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Lettura sinottica del canto di Sordello (Purgatorio VI) secondo le interpretazioni di De Sanctis, Croce e Gentile. - http://www.lunigianadantesca.it/

2022, Lunigiana Dantesca, 20 dicembre, http://www.lunigianadantesca.it/bollettino-dantesco/

Omaggio al Dantedì, 25 marzo 2022. La lettura sinottica è stata suggerita dall’intervento, in remoto, al Convegno per l’anno del centenario dantesco 2021 organizzato dalla Universidad Complutense di Madrid, dal titolo: "L'ombra sua torna": Dante, il Novecento e oltre. Tra i materiali e gli spunti presentati vi era la comparazione di tre basilari raccolte di saggi danteschi, precisamente di Francesco De Sanctis, "Lezioni e saggi su Dante" (Einaudi 1955, a cura di Sergio Romagnoli), di Benedetto Croce, "La poesia di Dante" (Laterza 1921 [1. ed. 1920], ma utilizzata in una ristampa del 1966) e di Giovanni Gentile, "Studi su Dante" (Sansoni 1965, raccolti da Vito A. Bellezza). Il termine di paragone, all’interno della trattazione organica di ciascun critico della materia dantesca, è stato ridotto all’episodio di Sordello perché Gentile ne diede una ‘lettura’ alla Casa di Dante in Roma il 19 marzo 1939.

LETTURA SINOTTICA DEL CANTO DI SORDELLO (PUR VI) SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI DE SANCTIS, CROCE E GENTILE ROSSANO DE LAURENTIIS LE TRE EPIGRAFI FRANCESCO DE SANCTIS E però il poeta deve sempre cogliere nel particolare la parte ideale ed umana, che si riferisca tale società Dantista, Filologo BENEDETTO CROCE PREMIO CLSD 2022 [Del lavoro in oggetto è qui riportato il solo abstract. Il testo del saggio verrà offerto ai lettori di LD appena disponibile.] La lettura sinottica è stata sugnario dantesco 2021 organizzato dalla Universidad Complutense di Madrid, dal titolo: «"L'ombra sua torna": Dante, il Novecento e oltre». Tra i materiali e gli spunti presentati vi era la comparazione di tre basilari raccolte di saggi danteschi, precisamente di Francesco De Sanctis, «Lezioni e saggi su Dante» (Einaudi 1955, a cura di Sergio Romagnoli), di Benedetto Croce, «La poesia di Dante» (Laterza 1921 [I ed. 1920], ma utilizzata in una ristampa del 1966) e di Giovanni Gentile, «Studi su Dante» (Sansoni 1965, raccolti da Vito A. Bellezza). Il Dopo di lui [De Sanctis], nonostante che in Italia fossero molto ammirate (ma piuttosto come arte che come scienza) alcune sue pagine su personaggi ed episodî danteschi, le menti si distornarono da quei problemi, perché, coriodo filologistico degli studî storici e letterarî, corrispondente al generale naturalismo e positivismo filosofico GIOVANNI GENTILE E egli [Dante] mezzi teologici e dottrinali, del cui carattere strutturale, come dicono, o semplicemente connettivo, si possono meravigliare soltanto quei critici, che a furia di analisi smont poetico e finiscono col trovarsi in mano tanti pezzi eterogenei: parte prosaici, artificiosi e morti, e parte membra vive o che paion tali, ancora capaci di movimento e di resistere con la loro indistruttibile vitalità poetica a ogni violenza di anatomia. [...] Come non si sapesse che la poesia non è nelle parti singole, ma nel tutto, nella sua unità indivisibile. della trattazione organica di ciascun critico della materia dantesca, è stato qui dio di Sordello perché Gentile ne Dante in Roma il 19 marzo 1939. 25
LUNIGIANA DANTESCA ISSN 2421-0190 INDICE ATTIVITÀ DEL CLSD pp. 2-8 Il ‘Presepe esteso’ di groppoli di Mulazzo p. 9 SAPIENZIALE ANNO XX n. 190 – DIC 2022 CENTRO LUNIGIANESE DI STUDI DANTESCHI Bollettino on-line Comitato di Redazione Direttore Il congedo di Wagner: ‘Parsifal’, l’opera della Conversione’ p. 10 COMPAGNIA DEL VELTRO COMPAGNIA DEL SACRO CALICE Astro del Ciel pp. 11 Se qualcuno ti dice che non ci sono Verità, o che la Verità è solo relativa, ti sta chiedendo di non credergli. E allora non credergli. ROGER SCRUTON MIRCO MANUGUERRA Redattori ANGELA AMBROSINI STEFANO BOTTARELLI NUNZIO FESTA MIRCO MANUGUERRA MARIA ADELAIDE PETRILLO DAVIDE PUGNANA Comitato Scientifico EGIDIO BANTI GIUSEPPE BENELLI JOSÉ BLANCO JIMÉNEZ FRANCESCO CORSI FRANCESCO DI MARINO SILVIA MAGNAVACCA MIRCO MANUGUERRA SERENA PAGANI DAVIDE PUGNANA  2003-2022 CLSD www.lunigianadantesca.it lunigianadantesca@libero.it AVVERTENZE È concesso l’utilizzo di materiale ai soli fini di studio citando sia l’Autore che la fonte bibliografica completa. Ogni Autore può disporre liberamente dei propri scritti, di cui è unico responsabile e proprietario, citando comunque la presente fonte editoriale in caso si sia trattato di I pubblicazione. Il Bollettino è diffuso gratuitamente presso i Soci del CLSD e tutti coloro che ne hanno fatto esplicita richiesta o hanno comunque acconsentito tacitamente alla ricezione secondo i modi d’uso. Per revocare l’invio è sufficiente inviare una mail di dissenso all’indirizzo lunigianadantesca@libero.it Copyright Immagini Le immagini presenti negli articoli sono utilizzate a scopo puramente illustrativo e didattico. Qualora dovessero violare eventuali diritti di Copyright, per la rimozione delle stesse si prega di scrivere immediatamente all’indirizzo email: lunigianadantesca@libero.it CHE IL VELTRO SIA SEMPRE CON NOI Max Weber e la società corporativistica p. 12 SEVERINIANA LA VOCE DEL VELTRO di Natale p. 13 Il tempo DANTESCA Un giorno la Paura bussò alla porta, il Coraggio andò ad aprire e vide che non c’era nessuno. MARTIN LUTHER KING I grandi contributi del CLSD (III) L’enigma dei due angeli di Pur VIII p. 14 Lettura sinottica del Canto di Sordello (Pur VI) secondo le interpretazioni di De Sanctis, Croce e Gentile pp. 15-40 La Divina Commedia in vernacolo spezzino: Inf XXV pp. 41-42 Sulle tracce siciliane di un possibile Codice autografo dell’Inferno (IV) p. 43 TEOLOGICA Correggio: ‘Adorazione dei pastori’, o ‘La Notte’ pp. 44-46 OTIUM Un’idea di Pasolini pp. 47-49 Un’esperienza di studio in Spagna p. 50 LA POESIA DEL MESE ‘Dicembre’ di Cesare Angelini p. 51 La ‘Rappresentazione dei Re Magi’: i primordi del Teatro in Spagna IL SOFÀ DELLE MUSE pp. 52-53 VISIBILE PARLARE La za’ del Bernini pp. 54-55 ‘Costan- RECENSIONI ‘Il crepuscolo degli idioti’; ‘Storia della Cristianità occidentale’ Jules-Joseph-Lefebvre La Verità (1870) pp. 56-57 ARCADIA PLATONICA L’ultima fatica di Aldo Nove p. 59 Un evento speciale: Rapallo per il 50^ di Pound p. 62 Contributi poetici p. 60-66 La Tradizione non è il passato, ma quello che non passa. DOMINIQUE VENNER Anche se il Timore avrà più argomenti, tu scegli la Speranza. SENECA 1 LETTURA SINOTTICA DEL CANTO DI SORDELLO (PUR VI) SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI DE SANCTIS, CROCE E GENTILE Abstract. La lettura sinottica è derivata dall’intervento in remoto al Convegno per l’anno del centenario dantesco 2021 organizzato dalla Universidad Complutense di Madrid. I materiali e gli spunti discussi sono partiti dalla comparazione di tre basilari raccolte di saggi danteschi: precisamente di Francesco De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante (Einaudi 1955, a cura di Sergio Romagnoli); di Benedetto Croce, La poesia di Dante (Laterza 1921 [1. ed. 1920], utilizzato in una ristampa del 1966) e di Giovanni Gentile, Studi su Dante (Sansoni 1965, raccolti da Vito A. Bellezza). Il termine di paragone, all’interno della trattazione organica di ciascun critico della materia dantesca, è stato ridotto all’episodio di Sordello (presenza che occupa i canti dal VI al IX del Purgatorio), un minimo comun denominatore suggerito dalla ‘lettura’ alla Casa di Dante in Roma il 19 marzo 1939 che diede Giovanni Gentile. E però il poeta deve sempre cogliere nel particolare la parte ideale ed umana, che si riferisca cioè all’umanità e non alla tale o tale società (Francesco De Sanctis1) […] dopo di lui [De Sanctis], nonostante che in Italia fossero molto ammirate (ma piuttosto come arte che come scienza) alcune sue pagine su personaggi ed episodî danteschi, le menti si distornarono da quei problemi, perché, com’è noto, si entrò allora nel periodo filologistico degli studî storici e letterarî, corrispondente al generale naturalismo e positivismo filosofico 2 (Benedetto Croce ) 1 - Introduzione Si propone una lettura comparata del canto sesto del Purgatorio,4 in analogia con quanto avviene, specialmente negli studi danteschi anglo-americani, per le “letture verticali” di canti corrispondenti per posizione numerica nelle tre cantiche. Le vertical readings5 sono foriere di acquisizioni critiche interessanti e nuove, come è dimostrato ormai da una ricca bibliografia. Del resto l’approccio delle letture verticali non farebbe altro che riproporre sul piano esegetico quella che dovette essere l’attività preparatoria di Dante per la stesura della Commedia6: un poderoso esercizio dell’arte 4 I materiali erano stati raccolti in origine per il convegno internazionale di Madrid, organizzato dalla Universidad Complutense, dal titolo L’ombra sua torna: Dante, il Novecento e oltre, inizialmente previsto per il […] ecco una battuta d’aspetto, come egli [Dante] suole ne’ suoi intermezzi teologici e dottrinali, del cui carattere strutturale, come dicono, o semplicemente connettivo, si possono meravigliare soltanto quei critici, che a furia di analisi smontano l’organismo poetico, e finiscono col trovarsi in mano tanti pezzi eterogenei: parte prosaici, artificiosi e morti, e parte membra vive o che paion tali, ancora capaci di movimento e di resistere con la loro indistruttibile vitalità poetica a ogni violenza di anatomia. [...] Come non si sapesse che la poesia non è nelle parti singole, ma nel tutto, nella sua unità indivisibile (Giovanni Gentile3) 1 Francesco De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Einaudi, Torino 1955 (d’ora in avanti De Sanctis 1955), p. 470. 2 Benedetto Croce, La poesia di Dante, Laterza, Bari 1921 (1. ed. 1920); utilizzato per le citazioni in una ristampa del 1966 (d’ora in avanti Croce 1966), p. 199. 3 Giovanni Gentile, Studi su Dante, raccolti da Vito A. Bellezza, Sansoni, Firenze 1965 (d’ora in avanti Gentile 1965), p. 224. 15 2020, ma poi slittato all’anno del centenario e svolto a distanza per la pandemia. Ne approfitto per ringraziare e salutare: Carlota Cattermole Ordóñez per l’organizzazione del collegamento in remoto, Lino Pertile chairman della sessione intitolata “Interpretazioni” e i compagni di sessione Marco Carmello e Matteo Maselli. Il mio intervento ha avuto per titolo: “Per un ripasso impregiudicato del dantismo di Benedetto Croce: tra De Sanctis e Gentile”. 5 Cfr. Vertical readings in Dante’s ‘Comedy’, edited by George Corbett and Heather Webb, Open Book Publishers, Oxford 2015-2016, in 2 voll.,https://library.oapen.org/bitstream/id/2f c631a8-f37c-47a0-a62f46121e913121/633789.pdf. 6 Su un piano micronarrativo e stilistico Giorgio Padoan, Sulla datazione del ‘Purgatorio’ e del ‘Paradiso’ (e la dedica a Cangrande), in Id., Il lungo cammino del “poema sacro”: studi danteschi, Olschki, Firenze 1993, pp. 93-120, ha segnalato una serie di riprese e di «rinvii allusivi, anche per antifrasi» tra i blocchi di Inf I-V e Pur I-V (pp. 94-95). Il motivo di una sinossi della Commedia, anche solo figurata per luoghi e nomi di personaggi, ritorna nel film Dante di Pupi Avati (2021), nella scena in cui Dante al lume di candela traccia su un lenzuolo che porta sempre con sé dei nomi e una topografia dell’aldilà, con l’ “alpigiana gozzuta” (figura tratta dal Trattatello di Boccaccio) che gli chiede se sta scrivendo un “libro dei morti”. della memoria secondo l’insegnamento della Retorica antica. Tutto il palcoscenico della Divina Commedia forma un paesaggio immaginato con strutture topologiche ben determinate: […] l’Inferno con i suoi nove cerchi; il Purgatorio, con le nove cornici; il Paradiso, con le sue nove sfere celesti […] le anime dannate, penitenti o salvate nei tre regni dell’Aldilà si trovano tutte “collocate” in determinati luoghi assegnati 7 loro dal […] giudizio divino. All’interno di quella topografia si situano i defunti, protagonisti o semplici comparse, caratterizzati però in un modo a volte ‘eroico’ che li rende riconoscibili di cantica in cantica. Sordello, per esempio, è definito da Croce il “Farinata del Purgatorio” per il «suo grande e tacito amore nella patria».8 Ma Gentile sfumando precisa che «la tempra di questo magnanimo non è la rigida brutale fierezza di Farinata indifferente e insensibile anche al dolore paterno del vicino Cavalcante».9 Per riprendere il brusco inserto dell’invettiva del Dante-profeta che segue l’incontro e la mozione di affetto filiale di Sordello verso Virgilio, possiamo dire che l’apostrofe offre l’occasione per affiancare verticalmente i canti sesti delle tre cantiche: - in Inf VI, il terzo cerchio dei golosi, la profezia di Ciacco sottolinea i mali di Firenze e striglia i fiorentini illustri e dannati; - di Pur VI vedremo meglio fra poco il passo declinato sul livello metastorico di nazione; - in Par VI si ha l’invettiva-profezia di Giustiniano contro le mire dei guelfi e dei ghibellini, intrecciate all’esito perverso dello scontro fra papato e impero: Omai puoi giudicar di quei cotali / ch’io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti vostri mali (97-99). Nel corso di questo scritto invece l’approccio sarà piuttosto intratestuale, di tipo sinottico o oriz7 Harald Weinrich, La memoria di Dante, Accademia della Crusca, Firenze 1994, pp. 14-15. 8 Croce 1966, p. 111. 9 Gentile 1965, p. 230. zontale, con il raffronto delle interpretazioni ricavabili dagli scritti danteschi dei tre insigni critici e filosofi.10 Il risultato sarà la conferma di vulgate critiche che proprio da loro hanno preso inizio, con eventuali precisazioni in sede estetica. Per restringere il campo si è scelto di partire da un unico episodio della Commedia. Il canto di Sordello fu trattato in una lettura tenuta da Giovanni Gentile nella Casa di Dante in Roma il 19 marzo 1939.11 In essa si trova un richiamo intriso di orgoglio al patriottismo, che l’anno di vigilia rispetto all’ingresso dell’Italia nel II conflitto mondiale rende di stringente attualità allora come purtroppo oggi, novembre del 2022. Gentile distingueva tra «il patriottismo che si rivolge all’esterno; ai nemici contro i quali la patria si deve difendere» e quello che «ne suppone un altro, che è la sorgente del primo: che è l’amor della patria, sentita come la nostra patria, quella patria che esiste infatti perché e in quanto noi la sentiamo, e noi la evochiamo alla vita e la facciamo esistere nel nostro cuore».12 Un parallelo di quel tralignamento politico descritto e denunciato da Dante per la Firenze a cavallo del XIII e XIV secolo, dove la sorte poteva portare ad avere membri della stessa famiglia in guerra tra di loro, con l’attualità è dato dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina, scoppiata nel febbraio 2022. I calcoli di Realpolitik, da parte di entrambi gli schieramenti di Occidente e Russia, hanno determinato il resto.13 Nel conflitto tra russi e ucraini vi è un aspetto di guerra fratricida se consideriamo le popolazioni russofone dei territori occupati dell’ex repubblica sovietica dell’Ucraina, e poi annessi a forza; in una regione che pure ha dato i natali a Michail Bulgakov, cioè un gigante della letteratura russa.14 In modo inverso vi sono famiglie e persone ucraine che avevano la loro vita in Russia. 10 Il legame tra filologia e filosofia è ritenuto da Pier Vincenzo Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (d’ora in avanti Mengaldo 1998), in questi termini: «penso che ci siano solo due vere forme di critica: quella filosofica e quella filologica, ben intendendosi che dalla seconda si può arrivare alla prima (molto più difficile per non dire impossibile l’inverso)», dalla Premessa, p. 14. 11 Il testo uscì su «Nuova Antologia», 16 maggio 1939, pp. 121-133; poi in modo autonomo nella collana di Sansoni “Lectura Dantis”, Firenze 1940. Occupa le pp. 215-235 di Gentile 1965. 12 Gentile 1965, p. 227. Un altro cortocircuito con il presente, Gentile aveva avuto modo di svolgere una ventina di anni prima con il discorso del febbraio 1918, La profezia di Dante considerata «quasi grido della nostra attuale coscienza di grande popolo, ferito, non domo, risoluto, come sei secoli addietro, a mostrare la fronte all’ultimo erede del sacro romano impero», rivendicando il ruolo dell’Italia nella sconfitta degli imperi centrali dopo la Grande Guerra. 16 13 La volontà di potenza geopolitica che caratterizza i grandi blocchi di alleanze mondiali trova descrizione in un’altra celebre invettiva dantesca, questa volta su scala municipale: la condanna della sete di guadagno e di espansione di influenza; ambizioni le quali sempre portano guerre: Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande! (Inf XXVI 1-3). 14 Riporto un’opinione dell’amico slavista Andrea Oppo: «la nuova Ucraina non potrà leggere Bulgakov, nato a Kiev nel 1891, autore di quello che è forse, o sicuramente, il più grande romanzo del XX secolo al mondo, Il maestro e Margherita), perché scriveva in russo e aveva in testa mondo e cultura russa». Sull’acredine tra i due paesi pesano fatti storici sanguinosi come il cosiddetto Holodomor, del 1932-33, una carestia provocata dall’Unione Sovietica per affamare l’Ucraina, tradizionale paese granaio su scala continentale e oggi globale. 2 - Perché Sordello? Da picaro a profeta15 Il personaggio di Sordello – noto come il più famoso e il più importante dei trovatori italiani16 – accompagna l’ascesa di Dante e Virgilio, quasi scortandoli e facendo loro da guida per la durata di tre canti, dal VI all’VIII, dall’Antipurgatorio verso le prime balze del “monte di purgazione”, fino alla valletta (de la lacca, ne la lama, Pur VII 71, 90) dove si trovano riuniti i principi della cristianità negligenti per aver indugiato nell’adempiere il proprio dovere e oranti il Salve Regina. I potenti vengono passati in rassegna, insieme alla propria discendenza, causa ulteriore di de15 L’interrogativo è ripreso dalla romanista Maria Luisa Meneghetti, Sordello, perché...: il nodo attanziale di Purgatorio VI (e VII-VIII), in Dai pochi ai molti: studi in onore di Roberto Antonelli, a cura di P. Canettieri - A. Punzi, Viella, Roma 2014, vol. II, pp. 1091-1101 (d’ora in avanti Meneghetti 2014), sulla scorta della stessa domanda enunciata in perfetta sincronia da Paolo Cherchi, Canto VII del Purgatorio [1983-1984], in Id., L’alambicco in biblioteca: distillati e rari, a cura di F. Guardiani, E. Speciale, Longo, Ravenna 2000, pp. 75-91, in particolare p. 77; e da Maurizio Perugi, Il Sordello di Dante e la tradizione mediolatina dell’invettiva, in «Studi danteschi», 55, 1983, pp. 23-135, in particolare p. 30. 