
li quali erano famosi trovatori in
quello tempo […] propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e
pregandoli che giudicassero la
35
Planh de Blacatz, vv. 7-8, 31-32.
Nel componimento si immagina di
dividere in quarti il corpo di Blacatz
e distribuirlo in vari paesi; uno lo
avranno i sudditi dell’Impero («Lombardi e Tedeschi, Puglia, Russia [probabilmente la Prussia e le province
baltiche], Frisia e Brabantini»), che
verranno a Roma ad adorarlo, e il
«nobile imperatore» vi faccia costruire una cappella dove si osserveranno
le virtù cortesi (vv. 4-8).
37
Così si legge nella scheda di Rialto, citata poco sopra.
36
19
mia visione, scrissi a loro ciò che
io avea nel mio sonno veduto».38
Ci si chiede, dunque, quando e
dove Dante possa essere venuto a
conoscenza di quel testo di Sordello. Lo avrà letto probabilmente
in esilio durante il primo decennio del Trecento o poco dopo, in
coincidenza con la stesura di Pur
VI-VIII. Il compianto ebbe la
maggiore diffusione tra le opere
di Sordello: si contano sei testimoni copiati in Italia contro tre
dell’area francese meridionale. Al
di là dello stato strettamente
stemmatico, importa sapere che
Dante potrebbe aver letto una redazione del planh priva della seconda tornada, quindi – come osservato da Meneghetti – con una
percezione del testo all’insegna di
una «purezza morale e politica
che l’ammiccamento erotico-cortigiano [all’amata Belh Restaur
(Bel Ristoro, senhal), vv. 43-44]
indeboliva». Pertanto in una forma – «possiamo dirlo? – più leonina. E il dato acquista particolare rilievo se si tiene conto che
[…] i due manoscritti [S39 e l’originale di a40] che aboliscono la
tornada in questione, possono venir collegati […] ad ambienti frequentati da Dante nel periodo della composizione dei canti sordelliani del Purgatorio o in quello
appena precedente».41 Equivale a
38
Il sonetto di interrogazione, come
noto, è A ciascun’alma presa e gentil
core (Vn III 10-12), tra i vari risponditori ci fu il «primo de li miei
amici», Guido Cavalcanti, il quale
iniziava il sonetto responsivo con Vedeste, al mio parere, onne valore.
39
Si tratta del ms. Douce 269, conservato alla Bodleian Library di Oxford; di Sordello contiene il solo
planh.
40
L’originale andato perduto è il canzoniere di Bernart Amoros (post
1270 e probabilmente già circolante
nella penisola a inizio Trecento, quindi alla portata di Dante esule). Il ms.
a è la copia eseguita nel 1588 a Firenze per Leone Strozzi.
41
Meneghetti 2014, pp. 1097-99. Il
percorso del codice Bernart Amoros
dall’Alvernia alla Toscana, probabilmente con una o più tappe liguri del
viaggio, si giustifica considerando la
grande voga provenzaleggiante postbembesca; inoltre è da considerare la
massiccia presenza nelle parti finali
delle sezioni (monoautoriali, e delle
dire, in ordine cronologico, il
soggiorno di Dante a Bologna del
1304-06, e il successivo periodo
fino ai primi mesi del 1308, comunque prima della composi zione del trittico di canti sordelliani.
In quest’ultimo segmento temporale le notizie sulla vita di Dante
ci portano alla Lunigiana, dove il
Poeta soggiornò nel corso del
1306.42 Maria Luisa Meneghetti
preferisce la seconda ipotesi
temporale per la lettura di quei
testi di Sordello da parte di Dante, seppure «maggiormente ancorata a dati congetturali rispetto
all’altra» per un doppio ordine di
considerazioni:
1) Nel canzoniere di Bernart Amoros, oltre al planh e a tre testi
minori di Sordello, si conservano
due unica (testi attestati solo in
questo codice) dei colleghi trovatori Peire de Castelnou e Luchetto, «nei quali Sordello è citato o
perfino elogiato non già come poeta, bensì come perfetto esempio
di lealtà cavalleresca», pur essendo i due autori schierati contro
l’operato di Carlo d’Angiò, signore di Sordello.43
2) La discrasia tra il ruolo e lo
spazio assegnati a Sordello nella
Commedia e il breve, criptico accenno a lui dedicato nel De vulgari eloquentia (vedi infra), trattato composto – secondo le ultime convincenti ricostruzioni di
Mirko Tavoni – proprio durante il
biennio luglio 1304 - febbraio
1306 e interrotto a seguito della
tenzoni) di trovatori genovesi (Lanfranco Grillo, Giacomo Grillo, Luchetto Gattilusio), che avrebbe permesso di integrare, con aggiunte ad
hoc, il corpus primitivo del canzoniere, utilizzando gli spazi rimasti bianchi o delle nuove carte, in una stratigrafia che in sede di copia si annullò. Infine l’asse Genova-Lunigiana si
era rinforzato con il matrimonio negli
anni ’80 del Duecento del marchese
Moroello Malaspina con Alagia Fieschi, nipote di papa Adriano V.
42
Per l’ipotesi di datazione della
composizione dei canti sordelliani in
Lunigiana cfr. Natascia Tonelli, Purgatorio VIII, 46-139: l’incontro con
Nino Visconti e Corrado Malaspina,
«Tenzone», 3, 2002, pp. 263-281
(https://webs.ucm.es/info/italiano/acd/tenz
one/t3/Tonelli_tenzone3.pdf).
43
Meneghetti 2014, p. 1100.
fuga dalla città felsinea dopo il
rovescio dei Bianchi bolognesi.
Tale asimmetria, che vede Sordello non degno di nessuna allegazione poetica nel trattato sulla
lingua volgare, mentre nella
Commedia ha il ruolo che sappiamo, si spiega perché il planh per
Blacatz sarebbe stato fruito da
Dante solo negli anni successivi
alla stesura del De vulgari eloquentia, quando era ospite presso
i Malaspina nei mesi del 1306 in
avanti. Da quella lettura sarebbe
venuta, grazie a una progressiva
autoidentificazione nel trovatore
fondata su una miglior conoscenza dell’opera sordelliana, l’ideazione felice per il ruolo chiave
che il Sordello dantesco riveste
nei canti finali dell’Antipurgatorio. Fra i diversi dantisti che hanno rilevato la giustezza della scelta della figura del trovatore di
Goito da parte di Dante si ricorda
Francesco Novati:
Due o tre strofe del serventese [planh
per Blacatz] in cui queste ed altre
consimili dichiarazioni si leggono, lascian intravvedere qualche lampo di
quell’altero disdegno, onde tutto sfa44
villa il Sordello dantesco.
Gentile nella stessa direzione nota che quasi certamente vi è un
richiamo concettuale – come l’un
pensiero dall’altro scoppia – tra il
serventese in morte di ser Blacatz, il planh che ha reso celebre
Sordello, e la reazione di rammarico con la quale Dante inveisce
con l’«infocata lirica […] dettata
per ridar coraggio ai principi
ignavi e degeneri».45 L’improperio Ahi serva Italia pronunciato
da Dante, si noti che potrebbe essere anche il Dante-personaggio,
è il moto del Poeta che «espande
e sente la sua propria [reazione],
poiché dalla viva espressione
dell’amor di patria di Sordello e44
Novati aveva tenuto una lectio dantesca su Il canto VI del Purgatorio
letto nella sala di Dante in Orsanmichele, Firenze 1903. Si trova raccolto
in F. Novati, Freschi e minii del Dugento: con l’aggiunta d’un capitolo
inedito su Origine e sviluppo dei temi
iconografici nell’Alto medioevo, Cogliati, Milano 1925, pp. 115-141
(d’ora in avanti Novati 1925); la citazione si trova a p. 132.
45
Gentile 1965, p. 227.
20
gli è ispirato nella sua accesa invettiva alla Italia».46
Alcuni critici hanno paragonato
la dignità magnanima di quei sovrani prescelti e passati in rassegna da Dante per il tramite di
Sordello, insieme alla compostezza iniziale del trovatore – di «altera magnanimità» scrive Gentile
–, agli “spiriti magni” nel Limbo;
tra i quali si trova per statuto Virgilio non per quello che ha commesso (Inf IV 35-39), ma per non
fare ho perduto / a veder l’alto
Sol che tu disiri / e che fu tardi
per me conosciuto (Pur VII 2527).
Quell’atteggiamento è riassumibile nel verbo chiave del “sospiro” che funge da elemento di raccordo tra i due luoghi e i personaggi che li caratterizzano, cioè
Inf IV 26-27: non avea pianto
mai che di sospiri / che l’aura
etterna facevan tremare; e Pur
VII 29-30: ove i lamenti/non suonan come guai, ma son sospiri. Il
dispositivo del contrappasso viene ribadito da Virgilio in Pur VII
7-8: per null’ altro rio / lo ciel
perdei che per non aver fé.
Di quei Prìncipi corrotti e incuranti del bene dei popoli se ne
contano otto nell’appassionato
compianto di Sordello, alcuni dei
quali incrociano le sorti dinastiche di quelli, anch’essi in numero
di otto al netto di alcuni discendenti e successori pure ricordati,
presenti nel dantesco «vallone
intra fiori ed erbe» (dalla rubrica
di Pur VII dell’ed. Petrocchi).
Il trovatore Sordello, un “gentil
cattano”47 seppur in decadenza,
ebbe una vita movimentata, stando a quello che tramandano le
Vidas A e B, i due cicli delle
biografie dei poeti provenzali.
Egli sarebbe stato l’esecutore del
rapimento di Cùnizza da Romano, altro ben noto personaggio
della Commedia, che sarà inserito
tra gli “spiriti amanti” del cielo di
Venere (Par IX).48
46
Gentile 1965, p. 230.
Cattano (sec. XIII) viene dal latino
*capitānu(m) “capitano”, passando
per il lat. volg. capitaneus, e significa: signore di un castello, vassallo.
48
Cfr. la voce “Cunizza da Romano”,
in ED, a cura di Fernando Coletti:
«Quanto ai rapporti tra Cunizza e
47
Le vicende biografiche di Sordello erano state filtrate – lo ricorda
Novati – da «cobbole, piene di
male parole», esempio delle
«contese non leggiadre» che i trovatori e i giullari si scambiavano
in un clima di «invettive mordaci
de’ poeti rivali», un’usanza destinata a essere travasata «supinamente [con] le maldicenze e le
calunnie» nelle biografie provenzali.49
Il francese Claude Fauriel, amico
di Manzoni, scrisse che l’Alighieri «ha voluto fare ed ha fatto
di Sordello il tipo, l’ideale del
patriotta in generale e più particolarmente […] italiano: egli ne
ha fatto un ghibellino» che «spera ed invoca ancora da un altro
imperatore la salvezza della penisola». Ma Novati, che lo cita
per controargomentare, ritiene
che Sordello più profondamente
e universalmente personifica
«nella sua forma più caratteristica, più primitiva, […] la carità
verso il natìo loco, la tenerezza
figliale: Mantua me genuit»,50
come accennato in Pur VI 72,
dall’iscrizione sulla tomba di
Virgilio nel Parco di Piedigrotta
a Napoli.
L’agnizione «rivela una grande
ricchezza di sentimenti [...]. Vi è
insieme dell’eloquente e del poetico», ammette De Sanctis. Tale
moto delle emozioni da Sordello
torna al suo artefice Dante per un
movimento riflesso, che è strutturale nella finzione della Commedia, formulabile con la regola che
“Dante parla e sente per bocca dei
suoi personaggi”.
In quel riconoscimento lanciato
attraverso i secoli, che avviene
tramite la comune origine di
Mantua – chissà se nel latino parlato da Virgilio (a parte il linguaggio della finzione) era dato
ritrovare quella patina locale o
Sordello prima del ratto, dalle espressioni delle due Vidas sembra che essi
rientrassero nel novero dei consueti
vagheggiamenti trovadorici, sul piano
dell’amor cortese e platonico. (Non
ostacola tale interpretazione il contrario noto aneddoto riportato da
Benvenuto, per il suo evidente sapore
fantasioso e novellistico)».
49
Novati 1925, p. 131.
50
Novati 1925, pp. 136-137.
quell’accento municipale che distingueva il latino di Tito Livio
per la sua patavinitas –, si ha la
manifestazione dell’amor patrio,
ed è indubbiamente un sentimento ricambiato tra il trovatore mantovano e l’illustre concittadino di
epoca romana, e in ultima analisi
condiviso da Dante che è l’artefice, giova ribadirlo, di tutti i personaggi e dei loro sentimenti.
Ma passata l’emozione lieta tra i
due poeti mantovani, altrettanto
spontaneamente si ha la reazione
già innescata in interiore homine
dal Dante-autore per il rincrescimento dovuto al triste contrasto
tra il passato e il presente della
situazione politica della penisola.
E così il Poeta commenta come
una voce fuoricampo:
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,/
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra /
li vivi tuoi […]
(Pur VI 79-83)
Quell’aggettivo e avverbio insieme al v. 79: il “presto” abbraccio
delle due anime, pur a dispetto
del loro stato ontologico che le
vuole smaterializzate, è invece
ben fisicamente descritto e percepito in modo vivo da Dante, all’ora del tramonto: sì che ’ suoi
raggi [del sole] tu romper non fai
(57), mentre solitamente il suo
corpo di vivente fa ombra ai raggi
oltremondani – ne abbiamo un
esempio in Purg. V 25-27.
Il deittico in te, antitetico al quivi
(l’oltremondo dei morti) del
verso precedente, sta a indicare
da un lato il comune di Firenze
vittima di conflitti intestini, una
realtà che Dante ben conosceva
da esule di parte nella lotta tra
fazioni nel capoluogo toscano;
ma d’altro lato è un allarme per la
futura nazione italiana – poiché la
terra, cioè la “città” in antico italiano, che fa rima con guerra :
serra, è sia la realtà municipale
che in astratto la patria.
Appare evidente, dunque, che
l’invettiva dantesca rampollante
dal sentimento di carità cittadina
di Sordello, sia «non già come lo
scatto di un’anima solitaria, un
ammonimento che muore nel silenzio, ma quasi grido prorompente dai precordî stessi della na21
zione a testificare della sua virtù
mortificata, sopita, non ispenta».51 Essa pertanto non è un epitaffio, ma un grido di battaglia e
di riscatto. Dante, evidentemente,
allude ad una municipalità rimasta stabile dai tempi di Virgilio
fino al Medioevo, e nella quale è
lecito preconizzare l’unità italiana
sub specie linguistica. Si consolida così meglio quel cortocircuito
di sentimenti e reazioni affettive:
Mantova come Firenze, entrambe
città accomunate attraverso i secoli nel bene da una “lingua nostra” (Pur VII 17) e nel male da
un muro ed una fossa [che le]
serra (Pur VI 84).
Dante, in sintonia con i sentimenti di Sordello (e non potrebbe essere diversamente), esplicita ciò
che è innescato dalla finzione
nell’intimo del suo personaggio.
È anche difficile distinguere tra il
Dante-autore o il personaggio, tale è la forza drammatica dell’invettiva. L’epiteto glorioso donna
di provincie (78) deriva dall’attributo di «domina provinciarum»,
secondo una espressione che risale ad un aforisma latino di giuristi. Spiega Novati che l’etichetta
è risalente al «bizzarro spirito
fiorentino» di Boncompagno da
Signa, quale perifrasi per indicare
una prosopopea del sogno di una
missione eroica per la penisola
italiana – un po’ come l’immagine di Roma caput mundi –, «che
le ridonerà, pur nell’atto di negarglielo, l’Alighieri».
E però che più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fu
né fia che quella de la gente latina –
sì come per esperienza si può vedere
– e massimamente [di] quello popolo
santo nel quale l’alto sangue troiano
era mischiato, cioè Roma, Dio quello
elesse a quello officio (Convivio IV
52
iv 10).
Nel gioco di specchi e anticipazioni delle trame della Commedia, Sordello è l’incrocio tra la
patria italica e l’esperienza poetica perfezionata oltralpe. Rappresenta una tradizione di poesia con
contaminazioni geografiche: inizialmente presso le corti feudali
51
Novati 1925, p. 140.
Il passo è citato in Novati 1925, p.
141.
52
della contigua Alta Italia, poi con
i trovatori approdati in Sicilia,
con i loro testi copiati in un métissage siculo-toscano.53
La preminenza di Sordello da
Goito tra i trovatori si deve anche
a quel poco (in relazione a lui)
che ci riferisce Dante nel De
vulgari eloquentia, in un passo
che autorizza a considerare il
poeta fiorentino come il primo
“filologo romanzo” della nostra
tradizione di studi. A nozioni di
linguistica areale sono ispirate,
infatti, le righe del trattato, a I xv
2, dove si legge:
[...] forte non male opinantur qui
Bononienses asserunt pulcriori locutione loquentes, cum ab [...] circunstantibus aliquid proprio vulgari asciscunt, sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus, ut Sordellus de
Mantua sua ostendit, Cremone, Brixie atque Verone confini: qui, tantus
eloquentie vir existens, non solum in
poetando sed quomodocunque loquendo patrium vulgare deseruit.
