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IL NAZIONALISMO
ITALIANO,
APPRENDISTA
STREGONE
Data: 11 Agosto 2021 - Di Danilo Breschi
Rubrica: Letture
Recensione a
G. Parlato, La Nazione dei nazionalisti. Liberalismo,
conservatorismo, fascismo
Fallone Editore, Taranto 2020, pp. 224, €22.00.
L’apprendista stregone. Così potremmo descrivere la parabola del
nazionalismo italiano. Intendiamo per apprendista stregone colui che evoca
forze che non è poi in grado di padroneggiare e che prendono il sopravvento su
di lui, finendo per governarlo. Si rovescia così il rapporto tra chi crea e chi è
creato. Il secondo comanda il primo, comunque lo assoggetta e subordina a sé.
Lo condiziona, quantomeno. In termini analoghi potrebbe essere considerato il
rapporto tra nazionalismo e fascismo.
Scrive Giuseppe Parlato nell’introduzione a questa sua raccolta di studi, sei
già pubblicati (tra il 1983 e il 2020) e uno inedito, ripresentati in veste
aggiornata grazie all’editore Fallone, evidenziando come da una nuova
ricognizione della vita, del pensiero e dell’opera di personalità di quel vario e
complesso movimento culturale sorto in Italia a fine Ottocento «si può
comprendere come i nazionalisti considerassero i fascisti degli scolari neppure
troppo attenti e soprattutto ancora legati al virus rivoluzionario» (p. IX). Vario
lo fu, il nazionalismo italiano. Recuperando la feconda intuizione storiografica
di Gioacchino Volpe, che fu peraltro parte in causa dell’oggetto esaminato,
Parlato evidenzia come questa varietà fu anzitutto doppia, ossia sul piano
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dottrinale e su quello geografico. Differenze considerevoli correvano tra il
gruppo torinese del «Tricolore», esaminato attraverso la figura di Vittorio
Cian, e quello emiliano di Luigi Federzoni. Il primo gruppo era imperialista,
mentre il secondo era di più stretta ascendenza risorgimentale. Poi c’era il
gruppo romano, maggiormente coinvolto a livello politico, mentre quello
veneto era legato all’irredentismo e dunque anti-austriaco. Da non
dimenticare poi il nazionalismo meridionale, imperniato su una visione
filosofica di stampo neohegeliano che contraddiceva la tendenza positivistica
prevalente all’interno dell’Associazione nazionalista italiana, sorta a Firenze
nel dicembre del 1910.
Parlato segnala «l’assenza di un pensiero unico interno al mondo
nazionalista» (p. V), il che giustifica maggiormente la rassegna che propone
con questo volume significativamente intitolato La Nazione dei nazionalisti.
Liberalismo, conservatorismo, fascismo. Non è un caso che il primo sostantivo del
titolo, oggetto precipuo dell’analisi, sia con l’iniziale maiuscola. È la nazione il
dato accomunante, ma le sue declinazioni possono essere, e furono,
innumerevoli. Chi sottolineava il problema dell’emigrazione, chi la
collocazione nel contesto internazionale, chi la centralità del lavoro. Ad
accomunare tutti un nemico, come sempre. Il “noi” si definisce in funzione di
“loro” che ingrossano le proprie file ed avanzano apparentemente
inarrestabili: i sostenitori dell’internazionalismo proletario, in questo caso.
Non evoluzione naturale del liberalismo in senso conservatore, il nazionalismo
italiano, preso nel suo insieme, intendeva anzitutto allargare l’idea liberale di
nazione.
