Working Papers
55/2009
Welfare e immigrazione.
Impatto e sostenibilità dei flussi migratori
diretti al settore socio-sanitario
e della cura
Risultati di una consultazione tra esperti
Flavia Piperno
ricerca condotta nell’ambito del progetto
Lavoro di cura e internalizzazione del welfare
realizzato con il sostegno di
Marzo 2009
Via d’Aracoeli, 11 – 00186 Roma (Italia) – Tel. +3906 6990630 – Fax +3906 6784104 – e-mail: cespi@cespi.it - web: www.cespi.it
INDICE
1. INTRODUZIONE....................................................................................................................... 3
2. L’ATTUALE MODELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL WELFARE È SOSTENIBILE? ...... 6
3. I FLUSSI INDIRIZZATI ALLA CURA SI ESAURIRANNO?.......................................................... 12
4.L’IMPATTO DELLE MIGRAZIONI DI CURA SUL WELFARE ITALIANO .................................... 15
5. IL NOSTRO WELFARE E IL LORO: IMPATTO DELLE MIGRAZIONI ORIENTATE AL SETTORE
SOCIO-SANITARIO E DELLA CURA SUI CONTESTI DI ORIGINE ................................................. 20
6. RAFFORZARE IL NESSO TRA MIGRAZIONE E SVILUPPO SOCIALE IN ITALIA E NEI PAESI DI
ORIGINE: QUALI STRATEGIE? .................................................................................................. 24
6.1 Migliorare l’impatto del lavoro di cura straniero sul welfare italiano.................... 24
6.2 Affrontare la questione della sostenibilità del welfare transnazionale.................... 27
6.3 Gestire l’impatto sui contesti di origine dei flussi migratori indirizzati al mercato
socio-sanitario e della cura ................................................................................................ 31
BIBLIOGRAFIA.......................................................................................................................... 36
2
1. INTRODUZIONE
Secondo statistiche Eurostat, nell’Europa a 27, la fascia di persone con più di 65 anni
raddoppierà da qui al 2060 passando da 84,6 milioni a 151,5 milioni, ovvero dal 17,1% al
30,0% della popolazione complessiva. Nello stesso arco di tempo le persone con più di 80
anni addirittura triplicheranno, passando da 21,8 milioni a 61,4 milioni. Mentre nel 2008 il
rapporto tra la fascia di popolazione in età da lavoro e persone con più di 65 anni è stata di
4:1, nel 2060 sarà di 2:1 (Giannakouris 2008).
La gravità dello scenario che si va delineando interroga da tempo i singoli stati membri e
l’Unione Europea rispetto alle politiche da adottare per ammortizzare l’effetto del fenomeno
sugli equilibri sociali comunitari e gestire il cambiamento repentino e inarrestabile della
composizione dei bisogni socio-sanitari dei cittadini europei (Zulli 2008: 14).
A fronte di questo dissanguamento demografico l’immigrazione non può essere la sola
risposta, ma è certamente una parte importante di essa (Pastore 2008): non solo perché presto
(secondo l’Eurostat già a partire dal 2015) essa costituirà l’unico fattore di crescita della
popolazione e di sostegno alla forza lavoro attiva, ma anche perché, sempre di più, il ruolo dei
lavoratori immigrati diventa fondamentale per rispondere a una domanda di welfare che
diviene progressivamente più ampia e complessa.
L’Italia, dove la popolazione al di sopra dei 65 anni è tra le più numerose in Europa, è
certamente uno dei paesi dove tali squilibri si presentano in forma più acuta.
Il presente studio intende riflettere su un aspetto di tale questione, ovvero sulle dinamiche che
verranno innescate, sul medio e lungo termine, dal ricorso a manodopera straniera per
soddisfare la crescente domanda di servizi in ambito socio-sanitario e della cura1.
Nel nostro paese i flussi migratori già sono fortemente legati a una domanda di welfare che si
espande. Sebbene l’attenzione di politici e mass media tenda generalmente a concentrarsi sul
problema degli stranieri intesi come ‘consumatori di welfare’, i migranti nel nostro paese sono
anche importanti produttori di welfare. Il loro impiego nella filiera socio-sanitaria e della cura
è però fortemente piramidale e vede gli stranieri impiegati maggiormente nei settori più bassi.
Ai vertici della piramide vi sono le professioni più qualificate: i medici stranieri iscritti
all’Albo erano 1.963 nel 2005, pari allo 0,5% del totale (Censimento dell’Associazione
Medici Italiani, in Chaloff 2008).
Nel gradino immediatamente sotto, vi sono gli infermieri: nel 2005 secondo dati IPASVI
(Federazione dei Collegi degli Infermieri) erano nati al di fuori dell’Europa a 25, 6.730
infermieri ovvero l’1,9% del totale (Mellina Pittau Ricci 2006). Sebbene si tratti di un numero
ancora esiguo, e ampiamente al di sotto della media OCSE che si attesta intorno all’11%
(OECD 2007), l’impiego di immigrati in questo settore è più che raddoppiato in pochi anni (+
157,6% tra il 2002 e il 2005). Del resto, gli infermieri professionali attivi nelle corsie di
ospedale, negli ospizi e nelle case di cura, ma non iscritti all’Albo, secondo lo stesso IPASVI
erano già 20.000 nel 2006 e nel corso del 2005 i non comunitari che hanno ottenuto
l’equipollenza sono stati circa 8/9 mila (Mellina, Pittau, Ricci 2006). Rispetto a un bisogno
stimato, nel 2005, di 60.000 infermieri non reperibili sul mercato locale (dati IPASVI in
Chaloff 2008), si comprende come tale cifra sia assai consistente.
Una quota maggiore di stranieri risulta inserita nel settore socio-sanitario. Anche se non è
ancora disponibile una rilevazione censuaria, sappiamo che aumenta la forza di lavoro
1
La crescente domada di servizi socio-sanitari e di cura si registra in tutta l’Europa. Tra il 1995 e il 2001, più di
due milioni di posti di lavoro sono stati creati in questo settore. Si tratta del 18% dei posti di lavoro creati nello
stesso arco di tempo. Nel 2003 il 10% dell’impiego nell’Unione Europea era nel settore socio-sanitario e della
cura (Commissione Europea 2004).
3
immigrata in questo campo: nel 2005 la presenza di lavoratori stranieri nelle cooperative
sociali veniva stimata intorno al 5-10% e quella nei servizi sociali intorno al 15% (stime di
Legacoop e Confcooperative in Boccagni 2006). Non disponiamo di dati circa la crescita
dell’impiego di immigrati in questo settore, ma secondo stime Excelsior la domanda di
operatori socio-sanitari nel 2006 avrebbe superato di 3 volte quella di infermieri (Chaloff
2008).
Alla base della piramide, nel settore domestico e della cura, si registra il maggior numero di
lavoratori stranieri. Nel 2006 gli immigrati registrati all’INPS in questo settore erano 339.223
unità: oltre il 70% del totale (Osservatori lavoratori domestici dell’INPS2). Anche il trend di
crescita, del 273,5% tra il 2000 e il 2004, appare certamente più sostenuto che negli altri
settori e ha continuato a crescere negli anni successivi. Dal 2005 a oggi ogni decreto flussi ha
destinato quote di ingresso sempre più consistenti al settore domestico e della cura.
Nell’ultimo decreto, quello del 2008, l’impiego in questo settore costituiva addirittura l’unico
possibile canale d’ingresso per lavoro non stagionale consentito a paesi non riservatari. La
domanda di lavoro di domestiche e assistenti familiari è, del resto, ancora più forte rispetto
alle previsioni del governo. La tabella sottostante mostra come, a seguito di ogni decreto, il
numero di chiamate nominative pervenute al Ministero dell’Interno sia stato almeno quattro
volte superiore al totale delle quote previste. Anche se una percentuale di queste domande è
fraudolenta (nel 2007 il 45% delle domande erano prive di requisiti e il 49% dei richiedenti
erano stranieri, che in diversi casi tentavano un ricongiungimento improprio), il dato mostra
comunque l’esistenza di un vasto bacino di manodopera probabilmente impiegata al nero.
Tabella 1 − Quote di ingresso di lavoratori extracomunitari: decreti flussi 2005 - 20083
Totale quote
Quote per lavoro
subordinato non
stagionale
Totale domande
nominative
giunte al
Ministero
dell’Interno
Quote riservate
a lavoro
domestico o di
assistenza alla
persona
Domande giunte
al Ministero
dell’Interno per
lavoro
domestico o di
assistenza alla
persona
56.000
200.000
391.864
*
79.500
30.000
250.880
15.000
2005
170.000
120.000
540.000
45.000
2006
170.000
170.000
720.000
65.000
2007
150.000
150.000
*
105.400
2008
Fonti: Ministero dell’Interno; Mazzacurati 2005; Sole 24 ore 2007
* Per i 150.000 nuovi lavoratori stranieri non c’è stata alcuna procedura per la presentazione delle domande.
Sono stati ripescati coloro che avevano già inoltrato la richiesta per il precedente decreto attraverso la procedura
telematica dei 'click day'.
Una stima dell’IRS (Istituto di Ricerca Sociale) sul numero di assistenti domestici familiari,
che comprende anche la fascia di lavoro nero e grigio, indica la presenza nel 2008 di 700.000
lavoratori stranieri su un totale di 774.000 (Pasquinelli Rusmini 2008).
Diversi studi negli ultimi anni sono stati diretti ad indagare evoluzione, caratteristiche e
condizioni del lavoro di cura immigrato, così come l’emergere di nuove identità, ruoli di
potere e dinamiche di classe, genere e razzismo come conseguenza dell’impiego di donne, e
in piccola parte uomini, stranieri nel settore domestico4. In Italia sono ormai numerosi gli
2
Disponibile alla pagina: [http://servizi.inps.it/banchedatistatistiche/domestici/index.jsp].
Nella tabella non sono riportate le quote integrative per stagionali e per stranieri con formazione all’estero e il
decreto flussi – bis 2006 che ha stabilito una quota di 350.000 ingressi per lavoro subordinato non stagionale,
limitatamente, però, alle domande presentate agli sportelli Unici nell’ambito del precedente decreto flussi (entro
il 21 luglio 2006).
4
Si vedano tra gli altri i lavori di Ambrosini 2005, Andall 2003 e 2004, Anderson 1993 e 2000, Colombo 2003 e
2005, Lutz 2002, Sarti 2004 e 2005, Scrinzi 2003 e 2005.
3
4
studi che analizzano la composizione del mercato della cura straniero nell’ambito di singoli
contesti regionali5. Un numero minore di ricerche è stato inoltre finalizzato ad analizzare il
fenomeno dell’inserimento dei migranti nel settore socio-sanitario e a mettere in luce il
crescente livello di auto-imprenditorialità migrante nell’ambito della cooperazione sociale6.
Sono però poche le ricerche che si interrogano sulla sostenibilità di questo sistema di welfare,
sia in termini di tenuta complessiva dei meccanismi che oggi si offrono che di impatto sul
contesto sociale dei paesi di arrivo e di origine.
La nostra ricerca punta a colmare questo vuoto a partire da quattro spunti di riflessione:
1) Ci chiediamo quanto è sostenibile un modello di care fortemente basato sul reclutamento di
manodopera dall’estero e quanto le esigenze degli altri segmenti del mercato del welfare
possono essere soddisfatte dalla presenza di lavoratori e lavoratrici immigrati/e.
2) Intendiamo riflettere sui futuri bacini di provenienza delle lavoratrici di cura e sulle
problematiche che una possibile trasformazione dei paesi di provenienza può comportare.
3) Un ulteriore quesito riguarda l’impatto del ricorso a manodopera straniera sul sistema di
welfare in Italia, e l’adeguatezza delle principali risposte adottate da governo ed Enti Locali ai
problemi che si creano.
4) Infine ci domandiamo che impatto abbia un’emigrazione indirizzata a soddisfare le
esigenze del nostro sistema di welfare sui contesti di origine
Al termine della ricerca ci interroghiamo su quali siano le migliori opzioni di gestione delle
principali problematiche che oggi si presentano.
Per riflettere su queste tematiche abbiamo avviato una consultazione con esperti, policymakers e amministratori locali riuniti attraverso la metodologia del Delphi group7. I
partecipanti sono stati 17 in tutto. Si è trattato di ricercatori e docenti appartenenti ad
università italiane ed estere e a centri di ricerca italiani, autori, a partire da varie discipline
(storia, demografia, economia, sociologia), di numerosi studi sul sistema di welfare italiano e
sulla questione migratoria; rappresentanti di Enti Locali, come la Provincia di Milano e la
Regione Liguria, da anni attivi nella riflessione e nella sperimentazione di buone pratiche per
una più corretta gestione del lavoro di cura immigrato; esperti del settore socio sanitario a vari
livelli, grazie alla collaborazione della Lega Nazionale delle Cooperative Sociali, del
Ministero della Salute e dell’IPASVI; Dirigenti istituzionali esperti di politiche migratorie.
Attraverso l’utilizzo di internet i partecipanti al Delphi group, che per tutta la durata del
lavoro sono rimasti nell’anonimato, sono stati invitati a rispondere alle 4 domande sopraelencate. A seguito di una prima elaborazione da parte del conduttore, in cui si segnalavano le
principali problematiche emerse nel corso del primo round, gli esperti sono stati invitati a fare
una seconda riflessione sulle politiche da adottare.
Si è trattato di un esercizio, assolutamente inedito per l’Italia e ha beneficiato di una
partecipazione impegnata e vivace da parte di tutti gli esperti consultati. La difficoltà
segnalata da diversi partecipanti all’elaborazione delle risposte, specie nel secondo round, è a
5
Si veda ad esempio Pavolini 2005, IRS 2006, Mattoscio et al. 2007.
Ambrosini 2006, Chaloff 2006, Confcooperative 2007, Mellina, Pittau, Ricci 2006.
7
Hanno partecipato al Delphi group e si ringraziano per la loro collaborazione: Anna Banchero (Regione
Liguria), Francesca Bettio (Università di Siena), Paolo Boccagni (Università di Trento), Alessio Cangiano
(Compas – Oxford), Luca Einaudi (Presidenza del Consiglio dei Ministri), Costanza Fanelli (Lega delle
cooperative sociali), Federico Giammusso (Ministero delle Finanze), Giovanni Lamura e Gabriella Melchiorre
(INRCA), Giovanni Leonardi e Annalisa Malgeri (Ministero della Salute), Claudio Minoia e Alberto Zoia
(Provincia di Milano), Sergio Pasquinelli e Giselda Rumini (IRS), Emmanuele Pavolini (Università degli Studi
di Macerata), Raffaella Sarti (Università di Urbino), Renzo Scortegagna (Università di Padova), Francesca
Scrinzi, (Glasgow University), Stefano Zamagni (Università di Bologna), Stefania Gastaldi (IPASVI). Tutto il
materiale prodotto nell’ambito di questo progetto di ricerca sono disponibili alla pagina web:
[www.cespi.it/Delphi-welfare.html].
6
5
nostro parere un segnale positivo, che evidenzia lo sforzo da parte da parte degli esperti ad
andare oltre una riflessione già svolta nel corso di precedenti indagini e ricerche.
Nelle pagine che seguono, verrà dedicato un paragrafo ad ognuno dei 4 spunti di riflessione
sopra elencati. Il paragrafo finale metterà in luce le raccomandazioni politiche evidenziate per
fare fronte alle principali criticità individuate.
2. L’ATTUALE MODELLO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL WELFARE È
SOSTENIBILE?
In Italia il ricorso a manodopera immigrata per soddisfare la domanda di welfare è un
fenomeno che, come abbiamo visto, acquista sempre maggiore evidenza e rilevanza: non solo
nel settore domestico quanto, sebbene in misura più ridotta, in quello socio-sanitario e
infermieristico.
In un tale contesto, colpisce l’assenza di un dibattito circa la sostenibilità del modello di
welfare che viene creandosi. Mentre in Europa si rende sempre più evidente l’allarme relativo
a una possibile crisi dell’offerta di cura dovuta all’invecchiamento della popolazione, alla
ridotta capacità di spesa pubblica e alla contemporanea diminuzione della cura informale
offerta nell’ambito della famiglia (Cancedda 2001; European Foundation for the Improvement
of Living and Working Conditions 2006), l’Italia sembra aver rimandato tale problema. Il
ricorso massiccio a un mercato della cura straniero flessibile, a buon mercato e
apparentemente illimitato, sembra la chiave per conservare il tradizionale welfare familista,
tipico dei regimi mediterranei (Sciortino 2004), e per continuare a perseguire l’obiettivo della
domiciliarità. Si ha l’impressione di poter disporre di un “esercito di badanti”, pronto a
rendersi protagonista di una “invasione” silenziosa e benefica, in grado di penetrare i vuoti
che la trasformazione della famiglia, la dinamica demografica e la tradizionale debolezza
delle politiche sociali in Italia lasciano scoperti8. Un esercito di clandestine, particolarmente
adattabili, dunque, a rispondere ai meccanismi di autoregolazione del mercato, ma che al
tempo stesso può essere ‘sanato’ senza perdere il consenso dell’opinione pubblica. Per quanto
riguarda i gradini più qualificati della filiera del welfare, si fatica a ragionare in prospettiva e
ciò rende meno impellente la necessità percepita di doversi attrezzare per fare fronte a una
possibile carenza di manodopera nel settore.