[forse, non si sbagliano quelli che
pensano che i Bolognesi parlino la
lingua più bella, visto che prendono
qualcosa nel loro volgare da quello
dei vicini […] come io credo che
faccia chiunque coi propri vicini e
Sordello ha mostrato con la sua
Mantova, confinante con Cremona,
Brescia e Verona: lui infatti fu un
così grande artista della lingua, che
non solo poetando, ma in qualsiasi
modo parlando, abbandonò il volgare
54
della sua patria].
53
Cfr. Walter Meliga, Trovatori provenzali, in Federiciana (2005),
https://www.treccani.it/enciclopedia/trova
tori-provenzali_%28Federiciana%29/:
«da quando nel quadro italiano cominciò a farsi sentire l’azione di Federico II, molti trovatori iniziarono a
rivolgere i loro componimenti al giovane re e imperatore, anche se spesso
come portavoce dei signori che li ospitavano e li proteggevano».
54
Si cita dall’edizione del De vulgari
eloquentia, con introduzione, traduzione e note di Vittorio Coletti, Garzanti, Milano 1991, pp. 38-39. Nella
nota a p. 121 il curatore ricorda che
Sordello potrebbe aver rimato anche
in volgare italiano, stando all’attribuzione dubbia di un Serventese nella
raccolta dei Poeti del Duecento di
Contini. Per il trattato dantesco si veda la tornata accademica del 15 giugno 2021 (disponibile online) presso
l’Accademia della Crusca, Non solo
italiano: Dante, il “De vulgari elo-
La cantica dell’espiazione oltre ai
politici sovrani vedrà chiamati in
causa anche i poeti, in un canone
dinamico tra i poli della lirica
provenzale e quella italiana delle
origini. «Con manifesta compiacenza l’autore ha introdotti nel
Purgatorio di assai poeti ed artisti
[...] e con esso loro s’intrattiene
in nobili e cari ragionamenti, talora intorno all’arte», scriveva De
Sanctis.55
Dante si autopresenta come un
cantor rectitudinis (ruolo che
svolge nelle canzoni del Convivio), in parallelo con il trovatore
Gerardum de Bornello,56 ma senza fare il proprio nome in modo
esplicito, nel canone dei rimatori
volgari italiani per i tre magnalia
del genere canzone. La Virtus (o
directio voluntatis): «Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius
rectitudinem» (Dve II II 8-9).
L’omologo di Cino per Venus o
l’amoris accensio tra i provenzali
è stato Arnaut Daniel dallo stile
difficile e raffinato (scil. trobar
clus), dopo essere stato modello a
Dante quale mi-glior fabbro del
parlar materno (Pur XXVI 117).
A Bertran de Born resta la competenza poetica delle “armi” (Salus o armorum probitas), una
specialità che non trovava in Italia un omologo: «Arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse» [Dve II II 10: «Non mi risulta, invece, che finora ci sia stato qualche poeta di armi in volgare italiano], a meno di non voler
richiamare “alle armi” il soldato
Sordello nel frattempo arruolatosi
nella legione provenzale.57
quentia” e le lingue: una lezione per
l’Europa? (disponibile online a
https://www.youtube.com/watch?v=_Ut_3
JqFn5U).
55
De Sanctis 1955, p. 30.
Sul personaggio citato da Guinizzelli in Pur XXVI 120, si veda da
ultimo la proposta di diversa identificazione di Giraut de Borneil nella perifrasi quel di Lemosì, di Luciano
Rossi, “Palinodie” dantesche: «Quel
di Lemosì», «Medioevo letterario d’Italia», 18, 2021, pp. 69-94, il quale avanza l’ipotesi che debba trattarsi
d’un autentico Limosino, molto famoso, accomunabile a Guittone per il
‘plebescere’ dello stile ben noto a
Dante e a Cino da Pistoia.
57
È questa la tesi di Teodolinda Barolini che vede in Sordello e Bertran,
56
22
I due trovatori, in effetti, si trovano affiancati nel canzoniere F
(Chigi L IV 106, BAV, Città del
Vaticano), con 15 testi di Sordello, anche se non dei migliori, all’inizio e un’altra sezione d’autore alla fine riservata a Bertran.
Nella scansione delle fasi poetiche di Sordello, in qualche modo
apparentabile a quella di Guittone
d’Arezzo (1230/40-1294?),58 in F
non si trova il cantore politico o
civile, di alto impegno morale,
ma piuttosto il trovatore cortese,
il poeta d’amore e l’autore di dibattiti con l’esclusione di quelli di
tono più basso, polemici e di invettiva personale, composti in
Italia negli anni giovanili (Asperti
2000), quelli forieri del ‘plebescere’, per intenderci.
Come ha ben colto Meneghetti,
Dante si creò «progressivamente
un’immagine ideale di Sordello e
del suo itinerario poetico (anzi,
poetico e umano): un itinerario
ascendente, che dai bassifondi dei
componimenti tabernari, attraverso la medietas della vena eroticocortese, conduce alla tensione
morale e politica del planh».59
Pertanto nello sfortunato giocatore della zara che si riman dolente (Pur VI 2), oltre al valore
gnomico di qualunque perdente
destinato alla solitudine mentre in
controcampo il vincitore è assediato dagli approfittatori anonimi,
è forse da rilevare tacitamente un
riferimento al Sordello bohèmien,
il picaro perdente prima del suo
riscatto morale – soprattutto nell’adattamento che ne farà Dante.
Molto finemente è stato osservato
così da Meneghetti,60 e con lei
per come li descrive Dante nella
Commedia – eco evidentemente delle
sue letture –, dei poeti in lingua d’oc
di vena quasi esclusivamente politica.
L’ipotesi però non regge in base a
quanto si dice fra poco, nel seguito
del presente scritto, a proposito del
tipo di silloge dei testi di Sordello.
58
Guittone e Sordello, autori di riferimento per Dante, hanno qualcosa in
comune, dunque, quando rievocano e
si rimproverano i peccati del loro
dolce tempo.
59
Meneghetti 2014, p. 1101.
60
Meneghetti 2014, p. 1093 e nota 8:
«Mi sembra però che una prima, allusiva e insieme criptica apparizione di
Sordello sulla scena del poema dantesco trovi posto già alcune decine di
altri in passato. Infatti troviamo
Sordello descritto esplicitamente
dopo poco (vv. 58-59 e 72) nella
posa atteggiata in modo leonino,
ancora solitario ma con una connotazione di segno diverso rispetto al perdente della similitudine
iniziale. Ora il personaggio è calato, e lo anticipa, nel profeta fustigatore del malvezzo dei principi negligenti.
Tornando al canone dei rimatori
della penisola, tra i poeti toscani
che fanno eccezione alla generale
rozzezza, Dante, sempre senza fare il proprio nome apertamente,
elenca quelli che hanno raggiunto
la «vulgaris excellentiam [...] scilicet Guidonem [Cavalcanti], Lapum et unum alium, Florentinos,
et Cynum Pistoriensem» (Dve I
XIII 4).
Prima dell’accensione stilnovistica, vi era dunque nelle rime della
volgar lingua il ‘plebescere’ impersonato, secondo il gusto di
Dante, a partire dagli anni Quaranta del XIII secolo fino alla metà degli anni Sessanta da Guittone
d’Arezzo. Il quale all’inizio della
sua carriera letteraria si era dedicato alla stesura di sonetti erotici
– un po’ in parallelo con la “passada folor” del Sordello giovane
databile ai primissimi anni ’20
del Duecento61 –, nei quali dominano stilemi e lessico dall’evidente ascendenza provenzale,
elaborati in prevalenza secondo la
tecnica del trobar clus, che Guittone trapiantò in Toscana non
senza il tramite delle sperimentazioni attive alla corte siciliana di
Federico II, imponendosi ben pre-
versi innanzi, inserita in quell’immagine del “gioco della zara” su cui il
canto si apre», se quella similitudine
veicola «un rinvio, pur velato, a certe
tematiche poetiche molto familiari al
Sordello giovane, quando non alla
stessa “passada folor” che avrebbe
caratterizzato gli anni verdi della sua
biografia».
61
L’osservazione è di Meneghetti
che rimanda a G. Folena, Tradizione
e cultura trobadorica nelle corti e
nelle città venete (1976), in Id.,
Culture e lingue nel Veneto medievale, Editoriale Programma, Padova
1990 (rist. 2015), pp. 58-77.
sto come l’erede toscano delle
due tradizioni.62
A Dante, nel seguito del viaggio,
avverrà di riconoscere e omaggiare i suoi “maggiori”. Tra questi, oltre ai provenzali, vi è Guittone d’Arezzo. In particolare il
Guittone poeta, autore di testi di
impegno politico e civile, tesi a
sferzare la Gente noiosa e villana
(canzone-sirventese composta nel
1259 ca., n. XV dell’edizione Egidi, pp. 31-35), come pure nella
lettera agli Infatuati e miseri fiorentini (1260).63 Un autore tanto
importante per Dante, in qualche
modo un caposcuola, ma sempre
rimosso e persino sprezzato dal
poeta fiorentino a causa della famosa stroncatura dello stile del
versificare, che lo vede «in vocabulis atque constructione plebescere», e con lui tutta la rimeria
pre-stilnovistica: «Subsistant igitur ignorantie sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios
extollentes» [La smettano dunque
i paladini dell’ignoranza di esaltare Guittone Aretino e altri simili].64
L’esito di quella stagione prestilnovistica fu una rimeria con
risultati importanti anche a Bologna, come si è visto. E Guinizzelli (Pur XXVI 92-93) riceve il
62
Monica Cerroni, DBI, s.v. Guittone
d’Arezzo. Per il corpus di 86 sonetti
amorosi di Guittone, trascritti nel
Canzoniere Laurenziano, si veda
l’edizione critica a cura di Lino Leonardi, Il canzoniere: i sonetti d’amore del codice Laurenziano, Einaudi,
Torino 1994. L’edizione delle Rime,
parte delle quali mostra una virata nei
contenuti, a cura di Francesco Egidi,
Laterza, Bari 1940, è accessibile in
una versione digitalizzata. Si va dalle
162 composizioni amorose (la «raccolta grossa») alle 139 ascetiche e
morali. Il Canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana,
Redi 9), costituisce la principale silloge manoscritta delle rime di Guittone pervenutaci.
63
Si veda Guittone d’Arezzo, Lettere, edizione critica a cura di Claude
Margueron, Commissione per i testi
di lingua, Bologna 1990.
64
De vulgari eloquentia II VI 8. Un
giudizio di popolarità ripreso nel girone dei poeti di Pur XXVI 124-126:
Così fer molti antichi di Guittone,/di
grido in grido pur lui dando pregio /
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
23
suo omaggio da Dante poeta,
quale precursore dello Stilnovo,
cioè il riconoscimento di essere
stato tra i primi a distaccarsi dalla
vieta influenza guittoniana:
[…] Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,/
faranno cari ancora i loro incostri./
(Pur XXVI 112-114, parole di Dante).
Una svolta che anche Bonagiunta
Orbicciani, notaio e rimatore lucchese di respiro «non curiale, ma
municipale» (Dve I XIII 1, ancora
il “plebescere” già rinfacciato a
Guittone), altra voce “per procura” di Dante nel “girone dei poeti”, riconosce al primo Guido,
considerato il capofila di «una
schiera di eletti spiriti in Bologna» grazie ai quali «la lirica atteggiossi a tanta sublimità da farsi
inaccessibile alle rapine disoneste
de’ giullari»:
per avansare ogn’altro trovatore
hanno mutata la mainera
de li plagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era
(Bonagiunta, Voi, ch ’avete mutata la
65
mainera, vv. 1-4).
Ma anche a Guinizzelli è toccato
in parte di rimanere “di qua dalla
capacità di esprimersi in volgare
illustre” a causa di sì aspre lingue
(Inf XI 72) municipali, che pure
trovano o troveranno una koinè
“curiale” italiana, per quanto essa
fosse all’epoca materialmente dispersa:
Non è questo infatti ciò che chiamiamo volgare regale ed illustre,
perché se lo fosse stato Guido Guinizelli – che è il maggiore di tutti –,
Guido Ghislieri, Fabruzzo ed Onesto
e gli altri poeti d’arte di Bologna non
si sarebbero mai allontanati dalla propria parlata, loro che furono maestri
illustri e pieni di discernimento in
materia di volgari […] (De vulgari
eloquentia, I xv 6).
Esattamente secondo quella ricerca di una lingua centrifuga dall’idioma municipale, a norma dello
65
Per il sonetto completo si rimanda
a Bonagiunta Orbicciani da Lucca,
Rime, edizione critica e commento a
cura di Aldo Menichetti, Edizioni del
Galluzzo per la Fondazione Ezio
Franceschini, Firenze 2012.
scarto con cui erano state descritte la grana stilistica e l’elaborazione linguistica di Sordello, appena quattro paragrafi prima (a
Dve I xv 2, già ricordato sopra).
Girolamo Tiraboschi nella sua
Storia della Letteratura italiana
(1788, anno della seconda edizione) inserirà un paragrafo dedicato
alla Poesia provenzale scritta in
lingua d’oc da autori italiani, genere che qui interessa perché Sordello ne è stato, come abbiamo
ricordato, un rappresentante di
rilievo con circa quaranta componimenti.66
Ancora una volta troviamo
l’esatta indicazione sul rapporto
delle influenze delle scuole poetiche dei primi secoli della nostra
letteratura negli scritti della generazione dei maestri dell’Ottocento. Inizialmente Paolo Emiliani
Giudici, storico della poesia delle
origini, nativo di Mussomeli (provincia di Caltanissetta), ebbe
infatti la giusta intuizione riguardo all’importanza del ruolo svolto
da Guinizzelli e dalla scuola bolognese nel processo di genesi e
di “progresso dell’arte” dello Stilnovo. Una sorta di prova generale
poi perfezionata dai sodales della
cerchia fiorentina capeggiata da
Cavalcanti e Dante. Secondo il
critico siciliano la sublimità della
nuova poesia risiedeva nell’aver
saputo associare
«la poesia alla filosofia, giovandosi
della prevalenza della allegoria, che
nel primo costituirsi della scienza religiosa fu assunta come ripiego a derivare la dottrina metafisica cristiana
dalla divina semplicità de’ libri biblici […], [i nuovi poeti] mirarono ad
un fine solenne, e posero la poesia
nella medesima altezza in cui stavano
67
le altre umane scienze».
Con De Sanctis quel canone abbozzato da Emiliani Giudici semplicemente si sposta su un crinale
fiorentinocentrico, che insiste sui
66
Cfr. L’Italia dei trovatori..., a cura
di Paolo Di Luca, con la collaborazione di Marco Grimaldi, 2014
(www.idt.unina.it); Bibliografia elettronica dei trovatori, a cura di Stefano Asperti, Roma 2003 (www.bedt.it).
67
Cfr. Paolo Emiliani Giudici, Intorno ai poeti lirici d’Italia, in Id., Florilegio dei lirici più insigni d’Italia, 2
voll., Poligrafia Italiana, Firenze
1846, I, pp. 25-26, 28, 30.
meriti degli stilnovisti toscani,
l’“altro Guido” e l’“amicus eius”.
Tuttavia, a rileggerlo oggi, «dopo
le importanti conquiste della filologia italiana degli ultimi quarant’anni, la proposta dell’Emiliani ci appare più moderna rispetto
a quella del De Sanctis, ovvero
più vicina ai gusti e alle preferenze che attualmente dominano le
antologie e i manuali, ora che la
“teocrazia desanctisiana” ha ceduto il posto a categorie più vigili
e rigorose».68 L’ultimo sintagma
tra virgolette è di Carlo Dionisotti.69
«Esattamente su questa linea [di Emiliani Giudici] si collocherà, pochi anni dopo, la storia letteraria di F. De
Sanctis che però seppe, al contrario
dell’Emiliani Giudici, concretare la
solida architettura dell’edificio storico con la puntuale, profonda e sensibilissima analisi del fatto poetico e
letterario riconosciuto nella sua in70
trinseca indole».
La forza canonizzante della Storia della letteratura italiana di
De Sanctis (uscita in prima edizione nel 1870, il solo primo volume71) è un dato acquisito, ma
non è inutile ricordare ancora una
volta che le lezioni e i saggi del
critico di Morra Irpina su Dante
hanno costituito il modello principale per la didattica del poema
nazionale nella scuola italiana
fino a tutta la stagione idealistica
e crociana:
E commentò come fin allora nessun
altro aveva saputo, e fece sentire nella loro poetica bellezza, i canti di
Francesca, di Farinata, di Ugolino, di
68
Francesco Sberlati, Risorgimento e
storia letteraria: Paolo Emiliani Giudici, in Id., Filologia e identità nazionale, Sellerio, Palermo 2011, pp.