Come ha osservato Carlo Curcio, i cui studi opportunamente recuperati da
Parlato sono diventanti per lui fonte di numerosi stimoli interpretativi, era ben
radicata «nell’Italia liberale tra il 1870 e la fine del secolo, la convinzione che la
base sociale dello Stato andasse allargata, che bisognasse risolvere il problema
dell’emigrazione con un’adeguata politica coloniale, che il sistema politico
andasse difeso dalla prepotenza del Parlamento, che andasse debellata la
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corruzione, che lo Stato fosse politica ed educazione e non solo
amministrazione» (p. VI). La rivendicazione di un ruolo centrale e, per certi
aspetti, onni-interveniente dello Stato fu un tratto distintivo del nascente
movimento nazionalista, il quale operò per mobilitare le masse al fine di
chiedere che questo interventismo statale prendesse forma e sostanza. La
guerra di Libia fu il primo atto di una formazione che, provenendo da destra,
adottava modalità sovversive di propaganda, tanto da introdurre la distinzione
tra “italiani” e “non-italiani”, individuando negli internazionalisti, socialisti
in primis, il “nemico interno”. La premessa di una messa in moto di mutamenti
radicali era la guerra, perché questa avrebbe anzitutto trasformato il ruolo
dello Stato, ristabilito dunque il primato della politica, a cui economia e diritto
venivano subordinati e tra loro coordinati. In tal senso decisivo appare oggi il
contributo in termini di cultura politica apportato nell’ultimo quarto
dell’Ottocento da Pasquale Turiello, il quale, dalle posizioni di una Destra
storica rivissute e reinterpretate in modo originale, ad esempio partecipando
nel 1860 alla conquista garibaldina del Mezzogiorno, pose al centro la
questione coloniale in una prospettiva espansionistica, simpatizzando per la
politica crispina a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Aggiungendo una
durissima critica antiparlamentare e l’avversione alla democrazia liberale,
Turiello, «da buon positivista inconsapevole o riluttante» quale in fondo era,
fornì «le matrici culturali e politiche del colonialismo nazionalista» (p. 29),
come Parlato sottolinea riprendendo felici intuizioni di Curcio e di Franco
Gaeta. È con Turiello ed intorno alla sua pubblicistica che la cultura liberale
conservatrice degli ultimi due decenni dell’Ottocento assume contenuti e
contorni che la volgono verso un nazionalismo culturale che prenderà poi
forma organizzativa politica, infine partitica, nel corso del primo decennio del
nuovo secolo.
La guerra libica, tra il settembre del 1911 e l’ottobre del 1912, «introdusse
almeno due elementi di assoluta novità nella politica italiana, la funzione
mediatica e il concetto di nemico interno» (p. 73). In qualche misura, si trattò
delle prove generali per quanto accadde con la Grande guerra e la spaccatura in
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Italia tra interventisti e neutralisti, con l’accresciuta «tendenza a dividere gli
italiani fra quelli che rappresentano la nazione e quelli che rappresentano
l’antinazione» (p. 77). Se il mito della rivoluzione faceva proseliti a sinistra,
quello di una controrivoluzione preventiva attecchì presso una destra
culturale, molto attiva nella pubblicistica anche a larga diffusione. Non si
trattava di fuoriuscire dal solco del Risorgimento nazionale, tutt’altro.
Occorreva semmai recuperare l’afflato ideale e la spinta monarchica presenti
in quella aurea stagione, due decisivi aspetti culturali ed istituzionali
abbandonati o sviliti da una politica governativa impaludatasi nei meschini,
particolaristici e corrompenti compromessi tipici del sistema parlamentare.
Il volume di Parlato merita attenta lettura anche per una serie di ritratti che
mancavano nella galleria dei nazionalisti oggetto di analisi storiografica, come
quelli di Vittorio Cian e Carlo Delcroix, nonché per un ripensamento critico
della interpretazione che Luigi Federzoni fornì nel secondo dopoguerra per
tentare di scindere i legami tra nazionalismo e fascismo, in particolare quello
più maturo, «denso di populismo rivoluzionario e di velleità rivoluzionarie» (p.
X). Ed è su questo punto che alcuni capitoli apportano significativi
arricchimenti al dibattito storiografico. In particolare il quarto, dedicato
proprio al rapporto tra nazionalismo e fascismo. È, com’è noto, una vexata
quaestio, a lungo dominata dall’interpretazione elaborata in contemporanea
allo svolgersi degli eventi da Luigi Salvatorelli con il suo Nazionalfascismo,
pubblicato nel 1923 per i tipi di Gobetti, raccolta di articoli giornalistici redatti,
soprattutto per “La Stampa”, dopo il 1919.