Il lavoro del Delphi ha messo in evidenza come tra gli esperti sia invece diffusa la
preoccupazione circa una aumento del fabbisogno di manodopera straniera non solo nel
settore della cura ma anche in altri segmenti del welfare italiano, a cui potrebbe − per diversi
motivi − non corrispondere un’offerta di lavoro sufficiente o adeguata.
Come mostra la tabella 2, secondo la maggior parte degli esperti consultati, i settori che
nell’arco di 5-10 anni potrebbero richiedere un afflusso più massiccio di manodopera
migrante sono quello della cura agli anziani non auto-sufficienti, quello infermieristico e
quello degli operatori socio-sanitari. Si tratta di settori già in crescita da alcuni anni e la cui
espansione continuerà in modo sostenuto o molto sostenuto sul medio e lungo termine. Al
contrario, la domanda di medici, colf e babysitter tenderà a mantenersi stabile.
8
“Esercito” e “invasione” sono definizioni utilizzate da alcuni giornali italiani per trattare il fenomeno delle
assistenti familiari.
6
Tabella 2 − Fabbisogno di lavoro straniero tra 5 e 10 anni nella filiera del welfare in Italia (I grafici
si riferiscono ai soli rispondenti)
Fabbisogno lavoro straniero tra 5 anni
Fabbisogno lavoro straniero tra 10 anni
100%
100%
90%
90%
80%
80%
70%
70%
60%
60%
50%
50%
40%
40%
30%
30%
20%
20%
10%
10%
stabile
crescita o forte crescita
ridotto
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0%
crescita o forte crescita
Già questo è un primo dato di rilievo. Nel dibattito scientifico e politico è stata infatti
ampiamente analizzata la necessità di ricorrere a manodopera dall’estero per soddisfare le
esigenze del mercato della cura e del settore infermieristico. L’esenzione dai limiti di ingresso
per gli infermieri e la disposizione di quote e sanatorie ad hoc per regolarizzare le lavoratrici
di cura sono stati i principali strumenti di cui il governo italiano si è dotato per rispondere a
tale esigenza. Assolutamente meno indagata è la crescita del fabbisogno di lavoro straniero
nel settore dei servizi socio-sanitari. Se confermato, si tratterebbe di una tendenza da
considerare con attenzione, in quanto offrirebbe un’opportunità di carriera da parte della
manodopera migrante nella filiera del welfare, con minori barriere in ingresso rispetto al
settore infermieristico e, al tempo stesso, costituirebbe un’occasione di integrazione sociale
nel contesto di arrivo. Il settore socio-sanitario consente, infatti, una migliore presa di
coscienza circa l’organizzazione delle politiche sociali in Italia, favorisce l’abilità a muoversi
nella rete del welfare mix locale e offre buone possibilità di auto-imprenditorialità, anche al
femminile. L’accumulo di un bagaglio di competenze in ambito sociale può essere spendibile
anche nel contesto di origine.
La crescita del fabbisogno di infermieri e di operatori socio-sanitari stranieri, secondo la
maggior parte dei partecipanti, è dovuta a una serie di fattori che influiscono sia sul fronte
della domanda che dell’offerta. I principali fattori che secondo gli esperti porteranno a una
crescita della domanda in entrambi i settori sono: l’invecchiamento della popolazione e
l’aumento delle malattie di lunga durata, che avranno un impatto anche psicologico sui
pazienti e richiederanno una specializzazione sociale oltre che sanitaria; la carenza di offerta
autoctona, dovuta all’esiguità dei salari in relazione alle mansioni svolte: già ben visibile nel
settore infermieristico, ma che riguarderà sul medio e lungo termine anche le carriere di OSA
(Operatori Socio-Assistenziali) e OSS (Operatori Socio-Sanitari); la crescente tendenza
all’esternalizzazione dei servizi pubblici al settore privato e alla cooperazione sociale, che
presenta criteri di accesso meno rigidi rispetto al pubblico, a fronte, però, di peggiori
condizioni lavorative e minori standard professionali. Così come è avvenuto nel settore della
cura, dove un’offerta flessibile e a basso costo ha contribuito ad alimentare la domanda di
assistenti familiari (Colombo 2005), allo stesso modo la presenza di una manodopera straniera
meno disponibile a lavorare come “badante” e più propensa a percorsi di mobilità potrebbe,
secondo alcuni esperti, alimentare la domanda di lavoratori in questo segmento del welfare.
7
Per quanto riguarda il settore della cura, la crescita dello stato di salute degli anziani e della
possibilità di un invecchiamento attivo e la diminuzione del bisogno di cura grazie al ricorso
ad ausili farmacologici, medici e tecnologici, sono fattori che aumenteranno l’indipendenza
della fascia di popolazione anziana. Tali elementi, tuttavia, secondo la maggioranza degli
esperti consultati, non freneranno un aumento della domanda, sul medio e ancor più sul lungo
termine, di assistenti familiari stranieri, soprattutto in co-residenza e per anziani non
autosufficienti. Ciò è dovuto al forte invecchiamento della popolazione; all’insufficienza dei
servizi pubblici; a fattori culturali, quali la mancata redistribuzione dei ruoli all’interno della
famiglia e l’enfatizzazione dell’importanza di evitare l’istituzionalizzazione della 3° e 4° età;
alla minore offerta di cura all’interno della famiglia, a causa del maggiore tasso di
occupazione femminile, della tendenza a posticipare l’età della pensione, dell’aumento di
famiglie non multigenerazionali e degli anziani soli; all’appetibilità decrescente di questi
lavori per la manodopera autoctona, anche dovuta alla “colonizzazione” di questo settore da
parte di lavoratrici migranti; alla presenza di un’offerta che alimenta la domanda rendendo
possibile un risparmio rispetto al costo medio del ricovero in istituto, ma livellando salari e
tutele verso il basso.
Lo scenario che si profila, dunque, è quello di una crescita del protagonismo migrante
nell’offerta di servizi di welfare. Un protagonismo tuttavia che ha più il sapore di una delega
che di una politica consapevolmente perseguita dalle istituzioni e che può crescere nel
contesto di una progressiva espansione del mercato, per via della crescente privatizzazione e
terziarizzazione della cura e dei servizi di assistenza socio-sanitaria.
Come nota uno dei partecipanti, sul medio e lungo termine lo scenario italiano resterà quello
di: “un contesto basato su uno strutturale sostegno all’immigrazione come strumento per
soddisfare l’elevato fabbisogno assistenziale del nostro Paese, direttamente (attraverso le
sanatorie susseguitesi negli anni) ed indirettamente (tramite il mantenimento ed espansione
dei programmi di cash-for-care)”.
Da questo punto di vista, c’è un diffuso consenso sul fatto che l’Italia, in mancanza di serie
riforme, sia destinata ad aumentare la distanza da altri paesi europei dove – grazie al ridotto
invecchiamento della popolazione, alla maggiore offerta di servizi, alla diversa regolazione
del mercato del lavoro e al tentativo di potenziare l’offerta interna prima di reclutare quella
internazionale – la domanda di lavoro di cura straniero potrebbe essere più limitata, anche se
comunque in aumento.
L’Italia dunque continuerà ad affidarsi ad una manodopera importata dall’estero per
rispondere a una crescente domanda di servizi in segmenti importanti della propria filiera di
welfare. Ma in che misura, negli anni a venire, il fabbisogno di lavoratori immigrati potrà
essere soddisfatto attraverso i meccanismi del mercato? E che tipo di sostenibilità può avere
un sistema di welfare così costruito?
Come accennato all’inizio del paragrafo, contrariamente a quanto emerge dal dibattito
pubblico, la maggior parte degli esperti giudica che proprio nei settori dove la domanda di
cura sarà più forte, l’insufficiente offerta di lavoro autoctono non potrà essere esaurientemente
compensata dall’arrivo di nuove forze-lavoro dall’estero.
I partecipanti sembrano concordare sulla possibilità che si verifichi un divario tra domanda e
offerta di lavoro per infermieri e assistenti familiari per non autosufficienti in co-residenza,
sia sul medio che sul lungo termine. Sul lungo termine c’è un diffuso consenso sul fatto che si
delineerà un divario tra domanda e offerta di lavoro anche per le funzioni di OSA e OSS. Tale
problematica non si pone per i medici, mentre per quanto riguarda le altre categorie (baby
sitter, colf, assistenti familiari a ore e in co-residenza per autosufficienti) le opinioni degli
esperti appaiono più divergenti.
8
Tabella 3 − Divario tra la domanda e l’offerta di lavoro tra 5 e 10 anni nella filiera del welfare (I
grafici si riferiscono ai soli rispondenti)
Divario domanda-offerta tra 5 anni
Divario domanda-offerta tra 10 anni
100%
100%
90%
90%
80%
80%
70%
70%
60%
60%
50%
50%
40%
40%
30%
30%
20%
20%
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Per quanto riguarda il settore dell’assistenza alla persona (con particolare riferimento al
lavoro in co-residenza per non autosufficienti), le risposte degli esperti inducono ad
evidenziare 4 importanti tendenze che, con l’avanzare degli anni, possono portare ad un
divario crescente tra domanda e offerta di lavoro e ad una progressiva insostenibilità di un
sistema che vede l’erogazione di cura strutturalmente affidata a manodopera migrante.
In primo luogo gli esperti ritengono che aumenterà un’offerta di lavoro ad ore da parte delle
donne immigrate, mentre da parte delle famiglie sarà più elevata una domanda di lavoro in coresidenza. Tale problematica si era posta già alla fine degli anni ’60, quando la manodopera di
cura era quasi esclusivamente italiana e cominciava a mostrarsi sempre meno disposta a
vivere sotto lo stesso tetto con i datori di lavoro. Proprio il radicarsi di tale fenomeno ha
concorso, a partire dagli anni ’80, alla necessità di reclutare manodopera estera, e i
frammentati tentativi da parte del governo italiano volti a gestire il flusso di lavoratori di cura
proveniente dall’estero, sono stati proprio tesi a vincolare la presenza straniera al settore della
co-residenza (Colombo 2003: 323; Andall 2000; Sarti 2004)9.
Oggi, dopo oltre un trentennio di progressivo inserimento dei lavoratori stranieri nel settore
della cura (nel 1982 essi occupavano il 5,6% della forza lavoro inserita in questo segmento,
oggi come si è detto, oltre l’80%), questo problema comincia a porsi per la manodopera
migrante.
Le donne straniere inserite da più anni nel settore dell’assistenza alle famiglie aumentano,
infatti, il proprio livello di integrazione socio-professionale e avvertono – come dimostrato da
diverse ricerche − l’esigenza di una mobilità sociale che le porti a trovare un lavoro ad ore, un
domicilio proprio e ad ottenere la possibilità di ricongiungere i propri familiari nel paese di
arrivo. Al tempo stesso, le nuove arrivate, si inseriscono in catene migratorie già forti (anche
se con le dovute distinzioni a seconda delle comunità migranti) che rendono loro possibile una
maggiore indipendenza socio-ecnomica e dunque una minore malleabilità rispetto alle
9
Facciamo riferimento in particolare alla Legge n°943/86 e alla Circolare del Ministero del Lavoro n°156/91.
9
esigenze del mercato10. Come nota uno degli esperti, il risultato di questo fenomeno è già
visibile in numerosi contesti territoriali (come ad esempio a Milano, Lodi, Brescia, Roma,
Pordenone, Maniago e S. Vito al Tagliamento in Friuli Venezia Giulia)11, dove gli sportelli
per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro “a fronte di una richiesta di assistenza a tempo
pieno in regime di co-residenza da parte delle famiglie, registrano una ridotta disponibilità
delle assistenti, che cercano prevalentemente di lavorare a ore”.
Il secondo elemento che porterà ad un aumento del divario tra domanda e offerta di lavoro nel
settore dell’assistenza alla persona deriva dall’insostenibilità finanziaria di questo mercato. Da
questo punto di vista, le risposte degli esperti mettono in evidenza una situazione paradossale.
Il mercato della cura, così come oggi si presenta, può reggersi unicamente su una condizione
di soggiogazione, bassi salari e scarse tutele delle lavoratrici migranti. Il bilancio delle
famiglie a medio e basso reddito, da cui proviene una parte importante della domanda di cura
privata, non consente un vero sviluppo del settore. E’ dunque un segmento del welfare che si
sostiene “mangiando” welfare.
Nel futuro, però, questo contraddittorio equilibrio potrebbe rompersi. In un contesto di
ridottissima crescita del reddito pro-capite, l’erosione della capacità di spesa delle famiglie,
pur a fronte di un elevato bisogno di cura, potrebbe spingere ad un livellamento delle tutele
verso il basso (salari più bassi e maggiore irregolarità). Questa tendenza sarà rafforzata in
modo ancora più drammatico dopo il prossimo decennio, quando, come nota uno degli
esperti, “arriveranno alla vecchiaia molte persone con pensioni molto basse, verosimilmente
insufficienti ad assumere una badante a tempo pieno”.
Contestualmente, la politica di lotta al sommerso e all’evasione fiscale potrebbe invece
indurre un innalzamento dei costi, rendendo meno accessibile alle famiglie il ricorso alla cura
privata. Una delle partecipanti evidenzia inoltre come nel futuro la presenza in Italia di
un’offerta disponibile a lavorare nel settore della cura dipenderà dalla capacità del nostro
paese di vincere la concorrenza di altri paesi europei nell’attrarre manodopera migrante: “i
flussi migratori probabilmente saranno quantitativamente e qualitativamente sufficienti solo
se emigrare in Italia sarà più facile che emigrare in paesi più “attraenti” e se si garantiranno
adeguati diritti civili e tutele agli immigrati”. Politiche volte a garantire tali condizioni,
tuttavia, si rivelano un ulteriore elemento che rischia di rendere: “molto (troppo) caro il lavoro
potenzialmente impiegabile nel settore domestico e in quello dell’assistenza familiare
privata”.
In terzo luogo, alcuni esperti temono che la domanda di assistenza per i grandi vecchi (+ 80
anni) cresca oltre la capacità di auto-regolazione del mercato, pur in presenza di un alto livello
di informalità e sommerso.
Infine una delle partecipanti al delphi nota come “la sostenibilità della domanda è assicurata
dall’equilibrio tra quattro condizioni demo-economiche che rendono possibile assumere e
coordinare il lavoro di cura privato: 1) sommerso che abbassa i costi, 2) offerta di lavoratori
immigrati abbondante 3) scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro che abbassa
il costo/opportunità del lavoro di cura 4) anziani all’interno di una rete familiare che coordina
il servizio di badantato. Se cambiano questi fattori (e nel futuro potrebbero cambiare, ad
esempio a causa del crescente numero di anziani soli), il modello della badante straniera
potrebbe divenire inapplicabile” (Bettio Solinas 2009).
Come evidenziato dal grafico, la maggior parte dei partecipanti al Delphi ritiene che anche nei
gradini più alti delle professioni del welfare, la crescente domanda di lavoro potrebbe non
trovare un’offerta adatta.
10
Su queste tematiche interessanti riflessioni sono state svolte dall’IRS. Si veda: IRS 2006, IRS 2007 e
Pasquinelli Rusmini 2008.
11
Si veda a questo proposito l’archivio del sito www.qualificare.info dove sono riportati i risultati di diverse
sperimentazioni di gestione del lavoro di cura avviate a livello locale.
10
Nel settore infermieristico, come accennato all’inizio del paragrafo, si registra una carenza di
offerta autoctona per via di un iter formativo e condizioni di lavoro troppo ‘pesanti’ a fronte
di stipendi ridotti: “in un contesto in cui aumenta il fabbisogno di cure, al pensionamento o
pre-pensionamento della manodopera occupata nel settore, non corrisponde un’offerta
formativa in grado di garantire l’ingresso nel mercato di un numero sufficiente di nuove leve
(attualmente sottodimensionata di circa il 50%)”. La capacità di espansione del settore è
limitata, del resto, dall’assenza di adeguate risorse di bilancio che porta all’assenza/blocco di
assunzioni e concorsi.
Pur a fronte di una crescente domanda di personale infermieristico, difficilmente la
manodopera migrante riuscirà ad inserirsi in questo settore. Il principale motivo che porta a
tale situazione è senz’altro la difficoltà di accesso da parte dell’offerta straniera ad un mercato
altamente regolato e con elevati standard di qualificazione in entrata: il mancato
riconoscimento dei titoli di studio acquisiti nei paesi d’origine e l’impossibilità da parte dei
lavoratori stranieri di partecipare a concorsi pubblici, costituiscono i principali ostacoli in
questo senso.
