Valentino Nizzo
P
rendo la parola per pagare un debito che sento di avere nei confronti degli
Organizzatori che, concedendomi una borsa di studio, hanno fatto sì che potessi
partecipare a questo importante convegno.
Mi sembra che dalla relazione Pacciarelli-Criscuolo non siano emerse con sufficiente chiarezza
le molteplici problematiche connesse al gruppo di sepolture frutto degli scavi Dall’Osso-Osta
dell’inizio del secolo scorso.
Se è vero infatti che i documenti d’archivio rintracciati hanno permesso di sanare un
discreto numero di aporie nella composizione dei corredi ripristinando lo stato originario di
alcuni di essi, rimane comunque aperto il dato critico che emerge dall’intera vicenda che ha
interessato quei contesti e che dovrebbe di per sé costituire un monito per quanti si
avvicinano allo studio del frutto di scavi di vecchia data. Grazie agli studi di H. MüllerKarpe, come noto, le “tombe Osta” hanno costituito a lungo un fondamentale punto di
riferimento per la ricostruzione crono-tipologica della prima età del Ferro nell’Italia centromeridionale, almeno fino alla pubblicazione dei vasti sepolcreti di Sala Consilina,
Pontecagnano e della Valle del Sarno, per rimanere in ambito campano. Pertanto, prima di
procedere a nuove sintesi fondate essenzialmente su nuclei associativi solo in parte risanati e
sui quali necessariamente è bene che continui a gravare il dubbio, mi sarei aspettato una fase
di profonda riflessione su quelle che sono le nostre attuali conoscenze ed un serrato vaglio
critico di quelle che sono le nostre capacità esegetiche a fronte di una materia così importante
e complessa e, in fin dei conti, ancora troppo poco conosciuta, qual è quella della cultura
materiale cumana della prima età del Ferro.
Da questo punto di vista è lecito attendersi molto dalla pubblicazione degli scavi del
Centre Jean Bérard, gli unici che negli ultimi anni hanno restituito un lembo intatto, sebbene
piccolo, della necropoli preellenica.
Quel poco che sappiamo dalla documentazione di archivio (dalla quale, purtroppo,
manca all’appello la Relazione che, secondo alcune fonti, I. Dall’Osso dovrebbe aver
preparato per la pubblicazione nelle Notizie degli Scavi) e dalle poche notizie edite da V.
Maraglino (sulla base di informazioni attinte da Dall’Osso stesso nel 1905) ed E. Gabrici
mostra ad esempio come uno dei contesti di maggiore interesse e ricchezza, la tomba 4 Osta,
facesse parte di un gruppo di sepolture parzialmente disturbato «dai muri di sostruzione delle
più vetuste abitazioni»1, circostanza che potrebbe aver apportato delle alterazioni più o meno
significative alla composizione del corredo, alterazioni che non emergono in alcun modo dai
dati in nostro possesso in virtù dei quali è possibile tutt’al più espungere un vaso attualmente
riferito alla sepoltura che non viene citato nel rapporto del soprastante Di Blasi del 20 Marzo
19042.
Un altro aspetto che bisogna considerare con attenzione, nonostante le rassicurazioni
fornite da Dall’Osso al riguardo, è quello relativo alla mancanza sullo scavo di una adeguata
sorveglianza; sembra infatti che Dall’Osso fosse presente alla scoperta della sola tomba 1 e,
forse, a quella delle seguenti tre. È possibile quindi che una serie di disturbi e manomissioni
1 V. MARAGLINO, Cuma e gli ultimi scavi, in Atti della Reale Accademia di Archeologia,
Lettere e Belle Arti, vol. XXV, Napoli, 1908, p. 11.
2 Sulla questione cfr. V. NIZZO, Nuove acquisizioni sulla fase preellenica di Cuma e sugli
scavi di E. Osta, in MEFRA 119/2, 2007, p. 487, n. 26 e p. 492, n. 34.
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sia sfuggita al personale inviato dal Museo che si trovava peraltro a sorvegliare uno scavo
condotto sul campo da un privato con scarsi interessi per il dato scientifico e mosso
principalmente da fini di lucro.
