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00Pag_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:10 Pagina 3 Tra due crisi Urbanizzazione, mutamenti sociali e cultura di massa tra gli anni Trenta e gli anni Settanta a cura di Matteo Pasetti 00Pag_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:10 Pagina 4 © 2013 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org. ISBN 978-88-6633-122-3 ArchetipoLibri 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.archetipolibri.it / www.clueb.com ArchetipoLibri è un marchio Clueb Finito di stampare nel mese di marzo 2013 da Studio Rabbi - Bologna 00Pag_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:10 Pagina 5 INDICE Matteo Pasetti, Introduzione. Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione ................................................................................................... 7 Parte I – Crisi e disgregazione del mondo rurale Alberto De Bernardi, La scomparsa della società rurale e la modernizzazione nei paesi dell’Europa meridionale ............................................ 31 Pietro Pinna, Italiani in movimento: le migrazioni rurali verso la Francia tra crisi e integrazione sociale ........................................................... 71 Álvaro Garrido, «A terra e o mar não se sindicalizam!» Casas do Povo e Casas dos Pescadores, um enquadramento corporativo singular no Estado Novo português (1933-1974) ..................................................... 87 Maria Luiza Tucci Carneiro, Racismo e Imigração: o modelo ideal do homem trabalhador no campo e na cidade (1930-1945) ........................ 111 Parte II – Nuove dimensioni urbane Marica Tolomelli, Le trasformazioni sociali ed economiche nel mondo del lavoro italiano (1930-1970) ............................................................. 141 Nuno Rosmaninho, Urbanismo autoritário? O caso de Coimbra ......... 161 Fernando Tavares Pimenta, Identidades, sociabilidades e urbanidades na África Colonial Portuguesa: Angola e Moçambique ......................... 183 Maria das Graças Ataíde de Almeida, Recife enquanto protótipo da cidade “higienizada” durante o Estado Novo (1937-1945): a estética do belo ............................................................................................... 201 00Pag_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:10 Pagina 6 6 Indice Parte III – Consumi e cultura di massa Luís Reis Torgal, Ouvir, ver, ler e... converter. Rádio, cinema e literatura na propaganda do Estado Novo ......................................................... 213 Noémia Malva Novais, O ângulo oculto da câmera. Interacção da cultura política com a comunicação de massas no pós guerra ..................... 231 Heloisa Paulo, O recurso aos novos meios de comunicação pela propaganda oposicionista antisalazarista exilada: da rádio à televisão (19301973) ..................................................................................................... 243 Rodrigo Archangelo, «O poder em cena»: os rituais nos cinejornais do pós-guerra .............................................................................................. 255 Maria Francesca Piredda, «Non è facile avere 18 anni». Rita Pavone, icona intermediale nell’industria culturale italiana degli anni Sessanta 265 Gli autori ............................................................................................... 279 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 4-03-2013 8:19 Pagina 7 Introduzione Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Matteo Pasetti 1. Da una crisi all’altra Il dibattito storiografico sulla periodizzazione del Novecento ha avuto finora un andamento singolare: molto acceso in una prima fase, quando il XX secolo non era ancora chiuso da un punto di vista cronologico, si è praticamente spento all’inizio del nuovo secolo, ma non certo perché gli storici abbiano raggiunto una posizione condivisa. Anzi, il confronto fra le diverse interpretazioni si è sostanzialmente esaurito proprio nel momento in cui si stava definendo una suggestiva variazione sul tema, ovvero una periodizzazione che individua i tornanti decisivi del Novecento non all’interno delle “tre guerre mondiali” (l’esplosione della prima e la rivoluzione bolscevica, la sconfitta del nazifascismo e la nascita di un mondo bipolare, la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda), ma nelle crisi economiche del 1929 e del 1973. Secondo tale ipotesi, il periodo “tra le due crisi” può essere considerato come un blocco temporale unitario perché presenta una sua specificità, appare dotato di un “senso” storico. Tanto che si potrebbe sostenere che è proprio questo ciclo, aperto all’inizio degli anni Trenta e chiuso all’inizio dei Settanta, a rappresentare il “cuore” del Novecento, non solo per la centralità cronologica, ma anche perché al suo interno sarebbero racchiuse una serie di esperienze capaci di imprimere la cifra all’intero secolo. In modo sommario, se ne possono indicare almeno quattro: l’industrializzazione di stampo fordista, la diffusione di nuovi modelli di consumo, la provincializzazione dell’Europa, il primato della politica. Naturalmente, come qualsiasi altra ipotesi di periodizzazione, anche questa presenta alcuni limiti appariscenti. In primo luogo, se si enfatizza il valore paradigmatico dei decenni “tra le due crisi”, si corre il rischio di ridurre il Novecento a un secolo brevissimo, amputato 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 8 1-03-2013 10:29 Pagina 8 Matteo Pasetti di fenomeni – come la Grande guerra, o la nascita e il crollo del comunismo sovietico, o la rivoluzione tecnologico-informatica – che sia a uno sguardo storiografico, sia per il senso comune, appaiono intrinsecamente “novecenteschi”. A scanso di equivoci: i decenni centrali del XX secolo non possono esaurire il significato storico del Novecento; al massimo ne rappresentano una parte, anche se si ritiene che proprio questo segmento sia quello che meglio esprime l’essenza del secolo. In secondo luogo, attribuire un’unità temporale al periodo a cavallo della seconda guerra mondiale porta a ridimensionare, se non a sottovalutare, l’epocale cesura provocata da tale conflitto. Seguendo, per esempio, la schematizzazione di Leonardo Paggi [1997], non si può ignorare che a partire dal 1945 si sono manifestati quattro profondi mutamenti storici, i primi due riguardanti lo scenario internazionale, gli altri due il rapporto tra politica e società: 1) una trasformazione nella funzione della guerra, riducibile essenzialmente al passaggio da “calda” a “fredda”, nel contesto di un processo di globalizzazione che ha determinato innanzitutto l’esaurimento della prospettiva eurocentrica; 2) la formazione e la crescita di un sistema di interdipendenze nel commercio internazionale che ha implicato, almeno per le aree a industrializzazione avanzata, l’abbandono della logica del “capitalismo nazionale”; 3) la ridefinizione della biopolitica, ora non più espressione di un esercizio del potere teso a manipolare la vita degli individui (fino al caso estremo della politica razziale nazista), ma attuata in forme diametralmente opposte tramite la promozione del benessere e dei consumi di massa; 4) la “secolarizzazione” delle identità collettive, tra aumento della socialità e tendenza all’atomizzazione, con il progressivo passaggio da un’idea “forte” a una “debole” della politica. Con ogni evidenza si tratta di svolte significative, che spezzano il Novecento in due parti, la seconda delle quali è