Cresce, inoltre, la domanda di nuove specializzazioni, difficilmente in possesso della
manodopera migrante: ad esempio aumenta la richiesta di personale infermieristico altamente
specializzato che al contempo abbia una preparazione psicologica di relazione e di aiuto per il
paziente e la famiglia.
Ai problemi sopra elencati si aggiunge la minore capacità di attrazione dell’Italia – rispetto ad
altri paesi europei – di personale infermieristico. Come nota uno dei partecipanti: “Vi è una
competizione internazionale tra paesi sviluppati per attirare medici e infermieri dal resto del
mondo, destinata a protrarsi nel tempo a causa dei noti fenomeni di invecchiamento della
popolazione e dell’ insufficiente offerta interna. L’Italia non vi rientrerà per quel che riguarda
i dottori ma invece lo farà per le infermiere”. La minore capacità attrattiva dell’Italia rispetto a
paesi ricchi è del resto già evidente come dimostrato dal fatto che “la recente tendenza di
alcuni Paesi del Nord Europa (Irlanda, Regno Unito e Germania in primis) a ridurre il
protezionismo nei confronti di flussi regolari e “mirati” di immigrati sta già gradualmente
modificando la direzione dei flussi dall’Est Europeo, riducendone la “pressione” nei confronti
dell’Italia dopo un quinquennio (2002-2007) certamente storico in tal senso”.
Infine viene evidenziato un problema di ordine “razziale” che frena l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro tanto nel settore infermieristico che in quello socio-sanitario. Come nota un
esperto: “Rispetto ai fattori che influenzano i divari, sia in una direzione che nell’altra, un
ruolo importante è giocato dalle resistenze culturali al cambiamento e quindi anche dal
permanere di alcuni stereotipi che impediscono un equilibrio. Questi stereotipi possono
riguardare gli stessi immigrati (o immigrate) che continuano ad essere considerati/e “badanti”,
senza capire il processo di emancipazione e sviluppo a cui sono interessate”.
Gli esperti concordano sul fatto che nonostante gli elementi sopra accennati configurano un
rischio di labour shortage crescente ai vari gradini della filiera del welfare, tale problematica
continua a risultare assente nell’agenda politica italiana (anche a livello locale). Quest’ultima
resta centrata su questioni legate all’emergenza e al riordino dell’esistente (ad es. attraverso
progetti di riduzione del lavoro nero ed aumento della qualificazione del lavoro di cura),
piuttosto che su obiettivi di medio e lungo termine. Non solo. Alcune politiche, secondo
alcuni esperti, possono avere come conseguenza indiretta addirittura l’aumento del divario tra
domanda e offerta di lavoro nei settori esaminati. La disomogeneità nelle politiche di
integrazione portata avanti dagli enti locali, ad esempio, inibisce la mobilità interna dei
lavoratori, favorendo una maggiore scarsità di lavoro in alcune realtà locali; il recente
riconoscimento accordato a percorsi formativi in ambito infermieristico e socio-sanitario, non
essendo sostenuto da un aumento di risorse volte ad sostenere l’assunzione di personale più
qualificato, può contribuire ad aumentare il divario tra domanda e offerta in questo campo. Lo
stesso può avvenire come conseguenza di un aumento dei diritti e delle tutele sociali nel
11
settore, ad esempio come conseguenza dell’adozione del contratto nazionale colf. A ciò si
aggiungono politiche migratorie centrate su un’ottica che punta a ridurre il flusso dai paesi
terzi piuttosto che ad attrarre e promuovere l’impiego qualificato dei migranti.
3. I FLUSSI INDIRIZZATI ALLA CURA SI ESAURIRANNO?
Per quanto riguarda il settore della cura, negli ultimi anni siamo stati abituati ad associarlo
non solo al lavoro della manodopera straniera, ma anche, più specificatamente, al servizio di
alcune comunità immigrate, in particolare quelle di origine est europea. Se la regolarizzazione
del 2002 ha rappresentato una vera e propria epifania, una rivelazione largamente inattesa, che
ha innescato una definitiva presa di coscienza sul “fenomeno badanti” (Pastore Piperno 2006),
essa ha anche segnato l’avvio di una marcata ‘colonizzazione’ del settore da parte della
comunità est europea, passata rispetto all’anno precedente dal 21% al 54,3% sul totale della
manodopera impiegata (Istat 2006). Non a caso, secondo alcuni osservatori (Bettio, Solinas
2009), è stato proprio il flusso migratorio dall’Europa dell’Est, seguito al crollo dei regimi
comunisti, a trasformare il settore della cura agli anziani in Italia, rendendo la cura privata un
fenomeno di massa. Si afferma, in altri termini, una dinamica secondo cui, se da una parte la
domanda di cura seleziona i flussi dall’Est, ritenuti culturalmente più vicini, e li rimodella
rafforzandone la componente femminile, dall’altra il radicamento di tali catene migratorie,
come accennato nel precedente capitolo, influenza ed espande, a sua volta, la domanda di cura
(e la dipendenza delle famiglie dal settore privato).
Ma questo circuito che si autoalimenta e, oggi, è in gran parte sostenuto dalle migrazioni
provenienti dall’Est, è destinato a durare nel tempo? La risposta a tale domanda deriva dalla
possibilità che il flusso dall’Europa dell’Est, che negli ultimi anni è fortemente cresciuto
(sono est europee 3 delle principali comunità oggi in Italia), continui ad espandersi o quanto
meno si mantenga stabile e, nel caso esso si esaurisca, dal grado di adattabilità di altri flussi
migratori al mercato della cura italiano.
Secondo diversi esperti, le migrazioni est-europee sarebbero destinate ad indebolirsi
gradualmente a causa del progressivo invecchiamento della popolazione che si registra nei
paesi di origine, del catching-up economico che coinvolge specialmente i nuovi paesi membri
e, per quanto riguarda l’Italia, della crescente concorrenza da parte di paesi più ricchi del
nostro che, come la Gran Bretagna, tendono ad attrarre flussi est europei ritenuti di più facile
integrazione nella società autoctona. E’ probabile che la crisi economica e finanziaria che
oggi investe con particolare durezza alcuni paesi dell’Est, tra cui Romania e Ucraina, frenerà
questa tendenza, ma solo parzialmente e sul breve termine.
Nel novembre 2008 la Commissione Europea dichiarava che: “si può ritenere che i flussi di
mobilità dai paesi UE-2 e UE-8 abbiano già raggiunto la loro punta massima e che gran parte
degli spostamenti intracomunitari sia di natura temporanea. La rapida crescita dei redditi e
della domanda di manodopera nei paesi di origine, in concomitanza con il grande ridursi del
numero di giovani disposti ad emigrare, ha per effetto una diminuzione dei flussi di lavoratori
e porterà probabilmente ad un ulteriore calo dell’offerta di manodopera proveniente dai paesi
dell’Unione Europea (Commissione delle Comunità Europee 2008: 16)”.
Già un anno prima Blangiardo notava come sebbene: “appare incontestabile il carattere
strutturale del recente cambiamento nella direzione dei flussi che ha portato al primato est
europeo, meno convincente risulta la possibilità che esso vada consolidandosi nel tempo e che
l’Est Europa sia destinata a continuare a svolgere in futuro un ruolo di protagonista verso il
nostro paese. (…) Tra il 2010 e il 2015 due “grandi fornitori” dell’immigrazione oggigiorno
12
diretta in Italia, Romania e Ucraina, si troverebbero ad affrontare un progressivo calo
dell’offerta di lavoro locale ed è verosimile immaginare che, con tali premesse, la forza
espulsiva di lavoratori verrà fortemente attenuata, se non del tutto annullata (Blangiardo 2008:
44-45)”.
Abbiamo posto agli esperti una domanda circa il futuro delle migrazioni est europee dirette
all’Italia. Su 16 rispondenti, 9 ritengono che sul medio e lungo termine i flussi dall’Europa
dell’Est diminuiranno: specie per quanto riguarda la Romania, mentre rispetto all’Ucraina si
registra una maggiore incertezza. Quasi tutti ritengono che tale diminuzione avverrà tra i 5 e i
10 anni, mentre uno degli esperti colloca tale possibile sviluppo nel periodo immediatamente
successivo (a partire dal 2020). L’opinione dei partecipanti, appare dunque piuttosto spaccata,
e conferma solo in lieve misura le previsioni di chi ritiene prossima una diminuzione dei
flussi dall’Est. E’ però interessante notare come su 7 partecipanti che ritengono che i flussi
dall’Est Europa non diminuiranno nei prossimi 10 anni, 3 di essi (dunque circa la metà)
ritengono che essi sono tuttavia destinati a trasformarsi e rischiano di essere sempre meno
adattabili alla domanda proveniente dal mercato della cura. Tale sviluppo è dovuto alla
tendenza – già rilevata da alcuni osservatori (Ricci 2008) - da parte di alcune comunità est
europee (specie quella rumena) a dividersi tra chi punterà ad un inserimento stabile nel nostro
paese e chi aumenterà la propria mobilità (circolarità, ritorno, spostamento verso altri paesi
europei).
Una maggiore integrazione, come già accennato, ridurrà la malleabilità della manodopera est
europea alle richieste del mercato della cura. A questo proposito un partecipante nota come:
“Se, da un lato, immaginiamo che il bacino di reclutamento delle operatrici continuerà ad
essere ricco, prevediamo tuttavia che non sarà facilmente adattabile come lo è stato negli anni
passati. Secondo i nostri studi e l’opinione di alcuni testimoni privilegiati, si evidenzia già da
parte delle assistenti familiari una notevole presa di coscienza dell’importanza del proprio
ruolo e di quelli che sono i propri diritti. Questo si traduce, nei territori dove la domanda di
cura è forte, in una minore disponibilità ad andare incontro acriticamente alle richieste
(totalizzanti) di assistenza da parte delle famiglie”.
L’aumento della mobilità della comunità est europea, a sua volta, renderà più difficile
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Come chiarisce uno degli esperti si prevede: “un
elevato turn over della comunità est europea, con possibile insoddisfazione reciproca di
lavoratori (basso stipendio e limitate possibilità di carriera, rischi di disoccupazione tra un
datore di lavoro e l’altro) e dei datori di lavoro (qualità del lavoro percepita come poco
qualificata, inaffidabilità, durata dei rapporti di lavoro troppo corta, e differenze culturali
talvolta vissute con diffidenza)”.
Resta ora da chiedersi quale impatto possa avere la riduzione e la trasformazione dei flussi
provenienti dall’Europa dell’Est sul più complessivo approvvigionamento di lavoratori da
destinare al mercato della cura.
In generale i partecipanti ritengono che ci saranno sempre bacini di reclutamento alternativi:
Asia e America Latina in primo luogo e Africa, specie sub-sahariana, a seguire.
13
Tabella 4 Bacini di reclutamento alternativi per lavoratori/lavoratrici di cura
Bacini di reclutamento alternativi per
l'approvvigionamento di lavoratori/lavoratrici di cura
40%
30%
20%
ex URSS
Cina
Balcani
Medio Oriente
subsahariana
soprattutto
Africa,
Latina
America
e sud est
Asia, specie
0%
Filippine, India
10%
Come chiarisce uno dei partecipanti: “In ogni caso la presenza di una domanda di personale in
Italia attiverà sempre facilmente fenomeni migratori da qualche parte nel resto del mondo,
anche grazie a rapidi cambiamenti dei paesi di origine, perché fuori dall’Europa i divari di
reddito rimarranno enormi e in Italia le politiche di controllo delle frontiere non sono in grado
di funzionare in presenza di una domanda solvibile da parte delle famiglie italiane”.
Resta tuttavia da capire quanto tali flussi si riveleranno adatti a mantenere il sistema della cura
privato così come oggi si presenta. Su quest’ultimo tema le opinioni degli esperti divergono
sostanzialmente.
A un estremo vi è chi ricorda come nell’ultimo trentennio abbiamo assistito a un continua
trasformazione dei bacini di reclutamento di manodopera straniera rivolta al mercato del
lavoro domestico e di cura. Negli anni ’80 erano soprattutto le donne capoverdiane e quelle
del Corno d’Africa a prestare servizio presso le famiglie italiane. Successivamente gli asiatici
(filippini e cingalesi) hanno occupato quote sempre più ampie di questo mercato, e solo dal
2002 si sono affermati gli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est. Come evidenzia una
delle partecipanti: “un ulteriore cambiamento finirebbe dunque per inserirsi in un contesto in
cui la trasformazione è la norma e non porterebbe sconvolgimenti particolari”.
Diversa è l’opinione di quanti ritengono che: “Per quel che riguarda il personale meno
qualificato di assistenza familiare, non è prevedibile uno scenario di scarsità assoluta di
lavoratori stranieri in Italia”, ma che malgrado ciò potrebbero approfondirsi i problemi di
mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Come nota uno degli esperti “già oggi convive una
disoccupazione femminile elevata delle donne straniere (oltre il 10%, notevolmente superiore
a quella delle italiane), con un loro basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro, e la
percezione italiana che mancano le colf e le badanti straniere”. Tale divario potrebbe essere
ulteriormente approfondito a causa dell’acuirsi di una questione culturale, dovuta alla
maggiore distanza culturale, linguistica, religiosa che caratterizza i nuovi flussi in arrivo,
specie se di origine islamica (si veda a questo proposito Schierup Hansen Castles 2006: 34,
45).
All’estremo opposto, vi è infine chi ritiene che nella prospettiva di un progressivo
esaurimento delle migrazioni dall’Est, il modello badanti così come oggi lo conosciamo, non
si dia più.
L’inserimento nel mercato del lavoro di donne che vengono da paesi molto lontani aumenta le
esigenze di inserimento nella società italiana e di ricongiungimento familiare e, dunque,
14
riduce ulteriormente la disponibilità alla co-residenza. Come nota una delle partecipanti:
“diminuirebbe l’immigrazione temporanea e ‘a staffetta’ o ‘rotazione’ (in particolare fra le
donne dell’est che curano gli anziani) e aumenterebbe l’immigrazione di lungo periodo, con
chiare esigenze di integrazione sociale e di prospettive di carriera”.
Il divario culturale e l’indisponibilità da parte degli stessi migranti provenienti da alcuni paesi
(si pensi ad esempio alle migrazioni africane di carattere prevalentemente maschile) ad
inserirsi nel mercato della cura sono ulteriori fattori che potrebbero contribuire a una scarsità
assoluta di manodopera nel settore. Due degli esperti consultati ad esempio scrivono: “Non
crediamo che da altre zone economicamente depresse, quali potrebbero essere Africa e Asia
possano giungere nuove ondate di donne disponibili (o ritenute adatte) a lavorare come
operatrici socio-sanitarie o badanti”. Simile la conclusione di un altro partecipante, il quale
ritiene che: “Se, allo stato attuale, l’immigrazione sembra essere una risorsa sufficiente per
soddisfare la domanda, questo potrebbe non essere più così vero nel medio termine – se ad
esempio dovesse verificarsi la già discussa possibile riduzione delle migrazioni in
provenienza dall’Europa dell’Est”.
4.L’IMPATTO DELLE MIGRAZIONI DI CURA SUL WELFARE ITALIANO
Per lungo tempo il ricorso a manodopera migrante è stato considerato lo strumento adatto a
conseguire una sorta di “quadratura del cerchio” per quanto riguarda il settore della cura in
Italia. Esso rende infatti possibile per le famiglie italiane disporre di servizi di cura
personalizzata, a basso costo e a domicilio, mentre il governo può limitare la spesa sociale: il
Ministero del Lavoro nel 2007 stimava che il ricorso a manodopera di cura, aveva consentito
un risparmio pubblico di 6 miliardi di euro in mancate prestazioni socio-assistenziali12. Al
risparmio diretto si aggiunge del resto un flusso aggiuntivo di risorse che indirettamente
discende da questa “internazionalizzazione” del welfare: la presenza di sostegno familiare
permette, di fatto, a molte donne italiane di entrare sul mercato del lavoro, aumentando il Pil, i
redditi familiari ed i versamenti di tasse e contributi. A loro volta, colf e badanti straniere
contribuiscono al bilancio statale versando tasse e contributi, anche se – data l’esiguità del
reddito – in misura ridotta.
Solo in anni recenti esperti e policy maker hanno cominciato a considerare l’impatto negativo
di una dipendenza così forte del settore della cura dal lavoro straniero.
Abbiamo chiesto agli esperti quali fossero a loro parere i principali rischi in questa direzione.
Le risposte hanno evidenziato tre problematiche principali.
