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Tra due crisi
Urbanizzazione, mutamenti sociali e cultura di massa
tra gli anni Trenta e gli anni Settanta
a cura di
Matteo Pasetti
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© 2013 by CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla
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Finito di stampare nel mese di marzo 2013
da Studio Rabbi - Bologna
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INDICE
Matteo Pasetti, Introduzione. Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione ...................................................................................................
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Parte I – Crisi e disgregazione del mondo rurale
Alberto De Bernardi, La scomparsa della società rurale e la modernizzazione nei paesi dell’Europa meridionale ............................................
31
Pietro Pinna, Italiani in movimento: le migrazioni rurali verso la Francia tra crisi e integrazione sociale ...........................................................
71
Álvaro Garrido, «A terra e o mar não se sindicalizam!» Casas do Povo
e Casas dos Pescadores, um enquadramento corporativo singular no
Estado Novo português (1933-1974) .....................................................
87
Maria Luiza Tucci Carneiro, Racismo e Imigração: o modelo ideal do
homem trabalhador no campo e na cidade (1930-1945) ........................
111
Parte II – Nuove dimensioni urbane
Marica Tolomelli, Le trasformazioni sociali ed economiche nel mondo
del lavoro italiano (1930-1970) .............................................................
141
Nuno Rosmaninho, Urbanismo autoritário? O caso de Coimbra .........
161
Fernando Tavares Pimenta, Identidades, sociabilidades e urbanidades
na África Colonial Portuguesa: Angola e Moçambique .........................
183
Maria das Graças Ataíde de Almeida, Recife enquanto protótipo da
cidade “higienizada” durante o Estado Novo (1937-1945): a estética
do belo ...............................................................................................
201
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Indice
Parte III – Consumi e cultura di massa
Luís Reis Torgal, Ouvir, ver, ler e... converter. Rádio, cinema e literatura na propaganda do Estado Novo .........................................................
213
Noémia Malva Novais, O ângulo oculto da câmera. Interacção da cultura política com a comunicação de massas no pós guerra .....................
231
Heloisa Paulo, O recurso aos novos meios de comunicação pela propaganda oposicionista antisalazarista exilada: da rádio à televisão (19301973) .....................................................................................................
243
Rodrigo Archangelo, «O poder em cena»: os rituais nos cinejornais do
pós-guerra ..............................................................................................
255
Maria Francesca Piredda, «Non è facile avere 18 anni». Rita Pavone,
icona intermediale nell’industria culturale italiana degli anni Sessanta
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Gli autori ...............................................................................................
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Introduzione
Luci, e qualche ombra, di una periodizzazione
Matteo Pasetti
1. Da una crisi all’altra
Il dibattito storiografico sulla periodizzazione del Novecento ha
avuto finora un andamento singolare: molto acceso in una prima fase,
quando il XX secolo non era ancora chiuso da un punto di vista cronologico, si è praticamente spento all’inizio del nuovo secolo, ma non
certo perché gli storici abbiano raggiunto una posizione condivisa.
Anzi, il confronto fra le diverse interpretazioni si è sostanzialmente
esaurito proprio nel momento in cui si stava definendo una suggestiva variazione sul tema, ovvero una periodizzazione che individua i tornanti decisivi del Novecento non all’interno delle “tre guerre mondiali” (l’esplosione della prima e la rivoluzione bolscevica, la sconfitta del nazifascismo e la nascita di un mondo bipolare, la caduta del
Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda), ma nelle crisi economiche del 1929 e del 1973.
Secondo tale ipotesi, il periodo “tra le due crisi” può essere considerato come un blocco temporale unitario perché presenta una sua
specificità, appare dotato di un “senso” storico. Tanto che si potrebbe sostenere che è proprio questo ciclo, aperto all’inizio degli anni
Trenta e chiuso all’inizio dei Settanta, a rappresentare il “cuore” del
Novecento, non solo per la centralità cronologica, ma anche perché al
suo interno sarebbero racchiuse una serie di esperienze capaci di imprimere la cifra all’intero secolo. In modo sommario, se ne possono indicare almeno quattro: l’industrializzazione di stampo fordista, la diffusione di nuovi modelli di consumo, la provincializzazione dell’Europa, il primato della politica.
Naturalmente, come qualsiasi altra ipotesi di periodizzazione, anche questa presenta alcuni limiti appariscenti. In primo luogo, se si
enfatizza il valore paradigmatico dei decenni “tra le due crisi”, si corre il rischio di ridurre il Novecento a un secolo brevissimo, amputato
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Matteo Pasetti
di fenomeni – come la Grande guerra, o la nascita e il crollo del comunismo sovietico, o la rivoluzione tecnologico-informatica – che sia
a uno sguardo storiografico, sia per il senso comune, appaiono intrinsecamente “novecenteschi”. A scanso di equivoci: i decenni centrali
del XX secolo non possono esaurire il significato storico del Novecento; al massimo ne rappresentano una parte, anche se si ritiene che
proprio questo segmento sia quello che meglio esprime l’essenza del
secolo.
In secondo luogo, attribuire un’unità temporale al periodo a cavallo della seconda guerra mondiale porta a ridimensionare, se non a
sottovalutare, l’epocale cesura provocata da tale conflitto. Seguendo,
per esempio, la schematizzazione di Leonardo Paggi [1997], non si
può ignorare che a partire dal 1945 si sono manifestati quattro profondi mutamenti storici, i primi due riguardanti lo scenario internazionale, gli altri due il rapporto tra politica e società: 1) una trasformazione nella funzione della guerra, riducibile essenzialmente al passaggio da “calda” a “fredda”, nel contesto di un processo di globalizzazione che ha determinato innanzitutto l’esaurimento della prospettiva eurocentrica; 2) la formazione e la crescita di un sistema di interdipendenze nel commercio internazionale che ha implicato, almeno
per le aree a industrializzazione avanzata, l’abbandono della logica del
“capitalismo nazionale”; 3) la ridefinizione della biopolitica, ora non
più espressione di un esercizio del potere teso a manipolare la vita degli individui (fino al caso estremo della politica razziale nazista), ma attuata in forme diametralmente opposte tramite la promozione del benessere e dei consumi di massa; 4) la “secolarizzazione” delle identità
collettive, tra aumento della socialità e tendenza all’atomizzazione, con
il progressivo passaggio da un’idea “forte” a una “debole” della politica. Con ogni evidenza si tratta di svolte significative, che spezzano il
Novecento in due parti, la seconda delle quali è considerabile per vari aspetti tuttora aperta. Se si mettono in risalto queste fratture, la seconda guerra mondiale costituisce dunque uno spartiacque che inaugura un’epoca profondamente diversa dalla precedente, avviando processi che a loro volta non si sono chiusi qualche decennio più tardi, ma
appaiono ancora in corso.
