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RICERCHE MEDIA SPETTACOLO PROCESSI CULTURALI LO SCANDALO DEL CORPO STUDI DI UN ALTRO TEATRO PER CLAUDIO BERNARDI a cura di Carla Bino Giulia Innocenti Malini Laura Peja RICERCHE VITA E PENSIERO MEDIA SPETTACOLO PROCESSI CULTURALI La pubblicazione di questo volume ha ricevuto un contributo finanziario da parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo del medesimo ateneo. www.vitaepensiero.it Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org © 2019 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano ISBN 978-88-343-3988-6 INDICE Introduzione di Carla Bino, Giulia Innocenti Malini, Laura Peja IX PROLOGHI AD PERSONAM LAURA AIMO Indovina chi… 3 FAUSTO COLOMBO Il Bernardi è quella cosa (versi maltusiani) 7 PIER CESARE RIVOLTELLA Il ‘Metodo Bernardi’. La domanda, la comunità 9 ALBERTO BENTOGLIO I primi passi del teatro sociale nell’università italiana: «L’ora del teatro» (1996) 13 CHIARA GIACCARDI Lettera a Claudio: la generatività teatrale 17 ATTO I: CORPO IN FESTA LUIGI ALLEGRI Il corpo dell’attore tra ‘dentro’ e ‘fuori’ 21 JOSÉ ALBERTO FERREIRA Documentare o non documentare l’effimero? Verso i termini di un dibattito tra ideologia e ontologia 29 RUGGERO EUGENI Nel corpo del tempo. Spettacolo del movimento e costituzione della temporalità sociale 43 VI INDICE LAURA CANTARELLI «We act better then we know how». Qualche (s)punto di antropologia dell’esperienza (quotidiana) 51 EUGENIO MERZAGORA Percorsi teatrali dei barnabiti a Milano 61 BERNADETTE MAJORANA Sul teatro edificante di Antonio Glielmo oratoriano (1596-1644) 69 ELENA MOSCONI Ugo Tognazzi e la «Physiologie du mariage» 79 ANNAMARIA CASCETTA Corpi in scena fra presenza e assenza 87 ATTO II: SACRO CORPO NICOLANGELO D’ACUNTO Il teatro del corpo in preghiera: una scheda da Pier Damiani 97 FRANCESC MASSIP Cuerpo afligido, cuerpo mutilado. La puesta en escena de la tortura en el teatro medieval 105 CARLO SUSA Il mercante di Specie. I cristiani, gli ebrei, la fede e gli affari nel «Play of the Sacrament» di Croxton 115 GUIDO GENTILE Il Cristo della Passione, dall’ultima sosta alla preghiera prima della crocifissione, in tre dipinti d’area piemontese 125 DANILO ZARDIN I miracoli del corpo di Cristo. Note intorno alla miscellanea devota di Niccolò Laghi (fine XVI-XVII secolo) 137 STEFANO LOCATELLI Smith, Boltanski e la drammaturgia dei pubblici supplizî in Italia 147 GIUSEPPE FORNARI Corpo e morte di Dio in Georg Büchner 157 ROBERTA CARPANI Passioni e generazioni. Laura Curino, Franca Rame e Maria alla Croce 175 VII INDICE ATTO III: CORPO SOCIALE ALESSANDRO PONTREMOLI Il corpo-teatro e il suo doppio 189 MADDALENA COLOMBO La sociologia e il teatro sociale: appunti da esperienze di contaminazione 201 GUGLIELMO SCHININÀ Eccoci. Il teatro sociale e alcune questioni sui suoi sviluppi 209 FABRIZIO FIASCHINI Walter Benjamin e il «Programma per un teatro proletario di bambini»: una rilettura 225 FRANCESCA GENTILE Il potere trasformativo del teatro sociale. La costruzione della partecipazione nelle scuole dell’infanzia 239 ALESSANDRA ROSSI GHIGLIONE Arte, benessere e cura. La potenza del teatro 251 MONICA DRAGONE Teatro degli Incontri: pratiche artistiche per nuove forme di cittadinanza 263 MAURO FERRARI Di sagre, di rituali ludici. Di liturgie, insomma (qualche anno dopo «la messa, la massa, la mossa» di Claudio Bernardi) 271 EPILOGO: ‘OLTRE’ IL CORPO SISTO DALLA PALMA È ancora illuministica la strategia delle istituzioni 287 BENVENUTO CUMINETTI Primato e creatività del gruppo nella ricerca teatrale contemporanea 291 EZIO ALBERIONE Qualche linea d’ombra 305 MAURO FERRARI Di sagre, di rituali ludici Di liturgie, insomma (qualche anno dopo «la messa, la massa, la mossa» di Claudio Bernardi) Parte I. Liquidi o superflui(di) 1. Globali e smarriti? Sappiamo che la società contemporanea è caratterizzata da forti ambivalenze. La globalizzazione (del mercato, del lavoro, delle comunicazioni), avviatasi su scala planetaria sin dalla conquista delle Americhe e portata a compimento nei nostri giorni, apre a opportunità sconosciute alle generazioni che ci hanno preceduto, i cui destini personali, affettivi, professionali si risolvevano perlopiù dentro o nei pressi delle comunità di nascita. Oggi studiare, lavorare o anche solo confrontarsi con altre esperienze, in posti diversi del pianeta, apre a scenari prima impensabili; dall’altro lato, quello meno luminoso, fanno la loro comparsa da una parte la consapevolezza che la globalizzazione avviene in maniera diseguale (esistono luoghi, Paesi e soggetti dominanti e altri dominati), e dall’altra con sempre maggiore frequenza si affacciano nella vita quotidiana la flessibilità, o precarizzazione delle biografie e delle condizioni di lavoro. Come stanno, chi sono, oggi, i perdenti della globalizzazione? Come si posizionano, come reagiscono di fronte a questo fenomeno incombente? Infine, un terzo aspetto si manifesta, come esito ineludibile, strutturale di questi processi: masse di persone diseredate, mai così numerose, fuggono da comunità native invivibili e premono sulle frontiere (e sulle comunità locali) dei Paesi cosiddetti sviluppati. Per rimanere a tempi recenti, è accaduto negli anni Novanta del secolo scorso con la crisi albanese, accade oggi via mare e via terra dall’Africa subsahariana e dalle altre aree di crisi mediorientale e asiatica. Per motivi economici, ambientali, o a causa di guerre, si tratta comunque di migrazioni forzate. Alcuni fotografi della bassa padana hanno ben rappresentano una condizione solida, statica, di comunità entro cui