16 Per delle schede monografiche di Sordello si vedano la voce in Enciclopedia Dantesca, a cura di Marco Boni; il quale aveva curato nel 1953 una nuova edizione critica delle Poesie di Sordello, “con studio introduttivo, traduzioni, note e glossario”, Libreria antiquaria Palmaverde, Bologna 19542; oggi disponibile online a https://documen.site/download/sordellole-poesie_pdf#. Quel testo aggiornava l’ormai introvabile e incompleta edizione (in seguito alle scoperte di nuovi componimenti, fatte da Giulio Bertoni e da Alfred Jeanroy) curata da Cesare De Lollis, Vita e poesie di Sordello di Goito, M. Niemeyer, Halle 1896, rist. Forni, Bologna 1969. Per una voce di Sordello più recente si veda nel Dizionario Biografico Italiano, Treccani, 93, 2018, a cura di Marco Grimaldi. https://www.treccani.it/enciclopedia/sorde llo-da-goito_%28DizionarioBiografico%29/. generazione della sovranità, da Sordello nel canto VII. Il tralignamento dai padri ai figli è un peccato reversibile, almeno con le speranze riposte nelle generazioni successive: ben andava il valor di vaso in vaso (Pur VII 117), ma non per virtù di sangue – tiene a precisare Dante –, bensì per un dono divino. Rade volte risurge per li rami / l’umana probitate; e questo vole / quei che la dà, perché da lui si chiami (121-123).17 Il tono della guida, il cicerone Sordello, è dolente a causa dell’attesa nel vestibolo del Purgatorio. La mestizia di Sordello, della stessa natura di quella dei principi, gli conferisce un aspetto contrito, a causa dei «loro atti, quasi di statue viventi» (l’osservazione è di Chiavacci Leonardi nel suo commento, Introduzione al canto Pur VII). Nella nota ai vv. 107-108 l’interprete ritorna sulla similitudine: «In questa rassegna, Dante sembra quasi ritrarre delle statue, colte in atti fissi ed espressivi, di cui questo è il più plastico ed evidente». Su queste similitudini di statuaria avremo modo di tornare più ampiamente in seguito. Se anche Dante ha avuto i suoi traviamenti giovanili e una certa licenziosità di contenuti nei testi di quel periodo, come dimostra la dibattuta tenzone con Forese, a maggior ragione nell’itinerario di purgazione egli, di volta in volta, avrà modo di identificarsi nei vari poeti chiamati sulla scena del viaggio. Essi gli servono per rievocare delle «tappe, autobiografiche, di un gradus poetico che, superati i “nodi” di propensioni stilistico-tematiche basse e medie, è destinato a chiudersi nella prospettiva del sublime paradisiaco».18 Infatti Maria Luisa Meneghetti ha parlato di “nodo attanziale” a proposito del ruolo svolto dal personaggio di Sordello nell’economia morale del poema: «se ne colloca la figura nella corretta posizione di ipostasi di un’i17 Il tema era stato sviluppato da Dante nel IV libro del Convivio: «’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone» (xx 5). 18 Meneghetti 2014, p. 1101. 17 stanza intellettuale», che trova degli addentellati puntuali come per esempio l’ordinamento gerarchico “ab imperatore” (colui che più siede alto, Pur VII 91) dei sovrani negligenti.19 Anche il vizio spicciolo del gioco d’azzardo, soggetto con cui si apre il canto Pur VI,20 sembra avere un legame con Sordello,21 in base alle voci che egli fosse stato in gioventù un accanito giocatore ai dadi, capace di perdere nel gioco palafreni e destriero, secondo quanto ci tramanda una cobla polemica anonima.22 L’invettiva di Dante contro la corrotta Italia e contro Firenze (Pur VI 76-151), nella sua forza di denuncia, deve tenere conto dei difetti e della volontà di riscatto, sia a livello di preciso individuo che di generico uomo investito di cariche pubbliche; essa deve essere atteggiata in un «discorso su una costellazione di valori e di model19 A chi ha fatto notare che l’aggettivo “negligente” è esplicitamente attribuito al solo Rodolfo d’Asburgo (Cherchi), si può replicare con Silvio Pasquazi, Sordello e la valletta dei principi (1966), in Id., All’eterno dal tempo: studi danteschi, Bulzoni, Roma 19853, p. 233: «l’oggetto […] del “compianto” in morte di Blacatz […] è costituito, assai più che da singoli personaggi, proprio da quella Europa disordinata che Dante ha rappresentato nella Valletta». 20 Meneghetti 2014, pp. 1091, 1093 e nota 7, 1094. 21 Sul perché Dante abbia scelto il personaggio storico di Sordello, dalla vita movimentata, tra i diversi contributi storici è ancora utile la puntuale nota “a proposito di recenti pubblicazioni” di Ernesto Giacomo Parodi, sul BSDI, n.s. 4, 1897, n. 11-12, pp. 185-197 (testo online, d’ora in avanti Parodi 1897). Le pubblicazioni pertinenti recensite da Parodi sono la “bella conferenza” di Vincenzo Crescini e quella di Francesco D’Ovidio del 1892. 22 Si veda il numero monografico di «Cultura neolatina», 60, 2000, con gli atti del Convegno internazionale di studi su Sordello di Goito; il contributo di Elsa Gonçalves analizza questo aspetto, “… soo maravilhado / eu d’En Sordel …”, si trova alle pp. 371-386. Gli Indici della rivista per gli anni 1971-2001 si trovano qui: https://www.mucchieditore.it/images/Indi ciRiviste/Indici1971_2001.pdf li di comportamento di carattere atemporale».23 Sordello è il primo poeta ad apparire nella seconda cantica, dopo che da lettori ci siamo imbattuti in personaggi anche pertinenti alla poesia: il musico e cantore Casella (Canto II, abbracciato invano da Dante ai vv. 7981) e il liutaio Belacqua (canto IV). Il suo è un ruolo chiave e di prolessi per quello che sarà il “girone dei poeti” di Pur XXIVXXVI. La supplenza che Sordello svolge, come controfigura e maschera ideologica di Dante – Meneghetti ha scritto di “doppio politico di sé”24 –, si spiega perché la «storia e la politica sono quasi assenti dalle Rime di Dante»,25 ma non lo possono essere dalla Commedia!26 Tra i due corre solo una generazione, così che i signori sovrani citati da Dante appaiono preoccupati per la condotta dei loro principi ereditari vissuti o ancora vivi ai tempi del viaggio di finzione dantesco alla svolta del secolo. Il Dante “giovinetto” sarebbe venuto a conoscenza di una leggenda su Sordello sorta dopo il rientro di questi in Italia al seguito della campagna di Carlo d’Angiò: «il trovador mantovano, mutato 23 Secondo le parole di Stefano Asperti, Sordello tra Raimondo Berengario V e Carlo I d’Angiò, «Cultura neolatina», 60, 2000, pp. 141-159 (d’ora in avanti Asperti 2000). 24 Meneghetti 2014, p. 1101. 25 Così Claudio Giunta nel commento alle Rime, per l’edizione delle “Opere di Dante”, vol. I, diretta da Marco Santagata, Mondadori, Milano 2011, p. 540: «il Dante lirico non è quello che si definirebbe oggi un poeta militante, che parteggi per l’una o l’altra fazione. È semmai, in certe canzoni, un moralista». 26 Come pure ha sottolineato Alberto Varvaro in un’altra lettura di Purg. VI; si trova in Casa di Dante in Roma, Purgatorio: letture degli anni 1976-79, [a cura di Silvio Zennaro], Bonacci, Roma 1981, pp. 123-133, a p. 128: «non credo possibile considerare il personaggio dantesco altro che il raggrumarsi, spesso felicissimo, in una figura e in un destino umani di un discorso etico e poetico che li trascende, anche se certo non li annulla». d’animo e d’aspetto, il crine canuto, severo il volto, ricco di senno e di sapere, famigliare d’un gran principe».27 Così la carriera letteraria di Sordello passò dalla dimensione cortese a quella cortigiana e cancelleresca al servizio di Carlo d’Angiò tra il 1248 e il 1265. Sordello visse in prima persona le relazioni diplomatiche di quella corte, gli screzi con lo stato pontificio a proposito della campagna militare con la quale ebbe fine la potenza della casa di Svevia, dopo che proprio da Clemente IV era venuta la prima istigazione agli angioini a muoversi. Per capire come possa essere avvenuta la conoscenza dell’opera e del personaggio di Sordello, anche da fonti indirette, da parte di un attento lettore e critico letterario quale Dante indubbiamente fu, si può prendere come componimento-guida una cantio illustris di Aimeric de Peguilhan, il collega trovatore autore del serventese Totas honors e tuig fag benestan, che è un “pianto” in morte di Manfredi di Hohenstaufen.28 27 Sordello «Era libero e nelle grazie di Carlo, ormai re di Sicilia, quando il 5 (o forse il 12) marzo 1269 – nell’ambito di una distribuzione di feudi ai baroni – questi gli concesse i castelli abruzzesi di Monte Odorisio, Monte San Silvestro, Paglieta e Pila e il casale di Castiglione […]. Il 30 giugno dello stesso anno, infine, nel rassegnare alla curia regia i castelli di Monte San Silvestro, Pila e Paglieta, ricevette in cambio il castello di Palena in Abruzzo» (Grimaldi). Su quest’ultima tenuta di Sordello si veda la pagina a cura dell’Associazione culturale di Palena, piccolo comune pedemontano in provincia di Chieti, http://www.associazioneculturalepalenese. com/casa_artisti/medici/Sordello_di_Goit o.html. 28 Il brano fu edito da Giulio Bertoni, Il “pianto” in morte di Manfredi, su «Romania», 43, 1914, p. 168 sgg. Riccardo Bruscagli, La poesia politica delle origini: Dante e Petrarca, in Letteratura italiana e Unità nazionale, atti del convegno internazionale di studi, Firenze, 27, 28, 29 ottobre 2011, a cura di R. Bruscagli, A. Nozzoli, G. Tellini, SEF, Firenze 2013, pp. 3-20 (d’ora in avanti Bruscagli 2013), ha allegato la testimonianza storiografica di Carducci, Dello svolgimento della Letteratura nazionale (1874), nella quale si ricorda che 18 Si avrebbe così un pendant a ruoli invertiti, tra un rimatore provenzale che compone l’elegia per la tragica fine del re di Sicilia, e il collega mantovano Sordello che ‘piange’ nel 1237 per il signore di Provenza Blacas d’Aulps, protettore della poesia trobadorica alla corte di Berengario IV. Inoltre i due suddetti rimatori sono in un altro rapporto di disputa di tipo moralistico, si potrebbe dire, perché Aimeric, ormai anziano e in servizio presso i Malaspina, scrisse un sirventese, Li fol e-il put e-il filol, «contro gli intemperanti giullaretti vaganti che affollano le corti dei signori settentrionali dell’epoca», in una cobla riferendosi proprio a Sordello «tratteggiato come un accanito giocatore di dadi, cui la fortuna volge sovente le spalle».29 Serve ora tornare ad Aimeric e ad un’altra sua cantio illustris dal titolo Si com l’arbres, que per sobrecargar (citata da Dante in Dve, II VI 6, quale esempio di canzone dal costrutto eccellente). Fu un testo fortunato considerato l’indice di copiatura. Tra i testimoni vi è il canzoniere occitanico P (Pl. XLI 42, BML, Firenze), «trascritto da una mano umbra e verosimilmente legata alla Firenze dell’ultimo quarto del Duecento, visto che residuano nel codice diverse tracce di intermediazioni [grafico-fonetiche], appunto, fiorentine». Dalla sottoscrizione sappiamo che si tratta di un copista di Eugubio (Gubbio), destinato a copiare un altro ms. importante, il Martelli 12 latore agli inizi del Trecento di testi danteschi.30 Il canzoniere P probabilmente fu letto dal giovane Dante, che così avrebbe avuto modo di familial’unico poeta di corte a scrivere un compianto per il martirio del re Manfredi ad opera degli angioini (spedizione nella quale partecipò probabilmente Sordello) è il già ricordato trovatore Americo di Peguilhan. 29 Cito da Meneghetti 2014, p. 1094 e nota 10. 30 Per uno studio paleografico si veda Sandro Bertelli, Nota sul canzoniere provenzale P e sul Martelli 12, «Medioevo e Rinascimento», n.s. 18, 15, 2004, pp. 369-375. rizzare con la figura di Sordello, alla quale avrebbe riservato il ruolo chiave che stiamo anatomizzando. Il Sordello che emerge dai testi di P ha, dunque, una connotazione picaresca per quello che viene detto delle sue abitudini di vita, mentre i testi autoriali sono solo quattro tra le coblas esparsas, parte attribuiti e parte anonimi. Viene descritto un Sordello facile alle risse di taverna che poco si adatta al «pensoso moralista dipinto nella Commedia, un’immagine, questa seconda, che di necessità implica la conoscenza del filone più “alto” della produzione del trovatore mantovano, al cui interno spiccano il planh per Blacatz31 e l’Ensenhamen d’onor».32 Il Compianto funebre di Sordello per il signore di Aups Blacatz (risalente agli anni 1236-37), «perché in lui ho perso un [buon] signore e un buon amico, e poiché tutte le nobili qualità sono scomparse con la sua morte»,33 sarebbe così stato il pretesto biobibliografico, ossia la fonte e lo spunto per quella rassegna interessata che Sordello fa dei Principi, cooptato da Dante-autore quale autore-guida specializzato nel genere della lamentatio. Il topos, a cui ricorre Sordello nel planh, è quello del cuore estratto dal cadavere dell’eroe e dato da mangiare ai «baroni che vivono privi di coraggio»34 affinché ne traggano giovamento per svolgere in modo adeguato la funzione assegnata loro da Dio: […] che gli si asporti il cuore e che ne mangino i baroni che vivono privi di coraggio, poiché del cuore [di Blacatz] avranno beneficio. […] È peccato che, quando Dio innalza a grande potenza qualcuno, la mancanza di 31 Per il testo in originale si veda http://www.rialto.unina.it/Sordel/437.24( Boni).htm. 32 Meneghetti 2014, p. 1097. Versi 3-4: «qu’en luy ai mescabat senhor et amic bo, / e quar tug l’ayp valent en sa mort perdut so». 34 Sul tema del cuore mangiato si veda Luciano Rossi, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal Lai Guirun al Decameron, in Studi provenzali e francesi 82 (Romanica vulgaria: quaderni, 6), Japadre, L’Aquila 1983, pp. 28-128. 33 cuore lo faccia poi discendere di pregio [qu’om li traga lo cor e que-n maniol baro / que vivon descorat, pueys auran de cor pro / […] / tortz es, quan Dieus fai home en gran ricor poiar, / pus sofracha de cor lo fai de 35 pretz bayssar]. Quel motivo, forse ricorrente anche per poligenesi, ritorna prima in un epigono, Peire Bremon Ricas Novas, autore nel 1237 di un planh sempre per la circostanza della morte di Blacatz, composto a imitazione di quello di Sordello.36 Anche lo schema metrico è condiviso da altri sei componimenti seriori. Esso potrebbe probabilmente derivare dalla melopea epica della canzone di gesta.37 Il topos è una conferma della frequentazione di Dante delle rime del trovatore di Goito, considerato che l’immagine del cuore mangiato si ritrova nella Vita nuova, nell’episodio iniziale del sogno «ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione», con l’ipostasi di Amore che esorta prima il protagonista con l’imperativo «Vide cor tuum», mostrato dalla personificazione; e poi Beatrice, assopita sulle braccia di Amore, «che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente» (Vn III 5-6). Dante nel voler decriptare la “maravigliosa visione” si «propuose di farla sentire [la mirabil cosa] a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo […] propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la 35 Planh de Blacatz, vv. 7-8, 31-32. Nel componimento si immagina di dividere in quarti il corpo di Blacatz e distribuirlo in vari paesi; uno lo avranno i sudditi dell’Impero («Lombardi e Tedeschi, Puglia, Russia [probabilmente la Prussia e le province baltiche], Frisia e Brabantini»), che verranno a Roma ad adorarlo, e il «nobile imperatore» vi faccia costruire una cappella dove si osserveranno le virtù cortesi (vv. 4-8). 37 Così si legge nella scheda di Rialto, citata poco sopra. 36 19 mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto».38 Ci si chiede, dunque, quando e dove Dante possa essere venuto a conoscenza di quel testo di Sordello. Lo avrà letto probabilmente in esilio durante il primo decennio del Trecento o poco dopo, in coincidenza con la stesura di Pur VI-VIII. Il compianto ebbe la maggiore diffusione tra le opere di Sordello: si contano sei testimoni copiati in Italia contro tre dell’area francese meridionale. Al di là dello stato strettamente stemmatico, importa sapere che Dante potrebbe aver letto una redazione del planh priva della seconda tornada, quindi – come osservato da Meneghetti – con una percezione del testo all’insegna di una «purezza morale e politica che l’ammiccamento erotico-cortigiano [all’amata Belh Restaur (Bel Ristoro, senhal), vv. 43-44] indeboliva». Pertanto in una forma – «possiamo dirlo? – più leonina. E il dato acquista particolare rilievo se si tiene conto che […] i due manoscritti [S39 e l’originale di a40] che aboliscono la tornada in questione, possono venir collegati […] ad ambienti frequentati da Dante nel periodo della composizione dei canti sordelliani del Purgatorio o in quello appena precedente».41 Equivale a 38 Il sonetto di interrogazione, come noto, è A ciascun’alma presa e gentil core (Vn III 10-12), tra i vari risponditori ci fu il «primo de li miei amici», Guido Cavalcanti, il quale iniziava il sonetto responsivo con Vedeste, al mio parere, onne valore. 39 Si tratta del ms. Douce 269, conservato alla Bodleian Library di Oxford; di Sordello contiene il solo planh. 40 L’originale andato perduto è il canzoniere di Bernart Amoros (post 1270 e probabilmente già circolante nella penisola a inizio Trecento, quindi alla portata di Dante esule). Il ms. a è la copia eseguita nel 1588 a Firenze per Leone Strozzi. 41 Meneghetti 2014, pp. 1097-99. Il percorso del codice Bernart Amoros dall’Alvernia alla Toscana, probabilmente con una o più tappe liguri del viaggio, si giustifica considerando la grande voga provenzaleggiante postbembesca; inoltre è da considerare la massiccia presenza nelle parti finali delle sezioni (monoautoriali, e delle dire, in ordine cronologico, il soggiorno di Dante a Bologna del 1304-06, e il successivo periodo fino ai primi mesi del 1308, comunque prima della composi zione del trittico di canti sordelliani. In quest’ultimo segmento temporale le notizie sulla vita di Dante ci portano alla Lunigiana, dove il Poeta soggiornò nel corso del 1306.42 Maria Luisa Meneghetti preferisce la seconda ipotesi temporale per la lettura di quei testi di Sordello da parte di Dante, seppure «maggiormente ancorata a dati congetturali rispetto all’altra» per un doppio ordine di considerazioni: 1) Nel canzoniere di Bernart Amoros, oltre al planh e a tre testi minori di Sordello, si conservano due unica (testi attestati solo in questo codice) dei colleghi trovatori Peire de Castelnou e Luchetto, «nei quali Sordello è citato o perfino elogiato non già come poeta, bensì come perfetto esempio di lealtà cavalleresca», pur essendo i due autori schierati contro l’operato di Carlo d’Angiò, signore di Sordello.43 2) La discrasia tra il ruolo e lo spazio assegnati a Sordello nella Commedia e il breve, criptico accenno a lui dedicato nel De vulgari eloquentia (vedi infra), trattato composto – secondo le ultime convincenti ricostruzioni di Mirko Tavoni – proprio durante il biennio luglio 1304 - febbraio 1306 e interrotto a seguito della tenzoni) di trovatori genovesi (Lanfranco Grillo, Giacomo Grillo, Luchetto Gattilusio), che avrebbe permesso di integrare, con aggiunte ad hoc, il corpus primitivo del canzoniere, utilizzando gli spazi rimasti bianchi o delle nuove carte, in una stratigrafia che in sede di copia si annullò. Infine l’asse Genova-Lunigiana si era rinforzato con il matrimonio negli anni ’80 del Duecento del marchese Moroello Malaspina con Alagia Fieschi, nipote di papa Adriano V. 42 Per l’ipotesi di datazione della composizione dei canti sordelliani in Lunigiana cfr. Natascia Tonelli, Purgatorio VIII, 46-139: l’incontro con Nino Visconti e Corrado Malaspina, «Tenzone», 3, 2002, pp. 263-281 (https://webs.ucm.es/info/italiano/acd/tenz one/t3/Tonelli_tenzone3.pdf). 43 Meneghetti 2014, p. 1100. fuga dalla città felsinea dopo il rovescio dei Bianchi bolognesi. Tale asimmetria, che vede Sordello non degno di nessuna allegazione poetica nel trattato sulla lingua volgare, mentre nella Commedia ha il ruolo che sappiamo, si spiega perché il planh per Blacatz sarebbe stato fruito da Dante solo negli anni successivi alla stesura del De vulgari eloquentia, quando era ospite presso i Malaspina nei mesi del 1306 in avanti. Da quella lettura sarebbe venuta, grazie a una progressiva autoidentificazione nel trovatore fondata su una miglior conoscenza dell’opera sordelliana, l’ideazione felice per il ruolo chiave che il Sordello dantesco riveste nei canti finali dell’Antipurgatorio. Fra i diversi dantisti che hanno rilevato la giustezza della scelta della figura del trovatore di Goito da parte di Dante si ricorda Francesco Novati: Due o tre strofe del serventese [planh per Blacatz] in cui queste ed altre consimili dichiarazioni si leggono, lascian intravvedere qualche lampo di quell’altero disdegno, onde tutto sfa44 villa il Sordello dantesco. Gentile nella stessa direzione nota che quasi certamente vi è un richiamo concettuale – come l’un pensiero dall’altro scoppia – tra il serventese in morte di ser Blacatz, il planh che ha reso celebre Sordello, e la reazione di rammarico con la quale Dante inveisce con l’«infocata lirica […] dettata per ridar coraggio ai principi ignavi e degeneri».45 L’improperio Ahi serva Italia pronunciato da Dante, si noti che potrebbe essere anche il Dante-personaggio, è il moto del Poeta che «espande e sente la sua propria [reazione], poiché dalla viva espressione dell’amor di patria di Sordello e44 Novati aveva tenuto una lectio dantesca su Il canto VI del Purgatorio letto nella sala di Dante in Orsanmichele, Firenze 1903. Si trova raccolto in F. Novati, Freschi e minii del Dugento: con l’aggiunta d’un capitolo inedito su Origine e sviluppo dei temi iconografici nell’Alto medioevo, Cogliati, Milano 1925, pp. 115-141 (d’ora in avanti Novati 1925); la citazione si trova a p. 132. 