Tuttavia, da altri punti di vista il periodo “tra le due crisi” sembra
conservare una certa omogeneità storica, proprio come segmento di
un’epoca più lunga che ha i suoi albori nella seconda metà del XIX secolo e l’epilogo negli anni Ottanta del XX [Maier 1997]. In questa
prospettiva, l’arco tra il 1929 e il 1973 rappresenta una fase di accelerazione, di potenziamento, di radicalizzazione di alcuni processi già
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avviati – o perlomeno in stato nascente – nel periodo precedente, che
scavallano il crinale della seconda guerra mondiale e continuano a dispiegarsi in forma compiuta nel dopoguerra. Una fase di accelerazione generata appunto dal primo crollo strutturale dell’economia capitalista, o più precisamente dalle reazioni alla Grande depressione; e interrotta, o forse sarebbe meglio dire mutata di segno, cambiata di direzione, dalla seconda crisi mondiale del sistema.
I termini a quo e ad quem sono costituiti dunque da due crisi che
presentano alcune analogie. Entrambe hanno avuto un epicentro ben
individuabile – Wall Street nel 1929, il Medio Oriente nel 1973 – ma
si sono propagate con rapidità in tutto il mondo capitalista, comprovando la stretta interdipendenza ormai stabilitasi tra le singole realtà
nazionali. Entrambe hanno avuto origine economica – o più precisamente finanziaria, la prima, ed energetica, la seconda – ma hanno presto generato profonde ripercussioni politiche, sociali, e perfino culturali, trasformandosi così in vere e proprie crisi di sistema. Entrambe
inoltre sono state precedute da periodi di incubazione, o per meglio
dire sono esplose in momenti storici connotati da una forte instabilità sistemica che ha posto le condizioni per la generalizzazione della
crisi e ne ha accentuato l’effetto dirompente sull’intero ordine sociale. In ambito storiografico, è stato in particolare Charles Maier [2001]
a mettere in luce tale parallelismo: pur distinguendo tra «crisi all’interno del capitalismo», cioè la Grande depressione degli anni Trenta,
e «crisi della società industriale», con il collasso del modello di produzione fordista che negli anni Settanta ha coinvolto sia il mondo capitalista, sia quello sovietico, lo storico americano ha sottolineato come entrambe le crisi avessero radici in una precedente rottura dello
status quo.
Nel primo episodio di crisi sistemica, infatti, il tracollo economico
fece seguito a un vano tentativo di riparare il dissesto politico e sociale provocato dalla Grande guerra, attraverso la restaurazione dell’ordine prebellico. Il primo dopoguerra non rappresenterebbe tanto un
periodo rivoluzionario, come spesso è stato descritto, quanto invece
un periodo conservatore. D’altra parte, la lettura degli anni Venti come un decennio crepuscolare durante il quale «il vecchio muore e il
nuovo non può nascere» ha avuto diversi predecessori. Se la formula
appena citata, tratta da un quaderno del 1930 di Antonio Gramsci
[1975, 311], è spesso utilizzata per la sua forza icastica, si deve a Karl
Polanyi la riflessione coeva più sistematica sul carattere conservatore
degli anni Venti e sul definitivo crollo dell’ordine ottocentesco avvenuto all’inizio dei Trenta.
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Matteo Pasetti
Dato alle stampe a New York nel 1944, ma meditato lungo tutto il
decennio precedente, il suo libro La grande trasformazione costituisce
la vera pietra miliare per qualsiasi riflessione storiografica sulla cesura epocale provocata dalla crisi del 1929. Nell’ottica di Polanyi, infatti, «la prima guerra mondiale e le rivoluzioni del dopoguerra erano
ancora parte del diciannovesimo secolo» [1974, 26], e gli anni Venti
rappresentavano nient’altro che un tentativo di restaurare il sistema capitalistico rigenerando l’utopia del libero mercato autoregolantesi che
aveva connotato la civiltà ottocentesca. Quest’ultima poggiava su quattro cardini: il sistema dell’equilibrio tra le potenze, che aveva garantito una lunga condizione di relativa pace sul piano internazionale; lo
stato liberale, basato su istituzioni democratico-parlamentari che davano espressione politica alle élite borghesi; il gold exchange standard,
che assegnava alla sterlina inglese il ruolo di perno del sistema monetario internazionale; e infine, appunto, la fiducia nella capacità del libero mercato di produrre benessere, semplicemente autoregolandosi.
Era questa fiducia «la fonte e la matrice» più autentica della civiltà liberale ottocentesca [Polanyi 1974, 5]. Ed era da questa fiducia che ripartì il tentativo postbellico di ritornare al passato. L’esplosione della
crisi economica nel 1929 mise a nudo tuttavia l’esito fallimentare della restaurazione: mentre la guerra aveva decretato la fine del sistema
dell’equilibrio tra le potenze, e il dopoguerra aveva svelato la paralisi
delle democrazie borghesi, il crollo di Wall Street travolse gli ultimi
due cardini ancora in piedi della società liberale, ovvero la base aurea
internazionale, abbandonata da tutti i paesi tra il 1931 e il 1933, e
l’utopia del mercato autoregolantesi.
Gli anni Trenta furono di conseguenza gli anni della “grande trasformazione”, ovvero del passaggio a una forma di capitalismo organizzato. O maggiormente organizzato: buona parte del libro di Polanyi, infatti, è volta a dimostrare che un sistema sociale basato sull’economia di mercato non costituisce l’approdo «naturale» delle società umane; anzi, a ben vedere un mercato davvero autoregolantesi
non era esistito nemmeno durante l’età d’oro del liberalismo, poiché
perlomeno dalla metà del XIX secolo il funzionamento del sistema capitalistico aveva richiesto l’allargamento delle prerogative dello stato,
cioè un «intervento» della politica per salvaguardare sia il tessuto sociale, messo in pericolo da un’eccessiva mercificazione dell’esistenza
umana, sia la stessa libertà di mercato, intralciata dalla formazione di
monopoli e dall’organizzazione degli interessi di classe. In sintesi, sostenendo che «l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello stato» [1974, 180], Polanyi considerava
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il liberalismo economico non come un’effettiva pratica di autogoverno dell’economia, bensì come una «religione secolare» [1974, 178],
un «credo militante» [1974, 175] – in termini marxiani, come un elemento puramente sovrastrutturale. Secondo l’antropologo di origini
ungheresi, quindi, ben prima degli anni Trenta del XX secolo la vita
economica era «embedded» (“incastrata”, “incorporata”) nel contesto sociale. Ciò che la “grande trasformazione” produsse fu un’accelerazione in questa direzione, verso una forma di capitalismo in cui
l’economia diventava ancora più embedded, in quanto privata dell’utopia liberale e sottoposta a un più invasivo intervento degli stati
nazionali. Si trattò in ultima analisi di un mutamento del clima politico-culturale, in conseguenza del quale venne meno la fede nel mito
del mercato autoregolantesi, si ricompose la dicotomia ideologica tra
politica ed economia, e venne acquisita «la consapevolezza della realtà della società» [Polanyi 1974, 319]. Dopo il crollo del 1929 il capitalismo sopravvisse a spese del liberalismo economico, che perse l’egemonia culturale detenuta da lungo tempo.