Tale evenienza potrebbe contribuire a spiegare le anomalie che tuttora permangono nella
composizione di alcuni corredi quali quello della tomba Osta 25 che, seppur bonificata dai
rimescolamenti conseguenti alle complesse vicende di immagazzinamento e musealizzazione,
presentava già nel rapporto Di Blasi una associazione sospetta di elementi maschili e
femminili3.
Di fronte a basi così fragili sembra quindi opportuno un richiamo alla prudenza, vista
anche l’impossibilità, al momento, di risarcire tali lacune attraverso una comparazione
associativa con un numero statisticamente valido di contesti coevi provenienti dal medesimo
sepolcreto.
Un altro caso che rivela in modo piuttosto emblematico la fragilità del nostro quadro
conoscitivo è quello offerto dalla tomba Osta 14, un contesto che a partire dall’opera di
Gabrici e sino ad oggi è stato considerato un perno imprescindibile per lo studio delle
problematiche connesse alla transizione fra la fase preellenica e quella greca del sepolcreto in
virtù delle presunte analogie nella composizione e nella tipologia dell’armamento con il
corredo della tomba Artiàco 104 pubblicato da Pellegrini nel 1903; analogie solo apparenti
visto che in realtà le armi riferite erroneamente da Gabrici alla tomba 14 sono proprio quelle
della 104, separate dal contesto originario al momento del restauro ed attribuite per una
svista al nucleo Osta, con inavvertita duplicazione della relativa documentazione grafica4.
Un secondo punto che mi preme evidenziare è quello relativo al momento in cui, in
termini cronologici relativi, l’occupazione indigena della necropoli preellenica di Cuma
sembra cessare. Tale congiuntura dovrebbe porsi in coincidenza della fine della fase IIA
secondo la ricostruzione proposta nella relazione Pacciarelli-Criscuolo che è fondata su di un
vasto campione di reperti (contestualizzati e non) conservati a Napoli ed in altri musei, fra i
quali figurerebbero soltanto tre oggetti riferibili alla fase IIB. Se tale ipotesi cogliesse nel
segno le conclusioni che se ne potrebbero desumere, nonostante gli Autori non si siano
espressi dichiaratamente in tal senso, indurrebbero inevitabilmente a porre l’improvviso
abbandono della necropoli indigena in relazione con lo stanziamento dei primi coloni greci sul
suolo cumano.
Tralasciando le deduzioni che sul piano storico potrebbero inferirsi da tale ricostruzione5
quello che mi interessa sottolineare a partire da un riscontro autoptico di gran parte degli
NIZZO, art. cit. alla nota precedente, p. 493, n. 42.
Sulla questione cfr. V. NIZZO, I materiali cumani del Museo Archeologico di Firenze:
nuovi dati su Cuma preellenica e sugli scavi Osta, in Gli Etruschi e la Campania settentrionale,
Atti del XXVI Convegno di studi etruschi ed italici (Caserta, Santa Maria Capua Vetere,
Capua, Teano, novembre 2007), in corso di stampa. Sulle vicende degli scavi Maglione nel
Fondo Artiàco di Cuma cfr. IDEM, Gli scavi Maglione nel fondo Artiàco di Cuma: cronaca di
una scoperta, in ArchClass, LIX, 2008, in corso di stampa.
5 Per un esame generale del quadro storico ed una discussione dettagliata delle fonti si
rinvia ad A. MELE, Le anomalie di Pithecusa. Documentazioni archeologiche e tradizioni
letterarie, in Incidenza dell’antico 1, 2003, pp. 13-39 recentemente riproposto in Noctes
Campanae. Studi di storia antica e archeologia dell'Italia preromana e romana in memoria di
Martin W. Frederiksen, Napoli 2005, pp. 23-48, con bibl. precedente.
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oggetti considerati dai due Relatori è come non vi siano elementi che sul piano archeologico
permettano di collocare tale cesura in coincidenza così netta con la fine della fase IIA. Oltre
ai tre oggetti citati da Pacciarelli-Criscuolo ve ne sono diversi altri che sulla base delle
comparazioni che possono essere effettuate con materiali affini da sepolcreti coevi dell’Italia
centro-meridionale sembrano poter scendere oltre tale data, come peraltro ha bene
evidenziato la stessa Criscuolo in un suo contributo apparso meno di un anno fa sui reperti
sporadici di provenienza cumana conservati nel Museo civico di Baranello6.
