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Filippo Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella

2020

Da decenni ormai, con la fine della guerra fredda e i mutamenti dello scenario internazionale, i processi di ridefinizione delle memorie pubbliche nazionali hanno innescato in tutta Europa delle vere e proprie “guerre di memoria”. In Italia, in particolare, i conflitti tra memorie contrapposte si affiancano a reiterati tentativi di ridefinizione dell’identità nazionale all’insegna della costruzione di presunte memorie condivise, alimentati da un intenso uso politico del passato. Si assiste così all’istituzione di nuove date del calendario civile, come la Giornata della Memoria per le vittime della Shoah e il Giorno del Ricordo per quelle delle foibe; al confronto fra revisionismo e anti-revisionismo su fascismo e Resistenza; a un dibattito sui crimini di guerra italiani nelle colonie e nei territori occupati durante il secondo conflitto mondiale; e all’impegno in prima persona dei presidenti della Repubblica (Ciampi, Napolitano, Mattarella) nel costruire una memoria pubblica nazionale lungo l’asse Risorgimento, Grande guerra, Resistenza, Unione Europea. Ma, come mostra questo volume, dietro gli attuali processi di rielaborazione del passato vi è – come sempre – una più ampia posta in palio, che tocca le prospettive future della democrazia in Italia e in Europa.

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Tutti i diritti riservati Prima edizione: settembre 2020 ISBN 978-88-3313-321-8 FDUWD ,6%1 HERRNSGI La pubblicazione di questo volume è stata possibile grazie a un contributo del Di-partimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi internazionali dell’Università degli studi di Padova viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it Indice Prefazione di Paolo Pezzino Introduzione 7 17 L’alibi del “cattivo tedesco” 1. La memoria della seconda guerra mondiale: i “bravi italiani” e i “cattivi tedeschi” 37 2. Il vizio del confronto: giudicare il fascismo con il metro del nazismo 59 3. Criminali di guerra noi? La mancata “Norimberga italiana” e la rimozione delle pagine oscure della guerra fascista 95 4. Il ritorno del passato: la questione degli indennizzi agli Internati militari italiani e i processi ai criminali di guerra tedeschi 115 5. La memoria della Shoah: carnefici tedeschi e salvatori italiani 153 Dopo la p ima Rep bblica: memo ie con i ali, memo ie iconcilia e, memo ie in an i ione 6. Il passato conteso. Transizione politica e guerra della memoria dalla crisi della prima Repubblica alla fine dei governi Berlusconi 195 6 Nel cantiere della memoria 7. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi e la sfida del patriottismo repubblicano. La memoria come strumento di pedagogia nazionale 235 8. Le stagioni del ricordo: la memoria di Cefalonia nel discorso pubblico italiano dal 1945 a oggi 259 9. Fine del revisionismo? Riflessioni sulla memoria della Resistenza nel 70° anniversario della Liberazione 287 10. Alla ricerca di una memoria europea 311 Postfazione 329 Postilla luglio 2020 338 Nota ai testi 339 Indice dei nomi 343 Pa P Prefazione 1. È comune ritenere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato, e se c’è una parola oggi abusata è appunto “memoria”: da più parti si ripetono gli inviti alla memoria come fondamento della convivenza civile, soprattutto alla memoria dei crimini del passato, secondo l’equazione “ricordare perché non succeda mai più”.1 L’esercizio della memoria appartiene perciò a una serie di esortazioni diffuse nel discorso pubblico, apparentemente condivisibili da tutti, in quanto rivolte a finalità etiche che nessuno potrebbe contestare. Eppure si tratta di un fattore particolarmente complesso, e niente affatto neutrale: infatti se c’è una cosa profondamente divisiva è proprio la memoria, non tutti ricordano le stesse cose o le ricordano nello stesso modo. Si pensi, ad esempio, alla memoria dei protagonisti di una guerra civile, nella quale all’avversario non viene riconosciuto lo status di nemico, ed esso viene degradato a traditore, servo dello straniero, pur di non ammettere che il conflitto coinvolge membri di una stessa comunità. La guerra civile libera il potenziale di violenza latente nella società: il concetto di violenza “legittima”, già messo a dura prova nelle guerre convenzionali, tende a essere del tutto cancellato, e viene ammessa e tollerata qualsiasi forma di violenza (criminalità, banditismo, vendette private) purché diretta verso appartenenti alla parte avversa. Lo stesso termine di guerra “civile” o “fratricida” rimanda alla rottura di rapporti e relazioni sociali nell’ambito delle strutture primarie della società (famiglia, parentela, comunità): si libera in tal modo una violenza latente nella società, che assume spesso forme sacrali e rituali. È una violenza che 1. Per una convincente messa in discussione di tale equazione retorica si veda il recente volume di V. Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Milano 2020. 8 Paolo Pezzino mette in discussione l’intero ordine sociale.2 Difficilmente uno Stato uscito da una sanguinosa lacerazione di una precedente comunità politica potrà ammettere che si sia combattuta una guerra civile e spesso agli sconfitti viene negato anche il diritto alla memoria, con la loro esclusione dalla memoria pubblica, che sostiene i riti della convivenza civile. A livello di una nazione, la selezione degli elementi da conservare serve a trasmettere da una generazione all’altra un passato dotato di senso, e in quanto tale sostiene «quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la halakhah di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della “storia” cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero»3 (halakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la Strada). In tal modo l’esercizio della memoria (come e cosa ricordare) è strettamente connesso a quello dell’oblio, come sottolineava Nietzsche in un brano sul quale è opportuno riflettere: «è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare […]. La serenità, la buona coscienza, l’allegra attività, la fiducia nell’avvenire – tutto ciò dipende, nell’individuo come nel popolo […] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente […]. L’antistorico e lo storico sono ugualmente necessari per la sanità di un individuo, di un popolo o di una civiltà».4 E, soprattutto nella costruzione di una nazione, «l’oblio, e dirò persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta un pericolo per le nazionalità».5 2. Su questi temi si veda Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Torino 1994. 3. Y.H. Yerushalmi, Ri e ioni ll oblio, in Usi dell’oblio, Parma 1990 (ed. or. Paris 1988), p. 19. 4. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1873-1874), in Id., Considerazioni inattuali II, Introduzione di E. F rster-Nietzsche, Milano 1926, pp. 121-122. Per un inquadramento della posizione di Nietzsche su questo tema si veda H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, Bologna 1999, pp. 173-180. Nietzsche contrappone il sapere storico all’«intuizione immediata della vita», e sostiene che «per ogni agire ci vuole oblio» (ivi, p. 176). 5. E. Renan, Che cos’è una nazione?, conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882, in Id., Che cos’è una nazione?, a cura di S. Lanaro, Roma 19982, p. 6. Prefazione 9 È naturalmente un’operazione divisiva: «La memoria e l’oblio – ha scritto Remo Bodei – non rappresentano […] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l’identità, specie quella collettiva. Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d’eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano alcuni tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento».6 In questo processo vengono di solito utilizzate rimozioni, invenzioni, falsificazioni, cancellazioni della memoria, più o meno istituzionalizzate: riflettendo sulla concatenazione amnistia-amnesia, la grecista Nicole Loraux ha sottolineato come la prima sia «l’ombra riflessa del politico sulla memoria […] l’obliterazione istituzionale di quei lembi della storia civica che la città teme perché di ostacolo alla costruzione del proprio passato», chiedendosi se si potesse parlare per essa di una «sorta di strategia dell’oblio», finalizzata alla «creazione di un tempo per il lutto e [al]la (ri) costruzione della storia». Analizzando due casi di «memoria proibita» ad Atene, ha evidenziato come in essa «l’istanza politica può affermarsi come censore della memoria, sola realtà abilitata a decidere quello che deve o non deve essere l’uso che se ne fa». Il ricordo che qui viene cancellato è quello di un «passato litigioso, inopportuno perché conflittuale».7 In senso opposto, se la memoria serve a fondare una comunità dotandola di unità di passato e di condivisione di intenti, questa operazione può anche compiersi con un’ossessiva ripetizione di fratture e torti che spesso affondano le radici in un tempo remoto, una memoria come «rimedio contro l’odio» e una usata «per spargere odio»8 individuando un nemico presunto, da combattere ed espellere dal corpo sano, e identitariamente omogeneo, della nazione. Quanto allo storico, si pone su un altro terreno: ricostruisce i meccanismi identitari che stanno dietro alle politiche della memoria, li decostruisce, individua quella vera e propria battaglia per la memoria che è sempre in atto nei processi di definizione di identità collettive, consapevole del carattere intrinsecamente conflittuale delle costruzioni sociali. Con la sua 6. R. Bodei, Addio del pa a o. Memo ia o ica, oblio e iden i colle i a, in «Il Mulino», 2 (1992), pp. 179-191, ora in Id., Libro della memoria e della speranza, Bologna 1995, p. 38. 