81-113 (d’ora in avanti Sberlati
2011): p. 93.
69
Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi,
Torino 1967 (più volte rist.), p. 19.
70
Si cita dal DBI, 42, 1993, s.v. Emiliani Giudici, Paolo, a cura di Lucia
Strappini.
71
Il secondo volume uscì alla fine
dell’anno seguente. Nonostante la
stesura dell’opera avvenne a Firenze,
dove il critico risiedeva e dove il
lavoro gli era agevolato dall’ampia
disponibilità di materiale bibliografico fornito dalla Biblioteca nazionale,
la stampa avvenne “in Napoli, presso
Domenico e Antonio Morano”.
24
Pier della Vigna; insomma quello che
è stato il canone di somministrazione
nelle scuole fino a tutto il Novecen72
to.
De Sanctis, sempre con la tensione e la passione narrativa che
della Storia della letteratura italiana fa un capolavoro anche
letterario, giudica negativamente
gli scrittori quali Petrarca e Metastasio, incapaci di quella «serietà
di un contenuto vivente nella
coscienza», riscontrabile invece
in Dante. Quella “serietà” è stata
e dovrà essere il fattore distintivo
della “nuova letteratura” della
nuova Italia.73
Dal punto di vista della cronologia della storia delle patrie lettere,
ugualmente si registra l’influsso
della sistemazione di De Sanctis
con la preminenza inedita conferita all’etichetta tutta ‘dantesca’
di Stilnovo.74 Scorrendo l’indice
della Storia della letteratura italiana, al cap. II dedicato a I Toscani, il paragrafo su Il “dolce
stil novo” è posto a metà tra quelli su La poesia politica e la poesia scientifica e su Dante giovane
e il suo allegorismo poetico.75
Ma torniamo alla fictio dantesca.
Dapprima Sordello viene avvistato da Virgilio: Ma vedi là un’anima che, posta/sola soletta, inverso noi riguarda (Pur VI 58-59).
Ernesto Giacomo Parodi, in un
suo commento già ricordato all’episodio, ha intravisto nella de72
Così Romagnoli, in De Sanctis
1955.
73
Amedeo Quondam, De Sanctis e la
‘Storia’, Viella, Roma 20182; in precedenza stampato da Giannini, Napoli 2017, sotto il patrocinio della Società nazionale di Scienze, Lettere e
Arti e dell’Accademia Pontaniana.
74
Lo ribadisce da ultimo Bruscagli
2013, alle pp. 6-7.
75
Nell’edizione a cura di Niccolò
Gallo, introduzione di Natalino Sapegno, per le “Opere di Francesco De
Sanctis”, Einaudi, Torino 1958, voll.
8-9, il curatore suddivide i capitoli in
paragrafi, premettendo ad ogni capitolo un sommario degli argomenti.
L’ultimo paragrafo del cap. II si intitola: «Le “nuove rime” di Dante e la
poetica dello Stil nuovo: il contenuto
scientifico e il colore rettorico. L’ideale d’amore e il misticismo filosofico». Il cap. III è dedicato a La lirica
di Dante.
scrizione dell’“anima posta sola
soletta” l’abilità del Poeta che
«Con pochi versi, spesso con una
sola frase, [...] trae dal nulla un
essere vivo, maraviglioso di sincerità e d’espressione».76
ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese. E ’l dolce duca incominciava:
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé
romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O mantoano, io son Sordello,
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava
(Pur VI 70-75).
Sordello realizza di avere di fronte prima un mantovano, e solo in
un secondo momento scopre che
quel concittadino è Virgilio. La
prima reazione è quando egli sente la parlata del poeta: O mantoano, io son Sordello (74). La seconda mossa si ha dopo l’identificazione precisa alla domanda a
inizio del canto successivo: Voi,
chi siete? (Pur VII 3), con la risposta Io son Virgilio (7). Segue
un nuovo empito di affetto da
parte di Sordello, ma con una
relazione differente rispetto al
primo abbraccio tra pari: Poscia
che l’accoglienze oneste e liete /
furo iterate tre e quattro volte (12). Infatti ora Sordello si inginocchia incredulo – chinò le ciglia,/ e
umilmente ritornò ver’ lui,/e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia (13-15) – davanti a colui che
è riconosciuto non solo come un
concittadino, ma è la gloria d’i
Latin … per cui / mostrò ciò che
potea la lingua nostra, / o pregio
etterno del loco ond’ io fui (Pur
VII 16-18).
L’emozione di Sordello è, dunque, quella che Dante medesimo
provava verso i testi dei suoi maestri e dei suoi conterranei. Sotto
questa aspetto l’abbraccio tra
Virgilio e Sordello ha lo stesso
valore, e ne anticipa i toni, dell’altro riconoscimento da parte di
Stazio del maestro dell’alta poesia, col nome che più dura e più
onora (Pur XXI 85), dell’inventore dei Campi Elisi come luogo
delle anime morte giudicate buone. Stazio manifesta ammirazione
76
Parodi 1897, p. 186.
nei confronti ancora dell’autore
de l’Eneïda dico, la qual mamma/
fummi, e fummi nutrice, poetando
(Pur XXI 97-98), un debito letterario verso Virgilio che traduce
l’identico sentimento provato dal
Dante-autore.
Stazio farà da guida supplementare al Dante-personaggio fino al
termine della cantica, amplificando e perfezionando il breve ruolo
di guida simbolica offerto in precedenza da Sordello nel trittico di
canti sotto analisi. Inoltre si ha
quasi un passaggio di testimone
fra guide, quando Virgilio raccomanda a Dante: ecco qui Stazio; e
io lui chiamo e prego/che sia or
sanator de le tue piage (Pur
XXV 29-30).
Nell’economia del poema dantesco ogni guida copre la zona di
sua spettanza e competenza, come ribadisce Virgilio nei convenevoli con Sordello, dopo aver illustrato la sua provenienza dal
Limbo:
zione, una similitudine» che rappresenta la verità del pensiero, insieme alludendovi e sfuggendola.78
3 - Lettura comparata
dei tre critici
Proviamo ora a ripercorrere in
ordine cronologico le posizioni di
critica dantesca dei tre interpreti,
osservate, come si è già
cominciato a fare, dal segmento
dell’episodio di Sordello.
3.1 Francesco De Sanctis
(1817-1883)
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più
tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio.
(Pur VII 37-39)
L’episodio di Sordello termina
con il sogno allegorico di Dante,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai (Pur IX 11), poco prima
dell’arrivo alla porta del Purgatorio. Sordel rimase e l’altre gentil forme (58), qui il termine “forme” è tecnico, scil. “formae corporis” = le anime, spogliate della
«travagliata e pur cara e dolce
carne, in cui ha radice quaggiù il
nostro sentire», avrebbe postillato
Gentile. Per dei passi analoghi
Croce tendeva a evidenziare,
piuttosto, la poesia di Dante che
si realizza nelle metafore ben
scelte, rispetto alle quali non si
potrebbe dire meglio per la felicità dell’immagine e per il messaggio che veicolano, secondo
che la «forma sustanziale, distinta
e unita alla materia, possiede una
virtù specifica, che si sente solo
nell’operare e si mostra solo nell’effetto»77 – si noti il lessico da
Scolastica medievale. Del resto
Croce ammise a chiare lettere che
«la poesia è sempre una compara77
Croce 1966, p. 120.
25
Probabilmente il critico irpino, di
cui è ricorso il bicentenario della
nascita nel 2017,79 delle tre can78
Croce, Filosofia – Poesia – Storia,
cit., p. 738; con postilla di Mengaldo.
Tra le diverse ed efficaci similitudini
dantesche che si potrebbero trascegliere per le caratteristiche dette da
Croce, c’è: come per verdi fronde in
pianta vita (Pur XVIII 54), per intendere l’anima dell’uomo come “forma
corporis”, cioè l’«unica forma sustanziale dell’universo che sia insieme distinta, separata (setta [49]) dalla
materia (in quanto esiste di per sé,
anche indipendentemente dal corpo)
e ad essa unita come sua forma, è
l’anima del corpo», e in quanto tale si
pone a metà tra i semplici corpi fisici
e le forme senza fisicità degli angeli
(Chiavacci Leonardi).
79
Presso la Società Dantesca Italiana
di Firenze, il 9 novembre 2017, si è
tiche preferiva quella del Purgatorio, dove i «personaggi tengono
molto dell’umano: in loro non è
né l’ambascia de’ dannati, né l’estasi de’ santi».80 Le altre cantiche di Inferno e Paradiso confluiscono, in un certo senso dialetticamente, in quella centrale.
L’Inferno perché è “in ricordanza”, il Paradiso “in desiderio” di
qualcosa. «Il purgatorio è il regno
delle immagini, uno spettro dell’inferno, un simulacro del paradiso».81 Egli poi diceva a proposito della “materia signata” della
cantica infernale: «la stessa situazione genera la stessa poesia»,82
se poesia è espressione delle umane passioni della carne e del
cuore. Sebbene De Sanctis ritenesse che «la gloria di rappresentare poeticamente caratteri virtuosi»83 fosse appartenuta, nella
nostra letteratura, al solo Manzoni. Come prima comparazione di
gusti riporto gli autori preferiti di
Gentile: Dante, Leopardi (il più
amato) e Manzoni.
Inoltre la cantica del Purgatorio
si fa amare perché «è sparsa di
tratti affettuosi.84 Le anime purganti85 nell’incontrarsi fannosi fetenuta una giornata di studi dal titolo
La critica dantesca di Francesco De
Sanctis.
80
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana: «Perciò il Paradiso è
poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par
quasi una serie di dimande e risposte
fra maestro e discente», il giudizio è
riportato da Umberto Eco, Lettura del
‘Paradiso’, in Id., Sulla letteratura,
Bompiani, Milano 2002, pp. 23-29, a
p. 23; uscito anche su «Paragone»,
ago.-dic. 1999.
81
De Sanctis, Storia della letteratura
italiana, edizione Bur, Milano 2009,
p. 282.
82
De Sanctis 1955, p. 319.
83
Ivi, p. 218.
84
È normale che De Sanctis riusi le
stesse schede di appunti tra una lezione e l’altra ai suoi studenti. Una
prova è data dalla variatio per questo
passo: «il Purgatorio è sparso di
gentili affetti» (De Sanctis 1955, p.
461), si legge nella lezione prima di
Zurigo, intitolata “La concezione del
Purgatorio e la sua nuova poesia”.
85
Il «loro tipo più alto» è Catone,
“anima nobilissima” di un uomo libero perché virtuoso (nel senso latino
di coraggio) nell’espiazione, al pari
della Redenzione di Cristo. Qui De
sta insieme, congaudendo»86 per
via del pentimento che le accomuna.
De Sanctis è stato un ammiratore
del “grande ingegno” di Giambattista Vico (1668-1744), secondo
il quale il poema dantesco era il
frutto di un movimento progressivo persistente:
nella prima lezione di Zurigo, intitolata “La concezione del Purgatorio e la sua nuova poesia”.
Infatti De Sanctis argomentava:
Questo moto non è fantastico,
risponde ad una apparenza fuggitiva
nella storia, al perenne successivo
sparire di ogni forma nell’umanità,
nel popolo e nell’individuo; chiuso è
il processo dell’umanità terrena, l’ideale che esce dalle forme esauste,
concrete fino a che si ravvicini al suo
tipo ed esemplare, è il cammino dalla
fantasia alla ragione, dal simbolo al
87
pensiero, dalla parola all’idea.
È questa la vita di Dante? […] I fatti
per se stessi sono ciechi, ove ad essi
non date l’occhio dell’intelligenza: la
vita di un uomo è la storia della sua
anima.
È normale che De Sanctis riusi le
stesse schede di appunti tra una
lezione e l’altra ai suoi studenti.
Una prova è data dalla variatio
per questo passo: «il Purgatorio è
sparso di gentili affetti» (De
Sanctis 1955, p. 461), si legge
Sanctis apprezza quella poetica «religiosità concreta, in figure tradizionali
e familiari»; la citazione è dalla Storia della letteratura italiana, I, p. 167
dell’edizione critica di Croce, Laterza, Bari 1912.
86
De Sanctis 1955, pp. 28-29; il verbo è dantesco: perché ci trema e di
che congaudete (Pur XXI 78). Come
ricorda Mengaldo 1998, p. 27, a proposito di Croce, «spiccano già per la
semplice frequenza i dantismi, che
non è solo tratto tipico da italiano
colto d’allora, ma forse tratto specifico di lui Croce, quasi che la spietata
divaricazione fra poesia e struttura
operata dal critico nel corpo del poema dantesco venisse come annullata
dall’introiezione globale della personalità e quindi anche del linguaggio
dell’autore».
87
Da appunti immediati, presi «da
una mano del tempo e di difficile lettura», delle Lezioni dantesche tenute
da De Sanctis (1955, pp. 237, 239) il
primo anno del corso torinese. Tali
materiali vanno presi a complemento
della testimonianza autobiografica
della Giovinezza, redatta in tempi
successivi e inserita nel capitolo relativo della Storia della letteratura
italiana. E pertanto più che «effettivo
ricordo», è da intendere anche quale
«proiezione nel passato d’una maturità critica raggiunta al tempo della
rielaborazione torinese e zurighese»,
così Romagnoli, in De Sanctis 1955,
p. XIX.
26
posti tali tempi, tali dottrine e tali
passioni, in che modo questa materia
è stata lavorata dal poeta, in che
modo quella realtà egli l’ha fatta poesia?
I distinguo sono tipici dell’argomentare del De Sanctis:
Spesso il poeta si contenta di esprimere crudamente la realtà comentata
e colorita dai sentimenti contemporanei. [...] Trovi il nudo fatto senza
contorni e scompagnato di caratteri e
di sentimento [...]. Abbiamo il fatto
ma non ancora i caratteri e i senti88
menti.
Del resto anche Croce, per essere
stato un autodidatta e “sommo atleta della cultura” – secondo una
fortunata etichetta continiana89 –,
fu debitore della critica di De
Sanctis,90 soprattutto nei risvolti
vichiani dell’interpretazione dantesca.
Dante fu, in effetto, l’Omero del medioevo, e scrisse la sua Iliade nell’Inferno, in cui narra ire implacabili
e ritrae quantità di spietatissimi tormenti, e l’Odissea nelle altre due
cantiche, il Purgatorio, in cui si soffre con mirabile pazienza; e il Paradiso, ove si gode infinita gioia con
91
somma pace dell’anima.
Ma torniamo a De Sanctis: «Dante vivo entra nel regno dei morti e
88
De Sanctis 1955, le tre citazioni sono rispettivamente alle pp. 374, 121,
471.
89
Si veda la scheda biografica sul
sito della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Contini attinse la perifrasi dall’epiteto usato da Dante per
san Bonaventura in Par XII 56, il
santo atleta.
90
Peraltro la vicinanza di idee tra i
due è dipesa anche da motivi storicobiografici poiché un ‘tutore’ di De
Sanctis a Torino fu l’abruzzese Bertrando Spaventa, altro patriota riparato nell’ambiente torinese e filosofo
di fede idealista, nonché imparentato
con la famiglia Croce.
91
Croce 1966, Appendice. Intorno alla storia della critica dantesca, pp.
175-176.
trae seco la storia d’Italia e di
Europa. Al suo arrivo i morti dimenticano il presente, si risvegliano alla vita, ricordano le valli
e le colline del loro luogo natio».
Secondo questo assunto deve valere preferibilmente l’opzione di
lettura più schietta e semplice:
«Mi preparai la via, combattendo
i metodi de’ più celebri comentatori, che andavano a caccia di
frasi, di allegorie e di fini personali».92
In De Sanctis l’esegesi puntuale
dell’episodio di Sordello rifluisce
non in una specifica lettura, ma
nelle lezioni universitarie, in
particolare la sesta lezione sulla
seconda cantica del periodo di
insegnamento zurighese (18561859)93 che comprende la figura
del trovatore di Goito in lingua
d’oc, incontrato da Dante e Virgilio sull’“alta ripa” dell’Antipurgatorio.
[...] o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e
tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa (6194
66)
92
De Sanctis 1955, pp. 238 e 324325.
93
Si trova in De Sanctis 1955, p. 470
sgg. Le lezioni di De Sanctis sono
giunte, come ricordato sopra, per lo
più tramite gli appunti e le rielaborazioni degli scolari uditori a Torino
(1854-55) e a Zurigo. Le trascrizioni
però a volte tradiscono un’eccessiva
inclinazione per le grandi passioni di
matrice romantica dell’epoca. Un decennio innanzi De Sanctis aveva tenuto delle riflessioni e lezioni napoletane (periodo del 1842-43), maturate durante la detenzione di Castel
dell’Ovo. Il meglio di quei materiali
venne raccolto nell’Esposizione critica della ‘Divina Commedia’, a cura
di Gerardo Laurini, Morano, Napoli
1921.