Se, quindi, sulla base di confronti esterni sembra essere confermato il fatto che i contesti
finora noti di Cuma non scendano oltre un momento centrale del Primo Ferro II, non sembra
possibile dire altrettanto per i numerosi disiecta membra conservati nel Museo di Napoli ed in
altre raccolte italiane e straniere7, tenendo sempre ben presente, inoltre, come sia difficile
pervenire ad una puntuale definizione cronologica dell’evoluzione della cultura materiale
locale di un sito come quello di Cuma in assenza di un adeguato numero di associazioni e di
6 P. CRISCUOLO, Materiali dalla necropoli preellenica di Cuma nel Museo Civico di
Baranello, in C. GASPARRI, G. GRECO (edd.), Cuma. Il Foro. Scavi dell’Università di Napoli
Federico II, 2000-2001, Atti della Giornata di Studi (Quaderni del Centro Studi Magna Grecia.
Studi Cumani, 1), Napoli, pp. 304-5 e n. 199: «…vi sono alcuni elementi che indiziano una
maggiore estensione cronologica di questa porzione di necropoli, consentendo di delineare per
il Preellenico cumano un processo senza soluzione di continuità dalla fase più antica del
Primo Ferro I alla fase più matura del Primo Ferro 2… Infine, la presenza di manufatti
sicuramente inquadrabili in un momento evoluto del Primo Ferro… riduce notevolmente lo
hiatus cronologico tra la fine dell'abitato preellenico e la fondazione della colonia euboica
tradizionalmente posta nell'ultimo quarto dell'VIII secolo a.C., addirittura lo annullerebbe
se, come ormai appare accertato, l'evento fosse da anticipare al terzo quarto dell'VIII».
7 Fra i reperti del Museo di Baranello si vedano ad esempio i nn. 10, 17, 75, 76 editi in
CRISCUOLO, art. cit.; fra quelli del Museo Pigorini cfr. gli ess. nn. 68, 71 (quest’ultimo da
riferire molto probabilmente all’inizio dell’Orientalizzante), 107, 113 editi in V. NIZZO, I
materiali cumani del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L. Pigorini”, in BPI 97, 2008,
in corso di stampa; fra quelli del Museo di Firenze cfr. gli invv. nn. 82339, 82348 editi in
IDEM, I materiali cumani del Museo Archeologico di Firenze: nuovi dati su Cuma preellenica e
sugli scavi Osta, in Gli Etruschi e la Campania settentrionale, Atti del XXVI Convegno di studi
etruschi ed italici (Caserta, Santa Maria Capua Vetere, Capua, Teano, novembre 2007), in
corso di stampa; fra i reperti conservati a Napoli si vedano ad esempio le fibule a sanguisuga
ed a navicella con staffa simmetrica o asimmetrica più o meno allungata edite da Gabrici, di
cronologia compresa certamente nell’ambito della seconda metà dell’VIII secolo (E. GABRICI,
Cuma, in MonAL XXII. 1913, col. 87, tav. XX, 4, nr. inv. 125486; col. 142, tav. XXI, 1 e 2
dalla Collezione Stevens, nn. invv. 140364 e 140394; cfr. inoltre l’esemplare inedito inv.
141668 a sanguisuga piena con apofisi laterali e staffa simmetrica di tipo affine al citato inv.
140364, attualmente esposto con altri tre esemplari simili nella sala dedicata a Cuma
preellenica del Museo Archeologico di Napoli), ed alcuni pendagli con ampi riscontri nella
metallotecnica campana della seconda metà dell’VIII sec. a.C. (ibidem, coll. 87-88, 92 e 144145, tavv. XXV, 5 e XXVI, 3; sull’argomento cfr. da ultimo V. NIZZO, Le produzioni in
bronzo di area medio-italica e dauno-lucana, in M. G. BENEDETTINI (ed.), Il Museo delle
Antichità Etrusche e Italiche. II. Dall’incontro con il mondo greco alla romanizzazione, Roma
2007, pp. 327-359).