considerabile per vari aspetti tuttora aperta. Se si mettono in risalto queste fratture, la seconda guerra mondiale costituisce dunque uno spartiacque che inaugura un’epoca profondamente diversa dalla precedente, avviando processi che a loro volta non si sono chiusi qualche decennio più tardi, ma appaiono ancora in corso. Tuttavia, da altri punti di vista il periodo “tra le due crisi” sembra conservare una certa omogeneità storica, proprio come segmento di un’epoca più lunga che ha i suoi albori nella seconda metà del XIX secolo e l’epilogo negli anni Ottanta del XX [Maier 1997]. In questa prospettiva, l’arco tra il 1929 e il 1973 rappresenta una fase di accelerazione, di potenziamento, di radicalizzazione di alcuni processi già 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 9 9 avviati – o perlomeno in stato nascente – nel periodo precedente, che scavallano il crinale della seconda guerra mondiale e continuano a dispiegarsi in forma compiuta nel dopoguerra. Una fase di accelerazione generata appunto dal primo crollo strutturale dell’economia capitalista, o più precisamente dalle reazioni alla Grande depressione; e interrotta, o forse sarebbe meglio dire mutata di segno, cambiata di direzione, dalla seconda crisi mondiale del sistema. I termini a quo e ad quem sono costituiti dunque da due crisi che presentano alcune analogie. Entrambe hanno avuto un epicentro ben individuabile – Wall Street nel 1929, il Medio Oriente nel 1973 – ma si sono propagate con rapidità in tutto il mondo capitalista, comprovando la stretta interdipendenza ormai stabilitasi tra le singole realtà nazionali. Entrambe hanno avuto origine economica – o più precisamente finanziaria, la prima, ed energetica, la seconda – ma hanno presto generato profonde ripercussioni politiche, sociali, e perfino culturali, trasformandosi così in vere e proprie crisi di sistema. Entrambe inoltre sono state precedute da periodi di incubazione, o per meglio dire sono esplose in momenti storici connotati da una forte instabilità sistemica che ha posto le condizioni per la generalizzazione della crisi e ne ha accentuato l’effetto dirompente sull’intero ordine sociale. In ambito storiografico, è stato in particolare Charles Maier [2001] a mettere in luce tale parallelismo: pur distinguendo tra «crisi all’interno del capitalismo», cioè la Grande depressione degli anni Trenta, e «crisi della società industriale», con il collasso del modello di produzione fordista che negli anni Settanta ha coinvolto sia il mondo capitalista, sia quello sovietico, lo storico americano ha sottolineato come entrambe le crisi avessero radici in una precedente rottura dello status quo. Nel primo episodio di crisi sistemica, infatti, il tracollo economico fece seguito a un vano tentativo di riparare il dissesto politico e sociale provocato dalla Grande guerra, attraverso la restaurazione dell’ordine prebellico. Il primo dopoguerra non rappresenterebbe tanto un periodo rivoluzionario, come spesso è stato descritto, quanto invece un periodo conservatore. D’altra parte, la lettura degli anni Venti come un decennio crepuscolare durante il quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» ha avuto diversi predecessori. Se la formula appena citata, tratta da un quaderno del 1930 di Antonio Gramsci [1975, 311], è spesso utilizzata per la sua forza icastica, si deve a Karl Polanyi la riflessione coeva più sistematica sul carattere conservatore degli anni Venti e sul definitivo crollo dell’ordine ottocentesco avvenuto all’inizio dei Trenta. 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 10 1-03-2013 10:29 Pagina 10 Matteo Pasetti Dato alle stampe a New York nel 1944, ma meditato lungo tutto il decennio precedente, il suo libro La grande trasformazione costituisce la vera pietra miliare per qualsiasi riflessione storiografica sulla cesura epocale provocata dalla crisi del 1929. Nell’ottica di Polanyi, infatti, «la prima guerra mondiale e le rivoluzioni del dopoguerra erano ancora parte del diciannovesimo secolo» [1974, 26], e gli anni Venti rappresentavano nient’altro che un tentativo di restaurare il sistema capitalistico rigenerando l’utopia del libero mercato autoregolantesi che aveva connotato la civiltà ottocentesca. Quest’ultima poggiava su quattro cardini: il sistema dell’equilibrio tra le potenze, che aveva garantito una lunga condizione di relativa pace sul piano internazionale; lo stato liberale, basato su istituzioni democratico-parlamentari che davano espressione politica alle élite borghesi; il gold exchange standard, che assegnava alla sterlina inglese il ruolo di perno del sistema monetario internazionale; e infine, appunto, la fiducia nella capacità del libero mercato di produrre benessere, semplicemente autoregolandosi. Era questa fiducia «la fonte e la matrice» più autentica della civiltà liberale ottocentesca [Polanyi 1974, 5]. Ed era da questa fiducia che ripartì il tentativo postbellico di ritornare al passato. L’esplosione della crisi economica nel 1929 mise a nudo tuttavia l’esito fallimentare della restaurazione: mentre la guerra aveva decretato la fine del sistema dell’equilibrio tra le potenze, e il dopoguerra aveva svelato la paralisi delle democrazie borghesi, il crollo di Wall Street travolse gli ultimi due cardini ancora in piedi della società liberale, ovvero la base aurea internazionale, abbandonata da tutti i paesi tra il 1931 e il 1933, e l’utopia del mercato autoregolantesi. Gli anni Trenta furono di conseguenza gli anni della “grande trasformazione”, ovvero del passaggio a una forma di capitalismo organizzato. O maggiormente organizzato: buona parte del libro di Polanyi, infatti, è volta a dimostrare che un sistema sociale basato sull’economia di mercato non costituisce l’approdo «naturale» delle società umane; anzi, a ben vedere un mercato davvero autoregolantesi non era esistito nemmeno durante l’età d’oro del liberalismo, poiché perlomeno dalla metà del XIX secolo il funzionamento del sistema capitalistico aveva richiesto l’allargamento delle prerogative dello stato, cioè un «intervento» della politica per salvaguardare sia il tessuto sociale, messo in pericolo da un’eccessiva mercificazione dell’esistenza umana, sia la stessa libertà di mercato, intralciata dalla formazione di monopoli e dall’organizzazione degli interessi di classe. In sintesi, sostenendo che «l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello stato» [1974, 180], Polanyi considerava 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 11 11 il liberalismo economico non come un’effettiva pratica di autogoverno dell’economia, bensì come una «religione secolare» [1974, 178], un «credo militante» [1974, 175] – in termini marxiani, come un elemento puramente sovrastrutturale. Secondo l’antropologo di origini ungheresi, quindi, ben prima degli anni Trenta del XX secolo la vita economica era «embedded» (“incastrata”, “incorporata”) nel contesto sociale. Ciò che la “grande trasformazione” produsse fu un’accelerazione in questa direzione, verso una forma di capitalismo in cui l’economia diventava ancora più embedded, in quanto privata dell’utopia liberale e sottoposta a un più invasivo intervento degli stati nazionali. Si trattò in ultima analisi di un mutamento del clima politico-culturale, in conseguenza del quale venne meno la fede nel mito del mercato autoregolantesi, si ricompose la dicotomia ideologica tra politica ed economia, e venne acquisita «la consapevolezza della realtà della società» [Polanyi 1974, 319]. Dopo il crollo del 1929 il capitalismo sopravvisse