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Vittorio Foa e la sinistra italiana, 1933-2008

saggi andrea graziosi Vittorio Foa e la sinistra italiana, 1933-20081 Vittorio Foa (Torino 1910-Formia 2008), terzogenito di Ernesto (1871-1966) e di Lelia della Torre (1883-1968), ha avuto una vita lunghissima e fragmentata. Rilettendo su di essa, egli stesso l’ha presentata come una serie di rotture in cui la continuità, se c’è, è espressa in esse e da esse, sottolineandone quindi l’apertura, e dando peso alle scelte soggettive. È una visione coerente con quella che ebbe del processo storico, che vide come «successione di ambiguità entro le quali operano le alternative, le scelte», piuttosto che come «concatenazione di cause e di efetti».2 Di qui il peso dato alla politica, e la passione per essa come esercizio di libertà e autonomia, intesa come «non lasciarsi vivere e cercare invece di partecipare alla costruzione del proprio domani dando così un senso al proprio essere e al proprio agire».3 1. Ho scritto questo saggio per preparare la voce «Vittorio Foa» per il Dizionario Biografico degli Italiani. Ringrazio Raffaele Romanelli per avermi chiesto di farlo, permettendomi così anche di ripensare a 35 anni della mia vita. Ho infatti conosciuto Vittorio a Modena del 1973, quando diventammo subito amici, come si diventava amici con lui, con naturalezza. subito dopo conobbi Lisa, con cui poi lavorai nella redazione esteri di «Lotta Continua». a Lisa e Vittorio è dedicato il mio primo libro, tratto da una tesi di laurea sulla «sconfitta operaia in fabbrica» dopo il 1973, e pubblicato nell’anno della loro separazione. Nel 1978 fu Vittorio a spedirmi a studiare con David Montgomery prima a Pittsburgh e poi a Yale. a Lisa dovetti invece nel 1982 il primo contatto con Moshe Lewin, il mio maestro più importante. a entrambi sarei rimasto vicino: con Lisa soprattutto, ma non solo, negli anni travolgenti del crollo del «socialismo reale», che seguimmo con emozione e interesse; con Vittorio, che giocò un ruolo chiave anche nella mia chiamata sulla cattedra di arfé. Per preparare la voce del Dbi, e questo saggio, ho discusso con anna e Bettina Foa, Pietro Marcenaro e Pino Ferraris, che ho avuto il grandissimo piacere di rincontrare, pieno di vita e intelligenza, pochi giorni prima della sua morte. Carlo e andrea ginzburg, e Michele salvati, hanno letto queste pagine, permettendomi di evitare alcuni errori. Di ciò li ringrazio, ma naturalmente il ringraziamento vero è a Vittorio, per alcuni dei più bei giorni, e delle più interessanti conversazioni, della mia vita. 2. V. Foa, Passaggi, Torino, Einaudi, 2000, p. 125. 3. ibid., p. 37. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 6 saggi gli fu anche per questo possibile avere più vite, quattro se contiamo anche l’adolescenza e la giovinezza. C’è il Foa giovane torinese, il Foa cospiratore e poi dirigente politico della Resistenza e del Partito d’azione, il Foa leader del movimento operaio e della nuova sinistra, e l’uomo che a settant’anni trovò l’energia e la forza intellettuale per cercare, in una trentennale battaglia culturale, di reinventare una sinistra che sentiva in crisi terminale. Queste vite sono unite dalla passione per la libertà e la giustizia, e dall’intelligenza come esercizio della facoltà di scelta, nonché dalla capacità, basata su di esse, di parlare a più generazioni, di essere contemporaneo a più epoche. La prima vita, dalla nascita all’ingresso in giustizia e Libertà nel 1933, fu molto agiata ino alla crisi del 1929, e agiata dopo di essa. il padre, avvocato non praticante e commerciante in carbone, ammiratore di giolitti, neutralista e sostenitore del progresso nazionale e liberale che aveva dato la libertà agli ebrei, era iglio di giuseppe (1840-1917), nato nel ghetto di Moncalvo, rabbino di Torino ino al 1903. il culto del progresso era ancora più vivo nella madre, di una famiglia della piccola-media borghesia ebraica di alessandria. a lei Foa fu molto legato anche perché, di salute cagionevole (e più tardi afetto dal morbo di Basedow), fu ritirato da scuola, ed ebbe nella madre, diplomata al Magistero, la sua maestra. all’atmosfera famigliare contribuivano l’ammirazione per il prozio, Natale Della Torre, esule rivoluzionario a Parigi, e l’impegno dell’avvocato Luzzatti, un parente del padre, nella difesa di Parri accusato dell’espatrio di Turati, una difesa pagata con anni di diicoltà professionali.4 Questo ambiente contribuì a formare l’intrinseca moralità di Foa, determinata più da un disinteresse spontaneo per le cose basse, che da un moralismo del resto contraddetto dall’amore per il cibo, gli agi, quando possibili, la vita e le donne. L’infanzia e la prima giovinezza furono dominate dal desiderio di un padre, amatissimo ma esigentissimo, di costruire il successo di un iglio che vedeva come «una specie di somma di giolitti e Poincaré» e che costringeva a «utilizzare ogni attimo della giornata» per prepararsi alle imprese che lo attendevano.5 Foa ne sentì il peso, e vide poi nella politica anche la liberazione da un tempo scandito dall’alto e dall’esterno. 4. La principale fonte per la vita di Vittorio sono le sue memorie, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Torino, Einaudi, 1991. si veda anche Scelte di vita: Conversazioni con Giovanni De Luna, Carlo Ginzburg, Pietro Marcenaro, Claudio Pavone, Vittorio Rieser, a cura di a. Ricciardi, Torino, Einaudi, 2010, tenute a metà degli anni ’80 per preparare Il Cavallo e la Torre. È ancora possibile sentirlo ragionare in Nostalgia del Futuro – In viaggio con Vittorio Foa, di P. Medioli, 52’, 2003, Komedì, http://www.cinemaitaliano.info/nostalgiadelfuturo; e in Per esempio Vittorio, sempre di P. Medioli, 60’, 2010, Fondazione giuseppe Di Vittorio, archivio audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Unitelefilm, http://www.cinemaitaliano.info/peresempiovittorio. Una bibliografia in costruzione delle sue opere, a cura di Maria Cristina Belloi, è consultabile sul sito http://www.vittoriofoa.unimore.it/site/home/bibliografia.html. 5. P. Marcenaro e V. Foa, Riprendere tempo: un dialogo con postilla, Torino, Einaudi, 1982, p. 99. saggi 7 il naufragio del Titanic, e soprattutto quello dell’Europa nella grande guerra, furono i suoi primi ricordi, e all’interpretazione del primo conlitto mondiale assegnò poi un ruolo cruciale nella sua lettura del XX secolo, che vide dominato da una rottura drammatica, nella quale si produsse una conigurazione autoritaria di società, economia e stato destinata a inquadrare e disciplinare i decenni successivi. a otto anni scrisse, sulla base dei giornali dell’epoca, una breve storia della Rivoluzione russa con Lenin e Trockij che «ammazzavano la gente senza pietà», uno zar «inetto ma buono», e Kerenskij e i liberali «simpaticissimi, intelligentissimi, generosissimi ma terribilmente scarognati».6 L’immagine della Camera del Lavoro devastata e incendiata dai fascisti, e soprattutto l’omicidio Matteotti, «il discrimine politico della mia vita», ribaltarono poi però il segno del suo schieramento.7 Nel 1924, per contribuire alla sua formazione, il padre lo mandò a far l’impiegato presso una ditta commerciale di Parigi, dove visse da una zia. anche al liceo quindi Foa non studiò sistematicamente, unico rimprovero che si sentì di muovere al genitore. al D’azeglio ebbe tra i suoi compagni giancarlo Pajetta, arrestato e processato dal Tribunale speciale. Foa, che si sentì in colpa per non averlo difeso, fu allora per la prima volta colpito dal coraggio e dalla determinazione dei comunisti. Furono anni di grandi letture, alimentate dal catalogo delle edizioni gobetti, fuori commercio e vietate dalla censura, più di 100 volumi che andavano da sturzo a Mill, dallo stesso gobetti a goethe. Foa lesse allora anche Marx, Engels e Lassalle e cominciò, dall’estate del 1925, a frequentare Cogne e la montagna, destinata a giocare un ruolo importante nella sua vita così come in quella di tanta parte dell’antifascismo torinese.8 in montagna, poco prima dell’arresto, avrebbe anche incontrato per la prima volta la dodicenne Lisetta, sorella dell’amico Renzo, con cui avrebbe passato molte estati a Torgnon. subito dopo la maturità decise di fare il servizio militare per togliersi «subito quell’ingombro e avere il passaporto».9 Fu prima soldato, e poi sottotenente di complemento a spoleto nel reggimento comandato dal principe ereditario, di cui frequentò l’ambiente anche per la tradizione che voleva i igli dei rappresentanti della comunità ebraica vicini alla casa reale. il rapporto con l’Università non fu quindi stretto. Foa si laureò giovanissimo in Legge nel luglio 1931 insieme a Norberto Bobbio con una tesi su Il criterio diferenziato fra la difamazione e l’ingiuria nel nuovo codice penale, e sostenne di averlo fatto «senza sapere nulla di diritto».10 Divenuto praticante nello studio di un grande avvocato torinese, era però molto più attratto da altre questioni. La svolta fu determinata dall’incontro con la rivista «i problemi 6. Le lettere della giovinezza. Dal carcere, 1935-1943, a cura di F. Montevecchi, Torino, Einaudi, 1998, pp. 514-515. 7. Il Cavallo e la Torre, p. 19. 8. V. Foa, Sulle montagne, aosta, Le Chateau, 2002. 9. Passaggi, p. 57. 10. Riprendere tempo, p. 99. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 8 saggi del lavoro», con cui Rigola e D’aragona iancheggiavano l’esperimento corporativo. Foa vi si era imbattuto per caso prima della laurea, rimanendo «colpito dall’impegno sulle questioni del lavoro, che cominciavano ad appassionarmi, e anche dal linguaggio del tutto estraneo allo stile fascista».11 ad essa mandò il suo primo articolo, pubblicato nel 1932, in cui sosteneva che i salari potevano aumentare solo a scapito del proitto o di altri settori dell’economia.12 Foa fu segnato anche dall’esperienza della rivista clandestina «Voci d’Oicina» (1931), fondata da garosci e di ispirazione operaistica e gobettiana, di cui non fece parte ma che contribuì a mettere la fabbrica e il lavoro operaio al centro della sua attenzione. Nel 1933 Leone ginzburg, alla cui memoria e famiglia rimase sempre legato,13 gli chiese se voleva scrivere qualcosa, vale a dire partecipare all’attività clandestina di giustizia e Libertà. ginzburg e Carlo Levi divennero così i suoi «due maestri-amici più cari»,14 e il secondo ne fece poi ne L’orologio un ritratto capace di coglierne l’intelligenza vivissima e l’ansia di vivere.15 Decenni dopo Foa avrebbe ricordato come «la scelta della cospirazione e quindi, quasi fatalmente, del carcere» fosse stata «determinata dalla insopportabilità di una vita tutta già decisa, dal bisogno sempre più imperioso di decidere io stesso il mio futuro», e come alla in ine il fattore chiave che lo aveva spinto all’attività politica fosse stato «la cappa di noia, la coltre di stupidità», la mancanza di libertà come libera determinazione della propria vita con cui identiicava il fascismo.16 i mesi dell’impegno cospirativo, sotto il nome di Marcello, furono mesi felici: la concezione del fascismo come estremizzazione della delega portò allora Foa, già inluenzato dalle teorie di Mosca, a scoprire il valore della democrazia diretta fondata sull’autodecisione, e quindi dell’azione come soluzione anche personale. La liberazione, anche quella individuale, stava in una lotta che univa libertà e giustizia, vista come un processo derivante da scelte e che riiutava la scissione tra presente e futuro, tra mezzi e ini. anche per questo, pur cospirando contro il fascismo, Foa e i suoi compagni riiutarono di deinirsi «antifascisti; quella espressione di pura negazione ci disturbava, ci deiniva solo per negazione e disconosceva in qualche modo la nostra positività. Preferivamo deinirci postfascisti per afermare il nostro disegno per il futuro».17 in carcere egli avrebbe poi qualiicato di «piagnoni» gli intellettuali che, come Huizinga, contrapponevano alla storia, in cui bisognava vivere e agire, un modello astratto di civiltà: come gli antifascisti i piagnoni precedono i fascisti, «noi li seguiamo; non si tratta evidentemente di anteriorità o posteriorità cronologiche (vi sono piagnoni di 16 anni) ma puramente ideali; i piagnoni 11. Il Cavallo e la Torre, p. 36. 12. La «crisi fiduciaria» e gli alti salari, in «i Problemi del lavoro», 9 (1932), pp ??-??. 13. N. ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1963. 14. Riprendere tempo, p. 106. 15. C. Levi, L’orologio, Torino, Einaudi, 1950. 16. Riprendere tempo, p. 80. 17. Passaggi, p. 45. saggi 9 si lamentano del loro piccolo mondo crollato, noi facciamo nostre le esigenze che i nostri avversari si sforzano di servire e le arricchiamo di nuove (anche se eternamente nuove) più alte più complesse esigenze».18 Tra il 1933 e il 1934 Foa pubblicò con lo pseudonimo di Emiliano sui «Quaderni di giustizia e Libertà» quattro articoli dedicati all’analisi del corporativismo come ideologia di un ingannevole intervento diretto dello stato nell’economia. Vi si trovava da un lato la critica dell’incapacità del corporativismo di intaccare i principi liberisti, costituendo piuttosto uno strumento per privatizzare i guadagni e socializzare le perdite. Dall’altro, tuttavia, c’era l’intuizione del suo essere una delle incarnazioni del nesso autoritario statoeconomia prodotto dalla prima guerra mondiale. il corporativismo era quindi criticato sia per i suoi compromessi col liberismo, che per i suoi tratti illiberali. Nel 1934, dopo l’arresto di Leone ginzburg e del suo gruppo, Vittorio e Michele giua, professore universitario e padre di Lisa (1923-2005) e Renzo, sottrattosi come Mario Levi all’arresto con la fuga, presero su indicazione dello stesso ginzburg la direzione del nucleo giellista di Torino. La loro attività fu stroncata cogli arresti del 15 maggio 1935, resi possibili dalla delazione di Dino segre (in arte Pitigrilli), cugino di sion, già imprigionato nel 1934. Con Foa furono arrestati oltre al fratello Beppe e ad altri poi rilasciati o inviati al conino (tra cui Norberto Bobbio, giulio Einaudi, Carlo Levi e Cesare Pavese), Michele giua, Vindice Cavallera, Massimo Mila e augusto Monti. gli arresti furono accompagnati da una campagna antisemita – si parlò di complotto ebraico contro il regime – e Foa fu trasferito a Regina Coeli e denunciato al Tribunale speciale, che lo condannò nel febbraio 1936 a 16 anni di reclusione, scontati ino al giugno 1940 nel carcere romano. a Regina Coeli Foa trovò Bauer e Rossi, all’inizio sospettosissimi dei nuovi venuti, ma presto loro grandi amici. si formò così un gruppo di persone unite da forti vincoli umani e intellettuali che contribuirono a fare di quegli anni di carcere, segnati da grandi discussioni e dall’arrivo di libri, visite e pacchi di famiglie sempre vicine, anni di vera università, o piuttosto di una intensa Bildung testimoniata dalle più di 500 lettere spedite ai genitori e ai familiari più stretti. Tra gli autori letti e commentati si trovano economisti come Mises, Hayek, Fisher, e Pantaleoni, classici del liberalismo come Mill, e del Risorgimento come spaventa, Cattaneo, e settembrini, ma anche Croce, Omodeo, giolitti, e memorialistica politica, per esempio sulla prima guerra mondiale, i trattati e l’immediato dopoguerra. Manca invece, a eccezione di Dorso, la tradizione meridionalista, e vi è, fortissimo, il peso di Mosca, e l’analisi dei due volontarismi elitari da esso discesi, quello conservatore di Pareto e Pantaleoni, e quello di gobetti, che animava parte del giellismo come poi avrebbe animato parte dell’azionismo. Foa però non amava le idee di gobetti, al quale rimproverava la tesi che l’unico vero socialismo fosse quello sovietico, la critica radicale della democrazia rappresentativa e il culto dell’intransigenza. Egli riteneva che Carlo 18. Lettere della giovinezza, p. 425. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 10 saggi Levi gli avesse attribuito una concezione dell’autonomia che era in realtà dello stesso Levi, e avrebbe in seguito scritto che, mentre gobetti vedeva «nel popolo italiano un malato, schiacciato da mali secolari, un malato da curare», «noi vedevamo un dormiente da risvegliare e quindi un soggetto capace, se risvegliato, di condurre la propria riscossa».19 assieme ai libri arrivavano anche apprezzatissimi pacchi di cibo condiviso con gli amici, una costante questa della vita del dopoguerra. se è quindi giusto sottolineare la nobiltà del comportamento di Foa e dei giellisti in carcere, la forza morale e spirituale di cui diedero prova, non va dimenticato che le carceri fasciste erano ben diverse da quelle sovietiche o naziste, e rimasero, specie per degli appartenenti all’élite sociale del paese, un posto in cui fu possibile condurre, almeno ino al 1940, una vita umana. già nel 1938, però, le leggi razziali avevano cominciato a mutare la situazione, costringendo tra l’altro i fratelli maggiori di Vittorio, anna (1908-2006) e giuseppe (19091996), a emigrare negli stati Uniti, dove presero la cittadinanza americana. giuseppe, un ingegnere aeronautico che aveva lavorato per la Caproni e la Piaggio, fu uiciale dell’aviazione e poi professore alla george Washington University. anna si trasferì col marito, l’architetto Davide Jona, a Cambridge, Mass.20 senza l’impegno politico, e quindi l’arresto, anche Vittorio, chiamato così per celebrare la dinastia e il Risorgimento che avevano emancipato gli ebrei, sarebbe quindi probabilmente divenuto un cittadino statunitense. allo scoppio della guerra Foa fu trasferito a Civitavecchia, e poi nel maggio 1943 a Castelfranco Emilia, dove fu liberato solo il 23 agosto, quasi un mese dopo la caduta del fascismo. Recatosi subito a Torino ritrovò, assieme ai famigliari, Lisa (Lisetta) giua, con cui cominciò una storia d’amore e vita in comune destinata a durare 35 anni.21 il trentatreenne Foa non aveva allora contatti col neonato Partito d’azione (Pda), di cui aveva sentito parlare ma di cui non conosceva programmi e dirigenti. La guida del Pda piemontese fu però presto assunta dal gruppo giellista. Foa, convinto che lo stato italiano fosse crollato, in una Memoria scritta con giorgio Diena, sostenne che proprio per questo «da un punto di vista profondo e lungimirante l’occupazione è un grandissimo bene per l’italia»:22 grazie ad essa la sconitta fascista si trasformava da lutto di cui dolersi nel possibile inizio di una rigenerazione nazionale nella lotta contro l’occupante. La Resistenza cessava così di essere l’avventura inutilmente pericolosa, vista la sicura vittoria degli alleati, di cui parlava il pur amato salvemini. «Come tutte le resistenze europee» essa diventava piuttosto «lotta per riafermare l’identità nazionale contro l’Europa tedesca», in un’Europa che tornava così a essere quella delle nazioni, tranne che per la minoranza federalista, che la immaginava «dilatazione del vecchio stato 19. Passaggi, p. 8. 