Tornando a Charles Maier, la sua interpretazione del Novecento
presenta diversi punti di contatto con la riflessione polanyiana, a partire da un’analoga contrapposizione tra anni Venti e anni Trenta. Nel
suo primo lavoro importante, uscito a distanza di circa trent’anni da
La grande trasformazione, anche lo storico americano ha descritto gli
anni Venti come un periodo di difficile e parziale rifondazione della
società borghese europea dopo il trauma della Grande guerra. A differenza di Polanyi, però, per Maier non si trattò di una semplice restaurazione, ma di una «trasformazione in senso conservatore» [1999,
36], che produsse un fragile equilibrio tra interessi economici, forze
politiche, classi e nazioni, mediante l’introduzione di importanti innovazioni istituzionali di tipo “corporatista” (consistenti in una politica di costante mediazione fra governi e gruppi d’interesse organizzati
che andò a spostare il centro del potere decisionale dai parlamenti ai
ministeri o a nuove burocrazie parastatali). Il crollo borsistico del 1929
si abbattè dunque su un assetto dei rapporti di potere già precario e
rese vani i tentativi messi in atto dalle classi dirigenti europee per conservare un ordine sociale ed economico ormai compromesso. È in questa instabilità sistemica che va individuato il motivo per cui la crisi finanziaria si trasformò in una Grande depressione che sembrò mettere a repentaglio l’esistenza stessa del capitalismo e impose un profondo ripensamento del rapporto tra politica, economia e società. Al contempo, le soluzioni che vennero predisposte nel corso degli anni Trenta e ribadite dopo la seconda guerra mondiale trovarono alcune anti-
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cipazioni proprio in certe tendenze emerse durante le esperienze corporatiste del primo dopoguerra: in particolare, in un intervento più
organico dello stato sul mercato e nel rafforzamento del ruolo dell’industria nella formulazione delle politiche economiche nazionali.
Delineate – circostanza piuttosto emblematica – a metà degli anni
Settanta, queste tesi di Maier sono state ampiamente discusse in sede
storiografica. Per il tema che qui interessa, cioè la periodizzazione del
Novecento, la loro maggior debolezza consiste probabilmente nel fatto che lo storico americano tende a trarre dallo studio in chiave comparata di soli tre paesi (Francia, Germania, Italia) conclusioni di carattere generale (come lascia intendere fin dal titolo del volume: La rifondazione dell’Europa borghese), quando invece sembra difficile poter applicare lo stesso paradigma interpretativo basato sul concetto di
corporatismo a tutte le differenti realtà politiche e sociali del continente (per esempio alle economie ancora prettamente rurali della penisola iberica o dell’Europa orientale). Inoltre, per quanto in questo
caso specifico non sia imputabile a Maier l’intento di proporre uno
schema periodizzante universalmente valido, affiora qui un problema
di prospettiva che non si può eludere: l’idea che la crisi del 1929, facendo seguito al vano tentativo di tenere in piedi un sistema sociale già
destabilizzato dalla Grande guerra, abbia segnato la fine di un’epoca
che validità ha fuori dallo scenario storico europeo, o tutt’al più occidentale?
In seguito al libro sulla rifondazione dell’Europa borghese, comunque, Maier è tornato ripetutamente a riflettere sulla periodizzazione dell’età contemporanea, riproponendo in forma più articolata la
visione della crisi del 1929 come crisi nel sistema capitalistico, e quindi ribadendo il valore periodizzante di questo tornante, sebbene senza omettere alcune linee di continuità che attraversano tutta l’«epoca
lunga» della territorialità, della produzione industriale di massa e del
nazionalismo, apertasi all’incirca nell’ultimo quarto dell’Ottocento
[Maier 1997]. In diversi interventi, ha inoltre spostato l’attenzione sul
secondo caso novecentesco di crisi sistemica, cioè quello degli anni
Settanta, facendo notare che anche questa crisi del sistema industriale aveva le sue premesse in una precedente perdita di stabilità, ovvero nell’esaurimento delle politiche economiche impiegate proprio per
superare la Grande depressione degli anni Trenta. La capacità di promuovere crescita economica, piena occupazione e ridistribuzione della ricchezza, assicurata per qualche decennio da politiche economiche che si è soliti ricondurre alla lezione di John Maynard Keynes (anche se le teorie dell’economista inglese non furono la fonte di ispira-
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zione comune a tutte le esperienze nazionali), iniziò a declinare già
negli anni Sessanta, quando emerse che l’incremento della spesa pubblica per stimolare l’economia e proteggere la società generava anche
una preoccupante spirale inflazionistica. Alla progressiva perdita di
funzionalità della soluzione keynesiana si sovrappose «un più vasto
cambiamento nei ruoli e nei valori sociali che colpì il mondo industriale da metà anni Sessanta in poi: un’indisponibilità a guardare agli
esseri umani meramente come soldati nello scontro della guerra fredda o come “lavoratori”. Il benessere portò con sé il desiderio di soddisfare il privato, di lasciar allentare la disciplina sociale e famigliare»
[Maier 2001, 52-3]. Come la crisi economica del 1929, anche quella
del 1973 si abbattè quindi su un ordine sociale già destabilizzato, in cui
si era rotto l’equilibrio tra governo degli interessi, da un lato, aspettative e bisogni collettivi dall’altro.
In sintesi, fu il Sessantotto a produrre le condizioni favorevoli non
tanto, ovviamente, per l’esplosione della crisi economica degli anni Settanta, quanto per la sua dilatazione alla sfera politico-culturale (per
esempio: il problema energetico scaturito dal blocco del petrolio arabo
sarebbe stato percepito come l’inesorabile dimostrazione dell’insostenibilità di un modello di sviluppo industriale, se non fosse stato preceduto dalla critica sessantottina alla società dei consumi?). In un certo
senso, la crisi petrolifera del 1973 ha scatenato una “crisi della modernità” [Harvey 1993] perché si è innestata sull’eredità dei movimenti di
contestazione del decennio precedente. Nella misura in cui gli anni Settanta hanno prodotto la fine di un’idea di progresso, un mutamento delle modalità di organizzare la produzione industriale, una riconfigurazione del mondo del lavoro nel segno della flessibilità, una svolta in senso antistatalista nel rapporto di forze tra potere politico e potere economico, una tendenza all’individualizzazione dell’agire sociale, le radici di questa complessiva ristrutturazione delle società capitalistiche possono essere rintracciate nella contestazione antisistema, appunto, del
decennio precedente. L’onda dei movimenti collettivi degli anni Sessanta non riuscì a rivoluzionare l’ordine esistente, ma riuscì a destabilizzarlo mettendone in discussione le fondamenta socio-culturali. La crisi economica degli anni Settanta si abbatté su società in equilibrio precario, rovesciando non solo il loro assetto produttivo, ma anche la visione del mondo prevalente da alcuni decenni: com’è stato scritto in riferimento al caso americano, nell’ultimo quarto del XX secolo si è formulata una nuova percezione della realtà sociale, che non era più imperniata sui concetti di società, storia, potere, ma su quelli di individualità, contingenza, scelta [Rodgers 2011].