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contesti affidabili sulla quale fondarla, almeno rispetto a quelle che sono le esigenze raggiunte
dalla nostra disciplina negli ultimi anni.
Alla luce dei dati finora noti non sembrerebbe quindi possibile individuare una netta
interruzione nell’uso del sepolcreto da parte degli indigeni prima della fase IIB; per tali
ragioni sembra pertanto dover rimanere ancora aperta la questione delle dinamiche di
penetrazione della componente greca, sia dal punto di vista prettamente cronologico che da
quello più generale dei rapporti fra lo stanziamento di Pithekoussai e quello di Cuma. Da
questo ultimo punto di vista le scoperte illustrate in questa ed in altre sedi da Bruno
d’Agostino e Matteo D’Acunto sembrano rivelare nell’ambito del terzo quarto dell’VIII
secolo la compresenza in un contesto abitativo di reperti indigeni con materiali riferibili
almeno al TG1, circostanza che trova riscontro nei pochi dati noti sulla campagna di scavi
condotta nel 1910 da E. Gabrici sull’acropoli8 e che lascerebbe pensare ad un periodo più o
meno prolungato di convivenza fra le due comunità prima del definitivo stanziamento della
colonia greca.
Quest’ultima riflessione mi porta a toccare sinteticamente un ultimo punto. I dati
anticipati già in diverse altre sedi congressuali e discussi con maggiore dettaglio in queste
giornate dalle diverse èquipe attive negli ultimi anni a Cuma mostrano in modo sempre più
evidente come la presenza greca in questo sito affondi le sue radici in un periodo
significativamente anteriore a quell’ultimo quarto dell’VIII secolo che sulla base dei dati
sinora conosciuti sembra costituire il momento più antico di utilizzo della necropoli da parte
dei primi coloni dell’Eubea; l’attestazione di materiali greci risalenti al TG1 ed al MG in
contesti abitativi di Cuma parrebbe pertanto rivelare una sostanziale simultaneità con
quanto è documentato a Pithekoussai, ridimensionando significativamente o addirittura
annullando il décalage cronologico che si è finora supposto fosse esistito fra i due
stanziamenti. Devo confessare sinceramente che tali importantissimi ritrovamenti non mi
sorprendono affatto e che al contrario auspico e mi aspetto che in futuro ne tornino alla luce
altri ancor più significativi ed abbondanti. Sul piano interpretativo, tuttavia, mi permetto di
offrire alla discussione e di sottoporre al vostro giudizio qualche considerazione leggermente
divergente rispetto al quadro ricostruttivo che sembrerebbe potersene trarre. Una precoce
presenza greca sul suolo cumano quale quella documentata dalle recenti scoperte potrebbe
infatti riallacciarsi a quanto risulta oggi ben noto per altri siti indigeni dell’Italia peninsulare
come Veio e Pontecagnano, dove l’installazione di immigrati greci, preceduta da un periodo
più o meno lungo di frequentazioni «precoloniali», ha dato vita a precoci fenomeni
assimilativi, sia dal punto di vista socio-culturale che da quello tecnico, i cui esiti più evidenti
su di un piano puramente “archeologico” si materializzano, fra le altre cose, nell’imitazione e
nella reinterpretazione di forme ceramiche allogene9.
Ebbene non vedo perché un quadro simile non possa essere ipotizzato anche nel caso di
Cuma che, per la sua stessa posizione, sembra prestarsi mirabilmente all’avvio di un processo
assimilativo di questo tipo con la sostanziale differenza che esso andò poi evolvendosi in una
vera e propria “colonizzazione”. Se così fosse rimarrebbero da chiarire i tempi e le
problematiche connesse all’evoluzione di quest’ultimo processo, cercando di delineare in
modo più compiuto quali siano quei requisiti attraverso i quali sia possibile riconoscere a
GABRICI, op. cit., col. 756 ss.
