Costellazioni
4
Tutto è fatto per custodire la scena in cui costellazioni
sempre nuove, sino ad allora imprevedibili, possano accadere
Walter Benjamin, Asja Lacis
La collana “Costellazioni” è volta a valorizzare il contributo dei
giovani borsisti alle attività dell’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici. I singoli progetti, articolati secondo temi proposti in
seminari e laboratori tenuti nel corso dell’anno accademico in
Istituto, sono inscritti in un complessivo percorso di formazione
che ha come obiettivo primario la creazione di spazi condivisi di
riflessione.
«Il primo fonte della felicità umana»
Leopardi e l’immaginazione
a cura di Ludovica Boi e Sebastian Schwibach
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press
La collana Costellazioni è promossa dall’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici
© 2021 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
www.iisf.it
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press
Via Monte di Dio, 14
80132 Napoli
www.scuoladipitagora.it/iisf
info@scuoladipitagora.it
isbn
978-88-97820-51-2
Il marchio editoriale Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Press è coordinato e diretto dalla Scuola di Pitagora s.r.l.
Pubblicato nel mese di marzo 2021
INDICE
Prefazione
di Massimiliano Biscuso
Introduzione
di Ludovica Boi e Sebastian Schwibach
9
13
AttrAversAre l’immAginAzione
Il rapporto immaginazione-filosofia
e l’unità della conoscenza in alcune note
dello Zibaldone
di Andrea Ferretti
Soglie. Sul senso dell’animo
di Massimiliano Biscuso
«Io nel pensier mi fingo»: appunti
sulla teoria leopardiana dell’immaginazione
di Amedeo Vigorelli
27
54
89
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
Entusiasmo erotico e immaginazione:
oltre l’arido campo della ragione
di Sebastian Schwibach
107
Nell’alveo dell’immaginazione:
Leopardi e Nietzsche tra poesia e filosofia
di Ludovica Boi
131
La potenza dell’amore:
sul rapporto tra filosofia e poesia in Leopardi
di Nicolò Galasso
157
Poesia e filosofia: da Giacomo Leopardi
agli autori del secondo Novecento
di Giulia Venturi
175
lA potenzA dell’immAginAzione
nel cAmpo delle scienze e dell’eticA
Il potere dell’immaginazione: Vailati e Leopardi 193
di Luca Natali
Immaginazione, ricordanza e imitazione:
Giacomo Leopardi e Paolo Marzolo
di Alice Orrù
Il Leopardi persuaso di Aldo Capitini
di Daniele Taurino
227
253
La comunità immaginata:
l’idea della relazione sociale tra scetticismo,
materialismo e politica in Rensi e Leopardi
di Franco Gallo
281
PREFAZIONE
Da almeno venti anni a questa parte la ricerca sul
pensiero filosofico di Leopardi sta conoscendo una
nuova stagione. Mi limito qui a segnalare solo alcune
aree di indagine sotto le quali ricondurre una notevole
molteplicità di studi. In primo luogo vanno ricordate
le ricerche sulla formazione scientifica del giovane
Giacomo, il rapporto con scienziati suoi amici e con
la letteratura scientifica, la filosofia della natura della
maturità. È forse questo il campo in cui sono giunte
le maggiori novità rispetto all’immagine tradizionale
che assegnava al precocissimo Leopardi un’erudizione
scientifica stupefacente ma in fondo superficiale, e non
una formazione solida, capace di effetti duraturi nella
meditazione e nel canto successivi. In secondo luogo,
sono state condotte pregevoli indagini sul rapporto
tra Leopardi e il pensiero dei filosofi precedenti e a
lui contemporanei, permettendo quindi di attribuire
al pensiero leopardiano una più chiara consapevolezza filosofica. Ulteriore direzione d’indagine è stata la
“storia degli effetti” nel pensiero filosofico del primo
10
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
e del secondo Novecento, ora esaminata con ben altra
sistematicità che in precedenza, con il risultato di far
emergere una presenza del pensiero del Recanatese
ancor più diffusa di quanto si credesse e di gettare
luce su figure e aspetti finora troppo poco studiati. A
questi due ultimi filoni di indagine – il rapporto di Leopardi con la tradizione filosofica e le interpretazioni
filosofiche di Leopardi – è stato dedicato il seminario
della Scuola di Roma della primavera 2019, dal quale
è nato il progetto del presente volume. Infine, vanno
ricordate le rinnovate e approfondite ricerche sullo
Zibaldone di pensieri, stimolate, tra l’altro, dall’edizione tematica e dalla traduzione in lingua inglese
dell’«immenso scartafaccio»; ricerche che hanno, da
una parte, attirato l’attenzione sugli intenti sistematici
di Leopardi, che ridimensionano il fascino del frammento e dell’incompiuto che aveva caratterizzato molti
studi novecenteschi; dall’altro, stimolato un approfondimento sui concetti fondamentali della ricerca metafisica, antropologica, storico-culturale e linguistica
del Recanatese.
Tra questi concetti fondamentali c’è sicuramente
quello di immaginazione. I giovani studiosi che hanno
scelto questo tema sollecitati da quanto discusso nel
seminario romano e i meno giovani che hanno accettato di contribuire al presente volume, curato con
competenza e passione da Ludovica Boi e Sebastian
Schwibach, si sono fatti carico della grande complessità di un concetto che, però, è solo un nodo, per quanto
importante, della rete concettuale dell’universo filosofico e poetico leopardiano. Infatti, indagare l’immaginazione ha significato analizzare innanzi tutto i
rapporti tra filosofia e poesia, oggetto di indagine di
molti interventi; ma anche studiare le relazioni con
prefAzione
11
l’amore, la ricordanza, l’imitazione, il senso dell’animo, e ancora la visione e il segno pittorico, l’attitudine
pratica ad agire moralmente e politicamente. Spesso le
indagini hanno affrontato il proprio oggetto non solo
ricorrendo ai testi leopardiani, illuminati dai loro principali interpreti, ma interrogando direttamente questi
interpreti, per poter cogliere il significato dei concetti
di Leopardi, per così dire, nell’ingrandimento che quei
concetti hanno ricevuto da quegli interpreti, oppure
per poterne più nitidamente far risaltare il profilo dal
contrasto tra il loro significato e l’uso che quei filosofi
ne hanno fatto.
Questo libro ci sembra quindi un passo ulteriore nella
direzione della comprensione più circostanziata e storicamente contestualizzata della filosofia di Leopardi.
Massimiliano Biscuso
INTRODUZIONE
Il volume che qui si presenta nasce dal profondo
interesse suscitato dal ciclo di Seminari leopardiani,
curato da Massimiliano Biscuso e tenutosi nell’ambito
della Scuola di Roma dell’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici nelle giornate del 20-22 febbraio e del 27-29
marzo 2019. A partire da tali incontri, infatti, è nata
l’idea della stesura di un volume che potesse accogliere
tanto i contributi dei relatori che quelli dei borsisti e dei
giovani studiosi presenti. Il ciclo di seminari, diviso in
due sezioni rispettivamente dedicate alla lettura leopardiana dei filosofi e alla lettura filosofica di Leopardi,
ha messo in particolare luce l’importanza del rapporto
tra immaginazione e ragione nel pensiero poetante del
Recanatese, fornendo così lo spunto fondamentale per
il successivo progetto editoriale.
Nel corso delle prime tre giornate, gli interventi di
Franco D’Intino, Stefano Gensini e Massimiliano Biscuso hanno svolto una ricognizione sistematica delle
letture e delle influenze filosofiche esercitate sul Nostro. In particolare, l’intervento di D’Intino – Leopardi
14
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
legge Platone – ha mostrato il complesso rapporto tra
i due poeti-filosofi, che, pur a distanza di millenni, si
trovano a intrecciare un continuo dialogo sul rapporto
tra verità e bellezza, poesia e filosofia, ragione e immaginazione. Attraverso un’attenta disamina dello Zibaldone, D’Intino ha messo in luce la notevole influenza
esercitata sul Leopardi dall’Ateniese, che, in un primo
tempo conosciuto solo indirettamente, diviene, soprattutto a partire dalla proposta ricevuta nel ’23 di tradurre il corpus platonico, punto di riferimento non solo
contenutistico, ma anche stilistico. Se è infatti indubbio
che il pensiero leopardiano si formi anche a partire da
una rilettura critica di Platone, meno evidente risulta
la tesi secondo cui le Operette morali più che “lucianee” siano da considerarsi “platoniche”. L’intervento
di Gensini – Leopardi incontra Locke e Montesquieu
– ha invece evidenziato l’importanza delle letture leopardiane di Locke (indiretta) e Montesquieu, cui si
affianca l’attenzione, spesso soddisfatta attraverso la
lettura in filigrana di opere apologetico-cristiane, verso
il sensismo francese. Proprio la lezione sensista e la
lettura del Saggio sul gusto di Montesquieu aprono
il giovane Leopardi ad una nuova considerazione del
piacere nel suo rapporto con l’immaginativa. Nel suo
intervento – Leopardi legge Kant – Biscuso ha volto
la sua attenzione al rapporto tra Leopardi e la filosofia
classica tedesca, allora poco conosciuta in Italia e ritenuta in ogni caso eccessivamente astratta e fantastica.
Nonostante il Recanatese ritenga filosofia vera il solo
sensismo empiristico, è possibile tuttavia ritrovare, al
di là delle differenti prospettive, talune tangenze tra
l’accezione di sublime della terza Critica e la Ginestra.
Nelle giornate del 27-29 marzo, gli interventi di
Gaspare Polizzi, Amedeo Vigorelli, Franco Gallo e
introduzione
15
Luca Natali, che hanno consentito di inquadrare con
maggior precisione il pensiero leopardiano nel contesto
della filosofia otto-novecentesca, hanno ulteriormente
confermato la necessità di un’attenta riflessione sul
tema dell’immaginazione. Polizzi – Nietzsche legge
Leopardi – si è concentrato sullo stretto legame che
lega il filosofo tedesco al Recanatese, considerato molto vicino al pensiero tragico di Schopenhauer. Proprio
Nietzsche, inoltre, istituisce un nesso tra Pindaro e Leopardi, da intendersi come due emblemi di pensatoripoeti, ovvero di coloro che vivono la loro filosofia fino
alle soglie della disperazione, della morte. Nel suo intervento – Gentile legge Leopardi – Vigorelli ha messo
in luce un possibile parallelo tra la lettura heideggeriana di Hölderlin e quella gentiliana di Leopardi, del
cui pensiero l’attualismo si considera la realizzazione.
Per Gentile, che inizialmente ne accentuava la potenza
poetica, Leopardi è sia il filosofo del nichilismo che il
filosofo della filosofia nichilista, ovvero il filosofo del
superamento del nichilismo stesso. In questo senso le
Operette morali sono l’espressione dei tre ritmi filosofici trascorrenti dalla filosofia negativa fino all’ultrafilosofia. Natali – Martinetti legge Leopardi – si è
concentrato sul rapporto tra Martinetti e Leopardi, il
quale, nell’Introduzione alla metafisica del 1902-1904,
viene considerato un esempio di “poeta metafisico”,
capace, come Goethe, Novalis e Hölderlin, di intuire
in modo immediato la verità. A partire dall’influsso
di autori quali Schopenhauer e Wundt, il pensiero di
Martinetti si sviluppa intorno al tema del dolore, inteso
come origine della filosofia, necessario punto di avvio
per qualsiasi riflessione esistenziale. In ultimo, l’intervento di Gallo – Rensi legge Leopardi – ha elucidato la
lettura rensiana del poeta-filosofo, interpretato come
16
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
un potenziale pensatore sistematico, un precursore del
socialismo e al contempo un autore dai tratti gnosticomisticheggianti.
Dalla breve esposizione svolta, è possibile evincere
la vastità e le implicazioni filosofiche oltre che storicocritiche degli interventi tenutisi nella primavera del
2019, i quali hanno sollecitato molti quesiti nei partecipanti e negli stessi relatori, che dunque hanno deciso
di collaborare per continuare a riflettere sul pensiero
di un autore ancora troppo spesso sottovalutato dal
punto di vista speculativo. Da questa ulteriore riflessione nascono i contributi che qui si presentano, i quali
hanno cercato di esaminare in tutta la sua ricchezza
un pensiero estremamente raffinato, non incline alle
facili soluzioni, ma intimamente teso alla ricerca di
una bellezza che sia anche vera, di una verità che non
sia solo dolore, di una ragione che sia poesia e di una
poesia che non sia necessariamente finzione.
Entrando nel merito del volume che qui si pubblica,
è bene in prima istanza evidenziare il suo intento fondamentale, che consiste in un tentativo di scandagliare
la portata della facoltà immaginativa leopardiana a partire da prospettive molteplici, interrogando il pensiero
poetante del Recanatese rispetto a una varietà di temi
teoretici, estetici, linguistici, etici e politico-sociali. In
tutti questi campi è l’immaginazione, facoltà che è alla
radice sia della produzione poetica sia della riflessione
filosofica, a fornire risposte efficaci e in un certo senso “costruttive”, tanto che risulta possibile superare
l’immagine ormai stantia del Leopardi rassegnato pessimista, chiuso nel proprio isolamento, valorizzando
l’ampia e variegata tematizzazione di quella che, come
recita il titolo del volume, è considerata «il primo fonte
della felicità umana» (Zib. 168).
introduzione
17
Il volume si apre con una sezione che tenta di inquadrare il significato teorico-pratico dell’immaginazione
in Leopardi, fornendo così le coordinate necessarie
alla puntuale e accurata ricostruzione dell’oggetto
dell’indagine. L’attraversamento che dà il titolo al
primo gruppo di saggi consiste nel chiarimento della
funzione, delle caratteristiche e delle interazioni, in un
certo senso dell’essenza, della facoltà immaginativa
leopardiana.
Mediante un’attenta analisi testuale di alcuni passi
dello Zibaldone, Andrea Ferretti ricostruisce l’evoluzione della filosofia leopardiana, dalla constatazione
dell’opposizione e inconciliabilità di “natura” e “ragione” alla intuizione di una fertile sinergia di “immaginazione” e “intelletto”, felicemente scoperti come
un tutt’uno. In assenza di immaginazione, la filosofia
si troverebbe costretta a rinunciare alla propria sistematicità: il momento analitico-razionale ha la propria
ragion d’essere soltanto grazie al colpo d’occhio immaginativo-sintetico, decisivo anche sul piano linguistico.
Il saggio di Massimiliano Biscuso, prendendo le
mosse dall’analisi di un passo del Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl’Italiani, in cui si riconduce all’immaginativa la facoltà di concedere valore alla vita, studia poi dettagliatamente – tentando
di ricostruirne le possibili fonti – il concetto di “senso
dell’animo”, locuzione che compare nel Dialogo di
Plotino e di Porfirio, a significare una disposizione
a sentire e con-sentire. L’Autore ha dunque modo di
argomentare la propria interpretazione di senso dell’animo come di una “soglia”, tra prima e seconda natura,
originario e acquisito, antico e moderno.
Il contributo di Amedeo Vigorelli interroga alcune
note leopardiane sulla pittura, mettendone in luce cen-
18
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
trali analogie con la poesia (caratterizzata come pittura
interiore). Tanto il poeta quanto il pittore raggiungono
un effetto di naturalezza e accuratezza nella rappresentazione, lasciando ampio spazio all’intervento attivo e
immaginativo del fruitore, evocando cioè il suo “desiderio di infinito”, sollecitandone i moti sentimentali
ed emotivi, connessi alla memoria e all’immaginazione, piuttosto che le percezioni dirette. L’Autore può
pertanto accennare a una suggestiva interpretazione
“pittorica” di alcuni canti leopardiani (L’infinito, Le
ricordanze).
La seconda sezione del presente volume è composta
da saggi che indagano la fecondità dell’immaginazione nel campo della poesia e della filosofia – discipline affini in quanto originate dalla stessa sorgente
–, aprendo al confronto con alcune imponenti figure
del panorama filosofico occidentale, interrogatesi sul
medesimo tema.
A partire da una vivida rievocazione della Storia
del genere umano, Sebastian Schwibach individua due
opposte forze animanti il pensiero leopardiano: Amore
e Verità. Rispettivamente prodotti di immaginazione e
ragione, esse si pongono come fondamentali chiavi di
lettura del rapporto di attrazione e repulsione vissuto
dal poeta nei confronti di Platone, nella cui filosofia
riesce travagliatamente a intravedere un eroico tentativo di conciliazione di ragione e immaginazione,
nella ricerca di una perfezione che esista qui con noi.
L’indagine si dispiega inoltre a rintracciare la straordinaria comunanza di sentire che avvicina Leopardi
a Friedrich Hölderlin.
Nel saggio Nell’alveo dell’immaginazione: Leopardi e Nietzsche tra poesia e filosofia, Ludovica
Boi evidenzia gli echi leopardiani nella produzione
introduzione
19
filosofica nietzschiana, relativamente alla centralità
dell’immaginazione in campo teoretico-estetico. Malgrado il formale distacco dalla sensibilità leopardiana
denunciato dal tedesco contemporaneamente al proprio
congedo da Schopenhauer, in alcune brevi note del
periodo della maturità Nietzsche continua ad ammirare
Leopardi per la sua visione del bello. Attraverso la
lettura di alcuni passi dello Zibaldone dei primi anni
’20 e delle Operette, nonché di brani nietzschiani (tratti
da La gaia scienza, Così parlò Zarathustra, Al di là
del bene e del male), l’Autrice cerca di porre in luce la
valenza filosofica dell’immaginazione poetica, capace
di accedere al “vero” più potentemente della ragione.
Il nodo centrale del contributo di Nicolò Galasso
verte sulla nozione leopardiana di amore – da intendere come espressione della vera filosofia e della vera
poesia –, variamente interpretata da Giovanni Gentile,
Toni Negri ed Emanuele Severino. Stanti le peculiarità
di ciascuna lettura, tutte e tre evidenziano la forza
ontologicamente produttiva e la capacità di fungere
da nexus tra filosofia e poesia, proprie dell’amore così
come declinato dal poeta. Tale forza risulta connessa al
desiderio e all’immaginazione e consente di individuare nel pensiero leopardiano una radicale opposizione
al pessimismo passivo e solipsistico, dischiudendo lo
spazio dell’azione etica.
Il saggio di Giulia Venturi prende le mosse da una
puntuale disamina degli aspetti formali della produzione letteraria leopardiana, primo fra tutti un classicismo
intriso di modernismo, per scoprirne l’origine e la causa nella volontà di congiungere invenzione poetica e
pensiero filosofico in un coagulo inscindibile. In base
a ciò, l’Autrice ha modo di soffermarsi sulla interpretazione della filosofia leopardiana proposta da Giuseppe
20
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Rensi, il quale assimila la riflessione filosofica alla
espressione artistica, piuttosto che all’esatta scienza
matematica. Dunque si concentra, nel novero dei poeti
più sensibili a questo avvicinamento alla “metafisica”,
sui casi di Eugenio Montale e di Piero Bigongiari.
I saggi raccolti nella terza e ultima sezione del presente volume si pongono come obiettivo primario l’indagine della vasta portata della facoltà immaginativa
nell’ambito delle scienze (siano esse la linguistica, la
fisica, la politica) e dell’etica. Anch’essi, come i saggi
raccolti nella seconda sezione, offrono al lettore alcune
interessanti occasioni di mettere in relazione gli esiti
della poesia filosofica leopardiana al pensiero di altri
autori.
È grazie alla meticolosa consultazione delle carte
inedite dell’Archivio Vailati che Luca Natali sviluppa
il proprio studio sulla lettura vailatiana del Recanatese
e sull’influenza di quest’ultimo sul pragmatismo del
filosofo cremasco. Giovanni Vailati connette il termine
“immaginazione” a quello di “previsione”, rinvenendo
nella facoltà immaginativa un momento chiave nella
costruzione di teorie scientifiche. L’Autore avvicina
tale impianto teoretico, basato sul potenziale euristico dell’immaginazione, alle note zibaldoniane sulla
comune discendenza dell’immaginazione poetica e
filosofica e all’operetta Il Parini, sottolineando come,
con le dovute distinzioni, il “mondo del cuore” leopardiano sia affine al “mondo di carta” vailatiano.
Nel suo saggio, Alice Orrù si sofferma sulla disamina dei molteplici punti di contatto tra il pensiero
filosofico-linguistico di Giacomo Leopardi e quello del
contemporaneo Paolo Marzolo. Cardini della riflessione divengono il rapporto della parola tanto col pensiero
quanto col sentimento, e il ruolo della facoltà imitati-
introduzione
21
va. Indubbiamente vicino al sensismo e materialismo
leopardiano, Marzolo rifiuta l’innatismo cartesiano e,
come Leopardi, afferma la precedenza del sentimento
rispetto al pensiero: le loro teorie filosofico-linguistiche
vengono dall’Autrice ricondotte alle comuni ascendenze ideologiche e lucreziane, e all’orizzonte empiristicosensistico in cui quelle teorie si collocano.
Al centro del contributo di Daniele Taurino appare la costellazione Giacomo Leopardi-Aldo Capitini.
Quest’ultimo rintraccia nel pensiero del Recanatese
una tensione immaginativa che contrasta le limitazioni
indotte dalla morte e dalla violenza, e dischiude lo
spazio proprio dell’azione etica, guardando instancabilmente alla possibilità di una realtà, socio-politica e
intersoggettiva, diversa da quella posta sotto il giogo
della “natura matrigna”. In altre parole, Capitini vede
in Leopardi la chiara esemplificazione della figura del
“persuaso”. Il “tu” liricamente rivolto alla Luna, ma
non soltanto a essa, nel Canto notturno, nutre l’istanza
del Tu che sta alla base dell’orientamento nonviolento
capitiniano, in cui è possibile sempre di nuovo nascere.
Il confronto tra Giuseppe Rensi e Giacomo Leopardi, attorno a cui si sviluppa il saggio di Franco
Gallo, si connota sin da subito come un dialogo tra
uno scettico nichilisticamente avvinto all’assunto della
follia di ogni morale e un “materialista della seconda natura”, capace di una lettura più complessa della
diversità delle vicende dei popoli e delle loro identità
collettive. Leopardi può distinguersi dall’aspra visione nichilistica, polemologico-individualistica del suo
successore facendo leva sulla preponderanza degli
affetti: la “vera comunità” a cui pensa il Recanatese
non è mai solo immaginata, ma piuttosto sempre ancorata al suo fondamento naturale – sostiene l’Autore
22
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
interpretando il Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl’Italiani.
Desideriamo sinceramente ringraziare i membri
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in particolare Massimiliano Biscuso, Wolfgang Kaltenbacher e
Fiorinda Li Vigni, che hanno incoraggiato e sostenuto
calorosamente la realizzazione del volume, offrendoci una straordinaria occasione di collaborazione a un
progetto realmente partecipato e corale.
Ludovica Boi, Sebastian Schwibach
Avvertenza editoriale
Le edizioni di riferimento dell’opera leopardiana
sono le seguenti:
Zib.: G. Leopardi, Zibaldone, a cura di G. Pacella,
Garzanti, Milano 1991 (la numerazione fa riferimento
alla paginazione dell’autografo);
TPP: G. Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, a
cura di L. Felici, E. Trevi, Newton Compton, Milano
1997.
Attraversare l’immaginazione
IL RAPPORTO IMMAGINAZIONE-FILOSOFIA
E L’UNITÀ DELLA CONOSCENZA
IN ALCUNE NOTE DELLO ZIBALDONE
Andrea Ferretti
1. Introduzione: attraverso l’antinomia naturaragione
Questo contributo cercherà di ricostruire alcuni
aspetti del rapporto tra immaginazione e filosofia nello
Zibaldone. Senza voler esaurire un tema così articolato,
ci si limiterà all’analisi di alcuni passi, raggruppati
dallo stesso Leopardi sotto il titolo «Immaginazione,
quanto serva al filosofare» nell’Indice del mio Zibaldone di pensieri. Il tema centrale consisterà dunque
nell’individuazione del nesso necessario tra l’esercizio
della ragione filosofica e le facoltà sensibili-immaginative della mente.
Sotto questa voce l’Indice individua dieci note, ulteriormente divisibili in due gruppi di uguale grandezza.
Il primo è composto da pensieri scritti tra il 7 settembre
1821 e il 20 novembre dello stesso anno, fra i quali
spiccano le due lunghe note del 4 e del 5-6 ottobre.
Il secondo è invece composto da pensieri scritti tra il
22 agosto e l’8 settembre 1823, con un’appendice del
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
28
14 novembre. Si tratta dunque di un tema che torna
esplicitamente in due momenti diversi della scrittura
dello Zibaldone, il primo legato all’elaborazione del
«sistema della natura e delle illusioni», il secondo alla
sua progressiva messa in questione e al mutamento
dell’antinomia natura-ragione in quella esistenza-vita1.
Pur in presenza di questo processo evolutivo, Leopardi
tenderà per lo più a ribadire ed approfondire nel ’23 le
riflessioni già articolate nel ’21.
Del resto, il tema in esame si inserisce nel pensiero
leopardiano in modo eccentrico rispetto alla nota e
strutturale antinomia natura-ragione. Questa infatti,
se assunta nella sua forma più rigida, sembra contrapporre nettamente immaginazione e filosofia, facendole
militare su due polarità opposte, tanto concettualmente
quanto assiologicamente. Come ha mostrato Luporini2,
se l’immaginazione è connessa con la natura, la poesia,
il mondo antico, le illusioni, l’indeterminato, l’azione,
la virtù, la libertà e le parole, la filosofia si lega alla
ragione, al mondo moderno, alla verità, al delimitato,
all’ozio, all’egoismo, alla tirannia e ai termini.
Per esemplificare questa netta opposizione si può
citare un pensiero del 28 giugno 1821, relativo alla
nota distinzione tra parole – «non presentano la sola
idea dell’oggetto significato, ma quando più quando
meno immagini accessorie» – e termini – «le voci
Cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi (1973), in Id., Leopardi. Scritti 1969-1997, Il Ponte Editore, Firenze 2014, p. 90 e
C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), Editori Riuniti, Roma
1993, pp. 70-72.
2
Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., pp. 10-15 e S.
Gensini, Note sulla nozione di “moderno” in Leopardi, in M.
Biscuso, S. Gensini (a cura di), Leopardi e la filosofia italiana,
«il cannocchiale», 44 (2019), 1-2, pp. 8-10.
1
AttrAversAre l’ immAginAzione
29
scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di
quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché
determinano e definiscono la cosa da tutte le parti»3 –
formulata fin da una nota del 30 aprile 1820. L’immaginazione-poesia e la ragione-filosofia vengono così connesse a due operazioni linguistico-concettuali opposte
e inconciliabili: il processo della filosofia moderna,
nello sviluppo della sua opera veritativa, consiste «nel
conoscere che un’idea ne contiene un’altra (così Locke,
Tracy ec.), e questa un’altra ec.; nell’avvicinarsi sempre
più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più
le nostre idee». Al contrario, l’immaginazione-poesia
– a cui pure è delegato il ritrovamento delle idee che
la filosofia scompone, per cui «le voci filosofiche divenute comuni oggidì […] non esprimono veramente
idee che mancassero assolutamente ai nostri antichi»
– «consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare
la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e
nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto»4.