20. a. Foa e D. Jona, Noi due, Bologna, il Mulino, 1997. 21. L. Foa, è andata così, Palermo, sellerio, 2004. 22. Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947), a cura di a. Ricciardi, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. L; cfr. anche Lavori in corso 1943-1946, a cura di F. Montevecchi, Torino, Einaudi, 1999. saggi 11 nazionale», ma la cui inluenza sul Pda fu però «poca cosa».23 il Pda si propose così come «partito della rivoluzione democratica italiana» e Foa vide nei partigiani i quadri del «nuovo esercito volontario italiano», aiancato da una «guardia popolare» costituita dai lavoratori per difendere le loro conquiste.24 Lo scritto più importante della Resistenza è forse I partiti e la nuova realtà italiana,25 del marzo 1944, in cui, sulla scorta di Mosca e Michels e riallacciandosi all’esperienza consigliare, Foa criticava partiti e democrazia rappresentativa e auspicava che i Comitati di liberazione nazionale diventassero espressione unitaria delle autonomie e di un autogoverno delle masse costruito dal basso. Partito, consigli, e masse diventavano così i nodi di una rilessione segnata da un radicalismo talvolta ingenuo, anche per la sottovalutazione del quadro internazionale in cui si collocava la «rivoluzione democratica italiana», la cui realtà nel 1944-1945 rendeva però quel radicalismo almeno in parte comprensibile. in particolare, il quadro di progresso demograico ed economico, di cui l’Europa occupava saldamente il centro, era dato per scontato, e avrebbe continuato a esserlo ino ai dubbi degli ultimi anni. il popolo al centro di questa rivoluzione non era solo quello «lavoratore» a cui lo riducevano i comunisti. in quello stesso scritto, Foa poneva il problema dei «ceti intermedi», produttori indipendenti, impiegati, pensionati, sbandati, e contadini. Egli toccava così, almeno indirettamente, la questione meridionale e anticipava la critica di ine anni ’70 alla possibilità di fare della contraddizione capitale-lavoro il perno di un’analisi, e di una politica, tese alla liberazione collettiva. Coerentemente con queste posizioni, Foa chiese dapprima sul piano economico l’espropriazione e la gestione diretta della Fiat da parte di commissioni di tecnici, impiegati e operai «in nome della nazione», e non dei lavoratori. Forse anche a seguito delle letture del carcere, la sua attenzione si spostò però presto sulla inopportunità di un piano di nazionalizzazioni. La diferenza fondamentale, sostenne, era quella tra un’economia libera, e quindi anarchica, e un’economia guidata da piano e programmazione, non quella tra economia privata e pubblica. Questa economia guidata poteva quindi comprendere un importante settore privato, e sarebbe stata più produttiva di un’economia integralmente nazionalizzata e tesa alla completa utilizzazione delle capacità produttive del paese, che avrebbe portato all’autarchia. Come spiegò nel Piano di lavoro scritto con spinelli a ine 1944, la demolizione dell’«interventismo protettivo, corporativo e autarchico» era anzi una premessa necessaria alla costruzione del nuovo stato da sostituire al vecchio «nazionalista, prefettizio, corporativista». Certo, la presenza di un settore socialista, che servisse a mantenere la giustizia sociale convogliando verso questo scopo le risorse prese al settore 23. Il Cavallo e la Torre, p. 131; Passaggi, p. 25. 24. Scritti politici, p. LXiii. 25. I partiti e la nuova realtà italiana. La politica del C.L.N., Quaderni dell’italia libera, Partito d’azione, marzo 1944 (sotto lo pseudonimo di Carlo inverni). Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 12 saggi privato, con l’obiettivo di «abolire la miseria», era ritenuta indispensabile, ma restava la convinzione del fatto che la gestione pubblica non assicurava il corretto impiego delle risorse. Nel 1946 Foa sarebbe tornato sul problema, spiegando che la sinistra aveva poco insistito sulle nazionalizzazioni anche perché «l’esperienza fascista è stata in così larga parte dominata dalla pratica dell’intervento pubblico nella vita produttiva, che il principio della nazionalizzazione ha perduto larga parte del suo fascino tra le masse».26 Nonostante l’indubbia centralità dell’esperienza partigiana (ne Il Cavallo e la Torre il capitolo sulla Resistenza è intitolato Il punto alto) Foa non amava parlare delle esperienze vissute nel 1943-1945 tra Milano e Torino, che appaiono il culmine di quelle degli anni precedenti piuttosto che la culla di quelle future. agli amici si aggiunsero allora gli spinelli, i Venturi e Riccardo Lombardi, e ai capi giellisti Leo Valiani, che esercitò su di lui grande fascino e autorità.27 i mesi della Resistenza furono tuttavia i mesi di Lisa, partigiana comunista combattente, incinta di anna e ricoverata sotto falso nome in ospedale, arrestata dalla banda Koch e capace di sfuggire alle sue torture. il matrimonio fu poi celebrato nel 1945 da ada gobetti, vicesindaco di Torino, che spiegò che ciò era necessario per dare il cognome alla iglia anna, disconosciuta alla nascita nel 1944 per ragioni cospirative.28 alla Liberazione Foa, divenuto un importante dirigente del Pda, contribuì ad orientarne la politica in senso consigliare, indicando nei comitati di liberazione aziendali i futuri consigli di fabbrica, mentre il comitato insurrezionale rivendicava «tutto il potere al Clnai». L’esaltazione, comprensibile, della vittoria, lo portò però a sopravvalutare il ruolo delle resistenze e della «insurrezione» europea nella guerra, quasi che a sconiggere i tedeschi fossero stati i partigiani e non le truppe alleate, il cui arrivo cambiò radicalmente la situazione. Questo mutamento, derivante dall’assoluta sproporzione delle forze in campo, e dall’indiscutibile perdita di autonomia dell’italia, paese sconitto nonostante la Resistenza, fu invece interpretato come una ripresa delle forze reazionarie, capaci di far arretrare le aspirazioni al rinnovamento. il pessimismo era alimentato anche dall’incapacità di comprendere la diversità e la novità dei partiti di massa rispetto al sistema parlamentare precedente il fascismo. L’afermazione dei partiti fu quindi vista come restaurazione dell’italia prefascista, un fraintendimento che pesò sul futuro stesso del Pda, che rappresentava a suo modo esso stesso un pezzo di quell’italia, e in particolare la parte migliore della sua élite nazionale e intellettuale, come testimoniavano del resto sia il suo nome, che i suoi diicili rapporti con le «masse», tanto operaie, quanto contadine. il Partito non ebbe infatti un gruppo sociale di riferimento, temette l’inluenza clericale nelle campagne, esaltò con spinelli e Lombardi il dialogo col «popolo minuto» e le esigenze della «povera gente», e cercò con Foa di favorire l’integrazione degli ex combattenti, al contrario di quel che la sinistra aveva fatto dopo il 1918. 26. Scritti politici, p. CXXV. 27. L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, La Nuova italia, 1947. 28. a. gobetti, Diario partigiano, Torino, Einaudi, 1956. saggi 13 all’uniicazione del Pda dell’estate 1945 Foa entrò con Valiani, La Malfa, Lussu e Oronzo Reale nella nuova segreteria di un Partito che deteneva con Parri la guida del governo, ma si sentiva già in diicoltà. Queste furono confermate a novembre dalla caduta di Parri, e al congresso del febbraio 1946 dall’uscita di La Malfa e dello stesso Parri da un Partito una cui componente già guardava all’uniicazione coi socialisti. Foa era invece ostile a questa ipotesi e nel suo intervento ribadì la necessità di superare «l’antitesi tra i gruppi di interessi dotati di protezione e le grandi masse prive di protezione», che presentò come una delle caratteristiche del fascismo e che riteneva più importante di quella di classe. ad uno stato che tornasse a distribuire favori, magari anche a gruppi popolari, ne contrappose uno garante delle condizioni fondamentali della democrazia e capace di difendere gli interessi di tutta la popolazione. Di qui la proposta di una politica economica tesa al benessere popolare, che si incarnò già a maggio nella richiesta di un piano organico di lavori pubblici, che permettesse una ripresa economica capace di aiutare le masse popolari, anche attraverso una severa politica iscale che accollasse alle classi abbienti i principali costi della ricostruzione. L’impianto teorico restava quindi quello della sinistra ottocentesca, e la possibilità di un boom economico innescato dall’iniziativa imprenditoriale di massa e dall’apertura commerciale restava fuori dall’orizzonte. alle elezioni amministrative del 1946 il Pda subì una dura sconitta, confermata da quelle per la Costituente, in cui il partito raccolse appena l’1,45 per cento dei voti, eleggendo solo sette rappresentanti, tra cui Foa. alle critiche ai partiti di massa si aiancarono quelle alle masse, ad un popolo che Bauer deinì di «ignoranti presuntuosi».29 sempre sulla scorta di Michels, Foa si concentrò piuttosto sulla critica dei primi, forgiatisi centralisticamente per adeguarsi allo stato che si proponevano di inluenzare o conquistare. Egli propose di «avviare, al posto dell’antifascismo, un dopofascismo che rimescolasse le carte della politica come tecnica, partendo dai bisogni della gente», senza capire, come ammise anni dopo che l’antifascismo non era perdente, come egli credeva, ma bensì trionfante: «solo non era il «nostro» antifascismo, era quello altrettanto legittimo dei partiti di massa che noi scambiavamo per restaurazione».30 in coerenza con la sua richiesta di una politica economica popolare, subito prima dell’insediamento della Costituente, in La Costituzione e la democrazia economica Foa aveva anche proposto «la costituzionalizzazione degli obiettivi di una politica economica e sociale diretta alla redistribuzione equa della ricchezza e l’attribuzione delle relative «garanzie costituzionali» a un’alta Corte di giustizia, la futura Corte costituzionale»,31 dando così un importante contributo a quella costituzionalizzazione, e legalizzazione, 29. Scritti politici, p. CXXiV. 30. Il Cavallo e la Torre, pp. 186-87. 31. Vittorio Foa. Sindacalista, Politico, Scrittore, Roma, Fondazione della Camera dei Deputati, 2010, p. 86. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 14 saggi dei diritti economici e sociali che doveva giocare un ruolo fondamentale nella storia della prima Repubblica. alla Costituente, in cui si aggregò con Lombardi, Calamandrei, Codignola, Valiani, Lussu e altri al gruppo autonomista, si batté per la combinazione dei diritti politici con quelli economici, apertamente teorizzati come tali in I diritti economici nella Costituzione (1947). Egli avrebbe in seguito ricordato di essere stato ispirato dalla «seduzione dottrinale di completare l’ediicio dei «diritti dell’uomo» per mezzo della combinazione del diritto politico e del diritto economico, per creare una società pienamente logica e armoniosa», in cui l’autodeterminazione delle persone potesse diventare inalmente realtà,32 Questa seduzione gli impedì a lungo di vedere la diferenza essenziale tra diritti privi di costi, e quindi comunque garantibili, e «diritti» costosi, e quindi privilegio dei tempi buoni, una contraddizione peraltro già espressa da quella tra la posizione azionista favorevole alla revoca del divieto di licenziamento, per non gravare lo stato e la popolazione con la difesa di minoranze garantite, e l’emendamento presentato dallo stesso Foa alla Costituente per impegnare giuridicamente, e contraddittoriamente, sia lo stato a garantire il diritto al lavoro, sia i lavoratori al dovere di lavorare, sia i consumatori a non subire aumenti dei prezzi. Nell’autunno del 1946, la preoccupazione che le agitazioni che scuotevano il paese potessero portare a una ripetizione della tragedia del primo dopoguerra – una preoccupazione che non scontava la nuova posizione di un paese non più del tutto indipendente, e in cui gli alleati non avrebbero tollerato un ritorno al fascismo – spinse gli azionisti a chiedere al sindacato, con una lettera aperta irmata da Lombardi, di rappresentare tutto il popolo lavoratore, disoccupati compresi, e non solo gli operai. Con parole in cui risuonavano le idee che avrebbero di lì a poco ispirato la scelta sindacale di Foa di fronte alla delusione della politica dei partiti, la lettera chiedeva alla Cgil «non solo un’azione sindacale ma una politica sindacale», che la trasformasse nel «massimo organismo politico del paese». Nel 1977, in una situazione personale per certi versi simile, Foa avrebbe deinito quello del 1946-1947, segnato dalle convulsioni di un Partito in cui si era intensamente impegnato, come «uno dei periodi più torbidi della mia vita», su cui non amava sofermarsi.33 Nelle parole di Pino Ferraris, l’uscita di sicurezza, trovata nel 1948-1949, fu quella di mettere al centro del suo impegno «un sindacalismo militante e fortemente politico che fosse capace di incidere sui rapporti sociali e politici e di forzare il quadro politico con il quale si confrontava».34 Prima, però, Foa visse in pieno la crisi terminale del Pda. all’inizio del 1947 il suo gruppo dirigente, ostile alla rottura coi comunisti, respinse l’idea di lavorare con saragat nel Psli (poi Psdi), privando il nuovo Partito di quadri che potevano decidere del suo 32. Scritti politici, p. CXXXVi. 33. ibid., p. Xii. 34. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, Roma, Ediesse, 2011, p. 103. saggi 15 futuro. Foa, che Valiani riteneva allora favorevole al Pci, in cui militava attivamente Lisa, fu dapprima favorevole a un’alleanza di sinistra con Psi e Pci, ma si schierò a ottobre con la maggioranza che decise la conluenza nel Psi, osteggiata da amici come Valiani, Calamandrei, Codignola, e garosci, che guardavano con interesse alla proposta lamaliana di un partito capace di muoversi tra destra e sinistra. L’amarezza per la sconitta dell’aprile 1948, e per il sorpasso comunista nei confronti del Psi, portò gli ex azionisti a partecipare alla fondazione della corrente «Riscossa socialista» che contestava a Nenni e Morandi la subordinazione ai comunisti. La sua vittoria, che portò Lombardi alla direzione de «L’avanti» e santi alla Cgi, fu presto seguita da una sconitta resa possibile dall’apparato morandiano e dal sostegno comunista, che permisero a Nenni di riconquistare il Partito. il sindacato, ma il sindacato politico immaginato già nel 1946-1947, divenne allora la casa e il rifugio di un Foa deluso dalla politica partitica, e capace grazie ad esso di sfuggire almeno in parte alla logica di schieramento che dominò quegli anni. se Lombardi, privo di protezione, inì a dirigere il fronte stalinista dei «Partigiani per la Pace», Foa poté limitarsi a episodiche esaltazioni dello stachanovismo, ma anche per lui la parte giusta era quella dominata dai comunisti, alla cui inluenza non gli sarebbe stato del resto facile sfuggire viste le esperienze politiche e sentimentali successive al 1943. Nell’autunno 1949, eletto vicesegretario confederale e responsabile dell’uicio studi della Cgil, Foa si trasferì a Roma con la famiglia, grazie anche all’aiuto dei genitori di Lisa, mentre quelli di Vittorio ospitavano d’estate a Diano Marina i nipoti (ad anna si erano infatti aggiunti prima Renzo, 1946-2009, e poi nel 1951 Bettina). L’incontro con Di Vittorio, poi deinito un maestro, fu facilitato dalla tradizione sindacalista rivoluzionaria da cui questi proveniva. Foa e Trentin, subito chiamato a collaborare all’uicio studi, trovarono un dirigente convinto, come loro, che il sindacato non fosse «solo un soggetto sociale ma politico, libero, autonomo, democratico, non unico né obbligatorio e soprattutto unitario».35 Forse anche a causa della troppa diferenza di età, nonché sociale e culturale, Di Vittorio – che nonostante la ricchezza umana e la grande intelligenza era un ex bracciante privo di licenza elementare – non divenne un amico di una famiglia frequentata, tra gli altri, da Bruno Trentin, Luciano Romagnoli, gli steve, i giolitti, i Balbo, ada gobetti, Natalia ginzburg, Riccardo Lombardi e Fernando santi, e in seguito dagli sclavi, i giovannini e gli altri esponenti della sinistra sindacale. in casa la igura dominante era quella di Lisa, con la sua forza e i suoi giudizi taglienti, ma Vittorio, spesso in giro per l’italia, vi portava la sua energia e la sua curiosità. E se la macchina da scrivere di Lisa ticchettava nervosamente a intervalli, quella di Vittorio non conosceva soste, come se l’autore stesse copiando un testo che già esisteva nella sua testa. 35. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, p. 64. Cfr anche V. Foa, La cultura della CGIL: scritti e interventi 1950-1970, Torino, Einaudi, 1984. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 16 saggi Lisa andava costruendo più numerosi e forti contatti internazionali, dai marxisti americani Paul Baran e Paul sweezy ai dirigenti dei partiti comunisti e dei movimenti di liberazione nazionale, conosciuti anche grazie a «Rinascita» e italia-Urss, ai protagonisti della dissidenza est-europea, entrati prepotentemente in casa Foa alla ine degli anni ’60. Furono tuttavia i fratelli ormai americani di Vittorio a portare in famiglia, con le loro visite e i loro pacchi, la cultura e il nuovo modello di vita americani. «a casa – ha scritto la iglia anna – si respirava l’idea che bisognasse cercare nel passato le risposte alle domande del presente». anche se non mancavano i libri sulla Shoah, a cominciare da quelli del parente Primo Levi, si prestava tuttavia poca attenzione all’ebraismo. C’era certo la coscienza che «eravamo ebrei», testimoniata anche dall’ipotesi, probabilmente fallace, che il cognome giua di Lisa risalisse a un «giuda» di ebrei deportati in sardegna dai romani; ma Vittorio si deiniva un ebreo assimilato e «i discorsi d’identità in sé lo interessavano poco, gli sembravano banali».36 arrivato alla Cgil, Foa si occupò subito del Piano del lavoro annunciato da Di Vittorio nell’autunno del 1949.37 il piano incarnava l’idea di uno sviluppo fondato sul pieno impiego, la domanda interna, i bisogni popolari, e una forte domanda pubblica in un momento in cui il paese si stava avviando con decisione verso un boom sorretto dalle esportazioni e dagli imprenditori, grandi e piccoli, privati e pubblici. L’avvio del «miracolo economico» era però fuori dell’orizzonte di una sinistra convinta, sulla scorta delle analisi staliniane e del ricordo della crisi del 1929, che il capitalismo fosse incapace di riprendersi. Nel 1950 Lombardi commentò l’eccidio di Modena dicendo che Pella fabbricava i disoccupati e scelba li fucilava, il sindacato faceva fatica a vedere il decollo industriale nascosto dalla chiusura di alcune vecchie aziende in crisi, che sembrava confermare l’immagine di un capitalismo in crisi terminale, e ancora nel maggio 1953 lo stesso Foa sostenne che «il sistema produttivo italiano» attraversava «un periodo di stagnazione e di indebolimento dei fattori di progresso e sviluppo».38 in quello stesso 1953 Foa, che l’anno prima aveva partecipato su suggerimento di Di Vittorio alla elaborazione della proposta di uno statuto dei lavoratori che permettesse alla democrazia di entrare in fabbrica, fu eletto parlamentare per il Psi, un mandato rinnovato nel 1958 e poi ancora nel 1963. il suo anticonformismo, vivo anche in quegli anni, è testimoniato dalla risposta che diede all’associazione nazionale dei perseguitati politici antifascisti, che gli aveva chiesto perché non si fosse iscritto, visto che era stato tanto perseguitato: «Qui c’è un equivoco – replicai – io non sono stato perseguitato, ma ho perseguitato il fascismo, tanto che è stato costretto a mettermi in galera».39 Esso emerse 36. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, pp. 118-19. 37. Il piano economico della CGIL per il risanamento dell’economia nazionale, Conferenza tenuta al cinema-teatro Carcano, Milano, Camera del lavoro, 1949. 38. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 97. 39. Passaggi, p. 112. saggi 17 anche di fronte alla prima difusione dell’automobile in italia, presentata da larga parte della sinistra come un’imposizione del Capitale, e lodata da Foa come una conquista del diritto individuale alla mobilità. Dietro vi era il suo amore per i viaggi, anche in treno, eredità degli anni passati in una cella, ma anche la capacità – forse inluenzata dai racconti dei fratelli americani – di intravedere il «nuovo» volto del capitalismo. Prima della scoperta del «neocapitalismo» vi fu però l’esperienza della sconitta della Fiom nelle elezioni del 1955 per le commissioni interne alla Fiat. Di Vittorio rispose con una autocritica coraggiosa – la colpa era del sindacato, non degli operai che la Cgil non conosceva più – avviando così una nuova stagione sindacale basata sulla scelta di ripartire dalla condizione operaia e dalla contrattazione aziendale, anche per riafermare l’autonomia e l’unità sindacale. Foa, che si portò dietro Trentin, fu allora mandato con agostino Novella a dirigere la Fiom, che orientò in base all’idea che fosse necessario non tanto il ritorno in fabbrica, ma capire cosa essa era diventata in modo da poter dare nuove basi all’iniziativa operaia. La Fiom abbandonò così la linea centralista, scelta nel dopoguerra per «il giustiicato timore di ricadere nelle vecchie collusioni riformiste e corporative» in caso di apertura agli accordi locali. Come Foa notò nel 1958, quella politica aveva però ancorato i salari al livello consentito dalle imprese marginali, favorendo l’accumulazione capitalistica.40 alla Fiom Foa restò solo due anni, ino alla morte di Di Vittorio nel 1957, ma l’impulso che gli diede fu suiciente a lanciare il ripensamento della sinistra sulla realtà del capitalismo, che ebbe luogo tra il dibattito del 1956 su Lavoratori e progresso tecnico e il convegno del gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano del 1962, segnato da una relazione di Trentin sulle dottrine neocapitalistiche.41 soprattutto, come Foa ricordò nel 1983, la svolta del 1955 capovolse «la legittimazione dell’azione operaia», che non era più fatta dipendere dall’organizzazione e dalla politica, ma saliva dalla classe.42 Egli si avviava così a diventare, anche in base alle rilessioni gielliste sul valore della scelta individuale e dell’autodecisione, il teorico dell’autonomia operaia, una posizione che gli diede grande visibilità nella nuova sinistra che stava allora emergendo anche grazie alla denuncia chruščëviana dei crimini di stalin al XX congresso del 1956. i Foa sostennero la svolta sovietica, che spinse Lisa ad un’analisi sempre più critica di una realtà che del resto lei e Vittorio avevano già conosciuto attraverso i racconti dei Venturi, all’inizio tacitati con la necessità di non aprire spazi al «clerico-fascismo». il XX congresso, così come la svolta della Cgil, sembrarono invece aprire una stagione segnata dalla ricerca di un nuovo socialismo, tanto radicale quanto distante dalla fallimentare esperienza bolscevica. Questa ricerca si incarnò allora nel «Mondo operaio» di Raniero 40. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 95. 41. La CGIL di fronte alle trasformazioni tecnologiche nell’industria italiana (con B. Trentin), in Lavoratori e sindacati di fronte alle trasformazioni del processo produttivo, Milano, Feltrinelli, 1960. 42. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 100. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 18 saggi Panzieri, un romano di famiglia ebraica convertita, per anni dirigente del Psi in sicilia, arrivato a Torino sull’onda dei mutamenti di quegli anni. il rinnovamento socialista si manifestò al congresso socialista di Venezia del 1957, in cui Foa riportò alle elezioni per il Comitato centrale più voti di Nenni, accusato ora di aprire ad un accordo con la Dc, giudicata dalla sinistra – in linea con l’analisi «clericofascista» e nonostante il riformismo fanfaniano – un partito conservatore se non reazionario. Nenni, sconitto dai quadri ancora legati al Pci, aveva però vinto politicamente il congresso, e riuscì presto a riprendere il controllo del partito. gli spazi per dirigenti come Libertini, autore con Panzieri delle Tesi sul controllo operaio, Lelio Basso e Vittorio Foa rimasero tuttavia molto ampi. Foa, portato alla ine di quello stesso 1957 da Novella nella segreteria della Cgil, pubblicò a maggio su «Mondo operaio» un articolo, intitolato da Panzieri Il neocapitalismo è una realtà, con cui assumeva la guida intellettuale della nuova sinistra sindacale per la sua capacità di guardare in faccia la realtà che il boom economico andava disegnando, e per i duri attacchi subiti per questo dalla stampa economica comunista, che ancora negava l’evidenza e si attardava a parlare di crisi.43 Negli anni successivi Foa e Panzieri avrebbero continuato a collaborare, prima nella corrente «sinistra socialista», fondata nel 1959, e poi in «Quaderni Rossi», che aprì nel 1961 il suo primo numero con un editoriale dello stesso Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, che ne allargò la fama negli ambienti anche internazionali della nuova sinistra.44 L’esaltazione della centralità della fabbrica e dell’iniziativa degli operai, presentati come la nuova elite capace di sconiggere il neocapitalismo, era infatti al tempo stesso la ripresa del tema, che afascinava Foa sin dalla giovinezza, della possibilità della «costruzione dal basso di un nuovo ordine, come controllo e autogoverno», ma anche la base per la critica agli schemi ideologici e politici della sinistra tradizionale, nonché per quella alle ideologie sociologiche che predicavano la ine delle ideologie e quindi della possibilità dell’alternativa.45 Nella testimonianza di chi gli era vicino, Foa era allora un dirigente diverso dall’essere saggio e comprensivo delle ragioni degli altri che ha conosciuto chi l’ha frequentato negli ultimi trenta anni della sua vita. Come ha ricordato Epifani era piuttosto «un uomo duro, rigoroso, spesso spigoloso», chiamato dai compagni «Vittorio Foa-serpente Boa» per il suo tatticismo astuto e la sua capacità di attacco, anche personale, e tale lo rivelano i ilmati delle prime Tribune politiche.46 Tesi, oltre che con gli autonomisti nenniani, o con personaggi come Pertini, erano i suoi rapporti con Lelio Basso, che Foa non amava anche perché le sue radici radicali, 43. Il neocapitalismo è una realtà, in «Mondo operaio», 5 (1957), pp. ??-??. 44. Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, «Quaderni Rossi», 1 (1961) pp ????. 45. Passaggi, p. 83. 46. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, p. 32; Intervista di P. Ferraris a chi scrive, Roma, 20 gennaio 2012. saggi 19 liberali e ilo-risorgimentali erano in contrasto col dogmatismo marxista e internazionalista di Basso. Ma tesi divennero, nonostante la vicinanza, anche i rapporti con Panzieri. alla radice del dissidio vi era il diverso peso assegnato dai due al partito (prevalente per Panzieri, che vedeva nel rinnovamento sindacale uno strumento per ricostruirlo) e al sindacato, che era invece per Foa, almeno dalla ine degli anni ’40, il soggetto principale dell’azione politica, e che doveva semmai essere a sua volta ricostruito dall’azione diretta operaia. Non a caso il conlitto fu innescato dal giudizio da dare sugli scontri del luglio 1962 a Piazza statuto, che la Cgil e il Pci denunciarono come teppismo antioperaio. Panzieri, pur non portandone la responsabilità, aveva cercato di comprendere le ragioni dei loro protagonisti, e aveva criticato il sindacato, una critica che Foa aveva mal sopportato. La prematura morte dell’amico, ridotto alla miseria dopo il licenziamento da parte dell’Einaudi, causato dalla sua difesa dell’inchiesta di gofredo Foi sugli immigrati a Torino – altro motivo di scontro col Pci, la Cgil e la Fiat – impedì la riconciliazione, e fu motivo di amarezza per Foa, che si sentì in qualche modo corresponsabile della condanna e quindi dell’isolamento di Panzieri. Foa, che grazie al sindacato aveva scoperto il Meridione, visitato in gioventù solo per una spinosa questione di recupero crediti, appoggiò la svolta operata dalla Cassa per il Mezzogiorno nel 1959 in favore di investimenti industriali spesso aidati all’industria di stato. Come dichiarò nel 1961, «giustamente i sindacati hanno deciso di appoggiare [il piano della Finmeccanica, poi alfasud] perché è meglio avere una fabbrica sbagliata piuttosto che nessuna fabbrica», e perché ogni nuova fabbrica era un potenziale centro di forza politico-sindacale oltre che occupazionale.47 Certo, Foa vide pure, e denunciò, lo sperpero legato al nuovo interventismo, che produceva nuovi tessuti clientelari, ma l’ideologia dello stato come principale agente di modernizzazione e trasformazione, ben radicata nel gruppo fanfaniano, era allora patrimonio comune di gran parte del gruppo socialista e dei più cari amici di Foa, a cominciare da giolitti e Rossi, che si stava battendo per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Come Foa avrebbe poi notato, stava allora sorgendo a sinistra una nuova concezione del riformismo. Un tempo quest’ultimo era stato sinonimo di gradualismo: il riformista aveva gli stessi obiettivi del rivoluzionario, ma si proponeva di raggiungerli gradualmente, col consenso. Ora, anche per distinguersi dal comunismo, e dallo stalinismo, il riformismo si identiicava con la conquista e l’uso dello stato per raggiungere una società del benessere resa possibile dai dividendi del miracolo economico: l’obbiettivo inale dei riformisti diventava così diverso da quello dei rivoluzionari, e in nome di ciò diventava possibile combattere una battaglia per l’autonomia dei socialisti dai comunisti. La speranza si sarebbe poi rivelata fallace, anche perché la costruzione dello stato del benessere di fatto assecondava la strategia del Pci, che poteva giocare di posizione denunciando l’incoerenza e i ritardi del riformismo e proponendosi come unico vero riformismo radicale possibile, 47. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, pp. 156-158. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 20 saggi e unico partito davvero capace di soddisfare i bisogni popolari. a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, essa era tuttavia viva, e si incarnava naturalmente nell’ipotesi del centrosinistra. Dopo aver votato nel 1962 per il programma economico presentato da Lombardi al Comitato centrale e per il governo Fanfani, che il Psi appoggiò dall’esterno, Foa e i sindacalisti della sinistra socialista si schierarono però contro il centrosinistra in nome di un socialismo libertario e radicale che fosse al contempo contro il capitalismo e il comunismo ilosovietico. Essi costituirono così uno dei pilastri della scissione del Psi e del neonato Psiup. Foa ricordò in seguito «la gioia e il senso di liberazione» che, caduti i vincoli comuni, accompagnarono la scissione: Nenni ne fu felice perché acquistava la libertà di impegnarsi nel centrosinistra, i suoi nemici perché si sentivano liberi di impegnarsi nel loro progetto di trasformazione. il problema che la scissione potesse rilettersi negativamente sull’agognata unità sindacale era superato pensando che quest’ultima non dipendeva da quella dei partiti, ma piuttosto dalla stessa azione operaia e sindacale.48 il Psiup ebbe però vita breve e diicile. Nel 1968 esplosero le contraddizioni tra la sua ala ilosovietica, che appoggiò l’invasione di Praga, e l’anima libertaria, cui apparteneva Foa, che in quei mesi fu forse l’unico importante dirigente dell’antifascismo preresistenziale a schierarsi con i movimenti giovanili, che cari amici come Venturi e Mila condannavano, denunciandone l’intolleranza, l’incultura, l’ideologismo e la violenza. a Foa, che lo pregava di non fare come i vecchi garibaldini che avevano con asprezza ricordato ai giovani socialisti che i veri rivoluzionari erano loro, Mila rispose con l’apologo del capitano schoenberg, genio innovatore nella musica, ma serissimo uiciale quando le circostanze lo richiedevano. Tuttavia Foa – che anticipando le decisioni della Cgil sulla incompatibilità della cariche non si era presentato alle elezioni politiche – continuò a spendersi per il dialogo con gli studenti e i gruppi estremistici da essi sorti, subendo il fascino della loro energia. Lo fece però difendendo la Cgil, come testimoniò nel 1969 la normalizzazione da lui imposta allo Psiup di Torino, diretto da Pino Ferraris, che costrinse a dare la dimissioni da segretario di una federazione che aveva tra i suoi militanti molti dei futuri dirigenti di Lotta Continua, come Luigi Bobbio o guido Viale. Per motivi simili, vale a dire la supremazia del sindacato sul partito, l’anno prima Foa aveva salvato Vecchietti al congresso di Napoli, spiegando, a chi l’aveva criticato, che per lui le cose importanti erano il sindacato, l’unità sindacale e il risveglio operaio: il Psiup contava solo per garantire le posizioni dirigenti della sinistra sindacale nella Cgil. al congresso della Cgil del luglio 1969, alla vigilia dell’autunno caldo, Foa – impegnato nella battaglia per la riforma delle pensioni e contro le gabbie salariali – fu uno dei più convinti sostenitori dell’unità sindacale. il suo applauditissimo discorso contribuì a superare le prudenze di Novella e Lama, eletto segretario generale al congresso successivo del settembre 1970. Fu qui che Foa, sessantenne, annunciò il suo distacco da un sinda48. Riprendere tempo, p. 116. saggi 21 cato cui restò però legato. Motivò la scelta con l’età e ragioni di salute, ma anche con il bisogno di nuovi dirigenti – come giovannini, che prese il suo posto in segreteria – creato dall’apertura di una nuova fase. Non era certo sua intenzione dedicarsi al lavoro di partito, ma l’abbandono delle cariche sindacali avrebbe segnato l’inizio del suo ritorno dopo vent’anni alla politica attiva. Partito con Lisa per un viaggio in sicilia, egli pensava allora di inaugurare un nuovo ciclo della sua vita, dedicato allo studio della storia, da sempre una delle sue passioni e di cui il contributo alla Storia d’Italia Einaudi sulle lotte operaie e sindacali in italia fu uno dei primi frutti. Vi si leggeva tra l’altro che «in dai loro inizi [esse] presentano forti elementi di autonomia, non seguono passivamente né le leggi del mercato né la disciplina politica, ma si costruiscono sull’autocoscienza della condizione di lavoro e dei bisogni».49 L’obiettivo polemico era lo schema leniniano del partito-intellettuale che porta dall’esterno coscienza di classe e luce politica alle lotte operaie, nelle cui virtù era riposta completa iducia, facendo del mito operaio e della spontaneità operaia una sorta di riproposizione, in forma estrema, della teoria dell’uomo naturalmente buono, chiamato a liberare il mondo. La risonanza di queste tesi nell’italia dei primi anni ’70, in cui «quando si muoveva la Fiat, o l’alfa Romeo, o Porto Marghera, l’impatto politico generale era immediato…e il comportamento delle grandi fabbriche pesava sulla sorte dei governi»,50 fu enorme, e il Foa che salutava in nome dei bisogni la rottura del rapporto tra paga e rendimento raforzò la sua posizione di teorico principale dell’autonomia operaia. in suo nome egli giunse a criticare aspramente lo statuto dei Lavoratori, varato dal suo vecchio compagno Brodolini, e da lui stesso auspicato venti anni prima, non tanto per i limiti posti alla sua applicazione quanto per l’ostilità alla regolamentazione per legge del conlitto e a ogni forma di concertazione sociale. Totale fu, al contrario, l’appoggio dato ai consigli di fabbrica, in cui Foa vide un nuovo e importante esperimento di democrazia diretta, e di cui il suo amico Trentin fu il dirigente sindacale di riferimento. Ma se questi vi vedeva le istanze di base di un nuovo sindacato unitario, Foa rivendicò la loro autonomia anche rispetto al sindacato, scorgendovi i «soggetti di un nuovo movimento di massa, tra il sindacale e il politico», proiettato all’esterno della fabbrica. Egli superava così i dubbi già espressi su un modello sistematico di democrazia diretta. Fu questa la fase più estremista della vita di Foa, trasportato dalle lotte operaie e sindacali, e cieco di fronte alla realtà di fabbriche e di un paese dove la produzione diventava sempre più diicile e in nome dei bisogni del presente si comprometteva il futuro. Un’esaltazione simile, anche se non portata agli stessi estremi, contagiava del resto tutti 49. Sindacati e lotte sociali, in Storia d’Italia, vol. 5, I documenti, tomo ii, Torino, Einaudi, 1973. Cfr anche Sindacati e lotte operaie. 