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Se così è, considerando a posteriori gli esiti della transizione, siamo di fronte a un ennesimo caso di eterogenesi dei fini, poiché la
scomposizione del sistema capitalistico avviata dal Sessantotto e portata a termine nel decennio successivo tutto sembra aver generato tranne quella società essenzialmente più libera, egualitaria, affrancata innanzitutto dal “totalitarismo del lavoro”, auspicata dai movimenti di
contestazione [Revelli 2001, 171-87]. Ma aldilà degli esiti, ciò che qui
interessa rilevare è soprattutto che la crisi economica degli anni Settanta è diventata crisi sistemica, crisi della civiltà industriale, anche
perché nel frattempo erano diventati instabili i cardini portanti dell’ordine sociale e culturale, proprio com’era successo circa quarant’anni prima con la precedente crisi nel capitalismo.
Per tale ragione, entrambe le congiunture storiche sono state percepite fin da subito, già da numerosi osservatori coevi, come passaggi epocali, tanto da generare in tutti e due i periodi un’ampia “letteratura della crisi”. Se, come ha scritto Luisa Mangoni [1997, 74], gli anni Trenta
vennero immediatamente interpretati come «crinale tra un prima e un
poi, punto di arrivo di un percorso che affondava le sue radici nell’Ottocento, e punto di partenza di processi in atto ma avvertiti come privi
di soluzione», qualcosa di analogo è accaduto anche negli anni Settanta. Per rimanere agli autori citati, non è un caso che la riflessione di Maier sulla periodizzazione dell’età contemporanea abbia preso le mosse da
metà di quel decennio, quando vari ambienti intellettuali iniziarono a
percepire che si stava chiudendo una fase storica e che, per una corretta comprensione della transizione, andavano innanzitutto rintracciate
le origini e individuate le peculiarità del presente in procinto di diventare passato. Ed è ancor meno casuale che nello stesso frangente sia stata riscoperta, dopo anni di relativo oblio, La grande trasformazione di
Polanyi, così da suscitare via via l’esigenza di tradurre per la prima volta il libro in varie lingue (in italiano nel 1974, in tedesco nel 1977 e di
nuovo nel 1978, in portoghese-brasiliano nel 1980, in francese nel 1983,
in spagnolo nel 1989): nel momento in cui il liberalismo economico tornava a rivestire il ruolo di “religione secolare” egemone, la critica polanyiana riacquistava attualità.
Semmai, se il carattere dirompente delle dinamiche in corso era
chiaro sia negli anni Trenta, sia nei Settanta, a rivelarsi fallaci sono state le profezie presenti in molta di questa “letteratura della crisi”. Diversamente da quanto spesso venne prospettato, nessuna delle due
congiunture ha portato alla fine del capitalismo, alla distruzione del sistema, all’avvento di un “nuovo mondo”. Entrambe sono sfociate invece in una profonda ristrutturazione sistemica, al termine della qua-
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le sono mutati i connotati politici, economici, culturali della società
capitalista, ma che sempre capitalista è rimasta. In questo senso, le
due crisi possono essere intese come krisis nel senso originario del termine, attinente al campo della medicina [Koselleck 2012, 31-5]. Esse
si sono manifestate come la fase più acuta di una malattia, dall’esito incerto, che non escludeva la possibilità della “morte del malato”, in
questo caso un sistema sociale, ma che si è risolta con la sua “guarigione”, ottenuta tramite una salvifica metamorfosi.
Com’è stato argomentato, in particolare da Reinhart Koselleck
[2009 e 2012], dal XIX secolo in poi il concetto di crisi ha conosciuto un allargamento semantico che di fatto lo ha reso polivalente ed
estremamente impreciso. Soprattutto in tempi recenti si è talmente
abusato del termine che uno “stato di crisi” rischia di apparire ormai
come una condizione permanente e invasiva, non più un’eccezione ma
la norma. Il mondo contemporaneo sembra insomma attraversare una
“crisi senza fine” [Revault d’Allonnes 2012]. Ciononostante, proprio
recuperando il significato originale del termine, il richiamo cioè a una
fase di passaggio, a una condizione di incertezza che richiede una trasformazione per essere superata, la congiuntura degli anni Trenta e
quella dei Settanta meritano entrambe l’appellativo di crisi, e anzi possono essere interpretate come due crisi determinanti nella storia del
Novecento, avendone mutato il profilo per due volte.
2. Profilo di un’epoca
Delimitato com’è dai due più gravi terremoti economici del secolo, il periodo “tra le due crisi” presenta elementi di uniformità innanzitutto nel campo dell’economia, in particolare per il rafforzamento
di un processo di industrializzazione che attraversa tutta l’età contemporanea ma che ha conosciuto in quel quarantennio tassi di crescita senza precedenti, più ampia diffusione geografica, maggior attenzione politica, e soprattutto profonde ripercussioni sulle strutture
sociali e le forme culturali.
Benché sovente spiegata come un problema di sovraproduzione,
dalla Grande depressione le economie industriali uscirono potenziando la propria capacità manifatturiera: in quasi tutti i paesi europei,
già nella seconda metà degli anni Trenta venne recuperato e spesso
superato il livello di produttività industriale del 1928, che nel 1932 risultava crollato [Berend 2008, 80]. Da lì in poi la crescita industriale
non conobbe più interruzioni di natura economica fino agli anni Set-
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tanta (l’unica vera interruzione fu di natura bellica, provocata cioè dalle distruzioni della seconda guerra mondiale; ma va detto che lo stesso conflitto diede un forte impulso all’industrializzazione, per soddisfare le esigenze militari, e che un’ulteriore spinta derivò dalle necessità della ricostruzione postbellica). Una crescita che non toccò solo
l’Occidente: dagli anni Trenta nuovi paesi entrarono a far parte del
mondo industriale, a partire ovviamente dall’Unione sovietica, che
proprio in quel decennio iniziò a costruire, a ritmo forsennato, il suo
gigantesco apparato produttivo.
Si accentuò così, “tra le due crisi”, la più importante dinamica di
modernizzazione strutturale in atto nel Novecento, ovvero la transizione di forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria e il terziario.
Mentre gli stabilimenti industriali proliferavano anche in zone fino ad
allora prettamente rurali, inglobando nel territorio urbano larghe strisce di campagna e modificando innanzitutto il paesaggio, la fabbrica
e la classe operaia acquisivano centralità sulla scena sociale, nell’agenda politica, nell’immaginario culturale. Nel frattempo andava
dilatandosi un ceto medio urbano legato al commercio, ai servizi, a
funzioni amministrative o burocratiche.