a spese del liberalismo economico, che perse l’egemonia culturale detenuta da lungo tempo. Tornando a Charles Maier, la sua interpretazione del Novecento presenta diversi punti di contatto con la riflessione polanyiana, a partire da un’analoga contrapposizione tra anni Venti e anni Trenta. Nel suo primo lavoro importante, uscito a distanza di circa trent’anni da La grande trasformazione, anche lo storico americano ha descritto gli anni Venti come un periodo di difficile e parziale rifondazione della società borghese europea dopo il trauma della Grande guerra. A differenza di Polanyi, però, per Maier non si trattò di una semplice restaurazione, ma di una «trasformazione in senso conservatore» [1999, 36], che produsse un fragile equilibrio tra interessi economici, forze politiche, classi e nazioni, mediante l’introduzione di importanti innovazioni istituzionali di tipo “corporatista” (consistenti in una politica di costante mediazione fra governi e gruppi d’interesse organizzati che andò a spostare il centro del potere decisionale dai parlamenti ai ministeri o a nuove burocrazie parastatali). Il crollo borsistico del 1929 si abbattè dunque su un assetto dei rapporti di potere già precario e rese vani i tentativi messi in atto dalle classi dirigenti europee per conservare un ordine sociale ed economico ormai compromesso. È in questa instabilità sistemica che va individuato il motivo per cui la crisi finanziaria si trasformò in una Grande depressione che sembrò mettere a repentaglio l’esistenza stessa del capitalismo e impose un profondo ripensamento del rapporto tra politica, economia e società. Al contempo, le soluzioni che vennero predisposte nel corso degli anni Trenta e ribadite dopo la seconda guerra mondiale trovarono alcune anti- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 12 1-03-2013 10:29 Pagina 12 Matteo Pasetti cipazioni proprio in certe tendenze emerse durante le esperienze corporatiste del primo dopoguerra: in particolare, in un intervento più organico dello stato sul mercato e nel rafforzamento del ruolo dell’industria nella formulazione delle politiche economiche nazionali. Delineate – circostanza piuttosto emblematica – a metà degli anni Settanta, queste tesi di Maier sono state ampiamente discusse in sede storiografica. Per il tema che qui interessa, cioè la periodizzazione del Novecento, la loro maggior debolezza consiste probabilmente nel fatto che lo storico americano tende a trarre dallo studio in chiave comparata di soli tre paesi (Francia, Germania, Italia) conclusioni di carattere generale (come lascia intendere fin dal titolo del volume: La rifondazione dell’Europa borghese), quando invece sembra difficile poter applicare lo stesso paradigma interpretativo basato sul concetto di corporatismo a tutte le differenti realtà politiche e sociali del continente (per esempio alle economie ancora prettamente rurali della penisola iberica o dell’Europa orientale). Inoltre, per quanto in questo caso specifico non sia imputabile a Maier l’intento di proporre uno schema periodizzante universalmente valido, affiora qui un problema di prospettiva che non si può eludere: l’idea che la crisi del 1929, facendo seguito al vano tentativo di tenere in piedi un sistema sociale già destabilizzato dalla Grande guerra, abbia segnato la fine di un’epoca che validità ha fuori dallo scenario storico europeo, o tutt’al più occidentale? In seguito al libro sulla rifondazione dell’Europa borghese, comunque, Maier è tornato ripetutamente a riflettere sulla periodizzazione dell’età contemporanea, riproponendo in forma più articolata la visione della crisi del 1929 come crisi nel sistema capitalistico, e quindi ribadendo il valore periodizzante di questo tornante, sebbene senza omettere alcune linee di continuità che attraversano tutta l’«epoca lunga» della territorialità, della produzione industriale di massa e del nazionalismo, apertasi all’incirca nell’ultimo quarto dell’Ottocento [Maier 1997]. In diversi interventi, ha inoltre spostato l’attenzione sul secondo caso novecentesco di crisi sistemica, cioè quello degli anni Settanta, facendo notare che anche questa crisi del sistema industriale aveva le sue premesse in una precedente perdita di stabilità, ovvero nell’esaurimento delle politiche economiche impiegate proprio per superare la Grande depressione degli anni Trenta. La capacità di promuovere crescita economica, piena occupazione e ridistribuzione della ricchezza, assicurata per qualche decennio da politiche economiche che si è soliti ricondurre alla lezione di John Maynard Keynes (anche se le teorie dell’economista inglese non furono la fonte di ispira- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 5-03-2013 11:15 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 13 13 zione comune a tutte le esperienze nazionali), iniziò a declinare già negli anni Sessanta, quando emerse che l’incremento della spesa pubblica per stimolare l’economia e proteggere la società generava anche una preoccupante spirale inflazionistica. Alla progressiva perdita di funzionalità della soluzione keynesiana si sovrappose «un più vasto cambiamento nei ruoli e nei valori sociali che colpì il mondo industriale da metà anni Sessanta in poi: un’indisponibilità a guardare agli esseri umani meramente come soldati nello scontro della guerra fredda o come “lavoratori”. Il benessere portò con sé il desiderio di soddisfare il privato, di lasciar allentare la disciplina sociale e famigliare» [Maier 2001, 52-3]. Come la crisi economica del 1929, anche quella del 1973 si abbattè quindi su un ordine sociale già destabilizzato, in cui si era rotto l’equilibrio tra governo degli interessi, da un lato, aspettative e bisogni collettivi dall’altro. In sintesi, fu il Sessantotto a produrre le condizioni favorevoli non tanto, ovviamente, per l’esplosione della crisi economica degli anni Settanta, quanto per la sua dilatazione alla sfera politico-culturale (per esempio: il problema energetico scaturito dal blocco del petrolio arabo sarebbe stato percepito come l’inesorabile dimostrazione dell’insostenibilità di un modello di sviluppo industriale, se non fosse stato preceduto dalla critica sessantottina alla società dei consumi?). In un certo senso, la crisi petrolifera del 1973 ha scatenato una “crisi della modernità” [Harvey 1993] perché si è innestata sull’eredità dei movimenti di contestazione del decennio precedente. Nella misura in cui gli anni Settanta hanno prodotto la fine di un’idea di progresso, un mutamento delle modalità di organizzare la produzione industriale, una riconfigurazione del mondo del lavoro nel segno della flessibilità, una svolta in senso antistatalista nel rapporto di forze tra potere politico e potere economico, una tendenza all’individualizzazione dell’agire sociale, le radici di questa complessiva ristrutturazione delle società capitalistiche possono essere rintracciate nella contestazione antisistema, appunto, del decennio precedente. L’onda dei movimenti collettivi degli anni Sessanta non riuscì a rivoluzionare l’ordine esistente, ma riuscì a destabilizzarlo mettendone in discussione le fondamenta socio-culturali. La crisi economica degli anni Settanta si abbatté su società in equilibrio precario, rovesciando non solo il loro assetto produttivo, ma anche la visione del mondo prevalente da alcuni decenni: com’è stato scritto in riferimento al caso americano, nell’ultimo quarto del XX secolo si è formulata una nuova percezione della realtà sociale, che non era più imperniata sui concetti di società, storia, potere, ma su quelli di individualità, contingenza, scelta [Rodgers 2011]. 