i ruoli sociali tendono a riprodursi; di vicini di casa che si riconoscono, persone che sono in grado di ricostruire genealogie familiari; di mestieri che fanno di ogni comunità locale un luogo autarchico (siamo nella provincia di Cremona, e citiamo Quiresi e Fazioli; chi vorrà riscoprire le sofisticate elaborazioni di Luigi Ghisleri troverà nelle sue ricostruzioni della corte chiusa la massima espressione dell’autarchia, dei rapporti gerarchici al suo interno, delle forme, già allora, del lavoro precario bracciantile e del ruo- 272 MAURO FERRARI lo della donna, il cui lavoro oscuro e prezioso ha portato Nuto Revelli a riconoscerla come il vero «anello forte» della tenuta del sistema); raccontano anche di soggetti-in-azione entro contesti certi; di identità robuste, individuali e comunitarie. E soprattutto, per quel che qui ci riguarda, narrano dell’esistenza di quelle che definiremmo come «liturgie», profane o sacre che siano, poiché tendenti alla ripetizione, e perciò stesso rassicuranti. L’alternarsi di momenti di lavoro, faticoso e dignitoso, riconosciuto, alternato a momenti di festa, entro i confini dello stesso mondo, con i medesimi attori. Un mondo rassicurante. In cui, oltretutto, sembra prevalere la dimensione analogica del silenzio, degli spazi dilatati, rarefatti. Potenza del bianco e nero, ma soprattutto potente rappresentazione di un’epoca. Contrassegnata da fatica, privazioni, rassegnazione, e da straordinari movimenti di emancipazione, in cui grande ruolo hanno assunto anche i «militanti politici di base» studiati da Montaldi. (Una nota autobiografica: la mamma di chi scrive ha passato infanzia e giovinezza con la famiglia in un casello della ferrovia, senza acqua corrente né luce; e mio papà ha trovato un impiego pubblico che è durato per tutta la sua esperienza lavorativa, segno di un’epoca che si stava aprendo a prospettive di sviluppo, di solidità in forme nuove ma ancora fortemente intrise di legami consuetudinari). 2. Da fluidi a superflui(di) Ma oggi, appunto. Siamo immersi in un’inquietudine, un’instabilità che attraversa le esistenze delle persone, facendo vacillare quelli che sembravano costituire punti di riferimento stabili, che arriva a far comparire sulla scena dei contesti locali e globali masse di esseri umani considerati «di scarto», più che fluidi «superfluidi», o superflui, non utili al nuovo scenario imperniato su ipermobilità e iperconnessione. È insomma l’incertezza dell’agire a denotare la società contemporanea e a spingere i soggetti a continue rielaborazioni, a porsi in uno stato di perenne disponibilità, o inquietudine, rispetto al cambiamento, al rischio1. Uno stato liquido2, in cui gli attori sociali vengono sospinti alla ricerca di soluzioni individualizzate3. Questa condizione esaspera la frammentazione sociale, accentua la distanza tra chi è incluso – nel lavoro, nelle reti – e chi rimane fuori. Anzi, i confini tra le due opzioni si sfumano, così che da una condizione relativamente sicura è sempre più possibile (per un licenziamento, una migrazione, un evento personale o familiare) scivolare nell’incertezza, al punto che non è forse più corretto parlare della coppia inclusione/esclusione quanto piuttosto il considerare la categoria della «vulnerabilità»4. Anche i 1 U. Beck, La società del rischio, Roma, Carocci, 2000. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002. 3 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1994. 4 R. Castel, Diseguaglianze e vulnerabilità sociale, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1997, 1, pp. 41-56; N. Negri, La vulnerabilità sociale, in R. Camarlinghi - F. D’Angella, Possiamo ancora cambiare?, Padova, Coop. Solidarietà, Laboratorio per l’innovazione sociale, 2006. 2 DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI 273 contesti lavorativi, cioè le organizzazioni presso le quali molti fra noi svolgono la propria attività, si sono profondamente modificati: il privato, cioè i soggetti profit, ha incontrato sulla strada della globalizzazione l’apertura a nuovi mercati, processi di delocalizzazione, finanziarizzazione dell’economia, forme di flessibilità spesso molto spinta dei contratti di lavoro, in alcuni casi oltre i limiti dello sfruttamento5. E il pubblico, inteso come insieme di soggetti statali e locali, è chiamato ad una profonda rivisitazione del proprio ruolo. 3. Lavoro, giovani Sembra dissolversi quella che Weber6 definiva come l’«etica tradizionale del lavoro», fondata sulla gratificazione differita, cioè su una sorta di investimento reciproco, da parte dei lavoratori e delle aziende, basato sul tempo e sull’esperienza acquisita, a vantaggio invece della disponibilità a muoversi velocemente entro scenari turbolenti7. In questo contesto sociale, economico, culturale, la fluidità che caratterizza i sistemi relazionali in cui gli individui si formano (i sociologi li definirebbero processi di socializzazione) alimenta un’instabilità che attraversa i singoli, i cosiddetti istituti familiari, i gruppi di riferimento, i luoghi di residenza, il lavoro e il tempo libero. È qui, in questo tempo e in questi luoghi, in questo clima sociale che crescono le nuove generazioni, spesso contemporaneamente iperconnesse e iperisolate, che in una fase cruciale della loro esperienza esistenziale incontrano molti stimoli e altrettante fragilità, che sovente tendono ad allontanarsi da forme tradizionali di socializzazione (partiti, sindacati) non più gratificanti o motivanti, e a trovare rifugio in dimensioni diverse, in altre liturgie, ancora instabili eppure con tratti di una sorta di solidità autoprodotta. Con l’effetto, fra gli altri, di non riconoscere nelle autorità il principio di autorevolezza, dato che non è ammesso un futuro per i perdenti (così che assistiamo a reazioni violente, e purtroppo spesso sostenute da genitori collusivi, da parte di chi prende un brutto voto a scuola, o non vince nelle competizioni sportive). 