LA COMMODIFICATION DEL WELFARE RIDUCE IL SENSO DI APPARTENENZA CIVICA
Prima tra tutte, è stata menzionata una questione di ordine culturale. La così detta
commodification del welfare, ovvero l’affidamento ad una logica di mercato di un settore che
finora trovava la propria ragione d’essere in un principio di solidarietà, è già di per sé un fatto
considerato con inquietudine da molti osservatori. Un esperto osserva come: “si riduce
sempre di più la fiducia da parte delle famiglie italiane nella capacità del welfare pubblico di
far fronte a una domanda di cure essenziali, mentre si afferma l’idea che sia necessario
‘arrangiarsi’ sfruttando le opportunità più o meno trasparenti offerte dal mercato”.
12
Intervento di Lea Battistoni, Direttore Generale del Ministero del Lavoreo al XVIII Congresso Nazionale delle
Acli-Colf, Roma 6 maggio 2007.
15
Se è vero che il senso di appartenenza a una nazione – e dunque di cittadinanza – nasce
proprio dalla consapevolezza di poter avere, a fronte di una serie di doveri, il diritto a una
protezione sociale, a un welfare redistributivo, si comprende come sia lo stesso senso civico
ad essere messo in discussione (si veda anche Schierup Hansen Castles 2006: 54; Dahrendorf
1985: 2006).
Come nota uno dei partecipanti, sembra che : “le lancette dell’orologio del welfare italiano
abbiano fatto qualche giro a ritroso, riprendendo, anche se con modifiche, alcuni riferimenti
“liberali” che erano stati superati negli anni Ottanta. Questa situazione però segue un
andamento “selvaggio” e non risponde propriamente ad un disegno di “meno stato e più
mercato” che potrebbe essere anche condiviso e sviluppato. Ciò che si crea è fuori dalla
programmazione e quindi motivo di squilibri e di confusione, specialmente sul piano della
sostenibilità e su quello della qualità”.
A tale problematica, si affiancano ulteriori rischi più immediatamente pratici.
SCADIMENTO E DEQUALIFICAZIONE DEL SETTORE DELLA CURA A DOMICILIO
Viene avvertita, da quasi tutti gli esperti, la preoccupazione di uno scadimento e di una
dequalificazione del settore della cura a domicilio. Lo sviluppo di un mercato della cura è al
tempo stesso conseguenza e causa di un forte disinvestimento da parte dello Stato italiano in
politiche di welfare, specie dirette alla cura di lungo termine. Il nostro paese, come ricorda
uno dei partecipanti: “è uno dei paesi in Europa con la minore crescita di servizi pubblici
dedicata agli anziani negli ultimi 10 anni e l’unico Stato in cui, a fronte di un aumento della
popolazione anziana, il tasso di copertura dei servizi residenziali si è addirittura ridotto negli
ultimi 10 anni”.
Il mercato privato che viene affermandosi, se da una parte compensa il vuoto lasciato dal
pubblico, dall’altra si rivela – come è ampiamente noto − fortemente carente sia dal punto di
vista delle condizioni che della qualità del lavoro.
Lo scadimento del settore della cura deriva del resto anche dal progressivo emergere di una
forte segmentazione tra servizi. Secondo una delle partecipanti al Dlephi: “Il ricorso alla
manodopera straniera per rispondere al bisogno di servizi alla persona a domicilio e per
deistituzionalizzare l’assistenza si è associato a una segmentazione del mercato della cura. Le
divisioni tra le diverse forme di organizzazione del rapporto di lavoro (cooperativa,
istituzione, mercato “privato” della cura) e tra economia formale e informale si sono
rafforzate e moltiplicate. Questa frammentazione e gerarchizzazione del mercato non
favorisce ma ostacola un processo di qualificazione dei lavori della cura”. Mentre un’altra
esperta nota come: “si definisce un problema di difficile integrazione tra la figura delle
assistenti familiari, che rappresentano ormai un fondamentale elemento dell’odierna rete
assistenziale dell’anziano non autosufficiente, e gli altri snodi di detta rete, costretti a rivedere
il proprio ruolo in funzione di questo nuovo attore”.
Tale segmentazione si risolve, in alcuni casi, addirittura in aperta concorrenza. A questo
proposito, una partecipante evidenzia che: “la cooperazione sociale, che è stata tra gli
inventori e attuatori più importanti dell’assistenza domiciliare, vede con preoccupazione
questa possibile area di competizione. Il problema non sta nella presenza di questo personale
straniero che copre bisogni non evasi, ma nel possibile gioco al ribasso che le politiche
pubbliche possono attivare in questo settore, affermando la percezione secondo cui il lavoro
di cura non richiederebbe alte professionalità e una struttura a rete tra diversi attori del
territorio”.
NUOVE FASCE DI EMARGINAZIONE TRA IMMIGRATI E ITALIANI
Gli esperti rilevano inoltre la paradossale situazione di un sistema di welfare che si afferma
riducendo il livello complessivo di coesione sociale ed estendendo le fasce di emarginazione.
16
Il ricorso al lavoro domestico e di cura privato si basa, infatti, spesso sullo sfruttamento di
persone che finiscono per lavorare in condizioni inferiori a qualsiasi standard nazionale e per
essere escluse da ogni possibilità di integrazione socio-lavorativa. Tale situazione di
emarginazione può ricadere anche sui figli delle assistenti familiari, aumentando i problemi
legati alle seconde generazioni. A lungo termine è possibile immaginare anche la presenza di:
“numerosi lavoratori che saranno rimasti in Italia fino alla vecchiaia ma avranno troppi pochi
versamenti per finanziare anche solo una pensione minima con un sistema contributivo” e si
trasformeranno dunque in nuovi pensionati sociali. A ciò si aggiunge la prospettiva di una
crescente emarginazione che sul medio e lungo termine potrebbe investire gli stessi anziani
italiani, specie in un contesto di riduzione di redditi e pensioni. Come chiarisce uno dei
partecipanti: “gli anziani e le loro famiglie vanno/andranno sul mercato privato per
“comparare” cura e assistenza e, ovviamente, acquisteranno servizi la cui qualità dipenderà
dalla condizione economica dell’anziano (e delle famiglie). Si genereranno quindi iniquità
nell’accesso a tali servizi e, dato il peso crescente che l’assistenza in età anziana avrà nella
nostra società, tale sperequazione potrebbe aumentare considerevolmente il tasso di povertà
degli anziani. Si tratterebbe di un fenomeno nuovo nel panorama distributivo degli ultimi
decenni dove la popolazione 65+ ha avuto un tasso di povertà significativamente inferiore al
resto della popolazione. A questo fenomeno va aggiunto il futuro calo degli import
pensionistici rispetto ai redditi in età lavorativa. In sintesi, lasciare al settore privato questa
componente di servizi che sarà cruciale per gli anziani nei prossimi anni potrebbe generare un
nuovo fenomeno di povertà oltre i 65 anni dai delicati risvolti sociali”.
L’IMPATTO DEL RICORSO A MANODOPERA STRANIERA NEL SETTORE INFERMIERISTICO
Anche l’inserimento di manodopera straniera nel settore infermieristico ha un impatto sulla
modalità di erogazione di questo servizio. A fronte di crescenti opportunità e miglioramenti
nati dal confronto tra diverse esperienze professionali, sorgono nuovi problemi legati alla
carente conoscenza della lingua italiana e − in alcuni casi − a una preparazione pratica non
adeguata al livello richiesto dalle aziende italiane. L’esiguità delle infermiere straniere (meno
di 7.000 nel 2005 contro circa 700.000 colf e badanti), rende però più debole l’impatto di
questo flusso migratorio sul nostro sistema di welfare e meno impellente l’urgenza di
politiche volte ad ammortizzare le esternalità negative legate all’utilizzo di tale risorsa.
Diversa la situazione nel settore dell’assistenza familiare.
L’ATTIVAZIONE DI POLITICHE PER LA PROMOZIONE DEL LAVORO DI CURA A LIVELLO LOCALE E
NAZIONALE
Negli ultimi anni, i principali squilibri cui si è fatto cenno sono di fatto stati oggetto di una
serie di politiche e sperimentazioni portate avanti da numerosi Enti Locali in quasi ogni
regione d’Italia, dal nord al sud del paese. Le iniziative locali sono state finalizzate a favorire:
l’emersione del sommerso e la sostenibilità della domanda grazie a strategie di
accompagnamento sociale e finanziario alle famiglie (mediante voucher e assegni di cura); la
regolazione e la qualificazione del mercato della cura attraverso interventi di formazione delle
assistenti familiari, incontro tra domanda e offerta di lavoro, istituzione di albi professionali;
l’integrazione e il sostegno psico-sociale delle lavoratrici straniere mediante l’erogazione di
servizi di ascolto e counceling e l’allestimento di punti-incontro; il superamento dell’attuale
segmentazione tra servizi diversi, attraverso la messa in rete del lavoro di cura con altri
soggetti del territorio (Piperno 2008).
A fronte di una ricca sperimentazione locale, l’iniziativa nazionale è stata piuttosto carente.
Nel corso del 2007 il governo italiano ha mostrato un interesse a gestire il lavoro di cura
straniero nel quadro di una più ampia programmazione nazionale13; tuttavia, più recentemente
13
Di seguito vengono elencate le iniziative più importanti che, nel corso del 2007, hanno teso in questa
direzione: Il Contratto Nazionale per le colf approvato nel febbraio 2007, che per la prima volta ha dato un
17
– pur a fronte di un maggiore numero di quote riservato all’ingresso di lavoratrici di cura –
nelle azioni del Governo non emerge alcuna attenzione particolare al riconoscimento e alla
qualificazione del lavoro svolto dalle assistenti familiari e all’inclusione della cura privata in
una rete di welfare mix coordinata e monitorata a livello centrale.
Come si evince dalla tabella 5, il taglio disposto dall’attuale legge finanziaria a numerose voci
di spesa sociale, riduce anche sul medio termine la possibilità di un lavoro incisivo a favore di
una coerente gestione del lavoro migrante diretto al settore della cura.
Tabella 5 − Spesa destinata al sociale previste dalle leggi finanziarie (2008-2011) (milioni di euro)
Voci previste in finanziaria
2008
2009
2010
2011
Fondo da ripartire per le politiche sociali
1.528
1.312
1.029.
961
Sostegno alla famiglia
273
187
186
138
Promozione dei diritti e delle pari opportunità
44
30
3
2
Promozione dei diritti e delle opportunità per l’infanzia
e l’adolescenza
206
44
40
40
Aiuto alla non autosufficienza
299
399
-
-
Fondo nazionale per l’inclusione degli immigrati
5
-
-
-
Aiuto pubblico a favore dei pvs
733
322
331
216
Fonti: Legge Finanziaria 2009 (n° 203/08): [http://www.camera.it/parlam/leggi/elelenum.htm];
[http://www.anoss.it]; Decreto 6 agosto 2008 del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali per
il Riparto del “Fondo per le non autosufficienze” per gli anni 2008 e 2009:
[http://www.solidarietasociale.gov.it/NR/rdonlyres/E62C95AB-6ADE-4858-A5E39800C0ABBD95/0/Decreto6agosto2008.pdf].
Il contenimento della spesa dovuto alla crisi finanziaria e al peggioramento di tutti gli indici
macro-economici, rende ancor più difficile un percorso di questo tipo. Nonostante ciò, a
livello locale, la sperimentazione di buone prassi sembra continuare e addirittura migliorare
sulla base dell’esperienza passata.
Nel corso del Delphi abbiamo chiesto ai partecipanti come giudicassero le principali politiche
messe a punto a livello locale e nazionale per gestire l’ingresso si manodopera straniera nel
settore della cura e l’impatto che esso provoca.
La maggioranza dei partecipanti giudica positivamente le principali esperienze locali portate
avanti, specie nel Nord Italia. Esse vanno nella direzione giusta, e costituiscono un importante
tentativo di affrontare le principali problematiche sopra accennate.
Un giudizio particolarmente positivo viene espresso riguardo alle sperimentazioni che
puntano a qualificare il lavoro di cura attraverso la definizione di profili professionali e
percorsi formativi stabiliti a livello regionale (si trovano esempi in Toscana, Friuli Venezia
inquadramento nazionale a questa categoria professionale; Il disegno di legge sulla non autosuffcienza collegato
alla finanziaria 2008 (ddl Ferrero Turco) approvato dal Consiglio dei Ministri nel novembre 2007 che prevedeva
“misure volte a favorire l’assunzione da parte dei soggetti non autosufficienti o dei loro familiari di addetti
all’assistenza personale o familiare stabilite nell’ambito delle politiche coordinate dalla cabina di regia
nazionale” e fissava i livelli essenziali per i servizi sociali da garantire in modo uniforme sull’intero territorio
nazionale; l’intesa del settembre 2007 approvata in Conferenza Unificata tra Governo, Regioni ed Enti Locali
per progetti a sostegno delle famiglie, che promuoveva un piano di qualificazione per le assistenti familiari,
certificazione delle competenze e monitoraggio dei risultati ottenuti a livello locale, aprendo anche a possibili
interventi nei paesi di origine; il finanziamento da parte del Ministero delle Pari Opportunità con decreto del 412-2007 di progetti pilota finalizzati all’emersione del lavoro sommerso nel campo del lavoro di cura
domiciliare; il decreto del 12-09-07 del Ministero della Solidarietà Sociale che conteneva un avviso pubblico
nell’ambito del Fondo Nazionale per l’Inclusione Sociale degli Immigrati in cui si prevedeva una speciale misura
per l’inclusione socio-lavorativa delle badanti.
18
Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia, etc.). Il riconoscimento regionale dona forza al
titolo ottenuto e consente l’accreditamento per accedere alle carriere socio-sanitarie.
Altre sperimentazioni d’interesse sono identificate nella nascita presso alcune province, di
sportelli che non si limitano al semplice incontro tra domanda e offerta di lavoro di cura, ma
si fanno realmente carico di accompagnare le famiglie e le assistenti familiari durante il
rapporto di lavoro (ad es. prevedendo il tutoraggio delle assistenti familiari, la garanzia delle
famiglie di disporre con continuità di assistenti qualificate, il sostegno agli anziani privi di
rete familiare per la gestione del rapporto con l’assistente, etc)14. Secondo gli esperti, solo
servizi di questo tipo possono rendere un rapporto di lavoro regolare davvero concorrenziale
rispetto al sommerso. Viene lodato anche il ruolo dei Centri per l’Impiego (CpI) Provinciali
quando assumono essi stessi il compito della mediazione al lavoro tra famiglie e assistenti e si
pongono in rete con gli altri attori del territorio15. Secondo alcuni sarebbe utile che i CpI
estendessero la propria azione anche nei contesti di origine. A tal proposito, alcuni esperti
ricordano come le azioni di formazione e reclutamento in loco, promosse tra l’latro dall’intesa
del 20 settembre 2007 approvata in Conferenza Unificata, mostrano potenzialità che possono
essere sviluppate.
Nel complesso, tuttavia, si ritiene che le politiche avanzate risentano di una mancata
pianificazione e coordinamento a livello nazionale. Ciò approfondisce la disomogeneità degli
interventi sul territorio, peggiorando i divari interregionali già esistenti, e riduce la rilevanza
delle politiche promosse sia in termini di numero di beneficiari che di reale efficacia dei
risultati ottenuti. Un esempio evidente di questa problematica è citato da uno dei partecipanti,
il quale nota come l’istituzionalizzazione della figura di assistente familiare da parte di alcune
regioni (con la conseguente possibilità di riconoscimento di crediti formativi per il passaggio
a profili professionali più elevati) costituisca senz’altro un passo avanti, che perde però forza
in quanto la formazione non può essere riconosciuta al di fuori dell’ambito regionale.
Similmente, adottare un sistema di voucher può essere utile per regolarizzare una parte
importante dell’offerta, ma deve avvenire nell’ambito di un ripensamento globale dell’attuale
sistema di sussidi (in particolare l’assegno di accompagnamento), che a sua volta implica la
necessità di riconsiderare gli attuali sistemi di rilevazione delle risorse finanziarie della
famiglia (incluso l’ISEE).
Alcuni partecipanti si mostrano inoltre scettici circa l’utilità di percorsi formativi, così come
essi sono proposti oggi. Se il lavoro di assistenza familiare non viene maggiormente
qualificato e riconosciuto, è assai improbabile che la manodopera autoctona e migrante decida
di impegnarsi a lungo in questo settore e, dunque, l’investimento in formazione sarà sprecato.
Al tempo stesso la famiglia, se non adeguatamente sostenuta finanziariamente, difficilmente
sceglierà la manodopera più qualificata.