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 14 1-03-2013 10:29 Pagina 14 Matteo Pasetti Se così è, considerando a posteriori gli esiti della transizione, siamo di fronte a un ennesimo caso di eterogenesi dei fini, poiché la scomposizione del sistema capitalistico avviata dal Sessantotto e portata a termine nel decennio successivo tutto sembra aver generato tranne quella società essenzialmente più libera, egualitaria, affrancata innanzitutto dal “totalitarismo del lavoro”, auspicata dai movimenti di contestazione [Revelli 2001, 171-87]. Ma aldilà degli esiti, ciò che qui interessa rilevare è soprattutto che la crisi economica degli anni Settanta è diventata crisi sistemica, crisi della civiltà industriale, anche perché nel frattempo erano diventati instabili i cardini portanti dell’ordine sociale e culturale, proprio com’era successo circa quarant’anni prima con la precedente crisi nel capitalismo. Per tale ragione, entrambe le congiunture storiche sono state percepite fin da subito, già da numerosi osservatori coevi, come passaggi epocali, tanto da generare in tutti e due i periodi un’ampia “letteratura della crisi”. Se, come ha scritto Luisa Mangoni [1997, 74], gli anni Trenta vennero immediatamente interpretati come «crinale tra un prima e un poi, punto di arrivo di un percorso che affondava le sue radici nell’Ottocento, e punto di partenza di processi in atto ma avvertiti come privi di soluzione», qualcosa di analogo è accaduto anche negli anni Settanta. Per rimanere agli autori citati, non è un caso che la riflessione di Maier sulla periodizzazione dell’età contemporanea abbia preso le mosse da metà di quel decennio, quando vari ambienti intellettuali iniziarono a percepire che si stava chiudendo una fase storica e che, per una corretta comprensione della transizione, andavano innanzitutto rintracciate le origini e individuate le peculiarità del presente in procinto di diventare passato. Ed è ancor meno casuale che nello stesso frangente sia stata riscoperta, dopo anni di relativo oblio, La grande trasformazione di Polanyi, così da suscitare via via l’esigenza di tradurre per la prima volta il libro in varie lingue (in italiano nel 1974, in tedesco nel 1977 e di nuovo nel 1978, in portoghese-brasiliano nel 1980, in francese nel 1983, in spagnolo nel 1989): nel momento in cui il liberalismo economico tornava a rivestire il ruolo di “religione secolare” egemone, la critica polanyiana riacquistava attualità. Semmai, se il carattere dirompente delle dinamiche in corso era chiaro sia negli anni Trenta, sia nei Settanta, a rivelarsi fallaci sono state le profezie presenti in molta di questa “letteratura della crisi”. Diversamente da quanto spesso venne prospettato, nessuna delle due congiunture ha portato alla fine del capitalismo, alla distruzione del sistema, all’avvento di un “nuovo mondo”. Entrambe sono sfociate invece in una profonda ristrutturazione sistemica, al termine della qua- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 15 15 le sono mutati i connotati politici, economici, culturali della società capitalista, ma che sempre capitalista è rimasta. In questo senso, le due crisi possono essere intese come krisis nel senso originario del termine, attinente al campo della medicina [Koselleck 2012, 31-5]. Esse si sono manifestate come la fase più acuta di una malattia, dall’esito incerto, che non escludeva la possibilità della “morte del malato”, in questo caso un sistema sociale, ma che si è risolta con la sua “guarigione”, ottenuta tramite una salvifica metamorfosi. Com’è stato argomentato, in particolare da Reinhart Koselleck [2009 e 2012], dal XIX secolo in poi il concetto di crisi ha conosciuto un allargamento semantico che di fatto lo ha reso polivalente ed estremamente impreciso. Soprattutto in tempi recenti si è talmente abusato del termine che uno “stato di crisi” rischia di apparire ormai come una condizione permanente e invasiva, non più un’eccezione ma la norma. Il mondo contemporaneo sembra insomma attraversare una “crisi senza fine” [Revault d’Allonnes 2012]. Ciononostante, proprio recuperando il significato originale del termine, il richiamo cioè a una fase di passaggio, a una condizione di incertezza che richiede una trasformazione per essere superata, la congiuntura degli anni Trenta e quella dei Settanta meritano entrambe l’appellativo di crisi, e anzi possono essere interpretate come due crisi determinanti nella storia del Novecento, avendone mutato il profilo per due volte. 2. Profilo di un’epoca Delimitato com’è dai due più gravi terremoti economici del secolo, il periodo “tra le due crisi” presenta elementi di uniformità innanzitutto nel campo dell’economia, in particolare per il rafforzamento di un processo di industrializzazione che attraversa tutta l’età contemporanea ma che ha conosciuto in quel quarantennio tassi di crescita senza precedenti, più ampia diffusione geografica, maggior attenzione politica, e soprattutto profonde ripercussioni sulle strutture sociali e le forme culturali. Benché sovente spiegata come un problema di sovraproduzione, dalla Grande depressione le economie industriali uscirono potenziando la propria capacità manifatturiera: in quasi tutti i paesi europei, già nella seconda metà degli anni Trenta venne recuperato e spesso superato il livello di produttività industriale del 1928, che nel 1932 risultava crollato [Berend 2008, 80]. Da lì in poi la crescita industriale non conobbe più interruzioni di natura economica fino agli anni Set- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 16 1-03-2013 10:29 Pagina 16 Matteo Pasetti tanta (l’unica vera interruzione fu di natura bellica, provocata cioè dalle distruzioni della seconda guerra mondiale; ma va detto che lo stesso conflitto diede un forte impulso all’industrializzazione, per soddisfare le esigenze militari, e che un’ulteriore spinta derivò dalle necessità della ricostruzione postbellica). Una crescita che non toccò solo l’Occidente: dagli anni Trenta nuovi paesi entrarono a far parte del mondo industriale, a partire ovviamente dall’Unione sovietica, che proprio in quel decennio iniziò a costruire, a ritmo forsennato, il suo gigantesco apparato produttivo. Si accentuò così, “tra le due crisi”, la più importante dinamica di modernizzazione strutturale in atto nel Novecento, ovvero la transizione di forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria e il terziario. Mentre gli stabilimenti industriali proliferavano anche in zone fino ad allora prettamente rurali, inglobando nel territorio urbano larghe strisce di campagna e modificando innanzitutto il paesaggio, la fabbrica e la classe operaia acquisivano centralità sulla scena sociale, nell’agenda politica, nell’immaginario culturale. Nel frattempo andava dilatandosi un ceto medio urbano legato al commercio, ai servizi, a funzioni amministrative o burocratiche. In altri termini, in un numero crescente di paesi si avviò o giunse a compimento un epocale processo di disgregazione della società rurale, che in un certo senso potremmo considerare come il vero segno del passaggio alla modernità novecentesca. La sua principale manifestazione consistette nel trasferimento di popolazione dalle campagne alle città: un fenomeno migratorio che riguardò sia il “vecchio” mondo industriale, dove era già in corso dal secolo precedente (dal 1930 al 1970 la popolazione urbana in Europa occidentale passò dal 55% al 72%, negli Usa dal 56% al 70%, in Giappone dal 48% al 