Sulla questione in generale si veda: G. BAILO MODESTI, P. GASTALDI (edd.), Prima di
Pithecusa: i più antichi materiali greci dei Golfo di Salerno, Napoli 1999, con bibl.
8
9
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Cuma l’installarsi dell’apoikia greca, ossia la vexata quaestio della nascita e della definizione
del concetto stesso di «città». A mio avviso la documentazione della necropoli di Pithekoussai
sembra offrire in controluce qualche elemento utile per l’approfondimento di queste
dinamiche. La necropoli pithecusana infatti sembra riflettere fin dalle sue fasi più antiche
una comunità aperta, fortemente inclusiva, disposta ed, anzi, obbligata allo “scambio” per la
sua stessa sussistenza. L’inclusione degli indigeni nel sepolcreto (sebbene in alcuni casi in
posizione manifestamente marginale), l’adozione di oggetti e costumi locali attraverso
meccanismi quali il dono, lo scambio matrimoniale o, anche, l’atto predatorio rappresentano
tutti indizi di un lento processo di assimilazione, compenetrazione e trasformazione che sul
suolo cumano dovette portare ad una progressiva sostituzione della componente greca a
quella indigena ed anche ad una inevitabile ellenizzazione di quest’ultima, un processo che
potrebbe altresì essersi manifestato attraverso atti di violenza quali quelli che sembrano
essere adombrati da un celebre passo di Flegonte di Tralle10. Questi ultimi atti, tuttavia,
potrebbero aver avuto luogo non in un momento iniziale di quel processo precedentemente
ipotizzato ma in una sua fase avanzata, forse coincidente con il principio dell’ultimo quarto
dell’VIII secolo, periodo nel quale la composizione demografica riflessa dalla necropoli di
10 FGrHist 257 F 36 X B 53-56; sulla questione cfr. gli articoli di MELE cit. alla nota 5
con bibl. precedente. Per quel che riguarda le dinamiche di insediamento dei primi Greci
sull’isola d’Ischia il quadro prospettato da Giorgio Buchner nel 1948, alla luce dei dati del
villaggio indigeno del Castiglione e prima dell’avvio degli scavi della necropoli, sembra
ancora essere sostanzialmente valido (G. BUCHNER, A. RITTMANN, Origine e Passato dell’isola
d’Ischia, Napoli 1948, pp. 41 s.). La presenza di frammenti ceramici subgeometrici prodotti
con argilla locale negli strati del villaggio indigeno sembra infatti testimoniare una
simultaneità fra questo sito e quello del Monte di Vico scelto dai Greci per la loro
installazione, un sito quest’ultimo che al momento del loro arrivo risultava
significativamente disabitato (D. RIDGWAY, L’alba della Magna Grecia, Milano 1984, pp. 9798), a riprova di come la strategia insediativa degli Euboici, almeno limitatamente alle sua
fasi iniziali, fosse rivolta a privilegiare un modello di pacifica convivenza (alla quale gli
indigeni, per usare le parole di Buchner, avrebbero reagito mantenendo «una posizione di
riservata diffidenza verso i nuovi venuti e la loro civiltà progredita»). L’abbandono
improvviso del villaggio di Castiglione, infatti, sembra essere avvenuto solo in seguito
all’eruzione del dicco trachitico di Cafieri e non ad una iniziativa greca (BUCHNER,
RITTMANN, op. cit., pp. 24 e 42). Per quel che riguarda invece la situazione di Cuma è a mio
avviso difficile spiegare, nel caso della contemporaneità o addirittura dell’anteriorità
dell’installazione greca in quest’ultimo sito rispetto a Pithekoussai, le ragioni che avrebbero
indotto i Greci a mantenere sull’isola strutture produttive ed industriali ed una comunità
relativamente popolosa qualora avessero potuto disporre sin da subito delle fertili ed ampie
pianure dell’entroterra flegreo; inoltre se gli Euboici avessero potuto controllare in
sostanziale contemporaneità entrambi i siti fin dall’avvio della loro impresa transmarina,
questo avrebbe dovuto rendere necessario l’impiego di un numero di mezzi e di uomini senza
dubbio assai rilevante se rapportato all’epoca in cui esso avrebbe dovuto aver luogo e se
posto in relazione con il dato credibile emerso dalle ricerche di Pacciarelli-Criscuolo
sull’estensione del sepolcreto indigeno che, se non erro, sarebbe riferibile ad una comunità di
circa 2000 individui, oltretutto ben armati ed asserragliati su di una acropoli piuttosto ben
difesa grazie alla sua stessa geomorfologia.