45 Gentile 1965, p. 227. 20 gli è ispirato nella sua accesa invettiva alla Italia».46 Alcuni critici hanno paragonato la dignità magnanima di quei sovrani prescelti e passati in rassegna da Dante per il tramite di Sordello, insieme alla compostezza iniziale del trovatore – di «altera magnanimità» scrive Gentile –, agli “spiriti magni” nel Limbo; tra i quali si trova per statuto Virgilio non per quello che ha commesso (Inf IV 35-39), ma per non fare ho perduto / a veder l’alto Sol che tu disiri / e che fu tardi per me conosciuto (Pur VII 2527). Quell’atteggiamento è riassumibile nel verbo chiave del “sospiro” che funge da elemento di raccordo tra i due luoghi e i personaggi che li caratterizzano, cioè Inf IV 26-27: non avea pianto mai che di sospiri / che l’aura etterna facevan tremare; e Pur VII 29-30: ove i lamenti/non suonan come guai, ma son sospiri. Il dispositivo del contrappasso viene ribadito da Virgilio in Pur VII 7-8: per null’ altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé. Di quei Prìncipi corrotti e incuranti del bene dei popoli se ne contano otto nell’appassionato compianto di Sordello, alcuni dei quali incrociano le sorti dinastiche di quelli, anch’essi in numero di otto al netto di alcuni discendenti e successori pure ricordati, presenti nel dantesco «vallone intra fiori ed erbe» (dalla rubrica di Pur VII dell’ed. Petrocchi). Il trovatore Sordello, un “gentil cattano”47 seppur in decadenza, ebbe una vita movimentata, stando a quello che tramandano le Vidas A e B, i due cicli delle biografie dei poeti provenzali. Egli sarebbe stato l’esecutore del rapimento di Cùnizza da Romano, altro ben noto personaggio della Commedia, che sarà inserito tra gli “spiriti amanti” del cielo di Venere (Par IX).48 46 Gentile 1965, p. 230. Cattano (sec. XIII) viene dal latino *capitānu(m) “capitano”, passando per il lat. volg. capitaneus, e significa: signore di un castello, vassallo. 48 Cfr. la voce “Cunizza da Romano”, in ED, a cura di Fernando Coletti: «Quanto ai rapporti tra Cunizza e 47 Le vicende biografiche di Sordello erano state filtrate – lo ricorda Novati – da «cobbole, piene di male parole», esempio delle «contese non leggiadre» che i trovatori e i giullari si scambiavano in un clima di «invettive mordaci de’ poeti rivali», un’usanza destinata a essere travasata «supinamente [con] le maldicenze e le calunnie» nelle biografie provenzali.49 Il francese Claude Fauriel, amico di Manzoni, scrisse che l’Alighieri «ha voluto fare ed ha fatto di Sordello il tipo, l’ideale del patriotta in generale e più particolarmente […] italiano: egli ne ha fatto un ghibellino» che «spera ed invoca ancora da un altro imperatore la salvezza della penisola». Ma Novati, che lo cita per controargomentare, ritiene che Sordello più profondamente e universalmente personifica «nella sua forma più caratteristica, più primitiva, […] la carità verso il natìo loco, la tenerezza figliale: Mantua me genuit»,50 come accennato in Pur VI 72, dall’iscrizione sulla tomba di Virgilio nel Parco di Piedigrotta a Napoli. L’agnizione «rivela una grande ricchezza di sentimenti [...]. Vi è insieme dell’eloquente e del poetico», ammette De Sanctis. Tale moto delle emozioni da Sordello torna al suo artefice Dante per un movimento riflesso, che è strutturale nella finzione della Commedia, formulabile con la regola che “Dante parla e sente per bocca dei suoi personaggi”. In quel riconoscimento lanciato attraverso i secoli, che avviene tramite la comune origine di Mantua – chissà se nel latino parlato da Virgilio (a parte il linguaggio della finzione) era dato ritrovare quella patina locale o Sordello prima del ratto, dalle espressioni delle due Vidas sembra che essi rientrassero nel novero dei consueti vagheggiamenti trovadorici, sul piano dell’amor cortese e platonico. (Non ostacola tale interpretazione il contrario noto aneddoto riportato da Benvenuto, per il suo evidente sapore fantasioso e novellistico)». 49 Novati 1925, p. 131. 50 Novati 1925, pp. 136-137. quell’accento municipale che distingueva il latino di Tito Livio per la sua patavinitas –, si ha la manifestazione dell’amor patrio, ed è indubbiamente un sentimento ricambiato tra il trovatore mantovano e l’illustre concittadino di epoca romana, e in ultima analisi condiviso da Dante che è l’artefice, giova ribadirlo, di tutti i personaggi e dei loro sentimenti. Ma passata l’emozione lieta tra i due poeti mantovani, altrettanto spontaneamente si ha la reazione già innescata in interiore homine dal Dante-autore per il rincrescimento dovuto al triste contrasto tra il passato e il presente della situazione politica della penisola. E così il Poeta commenta come una voce fuoricampo: Quell’anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra,/ di fare al cittadin suo quivi festa; e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi […] (Pur VI 79-83) Quell’aggettivo e avverbio insieme al v. 79: il “presto” abbraccio delle due anime, pur a dispetto del loro stato ontologico che le vuole smaterializzate, è invece ben fisicamente descritto e percepito in modo vivo da Dante, all’ora del tramonto: sì che ’ suoi raggi [del sole] tu romper non fai (57), mentre solitamente il suo corpo di vivente fa ombra ai raggi oltremondani – ne abbiamo un esempio in Purg. V 25-27. Il deittico in te, antitetico al quivi (l’oltremondo dei morti) del verso precedente, sta a indicare da un lato il comune di Firenze vittima di conflitti intestini, una realtà che Dante ben conosceva da esule di parte nella lotta tra fazioni nel capoluogo toscano; ma d’altro lato è un allarme per la futura nazione italiana – poiché la terra, cioè la “città” in antico italiano, che fa rima con guerra : serra, è sia la realtà municipale che in astratto la patria. Appare evidente, dunque, che l’invettiva dantesca rampollante dal sentimento di carità cittadina di Sordello, sia «non già come lo scatto di un’anima solitaria, un ammonimento che muore nel silenzio, ma quasi grido prorompente dai precordî stessi della na21 zione a testificare della sua virtù mortificata, sopita, non ispenta».51 Essa pertanto non è un epitaffio, ma un grido di battaglia e di riscatto. Dante, evidentemente, allude ad una municipalità rimasta stabile dai tempi di Virgilio fino al Medioevo, e nella quale è lecito preconizzare l’unità italiana sub specie linguistica. Si consolida così meglio quel cortocircuito di sentimenti e reazioni affettive: Mantova come Firenze, entrambe città accomunate attraverso i secoli nel bene da una “lingua nostra” (Pur VII 17) e nel male da un muro ed una fossa [che le] serra (Pur VI 84). Dante, in sintonia con i sentimenti di Sordello (e non potrebbe essere diversamente), esplicita ciò che è innescato dalla finzione nell’intimo del suo personaggio. È anche difficile distinguere tra il Dante-autore o il personaggio, tale è la forza drammatica dell’invettiva. L’epiteto glorioso donna di provincie (78) deriva dall’attributo di «domina provinciarum», secondo una espressione che risale ad un aforisma latino di giuristi. Spiega Novati che l’etichetta è risalente al «bizzarro spirito fiorentino» di Boncompagno da Signa, quale perifrasi per indicare una prosopopea del sogno di una missione eroica per la penisola italiana – un po’ come l’immagine di Roma caput mundi –, «che le ridonerà, pur nell’atto di negarglielo, l’Alighieri». E però che più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fu né fia che quella de la gente latina – sì come per esperienza si può vedere – e massimamente [di] quello popolo santo nel quale l’alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio (Convivio IV 52 iv 10). Nel gioco di specchi e anticipazioni delle trame della Commedia, Sordello è l’incrocio tra la patria italica e l’esperienza poetica perfezionata oltralpe. Rappresenta una tradizione di poesia con contaminazioni geografiche: inizialmente presso le corti feudali 51 Novati 1925, p. 140. Il passo è citato in Novati 1925, p. 141. 52 della contigua Alta Italia, poi con i trovatori approdati in Sicilia, con i loro testi copiati in un métissage siculo-toscano.53 La preminenza di Sordello da Goito tra i trovatori si deve anche a quel poco (in relazione a lui) che ci riferisce Dante nel De vulgari eloquentia, in un passo che autorizza a considerare il poeta fiorentino come il primo “filologo romanzo” della nostra tradizione di studi. A nozioni di linguistica areale sono ispirate, infatti, le righe del trattato, a I xv 2, dove si legge: [...] forte non male opinantur qui Bononienses asserunt pulcriori locutione loquentes, cum ab [...] circunstantibus aliquid proprio vulgari asciscunt, sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus, ut Sordellus de Mantua sua ostendit, Cremone, Brixie atque Verone confini: qui, tantus eloquentie vir existens, non solum in poetando sed quomodocunque loquendo patrium vulgare deseruit. [forse, non si sbagliano quelli che pensano che i Bolognesi parlino la lingua più bella, visto che prendono qualcosa nel loro volgare da quello dei vicini […] come io credo che faccia chiunque coi propri vicini e Sordello ha mostrato con la sua Mantova, confinante con Cremona, Brescia e Verona: lui infatti fu un così grande artista della lingua, che non solo poetando, ma in qualsiasi modo parlando, abbandonò il volgare 54 della sua patria]. 53 Cfr. Walter Meliga, Trovatori provenzali, in Federiciana (2005), https://www.treccani.it/enciclopedia/trova tori-provenzali_%28Federiciana%29/: «da quando nel quadro italiano cominciò a farsi sentire l’azione di Federico II, molti trovatori iniziarono a rivolgere i loro componimenti al giovane re e imperatore, anche se spesso come portavoce dei signori che li ospitavano e li proteggevano». 54 Si cita dall’edizione del De vulgari eloquentia, con introduzione, traduzione e note di Vittorio Coletti, Garzanti, Milano 1991, pp. 38-39. Nella nota a p. 121 il curatore ricorda che Sordello potrebbe aver rimato anche in volgare italiano, stando all’attribuzione dubbia di un Serventese nella raccolta dei Poeti del Duecento di Contini. Per il trattato dantesco si veda la tornata accademica del 15 giugno 2021 (disponibile online) presso l’Accademia della Crusca, Non solo italiano: Dante, il “De vulgari elo- La cantica dell’espiazione oltre ai politici sovrani vedrà chiamati in causa anche i poeti, in un canone dinamico tra i poli della lirica provenzale e quella italiana delle origini. «Con manifesta compiacenza l’autore ha introdotti nel Purgatorio di assai poeti ed artisti [...] e con esso loro s’intrattiene in nobili e cari ragionamenti, talora intorno all’arte», scriveva De Sanctis.55 Dante si autopresenta come un cantor rectitudinis (ruolo che svolge nelle canzoni del Convivio), in parallelo con il trovatore Gerardum de Bornello,56 ma senza fare il proprio nome in modo esplicito, nel canone dei rimatori volgari italiani per i tre magnalia del genere canzone. La Virtus (o directio voluntatis): «Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius rectitudinem» (Dve II II 8-9). L’omologo di Cino per Venus o l’amoris accensio tra i provenzali è stato Arnaut Daniel dallo stile difficile e raffinato (scil. trobar clus), dopo essere stato modello a Dante quale mi-glior fabbro del parlar materno (Pur XXVI 117). A Bertran de Born resta la competenza poetica delle “armi” (Salus o armorum probitas), una specialità che non trovava in Italia un omologo: «Arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse» [Dve II II 10: «Non mi risulta, invece, che finora ci sia stato qualche poeta di armi in volgare italiano], a meno di non voler richiamare “alle armi” il soldato Sordello nel frattempo arruolatosi nella legione provenzale.57 quentia” e le lingue: una lezione per l’Europa? (disponibile online a https://www.youtube.com/watch?v=_Ut_3 JqFn5U). 55 De Sanctis 1955, p. 30. Sul personaggio citato da Guinizzelli in Pur XXVI 120, si veda da ultimo la proposta di diversa identificazione di Giraut de Borneil nella perifrasi quel di Lemosì, di Luciano Rossi, “Palinodie” dantesche: «Quel di Lemosì», «Medioevo letterario d’Italia», 18, 2021, pp. 69-94, il quale avanza l’ipotesi che debba trattarsi d’un autentico Limosino, molto famoso, accomunabile a Guittone per il ‘plebescere’ dello stile ben noto a Dante e a Cino da Pistoia. 57 È questa la tesi di Teodolinda Barolini che vede in Sordello e Bertran, 56 22 I due trovatori, in effetti, si trovano affiancati nel canzoniere F (Chigi L IV 106, BAV, Città del Vaticano), con 15 testi di Sordello, anche se non dei migliori, all’inizio e un’altra sezione d’autore alla fine riservata a Bertran. Nella scansione delle fasi poetiche di Sordello, in qualche modo apparentabile a quella di Guittone d’Arezzo (1230/40-1294?),58 in F non si trova il cantore politico o civile, di alto impegno morale, ma piuttosto il trovatore cortese, il poeta d’amore e l’autore di dibattiti con l’esclusione di quelli di tono più basso, polemici e di invettiva personale, composti in Italia negli anni giovanili (Asperti 2000), quelli forieri del ‘plebescere’, per intenderci. Come ha ben colto Meneghetti, Dante si creò «progressivamente un’immagine ideale di Sordello e del suo itinerario poetico (anzi, poetico e umano): un itinerario ascendente, che dai bassifondi dei componimenti tabernari, attraverso la medietas della vena eroticocortese, conduce alla tensione morale e politica del planh».59 Pertanto nello sfortunato giocatore della zara che si riman dolente (Pur VI 2), oltre al valore gnomico di qualunque perdente destinato alla solitudine mentre in controcampo il vincitore è assediato dagli approfittatori anonimi, è forse da rilevare tacitamente un riferimento al Sordello bohèmien, il picaro perdente prima del suo riscatto morale – soprattutto nell’adattamento che ne farà Dante. Molto finemente è stato osservato così da Meneghetti,60 e con lei per come li descrive Dante nella Commedia – eco evidentemente delle sue letture –, dei poeti in lingua d’oc di vena quasi esclusivamente politica. L’ipotesi però non regge in base a quanto si dice fra poco, nel seguito del presente scritto, a proposito del tipo di silloge dei testi di Sordello. 58 Guittone e Sordello, autori di riferimento per Dante, hanno qualcosa in comune, dunque, quando rievocano e si rimproverano i peccati del loro dolce tempo. 59 Meneghetti 2014, p. 1101. 60 Meneghetti 2014, p. 1093 e nota 8: «Mi sembra però che una prima, allusiva e insieme criptica apparizione di Sordello sulla scena del poema dantesco trovi posto già alcune decine di altri in passato. Infatti troviamo Sordello descritto esplicitamente dopo poco (vv. 58-59 e 72) nella posa atteggiata in modo leonino, ancora solitario ma con una connotazione di segno diverso rispetto al perdente della similitudine iniziale. Ora il personaggio è calato, e lo anticipa, nel profeta fustigatore del malvezzo dei principi negligenti. Tornando al canone dei rimatori della penisola, tra i poeti toscani che fanno eccezione alla generale rozzezza, Dante, sempre senza fare il proprio nome apertamente, elenca quelli che hanno raggiunto la «vulgaris excellentiam [...] scilicet Guidonem [Cavalcanti], Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem» (Dve I XIII 4). Prima dell’accensione stilnovistica, vi era dunque nelle rime della volgar lingua il ‘plebescere’ impersonato, secondo il gusto di Dante, a partire dagli anni Quaranta del XIII secolo fino alla metà degli anni Sessanta da Guittone d’Arezzo. Il quale all’inizio della sua carriera letteraria si era dedicato alla stesura di sonetti erotici – un po’ in parallelo con la “passada folor” del Sordello giovane databile ai primissimi anni ’20 del Duecento61 –, nei quali dominano stilemi e lessico dall’evidente ascendenza provenzale, elaborati in prevalenza secondo la tecnica del trobar clus, che Guittone trapiantò in Toscana non senza il tramite delle sperimentazioni attive alla corte siciliana di Federico II, imponendosi ben pre- versi innanzi, inserita in quell’immagine del “gioco della zara” su cui il canto si apre», se quella similitudine veicola «un rinvio, pur velato, a certe tematiche poetiche molto familiari al Sordello giovane, quando non alla stessa “passada folor” che avrebbe caratterizzato gli anni verdi della sua biografia». 61 L’osservazione è di Meneghetti che rimanda a G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete (1976), in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Editoriale Programma, Padova 1990 (rist. 2015), pp. 58-77. sto come l’erede toscano delle due tradizioni.62 A Dante, nel seguito del viaggio, avverrà di riconoscere e omaggiare i suoi “maggiori”. Tra questi, oltre ai provenzali, vi è Guittone d’Arezzo. In particolare il Guittone poeta, autore di testi di impegno politico e civile, tesi a sferzare la Gente noiosa e villana (canzone-sirventese composta nel 1259 ca., n. XV dell’edizione Egidi, pp. 31-35), come pure nella lettera agli Infatuati e miseri fiorentini (1260).63 Un autore tanto importante per Dante, in qualche modo un caposcuola, ma sempre rimosso e persino sprezzato dal poeta fiorentino a causa della famosa stroncatura dello stile del versificare, che lo vede «in vocabulis atque constructione plebescere», e con lui tutta la rimeria pre-stilnovistica: «Subsistant igitur ignorantie sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes» [La smettano dunque i paladini dell’ignoranza di esaltare Guittone Aretino e altri simili].64 L’esito di quella stagione prestilnovistica fu una rimeria con risultati importanti anche a Bologna, come si è visto. E Guinizzelli (Pur XXVI 92-93) riceve il 62 Monica Cerroni, DBI, s.v. Guittone d’Arezzo. Per il corpus di 86 sonetti amorosi di Guittone, trascritti nel Canzoniere Laurenziano, si veda l’edizione critica a cura di Lino Leonardi, Il canzoniere: i sonetti d’amore del codice Laurenziano, Einaudi, Torino 1994. L’edizione delle Rime, parte delle quali mostra una virata nei contenuti, a cura di Francesco Egidi, Laterza, Bari 1940, è accessibile in una versione digitalizzata. Si va dalle 162 composizioni amorose (la «raccolta grossa») alle 139 ascetiche e morali. Il Canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 9), costituisce la principale silloge manoscritta delle rime di Guittone pervenutaci. 63 Si veda Guittone d’Arezzo, Lettere, edizione critica a cura di Claude Margueron, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1990. 64 De vulgari eloquentia II VI 8. Un giudizio di popolarità ripreso nel girone dei poeti di Pur XXVI 124-126: Così fer molti antichi di Guittone,/di grido in grido pur lui dando pregio / fin che l’ha vinto il ver con più persone. 