L’opposizione tra termini e parole indica dunque due
atteggiamenti del pensiero ed usi del linguaggio tra
loro inconciliabili, opposti come lo sono l’analisi e la
sintesi, l’identità e la diversità, il limite e l’indeterminato, di cui però si può, in controluce, già scorgere la
necessaria complementarietà.
Proprio partendo da queste opposizioni, Leopardi giunge a concepire un nesso positivo, chiamato a
legare la filosofia-ragione e l’immaginazione-poesia,
senza sovvertire la natura, di per sé autenticamente
veritativa, dell’indagine moderna-razionale. Questa
operazione è possibile in quanto la condanna leopar3
4
Zib. 110.
Zib. 1234-1235.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
30
diana della ragione non la riguarda in quanto tale, ma,
al contrario, investe la tendenza ad assolutizzarsi che
essa ha assunto nella modernità, facendosi lingua, forma di vita, mentalità di un’epoca. Come dimostrano sul
piano della ricerca storico-antropologica i concetti di
“civiltà media” e di “mezza filosofia”, anche sul piano
epistemologico la possibilità di rinvenimento di una
conoscenza autentica – oltre dunque la verità come
semplice dissoluzione delle illusioni, destinata a riconoscersi come inutile processo di «autosvuotamento»5
– deve fondarsi su un rapporto armonico di immaginazione e intelletto, in grado di far convergere l’intera
attività della mente.
Del resto, come Leopardi afferma in un celebre
pensiero del 7 giugno ’20, la «rigenerazione» del mondo moderno e della sua civiltà «consiste in un temperamento della natura con la ragione», da attuarsi attraverso una «ultrafilosofia» che, «conoscendo l’intero e
l’intimo delle cose ci riavvicini alla natura». Si tratta
di una filosofia sperata e desiderata per l’avvenire, una
filosofia «come dovrebb’essere»6: forse i passi indicati
nell’Indice sono proprio un tentativo di avvicinarsi a
questo ideale.
2. Il convergere delle facoltà: immaginazione e
intelletto come «tutt’uno»
L’elaborazione del primo gruppo di passi esplicitamente indicato dall’Indice è preceduto concettualmente
da alcuni pensieri risalenti alla primavera-estate del
5
6
C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 60.
Zib. 115.
AttrAversAre l’ immAginAzione
31
’21. Il primo, del 16 aprile, affronta il tema della sistematicità della filosofia. Per Leopardi «qualunque vero
pensatore, non può assolutamente [fare] a meno […]
di non avere un sistema»7. Si tratta di un corollario
che viene fatto discendere dalla natura stessa della
filosofia, qui definita come ricerca delle «ragioni della
verità» che «non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare». Si
tratta di uno sviluppo che non contraddice la natura
analitica della filosofia: questa «speculazione dei rapporti» che «rapporta le cose insieme» – sia sul piano
orizzontale del rinvenimento dei tratti comuni, sia,
conseguentemente, su quello verticale dei diversi livelli
di astrazione, costruendo i generali e raccordandovi
i particolari – non è che il suo pendant. Analizzare
in fondo non significa altro che ricostruire riflessivamente il sistema dei rapporti tra le cose, così come si
vengono progressivamente svelando dalla loro precedente confusione sensibile-fantastica. Tuttavia, ciò che
cambia è l’inquadratura: allargando il campo, Leopardi
inquadra quell’elemento di differenza e connessione
«armonica» che deve costituire sia il presupposto sia il
risultato del lavorio razionale. Il punto che emerge già
in questo passo, centrale per gli sviluppi successivi, è
che il momento dell’analisi costituisce un aspetto di
per sé fondamentale, ma da ricomprendere all’interno
di un più ampio momento sintetico:
Il pensatore […] cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È
impossibile ch’egli si contenti delle nozioni e delle
verità del tutto isolate. E se se ne contentasse, la sua
7
Zib. 945.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
32
filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e
non otterrebbe nessun risultato. […] Ora chiunque
dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque
cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla
facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca
un sistema8.
Da una parte dunque il «pensatore» incardina il
lavoro dell’analisi all’interno di un più ampio principio
sintetico (il «filo», la prospettiva sistematica unitaria)
che connetta e leghi insieme le verità. Dall’altra questa
operazione è detta «cosa inseparabile dalla facoltà del
pensiero», forse alludendo già ad un’operazione della
mente al di là della schematica opposizione immaginazione-intelletto; un’operazione posta alla base della
conoscenza che, per individuare nessi di differenzacoordinazione unitaria, deve poter dispiegare tutte le
risorse della mente.
È proprio questo il terreno sul quale, nella nota del
7 settembre (la prima indicata nell’Indice), vengono
esplicitamente avvicinate filosofia e poesia: il «vero poeta» possiede «la facoltà e la vena delle similitudini»,
ovvero ha la capacità di «vedere i rapporti […] ravvicinare e assomigliare gli oggetti», ponendoli in relazione
pur traendoli dalle «specie più distinte», cioè dai più
diversi livelli logici (l’«ideale» e il «materiale», che si
riferiscono al particolare-generale come al sensibileastratto). Ciò, come si è visto, è indispensabile anche
per il filosofo: «or questo è tutto il filosofo»9, conclude
Leopardi. Ma se l’immaginazione «vede i rapporti» e
«chi scopre grandi e lontani rapporti, scopre grandi e
8
9
Zib. 946-947.
Zib. 1650.
AttrAversAre l’ immAginAzione
33
riposte verità e cagioni»10, allora questa immaginazione è già in qualche modo anche intrinsecamente
razionale.
Si può richiamare a questo punto, come ha notato
Gensini11, il corrispondente linguistico in cui concretamente si esercita questa modalità ispettiva e connettiva dell’immaginazione (ulteriore rispetto a quella
evocativa e trasformativa): la metafora. Questa indica
proprio «l’idea che la percezione di tali rapporti dipenda da uno sguardo particolare, non di tipo analitico,
ma sintetico, in un “afferramento mentale” […] in un
“mettere sotto gli occhi”, rendendoli come fisicamente
percepibili, cose o nessi di cose di per sé astratti»12.
Sempre seguendo l’argomentazione di Gensini, si tratta
di un punto in cui l’immaginazione si mostra «non
contrapposta alla ragione»: lo sguardo metaforico è il
fondamento di quel peculiare «procedimento mentalevisivo-linguistico»13, in sé immaginifico e almeno in
parte razionale, che stringerà insieme poesia e filosofia.
Tali considerazioni portano ad un ulteriore linea argomentativa. Dopo un passo del 20 luglio, in cui viene
affermata la necessità di «dividersi perpetuamente i
letterati e i poeti, da’ filosofi»14, considerati i contrari
effetti sulle lingue e la loro incompatibilità nella modernità, quattro giorni più tardi Leopardi ammette che:
Zib. 2020.
Cfr. S. Gensini, Il pellegrino e le metafore. Appunti di stilistica leopardiana, «Blityri. Studi di storia delle idee sui segni
e le lingue», 1 (2012), 1, pp. 133-134, dove viene messa in rilievo
la connessione fra la concezione epistemica della metafora in
Leopardi e la Retorica e la Poetica aristoteliche.
12
Ivi, p. 148.
13
Ivi, p. 150.
14
Zib. 1359.
10
11
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
34
malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente
straordinari e sommi […], potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina
all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare15.
L’accento qui cade con forza sul carattere eccezionale di questo filosofo-poeta, evidenziando un luogo
di tensione teorica rispetto al “sistema” leopardiano.
Tuttavia, in un passo del 19 settembre, la possibilità
dell’avvicinamento tra le figure «somme» del poeta e del
filosofo viene ulteriormente affrontata a livello psicologico, riprendendo la teoria dell’assuefazione: dopo aver
ricostruito il proprio sviluppo intellettuale, Leopardi
afferma che «siccome il maggiore o minor talento, non
è che maggiore o minore assuefabilità e adattabilità di
organi, così il gran talento, in qualunque genere splenda,
è suscettivo di splendere in tutti i generi»16. Di qui segue
che «il gran poeta, può essere anche gran matematico,
e viceversa». Sebbene le facoltà si mostrino contrarie e
vengano avvertite dal soggetto come vicendevolmente
escludentesi, la qualità del loro effettivo esercizio non
proviene da una ineludibile conformazione originaria
«modulare»17, ma dall’ampiezza della disposizione
dell’unitario animo individuale a determinarsi attraverso
«studi» e «circostanze» diverse18. Questi argomenti
Zib. 1383.
Zib. 1743.
17
S. Gensini, Note sulla nozione di “moderno” in Leopardi,
cit., pp. 13-16.
18
S. Gensini, Materia, mente e linguaggio in Giacomo Leopardi, in N. Allocca (a cura di), Human Nature. Anima mente
15
16
AttrAversAre l’ immAginAzione
35
sfociano così nella nota del 20 novembre, l’ultima del
’21 tra quelle indicate nell’Indice. Qui l’immaginazione
viene connessa alla facoltà «inventiva» e dunque le
opere tanto di Dante quanto di Newton vengono ricondotte ad «una stessa sorgente» diversamente applicata
e dunque modificata:
l’immaginazione per tanto è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia;
ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio, una qualità distinta e determinata dell’animo
umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa,
una stessa disposizione con cento altre che noi ne
distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che
si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella
che si chiama intelletto ec. Immaginazione e intelletto è tutt’uno. L’intelletto acquista ciò che si chiama
immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze,
e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello
stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec.19.
La mente umana nel suo complesso, più che l’immaginazione o l’intelletto astrattamente considerati,
diviene la radice comune della poesia e della filosofia.
Si tratta senz’altro di un luogo intricato che, nell’economia dei passi qui analizzati sembra prestarsi ad
almeno una duplice interpretazione. Leopardi infatti
chiude il passo del 4 ottobre affermando: «non si può
considerar la ragione staccatamente dalla natura (bensì
al contrario) perché la ragione sebbene nemica, è poe corpo dall’antichità alle neuroscienze, Sapienza Università
Editrice, Roma 2018, p. 193.
19
Zib. 2134.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
36
steriore alla natura, e da lei dipendente, ed ha in lei
sola il fondamento e il soggetto della sua esistenza, e
del suo modo di essere»20. Come si tengono insieme
identità e dipendenza? Luporini21, analizzando questi
passi, sceglie di evidenziare «l’asimmetria» del rapporto tra ragione e immaginazione, filosofia e poesia: non
soltanto l’una deriva geneticamente dall’altra – almeno
sul piano onto-filogenetico che segna la processione
delle forme mentali e culturali –, ma, soprattutto,
mentre l’una è autosufficiente22, l’altra dipende dalla conoscenza derivante del sentire-immaginare per
potersi applicare correttamente alla natura. Dall’altra
parte però, se si fa riferimento all’intero contesto del
passo del 4 ottobre, la rivendicazione dell’unità appare
il fulcro del ragionamento: «l’una dipende o è legata
essenzialmente coll’altra, come lo sono tutti i contrari;
e non si può considerar l’una isolatamente dall’altra»,
mentre la condanna è per lo più connessa al tentativo
della ragione moderna di rendersi indipendente. Con
Ferrucci, si può così parlare dell’individuazione di due
piani coesistenti, uno sintetico («metateorico»), in cui
si colloca l’indispensabile sguardo fantastico-razionale
metaforico, che trova il «filo» grazie a cui articolare
sensatamente gli elementi del reale, e uno analitico
(«storico-empirico»), relativo a «modi distinti se non
conflittuali di filtrare quest’unica facoltà inventiva
nell’intimo dei molteplici e infinitamente articolati
Zib. 1842.
C. Luporini, Poesia e filosofia, in Id., Decifrare Leopardi,
Macchiaroli, Napoli 1998, pp. 192-193 e 197.
22
Nella nota del 5-6 ottobre si afferma: «laddove l’immaginazione e il sentimento non hanno alcun bisogno della ragione»
(Zib. 1859).
20
21
AttrAversAre l’ immAginAzione
37
percorsi dell’esperienza effettiva [che può essere caratterizzata ora come poesia, ora come filosofia]»23.
3. I passi dell’ottobre 1821: il «poetico della natura»
e il «colpo d’occhio»
Sulla scorta di queste considerazioni si può dunque
entrare nel vivo delle tre note dell’ottobre ’21. Il presupposto che regge l’intero discorso è il seguente: «La
ragione e l’uomo non impara se non per l’esperienza»24.
L’esperienza era stata già indicata come «nutrice della
ragione e omicida della natura»25, ma ora viene messa a
fuoco la necessità di una forma del sentimento-immaginazione proprio per il raggiungimento dei fini della
filosofia. Si tratta, sembra, di una duplice necessità,
soggettiva ed oggettiva, epistemica ed ontologica: da
una parte l’immaginazione è chiamata a far vivere e
a porgere esistenzialmente alla ragione del filosofo il
materiale su cui essa può e deve applicarsi con piena «freddezza» analitica; dall’altra, invece, secondo
Leopardi la natura stessa è «fatta così», avendo nel
«poetico» il suo «modo d’essere». Il concetto che qui
emerge è dunque quello di «poetico della natura» o
di «sistema del bello», di cui Luporini sottolinea il
significato ontologico: «il poetico non è la poesia, ma
la precede in re, è un pezzo della realtà naturale, che
si rivela direttamente al sentire ed all’immaginare»26.
C. Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia,
Marsilio, Venezia 1987, p. 37.
24
Zib. 1838.
25
Zib. 1356.
26
C. Luporini, Poesia e filosofia, cit., p. 196.
23
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
38
Coerentemente con questa impostazione, l’immaginazione è così la facoltà mentale in continuità con la
natura, capace, in virtù della sua stessa naturalità –
e dunque priorità “metafisica” – di rispecchiarne la
struttura e di connettervi la ragione analitica. Si tratta
di un’interpretazione giustificata dal testo in esame:
È certissimo ch’essi [i filosofi] hanno ignorato ed
ignorano la massima parte della natura, delle stesse cose che trattano, per impoetiche ch’elle sieno
(giacché il poetico nell’effettivo sistema della natura
è legato assolutamente a tutto), la massima parte
della stessa verità, alla quale si sono esclusivamente
dedicati.
La scienza della natura non è che scienza di rapporti.
Tutti i progressi del nostro spirito consistono nello
scoprire i rapporti. Ora, oltre che l’immaginazione
è la più feconda e maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti e delle armonie le più nascoste, come ho detto
altrove; è manifesto che colui che ignora una parte,
o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata
con qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di
ragionamento, ignora un’infinità di rapporti, e quindi
non può non ragionar male27.
Da quanto emerge dal passo, la filosofia non è riducibile alla geometrizzazione-analisi quantitativa del
reale. Ciò avviene perché tutto ciò che è quantificabile
e indagabile geometricamente è al tempo stesso indagabile anche poeticamente: la struttura della natura
può essere ricostruita riflessivamente soltanto grazie
ad uno sguardo-sentimento in grado di comprendere
27
Zib. 1836.
AttrAversAre l’ immAginAzione
39
in sé l’infinità dei rimandi rinvenibili, anche tra le cose
e le verità apparentemente più disparate. I filosofi che
pensano di poterne far a meno sono come coloro che
cercano di ricostruire una «macchina» senza avere tutti
i pezzi a disposizione, in quanto hanno dimenticato «il
meccanismo del bello, ch’era congegnato e immedesimato con tutte le altre parti del sistema, e con ciascuna
di esse», cioè l’intrinseco potenziale metaforico di ogni
«cosa» e di ogni «verità».
È possibile però, rifacendosi all’interpretazione
di Ferrucci28, leggere questi passi anche secondo una
prospettiva kantiana-trascendentale. Il «poetico della
natura» non consisterebbe in un’affermazione metafisica circa la struttura della realtà, quanto una riflessione
sul modo in cui gli uomini la colgono nell’esperienza.
È l’uomo stesso, con la sua immaginazione metaforica, ad introdurre il poetico nella natura e questo la
riguarda – «gli è congegnato» – proprio nella misura
in cui l’uomo stesso è natura («siamo pur parte di questa natura e di questa università che esaminiamo»29).
L’immaginazione-sentimento, come facoltà dei rapporti e delle «congetture, ipotesi conoscitive»30, non
è dunque né un inquinamento soggettivo della verità razionale-oggettiva, né un suo calco da affiancare
all’indagine geometrica per motivi di completezza, ma
la «condizione di possibilità»31 per ogni conoscenza
che voglia porsi come intersoggettivamente oggettiva,
28
C. Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia,
cit., pp. 15-16.
29
Zib. 3242.
30
C. Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia,
cit., pp. 15-16.
31
Ivi, p. 20.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
40
necessaria per innescare il «rapporto ottimale» tra sé,
il dato sensibile e la stessa ragione.
Un altro doppio punto viene inoltre affrontato in
questi passi: da una parte l’operazione dell’immaginazione del poeta-filosofo che coglie il «poetico
della natura» viene definita come «colpo d’occhio»,
dall’altra questa viene identificata con l’invenzione
e connessa solo successivamente all’analisi, quale
sottile lavoro storico di perfezionamento graduale
delle verità scoperte. Seguendo Leopardi, sulla base
di quanto analizzato fin qui, il processo di generalizzazione e connessione delle verità non può svolgersi
in modo puramente induttivo, partendo dalle singole parti slegate della natura. L’immagine del tutto
sembra dover assumere una precedenza epistemica e
metodologica rispetto alla conoscenza delle parti: il
momento analitico della conoscenza può raggiungere
il suo fine soltanto se fondato su un precedente colpo
d’occhio immaginativo-sintetico. Il colpo d’occhio
gettato «dall’alto» sulla natura consisterebbe così in
un’operazione immaginifico-razionale, che nel passo
del 26 agosto ’23 Leopardi chiama «straordinaria facoltà di generalizzare»32, in grado di suscitare nuova
conoscenza tramite le sue caratteristiche di vastità,
esaustività, velocità e simultaneità nell’identificazione
dei rapporti. L’indeterminata vastità e la grande varietà che l’immaginazione riesce a suscitare rapidamente
nell’animo non sono più soltanto tendenze psicolo-
Zib. 3270. Nel passo già richiamato del 16 aprile «la facoltà
di generalizzare costituisce il pensatore» (Zib. 947), dunque si
tratta di una operazione senz’altro ascrivibile almeno anche a
quanto pertiene alla ragione.
32
AttrAversAre l’ immAginAzione
41
giche legate alla dinamica del desiderio-piacere33.
In questi passi diventano ciò che deve fondare l’intero edificio conoscitivo umano: le «grandi illusioni
concepite in un momento di entusiasmo» diventano
qui «le più reali e sublimi verità, o precursore di
queste»34, sovvertendo l’antinomia vero-ragione e
falso-immaginazione. Il colpo d’occhio viene così
definito come ciò che svela «un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la molla,
il complesso totale di una gran macchina»35, dove il
sistema può essere pensato come uno dei possibili
insiemi coerenti di rapporti rinvenibile in natura, in
grado di connettere tra loro un certo insieme di cose
e di verità. Come segue dalla sua interpretazione trascendentale, ciò che l’immaginazione scopre, oltre al
gran numero di ragioni-rapporti, è un vero e proprio
orizzonte di senso (il «filo», la «chiave») nel quale
questi possono coordinarsi. Il colpo d’occhio pone
l’uomo in «spontanea corrispondenza ed armonia
colla natura», dove questa armonia verrebbe proprio
a significare la possibilità della conoscenza.
Il nocciolo del passo è così nella necessità per cui
ogni lavoro analitico, che indica ed esplicita verità particolari, deve potersi fondare su un colpo d’occhio,
almeno mediatamente ricevuto da una tradizione e
rivissuto soggettivamente. Il processo contrario, che
dalle singole parti vorrebbe giungere alla scoperta del
tutto-sistema è destinato al fallimento:
Cfr. la nota del 12-13 luglio ’20 dedicata alla “teoria del
piacere”.
34
Zib. 1856.
35
Zib. 1852.
33
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
42
È cosa ordinarissima anche negli oggetti materiali e
in mille accidenti della vita, che quello che si verifica
o pare assolutamente vero e dimostrato nelle piccole parti, non si verifica nel tutto; e bene spesso si
compone un sistema falsissimo di parti verissime, o
che tali col più squisito ragionamento si dimostrano,
considerandole segregatamente36.
Nella nota del 22 agosto 1823, Leopardi afferma
esplicitamente che ciò che la filosofia ha di oggettivo,
di condivisibile, di non «stravagante» e «assurdo» è
dovuto proprio all’immaginazione. Essa diventa così
garante dello stesso «convenire» degli uomini attraverso
i secoli e le differenze nazionali, ciò per cui la verità può
farsi oggettiva ed ambire a produrre verità «universalmente» accettabili. Al contrario la ragione, lasciata a sé
stessa, non può che portare tra gli uomini discordia e
arbitrarietà («s’allontanano le mille miglia gli uni dagli
altri»37), in quanto questi perdono il senso – nella doppia
accezione di “sentimento” e “direzione-orientamento”
– dell’impresa conoscitiva. A tal proposito può essere
richiamato l’argomento relativo alla comprensione delle
opere filosofiche e poetiche presente in una nota del 22
novembre 1820: al di là della decodifica del significato
delle singole parole, ciò che è realmente in gioco è la
capacità del lettore di riprodurre in sé le stesse operazioni compiute dall’animo dell’autore, inserendosi nel
«campo» che egli scopriva. Si tratta di persuadersi della
verità «sentendola»38, facendo risuonare in sé il colpo
d’occhio che la fonda e la sostiene.
Zib. 1854.
Zib. 3243.
38
Zib. 348.
36
37
AttrAversAre l’ immAginAzione
43
Se dunque il colpo d’occhio è garante dell’oggettività della conoscenza, si pone il problema della sua
comunicabilità e, ancora più a fondo, del suo rapporto
con il linguaggio, che pure per Leopardi non ha un
ruolo estrinseco nella formazione della conoscenza,
ma, al contrario vi è indistricabilmente avviluppato39.
Nella nota del 23 ottobre Leopardi affronta proprio la
problematica connessione tra il calore, l’istantaneità
visiva, l’individualità del momento immaginativoinventivo e la freddezza, la graduale lentezza, la collegialità del momento razionale-analitico e della trasmissione culturale. Il punto è difficile da districare:
il colpo d’occhio sembra al tempo stesso qualcosa di
più e qualcosa di meno di una conoscenza riflessivalinguistica chiara e dispiegata. Sicuramente il testo
non permette di pensarla come una conoscenza semplicemente intuitiva o prelinguistica, da attualizzare
attraverso un successivo lavoro linguistico-riflessivo: la
sua puntualità non significa confusione o indistinzione.
Leopardi parla esplicitamente di una mente che, nel suo
entusiasmo, «accumula in un momento tanti sillogismi,
e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti» da spostare il momento della confusione proprio
sul versante della rielaborazione fredda-razionale. È
proprio in questo “dopo” che si apre il problema del
rapporto tra lo slancio dell’immaginazione e il suo
ricadere, eppure doversi radicare e fruttificare, nell’ordinarietà della mente e del suo secolo. Inizia così un
rapporto non garantito da alcuna teleologia storica,
un dialogo sconnesso con la «placida» ragione, aperto
all’incomprensione dei contemporanei come dello stes39
200.
Cfr. S. Gensini, Materia mente e linguaggio, cit., pp. 198-
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
44
so filosofo-poeta («e forse esso stesso dopo quel punto,
non crede più alle verità che allora avea concepite e
trovate»40). Concordemente con l’impianto del sistema
leopardiano, questo entrare nella storia del colpo d’occhio si declina secondo le istituzioni, gli abiti sociali e
le lingue correnti. Gli antichi, nonostante la forza delle
loro immaginazioni, non giunsero a sviluppare una
filosofia scientifica e cumulativa, come quella moderna
appare a Leopardi, proprio in quanto:
i progressi de’ grandi individui non giovavano gli
uni agli altri, perché mancanti di una disposizione
generale e comune nel mondo, che li rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua
atta a stabilire, dar corpo, determinare e render a
tutti egualmente chiaro quello che ciascun individuo
scopriva41.
Al contrario, nel mondo moderno, le scoperte individuali sembrano poter convergere in virtù di un
«linguaggio filosofico comune» (la nomenclatura
terminologica), «del commercio de’ pensieri, e della società pensante» che permettono di «applicare»
e «coltivare» le verità scoperte. Nonostante la sua
natura già linguistica, il «colpo d’occhio», per quanto inizialmente poderoso possa essere, ha comunque
bisogno di solidificarsi in una terminologia condivisa
e di diffondersi attraverso una prassi comunicativascientifica stabile. Soltanto attraverso queste ulteriori
e difficili traduzioni potrà integrarsi nel «processo gradato» e collettivo della fredda ragione, diventando, si
40
41
Zib. 1976.
Zib. 1977.
AttrAversAre l’ immAginAzione
45
potrebbe forse dire, riconosciuto e trasmissibile “senso comune”. Il rischio altrimenti è quello dei «grandi
antichi», che pur scoprendo individualmente le stesse
verità, non sono in grado di accorgersene e di convenirvi: «non s’accorgevano di dir le stesse cose, né il
pubblico se n’avvedeva, perché non le dicevano allo
stesso modo»42. Leopardi dunque riconosce al mondo
moderno, alle sue tendenze linguistiche omologanti
ed ai rapporti sociali che esse rafforzano, anche la
possibilità di svolgere un ruolo positivo di sostegno e
collaborazione con la stessa immaginazione43.
4. Immaginazione e filosofia nel 1823: organicismo
e materialismo
Nel gruppo di passi di fine agosto-inizio settembre
torna il problema del disfare e ricomporre il sistema
della natura e, con esso, la necessità del rapporto con
l’immaginazione e la struttura poetica dell’«università
delle cose». Si assiste ad una conferma44 della tensione immaginazione-ragione già articolata nei passi
del ’21, ribadita fino ad arrivare all’espressione ossimorica «quasi entusiasmo della ragione»45 nella nota
dell’8 settembre. Si possono tuttavia notare nei passi
Zib. 1978.
Questa conclusione si connette con quanto notato da Gensini
circa la diagnosi leopardiana dei fattori che hanno reso vincente
la cultura francese nella modernità. Cfr. S. Gensini, Note sulla
nozione di “moderno” in Leopardi, cit., pp. 26-27.
44
Luporini parla di «struttura o costrutto del pensiero di Leopardi che rimarrà oramai stabile» (C. Luporini, Poesia e filosofia,
cit., p. 199).
45
Zib. 3383.
42
43
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
46
del ’23 degli sviluppi significativi rispetto a quanto
già analizzato.