94
Il narratore onnisciente Dante anticipa con la consapevolezza della
finzione diegetica la provenienza dall’Alta Italia dell’anima, la cui identità
verrà scoperta da Dante-personaggio
e da Virgilio solo tra poco, al v. 72.
professato: l’amore per il suolo nata97
le.
Fig. 1 – Il Marzocco, simbolo della Repubblica fiorentina, opera di Donatello
(1386-1466), in pietra serena, realizzata
nel 1419-20, prima che nascesse Michelangelo. Entrambi operarono in tempi
posteriori a quelli di Dante, ma il leone
era un simbolo in voga da molto prima.
© Museo del Bargello, Firenze.
L’incontro è definito una «stupenda creazione» grazie alla quale l’anima di Sordello da Goito,
dopo una vita che aveva avuto
dell’avventuroso a causa di una
condizione che per la “gentilezza
senza avere, mala via suol tenere”,95 «torna mantovano» per l’incontro con il poeta latino conterraneo, capostipite dei letterati di
quella terra.96 L’anima lombarda
appare ai due viandanti d’oltretomba «leoninamente accosciata
sullo scaglione del monte», come
si espresse Francesco Novati, nel
suo stile prezioso e raffinato, a
proposito dell’«immagine del
trovatore mantovano, sebben più
sbozzata forse che accuratamente
scolpita dal genio di Dante (ed
appunto per ciò addirittura michelangiolesca)» (Fig. 1):
disdegnoso ed immoto nella leonina
attitudine, il capo ricinto dal chiaror
dell’incendio ch’accende in cielo il
già vicino tramonto, ci appare colui
nel quale il poeta s’è piaciuto incarnare il più sublime tra gli affetti
umani, secondo che l’antichità aveva
Lo “sbozzo michelangiolesco”,
da intendersi per definizione quale un «Lavoro d’arte realizzato in
modo ancora approssimativo»
(Devoto-Oli), era già stato usato
come sintesi visuale da Ernesto
Giacomo Parodi nel 1897 ed è
probabile che Novati l’abbia presente. Nella resa da “non-finito
michelangiolesco” Parodi ravvisava una qualità positiva, a differenza di Novati che sembra rilasciare un giudizio leggermente
limitativo – sul carattere della terminologia della scultura, in relazione a quella della pittura, si
tornerà per gli esiti differenti del
loro uso in sede critica da parte
dei nostri dantisti sotto analisi.
Per l’analogia di Sordello “a guisa di leon” Dante potrebbe essere
stato influenzato dall’iconografia
molto antica, con riferimenti alla
mitologia e alla politica. A norma
dei bestiari medievali il leone
raccoglie in sé le doti richieste al
sovrano ideale, sulla scorta del
calco letterale dell’immagine di
cui si serve Giacobbe per tratteggiare la figura e il carattere di
Giuda, il figlio prediletto destinato a fondare la potente stirpe da
cui nascerà Cristo; «requiescens
accubuisti ut leo» (Gen. 49, 9).
Anche la fisiognomica fin dalla
tarda antichità “refertur ad leonem” per intendere la nobiltà dei
grandi personaggi:
«Magnanimitez est hautece, grandece et
noblece de corage, par quoi li hons est
hardiz comme lions et de grant em98
prise».
Pertanto è come se il disdegno
che emergerà dall’invettiva di
Dante fosse anticipato o annunciato nella posa scultorea (plastica, si direbbe in termini di critica
d’arte) e leonina di Sordello. In
seguito Dante avrà modo di sviluppare il motivo con la rassegna
puntuale dei sovrani nella vallet-
95
L’adagio popolare è citato da
Novati 1925, p. 130, per giustificare
come Sordello fosse tra i molti rampolli decaduti a «misere condizioni
nelle quali sullo scorcio del secolo
decimosecondo versavano le più nobili ed antiche famiglie italiane per la
suddivisione indicibile de’ patrimoni
aviti».
96
De Sanctis 1955, pp. 29 e 238.
27
97
Novati 1925, pp. 134, 129.
Cfr. John A. Scott, Dante magnanimo: studi sulla ‘Commedia’, Olschki, Firenze 1977, pp. 326-329. Il
passo tra virgolette viene dal domenicano Frère Laurent, Somme le Roi,
manuale d’istruzione morale e religiosa composto nel 1279 su richiesta
del re Filippo III l’Ardito.
98
ta, con descrizioni che possono
ancora far pensare a certa statuaria, una galleria di busti in piedi o assisi, caratterizzati più dalla
mestizia che dal trionfo: seder
cantando anime vidi (Pur VII
83), li atti e ’ volti/conoscerete di
tutti quanti (88-89), siede alto e
fa sembianti /d’aver negletto ciò
che far dovea,/e che non move
bocca a li altrui canti (91-93).
De Sanctis giudica l’invettiva di
Dante all’Italia quale un’esclamazione con sentimenti che traboccano fuori con impeto, un «tuono
d’indignazione» da elevare a inno
di rivincita. Prendiamo il passo
«sottile e indugiante»99 della Lezione VII di De Sanctis, dal titolo
Allegoria generale del poema
dantesco, dove si afferma che «il
concetto è divenuto loro [dei
personaggi], si è individuato in
loro, ha preso in loro tutti gli
accidenti, tutta la libertà della
persona […] abbiamo la vita,
abbiamo la poesia: il concetto è
calato nel suo segno e si è
animato»,100 divenendo simbolo o
personificazione di un’idea.101
Lo stile dantesco annunzia fin
dalle prime parole una «selvaggia
energia», appunto, colata nella
maglia della terzina con i rimanti:
Sordello : ostello : bordello (Pur
VI 74, 76, 78).
Ahi serva Italia, di dolore ostello
(76)
[…]
non donna di provincie, ma bordello!
(78).
È diventata questa digression
(128), a ragione, il «luogo principe della poesia politica dantesca»,102 un punto fermo nell’immaginario e nella memoria collettiva della concezione che gli italiani hanno avuto e hanno del
99
Romagnoli, in De Sanctis 1955, p.
XXXV.
100
De Sanctis 1955, pp. 119-120.
101
Risultano efficaci le parole di
Roman Jakobson: «Ogni segno è un
rinvio [o rimando] (secondo la famosa formula aliquid stat pro aliquo)», in un contributo del 1974,
oggi ristampato in Id., Lo sviluppo
della semiotica e altri saggi, Bompiani, Milano 2020, pp. 47-81, a p.
73.
102
Bruscagli 2013, p. 13.
proprio paese. Il concetto è ribadito da Croce:
Dante declama un intero pezzo oratorio, con partizioni, trapassi, esclamazioni, esortazioni, ironie, sarcasmi, come chi è preso bensì dal furore della passione, ma non dimentica
nulla di quanto gli sta a cuore di dire
per l’effetto politico che si propone di
103
conseguire.
Nel commento allo stesso punto
Giovanni Gentile si discosta dal
giudizio di “effusione politica”
dato da Croce, e pare quasi dargli
una lezione di “schiettezza estetica”, concordando comunque sull’unanime apprezzamento verso il
«brano robusto e magnifico»:
Non si parli dunque di oratoria; ma di
quadro, in cui l’artista, per irradiare
una viva luce, chiara e serena, sulla
figura che ha inteso ritrarre, ha
dovuto contornarla con uno sfondo
fosco e minaccioso. La digressione
[...] non tollera l’enfasi dell’oratoria,
ma richiede la passione che è infatti
nella concitata parola del Poeta perché era nella sua anima di cittadino e
d’artista alternante in una vicenda
d’azione e di poesia le varie corde
della sua personalità molteplice ed
una, pronta perciò a riversare nei suoi
fantasmi anche le sue passioni politiche, come ad illuminare la sua ci104
vile condotta [...].
L’estetica gentiliana, di fatto anticrociana, è esposta in un lavoro
del 1931, La filosofia dell’arte,
103
Croce 1966, p. 111.
Gentile 1965, pp. 232-234. Per
ogni buon esegeta chiamato a una
Lectura Dantis, è prassi che, in
quanto è cronologicamente l’ultimo
lettore di un canto, egli si faccia uno
studio dello stato dell’arte della
bibliografia critica, almeno con le
letture più importanti dello stesso
canto e di quelle che sono state
pubblicate di recente. Per il trittico di
canti di Sordello Gentile non si fa
mancare l’opportuna bibliografia;
ricorre infatti al già ricordato saggio
di Francesco Novati (1925), insieme
alle schede di Parodi (1897) e di S.
Frascino. Inoltre alcuni interventi di
Michele Barbi, che pure Gentile
mostra di aver consultato, gli tornano
utili per questioni puntuali di storia
dei comuni, usciti su «Studi Danteschi». Diversi dei contributi di Barbi
furono raccolti nei suoi Problemi di
critica dantesca: prima serie (18931918) e seconda serie (1920-1937),
Sansoni, Firenze 1934 e 1941.
104
28
frutto di un corso di Filosofia
teoretica tenuto all’Università di
Roma e destinato a diventare il
manifesto dell’Attualismo, con
«tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale» (Sasso).105 Curioso è che alle
Questioni teoriche della Critica
letteraria106 come “rappresentazione individuale”, Gentile fosse
stato iniziato proprio dal Croce,
quando gli fece leggere la seconda edizione del saggio del
1894. Gentile in seguito recensì
favorevolmente l’estetica di Croce,107 salvo rinnegarla nel tempo.
105
Gentile poi diede alle stampe una
Introduzione alla filosofia, Milano;
Roma: Treves-Treccani-Tumminelli,
1933; vol. VII delle “Opere complete” pianificate ancora vivente il filosofo.
106
B. Croce, La critica letteraria:
questioni teoriche, Loescher, Roma
1894; preludio al manifesto dell’estetica crociana “come scienza dell’espressione e linguistica generale”
(1902); una prima Memoria fu letta
all’Accademia Pontaniana nella primavera del 1900.
107
Cfr. «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 41, 1903, pp. 89-99.
Sono gli anni a cavallo del secolo,
quando Gentile da Campobasso, dove
insegnò al Liceo nel periodo 18981900, andava a trovare spesso Croce
a Napoli, prima di esservi trasferito
alla fine di quel periodo. E ancora
nella seconda metà del primo decennio troviamo Croce che si interessa
per far avere una cattedra universitaria a Gentile. La vicenda si sviluppò sulle pagine de «La Voce», con il
pezzo su Il caso Gentile e la disonestà della vita universitaria italiana
(4 marzo 1909), seguito da altri interventi, confluiti poi in un pamphlet
del 1909. La vicenda è stata ricostruita da Gennaro Sasso per RaiCultura e da Alessandro Savorelli per
Treccani (2016). Prima della rottura i
due realizzarono un utile e fruttuoso
sodalizio, una concordia discors, come ha fatto notare Sasso: «se senza
Croce non s’intende il Gentile, altrettanto è vero per l’inverso». Cfr.
Croce e Gentile: la cultura italiana e
l’Europa, Enciclopedia Treccani,
Roma 2016, poderoso volume che
raccoglie saggi di vari autori su molti
aspetti della loro riflessione e influenza. La parte su Il Dante di Croce
e Gentile è firmata da Enrico Ghidetti, la si legge anche online,
https://www.treccani.it/enciclopedia/ildante-di-croce-e-gentile_%28Croce-eGentile%29/.
Più di recente un altro critico e
storico della letteratura, Amedeo
Quondam, ha ribadito come per
De Sanctis Dante è stato l’eccezione per la nostra letteratura vista nella lunga durata della “decadenza” e della “servitù” della
storia d’Italia nell’età moderna.
Come del resto fu già intravisto
da Carlo Dionisotti, per il quale
«la storia letteraria s’inquadra
nella vicenda di un popolo lentamente decaduto dall’alacrità e
fierezza comunale all’agio e alla
preziosa mollezza signorile, di
qui all’avvilimento della dominazione straniera, poi lentamente
risorto e per gradi a indipendenza
scientifica e morale e politica».108
La critica contemporanea, più
scaltrita sulle acquisizioni intertestuali rispetto ai nostri critici
attivi tra Otto e Novecento – sempre acuti ma per forza di cose meno dotati delle potenzialità dei
corpora informatici e delle expertise codicologiche e paleografiche (come si è visto sopra
con le acquisizioni di Meneghetti) –, ha parlato di ideologemi, di
motivi retorici e stilemi che arricchiscono, in modo anche copioso
di suggestioni, l’invettiva di Dante. Una vituperatio su modelli già
forniti da Guittone, autore come
Sordello di canzoni-serventese109
a carattere didattico e moraleggiante, cronachistico o d’occasione. Lo notò De Sanctis: «Fra
Guittone d’Arezzo, per esempio,
abbonda di questi giuochi di parole e d’idee»110:
108
Dionisotti, Geografia e storia
della letteratura italiana, cit., p. 32.
109
Sul genere poetico, in prov. Sirventes, caratterizzato da diversi tipi
metrici, ereditato dalla tradizione trobadorica non illustre, spesso non distinguibile a livello metrico-strofico
dalla canso (scil. canzone), si veda
Giorgio Inglese - Raffaella Zanni,
Metrica e retorica del Medioevo,
Carocci, Roma 2011, pp. 99-101.
Dante ricorda di avere composto «una pistola sotto forma di serventese»
in onore delle sessanta più belle donne di Firenze (Vita nuova VI 2), non
pervenuta.
110
De Sanctis 1955, p. 527. Le citazioni che seguono sono rispettivamente dall’epistola di Guittone dal
titolo Infatuati e miseri Fiorentini (v.
sopra a nota 63), e dai versi 30-32 di
O dolce terra aretina. Un’altra im-
Non già reina, ma ancilla conculcata
e sottoposta a tributo! non corte de
Dirittura, ma di latrocinio spilonca, e
di mattezza tutta e rabbia scola.
non di cavalier norma / ma di ladroni, e non di donn assempro, / ma
d’altro […]
Del fatto che certe espressioni
fossero entrate nel bagaglio retorico dell’epoca ci dà conferma la
glossa di Benvenuto da Imola a
proposito del termine “bordello”:
ad postribulum venditur caro humana, ita Ytalici cotidie venduntur ut
canes; ita etiam ibi concurrunt omnes ad ponendum sua onera, ita
omnes barbare nationes veniunt ad
deponendum suas paupertates et
111
miserias.
Per il valore chiave che l’episodio
sordelliano ha nella prospettiva
ghibellina e nazionalista di Dante,
De Sanctis avrebbe avuto buon
gioco a dilatare quelle osservazioni politiche lungo tutta la sua
attività di critico, nello specifico
di dantista militante disposto ad
una “lotta culturale” e ideologica;
secondo una postura ereditata da
Ugo Foscolo e che molto sarebbe
stata apprezzata da Antonio
Gramsci.112 A De Sanctis, infatti,
magine a effetto di Guittone si trova
nelle sue Lettere 14, 16: «O non Fiorentini, ma disfiorati e disfogliati»,
gioco verbale che torna nelle Rime
XIX 16: la sfiorata Fiore. E Dante
scrive disfiorando il giglio (Purg. VII
105) per significare «disonorando
(togliendogli foglie o petali) il giglio
di Francia» in una occorrenza che
resta unica nel suo lessico; cfr. Vocabolario Dantesco.
111
Michele Barbi, La lettura di Benvenuto da Imola e i suoi rapporti con
altri commentatori, in due parti,
«Studi Danteschi», 16, 1932, pp.
137-156, e 18, 1934, pp. 79-104.
112
Antonio Gramsci, Letteratura e
vita nazionale, Einaudi, Torino 1950,
p. 7. Si veda la voce ‘Gramsci, Antonio’, a cura di Giuseppe Vacca, nel
DBI, 58, 2002. Quello stesso
Gramsci che Palmiro Togliatti, in
Gramsci pensatore e uomo di azione
(conferenza tenuta all’Università di
Torino il 23 aprile 1949), ricordò,
dopo che si erano conosciuti nel 1912
– entrambi studenti borsisti al collegio Carlo Alberto di Torino –, quando tra i corridoi e le aule universitarie
gli capitava di incontrarlo «dappertut-
29
si può intestare il vessillo di una
riforma nell’esegesi dantesca dotata di un carattere nazionale e
popolare sul tipo di quella “protestante”.
Dato che nessuna intuizione critica si crea dal nulla, forse poteva
valere per il critico ottocentesco
tout court quanto affermato a
chiare lettere da Foscolo sulla
poesia di Dante: «come gli abitatori del suo Paradiso veggono
ogni loro beatitudine in Dio, così
i suoi lettori non godono dell’illusione poetica se non quando
tengono attentissima l’anima tutta
alle parole, a’ moti, e all’anima
del narratore».113
Come si legge in un passo della
desanctisiana Teoria e storia della letteratura: «Per giudicare degnamente di Dante bisogna […]
movere dall’idea e scendere alle
forme».114 Il concetto, in qualche
modo, era stato anticipato da Paolo Emiliani Giudici quando scrisse che il fine ultimo della Commedia sarebbe quello di celebrare
– e forse restaurare – un’idea della «preponderanza politica dell’Italia sopra tutti i popoli avvincolati dalla latina civiltà, e redenti
dalla legge di Cristo».115
Successivamente l’atteggiamento
del “fare critica”, di “praticare il
mestiere”, tenuto da De Sanctis
sarà raccolto e in un certo senso
codificato proprio da Croce e
Gentile in funzione di una “filosofia e teoria dell’arte”. Con
quelle premesse lo studioso è posto nelle condizioni per l’esercizio critico concreto sugli autori
to, si può dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una
serie di problemi essenziali», delineando così l’allievo ideale per un
maestro altrettanto prodigo e con in
mente sempre l’“elevamento civile”.