1943-1973, Torino, Loescher, 1975. 50. Riprendere tempo, p. 14. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 22 saggi i dirigenti sindacali, da Trentin a santi, nonché politici come Lombardi, convinti che i quadri operai del 1969 fossero l’incarnazione di speranze lungamente coltivate. Le basi delle scelte di Foa emergono con chiarezza dai suoi ricordi sull’inizio del lavoro per La Gerusalemme rimandata, lo studio dedicato agli operai inglesi del primo ’900 avviato con dei soggiorni estivi a Londra. Come Foa stesso avrebbe poi detto a Carlo ginzburg, il libro, poi terminato come rilessione su una sconitta, era stato concepito come testimonianza di vittoria: nel 1974 la storia inglese del 1910-1914 lo «entusiasmava» perché era «la presa di possesso da parte della classe operaia del suo destino»,51 qualcosa di simile a quanto era appena accaduto in italia. Foa ne vedeva la causa nella capacità dei vecchi operai qualiicati, attaccati dal capitalismo, di reagire superando il loro corporativismo e assumendo la guida dei nuovi lavoratori non qualiicati, ponendo così le basi di una controfensiva.52 Le sue teorie sull’autonomia operaia, e su quella del salario dalla produttività, contenute in un articolo apparso nel 1971 su «giovane critica»,53 attirarono l’attenzione dei giovani economisti della neonata Facoltà di Economia di Modena, seguaci di Marx, Kalecki, srafa e Keynes e che facevano «riferimento al sindacato, e in particolare alla sinistra sindacale», rappresentata prima da Fiom e Fim, e poi dalla Flm. Un anti-determinismo poggiato su basi operaiste ne costituì il principale terreno di convergenza con Foa, ma gli economisti modenesi propugnavano idee e teorie condivise anche da settori centrali della sinistra politica e intellettuale: di salario «variabile indipendente» parlava anche Lama ed economisti come sylos Labini o graziani sostenevano che l’inlazione non era provocata da fattori monetari e creditizi, ma aveva la sua causa nell’impresa capitalistica, cui era assegnata una centralità – rispetto al ruolo dello stato – che rispecchiava in qualche modo quella riconosciuta alla classe operaia. L’inlazione era quindi giudicata un fenomeno sociale, prodotto dallo scontro tra capitale e lavoro per la distribuzione del proitto, contro il quale si poteva e doveva lottare politicamente. Come scrisse Foa, «la lotta per l’aumento dei salari e per la difesa di tali aumenti assumeva inevitabilmente un signiicato non più solo sindacale ma politico… La resistenza padronale sarà al fuoco bianco e l’apparato repressivo dello stato sarà al suo servizio».54 a Modena, dove era già iscritta la iglia Bettina, furono organizzati nel 1973 e 1974 due brevi corsi di economia, intitolati L’attuale situazione economica e le scelte di fronte al movimento operaio, tenuti da Vianello, Brusco, Biasco, andrea ginzburg, salvati, Mottura e Foa, e rivolti a militanti e potenziali studenti, e l’Università fu aperta alla esperienza delle 150 ore intanto si era consumata la crisi dello Psiup il cui gruppo dirigente, dopo la sconitta alle elezioni del 1972, entrò in maggioranza nel Pci. insieme ad altri leader della si51. V. Foa e C. ginzburg, Un dialogo, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 19. 52. La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento [1981-1985], Torino, Rosenberg & sellier, 1985. Cito dalla seconda edizione, introdotta da P. Ferraris, Torino, Einaudi, 2009, p. iX. 53. Alcune indicazioni per una lotta politica sul salario, in «giovane critica», 27 (1971), pp???. 54. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, pp. 119 ss. saggi 23 nistra sindacale della Cgil, della Cisl e del Movimento politico dei lavoratori, Foa fondò invece il Partito di Unità proletaria, il Pdup. il progetto era di sostenere la costruzione dal basso di un’unità operaia che avrebbe potuto porre le basi per un governo delle sinistre imposto dalle lotte anche alle leadership dei partiti tradizionali. Nel 1974 il Pdup si unì, sulla stessa linea, col «Manifesto», aggiungendo al suo nome un «per il comunismo» che Foa osteggiò fortemente. il progetto restava il medesimo, ma aveva subito una profonda trasformazione: per una parte del gruppo dirigente del Pdup nel 1972-1973 l’iniziativa operaia aveva subito una sconitta sociale; il governo delle sinistre era così diventato l’opzione per rimediare politicamente, proittando dell’onda lunga delle lotte degli anni precedenti, a una situazione non più positiva, rivitalizzando un movimento che si credeva messo in diicoltà dalla riconquista del controllo padronale sul lavoro e il tempo operaio.55 Nel 1974-1975, tornato anche per questa via alla politica, Foa credette fortemente a questa ipotesi, e ritenne il «governo delle sinistre imposto dalle cose, dalla convergenza tra crisi economico-sociale e la «insanabile crisi della DC»», nonché dalla necessità di uscire dal «regime democristiano».56 sul piano economico questo governo avrebbe dovuto mirare a uno sviluppo simile a quello immaginato nel 1949-1950 col Piano del lavoro, al quale la Facoltà di Economia di Modena dedicò nel 1975 un convegno ispirato e animato da Foa,57 ma ora temperato dalla coscienza di preservare la parte internazionalizzata dell’economia italiana. Foa aderì perciò alla proposta di Lombardi, che immaginava una economia italiana a due settori: il primo ad alta produttività e intensità di capitale, teso alle esportazioni, e il secondo ad alta intensità di lavoro, chiamato a soddisfare i bisogni collettivi interni. si contribuiva così al raforzamento negli anni successivi di quel settore protetto, in larga parte costituito da imprese e servizi pubblici, e incaricato di assorbire la forza lavoro liberata dalla ristrutturazione delle imprese private, che ha avuto una parte non indiferente nella crescita del debito pubblico tra il 1975 e i primi anni ’90. alle elezioni del 1976 Foa, eletto a Milano e Napoli, si dimise a favore di silverio Corvisieri, di avanguardia operaia, e Mimmo Pinto, di Lotta continua, una scelta che fu criticata, provocandogli amarezza. soprattutto, il recupero democristiano, la polarizzazione dell’elettorato tra Dc e Pci e i passi in direzione di un accordo tra i due partiti maggiori posero ine alle sue speranze, accentuandone il pessimismo. si raforzò la sensazione che fosse in corso «una rivincita provvisoria del capitale»,58 ma col tempo Foa avrebbe modiicato questo giudizio, vedendo negli anni ’70 piuttosto Il declino, intellettuale e teorico, della sinistra, che è appunto il titolo dato ne Il Cavallo e la Torre al capitolo su 55. R. Pellegrini, g. Pepe (a cura di), Unire è difficile. Breve storia del PdUP per il comunismo. Colloqui con Foa, Parlato e Pintor, Roma, savelli, 1977. 56. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 105. 57. F. Vianello (a cura di), Il Piano del Lavoro della CGIL, 1949-1950, Milano, Feltrinelli, 1978. 58. Passaggi, p. 29. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 24 saggi quel decennio, aperto da un interrogativo sulle ragioni del quasi completo oblio personale dell’attività politica che lo aveva contraddistinto . Era un oblio legato anche a un’insoferenza che fu subito presente, e si manifestò nella sensazione di non riuscire a capire cosa stesse succedendo. Foa dapprima rispose rifugiandosi in una crescente radicalità del linguaggio, che lo lasciava però insoddisfatto. Negli anni ’90, accusato di non discutere a suicienza di quel decennio anche a causa della vergogna provata per il suo estremismo di allora, egli si chiese i perché del silenzio, che imputò in parte a una ragione «strettamente personale. si chiudeva una fase lunga e importante della mia vita, quella che mi era sempre apparsa come uno sviluppo logico dell’impegno politico e morale della mia giovinezza. Vivevo male quella crisi, non ero capace di governarla, mi sembrava inisse un intero mondo con tutte le sue presenze e le sue voci», a cominciare da quella della moglie Lisa, con cui si stava consumando una rottura dolorosa.59 Da un certo punto di vista vi è quindi un parallelismo tra gli anni del dopoguerra e gli anni ’70, entrambi periodi vissuti e sentiti come «oscuri», e di cui Foa non amava parlare, ed entrambi segnati da una crisi che avrebbe generato, anche grazie all’intensità con cui fu vissuta, una nuova stagione di vita. Ma non vi è dubbio che la seconda crisi fu più profonda della prima, e quindi motivo di una rinascita per certi versi più radicale. L’anno chiave fu il 1977. Nel 1976, sotto il peso intellettuale e morale della contestazione femminista alla logica operaista, si era sciolta Lotta continua, in cui militava la moglie Lisa, il cui rapporto con Foa stava per disgregarsi. il consueto soggiorno londinese, usato anche per lavorare alla Gerusalemme rimandata, ebbe luogo, ma i «rapporti erano già tesi ed eravamo quindi tristi». il ricordo della solidarietà ancora esistente gli sarebbe poi stato tuttavia caro, specie nel 1978 e 1979, quando, dopo una rottura dovuta anche ad un suo nuovo legame sentimentale, Foa dovette «andare a Londra da solo», passando «mesi orribili», che gli impedirono per molto tempo di tornare in inghilterra.60 La ferita era profonda, e agli amici il Foa del 1980, su cui pesavano interrogativi politici, intellettuali e ideali radicali, apparve turbato e colpito, anche isicamente. Quegli interrogativi, che egli si pose con forte anticipo, erano frutto della sua ansia controllata e intelligente, che lo spingeva a porsi sempre nuove domande e a guardare incessantemente al futuro, facendogli acquistare virtù quasi profetiche. Con Carlo ginzburg, che lo interrogò nel 2003, egli fu netto: il suo ripensamento di allora aveva poco a che fare col caso Moro o il terrorismo, giudicabili e condannabili anche da una prospettiva politica tradizionale di sinistra.61 Come aveva già scritto ne Il Cavallo e la Torre, i fattori fondamentali erano stati piuttosto il femminismo e i nuovi movimenti del 1977. Come il gruppo dirigente di Lotta continua, Foa aveva infatti compreso che il primo recideva 59. Passaggi, p. 28. 60. Passaggi, p. 60. 61. Un Dialogo, p. 21. saggi 25 le radici teoriche dell’ipotesi che aveva aidato l’intelligenza della realtà, nonché le prospettive della liberazione collettiva, all’evoluzione del rapporto capitale-lavoro. La «classe operaia» cessava di essere classe portatrice di interessi generali, e quindi capace di «liberare tutti». il colpo, per il maggiore esponente dell’operaismo italiano, fu durissimo, e fu raddoppiato dalla contestazione ai sindacati dei giovani del 1977, che segnò «la sconitta dell’operaismo vincente nel 1969».62 già nel febbraio 1977, il giorno prima degli scontri con Lama alla sapienza, Foa aveva passato in rassegna le «false certezze» che si erano «polverizzate nell’ultimo anno», in cui era maturata la crisi della sinistra extraparlamentare, si era incrinato il mito della centralità operaia, era crollato il «vecchio dogmatismo marxista-leninista» ed erano tramontate le speranze relative a una precipitazione a breve degli equilibri socio-politici, all’impossibilità di una «stabilizzazione capitalistica» gestita in collaborazione con la sinistra e alla rapida maturazione di uno schieramento di sinistra alternativo alla Dc.63 Riallacciandosi alle idee del dopoguerra, Foa propose al sindacato di occuparsi non solo del pezzo centrale della classe operaia, ma di aprirsi ai movimenti dei giovani e delle donne, ponendosi l’obiettivo di organizzare anche il secondo mercato del lavoro, quello degli strati sociali deboli e marginali, riiutando la chiusura all’interno dell’area garantita della classe operaia e la serrata in difesa dei suoi privilegi. se insomma nel 1955 l’imperativo era stato quello del ritorno alla fabbrica, ora esso si trasformava nel suo contrario.64 Nel 1978, criticando la svolta di Lama del 1978, Foa ribadì le sue idee notando come, battendosi per il posto di lavoro, l’organizzazione operaia si stava riducendo a strumento in difesa di chi era già occupato, emarginando i lavoratori instabili e precari. il 1979 fu l’anno della svolta. a marzo il congresso del Pci, preso atto del fallimento della solidarietà nazionale, si rinchiuse in una politica di immobilismo identitario. alle elezioni politiche di giugno il partito perse il 4 per cento dei voti, con un’emorragia più forte alla Camera che al senato, e quindi tra i giovani. Quell’estate, a Londra, seguendo la vicenda contrattuale dei metalmeccanici Foa ebbe «la coscienza chiarissima del fallimento»,65 poi portata all’attenzione generale dalle vicende della Fiat del settembreottobre 1980, che segnarono la sconitta della generazione dei delegati operai nata dalle lotte del 1968-1969. Ma già alla ine del 1979 un Foa personalmente, politicamente e intellettualmente scosso, aveva deciso di rispondere alla crisi «con il silenzio. Decisi di tacere per quattro anni e ci riuscii».66 Come ha scritto Pietro Marcenaro, che gli era allora vicino e aveva da poco scelto di lasciare le cariche sindacali e entrare in fabbrica, convinto che si fosse «alla ine di una fase, che troppe cose stessero cambiando e che si dovessero 62. Il Cavallo e la Torre, p. 304. 63. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 106. 64. Ferraris, Introduzione a La Gerusalemme rimandata, p. XiV. 65. Un dialogo, p. 21. 66. Passaggi, p. 104. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 26 saggi abbandonare categorie e strumenti del passato»,67 quel silenzio politico sarebbe diventato l’incubazione di una «fantastica vecchiaia» durata 30 anni, e resa possibile proprio da quell’atto radicale di rottura e rinascita.68 all’inizio esso coincise però con una tempesta, causata dalla «vastità della devastazione delle lunghe certezze della mia vita», che lo portò a vagabondare per le case degli amici, a temere per la sua capacità di avere un futuro, e a mettere in questione la stessa possibilità di continuare a spendersi nell’azione.69 anche per questo lo studio della storia e la rilessione storica, da sempre amati, gli apparvero come un appiglio sicuro nelle incertezze del presente, raforzando la già ricordata idea che bisognasse cercare nel passato le risposte alle domande del presente. Era una reazione simile a quella di altri intellettuali militanti, tra cui molti amici di giustizia e Libertà nel dopoguerra, e di dirigenti politici americani ed europei che amici sarebbero diventati, come E.P. hompson e David Montgomery, dopo la scossa del 1956. allo studio degli operai inglesi si era già aiancato quello dei Fasci siciliani, e proprio dagli studi di hompson Foa prese una categoria, quella di «tempo», che gli parve per alcuni anni il concetto capace di ridurre di nuovo tutto a unità, sostituendo l’ormai improponibile «centralità operaia». Come sapeva dalla sua attività sindacale, il tempo era infatti centrale sia per gli operai, che per le donne e i giovani, e puntare su di esso sembrava rendere possibile il superamento della visione del lavoro come valore fondante. Di questa possibilità egli aveva già parlato nel dicembre 1977, e poi di nuovo in uno dei suoi ultimi interventi politici prima del silenzio. Dopo aver ricordato il diverso atteggiamento verso il lavoro di giovani e donne, Foa parlò della necessità di superare la issazione sul lavoro, tornando alla «formula di un lavoro proporzionato al salario di cui si ha bisogno», presentata come «riconquista, aggiornata alle condizioni moderne…, della cultura popolare precapitalistica», così come essa era stata immaginata da E.P. hompson. Foa anticipava così la révolution du temps choisi proposta dai sociologi francesi e sostenuta da Delors nel 1980,70 in un’Europa che, illusa da secoli di dominio mondiale e decenni di boom economico e demograico, riteneva di aver raggiunto, e per sempre, un livello di ricchezza tale da garantire a tutti un decente minimo vitale fatto di casa, salute e salario garantito, indipendentemente da un lavoro che si sarebbe quindi potuto scegliere liberamente in base alle esigenze individuali. Era una specie di mini-comunismo legato alle utopie di William Morris, e assai costoso, ma che decine di milioni di persone ebbero allora la fortuna di vivere prima della crisi iscale e debitoria cui esso non fu estraneo. Nel 1980, nella prefazione a una raccolta di suoi scritti sulla storia del movimento operaio, citando ancora una volta E.P. hompson, Foa vantava il possibile «contributo 67. Riprendere tempo, p. 5. 68. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, p. 38. 69. V. Foa con a. Pesce, La politica e la persona [1983], in «inchiesta», 71/72 (1986), pp. ??. 70. Ferraris, Introduzione a Gerusalemme rimandata, p. XVi. saggi 27 della storia sociale nella ricerca di vie d’uscita dalla crisi di un movimento operaio che, bloccato nei dogmi ideologici e chiuso nelle istituzioni, non è in grado di leggere» e interpretare la realtà.71 si trattava di una visione della storia sociale molto vicina a quella ormai da qualche anno dominante a livello internazionale, forte di una chiara ed esplicita ispirazione (e aspirazione) politica. Questa storia sociale non era perciò in contrapposizione con quella politica: prendeva anzi le mosse dalla politica per tornare ad essa, arricchendola di uno studio della società capace di ridare verità e contenuto ai suoi ormai vuoti e ripetitivi concetti. Tuttavia, la sinistra storiograica italiana, impegnata sul fronte di una storia sociale diversa da quella praticata da Foa, ma anche da hompson, Montgomery o Lewin, non amò la sua proposta. Nel 1981 «i giovani storici di sinistra» del comitato editoriale della Rosenberg & sellier (giovanni Levi, gian giacomo Migone, angelo Pichierri e l’economista andrea ginzburg) sollevarono «obiezioni, riserve, resistenze al manoscritto della Gerusalemme rimandata», il frutto più importante della produzione storiograica di Foa.72 Essi in particolare rimarcarono che il testo «ingeva di essere un libro di storia», mentre era piuttosto un documento di rilessione, anche autobiograico, di tipo politico,73 vale a dire precisamente quel che erano, sia pure in modo storiograicamente più «professionale», anche opere di autori come Montgomery o Lewin (penso in particolare a Worker’s Control in America, o ai saggi di Lewin su stalin in Storia sociale dello stalinismo). il libro fu poi pubblicato, in una versione radicalmente rimaneggiata, nel 1985, con una dedica «a Renzo giua, capitano delle brigate internazionali, caduto a 23 anni nel febbraio 1938 sul fronte dell’Estremadura», che confermava la continua presenza dei giua nella sua vita. Esso non ebbe successo, e passò quasi inosservato: la storiograia sociale italiana rimase fredda di fronte a un testo che ragionava del tramonto del movimento operaio e delle speranze ad esso legate, costringendo a fare dei conti che pochi avevano voglia di fare. Esso però pose le basi alla rinascita, intellettuale e politica, di Foa, che lo considerò sempre il suo libro più caro, anche perché era stato il più tormentato. sempre nel 1981 Foa e Pietro Marcenaro decisero di scrivere insieme un librointervista in cui era il vecchio a porre al giovane domande che avevano al loro centro la percezione del tempo e la diferenziazione delle classi lavoratrici. Nella sua postilla, Foa tornava sulla «tempesta» in cui viveva e che investiva «strumenti di analisi, modelli culturali e progetti di trasformazione praticati per decenni (marxismo, socialismo)». Egli parlava anche del suo «bisogno di salvare dalla liquidazione quello che del mio passato sembra a me un nucleo coerente». Per farlo, aggiungeva, occorreva «interrogare il passato e veriicarne la continuità col presente», nonché aprirsi al confronto coi giovani.74 71. Per una storia del movimento operaio, Torino: Einaudi, 1980. 72. Ferraris, Introduzione a Gerusalemme rimandata, p. XViii. 73. Mail di andrea ginzburg a chi scrive, 6 marzo 2012. 74. Riprendere tempo, p. 96. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 28 saggi Era il programma per gli anni successivi, segnati dall’impegno autobiograico e storico; dalla ricerca del dialogo, specie ma non solo con i giovani; dal tentativo di ripensare lo stesso signiicato e i contenuti della sinistra, modiicandone la cultura; e da uno sguardo rivolto al futuro. il suo rientro nel dibattito politico avvenne nel 1983, con un’intervista sull’«Unità», cui fu dato grande risalto. Nello stesso anno, Foa era tornato alla Cgil, assumendo la direzione dell’ires, che dichiarò di voler orientare verso lo studio del futuro, aveva avviato una nuova stagione di corsi universitari, da Napoli a Camerino, e cominciato il lavoro preparatorio sulle sue memorie e la storia del XX secolo.75 Egli era anche andato a vivere con sesa Tatò, e le loro case, quella di Roma, ma soprattutto quella di Castelforte prima, e di Formia poi, divennero centri di vita e discussioni cui parteciparono nel corso degli anni con grande interesse e piacere, spesso cucinando e sedendo poi intorno al tavolo, centinaia di persone. L’ospitalità dei Foa-Tatò era straordinaria, e ad essa contribuiva anche la trasformazione dell’atteggiamento dello stesso Foa. a Marcenaro, che gli aveva chiesto come avesse fatto a diventare «buono», egli rispose che era stata la soferenza del 1976-1983 a fargli capire cose nuove. La sua apertura e il suo ottimismo, la sua passione per il futuro, non erano insomma né spontanei né ingenui, ma piuttosto conquistati e pieni di angoscia per la condizione umana, superata da uno sforzo continuo e personale per cercare il positivo e aprirsi agli altri e all’esterno.76 Lo sforzo era tanto più grande perché Foa vedeva la crisi dell’idea di un futuro migliore che aveva motivato il suo impegno morale e politico, e sentiva che, almeno in Europa, la secolare stagione in cui era stato possibile credere in tale futuro, e pensare di conoscere le strade per arrivarvi, era forse inita. Di fronte alla frana delle precedenti certezze, egli riiutò però di aggrapparsi «all’immagine della propria coerenza», respinse «la necessità di un valore «altro dal mondo presente» per poter vivere compiutamente il presente» e decise appunto di aprirsi.77 Foa non diventò per questo un’altra persona, ma il cambiamento fu importante, e si rilesse anche nella sua avversione per la parola «identità», intesa come issità nello spazio e nel tempo, che proprio allora acquistava grande peso nella politica come nella storiograia, un altro sintomo, forse, della crisi di un mondo che riiutava un cambiamento che coincideva con la perdita della sua centralità. Di identità Foa discuteva anche con la iglia anna che, convertitasi all’ebraismo, lo costrinse a rilettere sui suoi rapporti con esso. La sua posizione gli parve ben riassunta da una frase di Freud che aveva dichiarato di ignorare la lingua delle sacre scritture, di essere «completamente estraniato dalla religione dei suoi padri, come da tutte le altre religioni», 75. La cultura del sindacato e le sue alternative. Corso integrativo di economia del lavoro, Napoli, Facoltà di Economia e Commercio, 1985; Le autonomie e il lavoro. Le lezioni di Camerino su antifascismo e sindacato [1988], Roma, Ediesse, 2009. 76. Intervista di P. Ferraris a chi scrive, Roma, 20 gennaio 2012. 77. Passaggi, p. 3. saggi 29 e di non riuscire a condividere gli ideali nazionalisti, ma anche di non aver «mai ripudiato il suo popolo» e di sentirsi «nella sua essenza un ebreo che non desidera cambiare questa sua natura».78 Chi si recava a discutere con lui era colpito da conversazioni che non ruotavano mai su Foa e i suoi interessi, ma erano piuttosto animate dall’interesse di Foa per la vita, i pensieri e le idee di chi gli parlava, rilettendo il suo riiuto di concentrarsi su se stesso e la sua «curiosità istintiva per gli altri, persino per gli avversari e i nemici dichiarati».79 gli altri diventavano così una miniera che arricchiva sia lui sia chi dialogava con lui, costituendo un argine a noia e banalità. Questi dialoghi contribuirono a libri importanti, come quello di Pavone sulla Resistenza come guerra civile, che molti partigiani, compresa Lisa Foa, trovarono diicile accettare, o la storia d’italia di Paul ginsborg, che Foa apprezzò pur restando colpito dal poco spazio da esso dedicato a quel Psi in cui aveva militato per tanti anni. altri divennero libri a due mani,80 ma i più rimasero solo conversazioni, di cui tantissime furono quelle con i giovani, in cui Foa cercava di ascoltare non solo quel che gli veniva detto, ma anche la persona che gli stava parlando, usando la parola come indizio. Per lui la giovinezza era, infatti, molto importante perché «era convinto che a parità delle altre condizioni un giovane capisse molto di più, o per meglio dire, cose più interessanti» perché portava anche se solo inconsciamente in sé lo spirito e le domande dei tempi nuovi.81 La libertà, la storia, la politica, il lavoro, il futuro erano i temi principali di questi dialoghi, animati dalla tensione, presente in Foa sin dalla giovinezza, tra il valore dell’autonomia e quello della solidarietà, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, dal suo anti-determinismo e dalla sua allergia alle ideologie. Questa tensione era però declinata in modo nuovo. alla democrazia diretta era per esempio ora riconosciuta solo «una funzione contestativa e stimolatrice di quella rappresentativa»,82 e se ne vedevano i pericoli di degenerazione in dittatura delle minoranze. anche la difesa del lavoro era vista in termini nuovi. Nel 1984, per esempio, quando Foa si pronunciò contro il referendum sulla scala mobile, il iglio Renzo, caporedattore e poi direttore de «L’Unità», si accorse di avere a che fare con una persona passata «dalla «critica di sinistra» al partito nel quale militavo… a una contestazione moderata, oggi si direbbe riformista». Col padre egli stabilì allora, dopo una lontananza determinata dal solco tra sinistra estrema e Pci, «una sorta di sodalizio politico» informale, cui dovette la capacità di leggere la crisi del suo partito negli anni ’80.83 78. La citazione, che si trova nella prefazione all’edizione in ebraico di Totem e Tabù (1930), mi è stata indicata da anna Foa. 79. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, p. 48. 80. Oltre a quelli citati in varie note, vedi i dialoghi con Vittorio Rieser, Il difficile cammino del lavoro, Roma, Ediesse, 1990; Fiorella Farinelli, Il futuro in mezzo a noi, Roma, Ediesse, 1994; e Paul ginsborg, Le virtù della repubblica, Milano, il saggiatore, 1994. 81. Vittorio Foa e le trasformazioni della società italiana, p. 163. 82. Vittorio Foa, Sindacalista, Politico, Scrittore, p. 69. 83. V. e R. Foa, Del disordine e della libertà, Roma, Donzelli, 1995. Cito però da Noi europei. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 30 saggi Nel 1987 Foa, che nel 1986 aveva pubblicato con Laura Balbo e antonio giolitti due libri dedicati a «una possibile reinvenzione della sinistra»,84 fu eletto senatore per la sinistra indipendente, una carica che usò per dare più forza alle sue posizioni e accelerare la crisi dei dogmi della sinistra, come auspicò nelle lezioni tenute a Camerino nel 1988. Contemporaneamente cercò di inluenzare l’evoluzione del Pci ma non per «renderlo più democratico». L’obiettivo era, piuttosto, quello «di rendere possibile a un pezzo importante della società italiana di non autoescludersi da una partecipazione diretta al governo della Repubblica».85 i suoi sforzi furono però ostacolati dall’esplosione del mito gorbačëviano, che ridiede forza all’idea della diversità comunista e della possibilità di un socialismo altro. Nonostante le lodi tributategli da Foa, la svolta della Bolognina di Occhetto fu quindi viziata dall’assenza di un serio confronto politico e intellettuale con l’esperienza sovietica, di cui si ritenne possibile liberarsi con facilità. Come buona parte della sinistra non comunista, e del Psi, anche Foa credette che la liquidazione, per quanto afrettata, del comunismo fosse foriera di promesse per il rinnovamento della sinistra. Tuttavia, con l’Urss e il socialismo reale afondava anche buona parte del bagaglio e della storia di quest’ultima, che si era comunque retta su idee – la nazionalizzazione dell’economia, la sottomissione di quest’ultima alla politica, l’intervento dello stato nell’industrializzazione, la prevalenza dell’idea collettivistica sui diritti della persona – che l’Urss aveva incarnato. L’afasia intellettuale di tanti dirigenti comunisti fece capire a Foa, «ossessionato da domande diicili sul silenzio degli ex»,86 che le speranze di rinnovamento non erano di facile realizzazione. si raforzò allora in lui, anche sulla scorta dei dubbi del 1976-1983, la convinzione che la parabola del movimento operaio, e del socialismo, tradizionali, in qualche modo incarnata da una storia famigliare che andava dal prozio Natale a lui, fosse entrata nella sua fase terminale. Nel 1992 annotò che «la stessa parola «sinistra»» era diventata «un feticcio, un robusto reticolato in difesa dell’esistente» e che le «vecchie parole», pur possedendo «una loro verità», erano diventate «ormai marginali, o almeno molto parziali, sempre più parziali».87 L’anno precedente egli aveva appoggiato la guerra in iraq, e nel 1995 arrivò l’incoraggiamento al Fini che a Fiuggi annunciava il superamento del Msi,88 posizioni che gli Un dialogo tra padre e figlio, Roma, Liberal edizioni, 2008 con una postfazione di Renzo Foa, pp. 78 ss. 84. V. Foa e L. Balbo, Lettere da vicino. Per una possibile reinvenzione della sinistra, Torino, Einaudi, 1986; V. Foa e a. giolitti, La questione socialista. Per una possibile reinvenzione della sinistra, Torino, Einaudi, 1986. 85. Passaggi, p. 136. 86. Passaggi, p. 5. Vedi anche V. Foa, M. Mafai e a. Reichlin, Il silenzio dei comunisti, Torino, Einaudi, 2002. 87. Passaggi, pp. 46, 109. 88. Vedi V. Foa e F. Colombo, Il sogno di una Destra normale, Milano, Reset, 1995. saggi 31 attirarono le critiche, anche radicali, dei suoi vecchi compagni con i quali però non cessò di discutere. il dialogo continuò anche con Renzo che, rilettendo sul comunismo, si era avvicinato alla destra, una posizione che Foa non condivise, ma di cui cercò di capire le ragioni, con un’apertura nutrita dall’insoddisfazione per le vecchie ideologie, che sbarravano la porta al futuro e impedivano di dare senso al passato. Essa non gli impedì tuttavia di unirsi alle proteste contro i governi Berlusconi, che attaccò nel suo ultimo intervento ad una manifestazione pubblica nel 2002. Nei primi anni Novanta, Foa tornò a rilettere sul ruolo della prima guerra mondiale, quando «gli stati inventarono quel mix di intervento statale nel mercato che segnò l’economia del secolo: le nazionalizzazioni, il welfare, i piani e così via», di cui gli anni ’80 e ’90 avevano visto il declino e non solo in italia. Finito gli parve il tempo in cui era stato facile, «manovrando la moneta [anche questa una possibilità afermatasi nel primo conlitto mondiale, ag] risolvere i conlitti sociali». Questo aveva portato il sindacato a favorire una politica di disavanzi crescenti, inanziati dapprima con l’inlazione e poi con la crescita del deicit, a spese delle generazioni future, un argomento di cui intuì la tragica portata: commentando una dichiarazione di Rino Formica del 1991 – «i nostri igli ci malediranno» –Foa annotò che essa toccava «le verità più profonde della nostra vita collettiva», dicendo «ad alta voce quello che nessuno dice e pochi pensano». Egli appoggiò quindi nel 1993 l’accordo che avviò la concertazione, contribuendo a fare ordine nei conti pubblici, ma non a ridurre il debito ormai accumulato.89 Per toccare quest’ultimo occorreva infatti toccare i «diritti», vale a dire quella codiicazione delle conquiste dei decenni precedenti di cui lui stesso era stato uno dei propugnatori nel dopoguerra. al Foa del 1994 il «vecchio schema dei diritti» appariva ormai «carico di individualismo radicale, di centralismo, di apologia del presente», un presente forse insostenibile. in questa contraddizione egli vide la conferma del declino della socialdemocrazia, di cui scorgeva l’«elemento caratterizzante» proprio nello «stato sociale col suo doppio pilastro, la tutela universale dei bisogni e la gestione pubblica dell’economia». sono parole del 1998, quando la morte di Tullio Vecchietti gli fece tornare in mente «il Psiup, la sinistra socialista nata con molte giovanili speranze nel 1964 e morta miseramente di elezioni nel 1972», un periodo che gli sembrava ormai «remotissimo, quasi inesistente».90 il senso di crisi era acuito dalla percezione «di una Europa diventata piccolissima nel pianeta», passata dall’egemonia goduta al momento della sua nascita ad essere «solo un pezzo di america», oscurato dalle ombre dell’Est e del sud. il rimedio stava nell’unità europea, cui assegnava un valore altissimo, e il boom di ine anni ’90 gli fece ritrovare un po’ di ottimismo, ridando forza a una visione del mondo basata su un Occidente progredito 89. Frutto di queste riflessioni è Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996. Passaggi, pp. 23, 100, 119. 90. ibid., pp. 137, 68. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 32 saggi chiamato ad aiutare i paesi sottosviluppati, che non teneva in debito conto le gigantesche trasformazioni in corso in questi ultimi, alcuni dei quali stavano per occupare il centro del palcoscenico. La ine del secolo gli parve comunque segnare una svolta epocale, una sensazione già avvertita in passato ma che gli sembrò allora più forte e vera.91 Pur confessando di essere annoiato dalla discussione su Destra e sinistra, Foa continuò però a rilettere sul signiicato di quest’ultima, e lo fece in particolare preparando per la pubblicazione le lettere spedite dal carcere ai famigliari. in esse ritrovò le radici del liberalsocialismo parzialmente ofuscato dalle scosse della seconda guerra mondiale e riafermato con radicalismo crescente dopo la svolta del 1977-1983 quando, come negli anni ’30, identiicò la libertà con la capacità di contribuire a decidere del futuro, anche individuale, portandone la responsabilità. alla diicoltà di trovare, nelle nuove condizioni, «un senso al presente pensando al futuro», vale a dire della possibilità di arrivare alla politica,92 egli dedicò anche gli ultimi anni della sua lunghissima vita, allietata nel 2005 dalle nozze con sesa. Due anni prima era uscito un suo colloquio con Carlo ginzburg, l’ultimo scritto signiicativo della sua battaglia per trasformare la cultura politica di una sinistra di cui aveva elaborato una nuova deinizione: «Non solo io ma gli altri, non solo qui ma altrove, non solo oggi ma domani». Con essa Foa ne rompeva in positivo gli schemi, aprendo agli altri e al futuro, e lasciando alla parte in cui aveva sempre militato un’eredità che non era facile ricondurre alle sue logiche tradizionali. 