Nella nota del 22 agosto46, lo scopo della filosofia viene ora identificato con il ritrovamento dell’«intenzione della natura» («cagion finale») nella disposizione dei rapporti fra le sue parti e dunque delle
parti con il tutto. Coerentemente con questa impostazione teleologica, la metafora meccanica esposta nel
’21 cambia in senso organicistico: il «poetico della
natura» non costituisce più una parte dei componenti
della «macchina» naturale, ma al contrario, sembra
costituirne l’anima – Leopardi parla di «spirito della
natura» – aristotelicamente intesa come il principio
vivificatore che ne indica le funzioni e la destinazione
finale. La filosofia puramente razionale non commette
dunque un errore semplicemente “quantitativo”, dimenticando un insieme delle parti che compongono
la natura, ma è colei che fruga nel corpo morto della
natura, precludendosi “qualitativamente” ogni possibilità di inferire correttamente gli scopi e le funzioni
derivanti della disposizione dei suoi organi. Al contrario, è soltanto l’immaginazione a poter mostrare la
vita della natura: questa è «disposta e destinatamente
ordinata a produrre un effetto poetico generale» e dato
che «nulla di poetico si scorge nelle sue parti», spetta
all’immaginazione ed alla sensibilità far «abbracciare,
comprendere il tutto della natura». Questa totalità qui
però non può più riferirsi alla sola dialettica partitutto, ma è da intendersi nel senso, già accennato nei
paragrafi precedenti, del «filo», della «chiave», del
principio rispetto al quale le parti sono conformate
nelle loro connessioni reciproche («il perché ella abbia
46
Zib. 3238-3245.
AttrAversAre l’ immAginAzione
47
così disposto e così formato le sue parti»). Anche in
questo passo l’interpretazione letterale sembrerebbe
portare all’ammissione di una connessione metafisica
privilegiata tra la struttura ontologica della natura e
l’immaginazione, come facoltà che, al contrario della
ragione, ad essa successiva e subordinata, pone l’uomo
nella natura e la natura nell’uomo. Tuttavia, stando
all’interpretazione di Ferrucci, proprio in questo passo
Leopardi giunge ad individuare con maggiore esplicitezza un «principio comune alle due fonti concorrenti
di conoscenza, l’intellettuale e il sentimentale, […]
nell’idea di una totalità organica come fondamento
finalistico della necessaria concatenazione sistematica delle esperienze conoscitive particolari, altrimenti
scollegate e incoerenti»47. Si tratterebbe dell’individuazione di quel piano «trascendentale» per cui non può
darsi nessun tipo di conoscenza senza la presupposizione di un principio di finalità-organizzazione che
governi il rapporto tra la mente e la natura: proprio
«questo bisogno, questa ibridazione di soggettività
ed oggettività, sentimento e teoresi» manifesta «l’imprescindibile istanza costruttiva che è all’origine della
lunga nota leopardiana»48.
Coerentemente a questa lettura, nei passi del 23 e
del 26 agosto 1823 si assiste ad una normalizzazione
del colpo d’occhio – in quanto specifica condizione
psicologica – ed una sua progressiva integrazione
all’interno del fisiologico funzionamento della mente
umana. Se nel ’21 il convergere di filosofia e poesia,
immaginazione e ragione, era vincolato ad una stra47
C. Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia,
cit., p. 46.
48
Ibidem.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
48
ordinarietà vicina all’impossibile («[di poeta-filosofo]
appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n’è
mai sorto»49), ne vengono ora indicati degli esempi
concreti: per gli antichi Leopardi sceglie Platone, per
i moderni «Cartesio, Pascal, quasi pazzo per la forza
della fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad.
di Staël»50. Nella nota successiva egli inoltre scrive:
Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e
di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l’uomo
qualunque nel punto di una forte passione, nell’entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere,
mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda
le cose come da un luogo alto e superiore a quello
in che la mente degli uomini suole ordinariamente
consistere51.
L’atto psicologico precedentemente legato alla straordinarietà del poeta-filosofo viene ora riconosciuto
come operazione generale della mente, che l’uomo
di genio condivide con «l’uomo qualunque». Si tratta
sempre di un momento «straordinario», ma comune,
la cui portata specifica è relativa «all’ordinario» dell’animo di chi lo prova e i cui effetti successivi dipendono dalla capacità di ricordare ed «esprimere i propri
concetti», secondo l’accidentato percorso già esposto
in precedenza.
Un altro aspetto significativo che emerge da questo
passo è l’espressione «mezzanamente riscaldato dal
Zib. 1838.
Zib. 3245.
51
Zib. 3279.
49
50
AttrAversAre l’ immAginAzione
49
vino», per cui il colpo d’occhio sembra essere causabile in maniera diretta anche da fattori interamente
materiali. Oltre ad usare parole come «entusiasmo»,
«passione», «calore», «vigore» per indicare tanto l’inattingibilità metodica del colpo d’occhio, quanto la sua
connessione con lo stato corporeo di chi lo esperisce,
già in altri due passi del ’21 Leopardi l’aveva descritto
come una condizione «quasi di ubriachezza». Nel passo
del ’23 però il riferimento al vino sembra assumere
un valore tecnico («ardisco anche soggiungere…»),
preludendo ad una spiegazione materialistica di questo
peculiare fenomeno psicologico. Non a caso la nota del
14 novembre, l’ultima indicata dall’Indice, è proprio
dedicata a questo tema:
Ma quello accrescimento di facoltà prodotto dal
vino, ec. è indipendente per se stesso dall’assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d’abito ec.
divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. Questo si applichi alle mie osservazioni
dimostranti che il talento e le facoltà dell’animo ec.
essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle
cose fisiche ec. la diversità de’ talenti in gran parte
è innata, e sussiste anche indipendentemente dalla
diversità delle assuefazioni, esercizi, circostanze,
coltura ec.52.
In questa nota è in gioco un elemento della teoria
materialistica della cognizione umana che Leopardi
espliciterà nell’ultima fase dello Zibaldone53, per cui
Zib. 3882.
Cfr. S. Gensini, Materia, mente e linguaggio, cit., p. 178,
in cui l’autore da una parte indica la rilevanza dei passi qui presi
52
53
50
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
«noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del
nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo»54.
Il colpo d’occhio può essere dunque attributo anche
agli uomini più «stupidi» in virtù della natura in gran
parte «fisica e influita dalle cose fisiche» delle facoltà
dell’animo.
Questo argomento si inserisce in un contesto di più
ampio respiro teorico in cui Leopardi cerca di definire
i limiti della teoria dell’assuefazione. Il passo citato
rimanda infatti ad una nota del 19 agosto in cui si
afferma come, nonostante la teoria dell’assuefazione
indichi in abitudini ed accidenti le ragioni della grande
diversità di sviluppo dei talenti umani, esistano anche
delle «piccole differenze» nelle «naturali disposizioni»
degli individui. Queste sono dovute a «cagioni fisiche»
innate, durature o transitorie, che possono «tramutare»
l’animo «d’ora in ora, di giorno in giorno, di stagione
in stagione». Il vino è proprio una delle cause materiali
transitorie – Leopardi cita anche il tabacco, la luminosità dell’ambiente, il tempo atmosferico, suoni, odori
– che possono influire direttamente sull’«ingegno»
sortendo una vasta gamma di effetti in quanto «accidenti fisici diversi dalle assuefazioni […] e indipendenti
dalle circostanze morali»55.
Inoltre, in una nota del 9 settembre, che pure si
riferisce a queste pagine, la questione è ulteriormente
approfondita. L’insieme di cause già elencate influisce
in esame e dall’altra li connette al processo di maturazione del
materialismo leopardiano.
54
Zib. 4288.
55
Zib. 3206.
AttrAversAre l’ immAginAzione
51
«sull’immaginazione massimamente in modo al tutto fisico, cioè senz’alcun rapporto […] alle idee» che,
in quanto oggetti percepiti, suscitano nella coscienza
dell’individuo. Ma, si chiede nuovamente Leopardi, se
l’immaginazione, che pure è una facoltà «tutta appartenente a ciò che nell’uomo si considera come spirito»,
è «visibilmente sottoposta a mille cause totalmente
fisiche […] perché non l’ingegno?»56. La risposta affermativa, che conferma quanto già detto il 19 agosto,
è affidata ad una nota di venti giorni dopo, per cui le
cause materiali possono avere disparati effetti, giovando «sì all’immaginazione, sì all’intelletto, alla mobilità
del pensiero e della mente»57.
Si tratta dell’ultimo punto di un filone argomentativo complesso, nel quale immaginazione e ragione,
partendo da un rapporto di esclusione reciproca, si
sono scoperte necessariamente alleate e convergenti
in una stessa, “fisiologica”, operazione dell’animo, essenziale per ogni forma di conoscenza umana.
56
57
Zib. 3388.
Zib. 3553.
SOGLIE
SUL SENSO DELL’ANIMO
Massimiliano Biscuso
1. Concedere valore alla vita
Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani riassume l’ampia riflessione condotta negli anni immediatamente precedenti la sua stesura, tra
la primavera e l’inizio dell’estate 18241, sugli effetti
della civilizzazione e della razionalizzazione moderna,
declinandola nello specifico della situazione italiana,
letta a contrasto con quella dei principali paesi europei, la Francia, l’Inghilterra e la Germania sopra tutti.
Guardando lo stato presente dei popoli, dichiara Leopardi, siamo dinanzi alla «quasi universale estinzione o
indebolimento delle credenze su cui si possono fondare
i principi morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle
quali è impossibile che il giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un savio». Il venir
1
Sulla datazione del Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl’Italiani, cfr. M. Dondero, Leopardi e gli Italiani,
Liguori, Napoli 2000, pp. 13-36.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
54
meno nella modernità delle credenze e delle opinioni
su cui si fondano i principi morali e i costumi, che
sono la incarnazione vivente di tali principi, avrebbe
dovuto comportare la dissoluzione del legame sociale,
non essendo sufficiente a questo la vigenza delle leggi,
perché «le leggi senza i costumi non bastano»2. Infatti, la legge può soltanto imporre un comportamento e
sanzionare la sua violazione, ma non può indurre ad
acconsentire ai principi che sono alla base di quella,
né creare un ethos condiviso. Eppure tale dissoluzione
non avviene, almeno nelle nazioni più civili: «Principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno
un principio conservatore della morale e quindi della
società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai
grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti,
pure è d’un grandissimo effetto. Questo principio è la
società stessa»3.
Ho già ricostruito altrove i motivi secondo i quali ciò
avviene4: in Francia, Inghilterra e Germania esiste una
classe sociale, che Leopardi denomina «società stretta»,
2
TPP, p. 1013. Del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani ho tenuto presente anche l’edizione diretta e
introdotta da M.A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commentario di R. Melchiori, Rizzoli, Milano 1998. L’accentazione degli
scritti leopardiani non è normalizzata, quindi si troverà “perchè”
in luogo di “perché” ecc.
3
Ibidem. Si noti come nel Discorso il concetto di «società
stretta» assuma un significato notevolmente differente da quello
che ricorre in molte note dello Zibaldone di pensieri, come ad
es. nel micro-trattato del 25-30 ottobre 1823 alle pp. 3773-3810
(Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G.
Pacella, Garzanti, Milano 1991; d’ora in poi Zib. La paginazione
è, come d’uso, quella dell’autografo).
4
M. Biscuso, La civiltà come rimedio di se medesima. Il
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e la
AttrAversAre l’ immAginAzione
55
i cui componenti, non avendo bisogno di lavorare per
soddisfare i bisogni primari, sono usi a frequentarsi e
a occupare il tempo con attività che consentono loro
di dilettarsi e riempire il vuoto della vita causato dalla
mancanza di attività più necessarie. In questo modo
gli uomini prendono stima gli uni degli altri e quindi
giudicano la stima altrui indispensabile alla propria
felicità. Tale stima è la versione moderna dell’ambizione, cioè dell’amor proprio – vero nucleo genetico
dell’antropologia leopardiana –, che nella vita sociale
si traduce in desiderio di essere riconosciuti dagli altri
consociati ed è perciò «vincolo e sostegno potentissimo
alla società». Se nell’antichità l’ambizione assumeva la
forma del «desiderio di gloria», nella modernità, «dopo
la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e
realtà delle cose, e del loro peso e valore», essa non può
sopravvivere, perché la gloria è una illusione «troppo
grande, troppo nobile, troppo forte e viva» per la «ragione geometrica» e per «lo stato politico delle società»
attuali. Alla gloria si è sostituito nelle nazioni civili «un
altro sentimento tutto moderno», l’onore5, che è «sufficiente a servir alla società di legame». L’Italia, invece,
mancando ancora di una società stretta analoga a quella
dei paesi civili, non solo è priva come questi dei vincoli
sociali forti che le illusioni antiche creavano, ma anche
dell’«idea dell’onore», la quale da noi «è vaga e niente
stringente», con la conseguenza di un municipalismo e
individualismo esasperati («Ciascuna città italiana non
solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera da se»6).
“filosofia sociale” di Giacomo Leopardi, «La Rassegna della
letteratura italiana», serie 9 (2008), 2, pp. 477-490.
5
TPP, p. 1013.
6
TPP, p. 1015.
56
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Le conseguenze sono assai rilevanti: «la vita non ha
in Italia», come d’altronde altrove, «non solo sostanza e
verità alcuna, […] ma né anche apparenza, per cui ella
possa essere considerata come importante», mancando
una società stretta e con essa il vincolo dell’onore e la
ricerca della stima dell’opinione pubblica. Infatti, la
vita sociale con i suoi obblighi e le sue relazioni, produce una «perpetua e piena dissimulazione della vanità
delle cose», tale da ingannare il pensiero e mantenere «come che sia e per quanto è possibile, l’illusione
dell’esistenza».
In una società stretta anche l’uomo più intimamente
persuaso per raziocinio, ed anche per sentimento,
della vanità di se stesso, della frivolezza altrui, della
inutilità della vita e delle fatiche, della niuna importanza d’essa società, anche il più perfetto filosofo in
ispeculazione, non può mai fare, non solo di non contenersi in atto [di non comportarsi] come se il mondo
valesse pur qualcosa, ma nemmeno che una parte
del suo intelletto non combatta coll’altra, affermando che le cose umane meritano una qualche cura,
e combattendo non vinca il più del tempo, e non
persuada confusamente alla persona la detta cosa in
dispetto, per così dir, della sua stessa persuasione. Se
non altro l’immaginativa che per natura ci porta a
conceder qualche valore alla vita, ha pure un pascolo
nella società stretta, e facoltà di conservare qualche
parte della sua azione ed influenza sull’uomo7.
7
TPP, p. 1016; corsivo M.B. Si legga l’antecedente di questo
passo in Zib. 1651-1652, in cui anche l’«uomo […] profondamente
persuaso della nullità delle cose» e il «più profondo e sperimentato
AttrAversAre l’ immAginAzione
57
È difficile sopravvalutare l’importanza di questo
passo. Vi si trova, condensato in poche righe, un principio fondamentale del pensiero leopardiano: quello
della impossibilità della distruzione totale e definitiva delle illusioni (e quindi delle credenze, opinioni e
sentimenti, termini qui sostanzialmente sinonimi), già
chiaramente enunciato nella lettera a Pietro Giordani
del 30 giugno 1820: «Io credo che nessun uomo al
mondo in nessuna congiuntura debba mai disperare
il ritorno delle illusioni, perché queste non sono opera dell’arte o della ragione, ma della natura»8; principio ribadito fino negli ultimi anni: si pensi, ad es.,
al Pensiero XIII, in cui Leopardi ricorda la «Bella e
amabile illusione» di celebrare gli anniversari di un
avvenimento, in modo da medicare «il tristo pensiero
dell’annullamento di ciò che fu». La celebrazione annuale delle «ricordanze importanti, sì religiose come
civili, sì pubbliche come private, i dì natalizi e quelli
delle morti delle persone care» si basa su una «immaginazione sì radicata nell’uomo» da farci credere
«più presente, o meno passata che negli altri giorni»9
filosofo» non possono fare a meno di credere che «il mondo sia
qualche cosa».
8
In Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (d’ora in poi Epist.), n. 310, p. 414. Poche
settimane dopo Leopardi scrive: «Le illusioni per quanto sieno
illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora
nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E
non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane. E
perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti | una
radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in
dispetto di tutta l’esperienza, e certezza acquistata» (Zib. 213-214).
9
TPP, p. 630. Il pensiero riprende un passo molto precoce dello
Zibaldone: 59-60, a testimonianza del fatto che alcune convinzioni
giovanili non sono state mai più dismesse. Il tema meriterebbe
58
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
la cosa accaduta che si rievoca, quasi da annullare il
tempo lineare, dissipativo, per piegarlo in un tempo
ricorsivo, conservativo.
Un principio, tuttavia, che fa problema, come nel
passo del Discorso che ci accingiamo a esaminare.
La questione nasce dall’esperienza, per certi versi
sorprendente, di essere razionalmente convinti della
insignificanza della vita e della vanità di ogni impegno
e attività, sia privata sia sociale, ma al tempo stesso di
non poter fare a meno di agire nel mondo concedendo valore alla vita. Si configurano perciò due tipi di
persuasione10: una razionale, «certa e sperimentale»11
della vanità di se stessi e delle cose; e un’altra, per cui
il mondo vale pur qualcosa e merita una qualche cura.
La seconda persuasione è più forte e durevole della
prima, benché immotivata.
La situazione è dunque paradossale: l’uomo che si
persuade della vanità di se stesso e delle cose per mezzo del raziocinio e del sentimento12, o di una vigorosa
di essere ampiamente sviluppato e in molte direzioni. Mi limito
soltanto a osservare che la motivazione psicologica dell’uso leopardiano di datare le proprie riflessioni nello Zibaldone, spesso
accompagnandole dall’indicazione del santo del giorno o della
festività religiosa, sta forse qui: la ricorsività della scrittura si
radica nella ricorsività temporale del calendario religioso, alla
quale abbiamo bisogno di credere.
10
Sul lemma “persuasione”, e in particolare sul rapporto tra
persuasione e illusione, cfr. A. Malagamba, Persuasione, in N.
Bellucci, F. D’Intino, S. Gensini (a cura di), Lessico Leopardiano
2014, Sapienza Università Editrice, Roma 2014, pp. 125-131.
11
Così in Zib. 214.
12
Non si tratta, in questo caso, di termini tecnici, quasi che
raziocinio e sentimento compongano il complesso delle facoltà
cognitive e affettive dell’uomo; piuttosto bisogna riferire tali termini all’endiadi «io conosco e sento» che ricorre spesso nei testi
AttrAversAre l’ immAginAzione
59
e stringente speculazione, non può tuttavia mantenere a lungo tale persuasione, perché s’impongono in
lui altre forze, che lo inducono a credere il contrario.
Tuttavia, oltre che paradossale, la situazione appare
anche problematica, perché le forze che producono la
seconda persuasione sono ricondotte all’immaginativa
oppure a una parte dell’intelletto che lotta contro l’altra.
Sembra che Leopardi stia qui procedendo a tentoni
nell’individuare la radice della seconda persuasione:
per questo parla prima di una parte dell’intelletto (non
avrebbe potuto dire, però, semplicemente l’intelletto,
in quanto esso porta piuttosto alla prima persuasione)
e subito dopo dell’immaginativa.
Ora, una possibile chiave di accesso alla questione
sta nell’avverbio «confusamente»; esso non assume di
per sé un valore negativo, in quanto indica piuttosto
il fatto che tale persuasione si produce grazie a uno
sguardo d’insieme sulla vita e non a un giudizio analitico sulle distinte e frustranti esperienze che la compongono13 – analogo allo sguardo «fuggitivo» e «rapido»,
che non «si ferma sulle parti» e non «esamina», che si
deve dare alle odi di Anacreonte se si vuole gustarne la
leopardiani (ad es. già nella citata lettera a Giordani del 1820 o
nel Canto notturno) per indicare una conoscenza che è passata
per la prova dell’esperienza, una conoscenza profondamente fatta
propria, diversa da quella puramente intellettualistica.
13
Così, ad es. in Zib. 2936: le cose esistenti non sono atte alla
felicità dell’uomo; ciò non significa che siano cose da nulla, ma
che «non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e che egli confusamente giudica prima di sperimentarle».
Ovviamente non si tratta della medesima situazione, perché il
passo del Discorso pone il problema del giudicare confusamente
non prima ma dopo l’esperienza.
60
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
bellezza14 –. Il significato delle occorrenze dei lemmi
confuso/a, confusamente, confondere ecc. nelle riflessioni coeve o di poco precedenti al Discorso ci mostra
appunto che ciò che è confuso si oppone in quanto
ancora indistinto alle distinzioni, in quanto continuo
al discreto, in quanto intero agli elementi individuati
dall’analisi15. Ma, ancor più significativamente, è con14
«La bellezza non istà che nel tutto, sì fattamente che ella non
è nelle parti in modo alcuno. Il piacere non risulta che dall’insieme,
dall’impressione improvvisa e indefinibile dell’intero» (Zib. 4177).
Tra i tanti altri passi, cfr. almeno Zib. 3237-3245. Si è soffermato
per primo sull’importanza del passo C. Colaiacomo, “Zibaldone
di pensieri” di Giacomo Leopardi, in Letteratura italiana, dir. da
A. Asor Rosa, Le opere, III, Einaudi, Torino 1995, pp. 250-252.
15
Che il termine confusamente non abbia di per sé un valore
negativo rispetto alla chiarezza e alla distinzione è testimoniato
da diversi passi dello Zibaldone, per es. dall’ampia riflessione
sull’invenzione dell’alfabeto (Zib. 2948-2960), opera dell’analisi: i
suoni elementari appaiono chiari e distinti solo agli alfabetizzati,
non agli illetterati, perché tali suoni «benchè cadano sotto i sensi,
sono tuttavia così confusi, legati, stretti, incorporati gli uni cogli
altri nella pronunzia della favella, così lontani dall’essere in modo
alcuno sensibilmente distinti, e la loro diversità scambievole è
così difficile a notare, ch’ella è quasi fuor del dominio de’ sensi».
Analogo valore non negativo hanno le occorrenze di confusione,
confusissimi ecc. nel testo sull’amore dei giovani come sentimento
oggi non più naturale ma acquisito in forza delle circostanze e
degli accidenti (Zib. 3301-3312). Franco D’Intino ha valorizzato questo testo, per sottolineare come la poetica leopardiana sia
una «poetica degli strati profondi dell’io», una poetica del vago,
dell’indefinito, al cui cuore c’è «una sintesi degli opposti, […] una
naturalezza dell’uomo caduto, immaginativo e sentimentale» (La
caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 177-181). Come
vedremo, la naturalezza di ciò che è caduto o, nei termini della
nostra indagine, di ciò che è acquisito configura la medesima
situazione del senso dell’animo.
AttrAversAre l’ immAginAzione
61
fusa la radice della seconda e più vigorosa persuasione,
che Leopardi individua ora in una parte dell’intelletto
che confuta16 l’altra, ora nell’immaginativa.
Lungi dall’essere una banale difficoltà – è evidente
come una parte dell’intelletto non cessi di essere intelletto, altrimenti non potrebbe neppure esserne parte, e
se è intelletto non può essere avvicinato all’immaginativa ed essere radice della seconda persuasione, ma
deve esserlo solo della prima –, l’oscillazione tra queste
due soluzioni, “parte dell’intelletto” o “immaginativa”,
risponde a una logica profonda del pensiero leopardiano, quella di negare la netta distinzione in molteplici
elementi, parti e forze della «macchina umana», il cui
sistema è fatto da «pochissime molle»: noi «dividiamo,
e distinguiamo, e suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e indivisibili, benché
producano e possano sempre produrre non solo nuovi,
non solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti». In
questo passo dello Zibaldone, tale unico principio è
denominato “immaginazione”: «L’immaginazione pertanto è la sorgente della ragione, come del sentimento,
16
In un’illuminante indagine etimologica Leopardi mostra che
confuto è il continuativo di confundo, da cui espressioni del tipo
“confondere l’avversario” per “confutare l’avversario”: «Nótisi
ancora che nell’improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i
francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni
di uno, confondere l’avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e
l’effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la
derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così
mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di
mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo
intendere» (Zib. 3625).
62
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
delle passioni»; non solo: questa facoltà è «una stessa
cosa» con cento altre che noi distinguiamo, per es.
l’intelletto, ma «immaginazione e intelletto è tutt’uno.
L’intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze». La difficoltà
consiste qui nel fatto che una volta l’immaginazione è
l’unica sorgente indivisa delle distinte facoltà, che da
quella derivano «secondo le circostanze, le assuefazioni e gli accidenti»; un’altra volta essa è una facoltà
distinta dalle altre, altrimenti non si comprenderebbe come l’intelletto possa acquisire l’immaginazione
«mediante gli abiti e le circostanze»17, se in quella ha
la sua fonte e quindi è in sé sempre immaginazione.
Ma, al di là della difficoltà, appare chiaro che la
radice unitaria – nello Zibaldone l’immaginazione, nel
Discorso l’immaginativa o la parte dell’intelletto che
svolge la funzione dell’immaginativa – delle distinte
facoltà è capace di persuasione più forte e duratura
perché è naturale («per natura»), mentre le diverse facoltà sono derivate da quella e quindi ontologicamente
inferiori perché acquisite.
Dobbiamo dunque aspettarci che tale radice non
venga mai meno, neppure nelle circostanze diverse dal17
Zib. 2133-2134. Ha attirato l’attenzione sul passo Piero Bigongiari, ma senza rilevarne la difficoltà, anzi sostenendo una
sua virtuosa circolarità (Leopardi e il “senso dell’animo”, in Id.,
Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 434). Rossend Arqués
ha invece negato l’identità di immaginazione e intelletto affermata da Bigongiari, sostenendo piuttosto che «essi si formano allo
stesso modo e nascono dalla stessa sorgente dell’animo»; ma quale
sia tale sorgente Arqués non dice, e rimanda in nota alla nozione
aristotelica di immaginazione (“Senso dell’animo” e malinconia
del genio, in M.A. Rigoni [a cura di], Leopardi e l’età romantica,
Marsilio, Venezia 1999, p. 67).
AttrAversAre l’ immAginAzione
63
la società stretta, su cui si ragionava. E invece le cose
non vanno così nel prosieguo del Discorso. Se nella
società stretta l’immaginativa porta gli uomini a concedere valore alla vita, ciò non avviene nella «solitudine»
(che è la condizione che Leopardi attribuisce a sé) o
nella «dissipazione giornaliera e continua senza società» (condizione, quest’ultima, propria degli italiani). O
meglio, avviene diversamente nel primo caso, ma non
avviene nel secondo. Infatti, nella solitudine, anche
l’uomo «il più sapiente, esperimentato e disingannato»
non può fare a meno di fare spazio all’immaginazione e
di risvegliare le illusioni, di modo che «l’animo dell’uomo torna a creare e formarsi il mondo a suo modo»
e, a causa della mancanza di sensazioni, pone cura e
dà peso anche a «menomissimi oggetti», trascurati
dagli altri uomini. Invece nella «dissipazione continua
e giornaliera senza società», in cui vivono «gl’italiani
non bisognosi», la vita, priva com’è delle «risorse interne dell’immaginazione e dell’animo» (proprie del
solitario) e dei «soccorsi esterni dell’immaginazione»
(la stima reciproca che si riconoscono i membri della
società stretta), non è capace di mantenere o rinnovare
le illusioni18. «Per queste cagioni gl’italiani di mondo,
privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri,
la vanità reale delle cose umane e della vita, e ne sono
più pienamente, più efficacemente e più praticamente
persuasi, benché per ragione la conoscano, in generale,
molto meno»19. Di qui la denuncia del carattere degli
italiani, della loro indifferenza profonda, del loro cinismo d’animo, della disistima e del disprezzo costante
18
19
TPP, p. 1017.