113
Ugo Foscolo, Prose letterarie,
Firenze, Le Monnier, 1850, 4 voll.,
III, p. 377. Foscolo snobbava la critica tedesca su Dante vedendo «soltanto somma dottrina e industria più
che umana, di rado aiutate dalla velocità dell’ingegno», ivi, pp. 94-95 (citato da Romagnoli, in De Sanctis
1955, p. XXXVI).
114
Alle pp. 219-220 dell’edizione curata da Croce per i tipi di Laterza nel
1926.
115
Emiliani Giudici nel commento
all’edizione della Divina Commedia,
uscita nel 1846, a p. 16.
contemporanei la cui risultante è
la cosiddetta “critica militante”.116
Non a caso il pensatore sardo
Gramsci avrebbe finito per riconoscersi più in De Sanctis che in
Croce, perché nel primo vide la
necessità di preparare le condizioni, innanzitutto sul terreno culturale, per una crescita del movimento operaio e di una “riforma
intellettuale e morale”, sulla scorta del valore emblematico che il
pensatore irpino attribuiva al nesso fra Illuminismo e Rivoluzione
francese: «Ho ancora un cuore
che batte, ho ancora la freschezza
del sentimento. E forse dovrò a
questi quello che la scienza non
mi può più dare».117
Gli «scritti su Dante sono paralleli all’approfondimento del metodo critico, che ha sempre trovato le sue pronunzie nel lavoro
applicato e concreto dello storico», ha scritto Andrea Battistini a
proposito della critica dantesca di
De Sanctis, il quale così «coglieva in Dante una forma che non
era da intendersi come una veste
rappresentativa di un’idea da essa
distinta, ma la sintesi dialettica di
ideale e reale, attuata esemplarmente nella poesia».118
116
Cfr. Mengaldo 1998, pp. 89-93,
capitolo dal titolo Critica militante,
accademica e “formale”.
117
De Sanctis in una lettera del 20
settembre 1857 ad Angelo Camillo
De Meis, in F. De Sanctis, Lettere
dal’esilio: (1853-1860), raccolte e
annotate da Benedetto Croce, Laterza, Bari 1938 (stampa 1937), pp.
167-169.
118
Cfr. la scheda ‘De Sanctis’ di
Andrea Battistini, tratta da Il Contributo italiano alla storia del Pensiero
– Filosofia (2012), su Treccani.it.
3.2 Benedetto Croce
(1866-1952)
Passi dunque, per Croce, l’episodio di Matelda nel Paradiso terrestre quale pretesto «delle più
belle espressioni della vaghezza
che trae l’uomo a comporre in
immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure
femminili», «gran variazion dei
freschi mai», ma quando «è chiamata ad altri gravi ufficî, più o
meno allegorici» la figura di Matelda non ha «nulla da vedere con
la ispirazione poetica ond’ella fu
generata».119 Con lo stesso metro
di giudizio uno zelante crociano
come il Vossler arrivò a definire
la cantica del Paradiso un «controsenso poetico», e il Purgatorio
un «istituto di cure» o «un sanatorio».
Dato che nello sviluppo diegetico
della cantica Croce avverte i trapassi, sempre attento a sceverare
la “poesia del cuore” dal “dramma esterno e superficiale”, il giudizio suo sarebbe diventato ancora più drastico per la parte finale
del Purgatorio, con gli ultimi canti del dramma liturgico (o auto
sacramental), corrispondenti alla
messinscena fortemente allegorica che non ha diretto valore di
poesia, essendo una «semplice
mascherata ossia una sequela
d’immagini bizzarre, tra loro incoerenti o poco coerenti, senza
alcun significato né intrinseco né
estrinseco».
Qui la struttura dottrinale – a parere di Croce – contribuisce a far
sì che la Commedia «sta tra
l’allegoria impoetica e l’impoeti119
Croce 1966, pp. 126-127.
30
ca mascherata».120 Egli, a volte,
in base al proprio criterio estetico
si riduce a sceverare “frigidamente”, specillare,121 tra gli «intermezzi della piccola rappresentazione […] alcune affettuose
terzine […] calde di gratitudine e
di alto encomio», pur nell’assenza dell’armonia122 della grande
poesia.
«Il dialogo filosofico-teologico
con Virgilio circa l’efficacia delle
preghiere, assurdo nella sottigliezza della teologica soluzione»: non s’ammendava, per pregar, difetto, / perché ’l priego da
Dio era disgiunto (Pur VI 4142).123
120
Un altro giudizio scettico Croce
1966, p. 119, lo riserva alla visione in
sogno della femmina balba, che gli
appare come «di un’immagine-concetto, che non è né tutto immagine né
tutto concetto, ed ha dell’allegoria nel
senso deteriore».
121
Le sottili distinzioni che non piacevano a De Sanctis, il quale le aveva
rimproverate alla critica psicologica
francese – ritrarre l’artista «di maniera che la conoscenza dell’uomo ci
aiuti alla conoscenza dello scrittore»
(De Sanctis, Saggi critici, cit., II, pp.
81-82) –, la quale «trasanda alcune
cose che gli sembrano indifferenti o
poco notabili, si ferma a certe altre
che gli paiono belle», cfr. la recensione del 1855 alla traduzione in
prosa della Commedia del Lamennais, in F. De Sanctis, Lezioni e saggi
su Dante, pp. 369-386, alle pp. 380381. Lo scarto tra ciò che è «solo in
funzione di poesia» (Croce 1966, p.
203) e le «intramesse didascaliche»
che sono indicate di volta in volta
come: sistema / dottrina / struttura, risale però a un critico tedesco, Friedrich Bouterweck (1765-1828), ricordato già da De Sanctis 1955, pp. 380381, insieme a Ginguené, a Sismondi
e a Lamennais, quali fautori di una
“critica di particolari”.
122
Tale concetto risalta in modo particolare nel famoso saggio, ‘autobiografico’ secondo definizione di Mengaldo, di Croce sull’Ariosto, il più
grande maestro della strofa, che tradotto nella prosa significa maestria
nel periodare, dote suprema di Boccaccio (per De Sanctis) e dello stesso
Croce.
123
Nei versi che precedono la sentenza di Virgilio, Dante ricorre ad una
metafora visuale per rendere più
comprensibile il concetto teologico:
ché cima di giudicio non s’avvalla /
perché foco d’amor compia in un
punto / ciò che de’ sodisfar chi qui si
Fresca risorge la poesia del cuore,
quando Dante, rendendo “vano” l’udire di cose politiche, distornandosi
dai discorsi di Sordello, s’immerge
nella scena che gli si forma attorno e
assiste a un mistero dell’anima […].
Il dramma della vinta tentazione si fa,
nel séguito, esterno, e perciò si superficializza alquanto, nel rappresentato combattimento dei due angeli
– custodi –, che scendono dal cielo e
fugano la mala biscia: sorta di sacra
rappresentazione, della quale si vedono altri saggi in questa seconda cantica. […] Le altre cose dell’episodio
[di Forese], come la già notata invettiva contro le donne fiorentine o la
predizione sul prossimo ammazzamento di Corso Donati, non si legano
al significato poetico, e stanno lì perché Dante, per suoi fini, ha voluto
che ci fossero messe [...] ma sono
segni e mezzi per altra cosa: a un
dipresso come ancor oggi (lasciando
stare che ancora oggi si rivedono
nelle feste dei paeselli residui e tracce
di sacre rappresentazioni) si usa negli
abecedarî illustrati per bambini, dove
una vistosa figura sta a lato di ogni
124
lettera.
Detto altrimenti «il travaglioso
farsi del vero, o lo spirito entusiastico che si sa annunziatore di verità nuove, originali, rivoluzionarie, o il cozzo delle opinioni e degli argomenti in dialogo e in polemica», da tradurre nella “drammatica” dell’addottrinamento tra
discente e maestro, cioè tra Dante
e Virgilio o chi per lui, peraltro
resa in «immagini corpulente e
fulgidissime» – valori che Croce
era sempre disposto a salvare –
;125 ecco, tutto quell’apparato dottrinario rimaneva un po’ indigesto al filosofo abruzzese.
Croce ci offre così un primo accenno di distinzione tra la poesia
senza altro e le parti dottrinali, a
volte mescolate a reazioni di «lie-
tezza sorridente», o con le similitudini «venate di sorriso».126 Egli
scrive di «codeste immagini sensuose e splendide, di cui in ogni
parte s’infiora» il poema;127 sono
– a suo parere – il veicolo del
processo dialettico o sillogistico:
«chiarezza fantastica delle immagini» o «chiarezza intellettuale
delle distinzioni e divisioni, dei
sillogismi, dilemmi e argomenti
del terzo escluso»; per dirla con il
Dante del Convivio, II IV 18: «per
ch’ella [la filosofia] di se stessa
s’innamora».
Per toccare l’aspetto ‘militante’,
già intravisto in De Sanctis, bisogna chiarire che in Croce la “religione della libertà” si arrestava
alla dimensione della piccola borghesia intellettuale, classe da cui
il filosofo abruzzese proveniva.
Quella classe «assolve una funzione reazionaria nella faccia rivolta verso lo Stato» (Giuseppe
Vacca), e generava il sospetto in
Gramsci di un “blocco intellettuale meridionale” (tipici esponenti: Croce e Giustino Fortunato, definiti come «i reazionari più
operosi della penisola») in grado
di ostacolare o rallentare «una
riforma intellettuale e morale che
compie su scala nazionale ciò che
il liberalismo non è riuscito a
compiere che per ristretti ceti della popolazione».128
Croce sposta su un piano individualistico, si direbbe borghese,
la dialettica desanctisiana del
«concetto dell’arte come lirica o
intuizione lirica».129 Egli ritiene
che per riconoscere quell’unità
estetica «è necessario possedere
quella fondamentale conoscenza
126
Si cita da Croce 1966, p. 110.
Croce 1966, p. 121.
128
In ultima analisi quel “blocco” era
un ostacolo alla diffusione della “filosofia della praxis”, per come Gramsci la concepì ereditandola da Marx.
Cfr. Quaderni del carcere, p. 1292
oppure Quaderno 10 (1932-1935):
La filosofia di Benedetto Croce.
Esiste anche l’edizione anastatica dei
manoscritti dei Quaderni, a cura di
Giovanni Francioni, Istituto della Enciclopedia Italiana - L’Unione sarda,
[Roma]-Cagliari, in 18 voll., nel vol.
14 si trova lo scritto citato in questa
nota.
129
Croce 1966, p. 33.
127
astalla (Pur VI 37-39), dove l’altezza
del giudizio divino è resa con verbi
della vita quotidiana: avvallarsi, astallarsi, con quest’ultimo usato per
lo più per riferirsi agli animali: «nel
luogo dove s’astallano [i cani]» (da
un volgarizzamento del fiorentino
Crescenzi, XIV sec.). Dante ne fa un
hapax per esigenza di rima falla:
s’avvalla, e per rendere con un linguaggio concreto le sottigliezze dottrinali, similmente agli espedienti retorici utilizzati dai predicatori.
124
Croce 1966, pp. 112, 122 e 129.
125
Croce 1966, pp. 119-120.
31
o coscienza storica, che si forma
e cresce col formarsi e crescere
della nostra personalità interiore
(sorta di ontogenesi che coincide
con la filogenesi)».130 L’intuizione e l’espressione, entrambe liriche nel loro ritrovarsi, costituiscono l’unità cardine dell’estetica
crociana.
D’altronde dove il gusto di Croce
sembra arrestarsi nel piacere per
la poesia del lettore dei versi di
Dante, ravvisando i limiti della
struttura dottrinaria, proprio lì De
Sanctis era disposto ad aprire un
credito di fiducia al Poeta, nel
cercare la sintesi tra «Viaggio
fantastico e caratteri umani; idea
divina, forma umana».131 Quasi
che De Sanctis, anche in anticipo
rispetto a don Benedetto, volesse
ricalcare il sinolo132 tra spirito e
corpo, tra forma e materia di tanta
dottrina tomistica. Infatti Croce
estrae da De Sanctis «a preferenza la nozione (e ancor più la
parola) di “forma” e la intepreta
kantianamente come sintesi a
priori».133
Quello che preme a Croce è «il
carattere e l’unità della poesia di
Dante» – un valore cercato anche
da Contini dantista134 –, a costo di
riassumere e parafrasare, a volte
rischiando la tautologia, per designare la materia o il sentimento;
per un esempio: «Dante, come si
sa, è sommamente soggettivo,
sempre lui, sempre dantesco».135
«Come se il contenuto fosse “an130
Croce 1966, p. 204.
De Sanctis 1955, pp. 216-217. Si
veda anche l’Indice analitico, ivi, pp.
736-737, alla voce “Contenuto e
forma”.
132
Cfr. Cesare Vasoli su Averroè,
per la voce dell’Enciclopedia Dantesca, ripresa nel sito
http://www.gliscritti.it/blog/entry/334
6.
133
Gianfranco Contini, La parte di
Benedetto Croce nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1989 ([1972],
d’ora in avanti Contini 1989), p. 10.
134
G. Contini, Un’idea di Dante:
saggi danteschi, Einaudi, Torino
2001: silloge dei saggi di materia
dantesca sparsi nella raccolta Varianti e altra linguistica, pubblicata
presso lo stesso editore nel 1970.
135
B. Croce, Filosofia – Poesia –
Storia: pagine tratte da tutte le opere, a cura dell’autore, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, p. 726.
131
teriore” e la lingua “posteriore”
alla sintesi a priori, [… essi] avessero diversa dignità o usufruibilità»:136
[…] è ovvio che per riconoscere e amare la grandezza e direi la sicurezza
(fosse pure nell’errore) di Croce critico, non è necessario consentire coi
giudizi che ha pronunciati, volentieri
improntati a quel gusto della rappresentazione positiva e corpulenta di
cui ha detto Contini […]. La forcella
poesia/non poesia forse non è così
presente nella critica di Croce come
si pensa, e sembra appartenere più al
teorico che al pratico. Ha scritto spiritosamente Contini: «Mr Croce contiendrait aussi son Sainte-Beuve, son
137
absence de système».
Da Vico passando per De San-ctis138 derivò a Croce la concezione ermeneutica ‘allotria’ delle
scienze filosofiche e teologiche
nel tessuto della Commedia. Tale
contaminazione – a suo parere –
al sacrato poema «piuttosto che
vantaggio, gli apportò nocumento»; poiché il «modo acconcio di
commentarlo è dare breve e chiara notizia delle cose, fatti e persone che egli memora, spiegare i
suoi sentimenti, “entrando nello
spirito di ciò che ha voluto dire
136
Contini 1989, p. 21. Partendo da
questa pagina continiana Claudio
Giunta, Sui saggi danteschi di Contini, ha precisato che Contini trovava
quel carattere e quell’unità non in un
sentimento dominante ma in un particolare uso del linguaggio: quel linguaggio che, ha osservato Contini,
«non ha posto nella didattica crociana» (ibid.).
137
Mengaldo 1998, p. 24.
138
Ricordiamo che Croce allestì la
raccolta delle “lezioni tenute [da De
Sanctis] in Napoli dal 1839 al 1848
ricostruite sui quaderni della scuola”,
con il titolo Teoria e storia della
letteratura, Laterza, Bari 1926, 2
voll. Pertanto anche quando se ne
discosta criticamente – per esempio
nel liquidare il concetto desanctisiano
di arte come troppo realistico, non
sufficientemente lirico –, raramente
gli muove critiche esplicite. Cfr.
l’Introduzione di René Wellek alla
Storia della letteratura italiana di De
Sanctis, ed. BUR, p. XXI. In particolare si fa riferimento allo scritto
di Croce, La fortuna del De Sanctis,
in Id., Una famiglia di patrioti ed
altri saggi storici e critici, Laterza,
Bari 19493 (1919), p. 303.