23 suo omaggio da Dante poeta, quale precursore dello Stilnovo, cioè il riconoscimento di essere stato tra i primi a distaccarsi dalla vieta influenza guittoniana: […] Li dolci detti vostri, che, quanto durerà l’uso moderno,/ faranno cari ancora i loro incostri./ (Pur XXVI 112-114, parole di Dante). Una svolta che anche Bonagiunta Orbicciani, notaio e rimatore lucchese di respiro «non curiale, ma municipale» (Dve I XIII 1, ancora il “plebescere” già rinfacciato a Guittone), altra voce “per procura” di Dante nel “girone dei poeti”, riconosce al primo Guido, considerato il capofila di «una schiera di eletti spiriti in Bologna» grazie ai quali «la lirica atteggiossi a tanta sublimità da farsi inaccessibile alle rapine disoneste de’ giullari»: per avansare ogn’altro trovatore hanno mutata la mainera de li plagenti ditti de l’amore de la forma dell’esser là dov’era (Bonagiunta, Voi, ch ’avete mutata la 65 mainera, vv. 1-4). Ma anche a Guinizzelli è toccato in parte di rimanere “di qua dalla capacità di esprimersi in volgare illustre” a causa di sì aspre lingue (Inf XI 72) municipali, che pure trovano o troveranno una koinè “curiale” italiana, per quanto essa fosse all’epoca materialmente dispersa: Non è questo infatti ciò che chiamiamo volgare regale ed illustre, perché se lo fosse stato Guido Guinizelli – che è il maggiore di tutti –, Guido Ghislieri, Fabruzzo ed Onesto e gli altri poeti d’arte di Bologna non si sarebbero mai allontanati dalla propria parlata, loro che furono maestri illustri e pieni di discernimento in materia di volgari […] (De vulgari eloquentia, I xv 6). Esattamente secondo quella ricerca di una lingua centrifuga dall’idioma municipale, a norma dello 65 Per il sonetto completo si rimanda a Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Rime, edizione critica e commento a cura di Aldo Menichetti, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, Firenze 2012. scarto con cui erano state descritte la grana stilistica e l’elaborazione linguistica di Sordello, appena quattro paragrafi prima (a Dve I xv 2, già ricordato sopra). Girolamo Tiraboschi nella sua Storia della Letteratura italiana (1788, anno della seconda edizione) inserirà un paragrafo dedicato alla Poesia provenzale scritta in lingua d’oc da autori italiani, genere che qui interessa perché Sordello ne è stato, come abbiamo ricordato, un rappresentante di rilievo con circa quaranta componimenti.66 Ancora una volta troviamo l’esatta indicazione sul rapporto delle influenze delle scuole poetiche dei primi secoli della nostra letteratura negli scritti della generazione dei maestri dell’Ottocento. Inizialmente Paolo Emiliani Giudici, storico della poesia delle origini, nativo di Mussomeli (provincia di Caltanissetta), ebbe infatti la giusta intuizione riguardo all’importanza del ruolo svolto da Guinizzelli e dalla scuola bolognese nel processo di genesi e di “progresso dell’arte” dello Stilnovo. Una sorta di prova generale poi perfezionata dai sodales della cerchia fiorentina capeggiata da Cavalcanti e Dante. Secondo il critico siciliano la sublimità della nuova poesia risiedeva nell’aver saputo associare «la poesia alla filosofia, giovandosi della prevalenza della allegoria, che nel primo costituirsi della scienza religiosa fu assunta come ripiego a derivare la dottrina metafisica cristiana dalla divina semplicità de’ libri biblici […], [i nuovi poeti] mirarono ad un fine solenne, e posero la poesia nella medesima altezza in cui stavano 67 le altre umane scienze». Con De Sanctis quel canone abbozzato da Emiliani Giudici semplicemente si sposta su un crinale fiorentinocentrico, che insiste sui 66 Cfr. L’Italia dei trovatori..., a cura di Paolo Di Luca, con la collaborazione di Marco Grimaldi, 2014 (www.idt.unina.it); Bibliografia elettronica dei trovatori, a cura di Stefano Asperti, Roma 2003 (www.bedt.it). 67 Cfr. Paolo Emiliani Giudici, Intorno ai poeti lirici d’Italia, in Id., Florilegio dei lirici più insigni d’Italia, 2 voll., Poligrafia Italiana, Firenze 1846, I, pp. 25-26, 28, 30. meriti degli stilnovisti toscani, l’“altro Guido” e l’“amicus eius”. Tuttavia, a rileggerlo oggi, «dopo le importanti conquiste della filologia italiana degli ultimi quarant’anni, la proposta dell’Emiliani ci appare più moderna rispetto a quella del De Sanctis, ovvero più vicina ai gusti e alle preferenze che attualmente dominano le antologie e i manuali, ora che la “teocrazia desanctisiana” ha ceduto il posto a categorie più vigili e rigorose».68 L’ultimo sintagma tra virgolette è di Carlo Dionisotti.69 «Esattamente su questa linea [di Emiliani Giudici] si collocherà, pochi anni dopo, la storia letteraria di F. De Sanctis che però seppe, al contrario dell’Emiliani Giudici, concretare la solida architettura dell’edificio storico con la puntuale, profonda e sensibilissima analisi del fatto poetico e letterario riconosciuto nella sua in70 trinseca indole». La forza canonizzante della Storia della letteratura italiana di De Sanctis (uscita in prima edizione nel 1870, il solo primo volume71) è un dato acquisito, ma non è inutile ricordare ancora una volta che le lezioni e i saggi del critico di Morra Irpina su Dante hanno costituito il modello principale per la didattica del poema nazionale nella scuola italiana fino a tutta la stagione idealistica e crociana: E commentò come fin allora nessun altro aveva saputo, e fece sentire nella loro poetica bellezza, i canti di Francesca, di Farinata, di Ugolino, di 68 Francesco Sberlati, Risorgimento e storia letteraria: Paolo Emiliani Giudici, in Id., Filologia e identità nazionale, Sellerio, Palermo 2011, pp. 81-113 (d’ora in avanti Sberlati 2011): p. 93. 69 Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967 (più volte rist.), p. 19. 70 Si cita dal DBI, 42, 1993, s.v. Emiliani Giudici, Paolo, a cura di Lucia Strappini. 71 Il secondo volume uscì alla fine dell’anno seguente. Nonostante la stesura dell’opera avvenne a Firenze, dove il critico risiedeva e dove il lavoro gli era agevolato dall’ampia disponibilità di materiale bibliografico fornito dalla Biblioteca nazionale, la stampa avvenne “in Napoli, presso Domenico e Antonio Morano”. 24 Pier della Vigna; insomma quello che è stato il canone di somministrazione nelle scuole fino a tutto il Novecen72 to. De Sanctis, sempre con la tensione e la passione narrativa che della Storia della letteratura italiana fa un capolavoro anche letterario, giudica negativamente gli scrittori quali Petrarca e Metastasio, incapaci di quella «serietà di un contenuto vivente nella coscienza», riscontrabile invece in Dante. Quella “serietà” è stata e dovrà essere il fattore distintivo della “nuova letteratura” della nuova Italia.73 Dal punto di vista della cronologia della storia delle patrie lettere, ugualmente si registra l’influsso della sistemazione di De Sanctis con la preminenza inedita conferita all’etichetta tutta ‘dantesca’ di Stilnovo.74 Scorrendo l’indice della Storia della letteratura italiana, al cap. II dedicato a I Toscani, il paragrafo su Il “dolce stil novo” è posto a metà tra quelli su La poesia politica e la poesia scientifica e su Dante giovane e il suo allegorismo poetico.75 Ma torniamo alla fictio dantesca. Dapprima Sordello viene avvistato da Virgilio: Ma vedi là un’anima che, posta/sola soletta, inverso noi riguarda (Pur VI 58-59). Ernesto Giacomo Parodi, in un suo commento già ricordato all’episodio, ha intravisto nella de72 Così Romagnoli, in De Sanctis 1955. 73 Amedeo Quondam, De Sanctis e la ‘Storia’, Viella, Roma 20182; in precedenza stampato da Giannini, Napoli 2017, sotto il patrocinio della Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’Accademia Pontaniana. 74 Lo ribadisce da ultimo Bruscagli 2013, alle pp. 6-7. 75 Nell’edizione a cura di Niccolò Gallo, introduzione di Natalino Sapegno, per le “Opere di Francesco De Sanctis”, Einaudi, Torino 1958, voll. 8-9, il curatore suddivide i capitoli in paragrafi, premettendo ad ogni capitolo un sommario degli argomenti. L’ultimo paragrafo del cap. II si intitola: «Le “nuove rime” di Dante e la poetica dello Stil nuovo: il contenuto scientifico e il colore rettorico. L’ideale d’amore e il misticismo filosofico». Il cap. III è dedicato a La lirica di Dante. scrizione dell’“anima posta sola soletta” l’abilità del Poeta che «Con pochi versi, spesso con una sola frase, [...] trae dal nulla un essere vivo, maraviglioso di sincerità e d’espressione».76 ma di nostro paese e de la vita ci ’nchiese. E ’l dolce duca incominciava: «Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita, surse ver’ lui del loco ove pria stava, dicendo: «O mantoano, io son Sordello, de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava (Pur VI 70-75). Sordello realizza di avere di fronte prima un mantovano, e solo in un secondo momento scopre che quel concittadino è Virgilio. La prima reazione è quando egli sente la parlata del poeta: O mantoano, io son Sordello (74). La seconda mossa si ha dopo l’identificazione precisa alla domanda a inizio del canto successivo: Voi, chi siete? (Pur VII 3), con la risposta Io son Virgilio (7). Segue un nuovo empito di affetto da parte di Sordello, ma con una relazione differente rispetto al primo abbraccio tra pari: Poscia che l’accoglienze oneste e liete / furo iterate tre e quattro volte (12). Infatti ora Sordello si inginocchia incredulo – chinò le ciglia,/ e umilmente ritornò ver’ lui,/e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia (13-15) – davanti a colui che è riconosciuto non solo come un concittadino, ma è la gloria d’i Latin … per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra, / o pregio etterno del loco ond’ io fui (Pur VII 16-18). L’emozione di Sordello è, dunque, quella che Dante medesimo provava verso i testi dei suoi maestri e dei suoi conterranei. Sotto questa aspetto l’abbraccio tra Virgilio e Sordello ha lo stesso valore, e ne anticipa i toni, dell’altro riconoscimento da parte di Stazio del maestro dell’alta poesia, col nome che più dura e più onora (Pur XXI 85), dell’inventore dei Campi Elisi come luogo delle anime morte giudicate buone. Stazio manifesta ammirazione 76 Parodi 1897, p. 186. nei confronti ancora dell’autore de l’Eneïda dico, la qual mamma/ fummi, e fummi nutrice, poetando (Pur XXI 97-98), un debito letterario verso Virgilio che traduce l’identico sentimento provato dal Dante-autore. Stazio farà da guida supplementare al Dante-personaggio fino al termine della cantica, amplificando e perfezionando il breve ruolo di guida simbolica offerto in precedenza da Sordello nel trittico di canti sotto analisi. Inoltre si ha quasi un passaggio di testimone fra guide, quando Virgilio raccomanda a Dante: ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego/che sia or sanator de le tue piage (Pur XXV 29-30). Nell’economia del poema dantesco ogni guida copre la zona di sua spettanza e competenza, come ribadisce Virgilio nei convenevoli con Sordello, dopo aver illustrato la sua provenienza dal Limbo: zione, una similitudine» che rappresenta la verità del pensiero, insieme alludendovi e sfuggendola.78 3 - Lettura comparata dei tre critici Proviamo ora a ripercorrere in ordine cronologico le posizioni di critica dantesca dei tre interpreti, osservate, come si è già cominciato a fare, dal segmento dell’episodio di Sordello. 3.1 Francesco De Sanctis (1817-1883) Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio dà noi per che venir possiam più tosto là dove purgatorio ha dritto inizio. (Pur VII 37-39) L’episodio di Sordello termina con il sogno allegorico di Dante, vinto dal sonno, in su l’erba inchinai (Pur IX 11), poco prima dell’arrivo alla porta del Purgatorio. Sordel rimase e l’altre gentil forme (58), qui il termine “forme” è tecnico, scil. “formae corporis” = le anime, spogliate della «travagliata e pur cara e dolce carne, in cui ha radice quaggiù il nostro sentire», avrebbe postillato Gentile. Per dei passi analoghi Croce tendeva a evidenziare, piuttosto, la poesia di Dante che si realizza nelle metafore ben scelte, rispetto alle quali non si potrebbe dire meglio per la felicità dell’immagine e per il messaggio che veicolano, secondo che la «forma sustanziale, distinta e unita alla materia, possiede una virtù specifica, che si sente solo nell’operare e si mostra solo nell’effetto»77 – si noti il lessico da Scolastica medievale. Del resto Croce ammise a chiare lettere che «la poesia è sempre una compara77 Croce 1966, p. 120. 25 Probabilmente il critico irpino, di cui è ricorso il bicentenario della nascita nel 2017,79 delle tre can78 Croce, Filosofia – Poesia – Storia, cit., p. 738; con postilla di Mengaldo. Tra le diverse ed efficaci similitudini dantesche che si potrebbero trascegliere per le caratteristiche dette da Croce, c’è: come per verdi fronde in pianta vita (Pur XVIII 54), per intendere l’anima dell’uomo come “forma corporis”, cioè l’«unica forma sustanziale dell’universo che sia insieme distinta, separata (setta [49]) dalla materia (in quanto esiste di per sé, anche indipendentemente dal corpo) e ad essa unita come sua forma, è l’anima del corpo», e in quanto tale si pone a metà tra i semplici corpi fisici e le forme senza fisicità degli angeli (Chiavacci Leonardi). 79 Presso la Società Dantesca Italiana di Firenze, il 9 novembre 2017, si è tiche preferiva quella del Purgatorio, dove i «personaggi tengono molto dell’umano: in loro non è né l’ambascia de’ dannati, né l’estasi de’ santi».80 Le altre cantiche di Inferno e Paradiso confluiscono, in un certo senso dialetticamente, in quella centrale. L’Inferno perché è “in ricordanza”, il Paradiso “in desiderio” di qualcosa. «Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro dell’inferno, un simulacro del paradiso».81 Egli poi diceva a proposito della “materia signata” della cantica infernale: «la stessa situazione genera la stessa poesia»,82 se poesia è espressione delle umane passioni della carne e del cuore. Sebbene De Sanctis ritenesse che «la gloria di rappresentare poeticamente caratteri virtuosi»83 fosse appartenuta, nella nostra letteratura, al solo Manzoni. Come prima comparazione di gusti riporto gli autori preferiti di Gentile: Dante, Leopardi (il più amato) e Manzoni. Inoltre la cantica del Purgatorio si fa amare perché «è sparsa di tratti affettuosi.84 Le anime purganti85 nell’incontrarsi fannosi fetenuta una giornata di studi dal titolo La critica dantesca di Francesco De Sanctis. 80 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana: «Perciò il Paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e risposte fra maestro e discente», il giudizio è riportato da Umberto Eco, Lettura del ‘Paradiso’, in Id., Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, pp. 23-29, a p. 23; uscito anche su «Paragone», ago.-dic. 1999. 81 De Sanctis, Storia della letteratura italiana, edizione Bur, Milano 2009, p. 282. 82 De Sanctis 1955, p. 319. 83 Ivi, p. 218. 84 È normale che De Sanctis riusi le stesse schede di appunti tra una lezione e l’altra ai suoi studenti. Una prova è data dalla variatio per questo passo: «il Purgatorio è sparso di gentili affetti» (De Sanctis 1955, p. 461), si legge nella lezione prima di Zurigo, intitolata “La concezione del Purgatorio e la sua nuova poesia”. 85 Il «loro tipo più alto» è Catone, “anima nobilissima” di un uomo libero perché virtuoso (nel senso latino di coraggio) nell’espiazione, al pari della Redenzione di Cristo. Qui De sta insieme, congaudendo»86 per via del pentimento che le accomuna. De Sanctis è stato un ammiratore del “grande ingegno” di Giambattista Vico (1668-1744), secondo il quale il poema dantesco era il frutto di un movimento progressivo persistente: nella prima lezione di Zurigo, intitolata “La concezione del Purgatorio e la sua nuova poesia”. Infatti De Sanctis argomentava: Questo moto non è fantastico, risponde ad una apparenza fuggitiva nella storia, al perenne successivo sparire di ogni forma nell’umanità, nel popolo e nell’individuo; chiuso è il processo dell’umanità terrena, l’ideale che esce dalle forme esauste, concrete fino a che si ravvicini al suo tipo ed esemplare, è il cammino dalla fantasia alla ragione, dal simbolo al 87 pensiero, dalla parola all’idea. È questa la vita di Dante? […] I fatti per se stessi sono ciechi, ove ad essi non date l’occhio dell’intelligenza: la vita di un uomo è la storia della sua anima. È normale che De Sanctis riusi le stesse schede di appunti tra una lezione e l’altra ai suoi studenti. Una prova è data dalla variatio per questo passo: «il Purgatorio è sparso di gentili affetti» (De Sanctis 1955, p. 461), si legge Sanctis apprezza quella poetica «religiosità concreta, in figure tradizionali e familiari»; la citazione è dalla Storia della letteratura italiana, I, p. 167 dell’edizione critica di Croce, Laterza, Bari 1912. 86 De Sanctis 1955, pp. 28-29; il verbo è dantesco: perché ci trema e di che congaudete (Pur XXI 78). Come ricorda Mengaldo 1998, p. 27, a proposito di Croce, «spiccano già per la semplice frequenza i dantismi, che non è solo tratto tipico da italiano colto d’allora, ma forse tratto specifico di lui Croce, quasi che la spietata divaricazione fra poesia e struttura operata dal critico nel corpo del poema dantesco venisse come annullata dall’introiezione globale della personalità e quindi anche del linguaggio dell’autore». 87 Da appunti immediati, presi «da una mano del tempo e di difficile lettura», delle Lezioni dantesche tenute da De Sanctis (1955, pp. 237, 239) il primo anno del corso torinese. Tali materiali vanno presi a complemento della testimonianza autobiografica della Giovinezza, redatta in tempi successivi e inserita nel capitolo relativo della Storia della letteratura italiana. E pertanto più che «effettivo ricordo», è da intendere anche quale «proiezione nel passato d’una maturità critica raggiunta al tempo della rielaborazione torinese e zurighese», così Romagnoli, in De Sanctis 1955, p. XIX. 26 posti tali tempi, tali dottrine e tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata dal poeta, in che modo quella realtà egli l’ha fatta poesia? I distinguo sono tipici dell’argomentare del De Sanctis: Spesso il poeta si contenta di esprimere crudamente la realtà comentata e colorita dai sentimenti contemporanei. [...] Trovi il nudo fatto senza contorni e scompagnato di caratteri e di sentimento [...]. Abbiamo il fatto ma non ancora i caratteri e i senti88 menti. Del resto anche Croce, per essere stato un autodidatta e “sommo atleta della cultura” – secondo una fortunata etichetta continiana89 –, fu debitore della critica di De Sanctis,90 soprattutto nei risvolti vichiani dell’interpretazione dantesca. Dante fu, in effetto, l’Omero del medioevo, e scrisse la sua Iliade nell’Inferno, in cui narra ire implacabili e ritrae quantità di spietatissimi tormenti, e l’Odissea nelle altre due cantiche, il Purgatorio, in cui si soffre con mirabile pazienza; e il Paradiso, ove si gode infinita gioia con 91 somma pace dell’anima. Ma torniamo a De Sanctis: «Dante vivo entra nel regno dei morti e 88 De Sanctis 1955, le tre citazioni sono rispettivamente alle pp. 374, 121, 471. 89 Si veda la scheda biografica sul sito della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Contini attinse la perifrasi dall’epiteto usato da Dante per san Bonaventura in Par XII 56, il santo atleta. 90 Peraltro la vicinanza di idee tra i due è dipesa anche da motivi storicobiografici poiché un ‘tutore’ di De Sanctis a Torino fu l’abruzzese Bertrando Spaventa, altro patriota riparato nell’ambiente torinese e filosofo di fede idealista, nonché imparentato con la famiglia Croce. 