4. Erbacce Come abbiamo scritto di recente8, riprendendo Mintzberg9 e Gruppo Abele10, le trasformazioni che ci attraversano sono metaforicamente simili alle «erbac- 5 M. Omizzolo (a cura di), L’asilo come diritto. Richiedenti asilo, strutture ed operatori: ricerche e riflessioni, Roma, Aracne, 2018. 6 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1970. 7 R. Sennett, Rispetto, Bologna, Il Mulino, 2004. 8 M. Ferrari, Erbe da marciapiede. Di alieni, di meticciati e nomadismi: ipotesi per un lavoro sociale ri-generativo, in V. Pellegrino - C. Scivoletto (a cura di), Il lavoro sociale che cambia. Per una innovazione della formazione universitaria, Milano, FrancoAngeli, 2015. 9 H. Mintzberg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Bologna, Il Mulino, 1996. 10 Gruppo Abele, La progettazione sociale, Torino, EGA-Edizioni Gruppo Abele, 1999. 274 MAURO FERRARI ce»11, poiché i cambiamenti nascono e crescono come erbacce nel giardino, non come «pomodori in serra»; possono attecchire dove non ce l’aspettiamo; infine, sappiamo che per gestirli non è necessario prevederli. È così per le cosiddette nuove questioni sociali, quali le diverse forme di vulnerabilità, o per l’immigrazione, che non rappresentano esiti diretti di programmazioni razionali, ma piuttosto esiti indiretti di scelte locali, nazionali o sempre più spesso sovranazionali, che riportano, ‘scaricano’ sulla scena locale tensioni e fragilità, che in questo modo si rendono visibili nelle relazioni personali, familiari, di vicinato, di quartiere. È come se i contesti locali diventassero dei fenomenali parafulmini di tempeste elettriche che originano altrove. Ma chi li abita non ha scelto di svolgere questo ruolo di collettore di tensioni, e quindi agisce, reagisce, si manifesta. Il mondo, il nostro mondo, è pieno di ‘alieni’ che hanno saputo o dovuto inventarsi un modo di vivere nuovo in un posto totalmente diverso dal loro12. Così accade a molte categorie di soggetti, quali ad esempio le cosiddette badanti (che si ritrovano davanti, o intorno, ai giardini pubblici nelle prime ore del pomeriggio, per confrontarsi, scambiarsi istruzioni per l’uso delle città, del lavoro, del mantenimento di legami spezzati, distanti), le persone senza dimora oppure ancora i complici di sostanze (sia nella versione degli spacciatori che dei consumatori) o persino bambini, o giovani, che scorrazzano, fanno rumore. Questi alieni talvolta si manifestano presenziando fisicamente negli spazi pubblici (i giardini, le famigerate panchine, le piazze), occupando, fastidiosamente, spazi altrimenti liberi. Talaltra neppure si manifestano, come accade nel caso dei fatidici ‘lavoratori in nero’, sparsi nelle case o nelle campagne, o dei cosiddetti ‘sdraiati’, esiti umani delle diverse crisi che ci attraversano. E spesso la realtà manifesta insicurezza, cioè alimenta, riproduce quelle stesse tensioni da cui è pervasa. È dunque lì, nelle periferie, nei quartieri, nei parchi, per le strade che è possibile monitorare, registrare i cambiamenti, le tensioni, i disagi e perfino le opportunità. Nei confronti delle erbacce, o degli invasori, reali o presunti che siano, gli abitanti dei luoghi, i lungoresidenti, nutrono spesso sentimenti conflittuali, che si combinano con una disaffezione nei confronti dei luoghi («Questo quartiere non è più vivibile», «Le strade non sono sicure»). Quella che prima, in un mitologico prima, era una comunità coesa, ora viene rappresentata come un insieme liquefatto di individui. Smarriti nel loro stesso habitat, gli ex comunitari agognano un eden scomparso, irriproducibile. E nel frattempo lamentano, e alimentano, una disaffezione che talvolta assume i contorni del rifiuto o di una ricerca identitaria difensivo-offensiva, distinguendo pervicacemente fra un ‘noi’ e un, o molti, ‘loro’. 5. Voglia di comunità Proviamo a ritessere i fili della riflessione. Se a ciò che è disordinato, invadente, fastidioso viene assegnata un’etichetta negativa, e ciò che si considera in 11 12 R. Mabey, Elogio delle erbacce, Firenze, Ponte alle Grazie, 2011. D. Di Domenico, Clandestini, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI 275 questi termini viene se possibile evitato o allontanato, questo non rappresenta che un tentativo di rifuggire da una complessità avvertita come instabile, inquietante. È un modo paradossale per ritrovarsi, per tessere legami, che per quanto possano essere intrisi di contrapposizione tentano di dare un senso, oggi, a brandelli di comunità. È il secondo polo del processo di individualizzazione liquida, che Bauman13 ha ben descritto nel suo «voglia di comunità». Un processo di costruzione identitario che può produrre mostri, rigetti, e comunità chiuse, rancorose. Un indicatore molto semplice: se dovessimo ricostruire la serie storica delle feste locali scopriremmo che a fronte del progressivo dissolversi delle feste di partito corrisponde un aumento esponenziale di altri tipi di feste, o sagre, con altri protagonisti e interpreti (chi scrive in questo momento è a Piadena, nel sud della provincia di Cremona, dove nell’estate 2018 per la prima volta non si è svolta la tradizionale festa di partito, ‘per mancanza di militanti’; è da considerare il fatto che nei primi anni Ottanta del secolo scorso