[...] tralasciare ogni morale e
molto più altra scienziata allegoria”».139
Per Croce infatti il ‘realismo’ di
quei fenomeni risulta essere un
concetto assurdo, poiché la vera
poesia in letteratura si rivela
nell’«unica realtà [… che] è l’anima, lo spirito».140 Essa «appartiene all’anima e non alle res, cioè
alle cose esteriormente viste e
considerate».141 Nel descrivere
l’opera del “Dante giovanile”
Croce scrisse che il Poeta
si aggira tra motivi e sopra schemi
comuni nella letteratura del tempo
suo, e non li sovverte e cangia profondamente traendone cosa propria e
nuova, ma li accarezza nei particolari
e solo qua e là v’introduce qualche
movimento suo proprio, qualche immagine diretta e fresca. [...] Egli si unì dapprima a una scuola letteraria di
recente iniziata in Italia [da Guinizzelli], a quella dell’Amore che è tutt’una cosa col “cuor gentile”, della
donna innalzata a creatura celeste, a
messo di Dio, ad angeletta, a nunzio
e promessa del paradiso, fugatrice di
basse voglie e d’odî e d’invidie, ispiratrice e comandatrice di sentire eletto e virtuoso. [...] Dante presto primeggiò, come promotore e perfezionatore dell’opera comune; e ad essa è
rimasta la denominazione con la quale egli, ricordando i suoi trionfi giovanili, volle onorarla: del “dolce stil
142
nuovo”.
Si noti che l’incontro di Dantepersonaggio con il maestro Gui-
139
Croce 1966, p. 176 e nota; il virgolettato di secondo livello viene da
Vico, Scienza nuova (1725), libro III,
cap. 26, 2. ed. a cura di Fausto Nicolini (Bari 1913, 19422, 19533) e
passim. A spingere Nicolini sulle orme della teoria storiografica di Vico,
definita da Umberto Eco una «imponente archeologia dei linguaggi umani», erano stati proprio Croce e Gentile, all’epoca in feconda collaborazione attraverso le collane laterziane
degli “Scrittori d’Italia” e dei “Classici della filosofia moderna”.
140
B. Croce, La poesia: introduzione
alla critica e storia della poesia e
della letteratura, Laterza, Bari 1936,
p. 197.
141
B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Laterza,
Bari 1958, vol. I, p. 166.
142
Croce 1966, pp. 27-28.
32
nizzelli143 in Pur XXVI rispecchia in parte la situazione del rapporto tra Sordello (cioè lo pseudo-Dante) e i suoi maestri, grazie
ai quali aveva saputo elevarsi a
«tantus eloquentie vir existens,
non solum in poetando sed quomodocunque loquendo patrium
vulgare deseruit» (Dve I xv 2, il
passo esteso è stato citato sopra,
cfr. nota 54).
Lo scarto che corre tra la poesia
di Dante rispetto a quella del precursore Guinizzelli è ben riassunto nel passo tratto da Mario Marti
(1914-2015):
Nell’ambito dello sperimentalismo
giovanile dantesco il ‘momento’ guinizzelliano è indubbiamente il più
importante e decisivo, quasi una sorta
di prefigurazione dell’ultima grande
stagione paradisiaca, perché esso
scende alle radici dell’interiorità, a
toccare e a enucleare interessi di verità etica e religiosa, che divengono
poi, nella ricerca e nella meditazione,
le solide nervature portanti dell’ideologia del poeta fiorentino. […] E
d’altra parte ciò che nel Guinizzelli
rimane nell’ambito di un rinnovamento stilistico e di una novità concettuale, insomma di una retorica pur
vivificata e rinnovata da forti aspirazioni etiche, in Dante si tramuta in
“evento”, in “violenza reale”, in «una
spinta prepotente a estrarre dal sentimento il massimo d’intensità, col sollevarlo completamente dalla sfera
della soggettività, dalla sfera vera e
propria del sentimento, e col cercare
di ancorarlo nelle più alte regioni di
validità oggettiva e di estrema assolu144
tezza».
Se messi a raffronto i due blocchi
di citazione appena allegati, da
Croce e da Marti, pur nella diversa occasione di redazione, ci
143
Ma sappiamo che, oltre la collocazione nella posizione di caposcuola
che gli deriva dalla tradizione secondo l’idea di canone di Dante, Guinizzelli a sua volta aveva dedicato un
sonetto, Caro padre meo, a Guittone
per omaggiare «l’alta considerazione
del sapere e della disciplina morale
del maestro, cui si rivolgeva per riceverne consigli di tecnica poetica»,
cfr. DBI, 61, 2004, s.v. Guittone d’Arezzo, a cura di Monica Cerroni.
144
Si cita da ED, s.v. Guinizzelli,
Guido, a cura di Mario Marti. L’ultimo virgolettato è da Erich Auerbach,
Studi su Dante, Feltrinelli, Milano
1963, p. 40.
mostrano la specificità della prosa critica del primo, ritenuto il
maggiore prosatore che l’Italia
abbia avuto nel Novecento,145 e la
metodologia storicistica nutrita di
filologia intesa come processo dal
certo al vero della generazione
successiva degli studiosi accademici. Come a dire tra due poli, di
una critica psicologica da una
parte e una accademica e/o “formale” dall’altra.
Ciò valga anche per le differenze – e
la pari dignità – fra una critica che
aggredisce il testo con mezzi e nelle
sue emergenze (prevalentemente)
formali o invece (prevalentemente)
psicologici ed epistemologici, tra una
che con gesto sperimentale distacca
da sé l’oggetto letterario e lo esamina
sotto vetro (anche per tenere a bada
la coazione psicologica che quello
esercita su di lui) e una che, abbandonando se stessa a quella coazione,
può discorrerne solo vivendolo ostentatamente in sé, quasi ruminandolo,
riscrivendolo – si può dire – interior146
mente.
Non per niente Croce ha parlato
di «quell’altro se stesso che si
trova più o meno in ogni poeta».147 Vuol dire che l’approccio
di Croce di fronte a un poema
come quello dantesco, anzi davanti a un “romanzo teologico”
incentrato su un viaggio nel regno
dei morti, doveva risentire, forse
anche inconsciamente, della nota
dolorosa esperienza diretta di vita, quando da adolescente perse i
genitori e la sorella nel disastroso
terremoto di Casamicciola, del
1883, sull’isola di Ischia dove la
famiglia era in villeggiatura. Nel
rievocare i cari defunti, egli aveva
da dire come pochi:
Chi non ha vagheggiato talvolta di rivedere, vincendo la morte, i proprî
amici, i cari perduti, e riprendere con
loro i discorsi sulle cose familiari ed
amate, e apprendere particolari non
conosciuti e raccontare ciò che è accaduto in quel trascorso di tempo,
come se ci si ritrovasse insieme dopo
lunga assenza per viaggio o per altra
148
separazione?
Quando fia ch’io ti riveggia?
(Pur XXIV 75) chiede l’amico
degli anni fiorentini Forese Donati a Dante in viaggio nell’oltretomba. Forese viene incontrato
tra i golosi in espiazione della sesta cornice: La faccia tua, ch’io
lagrimai già morta, / mi dà di
pianger mo non minor doglia
(Pur XXIII 55-56). La domanda
di Forese condensa questo rapporto spirituale, a parti invertite,
che i vivi continuano ad avere
con i propri defunti: nei sogni, nei
ricordi, nelle fantasie ad occhi
aperti; tutti i modi che Dante ha
scelto per allestire il suo divino
poema o “libro dei morti” e per
interagire con i suoi personaggi.
Un elemento narratologico che in
Croce trovava il soprappiù, pertanto, di una mozione degli affetti
tutta personale e autobiografica; e
che Contini ebbe l’acume di focalizzare come una premessa
dell’“angoscia”. In questo, Croce,
oltre la già ricordata vicenda
biografica, ebbe come modello,
forse inconsapevole – a detta di
Contini –, l’autobiografia mentale
di Hippolyte Taine nell’Étienne
Mayran (romanzo incompiuto):
un pretesto che l’autore sfrutta
per capire quale sia davvero
l’unico modo che abbia l’uomo
per placare «il sordo singhiozzo
delle esequie interiori».149
148
145
Mengaldo 1998, pp. 22-23: la
prosa crociana «si distingue per un
periodare largo, a panneggi, articolato da subordinate e incisi, e che coincide tendenzialmente con un’unità,
un momento definito del giudizio
[…]. Un periodare unificante e riposato dunque, che non si perde nel testo da giudicare, neppure vi si immerge, ma lo sorvola e lo domina».
146
Mengaldo 1998, p. 90.
147
B. Croce, La letteratura italiana
per saggi storicamente disposti, a
cura di M. Sansone, Laterza, Bari
1963, p. 145 (citato da Mengaldo).
Croce 1966, p. 122.
Taine aveva iniziato la stesura nel
1861; il romanzo uscì postumo nel
1910 preceduto da una penetrante
prefazione di Paul Bourget. Oggi è
ripubblicato da Adelphi, Milano
1988, a cura di Patrizia Lombardo. È
la storia autobiografica della formazione dell’“impalcatura intellettuale”
del critico francese Taine, di come
questa «fosse (ed è la sua prima
virtù) radicalmente ambigua, in quanto devota dell’asciuttezza dell’analisi
e al tempo stesso “delle sensazioni
veementi, delle parole, delle immagini”. Il giovane Étienne Mayran ri149
33
L’impulso alla tacitazione razionale portava Croce alla «fondazione proprio di un positivismo,
covata da una mentalità di storiografo»; tale forma mentis muoveva «da una premessa esistenziale: il metodo è una ricerca di
salute, ha una portata religiosa»,
col permanere di “avventure” culturali razionalmente non in tutto
risolte – spiragli per i quali Gentile, che conosceva bene Croce,
ebbe ragione di rivendicare all’idealismo italiano dei fermenti
esistenzialistici, i quali avevano
l’innesco nella storia psicologica
di un individuo.150
Croce è un «filosofo che non ama
il filosofismo professionale, ed è
perciò stimato da quel settore un
brillante epigono e quasi divulgatore dell’idealismo, incomparabile alla perfezione tecnica, per
non andar lontano, di un Gentile».151 Per effetto di questa differenza di fondo Croce ebbe a manifestare forti dubbi sulle posizioni filosofico-critiche di Gentile
con alcuni interventi usciti ancora
su «La Voce», tra il novembre del
1913 e il gennaio del ’14: Intorno
all’idealismo attuale e Se l’idealismo “attuale” di Gentile sia o
no misticismo.152 Mancato tragicamente Gentile nel 1944,153 la
critica di Croce avrebbe avuto
campo libero per la sua primazia
che finì anche per trascendere nei
cascami del “crocianesimo”.154
schia di spezzarsi per questa tensione.
Ma Taine, il suo creatore, ne sarà
nutrito per tutta la vita» (dal risvolto
di copertina).
150
Contini 1989, pp. 6-7, 52. Il parallelo è tra Taine e il Croce del
Contributo alla critica di me stesso.
Si segnala l’uscita da Adelphi nel
2022 di un altro titolo di Croce nella
stessa direzione: Soliloquio e altre
pagine autobiografiche, a cura di
Giuseppe Galasso, prefazione di Piero Craveri.
151
Contini 1989, p. 51.
152
Al primo intervento si ebbe la
replica di Gentile, con lo stesso titolo
e il sottotitolo: Ricordi e confessioni,
sul fascicolo dell’11 dicembre 1913.
Per altri scritti usciti su «La Voce» si
vedano qui la note 107 e 164.
153
Cfr. Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014.
154
Contini 1989, p. 52: «Ma nell’esistenzialismo (che, non composto,
Nella moderna letteratura non v’ha
niente di simile a questo complesso
coordinato di lavori che ora l’Italia
possiede, nei quali si compie il giro
di tutti i problemi attuali nelle varie
discipline filosofiche, dando di essi
esatta informazione, e insieme li si
pone in vivo ricambio con l’indagine
storica nei varî suoi campi della
politica, della morale, della filosofia
e dell’arte. Raro è il possesso
dell’enciclopedia filosofica, ma più
rara ancora l’unione effettiva di essa
con l’esperienza e la pratica dell’indagine storica: il che conferisce all’opera del Croce la sua fisionomia
singolare e l’efficacia educativa che
ha esercitato ed esercita sugl’in155
telletti.
3.3 Giovanni Gentile
(1875-1944)
Gentile, a differenza di Croce, si
formò su un’altra Storia della letteratura italiana, quella del già
ricordato conterraneo siciliano
Paolo Emiliani Giudici, uscita in
due volumi nel 1855 per i tipi di
Le Monnier.156 Emiliani Giudici
lasciato allo stato puro, romantico e
irrazionale, può solo cadere in mani
di dilettanti) e nello strutturalismo (o
linguistica delle scienze o nuova
fenomenologia) è molta distanza dal
crocianesimo, non dal Croce».
155
Il brano di Croce si trova in
un’antologia organica della sua opera
del 1951, Filosofia, poesia, storia:
pagine tratte da tutte le opere, a cura
dell’autore, R. Ricciardi, Milano-Napoli: dall’introduzione dell’Appendice, «specimine perfetto di lingua crociana» (Contini 1989, p. 51, la citazione viene da qui) dove il filosofo
parla di sé in terza persona.
156
In Indice SBN risulta una prima
edizione ma con titolo Compendio
della storia della letteratura italiana,
aveva curato nel 1846 anche una
edizione commentata della Divina Commedia157 nella quale puntò a «riasserire i fondamenti di una filologia capace di sottolineare
il carattere spirituale della Commedia, aspramente polemica nei
confronti della degenerazione ecclesiastica, ma tutt’altro che irreligiosa, e anzi profondamente intrinseca di saggezza teologica». 158
Dopo la laurea in filosofia, con
una tesi discussa a Pisa nel 1898,
su Rosmini e Gioberti considerati
nel loro rapporto con la filosofia
europea di Kant e Hegel, con relatore Donato Jaja, docente di orientamento idealista di marca
spaventiana, Gentile svolse il perfezionamento per un anno all’Istituto di Studi Superiori di Firenze.
Qui tra i professori che lo influenzarono vi era il neokantiano
Felice Tocco159 (1845-1911), che
aveva un approccio di insegnamento memore del suo maestro
all’Università di Napoli, il maggior hegeliano del meridione,
Bertrando Spaventa.160
A Hegel era stato debitore – ovviamente – anche De Sanctis, ma
in modo molto sui generis: egli
infatti fu «pochissimo dogmatico,
costantemente inteso a scovare
Poligrafia italiana, Firenze 1851 (unico volume).
157
Abbiamo avuto modo di citarla
sopra, a nota 115: D. Allighieri, La
Divina Commedia, con illustrazione e
note di P. Emiliani Giudici, Poligrafia Italiana, Firenze 1846.
158
Sberlati 2011, p. 89.
159
Cfr. DBI, s.v. Tocco, Felice, a cura di Simonetta Bassi. In seguito Tocco si fece sostenitore della «necessità
di una battaglia contro ogni dogmatismo [...]. I fatti e la filosofia dello
spirito devono entrare in un circolo
virtuoso, evitando così sia la creazione di favole metafisiche sia l’assolutizzazione dei fatti scorporati dalla
loro origine umana», e ancora auspicò l’«utilizzo della filosofia kantiana
come diga contro il materialismo
dogmatico, che sotto le pretese induttive nascondeva opzioni metafisiche».
160
Così lo ricorda Eugenio Garin,
Felice Tocco alla scuola di Bertrando Spaventa, in Id., La cultura italiana fra ’800 e ’900, Laterza, Bari
1976, pp. 70-78: «l’assoluto non è
qualcosa d’inerte e d’immobile, ma è
vita, movimento, dice il prof. Spaventa, è sviluppo».
34
l’ingegnosa trovata dialettica che
gli consenta di trascendere il limite» statico dell’arte.161 Il pragmatismo di De Sanctis si regge
sull’interesse che egli nutre per il
realismo, o meglio per la vita e la
realtà – in ossequio al motto settecentesco res, non verba. Una
dichiarazione in tal senso si può
forse ricavare da un passo delle
lezioni napoletane, che per l’assunto sarebbe dovuto piacere a
Gramsci:
Un poema religioso si dee proporre la
glorificazione di Dio; ma per Dante
Dio è aiuto alla conoscenza degli uomini, ed umano è, dunque, il fine, che
il poema si propone; il quale sarebbe
sbagliato se avesse per fine il divi162
no.
Nella ripresa delle acquisizioni
desanctisiane si gioca la biforcazione tra Croce e Gentile. Non
dimentichiamo che nel momento
della spaccatura più forte tra i
due, Gentile rimproverò a Croce
il fallimento nella ricezione dell’opera di De Sanctis, avendo allestito una “filosofia a pezzi e
bocconi”, delle “quattro parole”
(scil. il bello, il vero, l’utile e il
buono).163
Gentile vieppiù seppe apprezzare
la tradizione del positivismo sub
specie di prosecuzione del criticismo kantiano. Posizione che gli
derivava dall’ossequio e dalla reverenza al “fatto”, valori acquisiti
sotto il magistero del metodo erudito di Alessandro D’Ancona
alla Normale di Pisa. In un suo
intervento su «La Voce» del 20
maggio 1909, dal titolo Questioni
pedagogiche: il sofisma del doppio fatto, si legge: «Il fatto è pensiero, che va criticamente elaborato dal punto di vista del tutto, se
non si vuole smarrire il fatto
stesso». Gentile avrebbe avuto il
merito – secondo Antimo Negri164 – di saper evitare le secche
161
Contini 1989, p. 10.