91 Croce 1966, Appendice. Intorno alla storia della critica dantesca, pp. 175-176. trae seco la storia d’Italia e di Europa. Al suo arrivo i morti dimenticano il presente, si risvegliano alla vita, ricordano le valli e le colline del loro luogo natio». Secondo questo assunto deve valere preferibilmente l’opzione di lettura più schietta e semplice: «Mi preparai la via, combattendo i metodi de’ più celebri comentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini personali».92 In De Sanctis l’esegesi puntuale dell’episodio di Sordello rifluisce non in una specifica lettura, ma nelle lezioni universitarie, in particolare la sesta lezione sulla seconda cantica del periodo di insegnamento zurighese (18561859)93 che comprende la figura del trovatore di Goito in lingua d’oc, incontrato da Dante e Virgilio sull’“alta ripa” dell’Antipurgatorio. [...] o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicëa alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa (6194 66) 92 De Sanctis 1955, pp. 238 e 324325. 93 Si trova in De Sanctis 1955, p. 470 sgg. Le lezioni di De Sanctis sono giunte, come ricordato sopra, per lo più tramite gli appunti e le rielaborazioni degli scolari uditori a Torino (1854-55) e a Zurigo. Le trascrizioni però a volte tradiscono un’eccessiva inclinazione per le grandi passioni di matrice romantica dell’epoca. Un decennio innanzi De Sanctis aveva tenuto delle riflessioni e lezioni napoletane (periodo del 1842-43), maturate durante la detenzione di Castel dell’Ovo. Il meglio di quei materiali venne raccolto nell’Esposizione critica della ‘Divina Commedia’, a cura di Gerardo Laurini, Morano, Napoli 1921. 94 Il narratore onnisciente Dante anticipa con la consapevolezza della finzione diegetica la provenienza dall’Alta Italia dell’anima, la cui identità verrà scoperta da Dante-personaggio e da Virgilio solo tra poco, al v. 72. professato: l’amore per il suolo nata97 le. Fig. 1 – Il Marzocco, simbolo della Repubblica fiorentina, opera di Donatello (1386-1466), in pietra serena, realizzata nel 1419-20, prima che nascesse Michelangelo. Entrambi operarono in tempi posteriori a quelli di Dante, ma il leone era un simbolo in voga da molto prima. © Museo del Bargello, Firenze. L’incontro è definito una «stupenda creazione» grazie alla quale l’anima di Sordello da Goito, dopo una vita che aveva avuto dell’avventuroso a causa di una condizione che per la “gentilezza senza avere, mala via suol tenere”,95 «torna mantovano» per l’incontro con il poeta latino conterraneo, capostipite dei letterati di quella terra.96 L’anima lombarda appare ai due viandanti d’oltretomba «leoninamente accosciata sullo scaglione del monte», come si espresse Francesco Novati, nel suo stile prezioso e raffinato, a proposito dell’«immagine del trovatore mantovano, sebben più sbozzata forse che accuratamente scolpita dal genio di Dante (ed appunto per ciò addirittura michelangiolesca)» (Fig. 1): disdegnoso ed immoto nella leonina attitudine, il capo ricinto dal chiaror dell’incendio ch’accende in cielo il già vicino tramonto, ci appare colui nel quale il poeta s’è piaciuto incarnare il più sublime tra gli affetti umani, secondo che l’antichità aveva Lo “sbozzo michelangiolesco”, da intendersi per definizione quale un «Lavoro d’arte realizzato in modo ancora approssimativo» (Devoto-Oli), era già stato usato come sintesi visuale da Ernesto Giacomo Parodi nel 1897 ed è probabile che Novati l’abbia presente. Nella resa da “non-finito michelangiolesco” Parodi ravvisava una qualità positiva, a differenza di Novati che sembra rilasciare un giudizio leggermente limitativo – sul carattere della terminologia della scultura, in relazione a quella della pittura, si tornerà per gli esiti differenti del loro uso in sede critica da parte dei nostri dantisti sotto analisi. Per l’analogia di Sordello “a guisa di leon” Dante potrebbe essere stato influenzato dall’iconografia molto antica, con riferimenti alla mitologia e alla politica. A norma dei bestiari medievali il leone raccoglie in sé le doti richieste al sovrano ideale, sulla scorta del calco letterale dell’immagine di cui si serve Giacobbe per tratteggiare la figura e il carattere di Giuda, il figlio prediletto destinato a fondare la potente stirpe da cui nascerà Cristo; «requiescens accubuisti ut leo» (Gen. 49, 9). Anche la fisiognomica fin dalla tarda antichità “refertur ad leonem” per intendere la nobiltà dei grandi personaggi: «Magnanimitez est hautece, grandece et noblece de corage, par quoi li hons est hardiz comme lions et de grant em98 prise». Pertanto è come se il disdegno che emergerà dall’invettiva di Dante fosse anticipato o annunciato nella posa scultorea (plastica, si direbbe in termini di critica d’arte) e leonina di Sordello. In seguito Dante avrà modo di sviluppare il motivo con la rassegna puntuale dei sovrani nella vallet- 95 L’adagio popolare è citato da Novati 1925, p. 130, per giustificare come Sordello fosse tra i molti rampolli decaduti a «misere condizioni nelle quali sullo scorcio del secolo decimosecondo versavano le più nobili ed antiche famiglie italiane per la suddivisione indicibile de’ patrimoni aviti». 96 De Sanctis 1955, pp. 29 e 238. 27 97 Novati 1925, pp. 134, 129. Cfr. John A. Scott, Dante magnanimo: studi sulla ‘Commedia’, Olschki, Firenze 1977, pp. 326-329. Il passo tra virgolette viene dal domenicano Frère Laurent, Somme le Roi, manuale d’istruzione morale e religiosa composto nel 1279 su richiesta del re Filippo III l’Ardito. 98 ta, con descrizioni che possono ancora far pensare a certa statuaria, una galleria di busti in piedi o assisi, caratterizzati più dalla mestizia che dal trionfo: seder cantando anime vidi (Pur VII 83), li atti e ’ volti/conoscerete di tutti quanti (88-89), siede alto e fa sembianti /d’aver negletto ciò che far dovea,/e che non move bocca a li altrui canti (91-93). De Sanctis giudica l’invettiva di Dante all’Italia quale un’esclamazione con sentimenti che traboccano fuori con impeto, un «tuono d’indignazione» da elevare a inno di rivincita. Prendiamo il passo «sottile e indugiante»99 della Lezione VII di De Sanctis, dal titolo Allegoria generale del poema dantesco, dove si afferma che «il concetto è divenuto loro [dei personaggi], si è individuato in loro, ha preso in loro tutti gli accidenti, tutta la libertà della persona […] abbiamo la vita, abbiamo la poesia: il concetto è calato nel suo segno e si è animato»,100 divenendo simbolo o personificazione di un’idea.101 Lo stile dantesco annunzia fin dalle prime parole una «selvaggia energia», appunto, colata nella maglia della terzina con i rimanti: Sordello : ostello : bordello (Pur VI 74, 76, 78). Ahi serva Italia, di dolore ostello (76) […] non donna di provincie, ma bordello! (78). È diventata questa digression (128), a ragione, il «luogo principe della poesia politica dantesca»,102 un punto fermo nell’immaginario e nella memoria collettiva della concezione che gli italiani hanno avuto e hanno del 99 Romagnoli, in De Sanctis 1955, p. XXXV. 100 De Sanctis 1955, pp. 119-120. 101 Risultano efficaci le parole di Roman Jakobson: «Ogni segno è un rinvio [o rimando] (secondo la famosa formula aliquid stat pro aliquo)», in un contributo del 1974, oggi ristampato in Id., Lo sviluppo della semiotica e altri saggi, Bompiani, Milano 2020, pp. 47-81, a p. 73. 102 Bruscagli 2013, p. 13. proprio paese. Il concetto è ribadito da Croce: Dante declama un intero pezzo oratorio, con partizioni, trapassi, esclamazioni, esortazioni, ironie, sarcasmi, come chi è preso bensì dal furore della passione, ma non dimentica nulla di quanto gli sta a cuore di dire per l’effetto politico che si propone di 103 conseguire. Nel commento allo stesso punto Giovanni Gentile si discosta dal giudizio di “effusione politica” dato da Croce, e pare quasi dargli una lezione di “schiettezza estetica”, concordando comunque sull’unanime apprezzamento verso il «brano robusto e magnifico»: Non si parli dunque di oratoria; ma di quadro, in cui l’artista, per irradiare una viva luce, chiara e serena, sulla figura che ha inteso ritrarre, ha dovuto contornarla con uno sfondo fosco e minaccioso. La digressione [...] non tollera l’enfasi dell’oratoria, ma richiede la passione che è infatti nella concitata parola del Poeta perché era nella sua anima di cittadino e d’artista alternante in una vicenda d’azione e di poesia le varie corde della sua personalità molteplice ed una, pronta perciò a riversare nei suoi fantasmi anche le sue passioni politiche, come ad illuminare la sua ci104 vile condotta [...]. L’estetica gentiliana, di fatto anticrociana, è esposta in un lavoro del 1931, La filosofia dell’arte, 103 Croce 1966, p. 111. Gentile 1965, pp. 232-234. Per ogni buon esegeta chiamato a una Lectura Dantis, è prassi che, in quanto è cronologicamente l’ultimo lettore di un canto, egli si faccia uno studio dello stato dell’arte della bibliografia critica, almeno con le letture più importanti dello stesso canto e di quelle che sono state pubblicate di recente. Per il trittico di canti di Sordello Gentile non si fa mancare l’opportuna bibliografia; ricorre infatti al già ricordato saggio di Francesco Novati (1925), insieme alle schede di Parodi (1897) e di S. Frascino. Inoltre alcuni interventi di Michele Barbi, che pure Gentile mostra di aver consultato, gli tornano utili per questioni puntuali di storia dei comuni, usciti su «Studi Danteschi». Diversi dei contributi di Barbi furono raccolti nei suoi Problemi di critica dantesca: prima serie (18931918) e seconda serie (1920-1937), Sansoni, Firenze 1934 e 1941. 104 28 frutto di un corso di Filosofia teoretica tenuto all’Università di Roma e destinato a diventare il manifesto dell’Attualismo, con «tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale» (Sasso).105 Curioso è che alle Questioni teoriche della Critica letteraria106 come “rappresentazione individuale”, Gentile fosse stato iniziato proprio dal Croce, quando gli fece leggere la seconda edizione del saggio del 1894. Gentile in seguito recensì favorevolmente l’estetica di Croce,107 salvo rinnegarla nel tempo. 105 Gentile poi diede alle stampe una Introduzione alla filosofia, Milano; Roma: Treves-Treccani-Tumminelli, 1933; vol. VII delle “Opere complete” pianificate ancora vivente il filosofo. 106 B. Croce, La critica letteraria: questioni teoriche, Loescher, Roma 1894; preludio al manifesto dell’estetica crociana “come scienza dell’espressione e linguistica generale” (1902); una prima Memoria fu letta all’Accademia Pontaniana nella primavera del 1900. 107 Cfr. «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 41, 1903, pp. 89-99. Sono gli anni a cavallo del secolo, quando Gentile da Campobasso, dove insegnò al Liceo nel periodo 18981900, andava a trovare spesso Croce a Napoli, prima di esservi trasferito alla fine di quel periodo. E ancora nella seconda metà del primo decennio troviamo Croce che si interessa per far avere una cattedra universitaria a Gentile. La vicenda si sviluppò sulle pagine de «La Voce», con il pezzo su Il caso Gentile e la disonestà della vita universitaria italiana (4 marzo 1909), seguito da altri interventi, confluiti poi in un pamphlet del 1909. La vicenda è stata ricostruita da Gennaro Sasso per RaiCultura e da Alessandro Savorelli per Treccani (2016). Prima della rottura i due realizzarono un utile e fruttuoso sodalizio, una concordia discors, come ha fatto notare Sasso: «se senza Croce non s’intende il Gentile, altrettanto è vero per l’inverso». Cfr. Croce e Gentile: la cultura italiana e l’Europa, Enciclopedia Treccani, Roma 2016, poderoso volume che raccoglie saggi di vari autori su molti aspetti della loro riflessione e influenza. La parte su Il Dante di Croce e Gentile è firmata da Enrico Ghidetti, la si legge anche online, https://www.treccani.it/enciclopedia/ildante-di-croce-e-gentile_%28Croce-eGentile%29/. Più di recente un altro critico e storico della letteratura, Amedeo Quondam, ha ribadito come per De Sanctis Dante è stato l’eccezione per la nostra letteratura vista nella lunga durata della “decadenza” e della “servitù” della storia d’Italia nell’età moderna. Come del resto fu già intravisto da Carlo Dionisotti, per il quale «la storia letteraria s’inquadra nella vicenda di un popolo lentamente decaduto dall’alacrità e fierezza comunale all’agio e alla preziosa mollezza signorile, di qui all’avvilimento della dominazione straniera, poi lentamente risorto e per gradi a indipendenza scientifica e morale e politica».108 La critica contemporanea, più scaltrita sulle acquisizioni intertestuali rispetto ai nostri critici attivi tra Otto e Novecento – sempre acuti ma per forza di cose meno dotati delle potenzialità dei corpora informatici e delle expertise codicologiche e paleografiche (come si è visto sopra con le acquisizioni di Meneghetti) –, ha parlato di ideologemi, di motivi retorici e stilemi che arricchiscono, in modo anche copioso di suggestioni, l’invettiva di Dante. Una vituperatio su modelli già forniti da Guittone, autore come Sordello di canzoni-serventese109 a carattere didattico e moraleggiante, cronachistico o d’occasione. Lo notò De Sanctis: «Fra Guittone d’Arezzo, per esempio, abbonda di questi giuochi di parole e d’idee»110: 108 Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, cit., p. 32. 109 Sul genere poetico, in prov. Sirventes, caratterizzato da diversi tipi metrici, ereditato dalla tradizione trobadorica non illustre, spesso non distinguibile a livello metrico-strofico dalla canso (scil. canzone), si veda Giorgio Inglese - Raffaella Zanni, Metrica e retorica del Medioevo, Carocci, Roma 2011, pp. 99-101. Dante ricorda di avere composto «una pistola sotto forma di serventese» in onore delle sessanta più belle donne di Firenze (Vita nuova VI 2), non pervenuta. 110 De Sanctis 1955, p. 527. Le citazioni che seguono sono rispettivamente dall’epistola di Guittone dal titolo Infatuati e miseri Fiorentini (v. sopra a nota 63), e dai versi 30-32 di O dolce terra aretina. Un’altra im- Non già reina, ma ancilla conculcata e sottoposta a tributo! non corte de Dirittura, ma di latrocinio spilonca, e di mattezza tutta e rabbia scola. non di cavalier norma / ma di ladroni, e non di donn assempro, / ma d’altro […] Del fatto che certe espressioni fossero entrate nel bagaglio retorico dell’epoca ci dà conferma la glossa di Benvenuto da Imola a proposito del termine “bordello”: ad postribulum venditur caro humana, ita Ytalici cotidie venduntur ut canes; ita etiam ibi concurrunt omnes ad ponendum sua onera, ita omnes barbare nationes veniunt ad deponendum suas paupertates et 111 miserias. Per il valore chiave che l’episodio sordelliano ha nella prospettiva ghibellina e nazionalista di Dante, De Sanctis avrebbe avuto buon gioco a dilatare quelle osservazioni politiche lungo tutta la sua attività di critico, nello specifico di dantista militante disposto ad una “lotta culturale” e ideologica; secondo una postura ereditata da Ugo Foscolo e che molto sarebbe stata apprezzata da Antonio Gramsci.112 A De Sanctis, infatti, magine a effetto di Guittone si trova nelle sue Lettere 14, 16: «O non Fiorentini, ma disfiorati e disfogliati», gioco verbale che torna nelle Rime XIX 16: la sfiorata Fiore. E Dante scrive disfiorando il giglio (Purg. VII 105) per significare «disonorando (togliendogli foglie o petali) il giglio di Francia» in una occorrenza che resta unica nel suo lessico; cfr. Vocabolario Dantesco. 111 Michele Barbi, La lettura di Benvenuto da Imola e i suoi rapporti con altri commentatori, in due parti, «Studi Danteschi», 16, 1932, pp. 137-156, e 18, 1934, pp. 79-104. 112 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 7. Si veda la voce ‘Gramsci, Antonio’, a cura di Giuseppe Vacca, nel DBI, 58, 2002. Quello stesso Gramsci che Palmiro Togliatti, in Gramsci pensatore e uomo di azione (conferenza tenuta all’Università di Torino il 23 aprile 1949), ricordò, dopo che si erano conosciuti nel 1912 – entrambi studenti borsisti al collegio Carlo Alberto di Torino –, quando tra i corridoi e le aule universitarie gli capitava di incontrarlo «dappertut- 29 si può intestare il vessillo di una riforma nell’esegesi dantesca dotata di un carattere nazionale e popolare sul tipo di quella “protestante”. Dato che nessuna intuizione critica si crea dal nulla, forse poteva valere per il critico ottocentesco tout court quanto affermato a chiare lettere da Foscolo sulla poesia di Dante: «come gli abitatori del suo Paradiso veggono ogni loro beatitudine in Dio, così i suoi lettori non godono dell’illusione poetica se non quando tengono attentissima l’anima tutta alle parole, a’ moti, e all’anima del narratore».113 Come si legge in un passo della desanctisiana Teoria e storia della letteratura: «Per giudicare degnamente di Dante bisogna […] movere dall’idea e scendere alle forme».114 Il concetto, in qualche modo, era stato anticipato da Paolo Emiliani Giudici quando scrisse che il fine ultimo della Commedia sarebbe quello di celebrare – e forse restaurare – un’idea della «preponderanza politica dell’Italia sopra tutti i popoli avvincolati dalla latina civiltà, e redenti dalla legge di Cristo».115 Successivamente l’atteggiamento del “fare critica”, di “praticare il mestiere”, tenuto da De Sanctis sarà raccolto e in un certo senso codificato proprio da Croce e Gentile in funzione di una “filosofia e teoria dell’arte”. Con quelle premesse lo studioso è posto nelle condizioni per l’esercizio critico concreto sugli autori to, si può dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una serie di problemi essenziali», delineando così l’allievo ideale per un maestro altrettanto prodigo e con in mente sempre l’“elevamento civile”. 113 Ugo Foscolo, Prose letterarie, Firenze, Le Monnier, 1850, 4 voll., III, p. 377. Foscolo snobbava la critica tedesca su Dante vedendo «soltanto somma dottrina e industria più che umana, di rado aiutate dalla velocità dell’ingegno», ivi, pp. 94-95 (citato da Romagnoli, in De Sanctis 1955, p. XXXVI). 114 Alle pp. 219-220 dell’edizione curata da Croce per i tipi di Laterza nel 1926. 115 Emiliani Giudici nel commento all’edizione della Divina Commedia, uscita nel 1846, a p. 16. contemporanei la cui risultante è la cosiddetta “critica militante”.116 Non a caso il pensatore sardo Gramsci avrebbe finito per riconoscersi più in De Sanctis che in Croce, perché nel primo vide la necessità di preparare le condizioni, innanzitutto sul terreno culturale, per una crescita del movimento operaio e di una “riforma intellettuale e morale”, sulla scorta del valore emblematico che il pensatore irpino attribuiva al nesso fra Illuminismo e Rivoluzione francese: «Ho ancora un cuore che batte, ho ancora la freschezza del sentimento. E forse dovrò a questi quello che la scienza non mi può più dare».117 Gli «scritti su Dante sono paralleli all’approfondimento del metodo critico, che ha sempre trovato le sue pronunzie nel lavoro applicato e concreto dello storico», ha scritto Andrea Battistini a proposito della critica dantesca di De Sanctis, il quale così «coglieva in Dante una forma che non era da intendersi come una veste rappresentativa di un’idea da essa distinta, ma la sintesi dialettica di ideale e reale, attuata esemplarmente nella poesia».118 116 Cfr. Mengaldo 1998, pp. 89-93, capitolo dal titolo Critica militante, accademica e “formale”. 117 De Sanctis in una lettera del 20 settembre 1857 ad Angelo Camillo De Meis, in F. De Sanctis, Lettere dal’esilio: (1853-1860), raccolte e annotate da Benedetto Croce, Laterza, Bari 1938 (stampa 1937), pp. 167-169. 