In altri termini, in un numero crescente di paesi si avviò o giunse a
compimento un epocale processo di disgregazione della società rurale, che in un certo senso potremmo considerare come il vero segno
del passaggio alla modernità novecentesca. La sua principale manifestazione consistette nel trasferimento di popolazione dalle campagne
alle città: un fenomeno migratorio che riguardò sia il “vecchio” mondo industriale, dove era già in corso dal secolo precedente (dal 1930
al 1970 la popolazione urbana in Europa occidentale passò dal 55%
al 72%, negli Usa dal 56% al 70%, in Giappone dal 48% al 71%), sia
il resto del pianeta, dove ancora alla fine degli anni Venti era pressoché inedito (nello stesso arco temporale, 1930-1970, la popolazione
urbana in Cina passò dal 6% al 17%, in Asia meridionale dal 12% al
21%, in Africa dal 7% al 23%, in America latina e in Urss addirittura dal 17-18% al 57%). Nel complesso, la quota mondiale della popolazione urbana aumentò dal 23% del 1930 al 37% del 1970 [tutti i
dati sono tratti da McNeill 2002, 361]. Si trattò di una profonda trasformazione sociale, che in molte regioni del pianeta mise ai margini
del sistema economico e culturale la famiglia contadina, le sue tradizioni, le sue eredità valoriali, le sue attribuzioni di ruoli predefiniti in
base a identità di genere o gerarchie generazionali.
Questa disgregazione della società rurale non fu certo un processo circoscritto ai decenni centrali del XX secolo, poiché era già in at-
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to dall’Ottocento, almeno in certe regioni occidentali, e prosegue tuttora, soprattutto nei paesi emergenti. Fu però “tra le due crisi” che
l’urbanizzazione divenne un fenomeno globale, che combinandosi con
l’industrializzazione modificò definitivamente l’assetto ambientale, demografico ed economico del pianeta. In seguito, la svolta degli anni
Settanta ha innescato invece una dinamica parzialmente diversa, una
sfasatura geografica: nelle aree a capitalismo avanzato, dove il tessuto
industriale ha ceduto il passo di fronte alla progressiva terziarizzazione della società, il nesso tra urbanizzazione e industrializzazione si è
rotto, mentre nel resto del mondo, e soprattutto in Asia e Sud America, una nuova divisione internazionale del lavoro ha continuato a far
crescere i centri urbani principalmente come poli industriali.
L’espansione della società urbana e industriale nel periodo “tra le
due crisi” si accompagnò inoltre a un rinnovamento strutturale del sistema produttivo. Dagli anni Trenta si ridefinì innanzitutto il peso economico dei singoli comparti del settore secondario: mentre le industrie tradizionali persero terreno, furono quelle tecnologicamente più
avanzate a conoscere l’ascesa produttiva e occupazionale più rilevante. Iniziarono così ad affermarsi come settori trainanti quei rami dell’industria – l’automobilismo, la chimica, l’elettrotecnica – che furono
poi i grandi protagonisti del boom postbellico (come riconosce per
esempio anche Sidney Pollard [1999, 126-7], pur adottando una periodizzazione che spezza in tre cicli di quindici anni l’uno la storia dell’economia mondiale “tra le due crisi”). Motorizzazione, plastificazione, elettrificazione sono le parole-chiave del tipo di espansione industriale che si mise in moto dopo la Grande depressione e che proseguì fino all’inizio degli anni Settanta. Se volessimo misurare la potenza di questo processo di industrializzazione tramite un unico indicatore, farebbe al caso nostro l’aumento di produzione di energia elettrica che si registrò in Europa (Urss compresa) in questo squarcio di
secolo: con un incremento esponenziale, raddoppiando di decennio in
decennio, la quantità di GigaWatt/ora prodotti crebbe da 118 nel
1929 a 237 nel 1939, a 685 nel 1949, a 870 nel 1959, a 1977 nel 1969
[Mitchell 1992, 546-9]. In un quarantennio, venne elettrificato l’intero continente: il suo sistema produttivo, ma anche le sue città, le abitazioni, gli uffici, i negozi.
Le condizioni che permisero uno sviluppo industriale senza precedenti furono molteplici. Oltre al reperimento di combustibili (carbone,
gas, petrolio) e alla dotazione di infrastrutture per produrre e distribuire energia elettrica in grandi quantità, fu necessario investire risorse in
ricerca scientifica capace di generare innovazioni tecnologiche, incre-
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mentare il potere d’acquisto delle masse al fine di smaltire sul mercato
i beni di consumo durevoli, introdurre sistemi di produzione in serie in
grado di aumentare la produttività manifatturiera. Quest’ultimo fattore giocò un ruolo fondamentale, tanto da imprimere un sigillo all’intera epoca: il tratto distintivo di questa fase di industrializzazione accelerata fu costituito infatti dal successo mondiale del modello di produzione fordista, inaugurato in Usa negli anni Dieci ma introdotto nei sistemi industriali degli altri paesi a partire dagli anni Trenta.
Il fordismo, inteso come sistema di produzione di massa in grandi
fabbriche, imperniato sull’idea della catena di montaggio, su una rigida divisione gerarchica del lavoro, sulla standardizzazione dei prodotti, sullo stoccaggio di grandi scorte, divenne il prototipo stesso del
capitalismo industriale – anche se nella realtà il modello fordista coesisteva ovunque con altre forme di organizzazione produttiva [Boyer
e Freyssenet 2005]. Fra l’altro, analoghe tendenze a una razionalizzazione di stampo fordista connotavano anche il sistema industriale che
doveva rappresentare la grande alternativa al capitalismo, ovvero il
comunismo sovietico: la fabbrica della Ford a Detroit descritta da Louis-Ferdinand Céline nel Viaggio al termine della notte (1932) funzionava in modo del tutto simile a quelle celebrate nella narrativa del realismo socialista. La differenza, piuttosto, riguardava il rapporto con
la società: nel mondo capitalistico il fordismo non forniva “solo” una
disciplina del lavoro di fabbrica e una logica di organizzazione produttiva, ma entrando in simbiosi con l’“americanismo” – come aveva
intuito fin dall’inizio Gramsci – contribuì a diffondere negli anni Cinquanta e Sessanta anche uno specifico funzionamento del sistema sociale, incardinato sull’idea che la produzione in serie implicasse in primo luogo il consumo di massa.
A partire dagli anni Trenta, infatti, nelle società capitalistiche si avviò una riorganizzazione dei nessi tra produzione, circolazione e consumo delle merci. Una riorganizzazione, ispirata al modello americano e giunta a maturazione nel dopoguerra, che segnò il passaggio
dall’“era della produzione” all’“era della distribuzione”: per spiegare
il successo imprenditoriale di Henry Ford, nel 1932 Gramsci osservava che il segreto non stava solo nell’organizzazione del lavoro interna
alla fabbrica, ma anche o soprattutto nel fatto che Ford era uscito «dal
campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce» [1975, 1282], operando in pratica una «decentralizzazione della fabbrica» [Montanari
1997, XIX], ovvero spostando all’esterno delle officine la cabina di
regia dell’impresa. Gradualmente, nell’arco del quarantennio com-
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preso tra gli anni Trenta e i Settanta, una strada analoga venne seguita in tutto il mondo capitalista, con la progressiva invenzione di nuove figure manageriali addette non tanto alla realizzazione dei prodotti quanto alla loro circolazione, e quindi con la diffusione di tecniche
di marketing, la proliferazione dei linguaggi pubblicitari, l’apertura di
più complesse filiere produttive e commerciali. In questo senso, il periodo “tra le due crisi” fu al tempo stesso il periodo di maggior centralità della fabbrica nel sistema economico occidentale e il periodo in
cui il mercato divenne sempre più influenzato da manager e mediatori “esterni” ai luoghi di produzione delle merci.