De Sanctis, Teoria e storia della
letteratura, cit., vol. I, pp. 214-215.
163
Si veda di Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di
Benedetto Croce: aggiunte, «Diacritica», 8, 2022, n. 1 (43; 25 febb.).
164
A. Negri, ED, s.v. Gentile, Giovanni.
162
del “formalismo puro” e del
“contenutismo piatto”.
Le divergenze tra i ‘dioscuri’ dell’idealismo nostrano, insorte per
motivi personali e di adesione o
meno al fascismo, trovarono un
campo di attrito, ovviamente, anche in materia di dantistica, con il
problema dell’unità dello spirito
dantesco e della Commedia, di un
Dante ideale o astratto contrapposto a un Dante reale.
In Gentile, pertanto, non valgono
le puntuali proposte di identificazione di personaggi e di individuazione di fatti, che sono sempre state un riflesso condizionato
del “secolare commento” e che
tanto avrebbe sollecitato la curiosità erudita del primo Croce,165
poiché
l’allusione dell’autore non è e non ha
voluto essere precisamente determinata, per riferire notizie e documenti
relativi agli stessi fatti o a fatti contermini a quelli a cui Dante pensò. Le
chiose valgono più spesso a distrarre
che ad aguzzare l’attenzione, più a
perder tempo che a guadagnarne, più
a farci girare intorno al murato castello della poesia che a farcene infi166
lare la porta.
Per ogni giudizio limitativo di
Croce sulla poesia nella Commedia troviamo una replica, quasi
interlineare, di Gentile, il quale,
evidentemente, aveva presente
l’ormai classico libro sulla Poesia
di Dante e tendeva a stabilire con
esso un dialogo a distanza di anni. Nel passo dottrinale espresso
dal dubbio di Dante sull’efficacia
delle preci in suffragio:
… El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?
(Pur VI 28-33)
Oltre a citare la probabile fonte
puntuale in un verso di Virgilio:
Desine fata deum flecti sperare
precando [Cessa di sperare di
cambiare i fati degli dèi con la
165
Mengaldo 1998, p. 28, ritiene il
Croce erudito, d’accordo con Arnaldo Momigliano e Carlo Dionisotti,
l’abito suo maggiore, insieme a quello di storico, «coi quali va del resto
non poca parte del critico».
166
Gentile 1965, p. 233.
preghiera] (Eneide VI 376), Gentile manifesta una perplessità:
«non vedo la sottigliezza e l’assurdo che altri vede nella risposta
di Virgilio».167
Per Gentile l’allegoria non è una
zavorra o un intralcio nella delibazione della poesia, come pensava Croce. Nel suo sistema critico essa diventa «costitutiva, organica e vivente»; diventa il traliccio su cui cresce il rapporto tra
filosofia (cioè il Tomismo e la
Scolastica) e la finzione dantesca:
«non definibile in astratto, bensì
conoscibile soltanto come una vita di quest’uomo, del suo cuore,
della passione del suo cuore».168
La scelta comprensibile di spiegare l’antefatto dell’episodio di
Sordello porta Gentile a ripercorrere rapidamente, nella sua
lettura, gli incontri dei primi canti
avuti da Virgilio e Dante, quasi
per riudire e pregustare il “miracolo dell’arte” sotto osservazione,
i cui segni «brillano in cielo dalle
squarciate nuvole».169 Per il distacco che si verifica tra le due
prime cantiche Gentile si rifà a
quanto Croce aveva scritto nella
raccolta del 1921, insistendo sul
passaggio dall’«oscurità che avvolge l’anima percossa e trascinata dalla passione peccaminosa»
alla «luce dello spirito che si avvia alla purificazione e alla libertà» attraverso la “cantica tramezzante”.170 Tuttavia Gentile si
smarca dal “modulo critico distinzionistico” di Croce, recuperando invece un esercizio critico
integrale sull’opera dantesca; nella sua interpretazione prevale l’unità indissolubile, dialetticamente
risolta, tra filosofia e poesia.
L’economia della lettura monografica di un singolo episodio legato al personaggio di Sordello
consente al filosofo di Castelvetrano di indugiare su alcuni aspetti di psicologia della rappresentazione collettiva. Le anime «accortesi che Dante è ancora vivo»,
per via del fatto che dal suo corpo
si staglia un’ombra (Pur V 2527), gli si fanno attorno per curiosità:
Quando s’accorser ch’i’ non dava
loco/
per lo mio corpo al trapassar d’i
raggi,/
mutar lor canto in un “oh!” lungo e
roco;/
Allo stesso modo è sommerso di
richieste di mance il vincitore nel
gioco della zara al trivio di Mercato vecchio. Solo che la mancia
implorata a Dante dalle anime
purganti è fatta delle preci da
richiedere ai parenti superstiti; e
promettendo mi sciogliea da essa
(Pur VI 12).
Il “tono” della scenetta da vita
quotidiana appare a Gentile
«piuttosto sconcertante» per lo
stacco con personaggi aulici del
canto precedente (gli uomini
d’arme Jacopo del Cassero e
Buonconte da Montefeltro), che
avevano più dell’eroismo del sacrificio che non della “marmaglia” di «miserabili postulanti»
antipurgatoriali: «queste anime
son condannate a restar fuori della porta del Purgatorio per tanto
tempo quanto ne indugiarono a
pentirsi dei loro peccati».171 E in
effetti la perplessità e lo sconcerto del Gentile lettore ha una sua
motivazione, quando si affianchi
la scena della zara, con i «pitocchi che si fanno alle costole del
fortunato vincitore del giuoco»,
alla appena narrata vicenda tragica di Pia de’ Tolomei, ricorditi
di me (Pur V 133).
La spiegazione psicologica che
Gentile fornisce per le scelte tonali a contrasto di Dante sta in
questo: «si guarda, ma dall’alto, e
se ne ride».172 Per Gentile, dunque, l’anima dolcemente ricordante e sospirante di Pia vale
quella di Francesca appassionata
e temeraria. Come i suoi personaggi anche il Dante-autore «muta tono, perché è la poesia di un
altro uomo, che ha il suo stile, ed
è nel suo nuovo stile». Quello stile collima ora con la cantica delle
anime purganti. Una «umanità
più veramente umana» attraverso
la quale «l’arte, si può dire nel
linguaggio dei filosofi, è dialettica».173
167
Gentile 1965, p. 224.
Gentile 1965, pp. 189-190.
169
Gentile 1965, p. 219.
170
Gentile 1965, p. 218.
168
35
171
Gentile 1965, pp. 215-216.
Ivi, p. 217.
173
Gentile 1965, p. 221.
172
Nel movimento di una mente,
quella del Dante-personaggio,
che volge le spalle al «bruto sentire» per tendere alla «luce della
ragione che ci fa trasumanare e
indiare», Gentile ha buon gioco
nel prospettare accenni, almeno
lessicali, del suo sistema di “idealismo attuale” o Attualismo. Vale
a dire l’‘atto’ non nel senso aristotelico di realtà che è già tutto
quello che può essere nella sua
perfezione (actum); ma diversamente nel senso di actus in azione, o realtà che è in quanto si fa
ed è destinata a trapassare o
meglio a “trasfigurarsi” come sintesi spirituale.174
«Non è questo il dramma attuale,
vivo, della nostra vita? L’azione
non compiuta, ma nell’atto del
suo compiersi?»,175 con il tendere
«alle cose divine ed eterne dell’arte e della religione».176 Atto è
la stessa autocoscienza come processo pratico e teorico insieme di
(auto)fondazione.
Per Dante […] l’intellettualistico
concetto dell’essere è solo un elemento di un concetto più profondo,
più veramente cristiano, più moderno: del concetto, che lo spirito umano
non ha fuori di sé, già attuato, il suo
mondo; ma deve produrlo egli stesso,
faticando, durando nelle battaglie,
con cui è destinato a vincer tutto.
Questo concetto, questa fede di Dante
è il rovente crogiuolo, in cui egli
fonde l’immane materia accolta dalla
vita e dalla storia universale nella sua
vasta fantasia, per foggiarne la profezia, con cui egli non colpisce soltanto
l’immaginazione, ma scuote e scoterà
sempre i cuori degli uomini, per ani177
marli alla vita.
174
Cfr. DBI, 53, 2000, s.v. Gentile,
Giovanni, a cura di Gennaro Sasso:
«assunto nella prospettiva dell’atto, il
“fatto” è bensì l’astratto che quello,
l’atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la
sua “determinatezza”, si rivela altresì,
nel processo costitutivo dell’atto,
indispensabile e necessario: con la
conseguenza che, nell’idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto,
della “trasfigurazione”».
175
Gentile 1965, p. 219.
176
Ivi, p. 220.
177
Gentile, La filosofia di Dante, in
Gentile 1965, pp. 179-211, alle pp.
210-211.
4. La critica d’arte
come stilistica
L’attacco del canto VI, con la
scena del gioco della zara, parola
rimante solo con impara (come
sempre per le parole in rima di
inizio e fine canto che sono solo
due), in un binomio dal sapore
vagamente gnomico, ha qualcosa
del quadretto realistico di tante
scene di parabole bibliche. Il tema della compagnia di persone adunate e descritte nella spontaneità degli atteggiamenti, nell’istante
di massima espressività, sarebbe
potuto entrare in qualche ritratto
di scena di gruppo alla maniera di
Rembrandt (per es. la Ronda di
notte), con una composizione teatrale ricca di vitalità, energia,
movimento, data dal motivo del
gioco d’azzardo. Nel gruppo della
turba spessa (Pur VI 10) di coloro che sono morti violentemente descritto da Dante, mentre li si
reca a mente (6) – qualcuno della
compagnia si ricorda a lui, si mette in mostra –, vi sono «alcuni
personaggi di cui si fa poco più
che il nome. Essi servono come
esempi che rendono concreta
quella folla, quasi rendendovi
riconoscibili dei volti, e insieme
sono denuncia del costume di
feroci odi e sangue che affliggeva
le città d’Italia, per cui era così
facile enumerare una serie di uccisi».178
De Sanctis sbagliava quando in
una prospettiva ‘storicistica’ pensava che «le figure di Dante, rapidamente disegnate nei loro tratti salienti, gli sembravano accenni
di qualcosa che dovesse svolgersi
nell’avvenire, che aspettasse la
sua piena vita dallo Shakespeare
e dalla letteratura moderna in genere»,179 così da far pensare a una sorta di “non-finito” miche178
Chiavacci Leonardi nel commento
a partire dal v. 13 di Purg. VI.
179
Così Croce 1966, p. 196, che a p.
198 giudica tali aporie come «vizî del
sistema».
36
langiolesco, lo “sbozzo” ricordato
all’inizio, che risulta pur sempre
riuscito ai fini del messaggio artistico.
Una cifra stilistica di resa letteraria che la critica avrebbe riservato successivamente per definire
certi personaggi di Dostoevskij,
sentiti come «forze della natura
generantisi, generanti faticosamente ciascuno il proprio essere,
come se lo partorissero. […] questa loro ansia espressiva, il sovracompensarsi delle loro parole e
gesti, li rende così simili alle muscolature sovracompensate del
manierismo italiano»;180 oppure
per restare nel campo dell’iconografia dantesca possiamo pensare
alle illustrazioni manierate di Doré, le cui incisioni in bianco e
nero della Commedia sono unanimemente considerate dalla critica
un perfetto connubio tra l’effetto
della tecnica illustrativa e la
vivida immaginazione visiva di
Dante.181
La confidenza di De Sanctis per il
lessico della critica d’arte dovette
essere alimentata dalla stretta
amicizia che ebbe con lo storico
dell’arte Giovanni Morelli (18161891) – proprio il teorico del
metodo attributivo in pittura,
riscoperto e valorizzato da Carlo
Ginzburg in un famoso saggio.182
Morelli all’epoca rivestiva un
ruolo che gli permise nel 1855-56
di proporre De Sanctis per la
cattedra di letteratura italiana al
Politecnico di Zurigo. In Svizzera
De Sanctis rimase fino a quando,
dopo il rientro nella penisola,
divenne direttore dell’Istruzione a
Napoli nel 1860. Egli si sarebbe
sdebitato affidando a Morelli il
compito di indagare sulla situazione dell’Accademia di Belle
Arti di Firenze, ruolo a cui seguì
la partecipazione alla commissione incaricata di formulare un
180
F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 1994, da
Igor Sibaldi, Introduzione, p. XIV.
181
La Commedia illustrata da Gustave Doré,
https://www.bibliotecamai.org/ariveder-le-stelle-commedia-illustratada-gustave-dore/.
182
Carlo Ginzburg, Spie: radici di un
paradigma indiziario, in Id., Miti,
emblemi, spie: morfologia e storia,
Einaudi, Torino 1986, pp. 158-193.
progetto di legge sulla conservazione dei beni artistici.183
Il gusto da lettore-osservatore in
De Sanctis poteva discernere tra
ciò che è «molto per la pittura,
ma poco per la poesia», riferendosi alla figura dell’angelo nocchiero che trasporta le anime al
lido del Purgatorio. Viceversa
manifestava scetticismo sulla capacità di rendere in prosa o in poesia una scultura che, invece, se
«veduta si comprende subito e
genera un godimento estetico immediato».184 È il motivo per cui
Dante per rendere la visione dell’anima lombarda … altera e disdegnosa (Pur VI 61-62) pensa
bene di scorciare la descrizione
appassionata con il ricorso alla similitudine, a guisa di leon quando si posa (66), dai critici sopra
ricordati giudicata dal valore statuario: «l’immagine fa da suggello al quadro, riassumendo in
sé l’atteggiarsi, non solo esteriore, ma anche interiore della figura
descritta» (Chiavacci Leonardi).
Come caso di scuola nella Commedia si può prendere il celebrato
episodio della descrizione di esempi di virtù intagliati nella pietra della prima cornice del Purgatorio (canto X). De Sanctis
svolge una teoria delle arti plastiche che sembra contraddire la
sentenza di Winckelmann (di cui
si dirà fra poco):
la natura non può essere rappresentata da tutte le arti allo stesso modo,
ma sotto questo o quell’aspetto, secondo la materia e l’istrumento di
ciascuna. [...] L’anima pare con più
chiarezza nella pittura; perché ella ha
qualche cosa più potente assai della
pietra e del marmo, flessibile e quasi
incorporea, la luce, graduata nei colori, che prima dona alla cieca statua
l’occhio, parola dell’anima [...]. Ma
architettura, scultura o pittura che siasi, queste tre arti dette plastiche o
corporali, una cosa [il corpo espresso] mostrano all’occhio, un’altra [l’anima sottintesa] lasciano nell’immaginazione [...]. A questo difetto delle
arti plastiche supplisce la parola, che
nulla mostra al senso, non vi dà figura o colori, ma comunica da anima
183
Cfr. la scheda “Giovanni Morelli”, nel Dizionario biografico dei
protestanti in Italia,
https://www.studivaldesi.org/dizionario/
evan_det.php?evan_id=407.
184
De Sanctis 1955, p. 338.
ad anima senza mezzo di corpo; e
perciò potentissima ad esprimere la
parte interiore della vita, i sentimenti
e i pensieri. [...] lo scultore rappresenta il corpo per farci indovinar l’anima; egli [il poeta] rappresenta l’anima per farci indovinare il corpo [...]
non riproduce la figura in tutti i suoi
accidenti, ma sceglie alcun tratto più
direttamente congiunto con l’anima,
dal quale si possa argomentare il ri185
manente del corpo scultorio.
Parole importanti, come si evince
dall’influenza che esse hanno avuto sulla riflessione estetica di
Croce e Gentile; una “filosofia
dell’arte” nella quale essi appuntarono una parte cospicua del loro
pensiero.186 Il linguaggio da critica d’arte, portato a sviluppo e
perfezionamento da Roberto Longhi,187 sarà ripreso in chiave di
185
De Sanctis 1955, pp. 338-339. Il
brano è tratto dalla Lezione undicesima: “Situazione poetica del Purgatorio. L’elemento descrittivo. Gli esempi di virtù”.
186
Nell’ampia bibliografia, sia soggettiva che critica, si può partire dal
contributo di Carlo Mazzantini, L’estetica di Benedetto Croce e la filosofia dell’arte di Giovanni Gentile, a
cura dell’Associazione culturale “Augusto Del Noce” di Torino, Coop.
L’Arca, Torino 1995.
187
Il piemontese Longhi aveva conseguito la licenza liceale al Gioberti
di Torino (nel 1907), dove a condurlo
«per mano alla critica letteraria di
Francesco De Sanctis fu, verso il
1906, l’indimenticabile Umberto Cosmo», noto dantista con cattedra universitaria. Longhi poi diresse per gli
anni 1938-40 la rivista «La Critica
d’arte», fondata nel 1935 da Ragghianti e Bianchi Bandinelli e pubblicata dalla Sansoni, casa editrice rilevata nella conduzione da Gentile a
partire dal 1936. Il titolo del bimestrale si rifaceva alla rivista di Croce.