TPP, pp. 1017-1018.
64
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
verso sé e verso gli altri, dell’egoismo e dell’ostilità
verso i prossimi. Una denuncia che, se è comprensibile
per le ragioni polemiche che hanno mosso Leopardi a
scrivere il Discorso, mal si concilia con la rigorosità del
pensiero, che imporrebbe l’impossibilità che la radice
della cura verso sé e verso gli altri e le cose possa mai
e stabilmente venir meno – una difficoltà che forse
è uno dei motivi che hanno indotto Leopardi a non
pubblicare lo scritto –.
2. Il senso dell’animo nel Dialogo di Plotino e di
Porfirio
Il Dialogo di Plotino e di Porfirio, mettendo in
scena le ragioni contrapposte di un intelletto sganciato
dalla sua radice vitale e del «senso dell’animo»20 che
riconosce valore alla vita, riprende la questione, ma
da un punto di vista universale e non storicamente
determinato – si potrebbe dire da «metafisico» e non
da «filosofo di società»21 –, secondo dunque la prospettiva propria delle Operette morali e non più secondo
quella del Discorso.
20
Gli studi dedicati espressamente al «senso dell’animo», a
quanto mi risulta, sono soltanto i due già citati in nota 17. Non tratta del senso dell’animo, nonostante il titolo, G. Lo Conti, Leopardi
e il senso dell’animo, Palombi, Roma 2012. Altre interpretazioni
contenute in studi non specificamente dedicati al senso dell’animo
saranno citate nelle note successive.
21
Sulla differenza tra il punto di vista del metafisico e del
filosofo di società, cfr. Zib. 4138-4139, i cui termini sono ripresi
nella lettera a Gian Pietro Vieusseux del 4 marzo 1826 (Epist.,
n. 855, pp. 1095-1097). Su ciò rimando al mio La civiltà come
rimedio di se medesima, cit., pp. 479-482.
AttrAversAre l’ immAginAzione
65
A Porfirio, il quale sostiene che la «natura primitiva
degli uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte,
non è più la natura nostra: ma l’assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un’altra natura», per cui se
«non era naturale all’uomo da principio il procacciarsi
la morte volontariamente», oggi il suicidio è conforme
«alla nostra natura nuova», secondo la quale è ragionevole togliersi la vita, in quanto i mali sono molto
maggiori dei beni, Plotino ribatte:
Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli, ed anche sopporta che
ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo
disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico
a quella natura primitiva, a quella madre nostra e
dell’universo; la quale se bene non ha mostrato di
amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è
stata assai meno inimica e malefica, che non siamo
stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi,
coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra
infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la
maggior parte. E quantunque sia grande l’alterazione
nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur
questa non è ridotta a nulla, nè siamo noi mutati e
innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte
dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la
stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti.
Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile;
pur si commette di continuo; e non dagli stupidi
solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti,
dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
66
ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e
non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio
della vita, non disperazione, non senso della nullità
delle cose, della vanità delle cure, della solitudine
dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo;
che possa durare assai: benché queste disposizioni
dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di
tempo; mutata leggermente la disposizion del corpo;
a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni
menomissime e appena possibili a notare; rifassi il
gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza
nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non
veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al
senso dell’animo. E ciò basta all’effetto di fare che
la persona, quantunque ben conoscente e persuasa
della verità, nondimeno a mal grado della ragione,
e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno
gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non
l’intelletto, è quello che ci governa22.
Per comprendere il significato esatto di “senso
dell’animo” e quindi dell’intero passo23, possiamo
TPP, p. 596. Delle Operette morali ho tenuti presenti anche
le edizioni a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli (1977) 19904
(d’ora in poi Operette CG); e a cura di L. Melosi, RCS Libri, Milano (2008) 20103, che presenta una breve rassegna dei principali
studi precedenti (ivi, pp. 540-541).
23
Una prima interpretazione del passo e dell’intera operetta
fu da me tentata in Plotino (e Porfirio), in M. Biscuso, F. Gallo,
Leopardi antitaliano, manifestolibri, Roma 1999, pp. 202-207.
Il presente contributo riprende e approfondisce quella lettura.
22
AttrAversAre l’ immAginAzione
67
partire dalla constatazione che il lemma “senso dell’animo” è quasi un hapax legomenon nella produzione
leopardiana; ricorre infatti solo in un’altra occasione,
in una nota dello Zibaldone risalente a sei anni e mezzo
prima. Liana Cellerino ha sostenuto che nel Plotino il
«senso dell’animo rappresenta, di fronte al ventaglio
di termini filosofici tecnici che offre il dibattito del
tempo, una scelta lessicale negativa, un’opzione per
l’ambiguità e la polisemia, contro l’univocità tecnica
del linguaggio filosofico, quasi a voler dissimulare l’intervento filosofico. Non a caso la locuzione è ripescata
nel serbatoio dell’idioletto filosofico privato»24, cioè nel
passo dello Zibaldone in cui Leopardi contrappone la
disperazione naturale, propria degli antichi, «feroce,
frenetica, sanguinaria», che non cede alla necessità e
alla fortuna, e porta l’«odio di se stesso, (perchè resta
ancora all’uomo tanta forza di amor proprio, da potersi
odiare) ma cura e stima delle cose»; alla disperazione
dei moderni, «placida, tranquilla, rassegnata», che «si
piega, e si adatta a vivere e a tollerare il tempo e gli
anni; cedendo alla necessità riconosciuta», e porta
la noncuranza e il disprezzo e l’indifferenza verso
le cose; verso se stesso un certo languido amore
(perchè l’uomo non ha più tanto amor proprio da
aver forza di odiarsi) che somiglia alla noncuranza,
ma pure amore, tale però che non porta l’uomo ad
angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle
proprie sventure, e molto meno a sforzarsi, ed inL. Cellerino, L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo
Leopardi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 92 (ma cfr.
l’intera analisi del Plotino, pp. 89-95, che pone la scelta di Leopardi all’interno dell’orizzonte sensistico e materialistico).
24
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
68
traprender nulla per se, considerando le cose come
indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso dell’animo, e coperta di un callo tutta la facoltà
sensitiva, desiderativa ec. insomma le passioni e gli
affetti d’ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e
forte e lunga pressione, quasi tutta l’elasticità delle
| molle e forze dell’anima25.
Rossend Arqués, ricordando che «morale» è variante autografa di «dell’animo», ha sostenuto l’equivalenza
tra tatto e facoltà sensitiva, da un lato, e senso dell’animo e facoltà desiderativa, dall’altro, attribuendo quindi
il senso dell’animo «all’ambito della volontà»26. Mi
sembra un’equazione sforzata (si noti l’«ec.», indicante
altre facoltà che si potrebbero aggiungere), essendo
chiaro il significato complessivo del passo, secondo il
quale l’assuefazione alla disperazione porta il soggetto
moderno a patire sempre meno, a perdere cioè sensibilità. Credo perciò che il senso dell’animo assuma
qui innanzi tutto il significato di sensibilità generica;
ma se «il tatto e il senso dell’animo» è un’endiadi,
ciò potrebbe indicare anche la capacità dell’animo di
avvertire le sollecitazioni più tenui e sottili, capacità
che l’assuefazione ottunde. Il fatto, poi, che Leopardi
abbia pensato in un primo momento al «senso morale»,
può significare che tale sensibilità non induce soltanto
l’uomo a prendersi cura di sé, ma è anche empatica,
Zib. 618-620, corsivo M.B.
R. Arqués, “Senso dell’animo” e malinconia del genio,
cit., p. 58. Troppo generico mi sembra il riferimento al Trattato
delle sensazioni di Condillac come possibile fonte (ibidem). Un’analoga iscrizione del senso dell’animo all’ambito della «ragion
pratica» aveva proposto G. Negri, Divagazioni leopardiane, V,
Pavia 1899, p. 178.
25
26
AttrAversAre l’ immAginAzione
69
capace di immaginarsi il sentire altrui, base di ogni
agire morale27. Senza trascurare, inoltre, una comprensione non metaforica del tatto, senso per eccellenza del
percepire solo a diretto contatto con la materialità e la
corporeità altrui, al contrario della vista e dell’udito.
Se la mia ipotesi di lettura è valida, allora in questo passo il senso dell’animo non appartiene all’ambito della volontà più che a quella della cognizione28;
l’espressione indica piuttosto il sentire originario del
proprio corpo e della sua vitalità, la disposizione preteoretica e pre-pratica a sentire la vita propria e altrui
27
Si noti, per una conferma di questa tesi, l’uso del termine
sensibilité nella importante lettera ad André Jacoppsen del 23
giugno 1823: la sensibilità, da un lato, è sinonimo di virtù, perché essere «compatissans, bienfaisans, généreux, magnanimes,
pleins d’enthousiasme» significa essere «sensible[s]» e quindi
«verteuex» – infatti «je ne fais aucune différence de la sensibilité
à ce que qu’on appelle vertu» –; dall’altro, gli «esprits sensibles»
hanno «l’habitude de réfléchir», attività eminentemente teoretica
(Epist., n. 568, p. 723).
28
Non è possibile dunque accogliere l’ipotesi di Cesare Galimberti, secondo il quale il senso dell’animo è «una facoltà
conoscitiva diversa dalla ragione, superiore ad essa e tuttavia
non coincidente con le illusioni o gli inganni» (Operette CG,
nota 79, pp. 486-487), come se si trattasse di una sorta di leopardiano esprit de finesse, perché non si tratta né di una facoltà
né di una forma cognitiva, ma piuttosto di una predisposizione
radicata nell’uomo e produttiva di illusioni, che lo induce ad
attribuire significato alla vita. Concorda con la lettura di Galimberti Roberto Garaventa, il quale definisce il senso dell’animo
«una facoltà conoscitiva più autentica e profonda della stessa
ragione», perché è la «portavoce» della «possibilità indefinita,
ma inestinguibile di senso», depositaria della «verità ultima,
controfattuale» (Il suicidio in Leopardi, in Id., Il suicidio nell’età
del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij, FrancoAngeli,
Milano 1994, pp. 155-158).
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
70
e a con-sentire alla vita, e quindi ad appassionarsi,
angustiarsi, addolorarsi.
Quali termini filosofici offriva il dibattito del tempo
per designare ciò a cui il senso dell’animo si riferisce?
Per rispondere alla domanda è necessario andare oltre
le indicazioni di Cellerino, che pensa al senso interno
passato attraverso la lezione del sensismo o alla coscienza empirica di Galluppi29, e riferirsi piuttosto al
sensus animi della filosofia antica. Non è un caso, io
credo, che la locuzione «senso dell’animo» ricorra in
stretta congiunzione con quanto dell’«uomo antico» ancora resta in noi; essa è perciò chiamata a esprimere un
atteggiamento duraturo della specie umana, sia antica
sia moderna, che i filosofi antichi avevano già colto.
Lucrezio, che Leopardi certamente aveva letto30,
ricorre alla locuzione sensus animi per indicare la
sensibilità propria dell’animus il quale, diversamente
dall’anima, diffusa in tutto il corpo, ha una sede specifica (il centro del petto) e può perciò provare piacere
mentre il corpo sta male o essere infelice mentre il
corpo prova piacere o provare gioie e ambasce mentre
il corpo giace insensibile nel sonno (de rerum natura
III, 94-116)31. Il fatto che animus e anima costituiscano
una sola natura e insieme siano distinti, come lo sono la
L. Cellerino, L’io del topo, cit., p. 93.
Sulla conoscenza leopardiana di Lucrezio, mi sembrano
ancora insuperate le considerazioni di Sebastiano Timpanaro, il
quale sostiene l’ipotesi di «una lettura totale giovanilissima» e
«successive letture parziali, anche tarde» (Epicuro, Lucrezio e
Leopardi, in Id., Nuovi studi sul nostro Ottocento, Listri-Nischi,
Pisa, 1995, pp. 143-197).
31
Rossend Arqués ha sottolineato le ascendenze lucreziane
del sensus animi, ma sostenendo un’impossibile sinonimia con
il concetto di anima. Di qui la tesi per cui in Lucrezio non può
29
30
AttrAversAre l’ immAginAzione
71
testa e il resto del corpo (137-138), è la condizione per
cui anche l’animus possa avere una sua propria sensibilità, che cessa con la morte (578). Il che, tuttavia, non
impedisce affatto all’animus o mens (94) di svolgere
la funzione che gli è specifica, quella di consigliare
e governare la vita (consilium vitae regimenque, 95).
Il sensus animi ci permette di vivere sentendo la vita
(vivere cum sensu, 101): esso indica quindi una mens
radicata nell’anima, profondamente incorporata e quindi capace di sensibilità, capace cioè di provare piacere
e dolore, che sono per l’epicureismo i primi criteri di
giudizio pratico. Proprio per questo motivo essa può
essere consilium e regimen della vita – «governa la
vita» scrive significativamente Leopardi32 –.
Meno importante, ma comunque degna di segnalazione, mi sembra invece la nozione di sensus animi
che si ritrova in Seneca. Nell’epistola 121 il filosofo
latino contrappone l’animi nostri sensus degli uomini
al constitutionis suae sensus degli animali. Con sensus
animi Seneca designa la percezione che gli uomini
provano dell’impetus o conatus, cioè della spinta e
dell’impulso ad adattarsi alla loro natura specifica e a
prendersi cura di sé stessi.
Ora, sono già sufficienti questi due esempi tratti dal
pensiero antico per comprendere che il senso dell’animo
ha un’estensione ben più ampia del senso interno della
tradizione lockeana e kantiana, nella quale esso non è
altro che la consapevolezza di provare sensazioni. Se si
vuole trovare l’eredità della tradizione antica nel pensietrovarsi l’opposizione leopardiana tra senso dell’animo e intelletto
(“Senso dell’animo” e malinconia del genio, cit., pp. 59-63).
32
Su regere (governare), corradicale di regimen, derivante
per Leopardi da rex, cfr. Zib. 1129, 1205 e 3081.
72
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
ro moderno bisogna guardare piuttosto a Giambattista
Vico. Nel secondo paragrafo del settimo capitolo del De
antiquissima italorum sapientia Vico sintetizza i diversi significati che l’espressione animi sensus ha presso
gli antiqui Italiae philosophi: al di là delle differenze
dottrinali, tutti costoro convengono che la mens umana
abbia una qualche corporeità (corpulentia), differentemente dai seguaci della nostra religio. Animi sensus (al
plurale) sono allora i sensi interni o sentimenti, quali il
dolore, il piacere, la noia (molestiam) – una topografia
dei sentimenti fondamentali pienamente leopardiana
–, ma anche i giudizi, le deliberazioni, i desideri33. Da
Vico, dunque, Leopardi avrebbe potuto apprendere un
uso ampio di senso dell’animo, capace di assumere una
pluralità di significati, rispondente bene alla possibilità
che una sensibilità generica si specifichi in una molteplicità di funzioni: affetti, giudizi, desideri. È un’ipotesi
suggestiva, difficile tuttavia da dimostrare: sebbene la
circolazione delle idee vichiane negli ambienti intellettuali frequentati da Leopardi fosse senz’altro significativa, tanto da rendere certa una qualche conoscenza
dei temi principali della Scienza nuova prima della sua
lettura diretta (o, almeno, della lettura di alcune sue
parti, avvenuta nel 1828), non si hanno però documenti della lettura o almeno della consultazione del De
antiquissima (né l’opera compare nel catalogo della
biblioteca di Monaldo)34.
33
G. Vico, De antiquissima italorum sapientia ex linguae
latinae originibus eruenda (1710), in Opere filosofiche, a cura
di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971, pp. 114-115. È lo stesso
Cristofolini a tradurre molestia con noia.
34
Sul rapporto Leopardi-Vico rimando al mio Religioni, tecniche, società, linguaggio. Per un confronto tra Leopardi e Vico,
in Id., Leopardi tra i filosofi. Spinoza, Vico, Kant, Nietzsche, La
AttrAversAre l’ immAginAzione
73
Bisognerà dunque concludere che sia stata la lettura
diretta di Lucrezio e di Seneca a suggerire l’uso del
termine «senso dell’animo» nel Plotino? Non c’è alcuna
evidenza di ciò. Propongo invece un’altra ipotesi. Il
recupero del significato del sensus animi più che attraverso Vico – o più che attraverso direttamente Vico
– potrebbe essere avvenuto tramite Francesco Maria
Zanotti. In un passo Dell’arte poetica, che Leopardi
ben conosceva avendola riletta poco prima di comporre
il Dialogo di Plotino e di Porfirio per antologizzarne
quattro brani nella Crestomazia della prosa, Zanotti
contrapponeva la conoscenza «per argomentazione»,
che deduce dai principi le conseguenze, «come sono le
proposizioni de’ matematici», e la conoscenza che avviene «per un certo interior senso dell’animo», il quale
viene eccitato «senza che egli ne sappia il perché»
(Due modi di conoscere le cose). Tuttavia, a dispetto
del titolo, più che una forma vera e propria di conoscenza, questa seconda appartiene piuttosto al giudizio
estetico, come il contesto rivela – Zanotti sta parlando
dell’impossibilità di giustificare con argomentazioni la
maggiore bellezza di una parola rispetto a un’altra – e
scuola di Pitagora, Napoli 2019, pp. 51-85, e alla letteratura ivi
citata. A tali studi bisogna aggiungere G. Polizzi, La storia delle
“nazioni” in Vico, Niehbur e Leopardi, in M. Biscuso, S. Gensini
(a cura di), Leopardi e la filosofia italiana, «il cannocchiale», 44
(2019), 1-2, pp. 67-92; e i diversi contributi contenuti in F. Cacciapuoti (a cura di), Il corpo dell’idea. Immaginazione e linguaggio
in Vico e Leopardi, Donzelli, Roma 2019, tra cui va segnalato
M. Rascaglia, Leopardi lettore di Vico, ivi, pp. 137-146. Arqués,
che ha attirato l’attenzione sul testo del 1710, non si interroga se
Leopardi abbia letto il passo del De antiquissima, ma si limita a
sottolinearne l’importanza (“Senso dell’animo” e malinconia del
genio, cit., pp. 63-65).
74
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
come gli esempi addotti mostrano (l’avvenenza e la
grazia di una persona). In conseguenza di ciò, rispetto ai temi non conoscibili razionalmente, non si può
chiedere ragione di ciò che si afferma ma, nel dubbio,
«rimettersi al giudizio dei più»35. Notevole, inoltre,
è il fatto che Zanotti sostenga, subito dopo il passo
antologizzato da Leopardi, che il senso dell’animo è
posseduto naturalmente da ognuno, ma non per questo non può «confermarsi, ed accrescersi, e farsi più
pronto per l’osservazione e per l’uso»36; esattamente
come il gusto estetico – si rammenti che grazie al senso
dell’animo «rifassi il gusto alla vita», dichiara il Plotino
leopardiano –. L’aver ritrovato in Zanotti l’espressione
“senso dell’animo” può aver suscitato in Leopardi il
ricordo del sensus animi di Lucrezio e di Seneca, forse
di Vico, e dell’impiego del termine nella nota dello
Zibaldone risalente ad alcuni anni prima37.
Il lemma “senso dell’animo”, dunque, più che una
parola vaga e quindi poetica, come si è voluto sostenere38, o un termine tecnico impiegato per designare una
35
Crestomazia italiana. La prosa, Einaudi, Torino 1968, p.
163. Cfr. F.M. Zanotti, Dell’arte poetica. Ragionamenti cinque,
Lelio dalla Volpe, Bologna 1768, pp. 368-369.
36
F.M. Zanotti, Dell’arte poetica, cit., p. 370.
37
Devo all’amico Antonio Di Meo l’indicazione di un’altra
possibile fonte settecentesca, le Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gl’ignoranti, che gli scienziati del signor
abate Antonio Genovesi al sig. canonico *** (1764), Savioni, Venezia 1791 (il testo è presente nella biblioteca di casa Leopardi).
Genovesi scrive che è «senso dell’animo» la felicità, la miseria,
il piacere, il dolore. Si tratta di sensazioni che avvengono per
mezzo del «sistema de’ nervi», che è «l’organo di ogni nostra
sensazione», la «prima orditura» della macchina corporea (p. 42).
38
«L’“animo” […] ha trovato qui [nel Plotino], pur in forma
dubitativa, una sua propria dimensione svincolata da quella intel-
AttrAversAre l’ immAginAzione
75
singola facoltà o forma di conoscenza, sembra essere,
per così dire, un “termine-parola”, utile a circoscrivere
un campo ampio e plurale, una disposizione attuantesi in molteplici direzioni: provare piacere e dolore,
giudicare in base alla ricerca del piacere e alla fuga
dal dolore, percepire di sentire, con-sentire alla vita,
ossia sentire empaticamente il sentire altrui, esercitare
il gusto e concordare col giudizio di altri, facendo
proprio il senso comune, in modo da prendersi cura
di sé e governare la propria vita.
La difficoltà di cogliere tale campo risiede nel fatto che nel dialogo Plotino oppone il senso dell’animo
all’intelletto, come se fossero due facoltà dall’analogo
e opposto statuto. L’analisi finora condotta sul senso
dell’animo ha però escluso proprio una tale conclusione: intelletto e senso dell’animo non si pongono sul
medesimo piano, perché si tratta rispettivamente di
una facoltà e di una disposizione. Molto precocemente
il sensismo porta Leopardi a escludere che le facoltà
siano innate, al contrario delle disposizioni: la singola
facoltà, «senza le circostanze corrispondenti [cioè funzionali al loro sviluppo], senza l’assuefazione e l’esercizio, è affatto nulla»; al contrario le «disposizioni sono
innate, ovvero si acquisiscono mediante lo sviluppo,
cioè il rispettivo perfezionamento, di quegli organi
che le contengono come loro qualità, e come la carta
contiene la disposizione ad essere scritta, a prender
questa o quella forma». L’innatismo delle disposizioni
non significa, dunque, innatismo di facoltà, ma solo inlettuale (per questo a definirlo non serve la precisione matematica della ragione, ma un’approssimazione poetica: “per modo di
dire”)» (F. D’Intino, I misteri di Silvia. Motivo persefoneo e mistica eleusina in Leopardi, «Filologia e critica», 19 [1994], p. 268).
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
76
natismo di possibilità39, tanto che le disposizioni «negli
individui di una stessa specie variano, sono maggiori o
minori» o, addirittura, «mancano affatto»40, mancando
l’organo corrispondente, come, si potrebbe aggiungere
esemplificando, la disposizione a vedere manca a chi
è privo o privato della vista. Ma è proprio la «somma
conformabilità dell’uomo» a permettergli di sopperire
alla mancanza di un organo con lo sviluppo di altri
organi e delle corrispettive disposizioni, come avviene
per i ciechi o sordi, nati o divenuti tali41. Nulla, dunque,
è trascendentalmente dato, ma tutto è acquisito tramite
l’assuefazione – o «quasi tutto»42 –; non lo è la capacità
39
Non posso qui entrare nel merito della distinzione avanzata
da Leopardi tra «disposizioni a essere» e «disposizioni a poter
essere», funzionale alla distinzione tra ciò che è conforme alla
«intenzione della natura» e ciò che non lo è. Basti dire che si
tratta di un testo in cui si avverte la forte tensione a pensare,
da un lato, l’uomo posto al vertice della «catena degli esseri» e
dotato massimamente di disposizioni a poter essere; dall’altro, a
distinguere tra l’uomo che «non acquista che le qualità destinategli
dalla natura» e l’uomo che «acquista molte qualità non destinategli
dalla natura» in forza delle «circostanze non naturali» (Zib., 33743381). Quell’uomo, dotato di disposizioni ad essere piuttosto che
a poter essere, non potrà che appartenere alle «genti selvagge e
incolte», destinate ben presto a scomparire dall’universo teorico
leopardiano quali rappresentanti della prima natura.
40
Zib. 1819-1822.
41
Zib. 3824-3825.
42
Zib. 3301, corsivo M.B., dove si legge che l’uomo è «quasi
tutto opera delle circostanze e degli accidenti». La citazione è tratta da un lungo pensiero (già citato supra, nota 15), in cui Leopardi
afferma che neppure la «sensibilità con cui l’uomo suol riguardare
la donna, e la donna l’uomo», che pare la cosa «più naturale, più
inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più ingenita, meno
acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle circostanze
e dagli accidenti», lo è, perché tale «facoltà» si è sviluppata e ha
AttrAversAre l’ immAginAzione
77
di assuefarsi, la assuefabilità o conformabilità; non lo
sono le disposizioni43.
Il Dialogo di Plotino e Porfirio sembra allora mettere in scena un conflitto incomponibile di prospettive.
Porfirio sembra essere il portavoce di queste conclusioni, quando afferma che oggi nulla è rimasto della
prima natura, ma tutto è seconda natura: la «natura
primitiva degli uomini antichi, e delle genti selvagge e
incolte, non è più la natura nostra: ma l’assuefazione e
la ragione hanno fatto in noi un’altra natura». Plotino,
invece, sostiene esattamente il contrario: «Quantunque
sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la
potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla,
né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in
ciascuno gran parte dell’uomo antico». Per Porfirio
l’opposizione prima/seconda natura o antico/moderno
è un’opposizione tra due condizioni incompatibili, contraddittorie, tale per cui la transizione dall’una all’altra
si configura come una metabasis eis allo genos. Per
Plotino, al contrario, la prima natura, benché indebolita, produce ancora i suoi effetti nell’uomo di oggi,
il quale è certamente mutato, ma non si è totalmente
assunto la forma attuale in forza di determinate pratiche sociali, a
partire dall’uso dei vestiti, che suscitano così sentimenti e desideri
altri rispetto a quelli del mondo animale.
43
Su questi concetti cardinali dell’antropologia leopardiana,
cfr. almeno la puntuale voce di A. Malagamba, Assuefazione/
Assuefabilità, in Lessico Leopardiano 2014, cit., pp. 29-36. Alla
bibliografia ivi riportata vanno aggiunti: A. Aloisi, Desiderio e
assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi, ETS, Pisa 2014, pp.
93-129; A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo Leopardi. Agire
e patire: analisi del sistema dello Zibaldone, Mimesis, MilanoUdine 2019, pp. 219-236. Di Andrea Malagamba si veda inoltre
il notevole intervento citato infra, nota 45.
78
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
trasformato, almeno non così tanto da aver cancellato
ogni traccia della sua origine.
Come noto, Plotino ha nel dialogo l’ultima parola.
Possiamo per questo concludere che il dialogo sia una
ritrattazione della teoria della conformabilità e dell’assuefazione? Nulla ci conferma in questa conclusione: se
anche il senso dell’animo designasse la disposizione a
sentire (senso) attuatasi grazie allo sviluppo dell’organo
corrispondente (animo), questo non significherebbe che
il senso dell’animo sia disposizione pura a poter essere,
mera potenzialità scevra di ogni traccia di attuazione in
una forma; il senso dell’animo è invece la disposizione
a sentire, che si attua nel provare piacere e dolore, nel
percepire di sentire, nel giudicare, nel con-sentire.