A ciò si aggiunge il problema della scarsità dei finanziamenti. Come nota uno dei
partecipanti: “sebbene sempre più diffusi, i sostegni economici non sono sufficienti a
stimolare la regolarizzazione dei rapporti di lavoro bastando a malapena a coprire il costo
della contribuzione ed essendo erogati per periodi che alla famiglia possono apparire troppo
brevi (al massimo un anno). Alla scarsità di contributi erogati a livello locale, si aggiunge il
fatto che l’attuale regime fiscale non consente la detrazione del costo dell’assistenza, se non in
maniera irrisoria”. Se non legati alla messa in regola dell’assistente, voucher e assegni di cura
finiscono inoltre per alimentare il lavoro nero.
Un rischio di fondo, sottolineato da più di un partecipante, è che le iniziative locali promosse
si muovano in un’ottica di breve periodo, che dà per scontato il continuo afflusso di
immigrate/i disposti a lavorare in condizioni molto dure e per salari molto bassi.
14
Esempi di questo tipo di politiche sono riportati sul sito: [www.qualificare.info].
Uno dei primi esempi in questo senso si è registrato a Parma nell’ambito del progetto Madreperla. Si veda
Rossi 2004 e Piperno 2006.
15
19
Se da una parte si giudica impossibile rimpiazzare il badantato con un sistema di servizi
pubblici come nel modello scandinavo, dall’altra si ritiene che anche politiche progressive, in
grado di scommettere su un ‘modello misto’ che fonde badantato con servizi di integrazione,
supporto e complemento da parte del pubblico, presenta punti di debolezza strutturali. Si
rischia infatti di perpetuare un modello di welfare basato su compensi bassi per i lavoratori
(rispetto all’impegno richiesto) e costi alti dal punto di vista delle famiglie che li impiegano.
La consapevolezza di questa debolezza di fondo motiva una presa di posizione più radicale da
parte di alcuni esperti, i quali ritengono che il pubblico non debba limitarsi a svolgere una
funzione di regolazione e controllo dell’incontro tra domanda e offerta nel settore privato, ma
sostenere la fuoriuscita dal rapporto privatistico famiglia-assistente familiare che è la causa
del protrarsi di rapporti servili (e della “fuga” dal lavoro di cura, e dunque, ancora del rischio
di labour shortage)16. Il lavoro di assistenza familiare dovrebbe essere trasformato in un
servizio, svolto a ore, eventualmente attraverso l’intermediazione di cooperative e/o lo
sviluppo di servizi di scala.
In mancanza di tali riforme, le politiche locali rischiano di rivelarsi “ideologiche e vuote”. A
questo proposito una delle esperte consultate nota come: “studi empirici hanno mostrato che
tutti i servizi che si occupano a vario titolo di formalizzare il rapporto di servizio domestico
(collocamento, formazione professionale, assistenza amministrativa e giuridica) si scontrano
con l’ambiguità tipica del rapporto di servizio domestico (Scrinzi 2003). Ogni azione di
qualificazione entra inevitabilmente in tensione con i regimi attuali della divisione sessuale
del lavoro e con le politiche d’immigrazione, che tendono a riprodurre precarietà giuridica,
informalità e manodopera a basso costo. Questo radicarsi della non qualificazione
dell’assistenza nei rapporti sociali che sono all’opera nella società fa sì che le iniziative di
“professionalizzazione” finiscono spesso per riprodurre le categorizzazioni essenzialistiche
sul genere, la differenza culturale e la classe”. Simile la posizione di un altro partecipante il
quale ritiene che le politiche locali possano divenire addirittura un “alibi” – portato avanti con
il consenso delle parti – per “scaricare” i compiti di cura sulle famiglie e non affrontare il
tema più globalmente e in prospettiva, attraverso una precisa integrazione dell’offerta privata
da parte del pubblico.
5. IL NOSTRO WELFARE E IL LORO: IMPATTO DELLE MIGRAZIONI ORIENTATE
AL SETTORE SOCIO-SANITARIO E DELLA CURA SUI CONTESTI DI ORIGINE
Come accennato nell’introduzione, uno dei temi affrontati nell’ambito della consultazione tra
esperti ha riguardato l’impatto che il ricorso a manodopera straniera per il mercato del welfare
italiano genera sui paesi di origine: tanto sul contesto familiare che sui sistemi di welfare
locali.
16
Questi esperti si ricollegano ad un ampio filone di pensiero secondo cui il lavoro domestico, così come altri
lavori svolti da immigrati, si rivela esclusivamente una froma di sfruttamento basata sulla sottomissione a
rapporti personali, che nel caso degli immigrati si anche in rapporti attraversati dal razzismo. E’ questa la linea in
cui s pongono ad esempio importanti autrici femministe come Andall e Anderson (J.Andall, 2000, Anderson,
2000). Per una riflessione sul tema di veda A. Colombo (2002).
20
A livello internazionale, negli ultimi anni, diversi studi17 hanno analizzato l’impatto delle
migrazioni femminili indirizzate al mercato della cura sulle famiglie di origine. Ricerche di
campo condotte in diversi contesti di emigrazione hanno evidenziato la problematica di una
crescente “dislocazione delle relazione affettive”, così come la questione legata al costituirsi
di “catene globali” che vedono le donne migranti offrire lavoro di cura sui mercati occidentali
e, allo stesso tempo, acquistarlo nel paese di origine da donne ancora più svantaggiate; è stata
inoltre studiata la trasformazione dei tradizionali modelli di erogazione della cura che fa
seguito all’emigrazione femminile, la nuova condizione in cui si trovano i figli left behind18,
così come la capacità delle madri migranti di provvedere “cura emotiva e guida da lontano”
(Parreñas 2003) e articolare su scala globale la sfera riproduttiva (Nyberg SØresen 2005).
Una questione su cui non si è ancora concentrata sufficientemente l’attenzione riguarda
invece l’impatto sui sistemi di welfare locali prodotta dall’emigrazione, specie quella diretta
al settore socio-sanitario e della cura in Occidente.
Come messo in rilievo da alcuni autori (Sciortino 2005 e Pillinger 2008), la ricerca sul nesso
tra politiche sociali e migrazione ha finora principalmente messo in risalto l’impatto dei flussi
migratori sulle politiche sociali nei contesti di arrivo, concentrandosi sulla problematica
dell’integrazione e sull’incidenza della popolazione straniera sui sistemi di welfare occidentali
a livello di costi o benefici19. La modalità in cui i flussi migratori si adattano ai regimi di
welfare e/o li trasformano resta invece un tema poco studiato tanto nei contesti di
immigrazione che di emigrazione.
Al tempo stesso, come suggerisce Pillinger: “gli studi di politica migratoria, hanno
prevalentemente analizzato l’impatto delle migrazioni sui contesti di destinazione, in
relazione alle politiche migratorie e d’asilo, alla capacità di attrarre personale qualificato o
comunque adatto a colmare le carenze dei mercati locali, e alle politiche di integrazione. La
ricerca sui contesti di origine si è invece concentrata sulle conseguenze dell’emigrazione
dovuta alla fuga di cervelli e delle competenze e all’impatto socio-economico delle rimesse.
Solo in misura minore è stata dedicata attenzione all’impatto delle migrazioni sui sistemi di
welfare nei contesti di origine e ai temi ad esso associati come l’erogazione di servizi di cura,
la trasformazione delle relazioni di genere e il possibile contributo dei migranti allo sviluppo
sociale (Pillinger 2008: 14. t.d.a.)”.
In linea con il dibattito scientifico, le politiche tese a rafforzare il nesso tra migrazione e
sviluppo si sono concentrate sulla promozione delle così dette “tre R” (rimesse, reclutamento
e ritorno) e sul modo in cui questi fattori influenzano i contesti di origine a livello economico.
Il modo in cui le rimesse, il drenaggio/guadagno di competenze e cure, il trasferimento di
conoscenze, le catene di cura globali, incidono sulla politica sociale dei paesi di origine sono
tutti temi rimasti in secondo piano. Il binomio migrazione-sviluppo raramente è stato
integrato attraverso la dimensione della politica sociale, e non è stata richiamata l’attenzione
sull’importanza di un coordinamento tra politiche che coinvolga non solo l’area migratoria e
quella della cooperazione allo sviluppo, ma anche quella sociale (Pillinger 2008: 4).
Analizzare l’impatto delle migrazioni sul welfare locale, oltre che sul sistema economico e su
quello familiare, risulta particolarmente importante quando si tratta di flussi diretti al settore
17
Si veda ad esempio: Wong 1997; Hochschild 2003. Bryceson e Vuerela 2002; Hondagneu-Sotelo e Avila
1997; Nyberg SØresen 2005; Pribilsky 2004; Parreñas 2001.
18
Sono soprattutto studi svolti negli stessi contesti di emigrazione che in anni recenti hanno analizzato la
condizione dei minori left behind. In Romania ad esempio gli studi su questo fenomeno si sono moltiplicati in
pochi anni. Si veda: Centrul Judeţean de Asistenţă Psihopedagocică 2005; FRCCF e UNICEF 2005; Irimescu e
Lupu 2006.
19
Per l’Italia si veda Caritas Migrantes 2008, Ismu 2007, Ferrante Zanfrini 2008; INPS-Caritas 2004. Per una
rassegna ragionata sulla letteratura a livello internazionale si veda Sciortino 2005.
21
socio-sanitario e della cura, dato che essi hanno un impatto particolarmente forte sui sistemi
sociali nei contesti di origine.
Si pensi all’impatto esercitato dal drenaggio/guadagno di competenze in ambito sociosanitario (tema su cui già esiste un ampio dibattito scientifico e politico); a come la
femminilizzazione delle migrazioni dettata dall’instaurarsi di catene globali di cura,
diminuendo le risorse di care informale all’interno della famiglia, possa tradursi in
un’aumentata e diversa domanda di servizi pubblici in loco (Piperno 2007, Mansoor 2007);
alla riformulazione dei ruoli tra generi dettata dalle maggiori chances di lavorare all’estero per
le donne straniere (Gamburd 2000); o ancora alla tendenza da parte delle donne di indirizzare
gran parte delle rimesse verso spese sociali in patria (UNIFEM 2004; Murison 2005; SØresen
2004).
Sebbene l’Italia sia tra i maggiori paesi in Europa che reclutano manodopera di cura straniera,
il dibattito scientifico sul possibile impatto che ciò genera sui paesi di origine è ancora agli
inizi. Ugualmente, le politiche cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, volte a
promuovere e qualificare il lavoro di cura straniero, non hanno quasi mai tenuto conto della
sua dimensione transnazionale, puntando a gestire, compensare, valorizzare l’impatto sociale
che tali migrazioni producono a livello locale.
Qualche iniziale tentativo da parte della cooperazione decentrata italiana di gestire le
migrazioni per valorizzarne la funzionalità rispetto alle esigenze del mercato italiano, ma
rispettando al tempo stesso le necessità dei contesti di origine, si registra nei programmi di
reclutamento di infermiere. Alcuni progetti hanno promosso lo sviluppo di fondi volti a
compensare il drenaggio di professionisti dal settore sanitario locale e a potenziare la
formazione in loco tanto per la manodopera disposta a inserirsi nel mercato locale che per
quella intenzionata ad emigrare (Piperno Reina 2005). Si tratta comunque di pochi progetti
isolati e scarsamente conosciuti.
Nonostante questo gap scientifico e politico, tutti gli esperti interpellati evidenziano la stretta
interrelazione tra il nostro sistema di welfare, sempre più bisognoso di manodopera straniera,
e la trasformazione del tessuto familiare e sociale e più in generale dei sistemi di welfare nei
contesti di origine.
LA FAMIGLIA IN DIFFICOLTÀ AI DUE POLI DELLA CATENA MIGRATORIA
Il principale elemento messo in evidenza da quasi tutti i partecipanti è proprio la questione
connessa alla separazione forzata delle donne migranti dai familiari rimasti in patria. Come
sottolinea uno dei partecipanti: “i rapporti famigliari delle donne che emigrano, vengono assai
spesso sottoposti a tensioni emotive, sociali e psicologiche che non tutti i nuclei di origine
riescono a reggere nel corso del tempo, con evidenti conseguenze negative sulle relazioni con
il partner, i figli ed i genitori. Se da un lato le rimesse economiche derivanti dall’attività di
cura svolta in Italia consentono di meglio superare le difficoltà finanziarie che sono spesso
alla base del progetto migratorio, con un evidente ritorno complessivo per il paese d’origine,
non indifferenti sono tuttavia le difficoltà relazionali riportate da molte famiglie
transnazionali di immigrati”.
Il così detto “drenaggio di cure” colpisce di conseguenza a livello transazionale e su entrambe
le sponde del processo migratorio.
Sul fronte italiano, una delle partecipanti ricorda come la lontananza dai figli genera
situazioni di forte disagio per le madri, specie in situazioni di forte sfruttamento del lavoro o
nell’ambito di matrimoni misti poco funzionanti. Il disagio della famiglia immigrata, in
diversi casi, non si esaurisce neanche a seguito del ricongiungimento che, dopo anni di
lontananza, può rivelarsi un evento traumatico. Ciò implica che le immigrate e le loro
famiglie trovino servizi di supporto personale e familiare più attenti anche nei contesti di
arrivo.
22
In patria, i membri più vulnerabili della famiglia transnazionale, minori e anziani, sono i
soggetti destinati a subire le conseguenze più dure dell’emigrazione femminile. Tale
problematica si manifesta in modo ancora più critico quando coinvolge flussi migratori di
lunga distanza e potrebbe rafforzarsi sul medio termine in concomitanza della già discussa
possibile riduzione dei flussi dall’Est Europa.
È utile ricordare, infine, come il drenaggio di cure a sua volta comporti una nuova pressione
sui servizi sociali locali. Ciò è dovuto all’aumento, come sottolineano alcuni, del disagio
sociale nei contesti d’origine e, conseguentemente, all’emergere di una nuova domanda di
sostegno a livello educativo e scolastico. Si rileva: “una domanda diffusa – e prevalentemente
disattesa – di percorsi di accompagnamento mirato, scolastico ed educativo, per i figli left
behind, che possono combinare benessere (almeno apparente) e isolamento affettivo e
relazionale, prospettive di vita incerte e generale stigmatizzazione, nel gruppo dei pari e nel
discorso comune della loro società d’appartenenza”.
Il costo personale si trasforma così in un costo sociale, reso del resto già alto dal forte
sbilanciamento demografico che colpisce tutti i paesi a forte emigrazione che perdono una
percentuale importante di popolazione attiva.
DRENAGGIO DI CERVELLI E COMPETENZE
La seconda questione evidenziata dagli esperti riguarda il drenaggio di cervelli e competenze.
Tale drenaggio viene associato tanto alle migrazioni orientate al mercato della cura (dato che
spesso chi si inserisce in questo segmento ha una buona formazione alle spalle), quanto a
quelle indirizzate al settore infermieristico. In quest’ultimo caso il drenaggio di cervelli e
competenze sottrae direttamente risorse ai sistemi socio-sanitari locali, spesso già carenti di
personale qualificato.
RIDEFINIZIONE DEI RAPPORTI TRA GENERE E POTENZIALE EMANCIPAZIONE FEMMINILE
Una terza questione rilevata dagli esperti riguarda la possibile ridefinizione dei rapporti tra
generi dovuta all’accresciuta emigrazione femminile. Non necessariamente tale potenzialità si
risolve però in un esito positivo e andrebbe, come vedremo nel prossimo capitolo, sostenuta
attraverso opportune politiche. La maggior parte dei partecipanti mette in rilevo come
l’aumento della domanda di lavoro femminile straniero sui mercati occidentali, conferisca a
molte donne immigrate un nuovo ruolo di breadwinner all’interno della famiglia di origine.
Ciò a sua volta può divenire parte di un processo di emancipazione ed empowerment
femminile. Altri esperti tuttavia ritengono che l’aumento delle opportunità di impiego
all’estero non basta a ridefinire profondamente i ruoli all’interno della famiglia. Generalmente
infatti, come diverse ricerche empiriche hanno dimostrato (Haidinger 2008), “i mariti delle
donne emigrate tendono ad investire poco del loro tempo nelle attività della cura della casa e
dei figli e a ricorrere, piuttosto, al lavoro gratuito di altre donne della famiglia. Altri uomini
semplicemente rifiutano di assumersi le responsabilità domestiche della cura separandosi
dalla moglie e dalla famiglia”. Il limitato sviluppo di sistemi di sostegno alla famiglia in loco
ostacola ulteriormente il processo di redistribuzione del carico riproduttivo.
MIGRAZIONE LEGATE AL WELFARE COME POTENZIALE VETTORE DI SVILUPPO SOCIALE NEI PAESI DI
ORIGINE
Due degli esperti interpellati evidenziano, infine, come le migrazioni associate al settore
socio-sanitario e della cura possano promuovere una dinamica di trasformazione e sviluppo
sociale in loco. Sebbene, generalmente, il lavoro a bassa qualifica viene scarsamente
considerato nell’ambito delle politiche tese a promuovere il nesso tra migrazione e sviluppo,
uno dei partecipanti si interroga sulle potenzialità delle donne che lavorano nel settore della
cura di divenire “ponte per la circolazione di capitale sociale e umano”, a costo però che esse
possano conseguire una migliore integrazione socio-professionale nel contesto di arrivo.