118 Cfr. la scheda ‘De Sanctis’ di Andrea Battistini, tratta da Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012), su Treccani.it. 3.2 Benedetto Croce (1866-1952) Passi dunque, per Croce, l’episodio di Matelda nel Paradiso terrestre quale pretesto «delle più belle espressioni della vaghezza che trae l’uomo a comporre in immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure femminili», «gran variazion dei freschi mai», ma quando «è chiamata ad altri gravi ufficî, più o meno allegorici» la figura di Matelda non ha «nulla da vedere con la ispirazione poetica ond’ella fu generata».119 Con lo stesso metro di giudizio uno zelante crociano come il Vossler arrivò a definire la cantica del Paradiso un «controsenso poetico», e il Purgatorio un «istituto di cure» o «un sanatorio». Dato che nello sviluppo diegetico della cantica Croce avverte i trapassi, sempre attento a sceverare la “poesia del cuore” dal “dramma esterno e superficiale”, il giudizio suo sarebbe diventato ancora più drastico per la parte finale del Purgatorio, con gli ultimi canti del dramma liturgico (o auto sacramental), corrispondenti alla messinscena fortemente allegorica che non ha diretto valore di poesia, essendo una «semplice mascherata ossia una sequela d’immagini bizzarre, tra loro incoerenti o poco coerenti, senza alcun significato né intrinseco né estrinseco». Qui la struttura dottrinale – a parere di Croce – contribuisce a far sì che la Commedia «sta tra l’allegoria impoetica e l’impoeti119 Croce 1966, pp. 126-127. 30 ca mascherata».120 Egli, a volte, in base al proprio criterio estetico si riduce a sceverare “frigidamente”, specillare,121 tra gli «intermezzi della piccola rappresentazione […] alcune affettuose terzine […] calde di gratitudine e di alto encomio», pur nell’assenza dell’armonia122 della grande poesia. «Il dialogo filosofico-teologico con Virgilio circa l’efficacia delle preghiere, assurdo nella sottigliezza della teologica soluzione»: non s’ammendava, per pregar, difetto, / perché ’l priego da Dio era disgiunto (Pur VI 4142).123 120 Un altro giudizio scettico Croce 1966, p. 119, lo riserva alla visione in sogno della femmina balba, che gli appare come «di un’immagine-concetto, che non è né tutto immagine né tutto concetto, ed ha dell’allegoria nel senso deteriore». 121 Le sottili distinzioni che non piacevano a De Sanctis, il quale le aveva rimproverate alla critica psicologica francese – ritrarre l’artista «di maniera che la conoscenza dell’uomo ci aiuti alla conoscenza dello scrittore» (De Sanctis, Saggi critici, cit., II, pp. 81-82) –, la quale «trasanda alcune cose che gli sembrano indifferenti o poco notabili, si ferma a certe altre che gli paiono belle», cfr. la recensione del 1855 alla traduzione in prosa della Commedia del Lamennais, in F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, pp. 369-386, alle pp. 380381. Lo scarto tra ciò che è «solo in funzione di poesia» (Croce 1966, p. 203) e le «intramesse didascaliche» che sono indicate di volta in volta come: sistema / dottrina / struttura, risale però a un critico tedesco, Friedrich Bouterweck (1765-1828), ricordato già da De Sanctis 1955, pp. 380381, insieme a Ginguené, a Sismondi e a Lamennais, quali fautori di una “critica di particolari”. 122 Tale concetto risalta in modo particolare nel famoso saggio, ‘autobiografico’ secondo definizione di Mengaldo, di Croce sull’Ariosto, il più grande maestro della strofa, che tradotto nella prosa significa maestria nel periodare, dote suprema di Boccaccio (per De Sanctis) e dello stesso Croce. 123 Nei versi che precedono la sentenza di Virgilio, Dante ricorre ad una metafora visuale per rendere più comprensibile il concetto teologico: ché cima di giudicio non s’avvalla / perché foco d’amor compia in un punto / ciò che de’ sodisfar chi qui si Fresca risorge la poesia del cuore, quando Dante, rendendo “vano” l’udire di cose politiche, distornandosi dai discorsi di Sordello, s’immerge nella scena che gli si forma attorno e assiste a un mistero dell’anima […]. Il dramma della vinta tentazione si fa, nel séguito, esterno, e perciò si superficializza alquanto, nel rappresentato combattimento dei due angeli – custodi –, che scendono dal cielo e fugano la mala biscia: sorta di sacra rappresentazione, della quale si vedono altri saggi in questa seconda cantica. […] Le altre cose dell’episodio [di Forese], come la già notata invettiva contro le donne fiorentine o la predizione sul prossimo ammazzamento di Corso Donati, non si legano al significato poetico, e stanno lì perché Dante, per suoi fini, ha voluto che ci fossero messe [...] ma sono segni e mezzi per altra cosa: a un dipresso come ancor oggi (lasciando stare che ancora oggi si rivedono nelle feste dei paeselli residui e tracce di sacre rappresentazioni) si usa negli abecedarî illustrati per bambini, dove una vistosa figura sta a lato di ogni 124 lettera. Detto altrimenti «il travaglioso farsi del vero, o lo spirito entusiastico che si sa annunziatore di verità nuove, originali, rivoluzionarie, o il cozzo delle opinioni e degli argomenti in dialogo e in polemica», da tradurre nella “drammatica” dell’addottrinamento tra discente e maestro, cioè tra Dante e Virgilio o chi per lui, peraltro resa in «immagini corpulente e fulgidissime» – valori che Croce era sempre disposto a salvare – ;125 ecco, tutto quell’apparato dottrinario rimaneva un po’ indigesto al filosofo abruzzese. Croce ci offre così un primo accenno di distinzione tra la poesia senza altro e le parti dottrinali, a volte mescolate a reazioni di «lie- tezza sorridente», o con le similitudini «venate di sorriso».126 Egli scrive di «codeste immagini sensuose e splendide, di cui in ogni parte s’infiora» il poema;127 sono – a suo parere – il veicolo del processo dialettico o sillogistico: «chiarezza fantastica delle immagini» o «chiarezza intellettuale delle distinzioni e divisioni, dei sillogismi, dilemmi e argomenti del terzo escluso»; per dirla con il Dante del Convivio, II IV 18: «per ch’ella [la filosofia] di se stessa s’innamora». Per toccare l’aspetto ‘militante’, già intravisto in De Sanctis, bisogna chiarire che in Croce la “religione della libertà” si arrestava alla dimensione della piccola borghesia intellettuale, classe da cui il filosofo abruzzese proveniva. Quella classe «assolve una funzione reazionaria nella faccia rivolta verso lo Stato» (Giuseppe Vacca), e generava il sospetto in Gramsci di un “blocco intellettuale meridionale” (tipici esponenti: Croce e Giustino Fortunato, definiti come «i reazionari più operosi della penisola») in grado di ostacolare o rallentare «una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale ciò che il liberalismo non è riuscito a compiere che per ristretti ceti della popolazione».128 Croce sposta su un piano individualistico, si direbbe borghese, la dialettica desanctisiana del «concetto dell’arte come lirica o intuizione lirica».129 Egli ritiene che per riconoscere quell’unità estetica «è necessario possedere quella fondamentale conoscenza 126 Si cita da Croce 1966, p. 110. Croce 1966, p. 121. 128 In ultima analisi quel “blocco” era un ostacolo alla diffusione della “filosofia della praxis”, per come Gramsci la concepì ereditandola da Marx. Cfr. Quaderni del carcere, p. 1292 oppure Quaderno 10 (1932-1935): La filosofia di Benedetto Croce. Esiste anche l’edizione anastatica dei manoscritti dei Quaderni, a cura di Giovanni Francioni, Istituto della Enciclopedia Italiana - L’Unione sarda, [Roma]-Cagliari, in 18 voll., nel vol. 14 si trova lo scritto citato in questa nota. 129 Croce 1966, p. 33. 127 astalla (Pur VI 37-39), dove l’altezza del giudizio divino è resa con verbi della vita quotidiana: avvallarsi, astallarsi, con quest’ultimo usato per lo più per riferirsi agli animali: «nel luogo dove s’astallano [i cani]» (da un volgarizzamento del fiorentino Crescenzi, XIV sec.). Dante ne fa un hapax per esigenza di rima falla: s’avvalla, e per rendere con un linguaggio concreto le sottigliezze dottrinali, similmente agli espedienti retorici utilizzati dai predicatori. 124 Croce 1966, pp. 112, 122 e 129. 125 Croce 1966, pp. 119-120. 31 o coscienza storica, che si forma e cresce col formarsi e crescere della nostra personalità interiore (sorta di ontogenesi che coincide con la filogenesi)».130 L’intuizione e l’espressione, entrambe liriche nel loro ritrovarsi, costituiscono l’unità cardine dell’estetica crociana. D’altronde dove il gusto di Croce sembra arrestarsi nel piacere per la poesia del lettore dei versi di Dante, ravvisando i limiti della struttura dottrinaria, proprio lì De Sanctis era disposto ad aprire un credito di fiducia al Poeta, nel cercare la sintesi tra «Viaggio fantastico e caratteri umani; idea divina, forma umana».131 Quasi che De Sanctis, anche in anticipo rispetto a don Benedetto, volesse ricalcare il sinolo132 tra spirito e corpo, tra forma e materia di tanta dottrina tomistica. Infatti Croce estrae da De Sanctis «a preferenza la nozione (e ancor più la parola) di “forma” e la intepreta kantianamente come sintesi a priori».133 Quello che preme a Croce è «il carattere e l’unità della poesia di Dante» – un valore cercato anche da Contini dantista134 –, a costo di riassumere e parafrasare, a volte rischiando la tautologia, per designare la materia o il sentimento; per un esempio: «Dante, come si sa, è sommamente soggettivo, sempre lui, sempre dantesco».135 «Come se il contenuto fosse “an130 Croce 1966, p. 204. De Sanctis 1955, pp. 216-217. Si veda anche l’Indice analitico, ivi, pp. 736-737, alla voce “Contenuto e forma”. 132 Cfr. Cesare Vasoli su Averroè, per la voce dell’Enciclopedia Dantesca, ripresa nel sito http://www.gliscritti.it/blog/entry/334 6. 133 Gianfranco Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1989 ([1972], d’ora in avanti Contini 1989), p. 10. 134 G. Contini, Un’idea di Dante: saggi danteschi, Einaudi, Torino 2001: silloge dei saggi di materia dantesca sparsi nella raccolta Varianti e altra linguistica, pubblicata presso lo stesso editore nel 1970. 135 B. Croce, Filosofia – Poesia – Storia: pagine tratte da tutte le opere, a cura dell’autore, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, p. 726. 131 teriore” e la lingua “posteriore” alla sintesi a priori, [… essi] avessero diversa dignità o usufruibilità»:136 […] è ovvio che per riconoscere e amare la grandezza e direi la sicurezza (fosse pure nell’errore) di Croce critico, non è necessario consentire coi giudizi che ha pronunciati, volentieri improntati a quel gusto della rappresentazione positiva e corpulenta di cui ha detto Contini […]. La forcella poesia/non poesia forse non è così presente nella critica di Croce come si pensa, e sembra appartenere più al teorico che al pratico. Ha scritto spiritosamente Contini: «Mr Croce contiendrait aussi son Sainte-Beuve, son 137 absence de système». Da Vico passando per De San-ctis138 derivò a Croce la concezione ermeneutica ‘allotria’ delle scienze filosofiche e teologiche nel tessuto della Commedia. Tale contaminazione – a suo parere – al sacrato poema «piuttosto che vantaggio, gli apportò nocumento»; poiché il «modo acconcio di commentarlo è dare breve e chiara notizia delle cose, fatti e persone che egli memora, spiegare i suoi sentimenti, “entrando nello spirito di ciò che ha voluto dire 136 Contini 1989, p. 21. Partendo da questa pagina continiana Claudio Giunta, Sui saggi danteschi di Contini, ha precisato che Contini trovava quel carattere e quell’unità non in un sentimento dominante ma in un particolare uso del linguaggio: quel linguaggio che, ha osservato Contini, «non ha posto nella didattica crociana» (ibid.). 137 Mengaldo 1998, p. 24. 138 Ricordiamo che Croce allestì la raccolta delle “lezioni tenute [da De Sanctis] in Napoli dal 1839 al 1848 ricostruite sui quaderni della scuola”, con il titolo Teoria e storia della letteratura, Laterza, Bari 1926, 2 voll. Pertanto anche quando se ne discosta criticamente – per esempio nel liquidare il concetto desanctisiano di arte come troppo realistico, non sufficientemente lirico –, raramente gli muove critiche esplicite. Cfr. l’Introduzione di René Wellek alla Storia della letteratura italiana di De Sanctis, ed. BUR, p. XXI. In particolare si fa riferimento allo scritto di Croce, La fortuna del De Sanctis, in Id., Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari 19493 (1919), p. 303. [...] tralasciare ogni morale e molto più altra scienziata allegoria”».139 Per Croce infatti il ‘realismo’ di quei fenomeni risulta essere un concetto assurdo, poiché la vera poesia in letteratura si rivela nell’«unica realtà [… che] è l’anima, lo spirito».140 Essa «appartiene all’anima e non alle res, cioè alle cose esteriormente viste e considerate».141 Nel descrivere l’opera del “Dante giovanile” Croce scrisse che il Poeta si aggira tra motivi e sopra schemi comuni nella letteratura del tempo suo, e non li sovverte e cangia profondamente traendone cosa propria e nuova, ma li accarezza nei particolari e solo qua e là v’introduce qualche movimento suo proprio, qualche immagine diretta e fresca. [...] Egli si unì dapprima a una scuola letteraria di recente iniziata in Italia [da Guinizzelli], a quella dell’Amore che è tutt’una cosa col “cuor gentile”, della donna innalzata a creatura celeste, a messo di Dio, ad angeletta, a nunzio e promessa del paradiso, fugatrice di basse voglie e d’odî e d’invidie, ispiratrice e comandatrice di sentire eletto e virtuoso. [...] Dante presto primeggiò, come promotore e perfezionatore dell’opera comune; e ad essa è rimasta la denominazione con la quale egli, ricordando i suoi trionfi giovanili, volle onorarla: del “dolce stil 142 nuovo”. Si noti che l’incontro di Dantepersonaggio con il maestro Gui- 139 Croce 1966, p. 176 e nota; il virgolettato di secondo livello viene da Vico, Scienza nuova (1725), libro III, cap. 26, 2. ed. a cura di Fausto Nicolini (Bari 1913, 19422, 19533) e passim. A spingere Nicolini sulle orme della teoria storiografica di Vico, definita da Umberto Eco una «imponente archeologia dei linguaggi umani», erano stati proprio Croce e Gentile, all’epoca in feconda collaborazione attraverso le collane laterziane degli “Scrittori d’Italia” e dei “Classici della filosofia moderna”. 140 B. Croce, La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Laterza, Bari 1936, p. 197. 141 B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Laterza, Bari 1958, vol. I, p. 166. 142 Croce 1966, pp. 27-28. 32 nizzelli143 in Pur XXVI rispecchia in parte la situazione del rapporto tra Sordello (cioè lo pseudo-Dante) e i suoi maestri, grazie ai quali aveva saputo elevarsi a «tantus eloquentie vir existens, non solum in poetando sed quomodocunque loquendo patrium vulgare deseruit» (Dve I xv 2, il passo esteso è stato citato sopra, cfr. nota 54). Lo scarto che corre tra la poesia di Dante rispetto a quella del precursore Guinizzelli è ben riassunto nel passo tratto da Mario Marti (1914-2015): Nell’ambito dello sperimentalismo giovanile dantesco il ‘momento’ guinizzelliano è indubbiamente il più importante e decisivo, quasi una sorta di prefigurazione dell’ultima grande stagione paradisiaca, perché esso scende alle radici dell’interiorità, a toccare e a enucleare interessi di verità etica e religiosa, che divengono poi, nella ricerca e nella meditazione, le solide nervature portanti dell’ideologia del poeta fiorentino. […] E d’altra parte ciò che nel Guinizzelli rimane nell’ambito di un rinnovamento stilistico e di una novità concettuale, insomma di una retorica pur vivificata e rinnovata da forti aspirazioni etiche, in Dante si tramuta in “evento”, in “violenza reale”, in «una spinta prepotente a estrarre dal sentimento il massimo d’intensità, col sollevarlo completamente dalla sfera della soggettività, dalla sfera vera e propria del sentimento, e col cercare di ancorarlo nelle più alte regioni di validità oggettiva e di estrema assolu144 tezza». Se messi a raffronto i due blocchi di citazione appena allegati, da Croce e da Marti, pur nella diversa occasione di redazione, ci 143 Ma sappiamo che, oltre la collocazione nella posizione di caposcuola che gli deriva dalla tradizione secondo l’idea di canone di Dante, Guinizzelli a sua volta aveva dedicato un sonetto, Caro padre meo, a Guittone per omaggiare «l’alta considerazione del sapere e della disciplina morale del maestro, cui si rivolgeva per riceverne consigli di tecnica poetica», cfr. DBI, 61, 2004, s.v. Guittone d’Arezzo, a cura di Monica Cerroni. 144 Si cita da ED, s.v. Guinizzelli, Guido, a cura di Mario Marti. L’ultimo virgolettato è da Erich Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1963, p. 40. mostrano la specificità della prosa critica del primo, ritenuto il maggiore prosatore che l’Italia abbia avuto nel Novecento,145 e la metodologia storicistica nutrita di filologia intesa come processo dal certo al vero della generazione successiva degli studiosi accademici. Come a dire tra due poli, di una critica psicologica da una parte e una accademica e/o “formale” dall’altra. Ciò valga anche per le differenze – e la pari dignità – fra una critica che aggredisce il testo con mezzi e nelle sue emergenze (prevalentemente) formali o invece (prevalentemente) psicologici ed epistemologici, tra una che con gesto sperimentale distacca da sé l’oggetto letterario e lo esamina sotto vetro (anche per tenere a bada la coazione psicologica che quello esercita su di lui) e una che, abbandonando se stessa a quella coazione, può discorrerne solo vivendolo ostentatamente in sé, quasi ruminandolo, riscrivendolo – si può dire – interior146 mente. Non per niente Croce ha parlato di «quell’altro se stesso che si trova più o meno in ogni poeta».147 Vuol dire che l’approccio di Croce di fronte a un poema come quello dantesco, anzi davanti a un “romanzo teologico” incentrato su un viaggio nel regno dei morti, doveva risentire, forse anche inconsciamente, della nota dolorosa esperienza diretta di vita, quando da adolescente perse i genitori e la sorella nel disastroso terremoto di Casamicciola, del 1883, sull’isola di Ischia dove la famiglia era in villeggiatura. Nel rievocare i cari defunti, egli aveva da dire come pochi: Chi non ha vagheggiato talvolta di rivedere, vincendo la morte, i proprî amici, i cari perduti, e riprendere con loro i discorsi sulle cose familiari ed amate, e apprendere particolari non conosciuti e raccontare ciò che è accaduto in quel trascorso di tempo, come se ci si ritrovasse insieme dopo lunga assenza per viaggio o per altra 148 separazione? Quando fia ch’io ti riveggia? (Pur XXIV 75) chiede l’amico degli anni fiorentini Forese Donati a Dante in viaggio nell’oltretomba. Forese viene incontrato tra i golosi in espiazione della sesta cornice: La faccia tua, ch’io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia (Pur XXIII 55-56). La domanda di Forese condensa questo rapporto spirituale, a parti invertite, che i vivi continuano ad avere con i propri defunti: nei sogni, nei ricordi, nelle fantasie ad occhi aperti; tutti i modi che Dante ha scelto per allestire il suo divino poema o “libro dei morti” e per interagire con i suoi personaggi. Un elemento narratologico che in Croce trovava il soprappiù, pertanto, di una mozione degli affetti tutta personale e autobiografica; e che Contini ebbe l’acume di focalizzare come una premessa dell’“angoscia”. In questo, Croce, oltre la già ricordata vicenda biografica, ebbe come modello, forse inconsapevole – a detta di Contini –, l’autobiografia mentale di Hippolyte Taine nell’Étienne Mayran (romanzo incompiuto): un pretesto che l’autore sfrutta per capire quale sia davvero l’unico modo che abbia l’uomo per placare «il sordo singhiozzo delle esequie interiori».149 148 145 Mengaldo 1998, pp. 22-23: la prosa crociana «si distingue per un periodare largo, a panneggi, articolato da subordinate e incisi, e che coincide tendenzialmente con un’unità, un momento definito del giudizio […]. Un periodare unificante e riposato dunque, che non si perde nel testo da giudicare, neppure vi si immerge, ma lo sorvola e lo domina». 