Questa riorganizzazione del rapporto tra produzione e distribuzione delle merci fu alla base del grande incremento dei consumi che
si registrò soprattutto nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il passaggio dall’“era della produzione” all’“era della distribuzione” fu funzionale all’“era del consumo di massa”. Anche in questo
caso, la lezione decisiva arrivò dall’America: l’accesso ai beni doveva
essere potenzialmente alla portata di tutti, cioè doveva dipendere semplicemente dalla disponibilità di reddito e non dall’appartenenza a
un’élite sociale [De Grazia 2006, XXVI]. Al contempo, il possesso di
un’automobile, di una lavatrice o di una televisione non rispondeva
esclusivamente alla soddisfazione di bisogni legati alla vita quotidiana,
ma significava anche la conquista di uno status sociale.
Le identità e i comportamenti collettivi divennero sempre più influenzati dai nuovi modelli di consumo, che spesso trovavano ispirazione ed espressione nella circolazione di una cultura di massa composita, formata da molteplici esperienze in gran parte inedite fino agli
anni Trenta: l’avvento del cinema sonoro, innanzitutto, capace, in particolare nella sua versione hollywoodiana, di forgiare un potente immaginario, tendenzialmente globale benché diversamente declinato
nei singoli contesti locali; il rinnovamento del panorama editoriale,
con la diffusione di collane economiche, di riviste, di rotocalchi, di fumetti, rivolti a svariati e specifici segmenti di pubblico (le donne, i giovani, gli adolescenti, gli appassionati di sport ecc.); il mutamento dei
paesaggi sonori attraverso la radiofonia e il consumo discografico di
massa, con l’invenzione di nuovi generi musicali destinati, anche in
questo caso, a precisi gruppi di fruitori, secondo una segmentazione
di tipo generazionale più che geografico; infine la regolare trasmissione di programmi televisivi di vario genere (d’informazione, d’intrattenimento, sportivi ecc.), che decretò l’irruzione nel sistema delle comunicazioni di massa di un nuovo potente media, sperimentato negli
anni Trenta ma diffuso su grande scala dai primi anni Cinquanta.
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Secondo i commenti di molti osservatori del tempo, tra i quali vari esponenti di una schiera di scienze sociali emergenti, l’insieme di
queste dinamiche stava veicolando un processo di omologazione culturale, sotto il segno dell’“americanizzazione” dell’Europa e in prospettiva del mondo intero, che avrebbe sancito l’ascesa degli Usa come centro egemonico di un sistema globale e prodotto una mutazione antropologica delle società periferiche.
In effetti la “provincializzazione” della cultura europea decretò la
fine di un primato conseguito nel corso dell’Ottocento, quando l’Europa aveva conquistato un ruolo egemone su un mondo ancora policentrico, con l’estensione di un imperialismo multiforme (politico,
ideologico, economico, sociale), sebbene pur sempre parziale e contrastato [Bayly 2007]. Negli anni Trenta del XX secolo il dominio
dell’Europa sembrava più esteso che mai, sia da un punto di vista
geografico, sia da quello economico: la stessa crisi del 1929 aveva indotto le potenze europee, che dopo la prima guerra mondiale controllavano uno spazio ancor più ampio, ad accentuare lo sfruttamento delle risorse coloniali [Droz 2007, 1]. E invece quel decennio, per
il primato dell’Europa, rappresentò l’apogeo nel vero senso del termine, cioè l’inizio della fine. Con la nascita e il radicamento di movimenti d’indipendenza nazionale in molti territori coloniali, infatti, si
mise in moto quel processo di decolonizzazione che nel dopoguerra
portò alla perdita di centralità dell’Europa non solo sul piano geopolitico o economico, ma anche su quello culturale, costituendo così una delle evoluzioni storiche più importanti del Novecento (fra l’altro, un processo significativamente giunto a termine proprio negli anni Settanta).
“Provincializzazione” dell’Europa e “americanizzazione” del mondo furono quindi due tendenze parallele e simultanee. In realtà, tuttavia, per quanto sia indiscutibile l’influenza dell’America su buona
parte della cultura di massa in circolazione nel periodo “tra le due crisi”, così come sui modelli di consumo o su certi comportamenti collettivi, in ogni presunta periferia il risultato fu sempre l’esito non di
una mera imitazione, o ancor meno di un’imposizione dall’alto, bensì di un processo di ibridazione, non privo di conflitti e resistenze [De
Grazia 2006]. Tanto più che le trasformazioni socio-culturali in atto
non producevano esclusivamente omologazione. Come hanno messo
in luce successive indagini sociologiche – e in primo luogo Pierre
Bourdieu [1983] – l’affermazione di un mercato di massa non significò l’abolizione delle “distinzioni” sociali. Anzi, la sfera culturale e
commerciale divenne una fonte inesauribile di nuovi modelli di rife-
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rimento, nuovi stili di vita, nuove identità di gruppo, producendo di
conseguenza una maggior differenziazione, rispetto al passato, all’interno delle singole comunità locali. In fin dei conti, le società divennero al contempo più uniformi e più differenziate: da un lato, la sfera
pubblica di massa le mise a contatto con riferimenti comuni, che superavano l’ambito locale e afferivano a una dimensione nazionale, continentale o addirittura globale; dall’altro, l’industria culturale conosceva anche logiche di nicchia e poteva rivolgersi a specifici segmenti
di mercato, assecondando tendenze alla differenziazione messe in atto da pratiche sociali e spinte soggettive.