23
Il secondo esperto intravede la possibilità che emergano, nei paesi di origine, le condizioni per
una nuova politica di welfare e un’espansione del mercato della cura con conseguente
aumento della domanda di lavoro nel settore (anche qualificata). Possono contribuire a questa
tendenza alcuni fattori tra i quali: l’investimento di maggiori risorse finanziarie scaturite dalle
rimesse indirizzate al settore della cura, la definizione di nuovi bisogni di cura, più tarati su
standard occidentali, la proposizione di un modello culturale che vede l’espansione di un
sistema di cura privato o misto: “Gli effetti non saranno immediati, ma i modelli si
contamineranno, per cui anche nei Paesi di origine sorgeranno nuove domande, a cui la
famiglia non sarà più in grado di rispondere. Si eleveranno i livelli di sicurezza e di benessere,
per cui si creeranno le condizioni per una nuova politica di welfare, che influenzerà gli stessi
flussi migratori. Le donne immigrate sperimentano che il lavoro di cura può essere
remunerato e non delegato totalmente alla famiglia. Questo (…) si sostiene su una accresciuta
disponibilità di risorse, proveniente anche proprio dal lavoro femminile. E’ probabile che tali
aspetti si trasferiscano anche nei Paesi di provenienza delle donne immigrate, per cui si crei
un mercato della cura, capace di assorbire almeno una parte dell’offerta, costretta oggi a
emigrare”.
6. RAFFORZARE IL NESSO TRA MIGRAZIONE E SVILUPPO SOCIALE IN ITALIA E
NEI PAESI DI ORIGINE: QUALI STRATEGIE?
La crescente domanda di servizi che si riscontra nei diversi gradini della filiera socio-sanitaria
e della cura può trovare parziale risposta nella disponibilità di una manodopera proveniente da
paesi più poveri del nostro.
Affidare l’offerta di welfare all’incontro tra domanda e offerta di lavoro nell’ambito di un
mercato globale può però avere – come evidenziato nei capitoli precedenti - un impatto
contraddittorio sui sistemi di welfare, sia nel nostro paese che in quelli di emigrazione, e
andare incontro a limiti di sostenibilità.
Quest’ultimo capitolo dà conto delle principali raccomandazioni suggerite dagli esperti, al
fine di attenuare o quantomeno gestire le principali problematiche, relative alla creazione di
un welfare transnazionale, da essi stessi evidenziate.
Nelle pagine che seguono ci chiediamo quali strategie dovrebbero essere adottate per
rilanciare le politiche di welfare in Italia valorizzando la componente immigrata che ne
costituisce una parte sempre più integrante; cosa possono fare i governi nazionali e locali per
far fronte al progressivo divario tra domanda e offerta di welfare che si profila nonostante il
contributo reso disponibile dalla manodopera migrante; come può essere gestito l’impatto sui
contesti di origine dei flussi migratori indirizzati al nostro mercato socio-sanitario e della
cura.
6.1 Migliorare l’impatto del lavoro di cura straniero sul welfare italiano
In questa sezione, ci riferiamo principalmente a manodopera di cura, in quanto il flusso
migratorio diretto al settore infermieristico è troppo esiguo per avere un impatto significativo
sul welfare italiano.
Nel quarto paragrafo abbiamo visto come il ricorso massiccio ma non adeguatamente regolato
a manodopera straniera nel settore della cura, crea (o contribuisce a rafforzare) delle
disfunzioni importanti, che possono essere ricondotte a tre problematiche fondamentali:
24
1) disinvestimento/scadimento del welfare pubblico;
2) emergere di un mercato privato dequalificato e poco controllabile dal pubblico;
3) sviluppo di nuove fasce di emarginazione tra gli immigrati (le lavoratrici di cura e i loro
figli) e tra gli italiani (specie nella fascia con più di 65 anni).
Ci chiediamo adesso come tali problematiche possano essere affrontate nel corso dei prossimi
anni.
Come accennato nel quarto paragrafo, secondo la maggior parte degli esperti, le principali
politiche portate avanti a livello locale per migliorare la gestione della risorsa migrante nel
settore della cura, possono contribuire a contrastare il livellamento verso il basso del mercato
della cura e fenomeni di emarginazione. Esse tuttavia si rivelano azioni di corto respiro se non
vengono rafforzate nell’ambito di una regia nazionale, e se non contribuiscono a un rilancio
più ampio della professione di cura. A partire da queste problematiche gli esperti delineano le
azioni che dovrebbero essere intraprese nel futuro.
Per rendere più incisive le attuali politiche di promozione e qualificazione del lavoro di cura
è, in primo luogo, necessario introdurre standard omogenei per le prestazioni da svolgere. La
legge 328/00 che ha per la prima volta affermato la necessità di definire i livelli essenziali
delle prestazioni sociali (LIVEAS), non ha dato da questo punto di vista gli esiti sperati. Il
disegno di legge sulla non autosufficienza collegato alla finanziaria 2008 (ddl Ferrero Turco)
che stabiliva i livelli essenziali di prestazioni per i non autosufficienti non è mai stato
convertito in legge. Secondo gli esperti bisogna dunque rafforzare gli sforzi in questa
direzione, immaginando anche soluzioni nuove. Ad esempio, nonostante la difficoltà − specie
in ambiti estesi − di monitorare il mercato e di fare emergere le rispettive percezioni di
qualità, alcuni partecipanti immaginano la possibilità di erogare finanziamenti solo alle
sperimentazioni locali che rispondono a standard nazionali, promuovendo al tempo stesso il
raccordo tra iniziative simili.
A monte di qualsiasi politica in questo campo, secondo diversi partecipanti, deve esserci il
riconoscimento del lavoro di assistenza familiare (il così detto “badantato”), come una vera
professione, attraverso moduli formativi accreditati e uniformi su tutto il territorio nazionale
(secondo alcuni) o quanto meno a livello regionale (secondo altri). Gli sforzi volti alla
formazione dei/delle assistenti familiari possono però sperare di avere un successo non
effimero solo se si coniugano con un impegno a migliorarne le condizioni di lavoro (salario e
tutele), cosa che comporta un aumento dei costi. Poiché ciò rischia, a sua volta, di incentivare
ulteriormente il nero ed estendere il gap con la solvibilità economica dei destinatari della cura,
si rende necessario un sostegno alle famiglie più consistente di quanto non avvenga ora. La
spesa pubblica dovrebbe essere rivolta a una politica di voucher vincolata all’assunzione
regolare e al rispetto delle condizioni di lavoro previste dalle norme vigenti e dal contratto
nazionale di lavoro. Si comprende dunque come una riqualificazione della professione di
assistente familiare si lega ad un’altra necessità, anch’essa giudicata prioritaria dagli esperti, e
cioè l’aumento delle risorse dedicate all’assistenza e il collegamento tra le diverse azioni dei
progetti (formazione, mediazione al lavoro, sostegno alla domanda) che finora sono state
implementate in modo troppo disgiunto.
A livello più generale, è inoltre opinione diffusa che la risorsa migrante possa essere
correttamente utilizzata solo nel quadro di un rilancio dell’assistenza territoriale e di
integrazione dei servizi socio-sanitari, rispetto ai quali essa deve assumere un carattere
integrativo e non sostitutivo. In quest’ottica, come nota una delle partecipanti: “è opportuno
passare da un regime di welfare che concentra i propri investimenti sull’area previdenziale e
la sanità a un welfare che recepisce il cambiamento di ottica che l’allungamento della vita
impone e riorganizza le proprie risposte in una visione più territoriale, di rete tra interventi e
soggetti, di unificazione tra aspetti previdenziali, sanitari e assistenziali”.
25
Si tratta, come spiega un altro esperto, di passare da una logica di cure, concentrata sulla
“prestazione”, ad una logica di care, più attenta alla globalità della persona. Bisogna, in altri
termini, “pensare già in partenza a politiche di servizi e prestazioni che vedano nella
progettazione e nell’organizzazione territoriale forme diverse di assistenza: sia quelle a
contenuto specialistico che quelle a forte contenuto relazionale e di cura alla persona”. Si
configura così il passaggio a un “welfare di comunità” che preveda anche nella costruzione e
realizzazione dei piani di zona un migliore raccordo tra attori diversi a livello pubblico,
privato e di terzo settore. Si pongono così le basi per la messa in rete di figure tradizionali
(medici di base, infermieri, operatori sociali, assistenti sociali, etc) e figure “nuove” come le
assistenti familiari, ma anche organizzazioni di famiglie o di volontariato. Questo percorso,
secondo diversi esperti, richiede a sua volta un ripensamento dei servizi sociali e lo sviluppo
di nuove competenze tra gli operatori sociali affinché siano in grado di valorizzare gli aspetti
relazionali e di attivare le risorse del territorio.
Il lavoro dell’assistente familiare viene così inserito nell’ambito di in un programma
complessivo di presa in carico dell’anziano da parte del pubblico e integrato con lo sviluppo
di servizi residenziali e “intermedi” (centri di sollievo, centri diurni, servizi di monitoraggio e
integrazione dell’assistenza domiciliare, di supporto durante eventuali periodi di assenza delle
collaboratrici straniere, etc). Contemporaneamente, si ritiene necessario sviluppare la rete tra
gli attori che possono assicurare un migliore inserimento socio-professionale delle assistenti
familiari, attraverso un più stretto collegamento tra gli sportelli di mediazione al lavoro e i
Centri Provinciali per l’Impiego e mediante un più forte raccordo tra Caritas, sindacati, serivzi
sociali, associazioni del terzo settore.
Ma queste politiche con quale bilancio possono essere attuate? Come ricordato da diversi
partecipanti al Delphi, una seria politica della domiciliarità costa moltissimo. Alcuni esperti
giudicano che per essere realmente efficace una seria politica sulla non autosufficienza
dovrebbe ricevere tra i 4 e i 5 miliardi di euro annui. Tale è stato lo sforzo del governo
francese che, grazie al sussidio definito “allocation personalisée à l’autonomie” (APA), nel
2004 ha garantito un importo medio di 489 euro al mese a 827.000 anziani che potevano
decidere se pagare il ricovero in una struttura di tipo residenziale, oppure assumere
un’assistente privata (Ungerson Yeandle 2007).
Una spesa difficile da sostenere in Italia, specie se si considera il tradizionale
sottofinanziamento di tutte le politiche sociali che scontano il drenaggio di risorse dovuto al
pagamento degli interessi passivi sul debito pubblico e alle pensioni. La situazione è resa oggi
ancora più difficile dalla congiuntura economica negativa.
Gli esperti concordano sul fatto che se si vogliono investire maggiori fondi pubblici nel
settore dell’assistenza agli anziani è necessario reperire risorse nuove. Ciò, secondo alcuni,
sarebbe possibile sia attraverso prelievo fiscale aggiuntivo (come accaduto in Germania,
Austria e Francia), sia tramite una riorganizzazione delle attuali provvidenze monetarie
(pensioni di disabilità, indennità di accompagnamento, etc.). Diversi partecipanti ritengono
anche necessario riequilibrare la spesa, spostandola verso gli anziani più bisognosi − dai 5564enni a quelli con più di settanta anni − attraverso l’allungamento dell’età della pensione: ciò
però a sua volta comporterebbe un ulteriore aumento della domanda di care privato data la
minore disponibilità dei familiari ad offrire cura informale. Ulteriore spazio va trovato
migliorando l’efficienza della spesa pubblica.
Naturalmente ogni strategia che preveda di valorizzare l’apporto della manodopera migrante
migliorandone la ricaduta sul sistema sociale italiano deve necessariamente confrontarsi con
la politica migratoria. Un uso distorto delle quote alimenta infatti emarginazione e irregolarità
e rende impensabile una politica di promozione del lavoro di cura.
Del resto i limiti della politica migratoria italiana si manifestano con particolare evidenza
nella gestione del flusso migratorio rivolto alla cura. Il criterio della “chiamata a distanza” che
26
lega la possibilità di ingresso nel nostro paese al preventivo possesso di un contratto di lavoro
è giudicato “impensabile in un settore delicato come quello dell’assistenza alla persona, in cui
le parti si devono inevitabilmente incontrare e piacere”. La concentrazione degli ingressi in
un’unica parte dell’anno e la lungaggine delle procedure amministrative è anch’essa
inconciliabile con le esigenze del mercato della cura, dato che il bisogno di assistenza, specie
nel caso degli anziani, si manifesta spesso in maniera improvvisa, a seguito di un evento
traumatico e in qualsiasi momento dell’anno. Infine, come si è visto nel capitolo introduttivo,
la programmazione dei flussi non appare in grado di rispondere all’effettivo numero di
richieste.
A fronte di questi evidenti limiti diversi esperti chiedono il ripristino di norme già previste nel
Testo Unico sull’ immigrazione. In particolare, la possibilità di scindere lo stretto rapporto tra
ingresso e possesso di un contratto di lavoro grazie all’opportunità di entrare in Italia per
ricerca di lavoro o la reintroduzione dello sponsor. L’allungamento della durata del permesso
di soggiorno e del periodo in cui è possibile restare in Italia anche nel caso di disoccupazione
(il limite potrebbe essere riportato dai 6 mesi a un anno) sono ulteriori norme adatte a
proteggere i lavoratori e le lavoratrici occupati in un mercato altamente instabile come quello
della cura.
Esiste invece una divergenza tra gli esperti circa l’opportunità di mantenere il sistema delle
quote20. Se per alcuni esse andrebbero superate attraverso un sistema di accordi bilaterali con i
principali paesi fornitori di lavoro di cura21 e la possibilità di “regolarizzazioni continue”, per
altri esse sono “il sistema meno sbagliato” – per quanto pieno di difetti − di cui l’Italia è in
grado di dotarsi. Il sistema delle quote può però essere migliorato, attraverso una gestione che
garantisca una maggiore “regolarità negli ingressi, continuità nelle cifre, realismo e velocità di
rilascio delle pratiche”. Poiché “un sistema non può funzionare con ritardi di oltre dodici mesi
nell’accoglimento/respingimento delle domande di ingresso, bisogna migliorare la capacità di
valutare le domande celermente frenando all’origine quelle senza alcuna possibilità di essere
accolte (nel decreto flussi 2007 il 45% delle richieste di ingresso erano prive dei requisiti).
Potrebbe essere inoltre introdotta la possibilità di determinare meglio le priorità, distinguendo
tra aiuto a persone non autosufficienti con necessità mediche provate, da soddisfare
velocemente, e dall’altro lato situazioni di minore urgenza. Anche in questo caso, rimane però
la difficoltà di definire queste situazioni senza burocratizzare ulteriormente il processo ed
evitando al contempo che tutte le domande si concentrino su quel segmento”.
6.2 Affrontare la questione della sostenibilità del welfare transnazionale
All’interno di questa impostazione generale, registriamo un vastissimo consenso sul bisogno
di politiche che compensino la possibile carenza di cura nei vari segmenti della filiera del
welfare (in particolare quello della co-residenza e quello infermieristico). Secondo uno dei
partecipanti, il bisogno di politiche è reso particolarmente urgente proprio dal fatto che il
deficit di manodopera potrebbe registrarsi concomitantemente nei vari gradini della catena
della cura: “La carenza di personale infermieristico, è già drammatica. Poiché spesso le
badanti assistono anziani con gravissimi problemi di salute, che necessitano di cure di tipo
20
Nell'art. 27 del Testo Unico sull'immigrazione sono elencate una serie di categorie di lavoratori stranieri per i
quali il nulla osta al lavoro viene rilasciato, quando richiesto, al di fuori delle quote annualmente stabilite con il
decreto flussi (cd. ingressi fuori quota). Tra questi sono menzionati anche i collaboratori familiari, ma solo nello
specifico caso in cui essi abbiano regolarmente in corso all'estero, da almeno un anno, rapporti di lavoro
domestico a tempo pieno con cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea residenti all'estero,
che si trasferiscono in Italia (art. 27 lett. E).
21
Fino ad oggi la Direzione Generale dell’immigrazione ha concluso accordi bilaterali in materia di
regolamentazione e gestione dei flussi migratori per motivi di lavoro con il governo della Moldavia, del Marocco
e dell’Egitto. Si veda a questo proposito:
[http://www.solidarietasociale.gov.it/SolidarietaSociale/tematiche/Immigrazione/flussi_migratori/].
27
infermieristico, se dovesse verificarsi una situazione di carenza di assistenti familiari la
pressione sui servizi diventerebbe davvero insostenibile”.
Come gli stessi partecipanti notano, si tratta di un ambito di policy del tutto assente
dall’agenda politica Italiana: innanzitutto perché, come rilevato all’inizio, si registra una
scarsa consapevolezza a livello nazionale del problema di un possibile labour shortage nella
filiera della cura, in secondo luogo in quanto “a livello di consenso politico paga di più
occuparsi dei problemi attuali piuttosto che di quelli futuri”.