Nonostante ciò, la posizione di Porfirio44, che pare
perfettamente ragionevole, non è sostenibile, non perché sia troppo radicale, ma perché lo è ancora troppo poco. Infatti essa afferma implicitamente che in
un certo momento del tempo sia sopravvenuta una
trasformazione totale dell’uomo, prima pienamente
naturale, poi artificiale, modificato dall’assuefazione.
Già questa posizione, a un attento esame, risulta poco
sostenibile nelle riflessioni del 1821-23 raccolte nello
Zibaldone45; tra queste e l’operetta del 1827 è inoltre
44
Achille Tartaro difende sostanzialmente le ragioni di Porfirio, la «fondatezza del pessimismo nichilistico e del materialismo», quando sostiene che il senso dell’animo conserva «il sapore
dell’inganno e del ricatto sentimentale» e riconosce in esso «lo
strumento di un’astuzia sottile e perversa» della natura nei confronti dell’uomo (Leopardi, Laterza Roma-Bari 1978, pp. 156157). Lettura assai distante da quella qui presentata.
45
Andrea Malagamba ha sottolineato che il passaggio dalla
prima alla seconda natura, sia nella prospettiva della storia della
specie umana sia in quella della biografia dell’individuo, non può
AttrAversAre l’ immAginAzione
79
venuto meno proprio il primo polo dell’opposizione
prima/seconda natura ovvero natura/storia (=civilizzazione): la trasformazione dell’uomo primitivo e poi
antico è avvenuta, per così dire, da sempre, perché per
vivere l’uomo ha dovuto attuare il suo poter essere,
assuefarsi, rendersi artificiale. Il periodo antecedente
la civilizzazione – la quale ha comportato «ciò che la
natura non voleva»: invenzioni tecniche, forme di associazione vincolanti e durature, espressione e comunicazione linguistica, credenze e culti religiosi, esercizio
della razionalità – non è affatto una condizione reale,
storicamente data, ma, come l’homme de nature di
Rousseau, puramente ideale. Non c’è mai stata una
condizione naturale nella quale i selvaggi – Porfirio
parla delle nazioni dai «costumi primitivi e silvestri»
dell’India e dell’Etiopia, che solo «a fatica» possono essere ritenuti della stessa specie di quella degli «uomini
inciviliti»46 – vivessero in una natura capace di soddisfare i loro bisogni soltanto grazie al corredo istintuale
e privi totalmente di tecniche e artefatti47; così come
non c’è un antico su cui non si getti già, in qualche
essere considerato una transizione accaduta in un dato momento del tempo, ma un “salto” insensibile, una «seconda nascita»,
già da sempre avvenuta. Per questo non può essere oggetto di
ricostruzione storica o psicologica, ma solo di narrazione mitica
(come in Zib. 2403-2404) (“Seconda natura”, “seconda nascita”.
La teoria leopardiana dell’assuefazione, in C. Gaiardoni [a cura
di], La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia
di Giacomo Leopardi, Atti del XII convegno nazionale di studi
leopardiani [Recanati, 23-26 settembre 2008], Olschki, Firenze
2010, pp. 313-321).
46
TPP, p. 596.
47
Ha colto molto bene questa presa progressiva di coscienza
da parte di Leopardi M. Balzano, I confini del sole. Leopardi e il
Nuovo Mondo, Marsilio, Venezia 2009. Cfr. anche il mio Religioni,
80
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
modo, l’ombra del moderno; un’immaginazione pura,
sorgiva, che non comporti in sé la capacità cognitiva
del vero; un amor proprio che si traduca integralmente
in virtù senza lasciare un residuo di egoismo.
Ma se è così, l’affermazione di Plotino «quantunque
sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la
potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla»
va compresa nel senso che la disposizione a sentire
continua a vivificare l’attuale e concreto sentire: l’origine, pur essendo inattingibile, mantiene la sua potenza in ciò che da essa deriva. La situazione affettiva
che Plotino evoca – l’amicizia profonda e matura, che
richiede agli amici di non abbandonarsi e accrescere
così l’infelicità dell’esistenza, ma di tenersi compagnia
e confortarsi insieme, di incoraggiarsi e soccorrersi,
per «compiere nel miglior modo questa fatica della
vita»48 – è possibile solo in una condizione storica già
ben lontana dalla natura primitiva, perché non si dà
in una forma di «società larga», in cui si intrecciano
rapporti sociali laschi e provvisori allo scopo di soddisfare i bisogni primari, ma solo in forme complesse
di civiltà, e richiede affetto disinteressato e riflessione
sulle conseguenze dei propri comportamenti.
Viviamo nella seconda natura da sempre, come da
sempre la potenza della prima natura continua a vivere in noi, in forma più vigorosa nell’antichità, meno
vigorosa nella modernità.
Da ciò la necessità di cambiare metafora: il senso
dell’animo ci appare adesso non più, staticamente,
un “campo” che raccoglie diverse funzioni oppure,
tecniche, società, linguaggio, cit., in cui discuto anche il libro di
Balzano alle pp. 77-85.
48
TPP, p. 599.
AttrAversAre l’ immAginAzione
81
dinamicamente, una “radice” dalla quale germogliano
disposizioni e facoltà, bensì una “soglia”, transitabile
in due direzioni. Risulta infatti impossibile intendere
il senso dell’animo, come una lectura facilior suggerirebbe, quale una sensibilità generica appartenente al
campo della prima natura, che nella modernità non si
sa per quale miracolo sopravvive ancora quando tutto
è mutato. Il senso dell’animo rappresenta, al contrario,
la soglia tra prima e seconda natura, tra originario
e acquisito, una soglia49 che permette all’originario
di dare forza all’acquisito e all’acquisito di attingere
energia dall’originario, all’origine di dispiegare la sua
energia nella storia e in chi vive nella storia di “ritornare ai principi” per trarne nuova forza, con l’avvertenza che tale “ritorno all’origine” deve attuarsi nella
storia, non in una impossibile dimensione naturale50.
Un altro esempio di “concetto-soglia” è l’amore, che meriterebbe uno studio specifico. Non è un caso che Giovanni Gentile
abbia identificato il senso dell’animo con l’amore (Le Operette
morali [1916], ora in Manzoni e Leopardi, Treves, Milano 1928,
pp. 165-167). Preciso che il significato che attribuisco al concetto di “soglia” si distingue nettamente da quello attribuitogli
da Paola Cori, la quale designa “della soglia” «la nuova poetica
che si esplica attraverso dinamiche testuali performative» e che
permettebbe di rappresentare «l’adiacenza di essere e non essere»
(“Di temenza è sciolto”: pensiero e poesia della soglia, «Risl –
Rivista internazionale di studi leopardiani», 7 [2011], pp. 41-68).
Come poi sia possibile al non essere di essere adiacente all’essere
supera la mia capacità di rappresentazione (e di comprensione:
d’altra parte la studiosa è tra i tanti che crede che Leopardi abbia
a un certo punto abbandonato il principio di non contraddizione).
50
«Da questo punto di vista Leopardi si riconosce perfettamente in quel tratto di pensiero italiano – tra Machiavelli e Vico
– che ha cercato nel ritorno all’origine il rimedio ultimo alla crisi
di civiltà troppo infiacchite per poter sopravvivere». Con l’avvertenza che «non esiste un’altra dimensione, appunto non storica,
49
82
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Il senso dell’animo traduce il linguaggio dell’antico/
naturale in quello del moderno/artificiale, la vitalità
“cruda e verde” nelle opere e nei giorni della storia, le ragioni dell’affettività corporea nell’affettuosa
sollecitudine dell’animo verso le cose e le persone:
l’azione del tradurre – e il senso dell’animo è appunto un’azione, non un fatto – è l’atto di oltrepassare
continuamente la soglia tra due testi appartenenti a
lingue differenti, di andare all’originale per tornare
al tradotto, permettendo così all’originale di perdersi
come dimensione reale per conservarsi nella sua nuova
vita trasfigurata.
Benché il discorso di Porfirio sia ragionevolissimo,
benché non commetta «l’error di computo» che compiono tutti gli uomini, «dagl’idioti» e «dagl’ingegnosi»,
e «di continuo», tuttavia esso non risulta persuasivo
che per «un poco di tempo»:
Non è fastidio della vita, non disperazione, non senso
della nullità delle cose, della vanità delle cure, della
solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se
medesimo; che possa durare assai: benché queste
disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le
lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato
un poco di tempo; mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un
e cioè naturale, a cui poter ritornare» (R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino
2010, p. 116). Di Esposito si veda ora anche l’intervista a cura di
S. Gensini, La negazione innegabile, in M. Biscuso, S. Gensini
(a cura di), Leopardi e la filosofia italiana, cit., pp. 215-221; sul
“ritorno ai principi” come ritorno alla natura e sul rapporto con
Machiavelli, cfr. Zib. 222 e il mio Leopardi e la lezione di Machiavelli, ivi, pp. 43-44.
AttrAversAre l’ immAginAzione
83
subito, per cagioni menomissime e appena possibili
a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or
quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano
quella loro apparenza, e mostransi non indegne di
qualche cura51.
Questo avviene, come ormai sappiamo, perché non
è l’intelletto ma il senso dell’animo a governare gli uomini. L’intelletto non è capace di esercitare un’influenza duratura in quanto agisce solo su un piano razionale,
letteralmente “scorporato” dalla sfera emotivo-affettiva. Al contrario, «l’animo nostro corrisponde in tutto
alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo»52.
E con questa osservazione si potrebbe pensare che
il discorso sia chiuso. Al contrario, il passo merita
un ulteriore approfondimento, che ci permetterà di
giungere alle conclusioni, tornando dal piano universale delle Operette morali a quello storicamente determinato del Discorso. Il discorso di Porfirio,
come d’altronde quello di Plotino e qualunque altro
discorso, è capace di persuasione perché l’ascoltatore
o il lettore sono mimeticamente sensibili a quanto leggono e odono, e quindi tendono a conformarsi a esso.
«L’uomo è animale imitativo». Nel Discorso Leopardi
osserva come anche gli uomini più indipendenti dalle
opinioni altrui «credono la maggior parte di ciò che
credono, perciò solo che gli altri lo credono, lo fanno,
TPP, p. 598.
Zib. 4288. È il famoso passo sulla materia pensante. Piero
Bigongiari ha opportunamente attirato l’attenzione sulla contemporaneità della stesura del dialogo e del pensiero zibaldonico,
risalenti entrambi al settembre 1827 (Leopardi e il “senso dell’animo”, cit., pp. 422-423).
51
52
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
84
lo costumano, lo gradiscono». Non può non accadere
che anche «un filosofo assolutissimo e liberissimo»,
leggendo un libro che pure ritiene sciocco, «non pensi, almeno per una mezz’ora, anche suo malgrado, in
maniera, per certa guisa, conforme allo scrittore del
libro». Lo stesso avviene nel parlare. Tale è la forza
conformatrice della società sull’individuo, per cui
esso non è libero nella condotta e nei giudizi «se non
in piccola parte delle sue azioni e de’ suoi pensieri»53.
Sono parole che illuminano l’operazione tentata
da Leopardi nelle Operette morali, la cui varietà stilistica, l’ampia gamma dei registri comunicativi e la
radicalità dei contenuti intendono sollecitare il lettore
«come destinatario di una provocazione che sconcerti e induca alla riflessione»54. Un lettore, bisogna
aggiungere, forse più ottativo e postumo che reale
e presente, diverso comunque dal moderno fruitore
frettoloso e superficiale della enorme quantità di pubblicazioni effimere che il mercato propone (Il Parini,
ovvero della gloria), e soprattutto dal cinico e indifferente italiano, privo di vera società stretta e, quindi,
più insensibile dei suoi contemporanei stranieri alle
idee comunicate dai suoi simili. A Timandro, che
rimprovera Eleandro di scrivere libri che «mordono
continuamente l’uomo in generale», nuocendo «assaissimo» alla stima che ha di sé la specie umana e
alla sua fiducia nel progresso, Eleandro ribatte che
non è affatto credenza universale che i libri giovino,
e aggiunge:
TPP, p. 1016 e nota h (= nota 20).
F. Gallo, Una scrittura militante: Prospettive di lettura della
comunicazione filosofica delle Operette morali, in M. Biscuso, F.
Gallo, Leopardi antitaliano, cit., p. 138.
53
54
AttrAversAre l’ immAginAzione
85
Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che
gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici,
prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri
destinati a muovere la immaginazione; e intendo
non meno di prose che di versi. Ora io fo poca stima
di quella poesia che letta e meditata, non lascia al
lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per
mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile,
e di fare un’azione indegna. Ma se il lettore manca
di fede al suo principale amico un’ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella tal poesia: perché
altrimenti mi converrebbe disprezzare le più belle,
più calde e più nobili poesie del mondo55.
Muovere la immaginazione, suscitare sentimenti
nobili: ecco lo scopo della poesia in prosa delle Operette morali, rivolta a lettori inattuali (pessimisticamente – l’avverbio è in questo caso pertinente – Leopardi esclude «i lettori che vivono in città grandi: i
quali, in caso ancora che leggano attentamente, non
possono essere giovati anche per mezz’ora, né molto
dilettati né mossi, da alcuna sorta di poesia»)56. Non
posso qui approfondire il tema, che ho affrontato altrove57; richiamare il passo del Dialogo di Timandro
e di Eleandro è però necessario perché, se paragonato
alla conclusione del Dialogo di Plotino e Porfirio, ne
illumina ulteriormente il significato. Il primo dialogo – che, come noto, è stato scritto nel giugno 1824,
TPP, p. 582.
Ibidem.
57
M. Biscuso, L’altra radice. Naturalismo, immaginazione e
moltitudine in Leopardi, in M. Biscuso, F. Gallo, Leopardi antitaliano, cit., pp. 99-126.
55
56
86
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
cioè a ridosso della composizione e/o della revisione
del Discorso – mostra, infatti, la debole capacità di
persuasione di un libro morale, che, pur giovandosi
della forza poietica dell’immaginazione, può suscitare
nell’animo del lettore un sentimento nobile solo «per
mezz’ora»; il secondo sostiene che anche il più ragionevole discorso intellettuale sulla vanità della vita non
può fare in modo che «passato un poco di tempo», non
rifiorisca la speranza e il gusto per la vita.
Benché dunque l’uomo sia animale imitativo, suscettibile perciò di conformarsi ai discorsi che ascolta
o legge, tale disposizione imitativa è favorita oppure
ostacolata non solo dalle circostanze storiche, ma anche da un limite naturale. Nelle attuali circostanze
storiche, maggiormente in Italia, il nobile e veritiero
messaggio delle Operette morali, grazie alle risorse
della poesia e dell’immaginazione, è capace di suscitare nobili sentimenti, sebbene non duraturi, a causa
appunto delle circostanze non favorevoli; al suo interno, il discorso puramente intellettualistico di Porfirio58,
che in base a un astratto calcolo reputa preferibile il
suicidio alla vita, barbaramente incurante del «dolore
della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni», per quanto ragionevolissimo, non può persuadere che «per un poco di tempo»,
perché le ragioni della vita e delle illusioni riprendono
58
Persuasivamente Emanuele Severino vede in Porfirio «la
ragione moderna come puro calcolo», motivo per cui egli si chiude
in sé, si separa «dalla totalità unitaria del dialogo (che pure include
il suo separarsi)» e perciò «Porfirio non canta, non è poeta. Poesia
è il dialogo» (Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi,
Garzanti, Milano 1997, pp. 220-221).
AttrAversAre l’ immAginAzione
87
il sopravvento. È infatti il senso dell’animo, e non l’intelletto, che ci governa.
La potenza che resta, allora, non sarà il resto della sottrazione del moderno dall’antico, della seconda
natura dalla prima, dell’intelletto calcolante dall’immaginazione poetica, ma ciò che dell’origine permane
nella storia, ciò che della vitalità perdura nelle forme
di vita che la civilizzazione produce.
«IO NEL PENSIER MI FINGO»
APPUNTI SULLA TEORIA LEOPARDIANA
DELL’IMMAGINAZIONE
Amedeo Vigorelli
La riflessione teorica di Leopardi sul ruolo conoscitivo o finzionale della immaginazione non costituisce
un mero corollario o una appendice estrinseca della sua
preminente attività creativa poetica, ma un aspetto essenziale nella sua concezione filosofica antropologica.
Un aspetto non sufficientemente indagato è quello che
riguarda l’influsso che su tale riflessione ha esercitato
la tecnica pittorica, in una originale ripresa della tradizionale tematica oraziana dell’ut pictura poesis. A
prima vista, lo spazio per una esplicita ripresa di tale
problematica, parrebbe escluso da alcune perentorie
affermazioni di Leopardi, come la seguente: «Non è
lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose,
e i pensieri del pittore»1. L’osservazione – incidentale
– è suggerita all’autore dal paragone tra la scrittura
alfabetica delle lingue indoeuropee e quella pittografica cinese, a rafforzare la tesi generale secondo cui
1
Zib. 1059.
90
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
«quello che non ha a che fare (si può dir nulla) colle
parole, non è lingua, ma un altro genere di segni»2.
Il segno pittorico ha una funzione descrittiva, a
differenza della parola, il cui principale “uffizio” è la
narrazione:
Per cui era falso e assurdo quel genere di poesia
poco fa tanto in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano descrittiva.
Perché quantunque il poeta o lo scrittore possa bene
assumere anche l’uffizio di descrivere, è da stolto di
farne descrizione, non essendo uffizio proprio della
poesia, e quindi non è possibile che non ne risulti
affettazione e ricercatezza, e stento, volendolo fare
per istituto e per argomento, lasciando stare la noia3.
Richiamiamo alcuni concetti generali. La parola è il
“corpo” o la materializzazione dell’idea4, è dunque primariamente in rapporto con un contenuto noetico, laddove il segno pittorico prescinde da questo riferimento,
nella rappresentazione diretta delle cose. Vero è che
l’arte figurativa si propone talvolta anche l’espressione
del sentimento, tramite un linguaggio gestuale, ma la
diversità del mezzo non fa che rendere più evidente la
diversa intenzionalità e la modalità espressiva della
parola poetica. È la celebre questione del Laocoonte,
dibattuta fin dall’antichità e ripresa da Lessing in epoca
2
Ibidem. L’osservazione ritorna a proposito della scrittura
geroglifica: questa «non rappresentando la parola ma la cosa, non
[ha] nulla a che far colla lingua e appartiene a un altro ordine di
segni, anteriore forse alla stessa favella» (Zib. 1264).
3
Zib. 164.
4
Zib. 1657.
AttrAversAre l’ immAginAzione
91
contemporanea. Anche Leopardi sembra risolverla nella direzione di una affermazione della superiorità della
espressione poetica su quella figurativa o scultorea,
per la capacità della prima di trasfigurare l’espressione del “dolore antico” in modalità più elaborate del
sentimento, e per la diversa finalità: esprimere azioni
(alias narrazioni) o raffigurare (alias descrivere) corpi5.
Anche le sparse annotazioni sulle “arti sorelle” (poesia,
musica, pittura) sembrano andare nella direzione di una
differenziazione sostanziale, materiale e funzionale.
Il medium materiale della pittura è il colore, quello
della musica il suono6. Più che al diverso riferimento
sensoriale (l’occhio e l’udito), l’interesse estetico di
Leopardi si concentra sulla diversità di effetti che la
scelta del mezzo espressivo produce nello spettatore.
L’effetto naturale e generico della musica in noi «non
deriva dall’armonia ma dal suono, il quale ci elettrizza
e scuote al primo tocco anche quando sia monotono»7.
E questo è più forte nel caso della musica, che della
pittura8. L’effetto del suono è però modificato dall’armonia, ossia dalla ripetizione e dalla successione tem5
«L’espressione del dolore antico, p. e. nel Laocoonte, nel
gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere p.
necessità differente da quella del dolor moderno. Quello era un
dolore senza medicina come ne ha il nostro. […] Quindi il dolor
loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora nei
barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto della sensibilità, senza la rassegnazione dolce alla sventura da noi, non da
loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del
dolore» (Zib. 76-77).
6
«Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi della scoltura ec.» (Zib. 155).
7
Ibidem.
8
«Anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore»
(ibidem).
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
92
porale delle note. L’armonia è bellezza9. Ma, mentre è
impensabile una armonia “scompagnata” dal suono, il
semplice suono, senza armonia, ha un effetto diretto
sul sentimento10. La pittura riesce a raffigura una molteplicità di oggetti, e dunque una “varietà” (elemento
essenziale del piacere estetico) in una raffigurazione
spaziale simultanea. La musica mediante una successione temporale armonica. Così, se è vero che «la luce e
il suono ricreano e dilettano per natura», ciò accade in
modo diverso, e non riducibile a un’identità di cause11.
Il possibile paragone tra arti sorelle sembra cioè ridursi
alla enumerazione di indubbie analogie apparenti, che
è compito essenziale del teorico dipanare e distinguere
nella loro diversità estetica e funzionale. Il ruolo della
immaginazione dovrà adeguarsi a questa disparità di
finalità e modalità espressive.
Almeno in un caso tuttavia questa giustificata assenza o trascuranza del figurativo nella lingua poetica
di Leopardi (Arturo Graf, da convinto positivista, la
metteva addirittura in relazione con la miopia fisica
del poeta) è stata rimessa in discussione. È il caso delZib. 156.
«Il puro suono basta ad aprire e scuotere l’animo umano»
(Zib. 1935).
11
«Ma il diletto dell’una e dell’altro non è né grande né durevole, se non sono applicati, questo all’armonia, quella, non solo
ai colori (che i colori son come i tuoni, e di poco durevole diletto,
sebben più durevole di quello della luce semplice e del bianco),
ma agli oggetti visibili o naturali o artefatti, come nella pittura,
che applica, distribuisce e ordina al miglior effetto i tuoni della
luce, come l’armonia quelli del suono. I colori non hanno che
fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I tuoni
del suono non hanno se non l’armonia, a cui possano essere dilettevolmente applicati» (Zib. 1935-1936).
9
10
AttrAversAre l’ immAginAzione
93
la “caricatura”, come modalità espressiva tipica della
modernità post-rivoluzionaria, condivisa da Leopardi
con pittori come Hogarth e Daumier. In una dotta e
persuasiva analisi dei Paralipomeni, Gennaro Savarese
ha riaperto la questione, inserendola in una linea di
indagine filologica che collega per un risvolto inedito, tramite Paolo Segneri (valorizzato da Leopardi,
nelle tracce di Giordani, nella Crestomazia italiana),
Leopardi a Parini e alla sua tematica del “dipintivo”12.
Senza addentrarmi in una disamina analitica (del resto
già tentata da altri)13, mi limito qui ad alcune osservazioni, che possono arricchire l’analisi del problema
della immaginazione svolta in altra sede14.
Alcune osservazioni, solo in apparenza incidentali,
sulla pittura di paesaggio possono introdurci al nostro
tema. A proposito della superiorità della pittura fiam12
G. Savarese, Indagini sulle “arti sorelle”. Studi su Letteratura delle immagini e Ut pictura poesis negli scrittori italiani, a cura
di S. Benedetti e G.P. Marangoni, Vecchiarelli Editore, Manziana
(Roma) 2006. Si vedano i capp. IV (“Avventure segneriane tra
Sette e Ottocento: Parini, Leopardi, De Sanctis”); VIII (“Leopardi
e la caricatura”); IX (“Il figurativo e Leopardi”), che riproducono
saggi in precedenza pubblicati dall’autore.
13
Cfr. F. Fedi, Mausolei di sabbia. Sulla cultura figurativa
di Leopardi, Fazzi Editore, Lucca 1997. L’autrice evidenzia la
difficoltà di operare diretti raffronti tra le metafore descrittive
delle liriche leopardiane e le fonti iconografiche ipotizzabili (con
particolare riferimento al tema sepolcrale e a quello rovinistico).
Difficoltà accentuata dalla evidente discrasia del gusto neoclassico a cui Leopardi pare attingere alcune raffigurazioni e la teoria
estetica elaborata nello Zibaldone, in deciso contrasto con i canoni
di bellezza assoluta tipici del Neoclassicismo.
14
Mi permetto di rinviare a: A. Vigorelli, La “pazienza” di
Giacomo Leopardi. Agire e patire: analisi del sistema dello Zibaldone, Mimesis, Milano 2019.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
94
minga, rispetto al moderno paesaggismo di un Canaletto o alle stampe di Albrecht Dürer, Leopardi osserva
come l’effetto di “naturalezza” nella rappresentazione artistica non derivi dalla precisione e accuratezza
con cui sono imitati gli oggetti, ma dalla «maniera
di trattar le cose naturalmente, e com’elle sono, vale
a dire in mille diversissime maniere»15, evitando con
ogni mezzo la monotonia dell’“affettazione”. Il pittore (come il poeta) deve fare uso di una “negligenza
apparente”, ma voluta, lasciando spazio all’intervento
attivo e immaginativo dello spettatore. Di questo modo
d’operare erano maestri «gli antichi poeti ed artefici,
massimam. greci, che solevano lasciar da pensare allo
spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero»16.
Ma anche i pittori moderni hanno appreso questa arte
della “sprezzatura”, come si vede in certi particolari
delle loro grandi tele:
Quando noi vediamo quei ritagli d’oggetti che i pittori figurano in sull’estremo dei quadri, o fingendo
che la vista del rimanente sia parata da altri oggetti,
come nel vedere il davanti o il di dietro o il profilo,
per esempio, di una persona dipinta, c’immaginiamo
tutta la persona, similmente allora, purché conosciamo quei tali oggetti, sapendo com’è fatta a un di
presso quella parte che non vediamo, e supponendo
che non manchi, ci formiamo bene e convenientemente nella fantasia la figura intiera17.
Zib. 190.
Zib. 100.
17
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in
TPP, p. 980.
15
16
AttrAversAre l’ immAginAzione
95
Le vedute marine, che piacciono per la loro “vastità” e infinitezza, più difficilmente realizzano lo scopo, poiché fanno inevitabilmente ricorso ad immagini
“prese dalla navigazione” e lontane dall’esperienza
quotidiana dello spettatore. La sua immaginazione
è piuttosto stimolata «dagli oggetti che ci circondano» resi familiari dalla “assuefazione” o “cognizione
pratica”18. Dappertutto infatti «l’uomo cerca il suo
simile»19, e si tiene lontano dall’esotico, dal meramente
fantastico, dall’artificiale:
Ci piace e par bella una pittura di paese, perché ci
richiama una veduta reale; un paese reale, perché
ci par da dipingerci, perché ci richiama le pitture.
Il simile di tutte le imitazioni […]. Così sempre nel
presente ci piace e par bello solam. il lontano, e tutti i
piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezioni di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze20.