ogni estate era punteggiata da ben cinque feste di partiti diversi). Non si intende con questo celebrare come qualitativamente importanti sagre che spesso sono banali, ma segnalare come si stiano manifestando nuove forme di aggregazione, veri e propri anticorpi al dissolvimento dei legami sociali (ne parleremo nella seconda e nella terza parte). Preme infine sottolineare come esista in questa nuova ricerca di comunità un altro lato, stavolta luminoso, che dà vita a modalità di interazione aperte, che si traducono ad esempio in buone pratiche di accoglienza diffusa, o in esperienze quali gli orti sociali, o in quelle varie forme che chiamiamo «welfare di comunità», o di prossimità; e nell’esplosione delle molte esperienze di aggregazione, di sostegno, locali, il cui fine non è che l’esito di processi intrisi di relazioni non più fra vicini lungoresidenti ma fra coloro che di fatto abitano nei quartieri, nei paesi; e di come si tratti di un’evidenza empiricamente rilevante, di un ‘oggetto di lavoro’ composito e sostenuto da soggetti in carne e ossa; che lì, in quel contesto, abitano e danno vita a forme insolite di comunità. Magari più instabili, provvisorie, meno coese, fluide. Ma aperte, intrise di futuro, poiché capaci di evitare il rancoroso e impossibile ritorno ad un passato irripetibile. E, soprattutto, capaci di sconfiggere l’isolamento, e, per usare un termine antico, di sconfiggere la paura. Capaci di socchiudere le porte di casa. Parte II. Liturgie, oggetti sacri 6. Nuove tradizioni Nel percorso formativo con il servizio ETAM – animazione di comunità e con il servizio Senza Dimora, entrambi del Comune di Venezia, in coerenza con l’ap- 13 Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2003. 276 MAURO FERRARI proccio interazionista-simbolico che da Durkheim14 passa per Berger e Luckmann15 e arriva a Collins16 abbiamo preso in considerazione l’ipotesi che il lavoro di ricostruzione del tessuto comunitario, in situazioni di degrado percepito, di pericolo di sfilacciamento, aprisse la strada ad un lavoro partecipato, di ri-attivazione di legami, e che questo percorso avesse un significato che potremmo azzardare come affine a quello della religione civile, così come lo intende la sociologia delle religioni, cioè ad un insieme di tentativi di elaborare e praticare modalità ritualizzate di coesione sociale. Dove l’appartenenza ad un luogo – il quartiere – possa venire valorizzato e per così dire ‘celebrato’ attraverso azioni collettive e co-progettate per rafforzarne il senso. E che gli operatori-attivatori di azioni e gruppi svolgano un ruolo simile a quello di sacerdoti laici della partecipazione. Il cui ruolo si modifica nel tempo, così che da attivatori iniziali, una volta consolidato il gruppo o l’iniziativa, si possano spostare, transitando (attivando, collaborando) con altri gruppi in altri spazi (il che pone anche una questione relativa ad una ‘mappa dei ruoli’, in continua ridefinizione, ed apre alla possibilità che le risorse disponibili, in termini di operatori, possano generare altre opportunità). Insieme agli operatori abbiamo definito due tipologie di mappe: le liturgie e gli oggetti sacri. 7. Liturgie Abbiamo così assegnato il nome ed il valore di «liturgie»a quelle esperienze mobili, a quegli esiti di processi che somigliano alle processioni, ovvero iniziative calendariali, cioè che si ripetono ogni anno, che hanno creato aspettative nei partecipanti, che le attendono, o le promuovono. Sono eventi che si approssimano alle »invenzioni della tradizione»17: si tratta cioè di esperienze che coloro che appartengono ad una comunità locale hanno creato grazie all’innescarsi di processi partecipativi, magari mutuandoli da altre esperienze. E che ogni anno si ripetono, magari in spazi differenti, magari promossi da gruppi ad assetto variabile. Le liturgie assumono la forma di corse nel quartiere, accompagnamenti pedonali per bambini, mercatini del baratto. 8. Oggetti sacri Con il termine «oggetti sacri» intendiamo invece definire dei gruppi di lavoro che si ritrovano in luoghi fisici: lì gli abitanti si attivano per promuovere iniziative, locali e non. La loro caratteristica principale sta nel risiedere in ambienti dal forte carattere simbolico. L’esempio più importante è quello di 14 É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1971. P.L. Berger - T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969. 16 R. Collins, Interaction ritual chains, Princeton, Princeton University Press, 2004. 17 E.J. Hobsbawm - T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1994. 15 DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI 277 ‘casa Bainsizza’ che da stabile abbandonato e occupato da prostitute e spacciatori, grazie ad un lavoro di mediazione tra cittadini, servizio, amministrazione comunale e proprietà, è stato consegnato alla città, sistemato dai volontari, ed oggi è sede di diversi gruppi di volontari e cittadini attivi. È evidente che si tratta di un edificio totemico, simbolicamente potente, poiché rappresenta la possibilità di una re-istituzione18 di tipo comunitario. Ciò che prima sembrava impossibile è diventato realizzabile, e diverso da prima. Pubblico anziché privato. Rigenerato anziché degradato. Chiunque passi da quel luogo, chiunque lo conosceva, scopre che esiste un’opportunità; anche se non vi partecipa, anche se non la condivide, sa che c’è. È un presidio comunitario. Un luogo sacro. Del tutto simile quello che sta accadendo a Parco Emmer a Marghera, un luogo pubblico, frequentato da pubblici differenti, a rischio di coabitazione. Lì, un gruppo di giovani e non ha proposto, e sta attualmente realizzando, un orto sinergico, con l’intento di promuovere uno stile di vita e di frequentazioni fortemente centrato sulla dimensione comunitaria; oltre che di riflettere ed agire (avrebbe detto Freire19) sugli stili di vita, sui bilanci familiari, sull’autoproduzione20. 