Il punto, ben evidenziato da Parlato, è che al termine della Grande Guerra i
nazionalisti temettero di vedere esaurita la loro funzione. Chiave fu, in tal
senso, il ruolo svolto da Alfredo Rocco con la sua proposta teorica e politica
della costruzione di uno Stato nuovo, che di quell’inedita così prolungata e
rivoluzionaria esperienza bellica tenesse debito conto, sia dal punto di vista
della politica economica sia della più generale riorganizzazione della pubblica
autorità, con tutte le istituzioni annesse e connesse. Nota a tal proposito
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Parlato: «i nazionalisti provarono a costruire un’alternativa allo Stato liberale,
del quale vedevano tutti i limiti», e soprattutto Rocco «aveva compreso più e
meglio degli altri suoi sodali l’effetto devastante del conflitto mondiale sulle
forze politiche, in particolare quelle di matrice liberale, considerate le vere
sconfitte dalla guerra e non solo a livello nazionale» (p. 103). E aggiunge
ancora, individuando nell’impresa fiumana il punto di svolta e il segnale che
tra monarchia e classe politica liberale la sintonia e le alleanze si erano fatte
labili, potenzialmente sostituibili, comunque integrabili con elementi nuovi,
provenienti dalle file del nazionalismo e di qualsiasi proposta politica e
culturale avanzata in nome dell’ordine pubblico e della reazione antisocialista:
i nazionalisti, quindi, – scrive Parlato – compresero che per
sopravvivere avrebbero dovuto mutare linea, entrando nel gioco
democratico con una logica “rivoluzionaria e antidemocratica”: in questo
senso l’impresa di Fiume fu un’occasione da non perdere. Per i
nazionalisti, l’impresa dannunziana era doppiamente importante: da un
lato rappresentava tangibilmente un modello di “eversione nazionale”,
cioè una forma indubbiamente antilegalitaria rappresentata dalla
“diserzione” dei legionari, necessaria per ripristinare quella legalità che
lo Stato liberale e la sua classe dirigente non erano riusciti più a imporre;
nello stesso tempo Fiume voleva dire riconciliarsi con l’irrendentismo e
ciò contribuiva a riunire tutte le componenti del nazionalismo, da quelle
fortemente conservatrici e risorgimentali, a quelle più eversive (pp.
103-104).
Dopo la fusione nel 1923, la storia dei rapporti tra nazionalismo e fascismo
resta però ancora da scrivere. Parlato lo sa e lo afferma a chiare lettere, ma
fornisce, sin dall’introduzione, alcune indicazioni di metodo utili per un fertile
prosieguo degli studi sul tema. Da studioso, tra i maggiori in Italia ed Europa,
del sindacalismo fascista e delle numerose espressione politiche e culturali che
da dentro il regime mussoliniano tentarono di dare sbocchi rivoluzionari e/o
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variamente socialisteggianti all’esperimento sorto dopo la marcia su Roma,
Parlato ricorda come «quella tra sinistra fascista e nazionalisti fu per certi
versi una lotta fratricida: si trattava di due varianti di un medesimo
nazionalismo in quanto entrambi ponevano la nazione al vertice degli interessi
della politica. Ma mentre i nazionalisti rappresentavano la gioventù che
emergeva dalla Prima guerra mondiale, la sinistra fascista sembrava
rappresentare l’avvenire dopo la guerra d’Etiopia; la nazione veniva declinata
diversamente, con uno spazio del tutto nuovo al popolo, non quello educato
alla nazione ma quello educato alla rivoluzione sociale» (pp. X-XI).
In conclusione Mussolini, da abile tattico e cinico dittatore qual era, «si servì
degli ottimi uomini di Stato che il nazionalismo possedeva per costruire lo
Stato nuovo e, di fatto, caricando sul movimento che era stato di Corradini
responsabilità che non appartenevano a esso» (p. 115). Fatto sta che, leggendo
questa raccolta di studi sul nazionalismo italiano, viene alla mente la seguente
massima di Gilbert Keith Chesterton, scrittore come sempre folgorante e
meritevole di meditata riflessione: «il compito dei progressisti è commettere
errori; quello dei conservatori è di impedire che vengano corretti». Cambiando,
con qualche piccola forzatura, i progressisti con i rivoluzionari o i sovversivi
antisocialisti, la sentenza di Chesterton, tutt’altro che liquidabile come
calembour, pare attagliarsi quasi perfettamente alla drammatica vicenda
storica che coinvolse, culturalmente e politicamente, fascismo e nazionalismo.
[articolo originariamente pubblicato in «Naxos. Rivista di storia, arti,
narrazioni», I, n. 1, gennaio-giugno 2021, pp. 152-156]
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