Alla sapiente sprezzatura del pittore (come del poeta) deve corrispondere, nello spettatore, una esercitata
capacità di “messa a distanza” delle proprie percezioni,
che conferisce loro una dimensione di vastità e di infinito. Rinunciando sia ad un piatto realismo che alla
ricerca di effetti artificiali o sorprendenti, l’artista non
deve rivolgersi tanto alla “curiosità” dello spettatore,
quanto piuttosto al suo “desiderio dell’infinito”, spesso
sollecitato “da una veduta ristretta e confinata in certi
modi”, profondamente radicata nella memoria:
Zib. 1827.
Zib. 1848.
20
Zib. 4495.
18
19
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
96
L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che
non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto,
perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi
il piacere ch’io provava sempre da fanciullo e anche
ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una
porta, una casa passatoia, come chiamano21.
Non l’effetto direttamente percepito delle cose, ma
la loro risonanza sentimentale ed emotiva, esercitata
nella memoria personale e nella finzione immaginativa
e cognitiva, è scopo eminente dell’arte pittorica e di
quella poetica (concepita come “pittura interiore”).
Questa teoria, non idealistica e geniale, bensì “materialistica” e “fisiologica”, della fantasia o creazione
poetica, fa appello ai meccanismi della assuefazione,
di cui Leopardi ripercorre con intento analitico tutte
le possibili modalità attivo-passive. Dalla semplice
“impressione” o visione diretta e ingenua delle cose,
alla rielaborazione affettiva e alla “ripetizione” memorativa, produttrice di effetti molteplici causalmente
imprevedibili, e tuttavia necessari. Su di essi opera e
si perfeziona il filtro della capacità linguistica, sedimentata e arricchita dalla varietà delle letture e delle
loro molteplici risonanze “esperienziali-affettive” o
“immaginativo-cognitive”. Limitiamoci qui ai casi più
evidenti ed esemplari.
L’idillio composto nell’autunno 1819: L’infinito, offre
a Leopardi l’occasione di mettere alla prova l’intensa riflessione sul “poetico” sviluppata nel primo Zibaldone.
In una recente memorabile rilettura, Gilberto Lonardi
21
Zib. 171.
AttrAversAre l’ immAginAzione
97
ha indicato con precisione i riferimenti filologici al “sublime” antico, temperati dalla Stimmung malinconica
riconducibile all’Achille omerico, che medita in solitudine il proprio tragico destino, in vista del mare22. A
questa analisi contenutistica anteponiamo tuttavia una
rilettura “fenomenologica”, aderente al dettato formaleespressivo del celebre idillio leopardiano. Il precedente
immediato che motiva l’avvio della revêrie poetica è
costituito dal sopra citato pensiero dello Zibaldone,
di cui L’infinito sembra offrire una fedele parafrasi23.
Più che ad un’esperienza personale diretta, affine ad
un roussoviano “sentimento cosmico”, ci troviamo di
fronte ad un esperimento mentale, a un “esercizio”
filosofico atto a conferire evidenza e sviluppo alla
teorizzata differenza tra “reale” e “immaginario”. Il
tema della “finzione” è affine a quello della “illusione”,
definita come spazio di libertà e alea di possibilità,
entro i rigidi confini del “reale” e del “vero”. Ciò che
non può essere direttamente colto dallo sguardo, “può”
legittimamente venire raffigurato, dipinto, “finto” o
rappresentato dall’immaginazione, che svolge qui un
ruolo di necessaria “integrazione” tra percepito e non
(ancora) percepito, tra parte e tutto, adombramento e
riempimento della visione. C’è qui una evidente similitudine tra la tecnica pittorica e quella poetica (come
evidenziato nel brano del Discorso sopra citato) che
profilano entrambe una visione “prospettica” del proprio oggetto. La “siepe” funge da punto di vista cieco e
mobile, per un ampliamento indefinito della visione, che
da esteriore si fa interiore, da reale, immaginaria. Ciò
22
G. Lonardi, L’Achille dei “Canti”. Leopardi, “L’infinito”, il
poema del ritorno a casa, Le Lettere, Fano (PU) 2017, pp. 73-104.
23
Cfr. Zib. 171.
98
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
viene espresso nel contrasto tra la precisione deittica
della collocazione nello spazio (“questo” ermo colle,
“questa” siepe) e l’indeterminazione temporale dello
stato d’animo poetico (“sempre” caro mi fu).
Sulla base della teoria edonistica del bello, introdotta nelle pagine coeve dello Zibaldone, il senso di
piacere che si collega all’idea di infinito va riferito al
carattere materialmente inesauribile del “desiderio”
e dunque alla “illusione”. La Stimmung sentimentale
tragica (se si dà credito alla identificazione immaginaria del giovane Leopardi con l’Achille omerico) viene
stemperata nella ripetizione dei gesti quotidiani (“sedendo”, “mirando”) che si sforzano di rendere “familiare” perfino il “perturbante” della morte. Mediante
l’esercizio meditativo, questo “pensiero dominante”
si ripresenterà attutito e quasi trasfigurato nel finale,
nella malinconia dolce del “naufragio”. La nota più
rilevante di questa revêrie (che è, nell’atto stesso del
creare, esercizio di pensiero) è la traduzione dell’idea
nella “corporeità” quasi fisiologica della parola poetica. La preclusione della vista («da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude») amplia in modo
significativo l’acutezza degli altri sensi, in particolare
dell’udito, che giunge a percepire la “voce” e il “suono” del silenzio. Frequenti le allusioni alla morte (la
“profondissima quiete”, l’“infinito silenzio”, l’“eterno”,
le “morte stagioni”) e allo sgomento che essa suscita nel pensiero («ove per poco il cor non si spaura»).
Ma a questo sentimento “umano, troppo umano”, si
contrappone l’eroismo della “giovinezza” innocente e
incontaminata, che al rifugio nel sentimento edipico
o materno preferisce l’avventura della scoperta e l’incognito del naufragio (con una fusione, esplicitata in
seguito, delle figure di Ulisse e di Cristoforo Colombo).
AttrAversAre l’ immAginAzione
99
Come in un quadro, in cui la magia della luce opera
una trasfigurazione della materia pittorica («la luce e il
suono ricreano e dilettano per natura»), sul turbamento
dell’animo prevale finalmente la gioia di un ritorno
alla vita («e la presente e viva, e il suon di lei»), sulla
mortale anestesia del pensiero, la ritrovata certezza
del senso («il vento odo stormir tra queste piante»).
Un esempio più compiuto e aderente alla nostra tematica si ha nel più tardo e maturo idillio Le ricordanze
(1829), in cui l’accenno alla finzione pittorica (le “dipinte
mura”, i “figurati armenti”) si fa esplicito e diviene “materia” stessa del canto. Anche questa celebrazione delle
“speranze perdute” ha un preciso riferimento teorico e
un precedente speculativo nelle carte zibaldoniane. Il
tema centrale, evidenziato nel titolo, si può considerare
una elaborazione poetica del pensiero espresso nel medesimo lasso di tempo (21 aprile 1829) nello Zibaldone:
«La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo
di vita, di soggiorno qualunque, anche noiosiss., abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come
passato, finito, che non è, non sarà più, fait»24.
Come nel precedente canto A Silvia, nella evocazione di Nerina, Leopardi tenta la via disperata di una
rappresentazione “pittorica” del proprio Sé interiore,
l’interminabile autoritratto di un io che ha fatto propria la “strategia dell’assenza” come unica salvezza
dal naufragio esistenziale e mondano25. Le ricordanze
Zib. 4423.
«È questa struttura dell’immaginario a riaffiorare in A Silvia
e nelle Ricordanze, dove un io poetico sopravvissuto rievoca il
proprio sacrificio nelle figure di Silvia e Nerina, alle quali nessuna
mano ha oscurato la vista del nudo vero» (F. D’Intino, La caduta
e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata 2019, p. 222).
24
25
100
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
si possono considerare anche come una celebrazione
della fanciullezza, nel cui deposito di immagini è conservato il segreto della poesia. Sono ormai lontani i
furori infantili, che suggerivano, come unico rimedio,
la fuga o il suicidio26, e l’uomo maturo ha appreso,
coltivando attivamente le proprie illusioni, conosciute
come tali, a «portare pazientemente la vita». Spogliate
della loro empirica occasione e del contenuto doloroso,
le immagini dell’infanzia conservano tuttavia il proprio magico potere di trasfigurazione del reale, che
rinnova lo stupore e la meraviglia (uno dei principali
“farmaci” al dolore del vivere):
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine27.
Lo schietto “piacere” della ricordanza, anche se dolorosa, discende dal fatto che «la sensazione presente non
deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine
26
«Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità
del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, né speranza
nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione
dell’impossibile, e della necessità indipendente da me, concepiva
un odio furioso di me stesso, giacché l’infelicità ch’io odiava
non risiedeva se non in me stesso […]. Concepiva un desiderio
ardente di vendicarmi sopra me stesso e con la mia vita della mia
necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia, e provava
una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio» (Zib. 505-506).
27
Le ricordanze, TPP, p. 154, vv. 1-6.
AttrAversAre l’ immAginAzione
101
degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso
della immagine antica»28. Il meccanismo assuefativo
della ripetizione, variando infinitamente, e per differenze impercettibili, il ricordo primario e l’originaria
ritenzione temporale, è ciò che consente all’artista di
esercitare nell’immaginazione la gamma dei sentimenti,
che accompagnano volta a volta l’esperire della realtà.
È un meccanismo affine a quello bergsoniano della memoria involontaria29, che fa emergere dal fondo della
coscienza, mediante il filtro fisiologico delle sensazioni,
una miriade di ricordi (il canto della «rana rimota alla
campagna», il mobile chiarore della lucciola «errante
appo le siepi e in su l’aiuole», il sussurro del vento,
i “viali odorati” e i cipressi, ecc.). Nell’oscurità della
camera, in cui veglia dolorante il fanciullo, («quando
fanciullo, nella buia stanza, per assidui terrori io vigilava»), anche le immagini pittoriche (indipendentemente dalla qualità estetica) si ripresentano con l’effetto
meraviglioso della “lanterna magica” («queste dipinte
mura, quei figurati armenti»), insieme con l’effetto di
rassicurazione del «suon dell’ora dalla torre del borgo».
Questo microcosmo familiare, che solo può offrire un
“centro” esistenziale concreto (seppure immaginario) al
vivere del poeta, fa esplodere, in immagini di imprevista
bellezza, il tema della “speranza”:
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Zib. 515.
Per approfondire l’analogia cfr. A. Aloisi, Desiderio e assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi, ETS, Pisa 2014.
28
29
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
102
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria30.
Il potere della speranza è quella di operare un “rilancio temporale” della disperazione e della miseria
presente («E quando pur questa invocata morte sarammi allato»), restituendo al nulla estremo il viatico della
dolcezza, sia pure temperata dalla consapevolezza della
fine («la dolcezza del dì fatal tempererà d’affanno»).
In questo variare pittorico di toni e di emozioni cangianti, si staglia la “realissima immagine” di Nerina,
cui Leopardi affida il proprio “autoritratto”. Nerina,
Silvia sono infatti parti dell’immaginazione poetica,
capolavori della finzione, in cui il poeta sperimenta il
“potere” attivo e beatificante della “illusione”. Ma sono
anche “frammenti di vita”, lacerti di memoria sottratti
alla dimenticanza e alla forza distruttiva del tempo, cui
il naufrago si aggrappa con inesausta volontà di sopravvivenza. Una nota nostalgica e “romantica” domina
l’evocazione dell’amore giovanile («Nerina mia, per te
non torna Primavera, non torna amore») – sognato o
provato non importa stabilire – una volta che la memoria sia in grado di ripresentarlo come “eterna presenza”:
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira31.
30
31
Le ricordanze, TPP, p. 157, vv. 77-84.
TPP, p. 159, vv. 166-169.
AttrAversAre l’ immAginAzione
103
Il “passasti” del tempo irrevocabile (riferito insieme
a Nerina e alla speranza) è attenuato dalla ripetizione
del destino comune («ad altri il passar per la terra
oggi è sortito»), ma specialmente dalla revocabilità del
tempo nel “ricordo”. L’io del poeta offre all’oggetto un
puro “specchio” e un riflesso di permanenza:
Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi32.
Qualcosa di più reale che un semplice “fantasma” di
giovinezza («come un sogno fu la tua vita») costituisce
l’oggetto presente della “rimembranza acerba”. È lo
scambio dell’io e del tu, della sembianza perduta e di
quella ritratta, a rinverdire in eterno l’attesa, sempre
delusa, dell’amore:
Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi33?
Lo “scolorar del sembiante”, da immagine funerea
della morte, si trasfigura in perennità del “sogno” d’amore. La vita è fissata nell’immagine della “danza”:
metafora potente della felicità sempre fuggente e della
gioia “disperata”:
32
33
Ivi, vv. 158-161.
TPP, p. 158, vv. 144-148.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
104
[…] in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi34.
Al “giacevi” del passato irrevocabile costituisce
valido “contrappunto” il rinnovarsi perenne dei sensi
e delle immagini, attraverso la ripetizione della memoria, attivata dall’illusione («d’ogni mio vago immaginar, di tutti i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del
cor») della “ricordanza”.
In questo, che vuol essere solo uno stimolo alla
riflessione collettiva, non mi è possibile approfondire
ulteriormente l’argomento; ma ritengo che questi esempi siano sufficienti a documentare la centralità della
finzione immaginifica, modellata su quella pittorica35,
nella lirica leopardiana. Più complesso si farebbe il
discorso nella fase estrema della poesia di Leopardi,
a contatto con la “oggettività” pura della poesia “cosmica” della Ginestra e dei Paralipomeni, su cui ho
peraltro avuto occasione altrove di soffermarmi36.
TPP, pp. 158-159, vv. 153-157.
Non è forse del tutto casuale che, nelle sue ricerche filologiche e lessicali, capiti a Leopardi di associare, nello stesso esempio,
il pintar dello Spagnuolo e il fingere dell’Italiano, fatti derivare
entrambi dal volgare latino antico (Zib. 3543-3544).
36
A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo Leopardi, cit., pp.
104-122.
34
35
Lungo il confine tra filosofia e poesia
ENTUSIASMO EROTICO E IMMAGINAZIONE:
OLTRE L’ARIDO CAMPO DELLA RAGIONE
Sebastian Schwibach
1. Amore e Verità
Nella Storia del genere umano – la prima delle
Operette morali – due forze, due esseri “divini”, due
diverse modalità di dispiegarsi dell’esistenza combattono per il predominio sulla dolorante specie umana,
sempre anelante a un infinito per essa inattingibile, a
una condizione cui solo gli immortali possono accedere: Verità e Amore1.
Giove, infatti, aveva in un primo momento tentato
di rendere felici gli uomini ora attraverso una maggiore
ricchezza e ampiezza del mondo, ora per mezzo di
sogni e illusioni, ora mediante malattie e affanni, ora
con la varietà delle stagioni e l’arrivo di «fantasmi»2
quali Virtù, Gloria, Amore, Giustizia. Tuttavia, visto il
presuntuoso atteggiamento dell’«inquieta, insaziabile,
1
2
Storia del genere umano, TPP, pp. 493-499.
TPP, p. 496.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
108
immoderata natura umana»3, si risolse ad acconsentire al tanto agognato avvento di Verità, dalla quale
gli uomini speravano di ottenere quella beatitudine
che né la natura, né i sogni, né gli idoli avevano loro
donato. Nell’atto stesso del suo apparire, ogni altro
fantasma, ogni sia pur effimera gioia scomparve dalla
terra, rimasta inerte e desolata, abbandonata da tutti
fuorché dalla larva di Amore, che si spartì con Verità il
dominio della terra. Seguirono dunque immensi dolori,
lotte, miserie, viltà e, ancora più terribile, la perdita
della virtù immaginativa, che sola aveva mostrato agli
uomini le vestigia dell’infinita beatitudine divina. Una
grande compassione strinse allora i cuori degli Immortali, ma solo Amore – il dio figlio della Venere celeste
e non il fantasma che si aggirava per la terra sotto il
suo nome – ebbe la pietà di dipartirsi, per la prima
volta nella storia del genere umano, dalle sedi celesti:
Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri
e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi
sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di
affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino
allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano,
piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine4.
La sua presenza risvegliò tutti i fantasmi e le illusioni, rinvigorì l’immaginazione e ricondusse l’uomo
al primitivo stato di beatitudine fanciullesca. O meglio,
condusse gli uomini, invasati dalla sua presenza, a una
3
4
TPP, p. 497
TPP, p. 499, corsivo mio.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
109
condizione più fortunata e felice di quella della stessa
età dell’oro5.
Nella Storia del genere umano è possibile ravvisare
alcuni punti decisivi per la comprensione dell’intero
percorso poetico-filosofico di Leopardi, nonché gran
parte delle tensioni che lo faranno oscillare per tutta la
vita tra un vero6 arido e raggelante, tutto vanificante,
e un amore irradiante, capace di manifestare il senso
dell’essere nella sua totalità e in ogni suo esplicarsi
singolare e irripetibile. Scomponendo in momenti la
narrazione mitologico-filosofica, è possibile notare la
seguente scansione.
La prima fase dell’umanità, precedente alla discesa
del “genio” Verità, non è, se non per brevi periodi,
un’età felice. Solo un continuo intervento di Giove,
volto a medicare gli uomini dall’immedicabile anelito
all’infinito7, fornisce un’apparenza di quiete e gioia,
che tuttavia subito si trasforma in noia e disincanto.
Certo, alcune trovate degli dei, come la discesa dei
fantasmi, donano un tempo maggiore di relativa felicità, ma nel loro stesso seno si annida l’orrenda Verità,
5
Ibidem.
Per un’analisi delle occorrenze del lemma “vero” in relazione
con ragione, verità, filosofia, cfr. M. Piperno, Vero, in N. Bellucci
et al. (a cura di), Lessico leopardiano 2014, Sapienza Università
Editrice, Roma 2014, pp. 157-162. Il vero assume anche i tratti di
un’anti-rivelazione sacra nel suo carattere al contempo mitologico
e distruttivo (cfr. ivi, pp. 160-161).
7
Sulla teoria del piacere connessa con l’anelito all’infinito cfr.
S. Biancu, La poesia e le cose, Mimesis, Milano 2006, pp. 39-44.
Sul rapporto tra desiderio e immaginazione cfr. anche A. Aloisi,
La filosofia, in F. D’Intino, M. Natale (a cura di), Leopardi, Carocci, Roma 2018, pp. 101-123; in particolare cfr. pp. 107-110, dove
viene messo in particolare rilievo l’aspetto negativo dell’immaginazione quale fonte di infelicità a causa della sua “sregolatezza”.
6
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
110
che tutti li sovrasta e tutti li mette in fuga con il suo
avvento.
La seconda fase dell’umanità, posta sotto il segno
di Verità, giunge fino al limite estremo della degradazione, fino quasi alla possibilità dell’autoestinzione del
genere umano, indifferente e ormai orbo dello stesso
desiderio da cui sempre era stato infiammato. Proprio
sull’orlo dell’annichilimento sotto il giogo di questo
maligno genio, giunge, epifania divina nelle tenebre
del mondo, Amore in persona, non la sua debole larva,
a strappare la rete in cui Verità ha ingabbiato l’umano
genere e a far risorgere dalla sterile terra bellezza, speranza, ma soprattutto una gioia divina, una gioia che
ha piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.
Le nuove illusioni che sorgono dall’arida terra non
sono, dunque, le stesse che hanno preceduto l’avvento di Verità, non sono propriamente illusioni, ovvero
inganni in cui la natura – o nel caso della presente
Operetta gli dei – ha avvolto il genere umano, ma sono
i figli che nascono da un diretto inebriarsi alla fonte di
ogni gioia umana e divina: il dio Amore.
Nonostante Amore possa, per decreto di Giove, solo
fugacemente dimorare tra i mortali, la sua forza supera
quella di Verità, la quale, pur avendo fatto stabile stanza sulla terra, non può impedire che all’apparire fugace
di Amore il mondo appaia sublimato, altro dal consueto, quasi che ai cuori visitati dal dio fosse concesso
di sfiorare uno stato simile all’immortale beatitudine.
La presenza di Amore si configura, dunque, come
una specie di intermittenza in quella realtà che altrimenti non sarebbe altro che «fango»8, mostra la terra
sotto un’altra luce, e, se non conduce a un mondo al di
8
A se stesso, TPP, p. 179, v. 10.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
111
là del mondo, risveglia nell’uomo una facoltà di sentire
l’immanenza del divino in ogni cosa.
2. Su fanciullezza e vecchiaia
In una riflessione dello Zibaldone scritta nel gennaio 18209, Leopardi individua tre fondamentali maniere
di vedere le cose: la prima è tipica degli uomini geniali,
i quali scorgono in esse più spirito che corpo, sentono
nel proprio cuore e colgono con la propria immaginazione l’intrinseca relazione che li lega alla natura e a
un indefinibile e vago infinito. Esso continuamente
li richiama a un slancio vitale, a un’immersione nel
sublime che li circonda, parla ai loro cuori e li innalza
oltre le cure umane; la seconda, caratteristica della
gran parte del genere umano, consiste nel vedere le
cose secondo un sentire prosaico, volgare, nel considerarle quali esse sono, senza che questo comporti
slanci di alcun genere; la terza infine, «la sola funesta
e miserabile, e tuttavia la sola vera»10, consiste nello
svelare la completa vanità del tutto, l’inessenzialità di
tutte le cose, il loro non essere né corpo né spirito, ma
solo un incolmabile vuoto.
Se la via mediana viene qui considerata l’unica relativamente felice, in quanto propriamente naturale,
in quanto incapace di riflettere su sé stessa e quindi
simile a una vita animale, le altre due rappresentano
in qualche modo gli opposti poli tra cui oscillano continuamente il pensiero e il sentire di Leopardi, combattuto dalle due forze di Amore e Verità.
9
Zib. 102-104.
Zib. 103.
10
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
112
Il primo, tipico del sentire antico e della giovinezza
del genio, irrora la facoltà immaginativa col sangue
ribollente del cuore, inonda l’essere umano e la natura tutta di una vita sconfinata, traboccante di esseri,
feconda di immagini:
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva
secondo l’immaginazione umana e viva umanamente
cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei
boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero
le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto
abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le
mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec.
e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli11.
La seconda, più confacente alla vecchiezza dell’uomo e del mondo, strappa il velo dell’illusione – o di
quello che ai suoi occhi è illusione12 – dilacera la natura, ne fa un corpo morto e, trionfante, mostra con
tutta la potenza del suo odio13 l’infinita vanità del tutto:
Zib. 63-64.
Nel 1821 Leopardi annota: «la ragione senza notizia del
sistema del bello, delle illusioni, entusiasmo ec. e di ciò che
spetta all’immaginaz. e al cuore, è essa medesima un’illusione, e
un’artefice di mitologia, come lo sono le dette cose. Bensì di una
bruttissima, e acerbiss. mitologia» (Zib. 1841-1842).
13
Cfr. Zib. 59: «L’amore è la vita e il principio vivificante
della natura, come l’odio il principio distruggente e mortale». La
contrapposizione Amore-Odio – che in Leopardi equivale anche
alla contrapposizione Amore-Verità, in quanto la verità, e la ragione quale sua disvelatrice, è considerata una forza disgregante
– riconduce ai due grandi principi empedoclei della Filìa e del
11
12
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
113
Nulla di poetico si scorge nelle sue [della natura]
parti, separandole l’una dall’altra, ed esaminandole
a una a una col semplice lume della ragione esatta
e geometrica […], nulla nella natura decomposta e
risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile,
giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o
introdotta nel fornello chimico di un metafisico che
niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun’altra
forza o agente impiega nelle sue speculazioni, ne’
suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come
dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione.14
L’odio dissolutore della ragione, che arriva alla verità dissezionando così la natura come l’uomo, così
il singolo come la società, sembra tuttavia non poter
essere esorcizzato, sembra incombere come scure sul
capo dei moderni, sembra inaggirabile, a meno che non
ci si sforzi di dimenticare, di distrarsi, di distogliere
codardamente lo sguardo dal vero15.
3. Leopardi e Platone: tra astrazione e immaginazione
Il confronto diretto intrapreso da Leopardi nel 1823
con il corpus platonico, di cui intendeva fornire una
nuova traduzione16, può essere considerato il centro
Neikos. Cfr. F. D’Intino, I misteri di Silvia. Motivo persefoneo e
mistica eleusina in Leopardi, «Filologia e critica», 19 (1994), 2,
p. 239, nota 116.
14
Zib. 3241-3242.
15
Zib. 104.
16
F. D’Intino, Leopardi and Plato (Drama and Poetry vs
Philosophy), «Odradek. Studies in Philosophy of Literature,
114
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
gravitazionale intorno a cui un sotterraneo sentire attua
le sue rivoluzioni, ora appressandosi e ora di nuovo
allontanandosi, quasi fosse al contempo attratto e respinto da un’apertura sul reale che scardini la forza
della pura ragione17.
Le riflessioni dell’agosto del ’23, presentandosi in
questo senso come la misura delle molteplici morti e
resurrezioni del poeta-filosofo18, consentono di legare
con un filo diretto sia quanto le precede che quanto
le segue.
Mentre nel luglio del 1820 Leopardi rifiutava il
mondo delle idee di stampo platonico-cristiano19 e
ancora il 17 novembre dello stesso anno associava i
termini mistico-astratto-metafisico a Platone, Plotino,
Porfirio, Giamblico e ai pitagorici20, verso la fine dello
Aesthetics and New Media Theories», 1 (2015), 2, pp. 7-44. In
particolare cfr. p. 7.
17
Cfr. F. D’Intino, I misteri di Silvia, cit., p. 237, dove, nel contesto di un’interpretazione misterica di A Silvia, viene evidenziato
l’interno conflitto leopardiano «tra il desiderio creativo dell’immaginazione e un principio autoritario razionale al tempo stesso
amato e odiato». Per l’importanza di Platone in Leopardi, tanto da
un punto di vista letterario che più specificamente filosofico, cfr.
F. D’Intino, L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro
morale, Marsilio, Venezia 2009. In particolare alle pp. 133-135
si mostra come Leopardi avesse intuito nel rifiuto platonico per
la poesia un malcelato «antico amore mai estinto» (ivi, p. 134).
18
Per una dettagliata analisi del tema di morte e resurrezione
quale cifra fondamentale del sentire, del pensiero e della poesia
leopardiani, cfr. F. D’Intino, I misteri di Silvia, cit.
19
Cfr. Zib. 154: «Era un sogno di Platone che le idee delle cose
esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non potessero
esistere altrimenti».
20
Zib. 336. Idea che ritornerà con forza nell’ottobre del ’26
(Zib. pp. 4218-4222), quando, attaccando le fantasticherie di Isidoro riportate da Damascio, Leopardi sembra compiere un nuovo
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
115
stesso mese, continuando ad interrogarsi sul rapporto
tra ragione e natura21, già viene affermandosi un’idea
che troverà maggior spazio nel corso del soggiorno
romano del ’23: Platone, afferma Leopardi, associa
inscindibilmente sapere e immaginazione, poggiando
il suo sistema sul «brillante e sul fantastico»22.