9. Lavorare insieme, con-laborare. L’importanza delle équipe Abbiamo poco sopra citato il Collins delle «catene di rituali di interazione», categoria entro cui ci sembra possiamo ricomprendere (ri-comprendere) le esperienze appena citate, così come quelle cui accenneremo nella terza parte. Collins ci ricorda che i momenti di incontro rituale di un gruppo performativo possono fungere da ingredienti per una «ricarica sociale» dei suoi membri; non conta tanto il merito (che ci si occupi di teatro, musica, o di politiche sociali; o di riprogettazione urbanistica di un quartiere), quanto lo stile, l’energia che ciascun componente vi inietta. Se seguiamo la proposta del nostro vediamo l’équipe come una ‘batteria’ sociale, ovvero come luogo di ricarica, di generazione reciproca di energia. Lo schema proposto dall’autore è molto semplice, quasi una ricetta. Proviamo ora ad analizzarlo in maniera dettagliata, a leggere questo schema come una drammaturgia. I primi due ingredienti del copione sono fisici: 1. due o più persone sono riunite fisicamente in uno stesso spazio, così che possono influenzarsi reciprocamente grazie alla presenza corporea, che questa sia o meno oggetto di attenzione cosciente; 2. ci sono confini rispetto agli estranei: in questo modo i partecipanti hanno il senso di chi stia prendendo parte e di chi sia escluso. 18 F. Olivetti Manoukian, Re-immaginare il lavoro sociale, i Geki di Animazione Sociale, Torino, EGA, 2005. 19 P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 1971. Nel corso del tempo il gruppo di lavoro «le voci di via Piave» ha traslocato da palazzo Bainsizza, ma continua ad essere attivo, così come una delle sue emanazioni, il coro itinerante «voci dal mondo». 20 278 MAURO FERRARI Gli altri due ingredienti di base sono invece immateriali, hanno a che fare con il mood, il clima in cui si svolge l’incontro: 3. l’attenzione dei membri è su un oggetto o un’attività comune, e attraverso la comunicazione di questo focus ciascuno diventa mutualmente consapevole dell’attenzione al focus dell’altro; 4. i membri condividono un modo comune o un’esperienza emotiva. Così facendo i membri dell’équipe contribuiscono a creare una catena significativa di rituali di interazione, con ciò stesso riproducendosi (in quanto comunità di pratica, vale a dire come gruppo che si predispone ad agire) e riproducendo l’organizzazione (per conto della quale agiscono, o ci si aspetta che essi agiscano). Infatti, se questi quattro ingredienti vengono ben miscelati insieme, possono (lo ribadiamo, ‘possono’) generare una «effervescenza collettiva»21, cioè: solidarietà di gruppo, sentimento di membership. Energia emozionale (ee) nell’individuo: un sentimento di confidenza, esaltazione, forza, entusiasmo, e voglia di fare. Simboli che rappresentano il gruppo: emblemi o altre rappresentazioni (icone visuali, parole, gesti) che i membri sentono associati al sé collettivo; questi sono gli «oggetti sacri» di Durkheim. Le persone associano questi simboli con la solidarietà di gruppo e li trattano con grande rispetto, difendendoli dalla mancanza di rispetto degli esterni e, ancora di più, dai traditori interni. Sentimento di moralità: il senso di correttezza nell’adesione al gruppo, rispettando i suoi simboli, e contemporaneamente difendendolo dai trasgressori. In questo modo si sviluppa il senso della malvagità morale o la sconvenienza della violazione della solidarietà di gruppo e delle sue rappresentazioni simboliche. Un’équipe che funziona, dunque, genera energia nei singoli, e di riflesso nelle organizzazioni; produce capitale sociale, conoscenze, rafforza legami di fiducia improntati alla reciprocità. L’artificio organizzativo-équipe si mostra come uno strumento analitico duttile, un indicatore dello stato di salute di un’organizzazione e dei suoi membri, applicabile al lavoro sociale o a organizzazioni di volontariato che elaborano strategie di azione, così come a band musicali che provano brani, o a squadre di sportivi. In ognuno di questi casi, e in molti altri ancora, la forza del gruppo funziona proprio nella sua potenziale capacità di esaltare, amplificare le prestazioni degli individui, nel metterli nella migliore condizione di allestire e condurre la messa in scena, di generare energia, senza che vi sia come precondizione l’immissione di altre componenti (nuovi colleghi, risorse economiche). Potremmo parlare quindi di forme di energia assolutamente rinnovabili, sostenibili, disponibili agli attori22. Aggiungiamo uno schema, che abbiamo elaborato nel corso di un’intensa collaborazione con la Fondazione ‘casa della Carità Abriani’ di Milano, che riporta alcune semplici ‘regole del gioco’, utili a chiunque partecipi a questo importante momento della vita organizzativa 21 R. Collins, Interaction ritual chains, cit., p. 49. M. Ferrari - S. Miodini, La presa in carico nel servizio sociale. Il processo di ascolto, Roma, Carocci, 2018, pp. 78 ss. 22 279 DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI Strumenti per l’uso delle équipe 1. di struttura a. garantendo la periodicità (il ritmo, la cadenza, la continuità – settimanale, quindicinale, mensile); b. convocando ciascuna con un ordine del giorno, e raccogliendo proposte per ulteriori punti. Il responsabile invia una proposta di odg che può essere integrata con altre proposte; c. redigendo un verbale sintetico che riporti i punti fondamentali (la redazione del verbale può essere realizzata a rotazione). 