91. ibid., pp. 12, 50, 143, 148. 92. ibid., p. 9. 33 saggi adolfo scotto di Luzio A partire dalla ine. La storia della scuola degli ultimi venti anni Vent’anni sono un lasso di tempo suicientemente lungo per provare non dico a trarre un bilancio ma, almeno, a tracciare delle linee di tendenza. in quale direzione, con quali intenzioni e con quali risultati, si è mossa la scuola. in italia, certo, e in quella parte di mondo che più direttamente ci riguarda, tra Europa e stati Uniti d’america. schematizzando molto, e giusto per capirsi, si può dire che all’inizio del nuovo secolo le politiche scolastiche appaiono disposte grosso modo attorno a due poli, a seconda che al centro delle preoccupazioni pubbliche ci sia il problema della disoccupazione o invece quello delle diseguaglianze sociali. se nel primo caso si privilegia il tema dell’alternanza scuola/lavoro e da ultimo l’istituto dell’apprendistato, in italia e Francia ad esempio; lungo la seconda linea si sono mossi soprattutto i paesi anglosassoni, inghilterra e stati Uniti, dove invece il tema della riforma della scuola negli ultimi vent’anni è comparso all’interno di un rapporto molto stretto con le questioni della mobilità generazionale.1 io mi occuperò essenzialmente di questo secondo aspetto, perché così si arriva diritti al cuore politico della crisi dell’istruzione contemporanea: come si governa una società sempre più frammentata; come si risolve la progressiva divaricazione tra il principio politico della democrazia e la sua realtà sociologica. La scuola ha a che fare con la costruzione di una igura unitaria del popolo. È una dimensione decisiva del problema della rappresentanza. Ora, quando i tradizionali contenuti culturali di questa costruzione dileguano, che cosa ne prende il posto?2 1. Cfr. A.C. d’Addio, Intergenerational Trasmission of Disadvantage: Mobility or Immobility across Generation? A Review of the Evidence for the OECD Countries, OECD, Social, Employment and Migration Working Papers, n. 52, 2007. 2. Per una riflessione passibile di considerazioni più generali, al di là cioè dello specifico caso nazionale, cfr. le note che Denis Meuret dedica alla «crisi americana» del modello scolastico francese nel suo Gouverner l’école. Une comparaison France/Etats Unis, Paris, Puf, 2007. Lo specchio americano riflette per Meuret la compiuta estenuazione della scuola francese e della sua remota fondazione durkheimiana e indica la strada della riforma, quella dell’approntamento di un reale governo dell’educazione. Le considerazioni di Meuret sono interessanti perché colgono con un certo acume una condizione che si può ritrovare ad esempio anche nel caso italiano, in cui l’atomizzazione dei principi pedagogici rivela una perdita di autorità del governo della scuola e del suo apparato amministrativo, i quali se non possono farsi forza di un modello ormai desueto non rinunciano per questo a stare in campo, rappresentando un impaccio oggettivo sulla strada della trasformazione. Con la sola obiezione che, come tutti gli ideologi della riforma, Meuret imputa al modello centralizzato di governo nazionale della scuola di non riuscire più a fare quello che proprio gli ideologi della riforma gli impediscono attivamente di fare, appunto governare unitariamente il Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 34 saggi Per provare a isolare alcuni degli elementi necessari ad una risposta mi muoverò sulle tracce di un libro recente di Diane Ravitch, he Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are Undermining Education (New York, Basic Books, 2010).3 il libro è essenzialmente la storia di un grande ripensamento del problema scolastico novecentesco che sulla soglia del nuovo secolo costringe i governi, negli stati Uniti e poi nel resto dell’Occidente, a rimettere radicalmente in discussione il modello di istruzione che le società democratiche elaborarono a partire dalla ine della seconda guerra mondiale. all’origine di questa che è stata una vera e propria rivoluzione scolastica c’è la pubblicazione, nel 1983, di A Nation at Risk, il rapporto governativo con il quale l’america prese atto che la sua scuola faceva acqua da tutte le parti. Con un’avvertenza, che, come ci ricorda Ravitch, questa rivoluzione si sarebbe poi sviluppata in una direzione molto diversa da quella che sembrava allora ipotizzabile. Ma di questo parleremo più avanti. Per il momento conviene fermarsi sullo shock culturale che la pubblicazione di A Nation at Risk produsse nell’opinione pubblica, in america e non solo. A Nation at Risk è un documento per molti versi atipico. a cominciare dallo stile in cui fu scritto. Non c’era niente in quel rapporto che rassomigliasse al gergo burocratico e alla farraginosità che di solito rende illeggibili la maggior parte dei documenti amministrativi. al contrario, A Nation at Risk voleva farsi leggere e da tutti, era un testo forte, immediatamente comunicativo, e che per questo avrebbe fatto arricciare più di un naso. sorgeva dall’urgenza politica di fronteggiare il grave decadimento della preparazione scolastica dei giovani americani, puntualmente registrato nell’arco di quasi un ventennio dai test di ammissione al college. Voleva che vi ci si ponesse rimedio, subito e in maniera eicace. insomma, parlava chiaro al paese e con l’intenzione di farsi ben comprendere. A Nation at Risk era atipico anche per un’altra ragione. Espressione di un’amministrazione passata alla storia per aver inaugurato un’epoca nuova dell’Occidente, il rapporto sullo stato dell’educazione americana era tutt’altro che il manifesto della «nuova destra reaganiana». Nato con l’intenzione di chiudere la stagione delle pedagogie radicali sistema scolastico. il difetto di un ragionamento come quello di Meuret è tipico della logica degli esiti: ciò che accade è la conseguenza di un fatto definito arbitrariamente come sua premessa e come tale imputabile di responsabilità. 3. Diane Ravitch è una storica dell’educazione. insegna a New York, alla Columbia University, ed è di sicura fede democratica. Nel 1991 Lamar alexander, un «repubblicano moderato», la vuole con sé a capo dell’Ufficio ricerca educativa e sviluppo al Dipartimento dell’Educazione. sono i tempi del primo Bush. Con Bill Clinton, Diane Ravitch prende parte alla stesura dei piani nazionali di studio, che saranno al centro di una polemica epocale. sono anni di intensa partecipazione al dibattito sulla trasformazione della scuola, in cui l’autrice condivide molte delle nuove prospettive politiche e ideologiche sulla riforma. Ne prenderà poi le distanze. il libro racconta questa esperienza, gli entusiasmi e le illusioni, e nel farlo delinea un profilo di storia della scuola e delle culture politiche americane dal 1990 al 2010 di grande interesse. saggi 35 degli anni ‘60 e ’70, il rapporto portava l’impronta del segretario di stato all’Educazione, Terrel H. Bell, ex capo dell’amministrazione scolastica dello Utah e membro autorevole dell’establishment pedagogico americano, un uomo di scuola insomma, impegnato sul terreno dell’istruzione pubblica. Bell non condivideva molto del clima ideologico che si respirava nell’entourage di Reagan, non amava i voucher ad esempio, e difese l’ amministrazione federale della scuola dai ripetuti tentativi di depotenziamento progettati dal Presidente.4 al centro delle sue preoccupazioni c’era altro. L’erosione, innanzitutto, dei contenuti dell’insegnamento secondario e quell’opera di omogeneizzazione e di progressiva diluizione dei curricula che aveva inito per autorizzare gli studenti a migrare in massa dai corsi a contenuto accademico a quelli più generici. Ne era derivata una scuola «tipo cafetteria», si legge nel rapporto, in cui gli studenti erano volentieri indotti a scambiare stuzzichini e dolci per la portata principale. Per capire la vicenda della scuola in questi ultimi vent’anni è necessario partire da qui, dal bilancio che gli americani fanno all’inizio degli anni ’80 della loro scuola. Tutto quello che verrà dopo, in un modo o nell’altro, si può far risalire all’impressione suscitata dalla lettura di A Nation at Risk. se si resta con la mente rivolta all’italia è diicile cogliere la drammaticità della questione scolastica tra XX e XXi secolo. Da noi, la riforma della scuola, nonostante tutto, nonostante le accese polemiche e i conlitti, non ha mai occupato veramente il centro della nuova scena politica. Così non è per l’inghilterra neolaburista di Tony Blair e soprattutto per l’america post reaganiana. Qui, la riforma della scuola ha sostenuto il peso di una più ampia, profonda e dirompente ambizione alla riforma della società, un’ambizione trasversale a riconigurare le relazioni politiche della democrazia. Vedremo dopo chi sono i portatori di questa ambizione. Per il momento è suiciente sottolineare l’aspetto compromissorio delle nuove politiche scolastiche, un’opzione left-right che ne rappresenta la cifra più signiicativa.5 4. Della sua esperienza al governo con Reagan, Terrel H. Bell ha lasciato traccia in un libro, The Thirteenth Man: A Reagan Cabinet Memoir, New York, Free Press, 1988. Come ricorda Ravitch, fu solo dopo le dimissioni di Bell e l’arrivo al dipartimento dell’Educazione di William J. Bennet che la politica scolastica di Reagan sposò in pieno la parole d’ordine della libertà di scelta. 5. Come meglio vedremo più avanti, la novità di tutte queste discussioni sta nella esplicita tematizzazione del problema delle tecniche di gestione della popolazione che dalla scuola passa facilmente al resto della società. Tanto più se si tiene conto del fatto che nel mondo anglosassone la riforma dell’istruzione sorge sulla spinta dell’urgenza di dare una risposta al disastro educativo dei quartieri low-income e degli studenti English-learning. Da questo punto di vista, il dibattito sulla scuola permette di registrare il diffondersi nell’opinione pubblica di una sorta di disaffezione per la democrazia nella forma di un diffuso pessimismo nei confronti delle politiche pubbliche. È interessante notare a questo riguardo la funzione ideologica che in questi anni ha avuto la divulgazione dei dati sulla diseguaglianza scolastica. i cattivi risultati degli studenti socialmente più svantaggiati sono serviti innanzitutto a delegittimare il ruolo della scuola pubblica, accusata di non riuscire a fermare Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 36 saggi sul terreno della riforma dell’ istruzione si ritrovano infatti nel corso di questi vent’anni tanto la destra americana che la sinistra neolaburista, i due Bush, i new democrats di Bill Clinton, Tony Blair; ancora di recente Barack Obama, con un signiicativo scambio di visioni generali e, soprattutto, di uomini chiamati a tradurle in pratica, lungo la linea di una sostanziale continuità di ispirazione.6 Rifondare la scuola, ripensarne le basi culturali e la struttura del comando, è diventata così l’insegna della nuova politica che, dopo il crollo dei regimi orientali, si è presentata sulla scena democratica occidentale avanzando una forte pretesa a rifare dalle basi la società, a reinventarne tecniche e strumenti di governo7. La scuola è stata in questi vent’anni la loro crescita e a colmare il gap di apprendimento tra studenti di diverse classi sociali e di differenti gruppi etnici. significativo è il dibattito inglese sugli esiti dell’ abolizione delle Grammar Schools, per il quale si veda J. Blanden, a. goodman, P. gregg, s. Machin, Changes in Intergeneretional Mobility in Britain, in M. Corak (a cura di), Generational Income Inequality, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. sulla Francia, cfr. É. Maurin, La nouvelle question scolaire. Les bénéfices de la démocratisation, Paris, seuil, 2007. Maurin è un economista e l’economia dell’educazione è oggi l’approccio dominante al problema della scuola, sulla spinta ancora una volta del neolaburismo inglese. La costituzione in inghilterra del Center for Economics of Education, creato nel marzo del 2000 e diretto da un giovane professore di Economia allo University College di Londra, stephen Machin, costituisce un capitolo importante della storia della nuova ideologia scolastica. Dello stesso Machin si veda il volume da lui curato nel 2005 insieme ad anna Vignoles per la Princeton University Press What’s the Good of Education? The Economics of Education in the UK. Per l’italia bisogna tenere presenti gli studi di andrea ichino e Daniele Checchi. Più discosto, rispetto a questa linea di discussione, resta il caso della germania, dove invece la scuola continua a pensarsi sulla base di una precoce selezione dei destini degli studenti, dove cioè il problema non è decidere della bontà o meno della scuola unica da sei ai sedici anni. 6. Quando a New York nel 2007 il sovrintendente scolastico Joel Klein, nominato dal sindaco Michael Bloomberg, mise mano all’ennesima riorganizzazione del sistema scolastico cittadino, la terza in quattro anni, tra i consulenti esterni un ruolo di primo piano fu chiamato a svolgerlo sir Michael Barber, che era stato uno dei consiglieri chiave del governo di Tony Blair. Fu lui a sponsorizzare una scelta netta a favore di un modello scolastico market-oriented che significa responsabilità degli insegnanti secondo una inflessibile linea top-down, libertà di scelta, competizione e autonomia scolastica. sono le linee guida che a livello federale seguiranno nel corso degli anni tanto le amministrazioni repubblicane che quelle democratiche e che porteranno al programma «No Child Left Behind», creato dal presidente Bush e ripreso da Barack Obama. Come osserva Diane Ravitch, il nuovo pensiero, condiviso da entrambi i partiti, vede nella scuola pubblica un apparato obsoleto, perché controllato dal governo e paralizzato dalla burocrazia. La scuola è inefficace perché costituisce un monopolio pubblico. La strategia riformatrice consisterà nello smantellare questo monopolio. in essa i Democratici vedranno essenzialmente una opportunità per reinventare forme e modi del governo; i Repubblicani, la possibilità di ridurre drasticamente il potere dei sindacati degli insegnanti. Cfr. Ravitch, The Death and Life, p. 9. 7. Reinventare non è verbo scelto a caso. Pochi autori hanno profondamente influenzato nello scorso ventennio il modo di concepire le politiche pubbliche come David Osborne e Ted gaebler nel libro Reinventing Government: How the Enterpreneurial Spirit Is Trasforming the Public saggi 37 l’oggetto di un’ambizione che non è esagerato deinire rivoluzionaria; se si vuole, di una generale controfensiva, di una «rivoluzione contro», che ha investito in pieno il paradigma della common school così come si era venuto deinendo attraverso un lunghissimo cammino che comincia con la fondazione dello stato-nazione ottocentesco e si prolunga nel secondo dopoguerra con il modello della «scuola di tutti», tra la ine degli anni ’40 e grosso modo i primi anni ’80. È bene issare questo punto. il radicalismo della nuova ideologia scolastica non mette tanto in discussione il vento degli anni ’70, tante volte evocato come uno spauracchio polemico buono a tutti gli usi o come un confortevole luogo dello spirito. anzi su questo terreno, come vedremo, le collusioni tra vecchio e nuovo sono molto più frequenti di quanto di solito non si pensi. in gioco e molto più seriamente ci sono alcune delle strutture portanti della stessa concezione liberale dell’educazione.8 anche l’italia ha preso parte a modo suo a questo movimento generale dell’istruzione in Occidente. a partire dai primi anni ’90 la riforma della scuola ha riecheggiato molti dei temi del dibattito internazionale. Primo fra tutti quello della privatizzazione del sistema scolastico. Le dimensioni della privatizzazione sono infatti molteplici e vanno molto al di là della mera contrapposizione tra scuola pubblica e scuola privata. investono la sfera della governance della scuola, la rideinizione dello statuto professionale degli insegnanti, le forme della gestione della popolazione scolastica attraverso i sistemi di valutazione, la didattica. in italia i suoi esiti appaiono incerti, contraddittori, in alcuni casi non varcano la soglia delle enunciazioni ideologiche. Non per questo la spinta è meno attiva. il fatto che essa si eserciti in un sistema che come il nostro è rimasto di fatto incardinato allo stato produce un ibrido che, se sottrae ad esempio le politiche del personale alla disponibilità dei nuovi dirigenti scolastici, appare, d’altra parte, attraversato da correnti profonde che premono dall’interno e ne modiicano lentamente la forma. Sector, New York, Penguin Books Usa, 1992. il libro porta in copertina un giudizio entusiasta di Bill Clinton che ne consiglia la lettura a tutti i funzionari eletti dell’amministrazione americana. Questo libro, scrive Clinton, è il nostro Blueprint. appena eletto il nuovo presidente democratico incaricò il suo vicepresidente al gore di «reinventare» la burocrazia federale. gore creò la «National Partnership for Reinventing government» e invitò a collaborarvi proprio Osborne. scopo del progetto era introdurre tecniche manageriali nel settore pubblico e prevedeva privatizzazione, riduzione del personale, autonomia dei singoli settori nel fissare obiettivi e standard delle prestazioni dei loro impiegati. Molte di queste idee saranno poi trasferite alla scuola negli anni successivi. Cfr. Ravitch, The Death and Life, p. 9. 