71%), sia il resto del pianeta, dove ancora alla fine degli anni Venti era pressoché inedito (nello stesso arco temporale, 1930-1970, la popolazione urbana in Cina passò dal 6% al 17%, in Asia meridionale dal 12% al 21%, in Africa dal 7% al 23%, in America latina e in Urss addirittura dal 17-18% al 57%). Nel complesso, la quota mondiale della popolazione urbana aumentò dal 23% del 1930 al 37% del 1970 [tutti i dati sono tratti da McNeill 2002, 361]. Si trattò di una profonda trasformazione sociale, che in molte regioni del pianeta mise ai margini del sistema economico e culturale la famiglia contadina, le sue tradizioni, le sue eredità valoriali, le sue attribuzioni di ruoli predefiniti in base a identità di genere o gerarchie generazionali. Questa disgregazione della società rurale non fu certo un processo circoscritto ai decenni centrali del XX secolo, poiché era già in at- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 17 17 to dall’Ottocento, almeno in certe regioni occidentali, e prosegue tuttora, soprattutto nei paesi emergenti. Fu però “tra le due crisi” che l’urbanizzazione divenne un fenomeno globale, che combinandosi con l’industrializzazione modificò definitivamente l’assetto ambientale, demografico ed economico del pianeta. In seguito, la svolta degli anni Settanta ha innescato invece una dinamica parzialmente diversa, una sfasatura geografica: nelle aree a capitalismo avanzato, dove il tessuto industriale ha ceduto il passo di fronte alla progressiva terziarizzazione della società, il nesso tra urbanizzazione e industrializzazione si è rotto, mentre nel resto del mondo, e soprattutto in Asia e Sud America, una nuova divisione internazionale del lavoro ha continuato a far crescere i centri urbani principalmente come poli industriali. L’espansione della società urbana e industriale nel periodo “tra le due crisi” si accompagnò inoltre a un rinnovamento strutturale del sistema produttivo. Dagli anni Trenta si ridefinì innanzitutto il peso economico dei singoli comparti del settore secondario: mentre le industrie tradizionali persero terreno, furono quelle tecnologicamente più avanzate a conoscere l’ascesa produttiva e occupazionale più rilevante. Iniziarono così ad affermarsi come settori trainanti quei rami dell’industria – l’automobilismo, la chimica, l’elettrotecnica – che furono poi i grandi protagonisti del boom postbellico (come riconosce per esempio anche Sidney Pollard [1999, 126-7], pur adottando una periodizzazione che spezza in tre cicli di quindici anni l’uno la storia dell’economia mondiale “tra le due crisi”). Motorizzazione, plastificazione, elettrificazione sono le parole-chiave del tipo di espansione industriale che si mise in moto dopo la Grande depressione e che proseguì fino all’inizio degli anni Settanta. Se volessimo misurare la potenza di questo processo di industrializzazione tramite un unico indicatore, farebbe al caso nostro l’aumento di produzione di energia elettrica che si registrò in Europa (Urss compresa) in questo squarcio di secolo: con un incremento esponenziale, raddoppiando di decennio in decennio, la quantità di GigaWatt/ora prodotti crebbe da 118 nel 1929 a 237 nel 1939, a 685 nel 1949, a 870 nel 1959, a 1977 nel 1969 [Mitchell 1992, 546-9]. In un quarantennio, venne elettrificato l’intero continente: il suo sistema produttivo, ma anche le sue città, le abitazioni, gli uffici, i negozi. Le condizioni che permisero uno sviluppo industriale senza precedenti furono molteplici. Oltre al reperimento di combustibili (carbone, gas, petrolio) e alla dotazione di infrastrutture per produrre e distribuire energia elettrica in grandi quantità, fu necessario investire risorse in ricerca scientifica capace di generare innovazioni tecnologiche, incre- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 18 1-03-2013 10:29 Pagina 18 Matteo Pasetti mentare il potere d’acquisto delle masse al fine di smaltire sul mercato i beni di consumo durevoli, introdurre sistemi di produzione in serie in grado di aumentare la produttività manifatturiera. Quest’ultimo fattore giocò un ruolo fondamentale, tanto da imprimere un sigillo all’intera epoca: il tratto distintivo di questa fase di industrializzazione accelerata fu costituito infatti dal successo mondiale del modello di produzione fordista, inaugurato in Usa negli anni Dieci ma introdotto nei sistemi industriali degli altri paesi a partire dagli anni Trenta. Il fordismo, inteso come sistema di produzione di massa in grandi fabbriche, imperniato sull’idea della catena di montaggio, su una rigida divisione gerarchica del lavoro, sulla standardizzazione dei prodotti, sullo stoccaggio di grandi scorte, divenne il prototipo stesso del capitalismo industriale – anche se nella realtà il modello fordista coesisteva ovunque con altre forme di organizzazione produttiva [Boyer e Freyssenet 2005]. Fra l’altro, analoghe tendenze a una razionalizzazione di stampo fordista connotavano anche il sistema industriale che doveva rappresentare la grande alternativa al capitalismo, ovvero il comunismo sovietico: la fabbrica della Ford a Detroit descritta da Louis-Ferdinand Céline nel Viaggio al termine della notte (1932) funzionava in modo del tutto simile a quelle celebrate nella narrativa del realismo socialista. La differenza, piuttosto, riguardava il rapporto con la società: nel mondo capitalistico il fordismo non forniva “solo” una disciplina del lavoro di fabbrica e una logica di organizzazione produttiva, ma entrando in simbiosi con l’“americanismo” – come aveva intuito fin dall’inizio Gramsci – contribuì a diffondere negli anni Cinquanta e Sessanta anche uno specifico funzionamento del sistema sociale, incardinato sull’idea che la produzione in serie implicasse in primo luogo il consumo di massa. A partire dagli anni Trenta, infatti, nelle società capitalistiche si avviò una riorganizzazione dei nessi tra produzione, circolazione e consumo delle merci. Una riorganizzazione, ispirata al modello americano e giunta a maturazione nel dopoguerra, che segnò il passaggio dall’“era della produzione” all’“era della distribuzione”: per spiegare il successo imprenditoriale di Henry Ford, nel 1932 Gramsci osservava che il segreto non stava solo nell’organizzazione del lavoro interna alla fabbrica, ma anche o soprattutto nel fatto che Ford era uscito «dal campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce» [1975, 1282], operando in pratica una «decentralizzazione della fabbrica» [Montanari 1997, XIX], ovvero spostando all’esterno delle officine la cabina di regia dell’impresa. Gradualmente, nell’arco del quarantennio com- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 19 19 preso tra gli anni Trenta e i Settanta, una strada analoga venne seguita in tutto il mondo capitalista, con la progressiva invenzione di nuove figure manageriali addette non tanto alla realizzazione dei prodotti quanto alla loro circolazione, e quindi con la diffusione di tecniche di marketing, la proliferazione dei linguaggi pubblicitari, l’apertura di più complesse filiere produttive e commerciali. In questo senso, il periodo “tra le due crisi” fu al tempo stesso il periodo di maggior centralità della fabbrica nel sistema economico occidentale e il periodo in cui il mercato divenne sempre più influenzato da manager e mediatori “esterni” ai luoghi di produzione delle merci. Questa riorganizzazione del rapporto tra produzione e distribuzione delle merci fu alla base del grande incremento dei consumi che si registrò soprattutto nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il