La figura chiave di questo sistema sociale ed economico divenne
dunque il “cittadino consumatore”, disposto a riversare un’ampia
parte del proprio reddito nell’acquisto di beni di consumo. Ma perché ciò potesse avvenire, erano necessarie due condizioni preliminari. La prima riguardava il mondo del lavoro e consisteva in un regime occupazionale tendente al pieno impiego. Alla luce degli effetti catastrofici della crisi esplosa nel 1929, la lezione degli anni Trenta derivava infatti dalla scoperta della disoccupazione come problema insieme economico, sociale e politico, per cui la politica aveva il dovere di intervenire con provvedimenti di stampo sia economico, sia sociale [Orientale Caputo 2009]. Era questa in sostanza la “grande trasformazione” messa a fuoco da Polanyi: un cambiamento del clima
politico-culturale, in base al quale l’opinione pubblica riconosceva la
necessità dell’intervento politico per difendere la società dalle distorsioni del libero mercato. Da quel decennio in poi l’obiettivo prioritario di qualsiasi politica economica divenne la lotta alla disoccupazione, generalmente combattuta su un doppio fronte: 1) la creazione di posti di lavoro tramite la realizzazione di opere pubbliche e
il sostegno statale alle imprese private; 2) la costruzione di un sistema di protezione e assistenza sociale. In gran parte riassorbita già nella seconda metà degli anni Trenta, fino alla fine degli anni Sessanta si
registrarono i livelli di disoccupazione mediamente più bassi di tutto il XX secolo. La crisi degli anni Settanta mutò invece lo scenario
e il problema all’ordine del giorno divenne un altro: l’inflazione. Ora
l’obiettivo prioritario non era più la piena occupazione, ma restituire stabilità al sistema monetario, anche a scapito del lavoro [Heilbroner 2006, 68-73].
Il secondo requisito alla base del buon funzionamento del sistema
fordista occidentale consisteva in un certo grado di pacificazione sociale. Dopo il crollo del 1929 si instaurò infatti un nuovo contratto sociale, per certi aspetti anticipato – come ha sostenuto Charles Maier –
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da alcune tendenze “corporatiste” degli anni Venti, ma inaugurato in
forme compiute solo dal New Deal rooseveltiano. Questo compromesso, che aveva nella diffusione della grande fabbrica fordista un suo
presupposto, definì con precisione il rapporto tra stato nazionale, capitale aziendale e lavoratori organizzati: lo stato si assumeva nuove responsabilità, a partire dall’erogazione di investimenti pubblici, dalla
promozione del benessere sociale, dalla mediazione tra le controparti, dal controllo dei cicli economici tramite politiche monetarie e fiscali; il capitale aziendale si impegnava a promuovere la crescita industriale, svolgendo un ruolo di traino nell’innalzamento dei livelli di
vita generali e riconoscendo, seppur con qualche riluttanza, le rappresentanze sindacali; i lavoratori organizzati accettavano di collaborare all’incremento della produttività industriale, rinunciando ai propositi di esercitare la gestione diretta delle fabbriche in cambio di un
allargamento del mercato del lavoro, di aumenti salariali, di maggiori
possibilità di accedere ai beni di consumo [Harvey 1993, 166-9]. È
vero che in gran parte del mondo capitalistico questo compromesso
sociale venne stabilito solo nel secondo dopoguerra, ma le sue premesse vanno comunque rintracciate nel dibattito intellettuale e negli
scontri ideologici degli anni Trenta, e poi nella guerra e nella vittoria
contro i fascismi. A ben vedere, gli stessi regimi fascisti rappresentarono una versione estrema di tale compromesso: una versione liberticida che attraverso il dirigismo economico incrementava le funzioni e
il potere dello stato, ma salvaguardava comunque gli interessi del capitale aziendale e pensava di risarcire la forza lavoro, schiacciata sotto il giogo autoritario, con alcuni benefici di tipo previdenziale o assistenziale.
Sul piano politico, il periodo “tra le due crisi” coincise dunque con
una ridefinizione del ruolo dello stato. Già durante la prima guerra mondiale tutti gli stati belligeranti avevano adottato inedite procedure di
controllo e di direzione dei sistemi produttivi nazionali, al fine di subordinare totalmente l’economia alla produzione bellica e alla fornitura di beni destinati alle truppe. Ma fu solo nelle condizioni di emergenza degli anni Trenta – «epoca di sperimentazione posta all’insegna
dell’urgenza» [Thomas 1998, 39] – che la mobilitazione generale collaudata nel corso della Grande guerra diventò una prassi coerente, dotata di una teorizzazione dottrinaria che rovesciava il paradigma liberista fino ad allora prevalente. Iniziò così a formarsi il concetto stesso di
politica economica, come insieme predefinito di misure e provvedimenti
governativi nel campo dell’economia. Ma il punto è che l’interventismo
statale accomunava esperienze di opposta ispirazione ideologica, dal
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New Deal americano al fascismo italiano, dal Fronte popolare francese
al nazismo tedesco, tutte alle prese con la necessità di rilanciare l’economia, di sconfiggere la disoccupazione di massa, di garantire una certa stabilità sociale. La stessa “età dell’oro” postbellica trovò una delle sue
fondamenta in questa dilatazione dell’intervento pubblico, che aveva
come corollario una politicizzazione dei rapporti sociali, nonché una
crescita di aspettative e investimenti nella politica.
Certo, non tutti i fattori che nel dopoguerra permisero il grande sviluppo economico e l’avvento di una società dei consumi di massa furono introdotti già negli anni Trenta. Per esempio, se da un lato in questo
decennio furono avviate politiche di incremento della spesa pubblica
per sostenere la domanda o vennero creati enti statali per distribuire finanziamenti che sopravvissero al conflitto, o che comunque funzionarono da modello negli anni successivi, dall’altro il mercato internazionale fu ancora dominato da ricette protezionistiche antitetiche alla logica del libero commercio prevalente nella seconda metà del secolo. Si
dovette aspettare insomma la cesura bellica per veder accantonate vecchie tare di matrice nazionalista e veder acquisita una nuova coscienza
dell’interdipendenza tra le singole economie nazionali: il finanziamento americano per la ricostruzione europea o l’integrazione di vari paesi
in un mercato comune resero il secondo dopoguerra molto diverso dal
primo. Da questo punto di vista, è più che lecito interpretare gli anni
Trenta come un decennio di chiusura protezionistica contro il processo di globalizzazione, come l’ultimo tentativo di difendere l’utopia del
“capitalismo nazionale”.
Tuttavia, è forse possibile restituire unitarietà al periodo “tra le due
crisi” se lo si valuta come una fase di transizione verso il mondo globale
di fine Novecento, durante la quale gli stati nazionali hanno cercato di
preservare il proprio potere nei confronti del capitalismo internazionale, cercando una complicata convivenza con le istituzioni sovranazionali via via sorte dopo la seconda guerra mondiale. In altri termini,
nel quarantennio “tra le due crisi” il rapporto tra gli stati-nazione e il
libero mercato era ancora dettato da un principio di funzionalità: si rifiutava o si accettava l’integrazione in un’area commerciale internazionale per lo stesso motivo, ovvero per cercare di assicurare il benessere
nazionale. Il mercato globale poteva essere uno strumento, subordinato agli interessi nazionali, ma non era ancora il fine ultimo o un assunto ideologico. Il baricentro del potere iniziò a spostarsi progressivamente verso uno spazio globale sovranazionale, ma non aveva ancora
abbandonato la sua vecchia sede: lo stato nazionale.