2. di stile a. accentuando la dimensione riflessiva (non solo cose da fare ma idee, proposte, critiche), di apprendimento reciproco, di scambio; b. rispettando il turno di parola (si parla uno alla volta, cercando di fare in modo che ciascun partecipante riesca ad esprimersi); c. sollecitando il pensiero divergente, l’attenzione agli errori, agli inciampi, non solo ai successi. 3. di manutenzione a. garantendo la coerenza con le decisioni prese (o i motivi per cui non è stato possibile assumere quelle decisioni); b. curando il clima, meglio se conviviale, e avendo cura che il dialogo avvenga «in assenza di giudizi»; c. favorendo la condivisione delle scelte. Che possono essere prese a maggioranza, o dal responsabile, ma che vanno sempre rese esplicite, motivate. Queste nove regole sono in uso ai responsabili dei servizi della Fondazione, che le stanno agendo come «indicatori» del buon funzionamento delle diverse équipe, e sono oggetto di sperimentazione in alcune esperienze formative in corso fra la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna. Non tratteremo in questa sede il tema della leadership; aggiungiamo solamente che il buon funzionamento delle équipe dipenda sia dal grado di partecipazione dei partecipanti che da chi svolte un ruolo di leadership, garante, oltre che regista, di questo momento cruciale della vita organizzativa. Oppure artefice del disastro, della demotivazione dei propri collabortori. 10. In-fine Se volessimo contrassegnare, o ‘taggare’, le esperienze, e le proposte, che qui stiamo presentando, potremmo circoscriverle nella cornice del «welfare generativo»: di quel tipo di politiche pubbliche in cui si esaltano i ruoli complementari, anzi di più, fra enti locali e abitanti. Senza escludere rapporti con i soggetti profit (come nel caso del proprietario dell’immobile di piazza Bainsizza), con i gruppi organizzati, le parrocchie, i comitati, e così via. Ma in tutti questi casi stiamo anche riflettendo sui ruoli che i soggetti assumono (poco più sopra abbiamo accennato a possibili «mappe di ruoli»), frequentandosi. Sul come le diverse organizzazioni possano porsi in un atteggiamento di ap- 280 MAURO FERRARI prendimento continuo23, anche grazie alle frequentazioni (alle ibridazioni, ai meticciati) con soggetti diversi. Su come le mappe aiutino in questo viaggio. Purché loro, e noi con loro, ci abituiamo, ci alleniamo, a ri-scriverle. Allenandoci a nuove routine, a mappe provvisorie, temporanee, rivisitabili, in continuo aggiornamento. In questo senso, anzi in questo processo di costruzione di senso, il ruolo degli operatori sociali è di straordinaria importanza: essi possono infatti contribuire, uscendo dai servizi, frequentando i quartieri, a quel cammino che porta ad una «riduzione dell’incertezza organizzativa»24, nutrendo se stessi e la propria organizzazione di nuove conoscenze, nuovi sguardi, su quel che accade nel turbolento ambiente esterno. Contribuendo a costruire mappe, fisiche, simboliche, relazionali. Mappe che parlano di noi, di come abitiamo la città, di come organizziamo i servizi. Segni nelle città. Presenti nei corpi e nelle storie di chi le abita. A contemplare le erbacce che nascono sui marciapiedi delle città, accettando la sfida della convivenza fra i loro ed i nostri racconti del mondo. Siamo solo all’inizio di un cammino. Prepariamo le bisacce, portiamo dei semi: solo alcuni, altri li troveremo per strada. Parte III. Qualche riflessione e una proposta di ricerca per-for-mativa 11. Il lavoro sociale, una sagra 2.0, una ricerca «Allestire contesti conviviali» Nel caso del lavoro sociale queste riflessioni possono dunque diventare ipotesi di azione e riflessione: come possiamo conoscere e riconoscere le comunità locali in cui operiamo se non uscendo, ascoltando quel che accade? O, viceversa, come possiamo immaginare di poter contribuire a sciogliere alcuni degli ingombranti nodi che affliggono il lavoro sociale rimanendo chiusi nei rispettivi uffici, attendendo gli utenti? La letteratura e le esperienze ci insegnano che i servizi producono il proprio pubblico: ne consegue che coloro che rimangono in attesa tendono a generare un pubblico strumentale, cronico, abituato a rituali di interazione fondati su un cittadino che richiede e un operatore che si difende. Come possiamo uscire da questa gabbia, da questa cornice così stretta? Certo, per molti operatori e per molte organizzazioni questo dilemma non si pone, e l’adesione a una modalità di tipo procedurale alimenta una strategia protettiva, e altrettanto sterile; in altri casi, quando gli operatori 23 C. Argyris - D.A. Schon, Apprendimento organizzativo: teoria, metodo e pratiche, Milano, Guerini, 1998. 24 M. Crozier - E. Friedberg, Attore sociale e sistema, Milano, ETAS libri, 1990. DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI 281 sono disponibili ad aprire a interazioni feconde e le organizzazioni manifestano rigidità, possiamo trovarci di fronte a quei fenomeni che abbiamo definito come «pratiche di sconfinamento»25, che caricano sull’operatore buona parte delle responsabilità di mosse comunicative dialoganti; infine, possiamo trovare una disponibilità reciproca, degli operatori e delle loro organizzazioni, ad accettare la sfida dell’esplorazione, del mettersi in ricerca dei fenomeni sociali emergenti e dell’elaborazione degli strumenti più idonei per fronteggiarli. È un approccio che Weick e Sutcliffe26 definiscono tipico delle organizzazioni resilienti, e che può generare aperture agli imprevisti e sviluppo di capacità creative rispetto alle competenze già note. 12. Una sagra sacra Uno studioso attento come Putnam ci ricorda che uno dei nostri compiti sta nel trovare il modo di assicurare che [le persone] passino meno tempo libero seduti da soli davanti agli schermi accesi e più tempo a tessere relazioni con i propri concittadini. Promuoviamo nuove forme di svago e di comunicazione che irrobustiscano l’impegno nella comunità, invece di impedirlo [...]