Inoltre l’Estetica del filosofo trapiantato a Napoli fu il primo amore di
Longhi, fin dai tempi della tesi discussa nel 1911. Da parte sua Croce,
La critica e la storia delle arti figurative e le sue condizioni presenti
(1919), ora in Id., Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, Bibliopolis, Napoli 1991 (1920), pp. 249
sgg., prese in ammirazione Longhi
«per essere uno scrittore (per dirla
alla tedesca) temperamentvoll, esercita una notevole efficacia sui presenti
studi italiani di storia dell’arte». Cfr.
DBI, 65 (2005), s.v. Longhi, Roberto,
a cura di Simone Facchinetti. Si veda
37
critica letteraria da un suo ammiratore, Gianfranco Contini.188 Da
ultimo si segnala un progetto di
ricerca di interesse nazionale
(PRIN) sulla “proposta di schede
lessicografiche per la lingua dell’arte”.189
Per la scultura vale sempre il richiamo a Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il quale – a detta di Croce – «patì una tragedia
estetica, quella dell’inadeguatezza della forma all’ispirazione,
della possa all’alta fantasia».190
Croce spiega il giudizio limitativo, magari da circoscrivere ai
pezzi non-finiti del genio di Caprese (prov. di Arezzo), con l’affermazione che «i romantici [...]
confondevano sovente la passione
come ‘materia’ con la passione
come ‘forma’, deprimendo l’idealità dell’arte».191
Di nuovo Gentile non perde occasione di dissentire dal suo collega
più anziano, anche indirettamente
senza farne il nome: «con tutto il
rispetto che io sento schiettamente per l’insigne critico». All’altezza del 1939, quando Gentile fornisce la lectio dantesca, il dissidio
tra i due era pienamente consumato da oltre un decennio in no-
la recente monografia di Chiara Murru, Tra Piero della Francesca e Caravaggio: studio sul lessico di Roberto Longhi, FrancoAngeli, Milano
2022 e Ead., ‘Quasi dopo un viaggio
dantesco’: le parole di Dante negli
scritti di Roberto Longhi, «Studi di
lessicografia italiana», 38, 2021, pp.
319-346.
188
Manuela Marchesini, Scrittori in
funzione d’altro: Longhi, Contini,
Gadda, Mucchi, Modena 2005.
189
Il progetto rientra nella compilazione di un Vocabolario dinamico
dell’italiano moderno (VoDIM), di
cui alcune notizie si trovano in un articolo di Barbara Patella, ospitato nel
sito dell’Accademia della Crusca,
https://accademiadellacrusca.it/it/cont
enuti/titolo/8002
190
Croce 1966, 205. Per capire meglio la terminologia crociana, Croce,
a p. 181, in relazione al giudizio della
poesia dantesca dato da Vico, scrive
di «una nuova dottrina che si sarebbe
svolta nei secoli seguenti e si sarebbe
chiamata Estetica, scienza della fantasia, scienza dell’intuizione, o in altri modi».
191
Croce 1966, p. 189.
me dell’adesione o meno al fascismo.192
Gentile ricorre al connettivo «È
stato detto da un critico…», per
dissentirne riguardo al giudizio
sulle figurazioni pittoriche e scultoree del canto X del Purgatorio:
«il quale luogo discrive l’auttore
sotto certi intagli d’antiche imagini».193 Le illustrazioni di virtù e
superbia «rispecchiano un mondo
da cui l’anima è lontana», «al calore della vita vissuta subentra
perciò il freddo contemplare dello
spirito pacato e sereno e l’attenuarsi e il venir meno della poesia. La quale richiede senso e passione e impeto e caldezza e corpulenza di fantasia scevra o povera di riflessione», passi di Gentile che sembrano parodiare il gusto di Croce per le tinte romantiche.194 Ma sappiamo ormai come
Gentile volesse prendere le distanze dai «soliti critici armati di
coltello anatomico». Nell’argomentare di rimessa egli ha modo
di delineare la sua estetica, rispetto a quella crociana:
[...] dove entra la pratica, un interesse
o movente della vita reale in cui
l’uomo opera, la poesia è ita. Tutto
vero, ma in astratto. In concreto,
nulla è per sé stesso impoetico e
refrattario al soffio animatore dell’arte. Convien vedere se la pratica resta
grezza e massiccia pratica, o se essa
si fonde al fuoco della ispirazione
195
poetica.
Croce, d’altra parte, tende a vedere nelle «tante figure che [Dante] ha disegnate, miti e dolci» nel
Purgatorio un poetare flebile rispetto «al suo più vero ideale, al
propriamente dantesco, a quello
dell’energica volontà e passione»
dei personaggi dell’Inferno.196
All’altezza del 1921, cioè della
raccolta dei saggi danteschi, Croce si dichiara debitore verso quel
taglio “veristico” del Romanticismo critico inteso come una de192
I due “manifesti degli intellettuali”, pro e contro il fascismo, furono
redatti e firmati da loro per primi nel
giro di due mesi nel 1925.
193
Dalla rubrica dell’edizione Petrocchi.
194
Gentile 1965, p. 220.
195
Gentile 1965, p. 231.
196
Croce 1966, p. 122.
clinazione di “poesia violenta”, la
stessa che Thomas Carlyle197 tacciava di “byronismo”, cioè grandi
individui storici, possenti creature
della fantasia o dell’agiografia,
che popolavano la cultura medievale, tramutate in personaggi da
epopea.
Fig. 2 - Sordello davanti a Virgilio,
particolare del Monumento a Dante
situato nel parco antistante la stazione
ferroviaria di Trento. – La scultura,
opera del fiorentino Cesare Zocchi, fu
commissionata quale simbolo della lingua italiana e dell’italianità della città
nel 1896. - © Jaqen.
Il gruppo scultoreo della Fig. 2
ritrae l’incontro-agnizione di Sordello e Virgilio, con un pathos
che «rimane scolpito in quell’abbraccio e in quel grido», 198 e che
Croce avrebbe approvato, o forse
ebbe modo in persona di manifestare il proprio consenso in occasione di una visita (ammesso che
sia avvenuta) nella città irredenta.
Il gruppo, infatti, assolve bene il
requisito della cosiddetta corposità o plasticità degli autori di letteratura e degli estratti di poesia
cari al Croce; per giunta adatti
allo stile critico caratterizzante e
descrittivo.
Invece il concetto estetico-filosofico ossia una formula di critica
d’arte che sintetizzi la poesia
dantesca in generale per come la
intendeva Gentile possono essere
demandati all’illustrazione che
fece John Flaxman della stessa
scena di Sordello e Virgilio mentre si abbracciano (Fig. 3). Il
197
Si veda ED, s.v. Carlyle, Thomas,
a cura di Eric R. Vincent.
198
Si cita da Gentile 1965, p. 230.
L’espressione è stereotipata, pur calzando con lo stile drammatico che caratterizza il dettaglio del monumento
scultoreo di Trento.
38
risultato è di «calma nel suo gran
vigore» – un effetto che può ricordare le categorie di “nobile
semplicità” e di “quieta grandezza” usate da Winckelman a proposito della statuaria classica.
La generale e principale caratteristica
dei capolavori greci è una nobile
semplicità e una quieta grandezza, sia
nella posizione che nell’espressione.
Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione
delle figure greche, per quanto agitate
da passioni, mostra sempre un’anima
199
grande e posata.
La scena e i personaggi sono gli
stessi del luogo analizzato nella
Commedia; cambia la tecnica:
dalla scultura all’incisione, con
una resa differente. Quei moti
dell’anima di Sordello restano
quasi sottintesi, resi ellittici nella
compostezza del disegno, i quali
sembrano così rendere bene la
trasfigurazione della sintesi spirituale tra “atto e “fatto” cara a
Gentile.
Fig. 3 - Illustrazione dell’abbraccio tra
Sordello e Virgilio. Il disegnatore John
Flaxman fu incaricato nel 1792 da Sir
Thomas Hope di eseguire una serie di
illustrazioni di canti della ‘Divina
Commedia’, da cui ricavare le incisioni.
Nel 1793 il lavoro era completato. Una
prima tiratura fu effettuata ad Amsterdam, l’immagine sopra è tratta da
quell’edizione privata del 1795. Un’altra serie di 111 stampe, con lastre incise
al bulino da Tommaso Piroli, vedeva la
luce a Roma nel 1802. Le incisioni
stampate potevano leggermente variare
da una pubblicazione all’altra, anche
per le varie mani degli esecutori dei
disegni delle matrici, derivanti dal ciclo
originale.
199
Johann Joachim Winckelmann
(1717-1768), Pensieri sull’imitazione
delle opere greche nella pittura e
nella scultura, scritto uscito nel 1755.
Si cita dall’edizione Einaudi, Id., Il
bello nell’arte: scritti sull’arte antica, a cura di Federico Pfister (19483).
De Sanctis di fronte a «certi intagli d’antiche imagini» di Pur X,
scrisse che la «poesia rappresenta
l’espressione che esce dalla figura, non la figura: guardate l’intaglio, e quella figura vi sta netta
innanzi; leggete la poesia, e quella figura vi fluttua innanzi come
un’ombra».200 Pur sapendo che la
mimesi vera e propria, intesa cioè come complesso di “equivalenze”, è
possibile solo quando il linguaggio
del critico non è quello stesso
dell’opera. […] Per le stesse ragioni,
ma a rovescio, può ben darsi che le
arti non della parola lascino, in linea
di principio, più libero di sbrigliarsi
colui che ne parla, mentre la letteratura trattiene di più il critico entro il
201
proprio cerchio.
Ernesto Giacomo Parodi, poi, in
virtù dell’essere considerato un
epigono del gusto e del modo di
affrontare il testo proprio di De
Sanctis, arricchirà la linea del ragionamento del ‘maestro’ fatta di
intuizioni critiche. Invero si parlò
di “seconda scuola” del De Sanctis anche per un altro filologo e
letterato, Francesco Torraca.202
Entrambi i critici ebbero la benedizione di Croce. Quali erano le
peculiarità di questa scuola? In
essa si avvertiva l’esigenza crescente di un carattere inteso a
descrivere «l’incontro del critico
con l’autore al di dentro dell’opera poetica, rivivendo con lui la
genesi della poesia e le passioni
del suo animo e del suo tempo».203
Parodi avrebbe puntualizzato le
differenze tra De Sanctis e Croce
200
De Sanctis 1955, p. 340.
Mengaldo 1998, p. 18 della Premessa.
202
Francesco Torraca, Francesco De
Sanctis e la sua seconda scuola, «La
Settimana» 1 (7 dicembre 1902), n.
33; poi nella miscellanea a cura sempre di Torraca, Per Francesco De
Sanctis, Napoli [etc.], Perrella, 1910,
pp. 91-117. Si veda anche di Giancarlo Mazzacurati, La critica dantesca di Francesco Torraca e la ‘seconda scuola’ del De Sanctis,
Olschki, Firenze 1966, pp. 83-103;
estratto da Atti del congresso nazionale di studi danteschi “Dante e l’Italia meridionale”, Caserta 10-16
ottobre 1965.
203
Romagnoli, in De Sanctis 1955, p.
XIX.
201
in uno scritto commemorativo per
l’autore della Storia della letteratura italiana:
nessuno mai penetrò con più acuto
sguardo di lui nell’essenza dell’opera
d’arte, nessuno come lui seppe vivere
della sua vita […]. Qui è veramente
la sua forza e la sua particolare
fisionomia, che rende impossibile e
vano il porlo a confronto con altri
critici. Le sue novità furono certo
anche d’ordine teoretico, e furono
belle e vere novità, quantunque egli
non pensasse mai, come scrisse il
Croce che ci pensò, a farne un compiuto sistema, organico e ben corrispondente in tutte le sue parti, senza
reali o apparenti contradizioni. Ma
l’estetica non è la critica [c.vo mio],
benché noi senza dubbio dobbiamo
ammirare nel De Sanctis anche il filosofo, che costruisce logicamente e
indica nuovi e sicuri principi meto204
dici.
5.
Conclusioni
In Croce la storiografia è la
chiave centrale e unitaria del suo
sistema critico, come evidente fin
dalla memoria giovanile del 1893
La storia ridotta sotto il concetto
generale dell’arte.205 La lettura di
Croce della poesia di Dante è
tutta calata nella storia per farne
un’analisi al presente, un manifesto della “religione della libertà”, una verifica sulla identificazione di filosofia e politica, e di
filosofia e ideologia; traguardi a
cui Croce sarebbe giunto con la
pubblicazione della Storia d’Europa nel secolo XIX (1932), vale
204
Ernesto G. Parodi, De Sanctis, «Il
Marzocco», 15, 6 marzo 1910, n. 10,
p. 2; i fascicoli della rivista sono
digitalizzati nel sito del Gabinetto
Vieusseux,
https://www.vieusseux.it/coppermine
/index.php?cat=25.
205
Memoria letta all’Accademia Pontaniana nella tornata del 5 marzo
1893 dal socio Benedetto Croce, Tip.
della R. Università, Napoli 1893 (vol.
23 degli “Atti dell’Accademia pontaniana”).
39
a dire «il momento attuale dello
sviluppo storico mondiale dell’idealismo» (per dirla con le parole
di Gramsci).
Se volessimo «trasportare le nostre idee moderne ai tempi di
Dante»,206 in fondo quel disegno
universalistico che egli vedeva
nell’impero, noi europei ed occidentali del primo quarto del XXI
secolo ci eravamo abituati a vederlo realizzato nella cultura capitalistica e consumistica, con i primi accenni, purtroppo tardivi, di
sviluppo sostenibile. Uno storico
sul finire del secolo passato aveva
chiamato quel paradigma, et pour
cause, la “fine della storia” – la
realizzazione pacifica di un giardin de lo ’mperio (Pur VI 105).
Ma al riscontro odierno degli accadimenti internazionali, risulta
che quella previsione era sbagliata essendo tornata alla ribalta l’aiuola che ci fa tanto feroci (Par
XXII 151).
La proiezione in avanti di Gentile
si coglie a proposito dello status
di “profeta” di Dante, oggetto di
un’altra lettura tenuta nel 1918,
annunciatore di una forma di
“stato etico”.
La vita dello Stato infatti è vita di
uomini, vita spirituale: e questa vita
non è dato concepirla se non come
devozione assoluta a un’idea, proprio
come ogni Chiesa insegna. Quella
devozione, che fa il soldato sicuro
incontro alla morte necessaria alla
patria, ma fa anche ogni cittadino negli uffici più prosaici e meno rischiosi, ma non meno difficili, di tutti i
giorni, inflessibile nella coscienza e
nella volontà del dovere; ignaro, come il Veltro dantesco, di un interesse
privato che non sia quello medesimo
207
dell’idea di cui egli è servitore.
Nella prolusione del 1872, per il
ritorno all’insegnamento sulla
cattedra dell’ateneo napoletano,
De Sanctis annunciava all’aula di
scolari un obiettivo risultante dal
leggere la Divina Commedia, ad
usum Delphini. Essi dunque si
apprestavano – secondo la nota
formula latina – a diventare la
nuova classe dirigente, distin206
De Sanctis 1955, p. 74.
Gentile, La profezia di Dante, in
Gentile 1965, pp. 133-175, alle pp.
174-175.
207
guendo però il significato originario della locuzione, dai tipici risvolti monarchici, classisti e spregiativi, con una sfumatura positiva e democratica perché il “Delfino” finalmente era destinato a identificarsi in loro, giovani destinatari dell’insegnamento e, in
prospettiva, giovani promesse del
futuro e prossimi testimoni dell’Italia a venire.208
Proprio ad un cortocircuito all’insegna della didattica e dell’educazione possiamo riscattare De
Sanctis da una presunta condizione di intellettuale ‘fuori moda’, almeno allo stato degli studi
e della riflessione odierni. Tutti
noi addetti ai lavori, discenti e
docenti, relatori e ascoltatori in
remoto, abbiamo imparato a
conoscere la cosiddetta “didattica
a distanza” (DAD, in acronimo),
una soluzione di emergenza per la
pandemia globale. Essa è anche
diventata una comoda opportunità
con i collegamenti a distanza da
ogni dove, con cui abbiamo ormai familiarizzato nostro malgrado – come dimostrano i lavori del
convegno madrileno svoltisi per
lo più in remoto. Ebbene De Sanctis, nella lontana metà del XIX
secolo, esprimeva per lettera, con
sorprendente attualità rispetto a
ricadute psicologiche e sensazioni
con le quali in parte continuiamo
a convivere, la tristezza e il disorientamento di un insegnante nel
fare lezione di fronte ad un’aula
vuota:
non puoi credere, quanto mi è difficile fare una lezione, quando non ho
209
innanzi a me un pubblico.
ROSSANO DE LAURENTIIS
208
La prolusione fu intitolata La
scienza e la vita. Cfr.
http://www.filmod.unina.it/antenati/DeSa
nctis.htm.
209
De Sanctis, Lettere dall’esilio,
cit., p. 166.
40