8. sulla linea di una ricostruzione molto polemica della tradizione scolastica liberale da guizot ai riformatori unitariani del Massachussetts, Horace Mann in testa, si muove il libro di Charles L. glenn, Il mito della scuola unica, arrivato tardi in italia rispetto alla data della sua pubblicazione americana (1988), ma giusto in tempo per calarsi nel clima delle discussioni al tempo della riforma Moratti sul pluralismo scolastico e sulla libertà di scelta. Lo ha tradotto Marietti 1820 nel 2004 a cura di Elisa Buzzi. il libro è tanto più interessante se si tiene conto del fatto che glenn, professore a Boston, era anche vice presidente dell’Ocse. L’edizione italiana era arricchita di un capitolo appositamente scritto dall’autore e dedicato al Risorgimento e alla costruzione della nazione. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 38 saggi Due sono i fronti sui quali il sistema appare oggi più esposto alla spinta della privatizzazione, quello della composizione sociologica dei singoli istituti scolastici, per cui il simile tende a ritrovarsi con il simile, e quello del modello culturale.9 in verità è l’unità stessa della scuola che diventa il bersaglio polemico della nuova ideologia dell’ educazione, il tratto arbitrario e prevaricatore, il mito da demolire. a diferenza del passato, la scuola di nuovo tipo si pensa sul terreno della personalizzazione e della professione. Due categorie del nuovo discorso pedagogico che in italia si giustiicano sul terreno di una scienza dell’educazione di matrice prevalentemente cattolica, ma che in realtà assumono il loro pieno signiicato attuale nel contesto del dibattito anglosassone, e da lì di fatto provengono sulla spinta egemonica della nuova cultura manageriale. Da noi, ma non solo, personalizzazione e professione sono state invocate in questi anni per favorire la frammentazione del sistema, spingono per la sua ricostituzione su basi localistico comunitarie, promuovono l’idea di un servizio educativo che si concepisce come risposta alla domanda di istruzione delle famiglie, e dunque delle loro inclinazioni curricolari, di solito più inglese e più matematica a scapito non solo di altre materie ma dell’ idea stessa di educazione come risultato di una armoniosa composizione di discipline e di contenuti culturali. Personalizzazione e professione premono di fatto in direzione di una scuola tematica destinata a corpi studenteschi socialmente omogenei.10 Dove sta la novità di questo nuovo scenario e cosa spiega il suo mutamento? 9. su questa recente tendenza della scuola italiana a ricomporsi sulla base del principio del simile che ricerca il simile, le risultanze degli studi sono abbastanza eloquenti. sulla base dei dati Ocse-Pisa divulgati nel 2004, il governo Prodi pubblicò nel 2007 il Quaderno bianco sulla scuola. Nel confronto con alcuni paesi Ocse, in particolare di area scandinava ma anche la spagna e gli stati uniti, i risultati degli studenti italiani facevano rilevare una maggiore varianza tra le scuole. Vale a dire che i dislivelli non si registravano tra gli studenti nell’ambito di uno stesso istituto ma variavano maggiormente tra istituti diversi. Per le implicazioni geografiche di queste dinamiche cfr. a. Pennisi, M. Foresti, Fare i conti con la scuola nel Mezzogiorno. Analisi dei divari tra le competenze dei quindicenni in Italia, in «Materiali Uval», n. 13 (2007), pp???. Le considerazioni sulla varianza tra le scuole permettono di leggere un fenomeno che in realtà riguarda in pieno la stessa istruzione americana e, c’è da crederci, qualsiasi società in cui il sistema pubblico non è in grado di garantire livelli adeguati di preparazione scolastica: le famiglie abbienti reagiscono al degrado scolastico, in termini di standard e di composizione sociale del corpo studentesco, chiamandosi fuori e raggiungendo istituti e quartieri dove possono stare in compagnia di propri simili. La novità è proprio l’intensificazione italiana del fenomeno. È il modo in cui le famiglie rispondo «privatisticamente» alla dequalificazione culturale dell’ insegnamento pubblico. su un piano più generale si può considerare il fenomeno come un prodotto specifico dei modelli di riforma basati sulla choice. Non solo le famiglie più attrezzate economicamente si scelgono la scuola migliore, ma soprattutto le scuole (e questo è sembrato sfuggire ai riformatori) tendono a prendersi gli studenti top-level e sicuramente a schivare quanti gli possano dare problemi. È il modo più efficace per alterare i risultati dei test senza truccare materialmente le carte della valutazione. 10. su questo terreno, le due linee di politica scolastica di cui si è detto all’inizio, quella orientata all’ occupazione e quella orientate alla riduzione dell’ineguaglianza sociale, trovano molte occasioni di incontro. saggi 39 Tali questioni sono nuove, in italia e nel mondo, perché nuova è stata la determinazione che le ha messe al centro dei processi decisionali. in realtà molte delle idee all’opera nella riforma dell’istruzione circolavano in dagli anni ’50. È stato però necessario attendere la ine della guerra fredda perché uscissero dal recinto delle discussioni accademiche e divenissero l’oggetto concreto delle cure dei governi.11 in realtà, la vera novità di questi anni è il drastico trasferimento del discorso sulla scuola dal terreno tradizionale della politica, dove lo avevano prevalentemente concepito le democrazie occidentali dopo la ine della seconda guerra mondiale, a quello dell’economia. in concomitanza con le profonde trasformazioni nei modi di produzione della ricchezza che hanno investito le nostre società negli ultimi venti anni, e con l’ afermazione che questo ha comportato di nuovi potenti protagonisti sulla scena democratica, anche la scuola ha visto mutare radicalmente il suo proilo. Per la prima volta in forme così dirette ed esplicite, l’impresa capitalistica e soprattutto le sue tecniche di gestione si sono imposte alla cultura pedagogica come una metafora generale dell’istruzione e del successo educativo. Non è semplicemente, e banalmente, l’estensione alla scuola di igure e tropi della cultura manageriale. È, piuttosto, l’ afermazione perentoria della convinzione che il modello organizzativo della nuova impresa sia in grado di fornire senza altre mediazioni lo schema per un intervento educativo in grado di risolvere e deinitivamente i problemi aperti della diseguaglianza scolastica. È, in altri termini, l’idea di una surrogazione della politica democratica sul terreno stesso della sua legittimazione: l’uguaglianza dei cittadini. Convinti di poter esercitare un ruolo decisivo, non solo i nuovi attori dell’economia si sono imposti alla politica, ma sempre più hanno cominciato a progettare in proprio la riforma dell’educazione. il problema della scuola all’inizio del nuovo secolo si pone dunque sullo sfondo di una crisi generale della politica democratica e dell’afermazione sulla scena pubblica di nuovi potenti soggetti di origine economico inanziaria. Le conseguenze che ne derivano si possono cogliere tanto sul terreno della didattica che dei modelli dell’organizzazione scolastica. Ma prima è necessario guardare più da vicino i nuovi attori della riforma scolastica. il libro di Ravitch ci aiuta infatti a cogliere questo passaggio decisivo nel rapporto tra scuola e democrazia fornendoci un angolo visuale particolare. Per capire la trasformazione in atto ci invita infatti a guardare al mondo della grande ilantropia americana, tradizionalmente impegnato a sostenere la scuola e le istituzioni formative. all’inizio del Duemila, il cambio della guardia in quello che l’autrice chiama il «Billionaire Boy’s Club» ha avuto efetti dirompenti sul mondo dell’istruzione americana.12 E da qui sul resto del mondo. 11. il celebre saggio di Milton Friedman, The Role of Governement in Education, è del 1955. Reagan ne fu molto ispirato, ma a suo tempo i tentativi di metterlo in pratica furono timidi e incontrarono significative resistenze all’interno della sua stessa amministrazione. Cfr. Ravitch, The Death and Life, pp. 114-118. 12. ibid., pp. 195-222. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 40 saggi Nel 1998 le quattro grandi fondazioni che contribuivano al sostegno dell’istruzione elementare e secondaria erano la annenberg Foundation, la Lilly Endowment, la David e Lucile Packard Foundation e la W.K. Kellog Foundation. Da sole valevano il 30 percento del totale dei fondi messi a disposizione dai cinquanta maggiori donatori del Paese. solo quattro anni più tardi, la fotograia era completamente diversa. i nuovi titani della ilantropia erano orami la fondazione di Bill e Melinda gates e la Walton Family Foundation, la famiglia dei proprietari della catena Walmart. a questi bisogna aggiungere i coniugi Eli e Edyte Broad, il cui nome e le cui fortune erano legati all’industria assicurativa. sono loro i nuovi padroni della carità privata: imprenditori miliardari e «corporate leaders». Per questo protagonista di nuovo tipo, la deinizione tradizionale di ilantropo non era più suiciente. gates, Walton e Broad facevano azioni ilantropiche, e decisero di concentrare i loro investimenti prevalentemente nella riforma dell’educazione, proprio come avrebbero investito in una impresa inanziaria. a diferenza della annenberg Foundation che aveva inondato le scuole dell’era clintoniana di una somma mai vista di soldi, ma sempre attraverso il iltro di organizzazioni intermedie che conservavano un certo margine di discrezione sulle loro scelte, i nuovi ilantropi al contrario consideravano le donazioni come un investimento da cui attendere «measurable results, or in the argot of business, a “return on investment”».13 Mentre le vecchie fondazioni come la Ford, la Rockefeller o la Carnegie si limitavano a sostenere progetti sottoposti alla valutazione dei loro consigli di amministrazione, le nuove fondazioni, scrive Ravitch, «decided what they wanted to accomplish, how they wanted to accomplish, and which organizations were appropriate recipients of their largesse».14 È avvenuto così che gates e compagni in questi anni hanno aperto e chiuso scuole, spezzettato istituti pubblici in mini centri di istruzione, ospitati spesso tutti insieme nei vecchi ediici, generando miriadi di conlitti, in nome della personalizzazione e dell’idea che una scuola più piccola avrebbe seguito meglio tutti gli studenti e ognuno alla volta, hanno licenziato professori e assunto nuovi dirigenti. Ciò che giustiicava una tale invasione di campo, e il radicalismo con la quale fu condotta, era il nuovo credo della riforma scolastica, l’accountability; l’idea cioè di poter imputare senz’altro i risultati degli studenti alla responsabilità dei loro insegnanti. in che modo? Ripensando la scuola in termini di prestazioni e di risultati attesi. a certe condizioni, di cui parleremo tra poco, la responsabilità poteva dunque venire misurata e per fare ciò si rendeva necessario l’impianto di vasti apparati di valutazione che, stato per stato, scuola per scuola, dovevano veriicare acquisizioni e progressi dei ragazzi. Dare premi o punire i loro insegnanti. inutile dire che nessuno avrebbe mai chiesto conto alle Fondazioni ilantropiche del fallimento dei loro progetti. L’accountability è essenzialmente lo strumento 13. ibid., p. 200. 14. ibid., p. 199. saggi 41 di un nuovo modo di inquadrare il corpo insegnante, senza più nessun riferimento ai contenuti della loro tradizionale identità professionale. Non solo il sindacato, ma il modello culturale della loro formazione. Tutto questo diventava secondario e veniva esplicitamente scartato nella deinizione del nuovo tipo di docente, che era essenzialmente un preparatore di giovani per il superamento di speciiche batterie di test. speciiche, badate bene, perché i test da superare erano quelli materialmente somministrati e non altri, come avrebbe dimostrato negli anni e con abbondanza di dati lo scarto imponente tra le risultanze delle valutazioni statali e i dati federali forniti dai test della National assessment of Educational Progress.15 La politica è andata di conserva e in molti casi ha sposato con entusiasmo le ragioni della grande riforma scolastica. E, diciamoci la verità, in pochi avrebbero potuto resistere ad una così imponente e spaventosa immissione di denaro privato nel sistema della istruzione pubblica americana. Di fatto, solo chi aveva altrettanti soldi da mettere in gioco. È il caso del miliardario Michael Bloomberg, che alla ine del 2001 divenne il sindaco di una città sconvolta dall’attentato dell’11 settembre. Per spiegare la forza con cui il dominio della competizione economica e della tecnica manageriale si è imposto alla scuola nel corso di questi venti anni, bisogna infatti tener presente che i casi più rilevanti di riforma dell’istruzione hanno corrisposto ad un’assunzione diretta delle funzioni di rappresentanza politica da parte delle nuove elite capitaliste. Come ci racconta Diane Ravitch, Bloomberg fece del «disastro educativo» un asse portante della sua campagna elettorale e appena eletto sindaco trasformò abilmente il sistema scolastico della città, il più vasto della nazione, nel grande palcoscenico di una riforma dell’istruzione market-based. Nel quadro del programma federale varato dall’amministrazione Bush e molto suggestivamente intitolato «No Child Left Behind», Bloomberg intraprese una riforma in proprio della scuola, «Child irst». i bambini che dovevano venire per primi erano più di un milione. il nuovo sindaco mise a capo dell’amministrazione scolastica della città Joel Klein, il quale per prima cosa arruolò i consulenti della McKinsey, per rivolgersi poi ad un vecchio partner di goldman sachs, il banchiere di investimento Ron Beller. il mondo inanziario newyorkese era entusiasta. Business Week descrisse l’azione di Bloomberg come ciò che avrebbe sbaragliato deinitivamente l’establishment pedagogico e sindacale della città. il reclutamento dei leaders della «Corporate america» era il segnale che la nuova amministrazione faceva sul serio. sarebbe sbagliato però pensare che furono solo i banchieri e i magnati a compiacersi del nuovo modello scolastico. Come ricorda Diane Ravitch, Joel Klein era un avvocato, aveva lavorato come assistente del procuratore generale al Dipartimento della giustizia durante 15. ibid., pp. 106-107 e 161-162. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 42 saggi l’amministrazione democratica di Bill Clinton e quando assunse la direzione delle scuole di New York, in un modo tra l’altro tutt’altro che inconsueto, adottò una strategia che Ravitch deinisce «left-right»: «He selected instructional programs that pleased the pedagogical left, awarded large contracts to vendors of these programs, and created large numbers of jobs for consultants and coaches who were knowledgeable about progressive approaches. and he satisied the business community by vigorously promoting choice and accountability».16 in generale poi, non bisogna dimenticare che la forza delle nuove politiche scolastiche poggiava sull’esigenza autenticamente sentita dai protagonisti della riforma di dare una risposta ai bisogni educativi degli studenti più poveri. È da qui che nasce la sida della privatizzazione: riuscire lì dove la scuola pubblica sembra aver fallito. Ridurre l’ineguaglianza. Voucher scolastici, scuole gestite privatamente, Charter schools, attingono tutti da qui la ragione fondamentale della loro legittimità. sono il tentativo di inanziare la libertà di scelta delle famiglie a basso reddito. in questa formazione culturale compromissoria, left-right appunto, in cui si manifesta un tratto più generale della società americana uscita dai conlitti degli anni sessanta, l’aspetto più interessante da mettere in rilievo è il nesso molto stretto che si viene a stabilire nella riforma newyorkese tra autoritarismo della governance e tecnica didattica. arriviamo così al punto prima messo in rilievo, della didattica come terreno sul quale cogliere il rilesso di una profonda rideinizione dei rapporti politici in seno alla democrazia occidentale. Vediamo come. alla riorganizzazione del sistema di istruzione, sulla base di un assetto fortemente centralizzato, gerarchico e con una catena di comando dall’alto in basso chiaramente deinita, corrisponde a livello della scuola elementare l’imposizione di una didattica, che non solo si concentra ossessivamente sull’apprendimento della lettura e della matematica, escludendo qualunque altra disciplina, ma riduce questi due insegnamenti ad un repertorio di schemi procedurali dove l’atto concreto del leggere, mettiamo un racconto, una ilastrocca o un romanzo, così come l’apprendimento di determinate abilità di calcolo risultano meno importanti della costruzione delle molteplici rappresentazioni possibili del problema del leggere o del calcolare. se ad esempio una classe deve imparare a sommare e sottrarre, gli insegnanti addestrati al nuovo metodo non si incaricheranno di fornire agli allievi i meccanismi routinari del calcolo. La lezione, ispirata alle nuove concezioni didattiche, consisterà essenzialmente in una serie di domande a cui i bambini dovranno rispondere, da soli o in gruppo, mostrando i modi diversi in cui un determinato problema può essere impostato: in genere, dati cinque numeri (3, 2, 6, 1, 9), per quali molteplici vie si può giungere ad un numero target, che in questo caso è 10. La lentezza, la lungaggine e l’astrusità dei percorsi per arrivare alla soluzione, tra tentativi ed errori, spesso la presupposizione di conoscenze che il maestro non somministra 16. ibid, p. 71. saggi 43 e senza le quali i bambini falliscono il proprio compito sviluppando forti sentimenti di frustrazione, tutto questo produce facilmente stanchezza e disafezione negli studenti. Le conseguenze sugli apprendimenti concreti sono rilevanti. Messi a confronto con loro pari, aidati alle cure di scelte didattiche diferenti, i igli della didattica costruttivista mostrano più frequentemente diicoltà nel comprendere quello che leggono e deicit evidenti nel padroneggiare gli strumenti di base del calcolo.17 La questione più rilevante, tuttavia, posta dall’adozione delle nuove didattiche non sta qui. Balanced Literacy e Constructivist Math diventano, a partire dagli anni ’90, il contenuto obbligatorio della nuova scuola della riforma, ordinato in forme altamente prescrittive dai Board of Education di diversi stati americani.18 Non sono più, se mai lo sono 17. Per avere un’idea precisa di quell’incontro compromissorio destra sinistra che sta alla base delle nuove correnti riformatrici della scuola americana può essere utile ricordare che la didattica costruttivista della matematica imposta dall’amministrazione repubblicana di New York, così come il nuovo insegnamento della lettura, mantenevano più di un legame con le pedagogie antiautoritarie degli anni ’70. Un aspetto fondamentale della cosiddetta new-math è l’enfasi messa sulla costruzione di un ambiente libero e cooperativo all’interno della classe e sulla riduzione dell’insegnante alla figura periferica di un «adulto» calato nei panni benevoli del «facilitatore». Matthew Clavel, che all’epoca insegnava in una scuola del south Bronx a New York ha tracciato un quadro molto vivace di che cosa significava questo cooperative learning in un ambiente scolastico altamente disagiato. in un articolo apparso nel «City Journal» il 7 marzo 2003 e intitolato How Not to Teach Math scrive: «Maybe this approach wouldn’t lead to utter disaster in a wealthy suburban classroom. But i’d derive bitter pleasure in watching a Fuzzy Math “professional-development” expert try using it in an inner-city classroom, filled with kids whose often unstructured home lives make self-restraint a big problem. a guest art teacher, gung-ho about cooperative learning, tried to teach my kids using this method. By the second session, students were getting out their seats, calling out without raising their hands, yelling to each other, and, in a couple of cases, throwing punches. i avoided this loss of control, because right from the outset, even before i chucked the whole program, i felt that pursing cooperative learning with my students was asking for trouble, and so i mostly didn’t do it. i was going to teach; my students were going to learn». 