146 Mengaldo 1998, p. 90. 147 B. Croce, La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, a cura di M. Sansone, Laterza, Bari 1963, p. 145 (citato da Mengaldo). Croce 1966, p. 122. Taine aveva iniziato la stesura nel 1861; il romanzo uscì postumo nel 1910 preceduto da una penetrante prefazione di Paul Bourget. Oggi è ripubblicato da Adelphi, Milano 1988, a cura di Patrizia Lombardo. È la storia autobiografica della formazione dell’“impalcatura intellettuale” del critico francese Taine, di come questa «fosse (ed è la sua prima virtù) radicalmente ambigua, in quanto devota dell’asciuttezza dell’analisi e al tempo stesso “delle sensazioni veementi, delle parole, delle immagini”. Il giovane Étienne Mayran ri149 33 L’impulso alla tacitazione razionale portava Croce alla «fondazione proprio di un positivismo, covata da una mentalità di storiografo»; tale forma mentis muoveva «da una premessa esistenziale: il metodo è una ricerca di salute, ha una portata religiosa», col permanere di “avventure” culturali razionalmente non in tutto risolte – spiragli per i quali Gentile, che conosceva bene Croce, ebbe ragione di rivendicare all’idealismo italiano dei fermenti esistenzialistici, i quali avevano l’innesco nella storia psicologica di un individuo.150 Croce è un «filosofo che non ama il filosofismo professionale, ed è perciò stimato da quel settore un brillante epigono e quasi divulgatore dell’idealismo, incomparabile alla perfezione tecnica, per non andar lontano, di un Gentile».151 Per effetto di questa differenza di fondo Croce ebbe a manifestare forti dubbi sulle posizioni filosofico-critiche di Gentile con alcuni interventi usciti ancora su «La Voce», tra il novembre del 1913 e il gennaio del ’14: Intorno all’idealismo attuale e Se l’idealismo “attuale” di Gentile sia o no misticismo.152 Mancato tragicamente Gentile nel 1944,153 la critica di Croce avrebbe avuto campo libero per la sua primazia che finì anche per trascendere nei cascami del “crocianesimo”.154 schia di spezzarsi per questa tensione. Ma Taine, il suo creatore, ne sarà nutrito per tutta la vita» (dal risvolto di copertina). 150 Contini 1989, pp. 6-7, 52. Il parallelo è tra Taine e il Croce del Contributo alla critica di me stesso. Si segnala l’uscita da Adelphi nel 2022 di un altro titolo di Croce nella stessa direzione: Soliloquio e altre pagine autobiografiche, a cura di Giuseppe Galasso, prefazione di Piero Craveri. 151 Contini 1989, p. 51. 152 Al primo intervento si ebbe la replica di Gentile, con lo stesso titolo e il sottotitolo: Ricordi e confessioni, sul fascicolo dell’11 dicembre 1913. Per altri scritti usciti su «La Voce» si vedano qui la note 107 e 164. 153 Cfr. Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014. 154 Contini 1989, p. 52: «Ma nell’esistenzialismo (che, non composto, Nella moderna letteratura non v’ha niente di simile a questo complesso coordinato di lavori che ora l’Italia possiede, nei quali si compie il giro di tutti i problemi attuali nelle varie discipline filosofiche, dando di essi esatta informazione, e insieme li si pone in vivo ricambio con l’indagine storica nei varî suoi campi della politica, della morale, della filosofia e dell’arte. Raro è il possesso dell’enciclopedia filosofica, ma più rara ancora l’unione effettiva di essa con l’esperienza e la pratica dell’indagine storica: il che conferisce all’opera del Croce la sua fisionomia singolare e l’efficacia educativa che ha esercitato ed esercita sugl’in155 telletti. 3.3 Giovanni Gentile (1875-1944) Gentile, a differenza di Croce, si formò su un’altra Storia della letteratura italiana, quella del già ricordato conterraneo siciliano Paolo Emiliani Giudici, uscita in due volumi nel 1855 per i tipi di Le Monnier.156 Emiliani Giudici lasciato allo stato puro, romantico e irrazionale, può solo cadere in mani di dilettanti) e nello strutturalismo (o linguistica delle scienze o nuova fenomenologia) è molta distanza dal crocianesimo, non dal Croce». 155 Il brano di Croce si trova in un’antologia organica della sua opera del 1951, Filosofia, poesia, storia: pagine tratte da tutte le opere, a cura dell’autore, R. Ricciardi, Milano-Napoli: dall’introduzione dell’Appendice, «specimine perfetto di lingua crociana» (Contini 1989, p. 51, la citazione viene da qui) dove il filosofo parla di sé in terza persona. 156 In Indice SBN risulta una prima edizione ma con titolo Compendio della storia della letteratura italiana, aveva curato nel 1846 anche una edizione commentata della Divina Commedia157 nella quale puntò a «riasserire i fondamenti di una filologia capace di sottolineare il carattere spirituale della Commedia, aspramente polemica nei confronti della degenerazione ecclesiastica, ma tutt’altro che irreligiosa, e anzi profondamente intrinseca di saggezza teologica». 158 Dopo la laurea in filosofia, con una tesi discussa a Pisa nel 1898, su Rosmini e Gioberti considerati nel loro rapporto con la filosofia europea di Kant e Hegel, con relatore Donato Jaja, docente di orientamento idealista di marca spaventiana, Gentile svolse il perfezionamento per un anno all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Qui tra i professori che lo influenzarono vi era il neokantiano Felice Tocco159 (1845-1911), che aveva un approccio di insegnamento memore del suo maestro all’Università di Napoli, il maggior hegeliano del meridione, Bertrando Spaventa.160 A Hegel era stato debitore – ovviamente – anche De Sanctis, ma in modo molto sui generis: egli infatti fu «pochissimo dogmatico, costantemente inteso a scovare Poligrafia italiana, Firenze 1851 (unico volume). 157 Abbiamo avuto modo di citarla sopra, a nota 115: D. Allighieri, La Divina Commedia, con illustrazione e note di P. Emiliani Giudici, Poligrafia Italiana, Firenze 1846. 158 Sberlati 2011, p. 89. 159 Cfr. DBI, s.v. Tocco, Felice, a cura di Simonetta Bassi. In seguito Tocco si fece sostenitore della «necessità di una battaglia contro ogni dogmatismo [...]. I fatti e la filosofia dello spirito devono entrare in un circolo virtuoso, evitando così sia la creazione di favole metafisiche sia l’assolutizzazione dei fatti scorporati dalla loro origine umana», e ancora auspicò l’«utilizzo della filosofia kantiana come diga contro il materialismo dogmatico, che sotto le pretese induttive nascondeva opzioni metafisiche». 160 Così lo ricorda Eugenio Garin, Felice Tocco alla scuola di Bertrando Spaventa, in Id., La cultura italiana fra ’800 e ’900, Laterza, Bari 1976, pp. 70-78: «l’assoluto non è qualcosa d’inerte e d’immobile, ma è vita, movimento, dice il prof. Spaventa, è sviluppo». 34 l’ingegnosa trovata dialettica che gli consenta di trascendere il limite» statico dell’arte.161 Il pragmatismo di De Sanctis si regge sull’interesse che egli nutre per il realismo, o meglio per la vita e la realtà – in ossequio al motto settecentesco res, non verba. Una dichiarazione in tal senso si può forse ricavare da un passo delle lezioni napoletane, che per l’assunto sarebbe dovuto piacere a Gramsci: Un poema religioso si dee proporre la glorificazione di Dio; ma per Dante Dio è aiuto alla conoscenza degli uomini, ed umano è, dunque, il fine, che il poema si propone; il quale sarebbe sbagliato se avesse per fine il divi162 no. Nella ripresa delle acquisizioni desanctisiane si gioca la biforcazione tra Croce e Gentile. Non dimentichiamo che nel momento della spaccatura più forte tra i due, Gentile rimproverò a Croce il fallimento nella ricezione dell’opera di De Sanctis, avendo allestito una “filosofia a pezzi e bocconi”, delle “quattro parole” (scil. il bello, il vero, l’utile e il buono).163 Gentile vieppiù seppe apprezzare la tradizione del positivismo sub specie di prosecuzione del criticismo kantiano. Posizione che gli derivava dall’ossequio e dalla reverenza al “fatto”, valori acquisiti sotto il magistero del metodo erudito di Alessandro D’Ancona alla Normale di Pisa. In un suo intervento su «La Voce» del 20 maggio 1909, dal titolo Questioni pedagogiche: il sofisma del doppio fatto, si legge: «Il fatto è pensiero, che va criticamente elaborato dal punto di vista del tutto, se non si vuole smarrire il fatto stesso». Gentile avrebbe avuto il merito – secondo Antimo Negri164 – di saper evitare le secche 161 Contini 1989, p. 10. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, cit., vol. I, pp. 214-215. 163 Si veda di Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce: aggiunte, «Diacritica», 8, 2022, n. 1 (43; 25 febb.). 164 A. Negri, ED, s.v. Gentile, Giovanni. 162 del “formalismo puro” e del “contenutismo piatto”. Le divergenze tra i ‘dioscuri’ dell’idealismo nostrano, insorte per motivi personali e di adesione o meno al fascismo, trovarono un campo di attrito, ovviamente, anche in materia di dantistica, con il problema dell’unità dello spirito dantesco e della Commedia, di un Dante ideale o astratto contrapposto a un Dante reale. In Gentile, pertanto, non valgono le puntuali proposte di identificazione di personaggi e di individuazione di fatti, che sono sempre state un riflesso condizionato del “secolare commento” e che tanto avrebbe sollecitato la curiosità erudita del primo Croce,165 poiché l’allusione dell’autore non è e non ha voluto essere precisamente determinata, per riferire notizie e documenti relativi agli stessi fatti o a fatti contermini a quelli a cui Dante pensò. Le chiose valgono più spesso a distrarre che ad aguzzare l’attenzione, più a perder tempo che a guadagnarne, più a farci girare intorno al murato castello della poesia che a farcene infi166 lare la porta. Per ogni giudizio limitativo di Croce sulla poesia nella Commedia troviamo una replica, quasi interlineare, di Gentile, il quale, evidentemente, aveva presente l’ormai classico libro sulla Poesia di Dante e tendeva a stabilire con esso un dialogo a distanza di anni. Nel passo dottrinale espresso dal dubbio di Dante sull’efficacia delle preci in suffragio: … El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo che decreto del cielo orazion pieghi; e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, o non m’è ’l detto tuo ben manifesto? (Pur VI 28-33) Oltre a citare la probabile fonte puntuale in un verso di Virgilio: Desine fata deum flecti sperare precando [Cessa di sperare di cambiare i fati degli dèi con la 165 Mengaldo 1998, p. 28, ritiene il Croce erudito, d’accordo con Arnaldo Momigliano e Carlo Dionisotti, l’abito suo maggiore, insieme a quello di storico, «coi quali va del resto non poca parte del critico». 166 Gentile 1965, p. 233. preghiera] (Eneide VI 376), Gentile manifesta una perplessità: «non vedo la sottigliezza e l’assurdo che altri vede nella risposta di Virgilio».167 Per Gentile l’allegoria non è una zavorra o un intralcio nella delibazione della poesia, come pensava Croce. Nel suo sistema critico essa diventa «costitutiva, organica e vivente»; diventa il traliccio su cui cresce il rapporto tra filosofia (cioè il Tomismo e la Scolastica) e la finzione dantesca: «non definibile in astratto, bensì conoscibile soltanto come una vita di quest’uomo, del suo cuore, della passione del suo cuore».168 La scelta comprensibile di spiegare l’antefatto dell’episodio di Sordello porta Gentile a ripercorrere rapidamente, nella sua lettura, gli incontri dei primi canti avuti da Virgilio e Dante, quasi per riudire e pregustare il “miracolo dell’arte” sotto osservazione, i cui segni «brillano in cielo dalle squarciate nuvole».169 Per il distacco che si verifica tra le due prime cantiche Gentile si rifà a quanto Croce aveva scritto nella raccolta del 1921, insistendo sul passaggio dall’«oscurità che avvolge l’anima percossa e trascinata dalla passione peccaminosa» alla «luce dello spirito che si avvia alla purificazione e alla libertà» attraverso la “cantica tramezzante”.170 Tuttavia Gentile si smarca dal “modulo critico distinzionistico” di Croce, recuperando invece un esercizio critico integrale sull’opera dantesca; nella sua interpretazione prevale l’unità indissolubile, dialetticamente risolta, tra filosofia e poesia. L’economia della lettura monografica di un singolo episodio legato al personaggio di Sordello consente al filosofo di Castelvetrano di indugiare su alcuni aspetti di psicologia della rappresentazione collettiva. Le anime «accortesi che Dante è ancora vivo», per via del fatto che dal suo corpo si staglia un’ombra (Pur V 2527), gli si fanno attorno per curiosità: Quando s’accorser ch’i’ non dava loco/ per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,/ mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco;/ Allo stesso modo è sommerso di richieste di mance il vincitore nel gioco della zara al trivio di Mercato vecchio. Solo che la mancia implorata a Dante dalle anime purganti è fatta delle preci da richiedere ai parenti superstiti; e promettendo mi sciogliea da essa (Pur VI 12). Il “tono” della scenetta da vita quotidiana appare a Gentile «piuttosto sconcertante» per lo stacco con personaggi aulici del canto precedente (gli uomini d’arme Jacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro), che avevano più dell’eroismo del sacrificio che non della “marmaglia” di «miserabili postulanti» antipurgatoriali: «queste anime son condannate a restar fuori della porta del Purgatorio per tanto tempo quanto ne indugiarono a pentirsi dei loro peccati».171 E in effetti la perplessità e lo sconcerto del Gentile lettore ha una sua motivazione, quando si affianchi la scena della zara, con i «pitocchi che si fanno alle costole del fortunato vincitore del giuoco», alla appena narrata vicenda tragica di Pia de’ Tolomei, ricorditi di me (Pur V 133). La spiegazione psicologica che Gentile fornisce per le scelte tonali a contrasto di Dante sta in questo: «si guarda, ma dall’alto, e se ne ride».172 Per Gentile, dunque, l’anima dolcemente ricordante e sospirante di Pia vale quella di Francesca appassionata e temeraria. Come i suoi personaggi anche il Dante-autore «muta tono, perché è la poesia di un altro uomo, che ha il suo stile, ed è nel suo nuovo stile». Quello stile collima ora con la cantica delle anime purganti. Una «umanità più veramente umana» attraverso la quale «l’arte, si può dire nel linguaggio dei filosofi, è dialettica».173 167 Gentile 1965, p. 224. Gentile 1965, pp. 189-190. 169 Gentile 1965, p. 219. 170 Gentile 1965, p. 218. 168 35 171 Gentile 1965, pp. 215-216. Ivi, p. 217. 173 Gentile 1965, p. 221. 172 Nel movimento di una mente, quella del Dante-personaggio, che volge le spalle al «bruto sentire» per tendere alla «luce della ragione che ci fa trasumanare e indiare», Gentile ha buon gioco nel prospettare accenni, almeno lessicali, del suo sistema di “idealismo attuale” o Attualismo. Vale a dire l’‘atto’ non nel senso aristotelico di realtà che è già tutto quello che può essere nella sua perfezione (actum); ma diversamente nel senso di actus in azione, o realtà che è in quanto si fa ed è destinata a trapassare o meglio a “trasfigurarsi” come sintesi spirituale.174 «Non è questo il dramma attuale, vivo, della nostra vita? L’azione non compiuta, ma nell’atto del suo compiersi?»,175 con il tendere «alle cose divine ed eterne dell’arte e della religione».176 Atto è la stessa autocoscienza come processo pratico e teorico insieme di (auto)fondazione. Per Dante […] l’intellettualistico concetto dell’essere è solo un elemento di un concetto più profondo, più veramente cristiano, più moderno: del concetto, che lo spirito umano non ha fuori di sé, già attuato, il suo mondo; ma deve produrlo egli stesso, faticando, durando nelle battaglie, con cui è destinato a vincer tutto. Questo concetto, questa fede di Dante è il rovente crogiuolo, in cui egli fonde l’immane materia accolta dalla vita e dalla storia universale nella sua vasta fantasia, per foggiarne la profezia, con cui egli non colpisce soltanto l’immaginazione, ma scuote e scoterà sempre i cuori degli uomini, per ani177 marli alla vita. 174 Cfr. DBI, 53, 2000, s.v. Gentile, Giovanni, a cura di Gennaro Sasso: «assunto nella prospettiva dell’atto, il “fatto” è bensì l’astratto che quello, l’atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la sua “determinatezza”, si rivela altresì, nel processo costitutivo dell’atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza che, nell’idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto, della “trasfigurazione”». 175 Gentile 1965, p. 219. 176 Ivi, p. 220. 177 Gentile, La filosofia di Dante, in Gentile 1965, pp. 179-211, alle pp. 210-211. 4. La critica d’arte come stilistica L’attacco del canto VI, con la scena del gioco della zara, parola rimante solo con impara (come sempre per le parole in rima di inizio e fine canto che sono solo due), in un binomio dal sapore vagamente gnomico, ha qualcosa del quadretto realistico di tante scene di parabole bibliche. Il tema della compagnia di persone adunate e descritte nella spontaneità degli atteggiamenti, nell’istante di massima espressività, sarebbe potuto entrare in qualche ritratto di scena di gruppo alla maniera di Rembrandt (per es. la Ronda di notte), con una composizione teatrale ricca di vitalità, energia, movimento, data dal motivo del gioco d’azzardo. Nel gruppo della turba spessa (Pur VI 10) di coloro che sono morti violentemente descritto da Dante, mentre li si reca a mente (6) – qualcuno della compagnia si ricorda a lui, si mette in mostra –, vi sono «alcuni personaggi di cui si fa poco più che il nome. Essi servono come esempi che rendono concreta quella folla, quasi rendendovi riconoscibili dei volti, e insieme sono denuncia del costume di feroci odi e sangue che affliggeva le città d’Italia, per cui era così facile enumerare una serie di uccisi».178 De Sanctis sbagliava quando in una prospettiva ‘storicistica’ pensava che «le figure di Dante, rapidamente disegnate nei loro tratti salienti, gli sembravano accenni di qualcosa che dovesse svolgersi nell’avvenire, che aspettasse la sua piena vita dallo Shakespeare e dalla letteratura moderna in genere»,179 così da far pensare a una sorta di “non-finito” miche178 Chiavacci Leonardi nel commento a partire dal v. 13 di Purg. VI. 179 Così Croce 1966, p. 196, che a p. 198 giudica tali aporie come «vizî del sistema». 36 langiolesco, lo “sbozzo” ricordato all’inizio, che risulta pur sempre riuscito ai fini del messaggio artistico. Una cifra stilistica di resa letteraria che la critica avrebbe riservato successivamente per definire certi personaggi di Dostoevskij, sentiti come «forze della natura generantisi, generanti faticosamente ciascuno il proprio essere, come se lo partorissero. […] questa loro ansia espressiva, il sovracompensarsi delle loro parole e gesti, li rende così simili alle muscolature sovracompensate del manierismo italiano»;180 oppure per restare nel campo dell’iconografia dantesca possiamo pensare alle illustrazioni manierate di Doré, le cui incisioni in bianco e nero della Commedia sono unanimemente considerate dalla critica un perfetto connubio tra l’effetto della tecnica illustrativa e la vivida immaginazione visiva di Dante.181 La confidenza di De Sanctis per il lessico della critica d’arte dovette essere alimentata dalla stretta amicizia che ebbe con lo storico dell’arte Giovanni Morelli (18161891) – proprio il teorico del metodo attributivo in pittura, riscoperto e valorizzato da Carlo Ginzburg in un famoso saggio.182 Morelli all’epoca rivestiva un ruolo che gli permise nel 1855-56 di proporre De Sanctis per la cattedra di letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. In Svizzera De Sanctis rimase fino a quando, dopo il rientro nella penisola, divenne direttore dell’Istruzione a Napoli nel 1860. Egli si sarebbe sdebitato affidando a Morelli il compito di indagare sulla situazione dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, ruolo a cui seguì la partecipazione alla commissione incaricata di formulare un 180 F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 1994, da Igor Sibaldi, Introduzione, p. XIV. 181 La Commedia illustrata da Gustave Doré, https://www.bibliotecamai.org/ariveder-le-stelle-commedia-illustratada-gustave-dore/. 