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Pithekoussai mostra dei mutamenti significativi, quali, ad esempio, la flessione del numero
delle cremazioni (a fronte di un generalizzato incremento degli inumati) e l’esaurirsi
improvviso di alcuni nuclei familiari presenti fin dalle fasi più antiche del sepolcreto,
circostanza che chi vi parla ha proposto di collegare ad un loro possibile trasferimento sulla
terraferma di Cuma11.
A titolo puramente informativo presento un ultimo dato che costituisce a mio avviso
una ulteriore acquisizione nel panorama dei contatti precoloniali fra la componente indigena
di Cuma e quella greca e sul quale mi soffermerò con maggiore dettaglio in un articolo in
uscita nel prossimo volume del Bullettino di Paletnologia Italiana12. Si tratta di una coppia di
bipenni di bronzo dalle dimensioni di 18 cm per 14 e dallo spessore di 2 mm, caratteristiche
che ne fanno degli oggetti simbolici ma non miniaturistici. Tali reperti, noti solo attraverso
un disegno, risultano attualmente dispersi ma erano originariamente associati ad un nucleo di
vasi preellenici frutto di scavi clandestini effettuati tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900
nella necropoli di Cuma e pervenuti al Museo Preistorico di Roma grazie ad una donazione
effettuata nel 1912 dal naturalista Paolo Carucci. Sebbene le circostanze del ritrovamento
siano incognite l’associazione e la provenienza dei reperti sembrano sufficientemente
garantite sulla base del loro esame crono-tipologico. Verrebbe così recuperato al sepolcreto
preellenico di Cuma un manufatto dallo straordinario valore simbolico, noto in ambito greco,
in particolare santuariale, attraverso un gran numero di attestazioni votive e/o
miniaturizzate, ma testimoniato anche da esemplari funzionali in ferro alcuni dei quali sono
stati significativamente rinvenuti in contesti funerari del tardo e del sub-protogeometrico da
Lefkandi e Viglatouri in Eubea. A Pithekoussai ne sono note alcune riproduzioni
miniaturistiche in bronzo, osso ed avorio da contesti delle fasi più antiche del sepolcreto, ma
le riproduzioni più vicine morfologicamente all’esemplare cumano sono quelle rappresentate
su alcuni crateri tardo-geometrici di produzione pithecusana dove la raffigurazione
dell’antico simbolo di potere di ascendenza minoico-micenea, la pèlekys, figura come
riempitivo quasi sempre in associazione emblematica con un cavallo, in modo tale da evocare
quell’immaginario tipico degli hippobotai calcidesi che qualche decennio più tardi troverà un
suo compiuto riflesso in sepolture dei vertici dell’aristocrazia cumana quali la principesca
tomba 104 del fondo Artiàco.
Anna Maria Sestieri
V
orrei chiedere: che cosa è la ceramica d’impasto fatta al tornio? Perché, per quel che
ne sapevo, tecnicamente la ceramica d’impasto si può fare solo a mano, perché se si fa
al tornio il vasaio si fa male alle mani.
11 V. NIZZO, Ritorno ad Ischia. Dalla stratigrafia della necropoli di Pithekoussai alla
tipologia dei materiali, Collection du Centre Jean Bérard 26, Naples 2007, passim.
12 V. NIZZO, in BPI 2008 art. cit. alla nota 7; per una breve anticipazione cfr. V. NIZZO,
S. TEN KORTENAAR, Veio e Pithekoussai: il ruolo della comunità pithecusana nella trasmissione
di oggetti, tecniche ed “idee”, in Incontri tra Culture nel Mondo Mediterraneo Antico,
Proceedings XVII International Congress of Classical Archaeology, Rome, 22nd September
– 26th September 2008, in corso di stampa.
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