passaggio dall’“era della produzione” all’“era della distribuzione” fu funzionale all’“era del consumo di massa”. Anche in questo caso, la lezione decisiva arrivò dall’America: l’accesso ai beni doveva essere potenzialmente alla portata di tutti, cioè doveva dipendere semplicemente dalla disponibilità di reddito e non dall’appartenenza a un’élite sociale [De Grazia 2006, XXVI]. Al contempo, il possesso di un’automobile, di una lavatrice o di una televisione non rispondeva esclusivamente alla soddisfazione di bisogni legati alla vita quotidiana, ma significava anche la conquista di uno status sociale. Le identità e i comportamenti collettivi divennero sempre più influenzati dai nuovi modelli di consumo, che spesso trovavano ispirazione ed espressione nella circolazione di una cultura di massa composita, formata da molteplici esperienze in gran parte inedite fino agli anni Trenta: l’avvento del cinema sonoro, innanzitutto, capace, in particolare nella sua versione hollywoodiana, di forgiare un potente immaginario, tendenzialmente globale benché diversamente declinato nei singoli contesti locali; il rinnovamento del panorama editoriale, con la diffusione di collane economiche, di riviste, di rotocalchi, di fumetti, rivolti a svariati e specifici segmenti di pubblico (le donne, i giovani, gli adolescenti, gli appassionati di sport ecc.); il mutamento dei paesaggi sonori attraverso la radiofonia e il consumo discografico di massa, con l’invenzione di nuovi generi musicali destinati, anche in questo caso, a precisi gruppi di fruitori, secondo una segmentazione di tipo generazionale più che geografico; infine la regolare trasmissione di programmi televisivi di vario genere (d’informazione, d’intrattenimento, sportivi ecc.), che decretò l’irruzione nel sistema delle comunicazioni di massa di un nuovo potente media, sperimentato negli anni Trenta ma diffuso su grande scala dai primi anni Cinquanta. 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 20 1-03-2013 10:29 Pagina 20 Matteo Pasetti Secondo i commenti di molti osservatori del tempo, tra i quali vari esponenti di una schiera di scienze sociali emergenti, l’insieme di queste dinamiche stava veicolando un processo di omologazione culturale, sotto il segno dell’“americanizzazione” dell’Europa e in prospettiva del mondo intero, che avrebbe sancito l’ascesa degli Usa come centro egemonico di un sistema globale e prodotto una mutazione antropologica delle società periferiche. In effetti la “provincializzazione” della cultura europea decretò la fine di un primato conseguito nel corso dell’Ottocento, quando l’Europa aveva conquistato un ruolo egemone su un mondo ancora policentrico, con l’estensione di un imperialismo multiforme (politico, ideologico, economico, sociale), sebbene pur sempre parziale e contrastato [Bayly 2007]. Negli anni Trenta del XX secolo il dominio dell’Europa sembrava più esteso che mai, sia da un punto di vista geografico, sia da quello economico: la stessa crisi del 1929 aveva indotto le potenze europee, che dopo la prima guerra mondiale controllavano uno spazio ancor più ampio, ad accentuare lo sfruttamento delle risorse coloniali [Droz 2007, 1]. E invece quel decennio, per il primato dell’Europa, rappresentò l’apogeo nel vero senso del termine, cioè l’inizio della fine. Con la nascita e il radicamento di movimenti d’indipendenza nazionale in molti territori coloniali, infatti, si mise in moto quel processo di decolonizzazione che nel dopoguerra portò alla perdita di centralità dell’Europa non solo sul piano geopolitico o economico, ma anche su quello culturale, costituendo così una delle evoluzioni storiche più importanti del Novecento (fra l’altro, un processo significativamente giunto a termine proprio negli anni Settanta). “Provincializzazione” dell’Europa e “americanizzazione” del mondo furono quindi due tendenze parallele e simultanee. In realtà, tuttavia, per quanto sia indiscutibile l’influenza dell’America su buona parte della cultura di massa in circolazione nel periodo “tra le due crisi”, così come sui modelli di consumo o su certi comportamenti collettivi, in ogni presunta periferia il risultato fu sempre l’esito non di una mera imitazione, o ancor meno di un’imposizione dall’alto, bensì di un processo di ibridazione, non privo di conflitti e resistenze [De Grazia 2006]. Tanto più che le trasformazioni socio-culturali in atto non producevano esclusivamente omologazione. Come hanno messo in luce successive indagini sociologiche – e in primo luogo Pierre Bourdieu [1983] – l’affermazione di un mercato di massa non significò l’abolizione delle “distinzioni” sociali. Anzi, la sfera culturale e commerciale divenne una fonte inesauribile di nuovi modelli di rife- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 21 21 rimento, nuovi stili di vita, nuove identità di gruppo, producendo di conseguenza una maggior differenziazione, rispetto al passato, all’interno delle singole comunità locali. In fin dei conti, le società divennero al contempo più uniformi e più differenziate: da un lato, la sfera pubblica di massa le mise a contatto con riferimenti comuni, che superavano l’ambito locale e afferivano a una dimensione nazionale, continentale o addirittura globale; dall’altro, l’industria culturale conosceva anche logiche di nicchia e poteva rivolgersi a specifici segmenti di mercato, assecondando tendenze alla differenziazione messe in atto da pratiche sociali e spinte soggettive. La figura chiave di questo sistema sociale ed economico divenne dunque il “cittadino consumatore”, disposto a riversare un’ampia parte del proprio reddito nell’acquisto di beni di consumo. Ma perché ciò potesse avvenire, erano necessarie due condizioni preliminari. La prima riguardava il mondo del lavoro e consisteva in un regime occupazionale tendente al pieno impiego. Alla luce degli effetti catastrofici della crisi esplosa nel 1929, la lezione degli anni Trenta derivava infatti dalla scoperta della disoccupazione come problema insieme economico, sociale e politico, per cui la politica aveva il dovere di intervenire con provvedimenti di stampo sia economico, sia sociale [Orientale Caputo 2009]. Era questa in sostanza la “grande trasformazione” messa a fuoco da Polanyi: un cambiamento del clima politico-culturale, in base al quale l’opinione pubblica riconosceva la necessità dell’intervento politico per difendere la società dalle distorsioni del libero mercato. Da quel decennio in poi l’obiettivo prioritario di qualsiasi politica economica divenne la lotta alla disoccupazione, generalmente combattuta su un doppio fronte: 1) la creazione di posti di lavoro tramite la realizzazione di opere pubbliche e il sostegno statale alle imprese private; 2) la costruzione di un sistema di protezione e assistenza sociale. In gran parte riassorbita già nella seconda metà degli anni Trenta, fino alla fine degli anni Sessanta si registrarono i livelli di disoccupazione mediamente più bassi di tutto il XX secolo. La crisi degli anni Settanta mutò invece lo scenario e il problema all’ordine del giorno divenne un altro: l’inflazione. Ora l’obiettivo prioritario non era più la piena occupazione, ma restituire stabilità al sistema monetario, anche a scapito del lavoro [Heilbroner 2006, 68-73]. Il secondo requisito alla base del buon funzionamento del sistema fordista occidentale consisteva in un certo grado di pacificazione sociale. Dopo il crollo del 1929 si instaurò infatti un nuovo contratto sociale, per certi aspetti anticipato – come ha sostenuto Charles Maier – 