In quest’ambito, i principali indirizzi strategici che la politica italiana dovrebbe adottare
possono essere ricondotti a 4 principi fondamentali.
1) ATTRARRE E TRATTENERE MANODOPERA AUTOCTONA E MIGRANTE NELLA FILIERA SOCIOSANITARIA E DELLA CURA
In primo luogo, è necessario attrarre e/o trattenere la manodopera autoctona e migrante nei
vari segmenti della filiera socio-sanitaria e della cura. Abbiamo già accennato sopra a come il
settore della cura dovrebbe essere riqualificato. Per quanto riguarda l’ambito infermieristico e
socio-sanitario si ritiene prioritario incrementare le attrattive della professione, intervenendo
innanzi tutto sui livelli retributivi e sulle condizioni contrattuali (potrebbero ad esempio essere
previsti benefici collaterali, come condizioni abitative agevolate, contributi in conto affitto,
etc.). Il settore infermieristico richiede inoltre azioni di ridefinizione dei profili (ad es.
trasferendo ad infermiere compiti affidati attualmente a personale medico) e una
differenziazione delle mansioni, accentuando le prospettive di carriera. Per quanto riguarda la
formazione, occorrerebbe prevedere, a livello universitario, una maggiore presenza di
infermieri tra i professori che insegnano materie legate al Nursing. Sarebbe altresì necessario
aumentare il numero dei posti per accedere ai corsi di laurea per infermieri.
La strada è tuttavia in salita: l’esperienza degli altri paesi europei, e in particolare della Gran
Bretagna rispetto al personale infermieristico e socio-sanitario, suggerisce che non è facile
contrastare il progressivo abbandono da parte della popolazione autoctona di lavori
considerati mal pagati per lo sforzo richiesto e le condizioni di lavoro. Al tempo stesso, un
mancato sviluppo della professione rende strutturale un bisogno sempre maggiore di
immigrazione e l’alto turnover dei lavoratori.
2) RIDURRE LA DOMANDA DI CURA A PAGAMENTO
In secondo luogo, gli esperti indicano la necessità di puntare su politiche che riducano la
domanda di cura privata a pagamento. A questo fine si caldeggia lo sviluppo della tecnologia
assistiva in grado di ridurre l’impiego di risorse umane nel lavoro di assistenza e l’incremento
di politiche che facilitino l’assunzione di alcuni compiti di cura da parte della famiglia (ad
esempio attraverso lo sviluppo di servizi di supporto). Molto meno chiaro è il possibile
impatto che lo sviluppo di una possibile rete di servizi domiciliari pubblici e di strutture
intermedie tra istituti e domicili privati (day centres, soluzioni condominiali, etc.) avrebbe
sulla riduzione della domanda di care.
Mentre per quanto riguarda l’infanzia, si ritiene che un aumento di servizi abbia un impatto
immediato in termini di riduzione della domanda di assistenza privata, il caso degli anziani è
assai più complesso. Secondo alcuni esperti (circa la metà) un aumento di servizi
“spiazzerebbe” l’offerta privata, a costo però che vengano ridotti i costi e le barriere
burocratiche.
Come nota una delle partecipanti: “il ‘familismo’ della cura in Italia è in parte indotto
dall’inefficienza dei servizi pubblici e dal costo di quelli privati. Se si riuscisse ad organizzare
servizi efficaci e non più costosi dell’alternativa badanti (per le famiglie), le donne italiane (e
qualche uomo) reagirebbero positivamente. Anche quando la famiglia se lo può permettere,
infatti, ricorrere ad una badante può comunque rivelarsi dispendioso in tempo e fatica per il
28
familiare che ha in carico l’anziano (spesso una donna) e che deve assicurare il
coordinamento fra i vari servizi, la copertura del giorno libero, delle vacanze, etc”. La
domiciliarità, dunque, non deve essere considerata una “panacea” e nemmeno la prima scelta
delle famiglie. Al contrario, spesso essa nasconde intollerabili situazioni di isolamento ed
emarginazione di assistenti e anziani. Solo se si rompe la scala dell’assistenza 1:1 è possibile
riqualificare e regolare il lavoro di cura e al tempo stesso rispondere alla domanda di una
popolazione anziana che cresce.
Secondo altri invece la forte cultura della domiciliarità, la scarsa fiducia nelle istituzioni e la
preferenza per le relazioni informali e flessibili sono fattori che continuerebbero a rendere
preferibile l’offerta di cura privata e un aumento dei servizi potrebbe beneficiare unicamente
la popolazione troppo povera per permettersi un’assistenza personale.
3) PROMUOVERE E INCENTIVARE LA MOBILITÀ INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI
Una terza raccomandazione indicata dagli esperti consiste nel promuovere e incentivare la
mobilità internazionale dei lavoratori.
Per quanto riguarda il settore infermieristico, tra gli esperti è assai diffusa l’opinione secondo
cui: “il problema da affrontare è riconducibile alla scarsa (o nulla) capacità del nostro paese di
attrarre personale qualificato dall’estero. Il mercato del lavoro in questo settore è infatti oggi
tra i più internazionalizzati e molti paesi ricchi, soprattutto anglofoni (USA, Australia, UK,
Irlanda, Canada, Nuova Zelanda, ma anche del’Europa continentale come Francia e
Germania) competono per attrarre forza lavoro offrendo condizioni favorevoli e
predisponendo programmi transnazionali di formazione e reclutamento attraverso
cooperazione con i paesi di origine. In questo contesto, la competitività dell’Italia risulta
particolarmente ridotta”.
A questo fine è necessario perseguire, anche attraverso accordi bilaterali con alcuni paesi di
origine, politiche attive ed eque di reclutamento e qualificazione della manodopera,
facilitazione del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, circolazione
transnazionale della forza lavoro e scambio di esperienze e buone prassi. A questo proposito
viene giudicata positivamente l’esperienza di alcune regioni (quali il Veneto, l’Emilia
Romagna ed il Lazio ) che hanno aperto sportelli per il riconoscimento dei titoli di studio.
Si auspica anche una maggiore collaborazione tra gli organismi sanitari interessati a livello
internazionale (europeo ed extraeuropeo) al fine di permettere la libera circolazione di
professionisti con particolare riguardo alla uniformità dei livelli formativi sia teorici che
pratici. La maggior parte degli esperti auspica l’approvazione in tempi brevi della direttiva
europea sulle alte qualifiche che fornisce linee guida per il riconoscimento delle qualifiche dei
lavoratori stranieri nei paesi membri e facilita la circolazione dei lavoratori qualificati
all’interno dei confini europei22. Tale processo presenta però anche dei rischi per l’Italia.
Come nota uno dei partecipanti, infatti, poiché l’Italia ha un reddito pro capite inferiore alla
media dell’Ue 15 e a malapena superiore alla media dell’Ue 27, una maggiore circolazione
dei profili professionali socio-sanitari – favorita dall’omogeneizzazione delle politiche socio22
Commissione delle Comunità Europee, Proposta di Direttiva del Consiglio sulle condizioni di ingresso e
soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolge lavori altamente qualificati, COM(2007) 637 definitivo.
La direttiva, che dovrà ora essere esaminata dai Ministri dell’Interno dell’Ue e dalla sessione plenaria
dell’Europarlamento, prevede l’introduzione di un permesso di residenza e lavoro temporaneo per tre anni (la
così detta “blue card”), rinnovabile per altri due anni, sicurezza sociale inclusa. La carta blu autorizzerebbe i
lavoratori che hanno passato 3 anni in un Paese europeo ad entrare dopo tale data in un altro Paese dell'Unione.
Per definire i "lavoratori qualificati" la proposta li distingue a seconda del grado di istruzione o delle esperienze
professionale: almeno tre anni di studio in un determinato settore o una qualifica specifica dimostrata da almeno
5 anni di esperienza lavorativa:
[http://www.solidarietasociale.gov.it/SolidarietaSociale/tematiche/Immigrazione/focus_immigrazione_2008_N1
2.htm].
29
sanitarie, dei profili professionali e dell’organizzazione dei servizi − potrebbe tramutarsi
velocemente in un esodo di competenze qualificate dall’Italia, sia di italiani che di stranieri.
Una strategia di questo tipo − se si vuole frenare un ulteriore espansione del divario tra
domanda e offerta di lavoro nel settore − deve dunque essere accompagnata da un rilancio più
generale della professione e dall’offerta di condizioni che aumentino la concorrenzialità
italiana.
Anche nel settore della cura si ritiene necessario sviluppare politiche che attraggano la
manodopera migrante. Partenariati bilaterali in grado di mettere in rete attori del settore
pubblico e privato a livello transnazionale (agenzie di reclutamento, formazione, onlus,
cooperative sociali, etc.) sono ritenuti uno strumento utile a questo fine. Il reclutamento a
distanza naturalmente è più difficile nel caso del lavoro di cura che richiede, più che altri
settori, un rapporto fiduciario al momento dell’assunzione e dunque un incontro vis à vis.
Progetti di formazione e reclutamento a distanza di lavoratrici di cura promossi dalla regione
Veneto in Romania, Tunisia e America latina si sono scontrati proprio con queste difficoltà
(European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions: 25). La
mediazione di una cooperativa di fiducia, la turnazione sullo stesso posto di lavoro, l’utilizzo
di tecnologie che consentono un incontro anche visivo a distanza, possono però in parte
ridurre queste difficoltà.
Al fine di favorire la circolazione della manodopera di cura, alcuni esperti indicano inoltre la
necessità di promuovere un sistema di certificazione23 di professionalità a livello europeo che
includa anche i gradini oggi meno qualificati della filiera del welfare.
A livello nazionale sarebbe auspicabile inoltre facilitare e incentivare il turn-over di personale
che intende trattenersi solo per pochi anni, rendendone più semplice l’ingresso in Italia. Le
assistenti familiari disponibili alla co-residenza sono, infatti, quelle che hanno progetti
migratori di breve periodo (2 o 3 anni) e che non hanno familiari in Italia (Pasquinelli
Rusmini 2008). Accordi come quelli recentemente stipulati con la Comunità europea con
alcuni paesi dell’Est Europa24 possono rivelarsi uno strumento utile in questo senso. Tali
accordi stabiliscono che i cittadini extracomunitari provenienti dai paesi firmatari possano
godere di procedure semplificate per il rilascio del visto per soggiorni di breve durata
(massimo 90 giorni). La norma prevede una diminuzione del tempo di rilascio del visto (sceso
da trenta a dieci giorni), stabilisce che il costo delle spese di rilascio sia pari a 35 euro,
prevede la possibilità di ottenere visti per più ingressi, con validità di lungo periodo.
“Tutto ciò riduce costi e rischi dell’ingresso in Italia e aumenta le possibilità di ingresso per i
lavoratori che intendono trattenersi a breve, per “fare cassa” e tornare velocemente nel paese
di origine”. Se è vero che un aumento del turn over approfondisce la problematica di una
ridotta qualificazione delle assistenti familiari (a cominciare dalla competenza linguistica), è
anche vero che la possibilità di ingressi reiterati riduce in parte questo rischio.
A tutti i livelli della filiera del welfare, infine, la mobilità geografica deve essere incentivata
attraverso una vera “mobilità sociale”. Gli esperti auspicano conseguentemente l’adozione e
la piena e omogenea applicazione della direttiva sulla portabilità dei diritti pensionistici e
l’estensione degli accordi, anche in sede bilaterale, sulla portabilità dei contributi e di altre
prestazioni sociali.
23
Per maggiori informazioni sulla politica di certificazione delle competenze promossa in ambito UE si può
consultare il sito:
[http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/Europalavoro/SezioneOperatori/NetworkProfessionali/SciftAid/AreeTematich
e/IstruzioneFormazione/pccertificaizonecompetenze].
24
Si veda la Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 29 gennaio 2008.
30
4) PROMUOVERE E INCENTIVARE LA MOBILITÀ PROFESSIONALE DEI LAVORATORI
La quarta e ultima indicazione per ridurre il divario tra domanda e offerta di lavoro nel settore
del welfare va infine nella direzione di promuovere e incentivare la mobilità professionale dei
lavoratori. Si sottolinea come una politica per la mobilità professionale (scelta) sia necessaria
in termini generali, ma il settore della care presenta caratteristiche tali da renderlo più
sensibile di altri ai benefici di politiche pubbliche dirette in questo senso. A questo fine si
auspica una formazione che - nell’ambito della filiera socio-sanitaria e della cura - accrediti
ogni percorso per l’accesso allo step successivo: da assistente familiare a OSA/OSS a
infermiere. Sostegni economici, la possibilità di sostituzione sul luogo di lavoro,
l’accreditamento dell’esperienza accumulata attraverso il lavoro di assistenza familiare per il
passaggio ai mestieri di OSA e OSS, rappresentano fattori incentivanti rispetto a questo tipo
di mobilità. Per facilitare il passaggio ai livelli di OSA/OSS e infermieristico, si rende inoltre
necessaria una riforma organica, ed omogenea a livello territoriale, della pubblica
amministrazione per renderla accessibile ai lavoratori stranieri.
6.3 Gestire l’impatto sui contesti di origine dei flussi migratori indirizzati al mercato
socio-sanitario e della cura
Nel quinto paragrafo sono stati messi in luce alcuni rischi e opportunità dettati, nei paesi di
origine, dall’emigrazione indirizzata al settore socio-sanitario e della cura alla persona.
Adesso ci chiediamo se sia possibile promuovere un approccio integrato alla gestione di tali
flussi migratori, che tenga contemporaneamente conto delle esigenze dei sistemi di welfare
nei contesti di arrivo e di partenza. Secondo una maggioranza di partecipanti questa
prospettiva è possibile. Molte delle politiche proposte dai partecipanti per migliorare l’impatto
nei paesi di origine, coincidono in effetti con quelle volte a valorizzare il contributo delle
migrazioni a beneficio dei nostri sistemi di welfare e a limitare i rischi di labour shortage, e
potrebbero dunque rivelarsi politche win win.
RIDURRE L’IMPATTO NEGATIVO DEL DRENAGGIO DI CURE DAI PAESI DI ORIGINE
Come evidenziato nel quinto paragrafo, la difficoltà a cui va incontro la famiglia
transnazionale come conseguenza delle migrazioni legate alla cura, è stata una delle principali
problematiche evidenziate dagli esperti. Coerentemente con tale posizione, si registra un vasto
consenso sulla necessità di intervenire, sia nei contesti di arrivo che in quelli di origine,
promuovendo servizi di sostegno alla famiglia.
Alcuni esperti indicano l’opportunità di sostenere lo sviluppo delle strutture scolastiche, dei
centri diurni e dei servizi psico-sociali che assistono minori e anziani nei contesti di origine:
“Si tratterebbe di attivare servizi formali in alternativa a quelli informali persi”. Una tale
politica risponderebbe alla richiesta di diversi paesi che oggi affrontano il problema dei così
detti children left behind. In Romania, ad esempio, l’Organizzazione Nazionale per la
Protezione del Bambino (ANPC), dipendente dal Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali, ha proposto che nei Programmi di Interesse Nazionale (PIN) venisse inclusa anche la
creazione di servizi per i bambini con genitori all’estero. In una fase successiva, tale proposta
è stata revisionata sulla base di una prospettiva più ampia secondo la quale i PIN 2007
dovrebbero creare servizi per tutti i minori a rischio senza alcun focus particolare sui figli dei
migranti (A.R. Torre, in via di pubblicazione).
Altri partecipanti si spingono oltre, immaginando di mettere in rete i principali servizi che in
patria si occupano dei membri più vulnerabili della famiglia left behind”e i servizi che in
Italia si occupano di madri migranti, spesso proprio nell’ambito di politiche di sostegno alle
assistenti familiari: “si rende opportuno l’investimento in infrastrutture di ascolto e
consulenza che facilitino la comunicazione e il confronto a distanza tra genitori emigrati da un
lato e scuole, o altri attori della socializzazione dei minori left behind, dall’altro. In Italia si
31
auspica la promozione di servizi di sostegno psico-sociale, e l’alfabetizzazione informatica di
base come misure a supporto della maternità transnazionale”. Il costituirsi di tali reti impone a
sua volta una trasformazione del strutture coinvolte, una loro specializzazione sui temi della
famiglia transnazionale e, con il tempo, un’integrazione e “contaminazione” delle modalità di
lavorare dei servizi (e delle reti di servizi) collocati alle due sponde del processo migratorio.