7. N. Loraux, Sull’amnistia e il suo contrario, in Usi dell’oblio, pp. 27-29, 52-53. 8. Wiesel. Io ricordo ma non per odiare, intervista di M. Fleishhacker e G. Guidotti, in «Corriere della sera», 17 gennaio 2002. 10 Paolo Pezzino competenza egli può smascherare etnie e nazionalità fittizie inventate da politici le cui incursioni nel passato somigliano a quelle dei pirati saraceni (rapide e volte a depredare tutto ciò che può tornare utile) e quando lo fa con onestà, viene per ciò stesso avvertito, giustamente, come un pericoloso nemico da mettere ai margini della comunità nazionale: le politiche dell’identità necessitano infatti proprio di semplificazioni e generalizzazioni, mentre lo storico distingue, disseziona, analizza, instilla dubbi. Yerushalmi evidenziava che se nel XX secolo lo storico era «un forgiatore, raffinatore e restauratore di memoria (del suo popolo, del suo gruppo), […] lungo la strada arriva a scoprire che i suoi metodi gli consentono una capacità di anamnesis molto superiore a quella che la collettività può anche solo concepire». Lo storico, insomma, considera la memoria un oggetto come gli altri, da analizzare e scomporre, ma non può avere come fine la creazione di una memoria condivisa degli avvenimenti: «per lo storico, Dio dimora certamente nei dettagli; mentre la memoria, da parte sua, insorge contro il fatto che i dettagli tendono a diventare dei».9 E la ricerca filologica, la grande attenzione alle fonti e al loro uso, la storia come metodo, o insieme di metodi, di analisi può servire a porre domande, nella consapevolezza che le risposte sono condizionate dallo stato delle fonti, che bisogna attenersi strettamente ad esse, esercitandovi capacità critica: un grande esercizio di umiltà, modestia, tolleranza (interpretazioni diverse sono sempre possibili, sia pure in un ambito di plausibilità). 2. Questa lunga premessa mi serve per sottolineare l’importanza del lungo e importante lavoro di ricerca e di scavo analitico che Filippo Focardi ci presenta in questa raccolta di saggi, che inaugura la collana dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri - Rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, per i tipi dell’editore Viella. Focardi, che dell’Istituto Parri è il direttore scientifico, è uno dei massimi studiosi italiani dei meccanismi della memoria, delle retoriche pubbliche, del calendario civile, e i saggi qui raccolti, sia pure pubblicati in tempi diversi, hanno una loro fondamentale organicità, tanto che costituiscono senza alcuna forzatura i capitoli di una narrazione unitaria: l’autore analizza infatti con strumenti propri della sua disciplina (analisi delle fonti, decostruzione di luoghi comuni, contestualizzazione degli eventi), sia gli stereotipi diffusi nell’opinione pubblica (ma non solo, spesso gli “untori” sono uomini 9. Yerushalmi, Ri e ioni, pp. 20-21. Prefazione 11 politici, e a volte anche presunti “storici”), sia la battaglia della memoria che si è combattuta negli ultimi decenni. Ecco allora messa in discussione la duplice connessa visione del tedesco “cattivo” e dell’italiano “buono”, funzionale alla cancellazione dei crimini italiani nella seconda guerra mondiale, sostenuta dal riflesso condizionato di confrontare le responsabilità italiane con quelle tedesche, ovviamente essendo queste ultime su scala molto più grande (quello che David Bidussa ha definito il «demone dell’analogia»). Applicato ad esempio alla persecuzione degli ebrei, questo approccio ha portato a interpretazioni distorte, come quella secondo la quale Mussolini avrebbe acconsentito, suo malgrado, ad adottare una politica razziale su richiesta dell’alleato tedesco, mentre oramai è stata convincentemente dimostrata l’origine autonoma dei provvedimenti di discriminazione del 1938, oltretutto da un punto di vista legislativo addirittura più severi di quelli tedeschi. Analogamente si sottolinea che solo dopo l’occupazione tedesca gli ebrei italiani passarono dalla discriminazione allo sterminio, e si diffondono notizie, spesso infondate, su clamorose azioni di salvataggio da parte di uomini delle istituzioni o famosi sportivi, ma si tace il fatto che le strutture amministrative e burocratiche messe in piedi sotto il fascismo dopo il 1938 transitarono nella Repubblica sociale e collaborarono pienamente e volenterosamente alla caccia all’ebreo. 