182 Carlo Ginzburg, Spie: radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti, emblemi, spie: morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, pp. 158-193. progetto di legge sulla conservazione dei beni artistici.183 Il gusto da lettore-osservatore in De Sanctis poteva discernere tra ciò che è «molto per la pittura, ma poco per la poesia», riferendosi alla figura dell’angelo nocchiero che trasporta le anime al lido del Purgatorio. Viceversa manifestava scetticismo sulla capacità di rendere in prosa o in poesia una scultura che, invece, se «veduta si comprende subito e genera un godimento estetico immediato».184 È il motivo per cui Dante per rendere la visione dell’anima lombarda … altera e disdegnosa (Pur VI 61-62) pensa bene di scorciare la descrizione appassionata con il ricorso alla similitudine, a guisa di leon quando si posa (66), dai critici sopra ricordati giudicata dal valore statuario: «l’immagine fa da suggello al quadro, riassumendo in sé l’atteggiarsi, non solo esteriore, ma anche interiore della figura descritta» (Chiavacci Leonardi). Come caso di scuola nella Commedia si può prendere il celebrato episodio della descrizione di esempi di virtù intagliati nella pietra della prima cornice del Purgatorio (canto X). De Sanctis svolge una teoria delle arti plastiche che sembra contraddire la sentenza di Winckelmann (di cui si dirà fra poco): la natura non può essere rappresentata da tutte le arti allo stesso modo, ma sotto questo o quell’aspetto, secondo la materia e l’istrumento di ciascuna. [...] L’anima pare con più chiarezza nella pittura; perché ella ha qualche cosa più potente assai della pietra e del marmo, flessibile e quasi incorporea, la luce, graduata nei colori, che prima dona alla cieca statua l’occhio, parola dell’anima [...]. Ma architettura, scultura o pittura che siasi, queste tre arti dette plastiche o corporali, una cosa [il corpo espresso] mostrano all’occhio, un’altra [l’anima sottintesa] lasciano nell’immaginazione [...]. A questo difetto delle arti plastiche supplisce la parola, che nulla mostra al senso, non vi dà figura o colori, ma comunica da anima 183 Cfr. la scheda “Giovanni Morelli”, nel Dizionario biografico dei protestanti in Italia, https://www.studivaldesi.org/dizionario/ evan_det.php?evan_id=407. 184 De Sanctis 1955, p. 338. ad anima senza mezzo di corpo; e perciò potentissima ad esprimere la parte interiore della vita, i sentimenti e i pensieri. [...] lo scultore rappresenta il corpo per farci indovinar l’anima; egli [il poeta] rappresenta l’anima per farci indovinare il corpo [...] non riproduce la figura in tutti i suoi accidenti, ma sceglie alcun tratto più direttamente congiunto con l’anima, dal quale si possa argomentare il ri185 manente del corpo scultorio. Parole importanti, come si evince dall’influenza che esse hanno avuto sulla riflessione estetica di Croce e Gentile; una “filosofia dell’arte” nella quale essi appuntarono una parte cospicua del loro pensiero.186 Il linguaggio da critica d’arte, portato a sviluppo e perfezionamento da Roberto Longhi,187 sarà ripreso in chiave di 185 De Sanctis 1955, pp. 338-339. Il brano è tratto dalla Lezione undicesima: “Situazione poetica del Purgatorio. L’elemento descrittivo. Gli esempi di virtù”. 186 Nell’ampia bibliografia, sia soggettiva che critica, si può partire dal contributo di Carlo Mazzantini, L’estetica di Benedetto Croce e la filosofia dell’arte di Giovanni Gentile, a cura dell’Associazione culturale “Augusto Del Noce” di Torino, Coop. L’Arca, Torino 1995. 187 Il piemontese Longhi aveva conseguito la licenza liceale al Gioberti di Torino (nel 1907), dove a condurlo «per mano alla critica letteraria di Francesco De Sanctis fu, verso il 1906, l’indimenticabile Umberto Cosmo», noto dantista con cattedra universitaria. Longhi poi diresse per gli anni 1938-40 la rivista «La Critica d’arte», fondata nel 1935 da Ragghianti e Bianchi Bandinelli e pubblicata dalla Sansoni, casa editrice rilevata nella conduzione da Gentile a partire dal 1936. Il titolo del bimestrale si rifaceva alla rivista di Croce. Inoltre l’Estetica del filosofo trapiantato a Napoli fu il primo amore di Longhi, fin dai tempi della tesi discussa nel 1911. Da parte sua Croce, La critica e la storia delle arti figurative e le sue condizioni presenti (1919), ora in Id., Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, Bibliopolis, Napoli 1991 (1920), pp. 249 sgg., prese in ammirazione Longhi «per essere uno scrittore (per dirla alla tedesca) temperamentvoll, esercita una notevole efficacia sui presenti studi italiani di storia dell’arte». Cfr. DBI, 65 (2005), s.v. Longhi, Roberto, a cura di Simone Facchinetti. Si veda 37 critica letteraria da un suo ammiratore, Gianfranco Contini.188 Da ultimo si segnala un progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) sulla “proposta di schede lessicografiche per la lingua dell’arte”.189 Per la scultura vale sempre il richiamo a Michelangelo Buonarroti (1475-1564), il quale – a detta di Croce – «patì una tragedia estetica, quella dell’inadeguatezza della forma all’ispirazione, della possa all’alta fantasia».190 Croce spiega il giudizio limitativo, magari da circoscrivere ai pezzi non-finiti del genio di Caprese (prov. di Arezzo), con l’affermazione che «i romantici [...] confondevano sovente la passione come ‘materia’ con la passione come ‘forma’, deprimendo l’idealità dell’arte».191 Di nuovo Gentile non perde occasione di dissentire dal suo collega più anziano, anche indirettamente senza farne il nome: «con tutto il rispetto che io sento schiettamente per l’insigne critico». All’altezza del 1939, quando Gentile fornisce la lectio dantesca, il dissidio tra i due era pienamente consumato da oltre un decennio in no- la recente monografia di Chiara Murru, Tra Piero della Francesca e Caravaggio: studio sul lessico di Roberto Longhi, FrancoAngeli, Milano 2022 e Ead., ‘Quasi dopo un viaggio dantesco’: le parole di Dante negli scritti di Roberto Longhi, «Studi di lessicografia italiana», 38, 2021, pp. 319-346. 188 Manuela Marchesini, Scrittori in funzione d’altro: Longhi, Contini, Gadda, Mucchi, Modena 2005. 189 Il progetto rientra nella compilazione di un Vocabolario dinamico dell’italiano moderno (VoDIM), di cui alcune notizie si trovano in un articolo di Barbara Patella, ospitato nel sito dell’Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/cont enuti/titolo/8002 190 Croce 1966, 205. Per capire meglio la terminologia crociana, Croce, a p. 181, in relazione al giudizio della poesia dantesca dato da Vico, scrive di «una nuova dottrina che si sarebbe svolta nei secoli seguenti e si sarebbe chiamata Estetica, scienza della fantasia, scienza dell’intuizione, o in altri modi». 191 Croce 1966, p. 189. me dell’adesione o meno al fascismo.192 Gentile ricorre al connettivo «È stato detto da un critico…», per dissentirne riguardo al giudizio sulle figurazioni pittoriche e scultoree del canto X del Purgatorio: «il quale luogo discrive l’auttore sotto certi intagli d’antiche imagini».193 Le illustrazioni di virtù e superbia «rispecchiano un mondo da cui l’anima è lontana», «al calore della vita vissuta subentra perciò il freddo contemplare dello spirito pacato e sereno e l’attenuarsi e il venir meno della poesia. La quale richiede senso e passione e impeto e caldezza e corpulenza di fantasia scevra o povera di riflessione», passi di Gentile che sembrano parodiare il gusto di Croce per le tinte romantiche.194 Ma sappiamo ormai come Gentile volesse prendere le distanze dai «soliti critici armati di coltello anatomico». Nell’argomentare di rimessa egli ha modo di delineare la sua estetica, rispetto a quella crociana: [...] dove entra la pratica, un interesse o movente della vita reale in cui l’uomo opera, la poesia è ita. Tutto vero, ma in astratto. In concreto, nulla è per sé stesso impoetico e refrattario al soffio animatore dell’arte. Convien vedere se la pratica resta grezza e massiccia pratica, o se essa si fonde al fuoco della ispirazione 195 poetica. Croce, d’altra parte, tende a vedere nelle «tante figure che [Dante] ha disegnate, miti e dolci» nel Purgatorio un poetare flebile rispetto «al suo più vero ideale, al propriamente dantesco, a quello dell’energica volontà e passione» dei personaggi dell’Inferno.196 All’altezza del 1921, cioè della raccolta dei saggi danteschi, Croce si dichiara debitore verso quel taglio “veristico” del Romanticismo critico inteso come una de192 I due “manifesti degli intellettuali”, pro e contro il fascismo, furono redatti e firmati da loro per primi nel giro di due mesi nel 1925. 193 Dalla rubrica dell’edizione Petrocchi. 194 Gentile 1965, p. 220. 195 Gentile 1965, p. 231. 196 Croce 1966, p. 122. clinazione di “poesia violenta”, la stessa che Thomas Carlyle197 tacciava di “byronismo”, cioè grandi individui storici, possenti creature della fantasia o dell’agiografia, che popolavano la cultura medievale, tramutate in personaggi da epopea. Fig. 2 - Sordello davanti a Virgilio, particolare del Monumento a Dante situato nel parco antistante la stazione ferroviaria di Trento. – La scultura, opera del fiorentino Cesare Zocchi, fu commissionata quale simbolo della lingua italiana e dell’italianità della città nel 1896. - © Jaqen. Il gruppo scultoreo della Fig. 2 ritrae l’incontro-agnizione di Sordello e Virgilio, con un pathos che «rimane scolpito in quell’abbraccio e in quel grido», 198 e che Croce avrebbe approvato, o forse ebbe modo in persona di manifestare il proprio consenso in occasione di una visita (ammesso che sia avvenuta) nella città irredenta. Il gruppo, infatti, assolve bene il requisito della cosiddetta corposità o plasticità degli autori di letteratura e degli estratti di poesia cari al Croce; per giunta adatti allo stile critico caratterizzante e descrittivo. Invece il concetto estetico-filosofico ossia una formula di critica d’arte che sintetizzi la poesia dantesca in generale per come la intendeva Gentile possono essere demandati all’illustrazione che fece John Flaxman della stessa scena di Sordello e Virgilio mentre si abbracciano (Fig. 3). Il 197 Si veda ED, s.v. Carlyle, Thomas, a cura di Eric R. Vincent. 198 Si cita da Gentile 1965, p. 230. L’espressione è stereotipata, pur calzando con lo stile drammatico che caratterizza il dettaglio del monumento scultoreo di Trento. 38 risultato è di «calma nel suo gran vigore» – un effetto che può ricordare le categorie di “nobile semplicità” e di “quieta grandezza” usate da Winckelman a proposito della statuaria classica. La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima 199 grande e posata. La scena e i personaggi sono gli stessi del luogo analizzato nella Commedia; cambia la tecnica: dalla scultura all’incisione, con una resa differente. Quei moti dell’anima di Sordello restano quasi sottintesi, resi ellittici nella compostezza del disegno, i quali sembrano così rendere bene la trasfigurazione della sintesi spirituale tra “atto e “fatto” cara a Gentile. Fig. 3 - Illustrazione dell’abbraccio tra Sordello e Virgilio. Il disegnatore John Flaxman fu incaricato nel 1792 da Sir Thomas Hope di eseguire una serie di illustrazioni di canti della ‘Divina Commedia’, da cui ricavare le incisioni. Nel 1793 il lavoro era completato. Una prima tiratura fu effettuata ad Amsterdam, l’immagine sopra è tratta da quell’edizione privata del 1795. Un’altra serie di 111 stampe, con lastre incise al bulino da Tommaso Piroli, vedeva la luce a Roma nel 1802. Le incisioni stampate potevano leggermente variare da una pubblicazione all’altra, anche per le varie mani degli esecutori dei disegni delle matrici, derivanti dal ciclo originale. 199 Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, scritto uscito nel 1755. Si cita dall’edizione Einaudi, Id., Il bello nell’arte: scritti sull’arte antica, a cura di Federico Pfister (19483). De Sanctis di fronte a «certi intagli d’antiche imagini» di Pur X, scrisse che la «poesia rappresenta l’espressione che esce dalla figura, non la figura: guardate l’intaglio, e quella figura vi sta netta innanzi; leggete la poesia, e quella figura vi fluttua innanzi come un’ombra».200 Pur sapendo che la mimesi vera e propria, intesa cioè come complesso di “equivalenze”, è possibile solo quando il linguaggio del critico non è quello stesso dell’opera. […] Per le stesse ragioni, ma a rovescio, può ben darsi che le arti non della parola lascino, in linea di principio, più libero di sbrigliarsi colui che ne parla, mentre la letteratura trattiene di più il critico entro il 201 proprio cerchio. Ernesto Giacomo Parodi, poi, in virtù dell’essere considerato un epigono del gusto e del modo di affrontare il testo proprio di De Sanctis, arricchirà la linea del ragionamento del ‘maestro’ fatta di intuizioni critiche. Invero si parlò di “seconda scuola” del De Sanctis anche per un altro filologo e letterato, Francesco Torraca.202 Entrambi i critici ebbero la benedizione di Croce. Quali erano le peculiarità di questa scuola? In essa si avvertiva l’esigenza crescente di un carattere inteso a descrivere «l’incontro del critico con l’autore al di dentro dell’opera poetica, rivivendo con lui la genesi della poesia e le passioni del suo animo e del suo tempo».203 Parodi avrebbe puntualizzato le differenze tra De Sanctis e Croce 200 De Sanctis 1955, p. 340. Mengaldo 1998, p. 18 della Premessa. 202 Francesco Torraca, Francesco De Sanctis e la sua seconda scuola, «La Settimana» 1 (7 dicembre 1902), n. 33; poi nella miscellanea a cura sempre di Torraca, Per Francesco De Sanctis, Napoli [etc.], Perrella, 1910, pp. 91-117. Si veda anche di Giancarlo Mazzacurati, La critica dantesca di Francesco Torraca e la ‘seconda scuola’ del De Sanctis, Olschki, Firenze 1966, pp. 83-103; estratto da Atti del congresso nazionale di studi danteschi “Dante e l’Italia meridionale”, Caserta 10-16 ottobre 1965. 203 Romagnoli, in De Sanctis 1955, p. XIX. 201 in uno scritto commemorativo per l’autore della Storia della letteratura italiana: nessuno mai penetrò con più acuto sguardo di lui nell’essenza dell’opera d’arte, nessuno come lui seppe vivere della sua vita […]. Qui è veramente la sua forza e la sua particolare fisionomia, che rende impossibile e vano il porlo a confronto con altri critici. Le sue novità furono certo anche d’ordine teoretico, e furono belle e vere novità, quantunque egli non pensasse mai, come scrisse il Croce che ci pensò, a farne un compiuto sistema, organico e ben corrispondente in tutte le sue parti, senza reali o apparenti contradizioni. Ma l’estetica non è la critica [c.vo mio], benché noi senza dubbio dobbiamo ammirare nel De Sanctis anche il filosofo, che costruisce logicamente e indica nuovi e sicuri principi meto204 dici. 5. Conclusioni In Croce la storiografia è la chiave centrale e unitaria del suo sistema critico, come evidente fin dalla memoria giovanile del 1893 La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte.205 La lettura di Croce della poesia di Dante è tutta calata nella storia per farne un’analisi al presente, un manifesto della “religione della libertà”, una verifica sulla identificazione di filosofia e politica, e di filosofia e ideologia; traguardi a cui Croce sarebbe giunto con la pubblicazione della Storia d’Europa nel secolo XIX (1932), vale 204 Ernesto G. Parodi, De Sanctis, «Il Marzocco», 15, 6 marzo 1910, n. 10, p. 2; i fascicoli della rivista sono digitalizzati nel sito del Gabinetto Vieusseux, https://www.vieusseux.it/coppermine /index.php?cat=25. 205 Memoria letta all’Accademia Pontaniana nella tornata del 5 marzo 1893 dal socio Benedetto Croce, Tip. della R. Università, Napoli 1893 (vol. 23 degli “Atti dell’Accademia pontaniana”). 39 a dire «il momento attuale dello sviluppo storico mondiale dell’idealismo» (per dirla con le parole di Gramsci). Se volessimo «trasportare le nostre idee moderne ai tempi di Dante»,206 in fondo quel disegno universalistico che egli vedeva nell’impero, noi europei ed occidentali del primo quarto del XXI secolo ci eravamo abituati a vederlo realizzato nella cultura capitalistica e consumistica, con i primi accenni, purtroppo tardivi, di sviluppo sostenibile. Uno storico sul finire del secolo passato aveva chiamato quel paradigma, et pour cause, la “fine della storia” – la realizzazione pacifica di un giardin de lo ’mperio (Pur VI 105). Ma al riscontro odierno degli accadimenti internazionali, risulta che quella previsione era sbagliata essendo tornata alla ribalta l’aiuola che ci fa tanto feroci (Par XXII 151). La proiezione in avanti di Gentile si coglie a proposito dello status di “profeta” di Dante, oggetto di un’altra lettura tenuta nel 1918, annunciatore di una forma di “stato etico”. La vita dello Stato infatti è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un’idea, proprio come ogni Chiesa insegna. Quella devozione, che fa il soldato sicuro incontro alla morte necessaria alla patria, ma fa anche ogni cittadino negli uffici più prosaici e meno rischiosi, ma non meno difficili, di tutti i giorni, inflessibile nella coscienza e nella volontà del dovere; ignaro, come il Veltro dantesco, di un interesse privato che non sia quello medesimo 207 dell’idea di cui egli è servitore. Nella prolusione del 1872, per il ritorno all’insegnamento sulla cattedra dell’ateneo napoletano, De Sanctis annunciava all’aula di scolari un obiettivo risultante dal leggere la Divina Commedia, ad usum Delphini. Essi dunque si apprestavano – secondo la nota formula latina – a diventare la nuova classe dirigente, distin206 De Sanctis 1955, p. 74. Gentile, La profezia di Dante, in Gentile 1965, pp. 133-175, alle pp. 174-175. 207 guendo però il significato originario della locuzione, dai tipici risvolti monarchici, classisti e spregiativi, con una sfumatura positiva e democratica perché il “Delfino” finalmente era destinato a identificarsi in loro, giovani destinatari dell’insegnamento e, in prospettiva, giovani promesse del futuro e prossimi testimoni dell’Italia a venire.208 Proprio ad un cortocircuito all’insegna della didattica e dell’educazione possiamo riscattare De Sanctis da una presunta condizione di intellettuale ‘fuori moda’, almeno allo stato degli studi e della riflessione odierni. Tutti noi addetti ai lavori, discenti e docenti, relatori e ascoltatori in remoto, abbiamo imparato a conoscere la cosiddetta “didattica a distanza” (DAD, in acronimo), una soluzione di emergenza per la pandemia globale. Essa è anche diventata una comoda opportunità con i collegamenti a distanza da ogni dove, con cui abbiamo ormai familiarizzato nostro malgrado – come dimostrano i lavori del convegno madrileno svoltisi per lo più in remoto. Ebbene De Sanctis, nella lontana metà del XIX secolo, esprimeva per lettera, con sorprendente attualità rispetto a ricadute psicologiche e sensazioni con le quali in parte continuiamo a convivere, la tristezza e il disorientamento di un insegnante nel fare lezione di fronte ad un’aula vuota: non puoi credere, quanto mi è difficile fare una lezione, quando non ho 209 innanzi a me un pubblico. ROSSANO DE LAURENTIIS 208 La prolusione fu intitolata La scienza e la vita. Cfr. http://www.filmod.unina.it/antenati/DeSa nctis.htm. 209 De Sanctis, Lettere dall’esilio, cit., p. 166. 40