Nell’estate del 1823, poco prima che venga composta la canzone Alla sua donna23 e proprio mentre
viene tentato un più profondo equilibrio tra vita e
ragione, si può leggere nello Zibaldone il seguente
passo: «Fra gli antichi Platone, il più profondo, più
vasto, più sublime filosofo di tutti essi antichi che ardì
concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l’esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel
suo stile nelle sue invenzioni ec. così poeta come tutti
sanno»24. Sembra, dunque, che la consueta immagine
di un Platone astratto-mistico-metafisico subisca una
violenta torsione nell’anno che prelude alle Operette
morali, quasi che nella figura del filosofo ateniese, debitamente ripulito dalle incrostazioni cristiane, fosse
“autodafé” – cfr. F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza. Il paganesimo post-metafisico di Leopardi, in P. Tortonese (a cura di), Il
paganesimo nella letteratura dell’Ottocento, Bulzoni, Roma 2009,
p. 116 – dove così viene presentato il tentativo del giovanissimo
Leopardi di fare strage del mondo immaginativo nel Saggio sopra
gli errori popolari degli antichi –, bollando come scempiaggini
mistiche le asserzioni di Isidoro e accanendosi contro il sentimento, l’entusiasmo, l’ispirazione e tutto ciò che allontana da
Aristotele per avvicinare a Platone.
21
Zib. 340-342.
22
Zib. 351.
23
Alla sua donna, TPP, pp. 137-139.
24
Zib. 3245. Per la convergenza tra le disposizioni psichicointellettuali di Platone e Leopardi, cfr. F. D’Intino, Leopardi and
Plato, cit., p. 8.
116
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
possibile individuare la perfetta sintesi di poesia e
filosofia, di verità e bellezza, di ragione e immaginazione25. Egli sembra incarnare quanto già era stato
pensato nell’inverno del ’21, quando Leopardi si era
spinto molto oltre nella considerazione della facoltà
inventiva, tanto da affermare che «immaginazione e
intelletto è tutt’uno»26, e da ritenere che da una stessa
fonte attingano i grandi poeti come Omero, Dante e i
grandi filosofi come Newton27.
Lo studio approfondito del corpus platonico indica,
dunque, al poeta-filosofo un modo alternativo di considerare il reale, tale da non far ricadere né nel sogno metafisico tipico dei settentrionali né nel totale disincanto
dei meridionali28. Certo, in molti casi Platone viene
ritenuto il maggiore responsabile di quel dualismo che
ha definitivamente separato anima e corpo, ragione e
immaginazione, determinando la stessa alternativa tra
una vaga trascendenza capace di alimentare perlomeno
la speranza e una cruda immanenza spogliata di ogni
senso e bellezza29. Tuttavia, proprio la diretta lettura
dei dialoghi porta a maturazione le riflessioni risalenti
all’ottobre 1821, quando Leopardi scrive: «Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di ciò che vediamo,
25
Cfr. F. D’Intino, I misteri di Silvia, cit., p. 268: proprio a
partire da un ripensamento del significato della filosofia platonica,
nell’estate del ’23 viene esplorata la possibilità di alternative credibili al razionalismo «spesso con accenni a un modo di procedere
misterico, a un intelletto vestito di figure, e “con sembianza di
favole”».
26
Zib. 2134.
27
Zib. 2132-2133.
28
Zib. 3678-3682.
29
Zib. 3678-3682. Cfr. F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza,
cit., pp. 151-156.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
117
fuori dell’esistenza, mentr’ella esiste qui con noi, e
coesiste a ciascun genere di cose che conosciamo, e
non sarebbe perfezione in verun altro caso possibile»30.
Il moltiplicarsi e rifrangersi dell’assoluto platonico
in un infinito gioco di specchi31, nella ricerca di una
perfezione che esista qui con noi, trova rispondenza
negli stessi scritti dell’ateniese, dove a un insormontabile abisso dualistico si affianca una profonda intuizione, al contempo poetica e filosofica, della molteplicità
del mondo ideale32. Tale mondo ideale si manifesta, si
traspone, nella realtà in un modo che, se da un lato accentua la differenza, dall’altro indica anche l’intrinseco
legame33, simbolicamente espresso dal dio Amore nel
Simposio34 e dalla mania erotica nel Fedro35. Leopardi
intravede la possibilità che le idee platoniche vengano
portate sulla terra, che la contraddittorietà e multivocità dell’esistente vengano considerate perfezioni, che
l’abbandono della trascendenza non debba per forza
significare assoluta desolazione di ciò che è terrestre,
umano, finito36.
30
Zib. 1908. Cfr. F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza, cit.,
p. 138.
31
F. D’intino, Il rifugio dell’apparenza, cit., p. 138.
32
Cfr. su questo punto G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di
E. Colli, Adelphi, Milano 2009, pp. 109-149.
33
Per il problema platonico del rapporto tra mondo ideale e
mondo materiale, inteso come relazione di partecipazione, cfr.
F. Fronterotta, ΜΕΘΕΞΙΣ, Scuola Normale Superiore, Pisa 2001.
34
Symp. 202e-203a. Edizione di riferimento per la traduzione
italiana: Platone, Simposio, a cura di G. Calogero, Laterza, RomaBari (1996) 2003.
35
Phaedr. 245b-c. Edizione italiana di riferimento: Platone,
Fedro, a cura di R. Velardi, BUR, Milano (2006) 2010.
36
F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza, cit., pp. 137-139.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
118
Non è dunque un caso che nell’agosto del ’23 la figura di Platone sia strettamente associata alle profonde
riflessioni sull’immaginazione e sul cuore quali facoltà
cui, spettando «il sentire e quindi conoscere ciò che
è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene
l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della
vita, dei destini, delle intenzioni, sì generali, sì anche
particolari, della natura»37.
Tuttavia, anche quando il velo del doloroso vero
viene, seppur solo per un attimo, scostato – come nel
caso della canzone Alla primavera38 o delle sovra citate
riflessioni zibaldoniane del ’23 – subito la visione torna
a offuscarsi, Verità si ristabilisce sul trono e ciò che
Amore aveva sollecitamente indicato viene trasposto
in un tempo passato, o futuro, se non in un fittizio ed
irraggiungibile mondo delle idee. La poesia Alla sua
donna è un chiaro indizio del continuo oscillare del
poeta tra la bellezza amorosa che lo richiama e l’incapacità di vederla pienamente realizzarsi in terra, con la
conseguente finzione che essa possa trovarsi o essersi
trovata in un altrove, quando (o dove) «la mortal vita
saria | simile a quella che nel cielo india»39:
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso
[…]
Forse tu l’innocente
Zib. 3242-3243.
Alla primavera o delle Favole antiche, TPP, pp. 99-103.
39
Alla sua donna, TPP, p. 138, vv. 32-33. Finzione destinata
ovviamente a una breve vita, visto che la speranza metafisica e
l’estatica contemplazione degli antichi non può resistere al vero.
Cfr. F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza, cit., p. 153.
37
38
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
119
secol beasti che dall’oro ha nome
or leve intra la gente
anima voli? O te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?40
Tutta la poesia del Fedro, tutto il discorso sovra
Amore del Simposio, l’intera visione di una seconda
terra alla fine del Fedone41 non riescono a trovare un
canale espressivo duraturo né nel pensiero né nella
poesia leopardiana, quasi che quella visione, da lui
sentita e immaginata nella fanciullezza e nei momenti
di grande potenza poetico-speculativa, non possa essere se non una brezza che leggera trapassa sull’arida
terra, per poi disperdersi nei meandri della memoria
o mostrarsi come inappagabile anelito.
4. Ebbrezza e mania filosofica
Eppure, il campo di forza di Verità non prevale
mai completamente, nonostante Amore sempre con
più fatica – e sempre con lo stigma di essere in fondo
un’illusione – si faccia strada nel pensiero poetante di
Leopardi. Una sorta di ebbrezza dionisiaca, di pathos
misterico, lavora sotterraneamente, fonte zampillante
che sempre fa risorgere il poeta42.
TPP, pp. 137-138, vv. 1-11. Cfr. al proposito: F. D’Intino, Il
rifugio dell’apparenza, cit., p. 151.
41
Phaed. 109a-113d. Edizione italiana di riferimento: Platone,
Fedone, a cura di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari (2000) 2010.
42
Cfr. al proposito A. Tilgher, La filosofia di Leopardi (1940),
Massimiliano Boni Editore, Bologna 1985, pp. 75-78. Cfr. anche,
sul rapporto ebbrezza-filosofia, F. D’Intino, L’immagine della
voce, cit., pp. 63-67.
40
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
120
Quando l’assedio di Arimane43 sembra averlo definitivamente soggiogato, quando ogni speranza è morta,
quando neanche il dolore sembra più toccare il suo
animo disseccato44, ecco che nuova luce squarcia le
tenebre, ecco che la poesia risorge, ecco che il cuore
si riempie delle antiche illusioni e apre ad un mondo
dove vita e bellezza hanno di nuovo dimora:
Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio cuore il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar?45
Il poeta ispirato si confonde con «il filosofo nella
sublimità della speculazione»46, con l’uomo ricco di
sentimento e immaginazione, con l’entusiasta, con l’ebbro di vino47. E questo suo sentire e poetare e pensare
non sono intorpiditi, non sono fiaccati o resi torbidi per
mancanza di intelletto, ma, anzi, egli «vede e guarda
le cose come da un luogo alto e superiore a quello
Cfr. A. Tilgher, La filosofia di Leopardi, cit., p. 102.
Il risorgimento, TPP, pp. 145-146, vv. 9-24.
45
TPP, pp. 147-148, vv. 97-104.
46
Zib. 3269.
47
Zib. 3269. Cfr. anche F. D’Intino, La “riflessione non riflettuta”: Leopardi e l’automatico/organico, in P. Tortonese (a cura
di), C’è del metodo in questa follia. L’irrazionale nella letteratura
romantica, Pacini, Ospedaletto (Pisa) 2015, p. 168, dove si mostra,
attraverso un confronto con Coleridge, la stretta relazione tra
ebbrezza e immaginazione.
43
44
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
121
in che la mente degli uomini suole ordinariamente
consistere»48. È sì come fuor di senno, furioso e in
preda alla mania, se giudicato dal punto di vista della
sola ragione, ma, qualora se ne esamini attentamente la
condizione, si scopre che la sua stessa ragione è divenuta più forte, più rapida, più capace di cogliere i nessi
che legano l’uno all’altro gli oggetti49. Essa, non più
estranea al corpo, al sentimento, all’immaginazione, si
scopre essere non tanto una forza mortifera, quanto una
facoltà essenziale alla comprensione della vita nella sua
totalità, nel suo dispiegarsi unico e irripetibile, eppur
connesso con tutto il resto50.
La ragione, dunque, sembra presentare due volti,
sembra poter andare in due direzioni. Essa, infatti,
completamente libera e senza rapporto alcuno con le
altre potenze dell’anima, porta alla morte sia del suo
oggetto di ricerca che del soggetto in preda ad essa.
Il suo metodo analitico è volto a «risolvere e disfar la
natura»51, senza alcuna possibilità di giungere a una
sintesi. Disseziona ogni cosa con il coltello, la riduce a
parte di un meccanismo, ma non è in grado di cogliere
il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura, quel ch’ella ha
destinato, la cagione (lasciamo ora star l’efficiente) la
cagion finale del suo essere e del suo esser tale, il perché
essa abbia così disposto e così formato le sue parti52.
Zib. 3269.
Zib. 3269.
50
Zib. 3240.
51
Zib. 3238.
52
Ibidem.
48
49
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
122
Eppure, proprio in ciò dovrebbe consistere lo scopo
del filosofo, proprio in questa relazione delle parti tra
loro e con il tutto si trova la sorgente della poesia.
È però possibile pensare un’altra ragione, la quale
miri a un diverso genere di vero, non più incompatibile con la natura, ma ad essa legato. Tale ragione si
volgerebbe al mondo ricca dell’immaginativa e del
cuore, sarebbe una ragione poetante che andrebbe a
scandagliare fin nei più reconditi recessi della natura e
dell’uomo53, lì dove il vuoto si trasfonde in pienezza, il
dolore in beatitudine, la vanità in ricchezza di senso54.
Zib. 3244-3245.
Questa sarebbe una ragione che potrebbe veramente
rendere vivente quanto anche Hölderlin, Schelling e Hegel si
proponevano nell’Älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus, ovvero il superamento della scissione e la costruzione di
una nuova mitologia che fosse al contempo filosofica e poetica:
cfr. Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus,
in W. Jaeschke (Hrsg.), Früher Idealismus und Frühromantik.
Der Streit um die Grundlage der Ästhetik (1795-1805), Felix
Meiner, Hamburg 1995, pp. 97-98. Una tale ragione poetante
guarderebbe al mondo come una continua manifestazione divina,
senza con ciò annegare necessariamente nella rimembranza o
pensare una trascendenza. La piena immanenza, immediata, con
la sua assoluta perfezione richiamerebbe sì ad altre perfezioni,
temporalmente o ontologicamente distanti, ma senza con ciò
divenire semplice allegoria o immagine di un mondo altro: «non
v’è cosa più sciocca e ingiuriosa alla natura del dire e ripetere
continuamente che la perfezione non è propria delle cose create […]. Non è maraviglia dunque se tutto ci pare imperfetto,
quando per perfetto intendiamo l’esistere in un modo in cui le
cose non sono fatte, laddove la perfezione non consiste e non
ha altra ragione di essere tale, che nel mondo in cui le cose son
fatte, ciascuna nel suo genere» (Zib. 1908). È la perfezione e
bellezza della natura – che si impone con forza alla ragione
poetante e inebriata – a rendere manifesto il divino nel mondo,
53
54
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
123
L’uomo intero, l’uomo che non avesse seguito l’impulso distruttivo della ragione o che anche solo per
un attimo fosse tornato alla fanciullezza, sarebbe al
contempo poeta e filosofo, riconcilierebbe le disiecta
membra della modernità, renderebbe possibile la stabile dimora del dio Amore sulla terra.
Lo stato di ebbrezza, rafforzando ogni passione, fa
tumultuare la vita dell’uomo, indirizzandolo lì dove
le sue caratteristiche dominanti lo spingono55; se per
esempio l’iracondo sarà più facilmente mosso all’ira
e il sensuale alla bellezza dei corpi, il poeta-filosofo,
invece, sarà spinto alla contemplazione della vita in
sé, allo scavo nella propria interiorità e al tentativo di
trovare un nesso tra ciò che sente nel turbolento suo
cuore e ciò che intende, intuisce, essere nella natura.
Egli, allora, potrà rivedere, come attraverso le nebbie del tempo, una stagione umana in cui
Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve56.
non la postulazione di un divino astratto a nullificare ogni cosa
creata. Tutto si mostra allora, per un certo Leopardi, popolato da
«figure inanimate e animate viste come assolutamente perfette
nella luce della bellezza» (C. Galimberti, Morte e ritorno degli
dei, in Id., Cose che non son cose. Saggi su Leopardi, Marsilio,
Venezia 2001, pp. 50-51, citato in F. D’Intino, Il rifugio dell’apparenza, cit., p. 139).
55
Zib. 152.
56
G. Leopardi, Alla primavera, TPP, p. 100, vv. 25-27.. Per
un’analisi dettagliata del significato mistico-misterico della danza
cfr. F. D’Intino, Motivo persefoneo e mistica eleusina in Leopardi,
pp. 261 sgg., dove viene svolta un’attenta riflessione a partire dagli
illuminanti saggi di K. Kerényi.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
124
Vedrà rivivere, in una rimembranza che interrompe
il senso stesso della temporalità lineare, «i fiori, l’erbe
e i boschi»57, sentirà palpitare, con cuore fattosi nuovamente giovane, gli alberi abitati dal divino, vedrà
di lontano appressarsi al fonte la nuda Diana, mentre
il flauto panico increspa le onde, ne disvela l’abisso
insondabile, al contempo orrido e gioioso.
5. Hölderlin e Leopardi58
Ma tardi, amico giungiamo. Vivono certo gli dei,
ma sopra il nostro capo, in un diverso mondo.
[…]
Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli
E per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina59.
Così Hölderlin, nel lamentare la morte di un mondo,
lo stesso da cui sorgono le visioni leopardiane di danze
estatiche per i boschi. E certo in questo il sentire dei
due poeti-filosofi si avvicina, fin quasi a confondersi;
una stessa nostalgia, la consapevolezza di un paradiso
Alla primavera, TPP, pp. 100-101, vv. 38-39.
Cfr., per una breve panoramica su corrispondenze e differenze tra il pensiero poetante dei due autori, E. Polledri, “… e
profondissima quiete/io nel pensier mi fingo”. Friedrich Hölderlin
e Giacomo Leopardi. Vicende esistenziali e corrispondenze poetiche, in C. Assenza, M. Scala (a cura di), Insegnare Leopardi nella
cultura europea, M.I.U.R., Roma 2006, pp. 73-104. Cfr. inoltre S.
Doering, S. Neumeister (Hrsg.), Hölderlin und Leopardi, Edition
Isele, Eggingen 2011.
59
F. Hölderlin, Pane e vino, in Id., Le liriche, a cura di E.
Mandruzzato, Adelphi, Milano (1977) 2004, p. 525, strofa 7.
57
58
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
125
perduto, per molti versi coincidente con la fanciullezza,
vibrano nelle poesie, nel cuore, tanto di Leopardi che
di Hölderlin:
Profonda natura! Io ti ho
davanti agli occhi. Conosci ancora l’amico
amatissimo? Non riconosci più in me
il sacerdote che ti offriva un canto della vita
come sangue versato in lieto sacrificio?
Sacre fonti […] in me,
in me, sgorgando dalle profondità del mondo,
vi riunivate un tempo, sorgenti della vita,
a me, venivano gli assetati – ora sono
inaridito e i mortali non trovano più
gioia in me – sono completamente solo? E
quassù è notte anche di giorno? Ahimè!60
Empedocle, il sacerdote della natura, il poeta ebbro
di vita, colui cui parlavano le erbe e al cospetto del quale
si apriva il cielo, affronta nella tragedia di Hölderlin uno
stato di assoluta desolazione, vivendo l’incolmabile vuoto che gli dei hanno lasciato: troppo aveva conosciuto,
la natura non aveva più segreti, gli dei erano divenuti
suoi servi, lui solo si era creduto dio61.
Nel comune abisso sondato dai due poeti, tuttavia,
si aprono due orizzonti veritativi incommensurabili,
due scelte divergenti, due mondi, due possibilità. Ed
entrambi con rigorosa coerenza perseguono la traccia
individuata, fino alla follia, fino alla morte.
F. Hölderlin, La morte di Empedocle, a cura di C. Lievi,
I. Perini Bianchi, Einaudi, Torino 1999, prima stesura, p. 21, vv.
293-306.
61
Ivi, p. 31.
60
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
126
Mentre Hölderlin, poeta in tempo di privazione62,
intraprende l’ardua via dell’unità nella differenza63,
della natura vivente e divina, del comune cammino
di dèi e uomini, mentre egli sente l’eternità affacciarsi
nell’entusiasmo che supera la differenza senza sopprimerla, Leopardi percorre la via del vuoto, della ragione svelatrice dell’orribile inganno in cui la Natura
matrigna avvince l’essere umano, di quella terribile
volgarità alla cui luce gli appare il mondo dopo i brevi
attimi di ebbrezza, dopo lo scolorare dell’amore e della
bellezza intravisti.
La scelta implica uno sforzo sovrumano, un dolore
immenso, perché costantemente il loro animo oscilla;
la profonda vissutezza64 di infinita gioia e infinito dolore non trova una quieta forma, se non nella morte:
«tutto ciò che è divino deve morire»65.
Questa morte tuttavia si configura in modo diverso nei due poeti: la morte di Empedocle, in quanto
F. Hölderlin, Pane e vino, cit., p. 525, strofa 7, v. 14.
Cfr. il frammento Urtheil und Seyn, in F. Hölderlin, Sämtliche Werke, hrsg. von F. Beissner, IV, J.G. Cottasche Buchhandlung, Stuttgart 1943-1985, pp. 216-217.
64
Per il concetto di “vissutezza”, intesa come Erlebnis ovvero
come l’intuire intimamente qualcosa attraverso una forma conoscitiva non astratta, cfr. G. Colli, Apollineo e dionisiaco, a cura di
E. Colli, Milano (2010) 2011, pp. 111 e 240 nota 71. Tale concetto
mi sembra perfettamente in linea con la modalità pensante tanto
di Leopardi che di Hölderlin. Per quanto riguarda Leopardi si
rimanda a S. Biancu, La poesia e le cose, cit., pp. 29-38, dove
viene messa in luce l’intrinseca relazione tra pensare e sentire
istituita da Leopardi. Nel caso di Hölderlin, basti citare le profonde
riflessioni in M. Heidegger, La poesia di Hölderlin (1981), a cura
di L. Amoroso, Adelphi, Milano (1988) 2007.
65
F. Hölderlin, La morte di Empedocle, cit., prima stesura,
p. 65, vv. 1022-1023.
62
63
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
127
ricongiungimento con la natura, in quanto sacrificio
dell’individualità e sua apertura a tutto l’orizzonte divino, svela nella sua vera essenza la vita e trasforma la
felicità melanconica dell’uomo-dio in pura gioia66; la
morte prospettata da Leopardi, invece, è l’ultimo grido
contro la potenza malvagia che soggioga l’universo, è
il disperato rifugio di quiete che possa lenire il dolore
infinito che l’irraggiungibilità di una gioia altrettanto
infinita provoca nell’essere umano.
Verità, genio terribile, sembra dunque vincere Amore; l’ebbra vena poetica: un triste compromesso, un’illusione, una codarda fuga dal mondo; la morte: ultimo
rifugio, forza che guarda in volto il triste fato e, come
in Aspasia, sorride, schernendo l’eterno schernitore.
6. Amore e morte: una sommaria conclusione
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle67.
Se le Operette morali del 1824 si aprono con la
discesa di Amore quale cura ai mali ingenerati dall’avvento di Verità, esse si chiudono, nel Canto del gallo
silvestre, con un’invocazione alla morte, quale unica
via di fuga dal doloroso non senso della vita.
Ivi, pp. 115-117, vv. 1919-1942. Si veda, per il diverso significato dato al fuoco in Hölderlin e Leopardi, F. D’Intino, La caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico
leopardiano, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 93-94, 134.
67
Amore e morte, TPP, p. 175, vv. 1-4.
66
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
128
Incontrastato sembra il dominio del fato, che in
Amore e Morte supera finanche queste due potenze
e si erge solitario sulla desolata landa terrestre. Se la
vita è di per sé un male, se Amore, da cui solo nasce
il bene, non è che illusione, non resta che invocare la
Morte come colei che «ogni gran dolore | ogni gran
male annulla»68.
In un mondo fatto a brani e svuotato di senso, in
un fango retto da un principio malvagio, dove l’uomo si aggira ormai come un fantasma, senza alcun
desiderio, senza speranza, la Morte diviene l’unico
orizzonte, l’unica larva di quell’eternità che l’Amore
aveva additato69.
E tuttavia, non l’ultima parola spetta a essa, ancora brilla la scintilla di Amore, ancora infiamma di
sdegno il cuore del poeta-filosofo; al confine tra vita
e morte, lì dove la vanità della storia umana prende la
forma delle rovine apportate dal Vesuvio, risorge una
nuova speranza, risorge il desiderio. Se il fato comune
a ogni essere è la distruzione, se la verità ha condotto
sulle soglie della morte, proprio quando il suo trionfo
sembra assoluto, quando la fonte del vivificante Amore sembra disseccata, essa scaturisce di nuovo dalle
oscure profondità con l’ultima illusione – così infatti
la considererebbe il Vero:
Tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita70.
TPP, p. 174, vv. 9-10.
A se stesso, TPP, p. 179.
70
La ginestra, TPP, p. 203, vv. 130-133. Corsivo mio.
68
69
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
129
Il mondo è morto e l’uomo con esso, ogni parvenza
di vita è vanità, ma proprio questa consapevolezza fa
risorgere un amore ancor più forte della morte, ancor
più forte del fato, ancor più forte della matrigna natura.
NELL’ALVEO DELL’IMMAGINAZIONE:
LEOPARDI E NIETZSCHE
TRA POESIA E FILOSOFIA
Ludovica Boi
1. Introduzione
La poesia filosofica di Giacomo Leopardi ha esercitato una vitale attrazione sulla sensibilità letteraria
e sulla visione teoretica di Friedrich Nietzsche. Lo
studio delle ascendenze leopardiane manifeste nella
filosofia nietzschiana ha impegnato negli anni una
vasta quantità di interpreti, che – come ricostruisce
attentamente Massimiliano Biscuso – in alcuni casi
hanno individuato in Leopardi un “precursore” del
nichilismo nietzschiano, in altri hanno ricondotto le
filosofie nietzschiana e leopardiana allo sviluppo di
un pensiero non-dialettico o anti-dialettico nel panorama culturale dell’Ottocento europeo, in altri ancora
hanno assimilato i due pensatori in base al comune
intento di una filosofia antistorica, antimetafisica e
antiumanistica1.
1
M. Biscuso, Leopardi tra i filosofi: Spinoza, Vico, Kant,
Nietzsche, La scuola di Pitagora, Napoli 2019, pp. 149-150.
132
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Nel presente contributo si tenterà di circoscrivere lo
studio della ricezione leopardiana da parte di Nietzsche
alla volontà, mai abbandonata dal tedesco, di una felice
congiunzione di poesia e filosofia, che origini dalla
scoperta dell’invenzione che giace al fondo di ogni
processo conoscitivo e della insuperabile correlazione
di “verità” e “illusione”. Il pensiero nietzschiano, pur
nella sua complessa articolazione, nelle sue svolte e rielaborazioni, ha sempre mantenuto una vocazione lirica
e, relativamente all’esigenza di nutrire la fredda e arida
terra della conoscenza grazie alla bellezza, mediante
la linfa vitale dell’esperienza poetico-immaginativa,
il confronto con il Recanatese assume un significato
decisivo.
L’entusiastico apprezzamento giovanile per Giacomo Leopardi «filosofo della conoscenza tragica»2,
in grado di far convergere arte, vita e filosofia, lascia
spazio, nel Nietzsche degli anni successivi, alla disapprovazione di una condotta di vita giudicata “decadente” e alla denuncia di un pessimismo imperfetto, in un
certo senso mancante3, non portato alla sua estrema
2
KGW III, 4, 19 [36], p. 16; FP Estate 1872 - Autunno 1873,
19 [36], p. 25. Le sigle utilizzate, in questa così come nelle note
seguenti, si riferiscono all’edizione critica Colli-Montinari, proseguita dopo la morte dei due studiosi e tuttora in corso: OFN =
Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg.; FP = Frammenti postumi; KGW
= Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M.
Montinari, De Gruyter, Berlin 1967 sgg; KGB = Briefwechsel.
Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari,
De Gruyter, Berlin 1975 sgg.; EFN = Epistolario, a cura di G.
Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1977 sgg.
3
«Leopardi si lamenta, ha motivo di lamentarsi; ma con ciò
non rappresenta il perfetto tipo del nichilista» (KGW VIII, 2,
11[229], p. 332; OFN VIII, 2, FP 1887-1888, p. 296).