Ciò a sua volta può avere un impatto positivo sullo sviluppo di pratiche e conoscenze riguardo
all’organizzazione dei servizi sociali che può beneficiare i sistemi di welfare locali. Azioni di
questo tipo, secondo gli esperti che le propongono, dovrebbero godere di fonti diverse di
finanziamento (da parte della cooperazione allo sviluppo, del Fondo per le politiche sociali,
etc.). L’impatto sarebbe positivo anche per l’Italia in quanto potrebbe essere meglio gestito il
disagio della famiglia immigrata, prima ed eventualmente anche dopo, il ricongiungimento.
Laddove le catene migratorie che collegano specifiche città qui e lì sono forti (come ad
esempio nel caso della comunità ecuadoriana), interventi di questo tipo sarebbero
probabilmente più efficaci se la diagnosi del disagio partisse nel contesto di origine e da lì si
risalisse alle madri migranti.
A fianco di queste misure, la maggior parte degli esperti auspica un rafforzamento delle
misure tese a promuovere la circolarità. Tale misura, invocata anche per ridurre il rischio di
labour shortage nel settore della cura, sembra essere lo strumento adatto a conciliare
maggiormente spazi di vita e di lavoro, e dunque a rispondere contemporaneamente alle
esigenze dei paesi di origine (almeno quelli meno lontani dal nostro). Questo tipo di
migrazione richiede però: “un lavoro organizzativo necessario a stabilire una rete di contatti
con clienti e altre lavoratrici che permetta di gestire le periodiche assenze dal posto di lavoro.
Queste migrazioni transnazionali potrebbero conciliarsi con l’organizzazione dell’assistenza
tramite struttura intermediaria”. Politiche sociali e di cooperazione allo sviluppo (volte a
favorire la nascita di strutture intermediarie alle due sponde del processo migratorio)
andrebbero in questo caso associate a interventi di politica migratoria tesi a facilitare la
circolarità dei migranti. Secondo alcuni dovrebbero essere promossi gli ingressi stagionali.
Secondo altri si tratta in generale di: “rendere più semplice e veloce il trasferimento in Italia,
anche dopo una prima uscita dal nostro paese, ripristinare la possibilità di recuperare i
versamenti pensionistici nel momento in cui si lascia l’Italia e assicurare la possibilità di
ritorno frequente del congiunto che lavora all’estero rimuovendo gli ostacoli legati ai ritardi
nel rinnovo del permesso di soggiorno”. Molti ritengono che interventi di politica migratoria
dovrebbero prevedere anche innovazioni sul tema del ricongiungimento familiare, ad esempio
facilitando visite temporanee da parte di figli o altri familiari. Politiche volte a promuovere e
gestire la circolarità dei migranti nel settore della cura possono avere maggiori opportunità di
successo se portate avanti con i paesi dell’Europa dell’Est, data la maggiore vicinanza
geografica e le minori restrizioni all’ingresso.
COMPENSARE LA FUGA DI CERVELLI DAL SETTORE SANITARIO
Sebbene l’Italia attragga una quota di infermieri stranieri assai ridotta rispetto alla media
OCSE, la presenza di infermieri nati all’estero nel nostro paese è, come si è visto
nell’introduzione, in forte aumento.
Se da una parte si registra l’esigenza di rendere il nostro paese una meta più attraente per i
flussi indirizzati al settore sanitario, dall’altra è importante dotarsi di politiche che
contribuiscano a limitare il peso del drenaggio di competenze e cervelli dai contesti di origine.
Una prima indicazione è diretta a promuovere politiche di reclutamento che rispondano a
standard etici, evitando o monitorando attentamente la mediazione dei soggetti privati. Un
buon esempio in questo senso è il Code of Practice for the International Recruitment of
Healthcare Professionals adottato dai paesi del Commonwealth. Il Codice impone, tra le altre
cose, che il reclutamento non avvenga in paesi che soffrono di una forte carenza di personale
medico e infermieristico (esiste una lista ufficiale pubblicata dal governo), sia concertato
32
nell’ambito di accordi inter-governativi, offra reali opportunità di crescita professionale e
diritti sociali ai lavoratori coinvolti, non imponga il pagamento di tasse. Le agenzie di
reclutamento che aderiscono al Codice sono obbligate a rispettarlo e appaiono in una lista
ufficiale disponibile anche sul web.
Una seconda raccomandazione è volta ad incentivare la formazione in loco, puntando alla
promozione di standard qualitativi più alti e standardizzati, come raccomandato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Rafforzare la formazione in loco risponde a una
nostra esigenza di reclutare professionisti preparati, ma avvantaggia anche il personale locale.
Un progetto interessante, finanziato dalla cooperazione italiana nel 2004 ha riguardato
l’istituzione, volta anche a facilitare il riconoscimento dei titoli, di percorsi formativi
congiunti attraverso accordi tra le università di Arad, Cluj e Timisoara in Romania e le
università di Parma, Udine e Padova in Italia (con finanziamenti rispettivamente da parte della
provincia di Parma, della regione Friuli Venezia Giulia nell’ambito di un programma europeo
gestito dallo IAL, e della regione Veneto). I formatori dei corsi sono stati a loro volta formati
in Italia o attraverso corsi svolti da docenti delle università italiane in Romania, mentre gli
studenti hanno avuto la possibilità di svolgere stage in Italia da cui potevano nascere
opportunità di lavoro (Piperno Reina 2005).
Favorire la circolarità della manodopera viene ancora una volta ritenuto uno strumento utile:
non solo come si è detto sopra, per rispondere al deficit di manodopera del settore sanitario
italiano, ma anche per diminuire il drenaggio di competenze dai contesti di origine,
approfondendo lo scambio di conoscenze tra paesi. Resta, tuttavia, la difficoltà di offrire
incentivi adeguati al rientro.
Infine secondo un partecipante, e in linea con quanto raccomandato dal Libro Verde
sull’Immigrazione della Commissione Europea: “l’Italia potrebbe offrire delle forme di
compensazione ai paesi d’origine per i costi dell’istruzione di coloro che emigrano per lavoro
(soprattutto nei Paesi più poveri come Ucraina e Romania)”. Tali fondi potrebbero essere
diretti a rafforzare le strutture socio-sanitarie nei contesti di origine e ad attrarre nuovo
personale locale diminuendo così l’impatto dello skill drain. Tuttavia, secondo un altro
partecipante dati i limiti di bilancio, “è difficile immaginare più che semplici azioni
simboliche. Le rimesse sono la compensazione reale, mentre qualche progetto da pochi
milioni di euro non cambierebbe la sostanza”.
MIGLIORARE L’IMPATTO SULLO SVILUPPO SOCIALE DELLE MIGRAZIONI ORIENTATE ALLA CURA
Alcuni esperti, sebbene in minoranza, ritengono difficilmente praticabile una valorizzazione
delle migrazioni di cura che tenga conto delle esigenze di sviluppo sociale tanto dei paesi di
origine che di destinazione. Si evidenzia che: “la costruzione sociale dell’assistenza come
lavoro formalmente non qualificato, o come “non lavoro”, si inscrive in un contesto di
rapporti sociali di genere, classe e nel razzismo che − in mancanza di riforme strutturali e di
ampia portata − ne rende difficile la promozione”. Si tratta: “di un tipo di flusso migratorio sul
quale è particolarmente difficile esercitare un controllo (attraverso incentivi alla permanenza,
alla formazione o al ritorno) data la tendenza auto-riproduttiva delle reti su cui si fonda e il
marcato inserimento nel bacino di lavoro sommerso”. La migrazione di cura, inoltre,
generalmente “non si presenta come una scelta pianificata e presenta scarse prospettive di
rientro qualificato”.
Tutte queste difficoltà sono indiscutibilmente presenti e rendono le migrazioni femminili
indirizzate alla cura il target più difficile da raggiungere da parte di politiche tese a rafforzare
il nesso tra migrazione e sviluppo. Nonostante ciò, la maggioranza degli esperti ritiene
comunque praticabile una sperimentazione che vada nel senso di migliorare la gestione delle
migrazioni di cura per potenziarne l’impatto sullo sviluppo sociale “qui” e “lì”. Saranno però
verosimilmente più praticabili percorsi con i nuovi paesi membri grazie alla relazione di
33
prossimità con la terra di origine, alla maggiore libertà di circolazione, e alla possibilità per la
cooperaizone internazionale di fare leva su finanziamenti e know how rilevanti.
Quasi tutte le risposte convergono sulla necessità, per promuovere tale strategia, di sviluppare
politiche che leghino formazione, inserimento e inclusione sociale in Italia e circolazione
della manodopera migrante. È inoltre necessario ricorrere a un approccio intersettoriale che
affianchi, politiche migratorie, del lavoro, sociali e di cooperazione allo sviluppo. Tale
integrazione tra ambiti diversi di policy può dare risultati interessanti, ma dati i limiti di
bilancio, può essere sperimentata inizialmente a livello locale più che nazionale.
L’intersettorialità delle politiche mostrerebbe la sua efficacia se, ad esempio, venissero
promossi percorsi di formazione e reclutamento all’estero (interventi già sostenuti nell’ambito
della già citata Intesa Stato-Regioni del settembre 2007), in stretto legame con le politiche di
promozione e regolarizzazione del lavoro di cura già in corso – come si è visto − in numerosi
contesti locali italiani. Uno dei partecipanti, ad esempio, immagina politiche di formazione
all’estero nel settore socio-sanitario e della cura legate a bonus fiscali e contributivi (in-work
benefits) che nella terra di arrivo scoraggino il ricorso al sommerso; mentre un altro esperto
immagina politiche di ingresso e circolazione nel settore della cura legate a strategie di
sostegno alla domanda delle famiglie (ad esempio attraverso l’utilizzo di voucher). Solo a
partire da una reale inclusione sociale − che attraverso queste misure verrebbe gestita fin
dall’inizio del percorso migratorio – è possibile consentire un accumulo di capitale umano e
finanziario da cui possono sorgere dinamiche di sviluppo.
Secondo alcuni partecipanti, il bagaglio professionale dei lavoratori e delle lavoratrici di cura
può inoltre divenire una competenza spendibile in loco, specie se sostenuta attraverso
adeguati percorsi formativi.
Nei nuovi paesi membri, la trasformazione dei mercati del welfare, stimolata dal processo di
adesione all’Unione Europea, crea opportunità interessanti di ritorno qualificato che
potrebbero essere favorite attraverso il sostegno della cooperazione sociale italiana. A questo
proposito un’esperta nota come sarebbe importante: “valorizzare e qualificare la presenza
delle donne nell’ambito di settori nuovi di welfare dei paesi recentemente entrati in Ue ed
emergenti attraverso il sostegno di forme organizzative innovative e flessibili sia pubbliche
che del privato sociale e del non profit”.
Iniziative di cooperazione allo sviluppo indirizzate alla promozione dei servizi sociali nei
contesti di origine potrebbero inoltre trovare un raccordo migliore con gli interventi di
sostegno al lavoro di cura, creando opportunità per la circolazione e il rientro qualificato di
lavoratori e lavoratrici impiegati nel settore socio-sanitario e dell’assistenza. Sempre la stessa
esperta ribadisce, l’utilità di: “Riconoscere le esperienze fatte nei diversi ambiti di lavoro di
cura e di assistenza delle donne emigrate e incoraggiare e sostenere il loro reingresso nei paesi
di origine con incentivi e politiche tese a migliorare le risposte di welfare di quei paesi anche
come spazi qualificati di lavoro delle donne”. Si avvicina a questo obiettivo un progetto di
cooperazione decentrata in ambito sociale promosso della Regione Emilia Romagna, dal
Comune di Forlì e dalla Provincia di Forlì-Cesena nei Balcani. Attraverso i progetti New e
Newnet è stato avviato un programma quadriennale teso a sviluppare la programmazione
sociale in alcune città dei paesi adriatico-orientali, a sostenere il processo di decentramento
amministrativo dei servizi sociali, la formazione professionale in ambito sociale, l’avvio e il
rafforzamento dell’imprenditoria sociale. Successivamente, il progetto Migravalue, anch’esso
co-finanziato dalla regione Emilia Romagna, ha puntato a unire il tema delle migrazioni con
quello dello sviluppo sociale: ad esempio è stato sostenuto l’investimento dei migranti in
campo sociale oltre che economico; il fenomeno migratorio è stato promosso come tema di
cui tenere conto nella programmazione sociale locale; è stato sostenuto il dialogo interistituzionale per la promozione di accordi sugli accantonamenti previdenziali dei lavoratori
immigrati. Un limite di queste politiche è stato quello di non considerare le migrazione
34
orientata al settore socio-sanitario e della cura come elemento da valorizzare nell’ambito di
politiche di sviluppo sociale (certamente anche per via del ridotto flusso migratorio
indirizzato a questo settore e proveniente dall’area balcanica).
Per rafforzare il nesso tra migrazione e sviluppo sociale in loco è però necessario ripensare la
formazione, che secondo diversi partecipanti è “la politica win-win più efficace: per l’Italia il
vantaggio è in termini di aumento degli skill degli immigrati. Per i paesi d’origine il vantaggio
è in un accresciuto ritorno della scelta di emigrare, ritorno economico che in prospettiva
aumenterebbe il valore di scelte di ritorno nel paese di origine”.
Un riconoscimento più ampio della qualifica di assistente familiare (con la definizione di
standard a livello europeo), oltre che essere utile − come si è detto sopra − per valorizzare e
ottimizzare l’assistenza domiciliare in Italia, faciliterebbe politiche di circolazione della
manodopera di cura.
Integrare i corsi di formazione diretti alle assistenti familiari con moduli che tengano conto
delle realtà dei contesti di origine e favorire l’accreditamento per le professioni di OSA e OSS
sono entrambi strumenti, secondo i partecipanti, che possono promuovere l’accumulo di
competenze spendibili in loco. Interventi di questo tipo potrebbero costituire step iniziali per
eventuali progetti di affiancamento al ritorno. È anche possibile sviluppare moduli
specificatamente orientati alla creazione di impresa sociale nel contesto di origine come è
stato fatto dal comune di Reggio per rispondere a una richiesta proveniente da lavoratrici di
cura ucraine che si riunivano presso il punto-incontro Madreperla (Piperno 2006).
La creazione di partenariati tra enti locali, strutture ospedaliere e operatori del terzo settore nei
paesi di origine e di arrivo viene indicata dagli esperti come un ulteriore strada per incentivare
la circolarità e la contaminazione tra diversi sistemi di welfare; aumentare le opportunità di
scambi formativi e professionali tra paesi coinvolti in fenomeni migratori; migliorare il livello
dei servizi sociali in loco e conseguentemente la motivazione di chi ci lavora. In Romania la
Caritas gestisce servizi di cura a domicilio che sono tarati su standard occidentali, consentono
continue possibilità di scambi formativi e training e vengono considerati un esempio di punta
nel panorama locale. In Ungheria, nella città si Szombathely, è stata creata un’impresa sociale
in grado di pagare salari fino al 50% superiori alla media nel settore grazie a un’ottima
capacità di fund raising. Corsi di lingua, training e continui scambi con l’estero (Spagna,
Belgio, Regno Unito e Germania) rendono il lavoro in questa struttura particolarmente
appetibile (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions:
31).
A monte di questo processo, diversi partecipanti auspicano il rafforzamento del ruolo di
programmazione della Regione, che finora è stato piuttosto carente. Dal 2002 le Regioni
possono intervenire nella programmazione dei flussi indicando cifre e facendo suggerimenti,
ma fino ad oggi sono state sostanzialmente assenti e non si sono dotate di concreti indicatori
di fabbisogno lavorativo. Più di un esperto indica conseguentemente la necessità che questi
organismi siano maggiormente in grado di comprendere i bisogni del territorio, programmare
i flussi migratori e il profilo delle competenze necessari a rispondervi e mantenere al tempo
stesso una relazione di cooperazione con i principali contesti di emigrazione: “le Regioni,
attraverso osservatori ed iniziative attivate in collaborazione con le associazioni dei datori di
lavoro e dei rappresentanti degli immigrati, dovrebbero puntare a realizzare una valutazione
quali/quantitativa delle tipologie professionali carenti nel proprio territorio. Tale
collaborazione dovrebbe spingersi a promuovere appositi Piani di Formazione Professionale
da svolgersi nei paesi d’origine, comprendenti l’apprendimento della lingua italiana e il
conseguimento di specifiche abilità professionali, in prospettiva utili anche al paese di origine
in caso di rientro in patria dell’immigrato”. Lo stesso strumento del piano di zona potrebbe
risultare utile per costruire ponti “translocali” permanenti e non legati a singoli progetti.
Bisognerebbe: “inserire nel lavoro di confronto e programmazione dei piani di zona questo
35
obiettivo (quello cioè di una programmazione dei flussi che tenga conto delle esigenze del
tessuto sociale di origine e destinazione), costruendo percorsi con le associazioni degli
immigrati e i patronati e gli Enti che si occupano di questo settore specifico. Occorre
soprattutto passare da progetti limitati nel tempo a politiche e creazione di strutture che
organizzino questi ‘ponti’ in permanenza”.
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