. Scopriamo nuovi modi di usare l’arte come veicolo per unire gruppi diversi di persone27. Significa che «allestire contesti conviviali» può se non risolvere (e quando mai) quantomeno allentare alcune tensioni sociali o, soprattutto, allenare (allenare/ allentare), creare nuove palestre di socialità, opportunità di incontro, di messa-in-relazione di soggetti, abitanti di uno stesso contesto, altrimenti isolati. Potremmo utilizzare il concetto di «abitanza»28 per riflettere su come sia possibile abitare i quartieri e le città in forme consapevoli, attive, e al tempo stesso non necessariamente formalizzate, quindi fluide, instabili, aperte. E quindi per adottare modi altrettanto duttili per attivare forme di coinvolgimento possibili. Potremmo spingere questo termine, «abitanza», e interpretarlo come una fusione creativa fra «abitare» e «danza». A proposito della dimensione espressiva Martha Nussbaum afferma che: Musica e danza, disegno e teatro, sono queste le strade maestre del piacere e della capacità di esprimersi per tutti, e non è che ci vogliano poi tanti soldi per incoraggiarle. 25 M. Ferrari, “Vorrei ma posso”. Una proposta analitica per l’utilizzo della categoria delle “pratiche di sconfinamento” nel lavoro sociale con utenza migrante, in M. Omizzolo (a cura di), L’asilo come diritto. Richiedenti asilo, strutture ed operatori: ricerche e riflessioni, cit. 26 K.M. Sutcliffe - K.E. Weick, Governare l’inatteso. Organizzazioni capaci di affrontare le crisi con successo, cit. 27 R.D. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 478-479. 28 V. Pellegrino, Nuovi Spazi Istituenti. Il welfare partecipato come bene comune, in «Animazione sociale», 2014; cfr. anche il sito http://sociale.regione.emilia-romagna.it/documentazione/pubblicazioni/officina-del-welfare/una-comunita-che-programma/la-programmazione-locale-partecipata-per-un-welfare per l’esperienza del Community lab. 282 MAURO FERRARI Queste manifestazioni artistiche costituiscono la spina dorsale dei programmi di alfabetizzazione nelle campagne perché danno ai bambini, così come agli adulti, la motivazione a frequentare la scuola, perché sono modi positivi di rapportarsi agli altri e perché danno soddisfazione nello sforzo educativo29. Per quanto ci riguarda, abbiamo discusso a proposito del teatro sociale30 (grazie a Claudio Bernardi che ne ha esplorato tutte le sfaccettature) e ne sperimentiamo l’efficacia, come forma di welfare informale e condiviso, ogni anno, a fine agosto, nel corso dell’ormai mitica sagra di Fossacaprara: siamo in una frazione del comune di Casalmaggiore (CR), un minuscolo borgo sulle rive del fiume Po, dove un gruppo di volontari ha aperto un bar nella ex canonica e dà vita a forme di aggregazione mai banali; la sagra contiene spettacoli teatrali e musicali, giochi tradizionali e giochi inventati, valorizza piatti locali in collaborazione con Slow Food, è un’area ‘liscio free’ e ‘no wi-fi’. Rappresenta, quindi, una forma di partecipazione attiva e creativa. Una sorta di ‘sagra 2.0’, di ri-generazione comunitaria, che comprende: – creatività (ogni anno vengono prodotte tovagliette di carta con giochi da completare dai commensali – un modo intelligente anche per ‘arredare l’attesa’; ed inoltre gadget, magliette; e spettacoli teatrali e musicali, presentazioni di libri); – convivialità, connettività (oltre alla dimensione culinaria i giochi prevedono la partecipazione del pubblico, e l’assegnazione di premi collettivi, con un esplicito invito a ‘consumarli’ in gruppo; l’area della sagra è costellata di giochi ‘fisici’ e tradizionali, e collegata a UISP-giochi tradizionali, oltre che all’Associazione Giochi Antichi di Verona. Inoltre sono da segnalare la connessione con Slow Food per la realizzazione del ‘pranzo raccontato’ della domenica, e con il distretto bio della zona per la fornitura di parte dei cibi; infine, i gemellaggi con altre comunità ludiche per lo scambio di giochi e ospitalità portano nuovi stimoli ed evitano la chiusura autarchica); – sostenibilità (la festa si svolge con grande attenzione all’ambiente: posate riciclabili, acqua in caraffa sui tavoli; non mancano riflessioni sulle ricette: «la frittata con le rane è ancora un piatto tipico ora che le rane sono quasi scomparse dai fossi e vengono dalla Turchia?») 13. Una proposta di ricerca per-for-mativa Il Progetto «Terra di sagre» Come abbiamo visto nella prima parte, le sagre sono, ed in numero sempre maggiore, un importante fenomeno socioculturale, molto radicato e in espansione, specie nelle zone rurali della Pianura Padana. Sembrano rappresenta29 M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 131. M. Ferrari, Sognando un altro gioco. Teatro e lavoro sociale, in C. Bernardi - L. Aimo - A. Chignola (a cura di), Ti amo. Il teatro sociale e di comunità nel territorio mantovano, Milano, EDUCatt Università Cattolica, 2014. 