3. Quanto alle politiche della memoria, Focardi analizza le varie stagioni che si sono succedute: il passaggio dall’antifascismo all’antitotalitarismo, la rivalutazione del fascismo (che “ha fatto anche cose buone”) e della figura di Mussolini (quella che Emilio Gentile ha definito la «defascistizzazione retroattiva»), il diffondersi di simboli e azioni neofasciste, e la discussione che si è aperta fra forze politiche e intellettuali sul pericolo reale che questi rappresentano, sul rapporto con la diffusione dei populismi e con i progetti di democrazia illiberale portati avanti non solo da gruppuscoli, ma da forze politiche rappresentate in Parlamento, e che hanno ricoperto importanti incarichi di governo. Con grande acume viene quindi analizzato l’inserimento progressivo, dopo i primi anni postbellici, della Shoah nel paradigma resistenziale e antifascista, fino a una potenziale sostituzione della memoria della Shoah alla memoria della Resistenza che si è attuata negli ultimi decenni, presso a poco dalla crisi del paradigma antifascista, che aveva «rappresentato la forma storica assunta dal problema nazionale dopo il crollo dello Stato liberale e monarchico e la fine dell’“occupazione” dello Stato da parte dei 12 Paolo Pezzino fascisti».10 Di questa memoria, peraltro, Focardi analizza anche i tratti stereotipi, mettendo a confronto i due miti (quello di una Wehrmacht pulita e quello della Resistenza) che la Commissione storica italo-tedesca aveva evidenziato nel suo rapporto finale. Viene quindi presa in considerazione anche la progressiva contrapposizione della memoria delle foibe a quella della Shoah, a partire dall’istituzione di una Giorno del ricordo che avrebbe dovuto affiancare, ma non contrapporsi a quello della memoria: invece in un contesto politico generale che ha messo in discussione l’antifascismo, parlando strumentalmente di riconciliazione e di memoria condivisa, di “ragazzi di Salò” e di “morte della patria”, l’istituzione del Giorno del ricordo senza una riflessione critica sulle responsabilità degli italiani in quelle terre (ritorna sempre il mito del “bravo italiano”) ha permesso la diffusione a più ampi livelli della vulgata neofascista, e ha offerto una sponda istituzionale alla propagazione delle idee della destra e al suo progetto di una memoria comune basata sulla rimozione dei crimini fascisti. Una riflessione, questa, che appare tanto più appropriata se analizziamo quanto successo in questi ultimi anni: già da tempo la data è utilizzata dalla destra per manifestazioni di nazionalismo prive di qualsiasi riferimento alla realtà storica dei fatti, e per imporre la propria visione di quegli avvenimenti: così il 26 marzo 2019 il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia ha approvato una mozione (n. 50) che impegnava la Giunta e l’assessore competente «a sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura (es. patrocinio, concessione di sale) a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza delle vicende quali le Foibe o l’Esodo ovvero a sminuirne la portata e a negarne la valenza politica». Nel testo si accusava l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia di aver elaborato e reso pubblico un Vademecum del Giorno del Ricordo11 con la volontà di «diffondere una versione riduzionista della storia della pulizia etnica perpetrata dai partigiani titini». La mozione non esitava 10. A. Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana, in Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, n. monografico di «Problemi del Socialismo», n.s., 7 (1986), p. 11. 11. La seconda edizione del Vademecum è consultabile al sito https://www.irsml.eu/ presentazioni/688-vademecum-per-il-giorno-del-ricordo-aggiornato. Prefazione 13 a richiamare la legge del 16 giugno 2016, n. 115 che attribuisce «rilevanza penale alle affermazioni negazioniste della Shoah, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». La mozione si configurava come un pericoloso attacco frontale alla libertà di ricerca e alla libertà di parola, come un tentativo manifesto di imporre una “verità di Stato” (le foibe come “pulizia etnica”), tacitando, anche con la minaccia di eventuali sanzioni penali, chi sosteneva punti di vista diversi, più articolati e anche scientificamente più fondati. Nel 2020 tali manifestazioni di intolleranza nei confronti della libera ricerca storiografica si sono intensificate: vorrei qui ricordare, fra le altre, le minacce squadriste nei confronti dello storico Eric Gobetti, mosse dall’organizzazione giovanile Aliud-Destra identitaria, che aveva manifestato l’intenzione di impedirgli di tenere – il 5 febbraio 2020 – una