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3. Sguardi ravvicinati
La periodizzazione che assume le crisi del 1929 e del 1973 come
tornanti decisivi del Novecento sembra funzionare insomma non soltanto per la storia economica, ma anche per alcune dinamiche politiche e sociali. L’epoca “tra le due crisi” acquisisce una certa uniformità storica se si mettono a fuoco contemporaneamente i quattro processi interdipendenti che abbiamo delineato a grandi linee nelle pagine precedenti: l’estensione su scala globale di società urbane, industriali, fordiste; l’accelerazione dei consumi di massa e la conseguente antinomia tra omologazione e differenziazione dei comportamenti
sociali; la perdita di centralità geopolitica e culturale dell’Europa; l’interventismo della politica in una prospettiva ancora segnata dalla preminenza dello stato nazionale.
Tuttavia, rimane ampiamente da verificare la tenuta di tale periodizzazione in specifici contesti locali. In sostanza è questo l’obiettivo
dei seguenti saggi, che sono il frutto della rielaborazione delle relazioni presentate a un convegno internazionale svoltosi presso l’Università di Bologna il 27-28 maggio 2010, con la partecipazione di storici italiani, portoghesi e brasiliani. Il convegno ha rappresentato la
quinta tappa di una serie di incontri inaugurata nel 2005 sempre a Bologna, e poi proseguita negli anni successivi presso le università di São
Paulo (2006), di Coimbra (2007) e delle Azzorre (2008). Nel corso di
questi appuntamenti a carattere seminariale l’attenzione si è di volta in
volta spostata dalla circolazione di progetti corporativi tra le due guerre mondiali [Pasetti (ed.) 2006] alle politiche repressive dei regimi fascisti [Tucci Carneiro e Croci (eds.) 2010], alle rappresentazioni delle esperienze dittatoriali [Torgal e Paulo (eds.) 2008], alle aporie delle politiche totalitarie [Cordeiro (ed.) 2011]. In occasione di quest’ultimo dibattito è stato da più relatori argomentato che gli esperimenti totalitari degli anni Trenta trovarono ostacoli insormontabili
non solo nella coesistenza con altri centri di potere o nella tendenza a
una radicalizzazione senza fine insita nella natura stessa del totalitarismo, ma anche in alcune concrete trasformazioni sociali che iniziarono a dispiegarsi in quel decennio e che in parte sfuggivano al controllo degli apparati di regime: per esempio nuovi equilibri tra città e campagne, nuovi fenomeni culturali, nuovi rituali del tempo libero e così
via. Da qui l’idea di approfondire la tematica, riaprendo la discussione storiografica sulla periodizzazione del Novecento attorno all’ipotesi
di un’epoca centrale delimitata dalle due crisi economiche del 1929 e
del 1973.
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Come nei convegni precedenti, i riflettori sono stati puntati in particolare su tre paesi: Italia, Portogallo e Brasile. Tre casi di studio che
presentano evidenti differenze storiche, ma anche alcune analogie. Anzi, come in un gioco di specchi, la comparazione porta in primo piano rapporti di affinità che mutano continuamente, a seconda dei criteri prescelti. Per esempio, si possono classificare i tre paesi come due
piccoli stati europei e uno sudamericano enorme. Oppure come due
stati atlantici (e di lingua portoghese) e uno mediterraneo. O come
due popoli di emigranti (almeno nei decenni che qui interessano) e
uno di immigrati. O come un’ex-colonia e due imperi coloniali (ma
uno dei due, il Portogallo, con una dimensione imperiale molto più
prolungata nel tempo e determinante nelle vicende politiche ed economiche). Tutti e tre, inoltre, hanno affrontato la crisi degli anni Trenta sotto un regime dittatoriale (tre dittature con vari elementi comuni
e una reciproca attenzione ideologica, a partire dal corporativismo,
anche se poi schierate su fronti opposti nel corso della seconda guerra mondiale: l’Italia fascista nell’Asse, il Brasile di Vargas dal 1942 con
gli Alleati, il Portogallo di Salazar neutrale, politicamente più vicino all’Asse ma disposto a concedere agli Alleati l’uso di basi militari nelle
Azzorre). Poi solo lo stato italiano ha conosciuto nel dopoguerra una
svolta democratica, mentre quello portoghese consolidava il proprio
sistema monopartitico e il brasiliano alternava governi populisti e dittature militari.
Viene allora da chiedersi in che misura queste (e altre) variabili
abbiano influito sui processi globali di trasformazione in atto “tra le
due crisi”. E sorgono quasi spontanee ulteriori domande: quali sono state, nei singoli contesti, le ripercussioni sociali della modernizzazione economica? Che influenza hanno esercitato i modelli provenienti dall’industria culturale americana, e come si sono combinati con le tradizioni locali? Quali culture politiche e quali interessi
socio-economici radicati sul territorio hanno cercato di governare la
transizione?
Sulla base di tali interrogativi, le ricerche e le riflessioni presentate al convegno di Bologna hanno privilegiato tre assi tematici (che corrispondono alle tre sezioni di questo volume), offrendo qualche sguardo ravvicinato a una serie di questioni specifiche:
1) la crisi e la disgregazione del mondo rurale, con un inquadramento dei mutamenti di lungo periodo nell’area mediterranea
(Alberto De Bernardi), seguito da indagini sui movimenti migratori dalle campagne dell’Italia settentrionale al sud-ovest della Francia (Pietro Pinna), sui tentativi di sindacalizzazione “dal-
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l’alto” dei contadini e dei pescatori portoghesi (Álvaro Garrido), sulla circolazione di stereotipi razzisti in seguito all’incremento dei flussi migratori verso le campagne e le città brasiliane (Maria Luiza Tucci Carneiro);
2) le nuove dimensioni urbane, con particolare attenzione per l’introduzione del fordismo nel mondo del lavoro industriale italiano (Marica Tolomelli), per i mutamenti morfologici e la politica urbanistica in una città portoghese sotto il regime di Salazar
(Nuno Rosmaninho), per le identità socio-politiche nelle principali città coloniali dell’Angola e del Mozambico portoghesi
(Fernando Pimenta), per la gestione e l’utilizzo degli spazi urbani di Recife durante l’esperienza dell’Estado Novo brasiliano
(Maria das Graças Ataíde de Almeida);
3) i consumi e la cultura di massa, con al centro dell’attenzione
l’uso propagandistico dei mezzi di comunicazione di massa (Luís
Reis Torgal) e la politicizzazione di televisione e cinema (Noémia
Malva Novais) nel Portogallo di Salazar, la scoperta degli stessi
mezzi di comunicazione da parte dell’opposizione anti-salazarista in esilio (Heloisa Paulo), l’autorappresentazione del potere
nei cinegiornali brasiliani del dopoguerra (Rodrigo Archângelo), le strategie dell’industria culturale italiana nel rivolgersi a un
pubblico giovanile (Maria Francesca Piredda).
La periodizzazione del Novecento incardinata sulle due crisi degli anni Trenta e degli anni Settanta è stata così sottoposta a una serie di verifiche empiriche, al fine di valutare il suo valore euristico
globale considerando l’articolazione degli stessi processi storici su
scala locale.
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Matteo Pasetti
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