30 DI SAGRE, DI RITUALI LUDICI 283 re innanzitutto un modo per ritrovarsi, per tessere legami, che tentano di dare un senso, oggi, a comunità altrimenti liquefatte. Un processo di costruzione identitario che può produrre mostri, rigetti, e comunità chiuse, rancorose, oppure aperture, seppure parziali, a disponibilità reciproche. E in ogni caso raccontano di un processo che sta accadendo intorno a noi, di cui occorre innanzitutto prendere atto. Come rapportarci a questo vero e proprio fenomeno sociale? La proposta che qui presentiamo utilizza la metodologia delle tre mosse del DIP (Descrizione, Interpretazione, Progettazione), in un percorso di ricerca sociale qualitativa di tipo dialogico/etnografico. Innanzitutto occorre, appunto, prenderne atto. Descriverne le caratteristiche, sulla base di indicatori e di metodi di indagine collaudati. Ad esempio: Chi le promuove? Quante generazioni sono coinvolte? Che tipo di attenzione viene riservato ad elementi quali la tipicità dei prodotti, la solidarietà verso soggetti terzi, la sostenibilità ambientale? Questa prima dimensione viene esplorata attraverso dieci categorie, utilizzando una scheda di valutazione e una traccia di intervista. In secondo luogo interpretarle, scavarne i significati. Ad esempio: Come mai? A partire da quale storia locale, con quali strumenti? Come confrontare le varie esperienze, e trarne lezioni e conoscenze di criticità e di buone pratiche? Questo secondo aspetto viene approfondito attraverso interviste mirate ad organizzatori e, in parte, al pubblico che le frequenta In terzo luogo, progettare le prossime edizioni; diffondere consapevolezza fra gli organizzatori sull’importanza del loro lavoro come senso di appartenenza diffusa, come pure sui limiti dell’attuale impostazione, e sulle potenzialità di sviluppo e di miglioramento. Ad esempio: Come riprodurre e divulgare le pratiche virtuose? Come possiamo apprendere reciprocamente? Questa terza dimensione si esplicita nella restituzione, dando vita ad un processo formativo/riflessivo che può introdurre elementi innovativi, aperti, prospettici. Da una prima fase di osservazione (partecipante, certo; d’altronde, la scienza richiede sacrifici) sono emerse nel gruppo di ricerca considerazioni importanti, che riguardano, e potranno riguardare una volta definito il campo (area territoriale, tipologie di sagre) valutazioni e scambi con gli organizzatori, finalizzate da un lato a valorizzare il loro sforzo volontario, e dall’altro ad indurre un’ancora maggiore consapevolezza rispetto al senso che queste forme di partecipazione assumono oggi, così che ogni sagra – etimologicamente originata sul sagrato – inizi a considerarsi come una liturgia comunitaria, in cui condivisione e convivialità possano svolgere appieno il proprio ruolo di rigenerazione e verificando sul campo come avvengono questi processi di ri-generazione identitaria, con tutte le ambivalenze del caso (fra queste, in primis, il possibile arroccamento). A questo proposito abbiamo individuato cinque tipologie di sagre: – roots, o tradizionali (santi patroni, ad esempio, o feste dell’oratorio); – rievocative (i vari palii); – food and drink, dedicate a cibo e vini (la ‘sagra del marubino’, o ‘del lambrusco’); 284 MAURO FERRARI – multiculturali (con il tema della convivenza come perno centrale); – militanti (di partito, di associazioni politicamente impegnate). Ed una batteria di dieci indicatori, che in parte possono essere valutate direttamente dai ricercatori (la qualità, il costo, il servizio, la location, la presenza di iniziative culturali, la musica), in parte vanno approfondite o desunte da interviste narrative ai protagonisti (coinvolgimento dei giovani, solidarietà, sostenibilità ambientale, il coinvolgimento locale). Le prime venticinque sagre censite (‘mappate’, liturgicamente) raccontano delle stesse tensioni e fatiche che attraversano altre organizzazioni: ad esempio lo scarso coinvolgimento dei giovani, e quindi la mancanza di ricambio generazionale (con un’evidente ambivalenza: «i giovani non si fanno coinvolgere» viene equilibrato da «le porte della cucina sono off limits per tutti coloro che i cuochi non vogliono fra i piedi», come racconta un volontario spillatore di birre a una sagra), con ciò riproducendo quel che avviene in molti gruppi, associazioni, e che altrove31 abbiamo definito come ‘la sindrome di san Sebastiano’, secondo la cui metafora i vecchi leader si ergono contemporaneamente a ‘eroi e martiri’, ma difficilmente (e comprensibilmente) riescono ad aprire a cambiamenti che li vedrebbero meno protagonisti. Oppure la scarsa attenzione dedicata agli scambi, ai gemellaggi, con questo rinforzando l’ipotesi che le sagre agiscano entro circuiti chiusi, autoreferenziali, basati sovente sul binomio ‘cucina-musica’, e con una scarsa, se non assente, attenzione alla dimensione culturale, creativa. Insomma, il mondo delle sagre si va rivelando come un fenomeno sociale diffuso, ricco, vivace, perfettamente in grado di raccontare (descrivere, interpretare, progettare) le comunità locali per come oggi si vanno ridefinendo, in un processo continuo di trasformazione e di ricerca di senso. E, come diceva Esopo (poi ripreso da Hegel e Marx), hic rhodus, hic salta. Se (anche) questo è quel che accade nelle nostre comunità, (anche) questo vale la pena conoscere, studiare, su questo riflettere. E, anche se il senso che ne emerge ci sembra distante da quello in cui sono cresciute molte generazioni, fra cui quella di chi scrive, e se invece dello slancio solidale, aperto e ‘politico’, sembra riprodurre modalità identitarie arroccate, ‘l’indicatore sagre’ è lì a dirci che, forse, oggi, ‘voi siete qui’. Noi siamo qui. 31 M. Ferrari - S. Miodini, La presa in carico nel servizio sociale, cit.