conferenza nei locali della Circoscrizione 3 di Torino; la decisione dell’assessorato all’istruzione della Regione Piemonte di distribuire nelle scuole il fumetto Foiba rossa, edito della casa editrice di destra Ferrogallico, collegata alla più nota Altaforte edizioni (quest’ultima estromessa, non senza polemiche, dal Salone del libro di Torino dell’anno scorso perché di aperto orientamento neofascista), pieno di errori storici; la proposta ai sindaci di Trieste e Udine – avanzata rispettivamente da Fratelli d’Italia e da Stefano Salmè, segretario politico di Io Amo Udine, partner politico di Fiamma nazionale di estrema destra – di mettere pietre di inciampo in memoria di persone scomparse nelle foibe; la dichiarazione del 13 febbraio 2020 di Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, partito di cui è responsabile nazionale per l’organizzazione, contro la Regione Toscana, colpevole di affidare le politiche della memoria sulle foibe e sull’esodo degli istriani, fiumani e dalmati all’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Grosseto, che già da prima dell’istituzione del Giorno del ricordo lavorava su questi temi. Donzelli ha accusato invece l’Istituto di negazionismo, e ha anche presentato un esposto in Procura. Il problema è che si vuole imporre un pensiero unico, che necessariamente confermi la visione astorica e decontestualizzata della destra, e le manifestazioni di acceso nazionalismo che questo tema alimenta. E chiunque prova a fare seria ricerca e divulgazione su questa pagina storica viene perciò stesso accusato di riduzionismo e negazionismo. È corretto affermare che le foibe e l’esodo successivo si inquadrano in un violento processo di creazione dello Stato socialista, nel corso del quale venivano considerati “oggettivamente” nemici tutti coloro che vi si opponevano attivamente 14 Paolo Pezzino (non solo italiani, non solo fascisti o ex fascisti), ma anche appartenenti a classi sociali che erano incompatibili con i progetti di nazionalizzazione dell’economia (dai proprietari terrieri ai piccoli commercianti e artigiani), o chi svolgeva una funzione legata dell’amministrazione statale italiana. Tuttavia raccontare solo questa parte della storia, imputando i crimini commessi esclusivamente al comunismo titoista, senza considerare l’altro aspetto, la politica italiana nel ventennio fascista, questa sì che è opera di negazionismo: è evidente infatti che la radicale snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate in queste terre imposta dal regime fascista, e le dure politiche italiane di occupazione nelle zone di propria competenza, hanno rappresentato una premessa dalla quale non si può prescindere. È un esempio lampante di quella sostituzione di un paradigma antitotalitario a quello antifascista su cui Focardi si sofferma, mettendolo opportunamente in relazione alle varie fasi della storia europea, al peso crescente dei paesi di Visegrad nell’elaborazione di una memoria europea, in quello che Tony Judt ha definito «un eccesso compensativo di memoria» successivo alle distorsioni della memoria europea dopo il 1945, che escludeva i paesi dell’allora blocco sovietico dalla celebrazione di una liberazione che per loro aveva un significato ben diverso rispetto ai paesi occidentali: non la riconquista della libertà, ma il passaggio da un’oppressione, quella tedesca, a un’altra, quella sovietica. Della politica europea Focardi sottolinea le varie fasi, con un’attenta lettura delle varie risoluzioni del Parlamento europeo, dai primi del millennio fino a quella recente del 19 settembre 2019, che equiparava nazismo e comunismo come regimi totalitari, con i vani tentativi di trovare il fondamento di una memoria comune che hanno portato alla creazione della Casa della storia europea, investita dalle polemiche perché anche il modello antitotalitario può essere declinato in modalità diverse fra di loro. Il lettore troverà in queste pagine una mole di informazioni precise, una cronologia accurata (ad esempio delle differenti politiche di pedagogia civile degli ultimi presidenti della Repubblica), una raffinata analisi critica di stereotipi, false notizie, uso pubblico del passato. E, soprattutto, una preziosa indicazione di metodo: è necessario uscire dalla ricerca ossessiva di un’impossibile memoria condivisa e promuovere viceversa la conoscenza storica, in una dimensione europea e globale. Una sfida, questa, che investe non solo i ricercatori, ma le istituzioni educative, in primis la scuola, e che gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea sono pronti a raccogliere. Ai miei nonni e alle mie nonne A mida, Ma io, Pie o e P ime a il mio primo cantiere della memoria