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 22 1-03-2013 10:29 Pagina 22 Matteo Pasetti da alcune tendenze “corporatiste” degli anni Venti, ma inaugurato in forme compiute solo dal New Deal rooseveltiano. Questo compromesso, che aveva nella diffusione della grande fabbrica fordista un suo presupposto, definì con precisione il rapporto tra stato nazionale, capitale aziendale e lavoratori organizzati: lo stato si assumeva nuove responsabilità, a partire dall’erogazione di investimenti pubblici, dalla promozione del benessere sociale, dalla mediazione tra le controparti, dal controllo dei cicli economici tramite politiche monetarie e fiscali; il capitale aziendale si impegnava a promuovere la crescita industriale, svolgendo un ruolo di traino nell’innalzamento dei livelli di vita generali e riconoscendo, seppur con qualche riluttanza, le rappresentanze sindacali; i lavoratori organizzati accettavano di collaborare all’incremento della produttività industriale, rinunciando ai propositi di esercitare la gestione diretta delle fabbriche in cambio di un allargamento del mercato del lavoro, di aumenti salariali, di maggiori possibilità di accedere ai beni di consumo [Harvey 1993, 166-9]. È vero che in gran parte del mondo capitalistico questo compromesso sociale venne stabilito solo nel secondo dopoguerra, ma le sue premesse vanno comunque rintracciate nel dibattito intellettuale e negli scontri ideologici degli anni Trenta, e poi nella guerra e nella vittoria contro i fascismi. A ben vedere, gli stessi regimi fascisti rappresentarono una versione estrema di tale compromesso: una versione liberticida che attraverso il dirigismo economico incrementava le funzioni e il potere dello stato, ma salvaguardava comunque gli interessi del capitale aziendale e pensava di risarcire la forza lavoro, schiacciata sotto il giogo autoritario, con alcuni benefici di tipo previdenziale o assistenziale. Sul piano politico, il periodo “tra le due crisi” coincise dunque con una ridefinizione del ruolo dello stato. Già durante la prima guerra mondiale tutti gli stati belligeranti avevano adottato inedite procedure di controllo e di direzione dei sistemi produttivi nazionali, al fine di subordinare totalmente l’economia alla produzione bellica e alla fornitura di beni destinati alle truppe. Ma fu solo nelle condizioni di emergenza degli anni Trenta – «epoca di sperimentazione posta all’insegna dell’urgenza» [Thomas 1998, 39] – che la mobilitazione generale collaudata nel corso della Grande guerra diventò una prassi coerente, dotata di una teorizzazione dottrinaria che rovesciava il paradigma liberista fino ad allora prevalente. Iniziò così a formarsi il concetto stesso di politica economica, come insieme predefinito di misure e provvedimenti governativi nel campo dell’economia. Ma il punto è che l’interventismo statale accomunava esperienze di opposta ispirazione ideologica, dal 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 23 23 New Deal americano al fascismo italiano, dal Fronte popolare francese al nazismo tedesco, tutte alle prese con la necessità di rilanciare l’economia, di sconfiggere la disoccupazione di massa, di garantire una certa stabilità sociale. La stessa “età dell’oro” postbellica trovò una delle sue fondamenta in questa dilatazione dell’intervento pubblico, che aveva come corollario una politicizzazione dei rapporti sociali, nonché una crescita di aspettative e investimenti nella politica. Certo, non tutti i fattori che nel dopoguerra permisero il grande sviluppo economico e l’avvento di una società dei consumi di massa furono introdotti già negli anni Trenta. Per esempio, se da un lato in questo decennio furono avviate politiche di incremento della spesa pubblica per sostenere la domanda o vennero creati enti statali per distribuire finanziamenti che sopravvissero al conflitto, o che comunque funzionarono da modello negli anni successivi, dall’altro il mercato internazionale fu ancora dominato da ricette protezionistiche antitetiche alla logica del libero commercio prevalente nella seconda metà del secolo. Si dovette aspettare insomma la cesura bellica per veder accantonate vecchie tare di matrice nazionalista e veder acquisita una nuova coscienza dell’interdipendenza tra le singole economie nazionali: il finanziamento americano per la ricostruzione europea o l’integrazione di vari paesi in un mercato comune resero il secondo dopoguerra molto diverso dal primo. Da questo punto di vista, è più che lecito interpretare gli anni Trenta come un decennio di chiusura protezionistica contro il processo di globalizzazione, come l’ultimo tentativo di difendere l’utopia del “capitalismo nazionale”. Tuttavia, è forse possibile restituire unitarietà al periodo “tra le due crisi” se lo si valuta come una fase di transizione verso il mondo globale di fine Novecento, durante la quale gli stati nazionali hanno cercato di preservare il proprio potere nei confronti del capitalismo internazionale, cercando una complicata convivenza con le istituzioni sovranazionali via via sorte dopo la seconda guerra mondiale. In altri termini, nel quarantennio “tra le due crisi” il rapporto tra gli stati-nazione e il libero mercato era ancora dettato da un principio di funzionalità: si rifiutava o si accettava l’integrazione in un’area commerciale internazionale per lo stesso motivo, ovvero per cercare di assicurare il benessere nazionale. Il mercato globale poteva essere uno strumento, subordinato agli interessi nazionali, ma non era ancora il fine ultimo o un assunto ideologico. Il baricentro del potere iniziò a spostarsi progressivamente verso uno spazio globale sovranazionale, ma non aveva ancora abbandonato la sua vecchia sede: lo stato nazionale. 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 24 1-03-2013 10:29 Pagina 24 Matteo Pasetti 3. Sguardi ravvicinati La periodizzazione che assume le crisi del 1929 e del 1973 come tornanti decisivi del Novecento sembra funzionare insomma non soltanto per la storia economica, ma anche per alcune dinamiche politiche e sociali. L’epoca “tra le due crisi” acquisisce una certa uniformità storica se si mettono a fuoco contemporaneamente i quattro processi interdipendenti che abbiamo delineato a grandi linee nelle pagine precedenti: l’estensione su scala globale di società urbane, industriali, fordiste; l’accelerazione dei consumi di massa e la conseguente antinomia tra omologazione e differenziazione dei comportamenti sociali; la perdita di centralità geopolitica e culturale dell’Europa; l’interventismo della politica in una prospettiva ancora segnata dalla preminenza dello stato nazionale. Tuttavia, rimane ampiamente da verificare la tenuta di tale periodizzazione in specifici contesti locali. In sostanza è questo l’obiettivo dei seguenti saggi, che sono il frutto della rielaborazione delle relazioni presentate a un convegno internazionale svoltosi presso l’Università di Bologna il 27-28 maggio 2010, con la partecipazione di storici italiani, portoghesi e brasiliani. Il convegno ha rappresentato la quinta tappa di una serie di incontri inaugurata nel 2005 sempre a Bologna, e poi proseguita negli anni successivi presso le università di São Paulo (2006), di Coimbra (2007) e delle Azzorre (2008). Nel corso di questi appuntamenti a carattere seminariale l’attenzione si è di volta in volta spostata dalla circolazione di progetti corporativi tra le due guerre mondiali [Pasetti (ed.) 2006] alle politiche repressive dei regimi fascisti [Tucci Carneiro e Croci (eds.) 2010], alle rappresentazioni delle esperienze dittatoriali [Torgal e Paulo (eds.) 2008], alle aporie delle politiche totalitarie [Cordeiro (ed.) 2011]. In occasione di quest’ultimo dibattito è stato da più relatori argomentato che gli esperimenti totalitari degli anni Trenta trovarono ostacoli insormontabili non solo nella coesistenza con altri centri di potere o nella tendenza a una radicalizzazione senza fine insita nella natura stessa del totalitarismo, ma anche in alcune concrete trasformazioni sociali che iniziarono a dispiegarsi in quel decennio e che in parte sfuggivano al controllo degli apparati di regime: per esempio nuovi equilibri tra città e campagne, nuovi fenomeni culturali, nuovi rituali del tempo libero e così via. Da qui l’idea di approfondire la tematica, riaprendo la discussione storiografica sulla periodizzazione del Novecento attorno all’ipotesi di un’epoca centrale delimitata dalle due crisi economiche del 1929 e del 1973. 