18. Questo tratto impositivo delle nuove didattiche è tutt’altro che secondario. Come ricorda Ravitch, chi non si piegava alle richieste perentorie che venivano dai nuovi funzionari dell’amministrazione scolastica veniva senza por tempo in mezzo licenziato. a metà degli anni ’90 la Balanced Literacy divenne la didattica ufficiale del secondo distretto scolastico di New York affidato alla direzione di antony alvarado, un figura importante della riforma della scuola americana. alvarado, ricorda la Ravitch, rassicurò presidi e docenti delle sue scuole che sarebbero stati accuratamente preparati a insegnare secondo il nuovo metodo ma chi non se la sentiva o non voleva farlo veniva trasferito. Durante gli undici anni del suo mandato, scrive Ravitch, il sovrintendente alvarado sostituì i due terzi dei presidi del distretto e metà di tutto il corpo insegnante. Quando si legge la storia della scuola americana di questi ultimi vent’anni si resta colpiti dalla determinazione rivoluzionaria con la quale furono attuati i programmi di riforma e applicate decisioni draconiane. il modello di alvarado fu esportato in California e messo in pratica in una forma ancora più radicale a san Diego. a partire dal 1998 e per tutti gli anni in cui rimase in carica il sovrintendente scolastico della città alan Bersin licenziò senza nessuna pietà tutti gli insegnanti e i presidi che si opponevano al cambiamento. secondo Ravitch, andò via il 90 per cento dei presidi del distretto californiano. Prima dell’inizio dell’era della riforma, Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 44 saggi state, una scelta degli insegnanti, ma il credo pedagogico delle nuove amministrazioni scolastiche. adottate innanzitutto per fare fronte al crescente fallimento scolastico degli studenti poveri e non-bianchi, soprattutto ispanici e afroamericani, le nuove didattiche rappresentano un evidente tentativo di perseguire l’uniformità per via di una tecnica uniforme di insegnamento, applicata ad oggetti culturali, la lettura e il calcolo in questo caso, costruibili e dunque misurabili in termini di prestazioni fornite dagli studenti. La posta in gioco del metodo didattico è come trattare una massa eterogenea di persone. il passaggio dal vecchio al nuovo modello scolastico è allora schematizzabile come passaggio da un’ipotesi di governo della popolazione a base culturale-identitaria ad un modello di tipo tecnico operativo. Vedremo tra breve cosa spiega questo avvicendamento, per il momento si tenga a mente la rilevanza di questo nesso.19 il metodo didattico, dunque. Prendendo come esempio la didattica della lettura (più confusionari come si è visto gli esiti nell’insegnamento della nuova matematica), ognuna delle operazioni in cui è possibile schematizzare la procedura di costruzione della rappresentazione astratta del problema del leggere (visualizzazione del contenuto, sintesi, anticipazione, inferenza e così via) dà adito a esercizi speciici che, mentre eludono il rapporto, per forza di cose sfuggente e soggettivo, con il contenuto del testo (le stesse operazioni sono applicabili a un testo quale che sia senza che questo comporti conseguenze rilevanti sulla natura dell’esercizio compiuto), possono essere ripetuti e ricevere un punteggio. Diventano la materia di un test. Non solo ciò che non si può misurare appare ben presto irrilevante ma tutto ciò che è meritevole di essere insegnato è strettamente misurabile. su queste basi la scuola degli anni a noi più vicini sviluppa una imponente retorica dell’educazione a base metricoquantitativa che ristabilisce un nesso antico tra educazione del popolo e standardizzazione della prestazione scolastica. Non l’ideologia e non la cultura deiniscono le basi per una rappresentazione unitaria dei ceti subalterni, ma il loro trattamento unitario grazie a una tecnologia operativa della scuola, che poi è l’unico modo in cui è possibile deinire le nuove didattiche senza contenuto e tutte procedura. Quanto più questo trattamento si applica a scuole che operano in contesti il livello di abbandono annuale tra i professori non superava le 250 unità su novemila insegnanti. Nei primi due anni della riforma le dimissioni salirono a 500. Nell’anno scolastico 2002-2003 circa 1000 professori accettarono l’offerta di pensionamento anticipato. Tra il 1998 e il 2005, continua Ravitch, più di un terzo degli insegnanti del distretto lasciò il proprio posto. L’imponenza di questi esodi dà un senso concreto alla parola d’ordine del rinnovamento del corpo insegnante e rende ridicolo il dibattito italiano sulle medesime questioni. Cfr. Ravitch, The Death and Life, p. 36 e pp. 53-54. 19. Per una lettura della storia della didattica alla luce di queste esigenze tecniche di governo della popolazione rimando al mio Gli insegnanti degli italiani. Formazione e reclutamento dei docenti dagli stati preunitari al Regno d’Italia, in Costruttori di identità. Il contributo della scuola alla formazione degli italiani tra Otto e Novecento. atti del convegno dell’istituto universitario suor Orsola Benincasa, Napoli 29-30 settembre 2011, in corso di pubblicazione. saggi 45 di disagio sociale e di profonda frammentazione etnica, appare chiaro come esso risponda ad esigenze di controllo di una popolazione scolastica disomogenea e frammentaria per i quali la scuola rinuncia in partenza ad elaborare un linguaggio comune, illudendosi di poter surrogare questa funzione per mezzo del trattamento uniforme garantito dal metodo. il metodo, insomma, surroga l’incapacità di costruire culturalmente il «noi». La depoliticizzazione della scuola prodotta dai nuovi orientamenti manageriali allo scopo e al risultato corrisponde ad uno svuotamento della sfera democratica che dalla scuola si estende al resto della società. Come è accaduto? Di solito la risposta è: il neoliberismo. il primato morale dell’impresa capitalista con la conseguente svalutazione della desiderabilità di una società fondata sull’eguaglianza e la solidarietà sociale. in efetti, la nuova scuola non predica questi valori. al contrario vuole essere per i più brillanti tra gli studenti dei quartieri poveri l’occasione della vita, il treno che passa una volta e li porta lontano dal posto in cui sono nati. Le Charter Schools, vale a dire l’esercizio dell’istruzione in regime di concessione (un’organizzazione, spesso una coalizione di insegnanti, ottiene dallo stato la concessione allo scopo di perseguire in un numero limitato di anni, di solito cinque, gli obiettivi educativi preissati, in cambio della piena autonomia), selezionano i propri studenti nei quartieri poveri in base ad una lotteria. solo i migliori, gli studenti più motivati, quelli che tra mille diicoltà hanno alle spalle una famiglia solida e che li sostiene nello studio, partecipano e tra di loro i più fortunati tirano fuori il biglietto vincente. i ricchi si portano via i poveri più brillanti e vivaci, contribuendo a rendere i quartieri poveri ancora più poveri. È un’ obiezione sensata, ma provate a farla a chi quella lotteria l’ha vinta. È diicile negare il valore dell’avventura individuale e il diritto di chi ha più strumenti degli altri, o anche solo più fortuna a tentarla questa fortuna, a giocarsi le carte, poche o molte, che la vita gli ha dato. Non è lui che fa la scuola e se qualcuno gli ofre una scuola migliore perché dovrebbe riiutarla? Ma anche così la domanda resta inevasa. Come è accaduto, come è stato possibile che questa soluzione, non l’unica tra le soluzioni possibili, sia apparsa ad un tratto più desiderabile delle altre pure presenti sul piatto, e non a qualche magnate di Wall street, ma agli occhi di amministratori scolastici di lungo corso e di sicura fede democratica, ad educatori, a giovani talenti desiderosi di fare in tutta sincerità il bene del Paese, come quel gruppo di brillanti laureati delle migliori università d’america che nel 1990 si impegnarono ad insegnare per almeno due anni nelle scuole più disagiate e diedero vita ad una esperienza generosa e neoliberista come Teach for America. insomma come è accaduto? Diane Ravitch nel suo libro sulla scuola americana fornisce gli elementi per una risposta molto interessante.20 È necessario però tornare un po’ indietro nel tempo, a quel 20. si veda in particolare il secondo capitolo dal titolo eloquente, Hijacked! How the Standards Movement Turned Into the Testing Movement, pp. 15-30. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 46 saggi A Nation at Risk da cui abbiamo preso le mosse all’inizio di questo articolo. Per Ravitch, quella è l’ultima occasione che la scuola pubblica ha per ripensare se stessa, restando sul terreno della sua fondazione tradizionale e cioè del perseguimento dell’eccellenza educativa sulla base di un’alta qualiicazione culturale degli insegnanti e dei contenuti del loro insegnamento. il rapporto sulla scuola dell’amministrazione Reagan animò lungo tutto il decennio successivo una intensa ricerca pedagogica intorno alla riforma dei contenuti dell’insegnamento. Lavoro che produsse all’inizio degli anni ’90 il tentativo, decisamente innovativo per il sistema scolastico americano, di issare standard nazionali per gli insegnamenti della scuola secondaria. Diane Ravitch partecipò come si è detto in prima persona a questo lavoro. sotto la direzione di Lamar alexander il Dipartimento dell’ Educazione era impegnato sul duplice fronte della promozione degli standard nazionali e della libertà di scelta, secondo una linea repubblicana che provava ancora, all’inizio degli anni ’90, a tenere insieme, modelli organizzativi e rilessione sul curriculum. il problema della deinizione di standard nazionali era tutt’altro che secondario per la cultura della destra americana, che nel tentativo di deinire dall’alto, dalla sede centrale del governo federale, quello che i giovani americani avrebbero dovuto apprendere vedeva il segno di una intollerabile intromissione nel sistema delle libertà e delle autonomie dei singoli stati. il lavoro politico di mediazione e di compromesso fu dunque particolarmente delicato, ma giunse pure ad un risultato. La soluzione alla ine adottata fu di promuovere gruppi di insegnanti e di studiosi che sviluppassero standard nazionali a base volontaria in storia, inglese, arte, scienza, educazione civica, economia, lingue straniere, geograia ed educazione isica. insomma il piano generale di un modello educativo armonioso da proporre alle scuole del paese. Questo tentativo si infranse nel 1994, quando Lynne V. Cheney, moglie di Dick Cheney, ma soprattutto presidente del National Endowment for the Humanities, intervenne sul Wall Street Journal per denunciare la proposta sull’insegnamento della storia americana approvata dal National Education standards and improvement Council. L’articolo esordiva così: «imagine an outline for the teaching of american history in which george Washington makes only a leeting appearance and is never described as our irst president».21 Ne venne fuori un putiferio. Davanti alla furia polemica di Lynne Cheney si apriva un’autostrada quando ad esempio il documento raccomandava che lo studente ad un certo punto dovesse «construct a dialogue between an indian leader and george Washington at the end of the Revolutionary war».22 Come ricorda Ravitch, gli 21. L. Cheney, The End of History, in «Wall street Journal», 20 ottobre 1994. Per una presentazione della questione si veda l’amplissimo quadro tracciato da giuseppe Ricuperati, A proposito di «Whose History?» e di uso pubblico della storia. Lo scontro sui piani di studio negli Stati Uniti (e in Italia), in «Rivista storica italiana», vol. CXV, fasc. ii (2003), pp. 733-779. 22. Cheney, The End of History, pp??. saggi 47 standard di storia erano una sorta di «epitome of left-wing political correctness» perché, scrive ancora l’autrice, «they emphasized the nation’s failings and paid scant attention to its great man».23 Mentre Washington compariva poche volte, Ulisses s. grant una volta sola e di Robert E. Lee non si faceva menzione, in compenso spadroneggiavano Joseph McCarthy e il maccartismo, il Ku Klux Klan e altri orrori e colpe dell’america. gli standard erano stati redatti da un gruppo di lavoro dell’Università di California a Los angeles e proponevano una visione della storia insegnata prevalentemente attraverso le lenti della razza, della classe e del genere. Una visione largamente condivisa dentro i conini dell’università, ma destinata ad incontrare forti resistenze fuori di lì. La diversità delle culture era la categoria centrale del discorso accademico. scopo degli standard, aprire la mente americana. Chiunque vi si opponesse era considerato l’espressione di un’ angusta mentalità conservatrice.24 L’intervento di Lynne Cheney rinfocolò le opposizioni nel partito repubblicano e intimidì i democratici. L’amministrazione Clinton capì di essersi cacciata in un ginepraio e smise semplicemente di dare seguito alla questione degli standard. Da quel momento in poi, il problema della scuola smise di porsi sul terreno della deinizione del contenuto dell’insegnamento e lasciò la via libera alle proposte di chi proprio allora cominciava a pensare che per risolvere i deicit di apprendimento dei giovani americani non servisse attardarsi in dispute incomprensibili ai più, e che l’unica strada per la riforma fosse eludere i problemi del contenuto che ogni stato avrebbe risolto come meglio credeva (e che per lo più ciascuno di loro, ad eccezione del glorioso Massachussetts, risolse malissimo) e puntare tutto sull’organizzazione del servizio educativo. il movimento per la libertà di scelta, la responsabilità degli insegnanti, le Charter Schools, si raforzano sul terreno di questa rinuncia. soprattutto, destra e sinistra si ritrovano nella comune diidenza nei confronti dell’università, il cui radicalismo manifesta nella maniera più clamorosa l’irrilevanza politica delle nuove scienze sociali. a guardarli da vicino questi ultimi venti anni di storia della scuola rivelano, dunque, prim’ancora degli efetti della cosiddetta egemonia neoliberista, l’incapacità della cultura universitaria di impronta umanistica di elaborare una proposta condivisa sulla nazione come spazio concretamente fruibile della politica democratica. Un problema che non riguarda solo gli stati uniti d’america, come è noto. il radicalismo delle scienze sociali cala sulla storia nazionale un velo di discredito nel nome delle vittime della sua inesausta pulsione di soprafazione e di esclusione. Ma così facendo consegna la scuola, che di un’immagine condivisa e realistica del passato ha bisogno, a coloro che questi problemi non se li pongono nemmeno, a quelle élites nuove, senza passato e senza nem- 23. Ravitch, The Death and Life, p. 17. 24. su questi temi si veda il saggio di allan Bloom, The closing of American Mind, New York, simon & schuster, 1987. Il mestiere di storico, IV / 1, 2012 48 saggi meno una nazione, che si impongono con prepotenza sull’onda delle trasformazioni dell’ economia mondiale tra gli anni ’90 e il Duemila.25 La storia della scuola nell’età del neoliberismo comincia dalla ine perché muove dalla rinuncia a fare della scuola il luogo della qualiicazione culturale del sentimento di una comune appartenenza nazionale. 25. sulla costituzione extraterritoriale dell’identità delle nuove élites finanziarie restano valide le considerazioni di Christopher Lash, La ribellione delle élites. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1995, che non a caso dedicava un intero capitolo del libro alle scuole pubbliche e alla figura di Horace Mann.