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 25 25 Come nei convegni precedenti, i riflettori sono stati puntati in particolare su tre paesi: Italia, Portogallo e Brasile. Tre casi di studio che presentano evidenti differenze storiche, ma anche alcune analogie. Anzi, come in un gioco di specchi, la comparazione porta in primo piano rapporti di affinità che mutano continuamente, a seconda dei criteri prescelti. Per esempio, si possono classificare i tre paesi come due piccoli stati europei e uno sudamericano enorme. Oppure come due stati atlantici (e di lingua portoghese) e uno mediterraneo. O come due popoli di emigranti (almeno nei decenni che qui interessano) e uno di immigrati. O come un’ex-colonia e due imperi coloniali (ma uno dei due, il Portogallo, con una dimensione imperiale molto più prolungata nel tempo e determinante nelle vicende politiche ed economiche). Tutti e tre, inoltre, hanno affrontato la crisi degli anni Trenta sotto un regime dittatoriale (tre dittature con vari elementi comuni e una reciproca attenzione ideologica, a partire dal corporativismo, anche se poi schierate su fronti opposti nel corso della seconda guerra mondiale: l’Italia fascista nell’Asse, il Brasile di Vargas dal 1942 con gli Alleati, il Portogallo di Salazar neutrale, politicamente più vicino all’Asse ma disposto a concedere agli Alleati l’uso di basi militari nelle Azzorre). Poi solo lo stato italiano ha conosciuto nel dopoguerra una svolta democratica, mentre quello portoghese consolidava il proprio sistema monopartitico e il brasiliano alternava governi populisti e dittature militari. Viene allora da chiedersi in che misura queste (e altre) variabili abbiano influito sui processi globali di trasformazione in atto “tra le due crisi”. E sorgono quasi spontanee ulteriori domande: quali sono state, nei singoli contesti, le ripercussioni sociali della modernizzazione economica? Che influenza hanno esercitato i modelli provenienti dall’industria culturale americana, e come si sono combinati con le tradizioni locali? Quali culture politiche e quali interessi socio-economici radicati sul territorio hanno cercato di governare la transizione? Sulla base di tali interrogativi, le ricerche e le riflessioni presentate al convegno di Bologna hanno privilegiato tre assi tematici (che corrispondono alle tre sezioni di questo volume), offrendo qualche sguardo ravvicinato a una serie di questioni specifiche: 1) la crisi e la disgregazione del mondo rurale, con un inquadramento dei mutamenti di lungo periodo nell’area mediterranea (Alberto De Bernardi), seguito da indagini sui movimenti migratori dalle campagne dell’Italia settentrionale al sud-ovest della Francia (Pietro Pinna), sui tentativi di sindacalizzazione “dal- 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 26 1-03-2013 10:29 Pagina 26 Matteo Pasetti l’alto” dei contadini e dei pescatori portoghesi (Álvaro Garrido), sulla circolazione di stereotipi razzisti in seguito all’incremento dei flussi migratori verso le campagne e le città brasiliane (Maria Luiza Tucci Carneiro); 2) le nuove dimensioni urbane, con particolare attenzione per l’introduzione del fordismo nel mondo del lavoro industriale italiano (Marica Tolomelli), per i mutamenti morfologici e la politica urbanistica in una città portoghese sotto il regime di Salazar (Nuno Rosmaninho), per le identità socio-politiche nelle principali città coloniali dell’Angola e del Mozambico portoghesi (Fernando Pimenta), per la gestione e l’utilizzo degli spazi urbani di Recife durante l’esperienza dell’Estado Novo brasiliano (Maria das Graças Ataíde de Almeida); 3) i consumi e la cultura di massa, con al centro dell’attenzione l’uso propagandistico dei mezzi di comunicazione di massa (Luís Reis Torgal) e la politicizzazione di televisione e cinema (Noémia Malva Novais) nel Portogallo di Salazar, la scoperta degli stessi mezzi di comunicazione da parte dell’opposizione anti-salazarista in esilio (Heloisa Paulo), l’autorappresentazione del potere nei cinegiornali brasiliani del dopoguerra (Rodrigo Archângelo), le strategie dell’industria culturale italiana nel rivolgersi a un pubblico giovanile (Maria Francesca Piredda). La periodizzazione del Novecento incardinata sulle due crisi degli anni Trenta e degli anni Settanta è stata così sottoposta a una serie di verifiche empiriche, al fine di valutare il suo valore euristico globale considerando l’articolazione degli stessi processi storici su scala locale. Bibliografia Bayly C.A. 2007, La nascita del mondo moderno 1780-1914, Torino: Einaudi Berend I.T. 2008, Storia economica dell’Europa nel XX secolo, Milano: Bruno Mondadori Bourdieu P. 1983, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna: il Mulino Boyer R. e Freyssenet M. 2005, Oltre Toyota. I nuovi modelli produttivi, Milano: Università Bocconi Editore Cordeiro C. (ed.) 2011, Autoritarismos, Totalitarismos e Respostas Democráticas, Coimbra-Ponta Delgada: Centro de Estudos Gaspar Frutuoso da Universidade dos Açores e Centro de Estudos Interdisciplinares do Século XX da Universidade de Coimbra 01Intro_Pasetti.qxp:Layout 1 1-03-2013 10:29 Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione Pagina 27 27 De Grazia V. 2006, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Torino: Einaudi Droz B. 2007, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Milano: Bruno Mondadori Gramsci A. 1975, Quaderni del carcere, a cura di Gerratana V., Torino: Einaudi Harvey D. 1993, La crisi della modernità, Milano: il Saggiatore Heilbroner R.L. 2006, Il capitalismo del XXI secolo, Milano: Bruno Mondadori Koselleck R. 2009, Il vocabolario della modernità. Progresso, crisi, utopia e altre storie di concetti, Bologna: il Mulino – 2012, Crisi. Per un lessico della modernità, Verona: ombre corte Maier C.S. 1997, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in Pavone C. (ed.) 1997, ’900. I tempi della storia, Roma: Donzelli – 1999, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bologna: il Mulino – 2001, Due grandi crisi del XX secolo. Alcuni cenni su anni Trenta e Settanta, in Baldissara L. (ed.) 2001, Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Roma: Carocci Mangoni L. 1997, La cultura: periodizzazioni e apocalissi, in Pavone C. (ed.) 1997, ’900. I tempi della storia, Roma: Donzelli McNeill J.R. 2002, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Torino: Einaudi Mitchell B.R. 1992, International Historical Statistics. Europe 1750-1988, New York: Stockton Press Montanari M. 1997, Introduzione, in Gramsci A. 1997, Pensare la democrazia. 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