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
133
conseguenza, ossia al suo rovesciamento. Tuttavia il
Nietzsche degli anni Ottanta non abbandona completamente la visione della vita espressa nei versi del poeta
italiano e talvolta vi si riferisce in termini positivi. Nel
presente lavoro si tenterà di ravvisare nel riferimento
di Nietzsche a Leopardi, a volte manifesto, a volte
sotterraneo, il motivo di una teoria dell’immaginazione intesa come facoltà conoscitiva prioritaria, facoltà
poetico-creativa che giace alla sorgente dei concetti e
del linguaggio, rivestendo un ruolo chiave nell’accezione della filosofia-poesia ed esprimendo la dipendenza
del concetto dall’immagine, del logos dal mythos.
2. Nietzsche e la poesia-filosofia leopardiana
Una poesia che vivifichi la filologia/filosofia – Il
giovane Nietzsche conosce i Canti leopardiani grazie
alla traduzione tedesca pubblicata nel 1866 a cura di
Robert Hamerling4, e li apprezza al punto che, durante
una vacanza nei mesi estivi del ’73, quasi ventinovenne
– all’epoca dell’elaborazione di Su verità e menzogna
in senso extramorale –, la sua lettura di Leopardi diviene quasi quotidiana5 e la pubblicazione della prima
Inattuale viene «festeggiata con la lettura di poesie
leopardiane»6. Nella Germania di quegli anni, ricca
di fermenti schopenhaueriani, il suo interesse per il
4
Gedichte von Giacomo Leopardi, verdeutscht aus dem Italienischen in den Versmassen des Originals von Robert Hamerling,
Verlag des Bibliographischen Instituts, Hildburghausen 1866.
5
Testimonianza di von Gersdorff in C.P. Janz, Vita di
Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1980, I, p. 509: si tratta della lettera del 9 agosto 1873 a Erwin Rohde.
6
M. Biscuso, Leopardi tra i filosofi, cit., p. 179.
134
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
poeta italiano gli procura l’invito a tradurre in tedesco le Operette morali7, proposta che, sebbene venga
declinata a causa della scarsa conoscenza della lingua
italiana, suscita entusiasmo e gratitudine. Probabilmente, anche durante il soggiorno sorrentino fra 1876
e 1877 Nietzsche discute testi e tematiche leopardiani8.
Nella primavera del ’75 sta preparando un’opera
sulla filologia9 e riprende alcune considerazioni esposte
nella prolusione basileese Omero e la filologia classica,
del 1869: è necessario liberare gli studi filologici da un
astratto e improduttivo eruditismo, per connettere la
ricostruzione del passato al mondo della vita, in modo
che il lettore contemporaneo possa trarre giovamento dal pensiero e dal sentimento degli antichi. Negli
appunti preparatori a Noi filologi, Nietzsche guarda a
Giacomo Leopardi, del quale conosceva alcune opere
filologiche10, e lo indica come l’«ideale moderno di
filologo»11, «filologo-poeta»12 che si differenzia dai
7
Invito avanzato da Hans von Bülow, compositore amico di
Wagner al quale Nietzsche indirizzerà uno dei propri “biglietti della follia”. Von Bülow aveva tentato una traduzione delle
Operette che, poco tempo dopo, egli stesso ritenne non del tutto
soddisfacente.
8
M. Biscuso, Leopardi tra i filosofi, cit., p. 185.
9
Si tratta di quella che sarebbe dovuta divenire la Quarta
Inattuale, Noi filologi, che non verrà terminata.
10
Con tutta probabilità conosce gli Excerpta pubblicati da
Sinner sul «Rheinisches Museum» del 1835, le note a Flegonte
e a Celso, gli Studi filologici editi da Pellegrini e Giordani nel
1845 all’interno delle Opere, ossia gli articoli su Filone e sul De
re publica di Cicerone (cfr. S. Timpanaro, La filologia di Giacomo
Leopardi, Laterza, Roma 1997, p. 188).
11
KGW IV, 4, 3 [23], p. 98; FP Inverno-primavera 1875 Primavera 1876, 3 [23], p. 32.
12
Ivi, 5 [17], p. 120 (p. 65).
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
135
meri filologi-eruditi, i quali non fanno che starsene
chini sulle singole lettere, affaticandosi sui mezzi tanto
da perdere di vista il fine del proprio lavoro. Una loro
efficace descrizione è contenuta in una lettera a Rohde
del ’68: «Rivedo da vicino quella brulicante genìa di
filologi dei nostri giorni; mi tocca contemplare ogni
giorno tutto questo affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di
essersi accaparrate un lombrico, e indifferenti verso i
veri, urgenti problemi della vita»13.
Giacomo Leopardi non è uno di loro. Una filologia
innervata dal costante riferimento alla vita si pone piuttosto l’obiettivo dell’affinamento spirituale dei propri
fruitori: questo, secondo Nietzsche, voleva e sapeva
realizzare Leopardi nell’Italia della Restaurazione.
Una sorta di «messaggera degli dèi», che «viene in
un mondo di colori e immagini cupi, pieno dei dolori
più profondi e incurabili, e racconta, consolatrice, delle
figure di dèi belle e luminose»14: tale appare al giovane
Nietzsche la verace essenza della filologia, in grado
di agire artisticamente sul presente. Così egli ammira
il Leopardi filologo, i cui sforzi valicano la pura filologia formale divenendo «materia di elaborazione
artistica»15: gli scritti filologici leopardiani meritano di
venir considerati anche dal punto di vista della forma
letteraria, dello stile non “algebrico”, poeticamente
efficace. Il poeta italiano, come i filologi della scuola
13
Lettera a E. Rohde del 20 novembre 1868: cfr. EN, I, p. 651;
KGB, I, 3, pp. 531-532. Corsivo mio.
14
KGW II, 1, p. 268; Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e
la filologia classica (1869), a cura di G. Campioni e F. Gerratana,
Adelphi, Milano 1993, p. 245.
15
S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, cit., p. 143.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
136
di Alessandria – Callimaco, Apollonio Rodio – e gli
Umanisti, riesce a coniugare acribia filologica e creazione artistica, contrariamente al gelido metodo della
filologia accademica tedesca, contro la quale il giovane
Nietzsche lancia i propri strali.
D’altra parte, gli interessi di Giacomo Leopardi
e la sua concezione dello studio filologico risultano
chiaramente espressi in una lettera che il poeta scrive al
padre nel 1822, deluso dalla conoscenza dell’ambiente
letterario romano:
Non ho ancora potuto conoscere un letterato romano
che intenda sotto il nome di letteratura altro che
l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza
del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto
ciò è straniero in Roma, e par un giuoco da fanciulli,
a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di
sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa16.
Una scienza epigonica ed estenuata è quella che
Leopardi vede praticata nell’Italia del proprio tempo:
ai letterati romani non interessa discutere di filosofia
o di poesia, sono descritti come sprezzanti nei confronti della «scienza del cuore umano» e tutti intenti
a decifrare l’esatta cronologia di un pezzo di rame o di
sasso. Piuttosto il metodo leopardiano si distingue dalle
intenzioni delle “talpe”/filologi-eruditi poiché cerca
di connettere il dato storico all’espressione artistica,
stabilendo un contatto diretto con quanto di vitale si
trova nel testo scritto, realizzando, nell’interpretazione,
una sorta di congiunzione di verità e bellezza, (ri)costruzione scientifica e ornamento. Dalla rievocazione
16
Ivi, p. 64, Lettera al padre del 9/12/1822.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
137
del mondo antico Leopardi trae occasione per creare
immagini, nel continuo avvicendarsi di “vero” e “illusione”. La filologia leopardiana si connota come un’attività determinata non soltanto dal rigore storiografico
e dalla cultura letteraria, ma anche dall’immaginazione, poiché si propone di trarre dall’antichità degli
slanci inventivi che possano risultare di qualche utilità
e giovamento ai contemporanei. In tal modo la filologia
viene connessa più strettamente al tessuto della vita.
L’ultimo dei filologi-poeti appare così al giovane
Nietzsche desideroso non solo di analizzare, interpretare, tradurre i testi classici, ma anche di fare, di creare poesia in memoria dell’antico, di aprire la strada
a nuove espressioni, nutrite dalla visione greca della
vita. A sostenere questa pratica è «der Gedanke der
Schönheit»17, il pensiero della bellezza, quello che
Nietzsche probabilmente colse come il fondamento
e il nucleo di tutta la poesia leopardiana. È grazie a
esso che Leopardi si erge al di sopra dei filologi-eruditi
incapaci di rendere al lettore la verace essenza dell’anima greca, e, come si vedrà nel corso del lavoro e come
lo stesso Nietzsche a tratti continuerà ad ammettere,
è quanto costituisce la traccia più interessante della
filosofia leopardiana.
Il nome di Leopardi compare di nuovo in un frammento nietzschiano dell’inverno-primavera ’75-’76, a
proposito della poesia lirica: Giacomo Leopardi, come
Pindaro, è un poeta che ha «anche dei pensieri»18. L’interpretazione di questo frammento rimanda agli appunti
KGW III, 4, 35 [8], p. 430. Si tratta di un verso della traduzione tedesca de Il pensiero dominante.
18
KGW IV, 1, 8 [2], p. 204; FP Inverno-primavera 1875 Primavera 1876, 8 [2], p. 173.
17
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
138
relativi al progetto nietzschiano del Libro del filosofo, in
cui campeggia la figura del “filosofo della conoscenza
tragica”. Quest’ultimo avverte che il terreno della metafisica è ormai venuto meno e si impegna a disporre
la conoscenza a servizio di una vita migliore – «egli
deve soltanto aiutare a vivere»19. Per riuscire a vivere,
nel deserto lasciato dal crollo delle certezze metafisiche, c’è bisogno dell’arte: il filosofo-artista deve «volere
l’illusione»20 per colmare quello spazio vuoto sancito
dalle affermazioni contenute nella prima critica kantiana21, per cui è impossibile accedere al vero intelligibile e
conviene piuttosto assecondare quella “libertà poetica”
con la quale i Greci trattavano dei loro dèi.
Il filosofo della conoscenza tragica vive la propria
filosofia, nel nesso inestricabile di conoscenza, arte e
vita, «conosce in quanto poeta, ed è poeta in quanto
conosce»22. Conoscere è creare. Egli non costruisce sistemi, ma svela la necessità delle illusioni. La necessità
dell’immaginazione artistica è giustificata dal tramonto
della metafisica. Nella descrizione del filosofo della
conoscenza tragica è così riconoscibile il ritratto del
Leopardi «poeta che ha anche dei pensieri». Fulcro del
discorso nietzschiano appare nuovamente la feconda
compenetrazione di poesia e filosofia, conoscenza e
vita: laddove più stretto è il nesso tra le due polarità,
KGW III, 4, 19 [36], p. 16; FP Estate 1872 - Autunno 1873,
19 [36], p. 25.
20
19 [35], ibidem.
21
Ivi, 19 [39]: «Si ha la creazione di una religione, io penso,
quando qualcuno suscita la fede nel proprio edificio mitico, introdotto in un vuoto, ossia fa credere che essa risponda ad un bisogno
straordinario. È inverosimile che ciò avvenga ancora, dopo che è
stata scritta la Critica della ragione pura».
22
Ivi, 19 [62], p. 27 (p. 38).
19
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
139
tanto più alti sono i pensieri. Giacomo Leopardi riesce
a congiungere particolare e universale nella filosofiapoesia che esprime, laddove la vita diviene conoscenza
senza cristallizzarsi abbandonando il proprio fremito.
Il cantore della bellezza – Negli anni successivi alla
sua fase schopenhaueriana, Nietzsche manifesta a più
riprese la critica del pessimismo leopardiano23 – assimilato a quello del filosofo di Danzica –, considerato
“decadente”, incapace di tramutarsi in coraggiosa accettazione e affermazione del dolore della condizione
umana. L’impulso vitale del poeta gli appare ora troppo
spesso sopraffatto dal suo straziato lamento. In cammino verso la filosofia di Zarathustra, il tedesco dissimula
a poco a poco il proprio debito spirituale nei confronti
di Leopardi. Tuttavia egli è ancora elogiato, al pari di
Chopin, come uno spirito libero «che ha guardato e
adorato la bellezza»24, condividendo con il musicista
polacco e con Raffaello Sanzio una «libertà in catene –
una libertà principesca». In questo caso è l’apprensione
del bello a motivare la stima nietzschiana.
Poco più avanti negli anni (1880-81) Nietzsche torna
a scrivere di Leopardi in termini positivi, sebbene in un
breve appunto. «Unendlichkeit! Schön ist’s “in diesem
Meer zu scheitern”»25 – dunque come «bello» è sentito
da Nietzsche il verso del naufragio nel mare dell’infinito. Ciò che conta della poesia leopardiana, ciò che di
23
KGB II, 5, n. 787 del 29 dicembre 1878, p. 375 (EN, III,
p. 334); KGW VII, 3, 36[49], p. 295 (OFN VII, 3, FP 1884-1885,
pp. 248-249); KGW VIII, 2, 11 [229], p. 332 (OFN VIII, 2, FP
1887-1888, p. 296).
24
KGW IV, 3, p. 256; OFN IV, 3, Il viandante e la sua ombra,
p. 198.
25
KGW V, 1, 6 [364], p. 620. Corsivo mio.
140
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
essa continua a rapire l’attenzione di Nietzsche, è il suo
essere sorta dal pensiero della bellezza, dal sentimento
della creazione conoscitiva – questi temi costituiscono
dei caposaldi della filosofia nietzschiana, pur nella sua
fase di apparente rigetto dell’opera di Leopardi. Quindi, consumato il distacco da Schopenhauer, Nietzsche
torna, in rari passi, a considerare Leopardi come il
cantore dell’entusiasmo della ragione26 e ne salva dai
colpi del proprio martello la concezione del pensiero
poetante e l’anelito verso la bellezza.
La tesi che si intende sostenere è che una delle
matrici dell’impianto teoretico nietzschiano, quella
leopardiana, dimostri la sua pregnanza continuando
ad affiorare in snodi concettuali propri del Nietzsche
maturo – pur dichiarantesi anti-leopardiano. Il punto
di contatto tra le due filosofie consiste nella volontà di
mettere in luce il retroterra sensibile e passionale del
pensiero, assegnando all’immaginazione uno spiccato
potenziale cognitivo. Essa diviene fonte della conoscenza tanto nel pensiero nietzschiano quanto in una
particolare fase del pensiero leopardiano, testimoniata
da alcune Operette e da un gruppo di riflessioni contenute nello Zibaldone.
3. L’immaginazione come la facoltà dei “grandi
filosofi” nel Leopardi dei primi anni Venti
La comunanza di spirito tra filosofia e poesia è al
centro del Parini ovvero della gloria (1824). In questa
26
L’espressione utilizzata riprende il titolo dell’opera di P.
Fasano, L’entusiasmo della ragione: il romantico e l’antico nell’esperienza leopardiana, Bulzoni, Roma 1985.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
141
operetta Leopardi che tematizza l’affinità tra il sentimento della corrispondenza al vero dei pensieri poetici
e il sentimento della corrispondenza al vero dei pensieri filosofici, appare pronto a valicare i confini tra
“creazione” e “verità”, riconoscendo in ogni grande
filosofo l’animo del poeta e in ogni grande poeta l’animo del filosofo. A far progressi in filosofia è necessaria «molta forza immaginativa»27: Descartes, Galileo,
Leibniz, Newton, Vico avrebbero potuto essere grandi
poeti, così come Omero, Dante e Shakespeare sommi
filosofi. Sebbene spesso venga opposta a una poesia
fanciullesca e gioiosa una filosofia che ha rinsecchito e
isterilito il mondo, varie sono le riflessioni leopardiane
sulla virtuosa unione dei due talenti: «Gli spiriti veramente straordinari e sommi […] potranno […] essere
sommi filosofi moderni poetando perfettamente»28, il
filosofo deve «esaminare da freddissimo ragionatore
e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può
conoscere»29. La filosofia, in questa particolare accezione tra le molteplici nella produzione leopardiana,
non attesta una realtà di fatto, non scopre un che di
pregresso, ma crea, inventa, dà forma a una visione
del mondo:
La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità e parti dell’immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa
i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle grandi
verità. E si può dire che da una stessa sorgente, da
una stessa qualità dell’animo, diversamente applicata
TPP, p. 545.
Zib. 1383.
29
Zib. 1839.
27
28
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
142
[…] vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della filosofia naturale di Newton30.
Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le
passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla
loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più
sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti
verità filosofiche che si posseggano […]. I più profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero […]
furono espressamente notabili e singolari anche per
la facoltà dell’immaginazione e del cuore, si distinsero per una vena e per un genio decisamente poetico31.
In questo quadro, conoscere è essenzialmente
immaginare. La grande e profonda filosofia è nutrita
dall’immaginazione. Non solo: a causa della rinuncia
a quest’ultima anche la fisica, dopo Newton, ha subìto
una battuta d’arresto, non elaborando nessun altro sistema fisico e limitandosi a considerare il newtoniano
come ipotesi di lavoro32. L’immaginazione è infatti
quella facoltà che scopre – o inventa – i più lontani rapporti, le affinità e le somiglianze delle cose tra
loro33. Facoltà produttiva, essa crea, finge, fabbrica un
mondo che non è. Coloro i quali hanno «spoeticizzata
del tutto la loro mente»34, astraendo dal sistema del
bello, liberati da ogni immaginazione, sentimento,
passione, errano ignorando «la massima parte della
Zib. 2132-2133.
Zib. 3244-3245.
32
Zib. 4057.
33
Zib. 3717-3718.
34
Zib. 1835.
30
31
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
143
verità»35. Quell’animo che non sia aperto se non al
“vero puro”, privo di entusiasmo e di immaginazione,
«non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà
colla possibile evidenza cose falsissime»36. Una ragione che si emancipi dalla facoltà immaginativa crea,
infatti, una sterile e acerba mitologia, dal momento
che, pretendendo di soppiantare le illusioni, diviene
essa stessa illusione37. Insensibile, recide il legame con
la natura, organismo poetico38 dal quale trae origine,
e finisce per non poter conoscerla, non sentendola.
Abbandonato tale legame, non conosce più neanche
sé stessa, a causa del rapporto di coessenzialità che
vige tra tutti i contrari.
Il legame tra natura e immaginazione consiste
in una sorta di rispecchiamento. L’essenza poetica e
produttiva dell’immaginazione è comune alla potenza
della natura, che per Leopardi non può essere avvicinata servendosi del rigore logico e dell’esattezza
matematica. Il primato teoretico dell’immaginazione
è giustificato dal riconoscimento dell’opposizione
e dell’armonia dei contrari nel sistema della natuZib. 1836.
Zib. 1833.
37
Zib. 1842.
38
Leopardi converge con il Romanticismo tedesco e inglese
relativamente alla questione della rappresentazione della natura,
mai intesa come entità meccanica e “morta”, offerta all’esattezza e al calmo rigore dell’indagine razionale, ma sempre come
totalità autorinnovantesi e costantemente vivente, omologa alla
conoscenza intuitiva e immaginativa, poetico-artistica. Per una
attenta disamina del problema, rimando al brillante articolo di
M.A. Rigoni, Leopardi, Schelling, Madame de Staël e la scienza romantica della natura, «Lettere Italiane», 53 (2001), 2, pp.
247-256.
35
36
144
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
ra vivente. La vita si conosce con la vita, la natura
traboccante si manifesta alla fertile immaginazione,
piuttosto che alla fredda ragione rinchiusa in una
quiete di morte. A colui che scompone, disgrega,
seziona – ovvero “analizza” – la natura per mezzo
della ragione usata come un «coltello anatomico»
necessariamente sfugge l’intima armonia del tutto,
la sua essenza poetica e dinamica. Perciò egli si inganna – di nuovo l’arida ragione è riconosciuta come
falsificante:
Chiunque esamina la natura delle cose colla pura
ragione, senza aiutarsi dell’immaginazione né del
sentimento, né dar loro alcun luogo […] potrà ben
quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla,
voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e
dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza, né stringere e condurre le dette osservazioni
in un gran risultato; e facendolo, come non lasciano
di farlo, si inganneranno […]. Si può con certezza
affermare che la natura, e vogliamo dire l’università
delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un
effetto poetico […]. Nulla di poetico si scorge nelle
sue parti, separandole l’una dall’altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione
esatta e geometrica […]. Tutto ciò ch’è poetico si
sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, né
altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso,
che col sentirlo. […] Queste facoltà nostre [l’immaginazione e la sensibilità] sono esse sole in armonia
col poetico ch’è nella natura. […] E siccome alla sola
immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
145
conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’
grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni,
sì generali, sì anche particolari, della natura39.
Dunque, nei primi anni Venti, Leopardi crede fermamente nella possibilità di una fervida congiunzione
tra conoscere e sentire, scoprire e immaginare. Una
ragione “poetica”, che non si sia scrollata di dosso il
sistema del bello e il riferimento all’immaginazione,
si manifesta sotto forma di un pathos, una passione
conoscitiva: così era avvertita dagli antichi e allo
stesso modo è sentita dai filosofi profondi, “penetranti
indagatori del vero”. Il grande conoscitore è colui
che trova la via della conversione della ragione in
passione40. In altre parole, la conoscenza immaginativa, che passa per la sensibilità, coinvolge l’individuo
nella sua interezza, riscoprendo la sua appartenenza
alla natura e superando il raziocinante dissidio tra
sentimento e intelletto.
Anche sul versante pratico, oltre che su quello teoretico, l’immaginazione leopardiana riveste, nei primi
anni Venti, un ruolo fondamentale. Una particolare
potenza morale – benché assai effimera, specie nei
lettori delle grandi città – è assegnata dal personaggio di Eleandro ai testi poetici (Dialogo di Timandro
ed Eleandro, 1824). Chiarisce: non solo in versi, ma
anche in prosa, i libri, cioè, «destinati a muovere la
immaginazione»41. Pure i testi prosaici, se sollecitano
l’immaginazione, possono agire sulla parte migliore
Zib. 3237-3243.
Zib. 294.
41
TPP, p. 582.
39
40
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
146
dei lettori. Matrice del bello42, l’immaginazione appare
come uno dei pochi stimoli per continuare a vivere.
Di qui il nesso costitutivo tra immaginazione e vita/
felicità, ovvero l’immaginazione come risposta alla
rassegnazione al nulla: per poter vivere, l’essere umano
ha bisogno di sentire e immaginare, e quanto comunemente si ritiene “falso” o illusorio è indispensabile
alla sopravvivenza.
4. Alcune note sull’immaginazione in Nietzsche
L’iscrizione della vis creativa al cuore di ogni attività contemplativa è il manifesto di uno degli aforismi
della nietzschiana Fröhliche Wissenschaft (FW IV,
301). Il polveroso inganno degli spiriti contemplativi
consiste nel ritenersi semplicemente spettatori e passivi
ascoltatori del grande spettacolo della vita. Piuttosto
il contemplativo, il pensatore «senziente»43 è poeta e
vero creatore. Si distingue in questo modo dal semplice
attore, l’uomo d’azione – assimilato all’invitato seduto
di fronte alla scena –, che crede di creare mediante
l’agire, ma a cui può restare sconosciuta la via della
poiesis teoretica. Al pensatore appartiene di certo la
vis contemplativa, la capacità di valutare e riflettere
sulla propria opera, ma in primo luogo gli appartiene
la vis creativa, ovvero la facoltà di conferire valore
alle cose, classificarle, affermarle, negarle, in una sola
42
Il bello di questo mondo consiste nell’immaginazione, nella
«costruzione libera varia ardita e figurata» (Zib. 111).
43
OFN V, 2, La gaia scienza, p. 176. Der Denkend-Empfindende è definito «der eigentliche Dichter und Fortdichter des
Lebens» (KGW V, 2, p. 220).
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
147
espressione creare «il mondo che in qualche modo
interessa gli uomini»44. A distanza di qualche anno
dalle considerazioni sul “poeta [Leopardi] che ha anche dei pensieri”, Nietzsche continua a tenere insieme
poesia (in senso lato, quanto connesso al verbo greco
poiéo) e pensiero nella nuova veste della valutazione
conoscitiva, essenzialmente una creazione.
La trasfigurazione artistica che procede mediante
l’immaginazione, creando e inventando, è alla base
della scienza tutta e, in questo modo, della vita: il
numero, l’uguale a sé stesso non sono che invenzioni
immaginate, senza le quali l’essere umano non riuscirebbe a vivere. Le finzioni logiche – create immaginando – sono per l’essere umano indispensabili: «Senza
una misurazione della realtà alla stregua del mondo,
puramente inventato, dell’assoluto, dell’eguale-a-sestesso, senza una costante falsificazione del mondo
mediante il numero, l’uomo non potrebbe vivere»45.
Immaginare significa astrarre dal continuum che
è la vita sino a inventare [erdichten] il meccanismo
di causa ed effetto, soggetto e oggetto, libero e condizionato, foggiando il «mondo di segni»46 in cui viviamo. La funzione dell’immaginazione è quindi, nel
Nietzsche degli anni Ottanta, potenziata al punto da
riuscire a sostenere l’intero campo della logica e dell’astrazione, e in questo senso si rivela, ancor più fortemente che negli anni Settanta, facoltà indispensabile
alla vita. Rinunciare al falso e all’illusorio – ossia al
logicamente vero – si tradurrebbe, secondo gli assunti
44
Ibidem.
OFN VI, 2, Al di là del bene e del male I, 4, pp. 9-10; KGW
VI, 2, p. 12.
46
Ivi, I, 21, p. 26 (p. 30).
45
148
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
nietzschiani, in volontà di morte, andando a minare
l’essenza valutante e conoscente dell’essere umano.
Nonostante la sostanziale eterogeneità dell’argomentazione in merito, il discorso nietzschiano approda così a
una conclusione non troppo distante dalla leopardiana
concezione del nesso tra immaginazione e vita.
L’analisi nietzschiana dimostra in che senso l’essere umano sia dotato di genio artistico anche nel conoscere. «Plasmiamo immaginosamente» [erdichten]
l’esperienza e assistiamo come «inventori»47 a qualsiasi
processo conoscitivo. In quanto creazione e valutazione – e dunque apparentata con la menzogna –, la conoscenza, che nasce dalla trasfigurazione immaginativa,
non sarà mai un’attività disinteressata o neutrale, ma
sempre finalizzata a una ripercussione sulla vita, al
pari dell’apprensione della bellezza:
Kant pensava di rendere onore all’arte quando fra
i predicati del bello preferì e pose in primo piano
quelli che costituiscono l’onore della conoscenza:
impersonalità e validità universale. Non è questa la
sede per discutere se ciò sia stato, nella sostanza, un
errore; voglio soltanto sottolineare il fatto che Kant,
al pari di tutti i filosofi, invece di prender di mira il
problema estetico partendo dall’esperienza dell’artista (del creatore), ha meditato sull’arte e sul bello
unicamente dal punto di vista dello “spettatore”, e
con ciò ha inavvertitamente accolto lo “spettatore”
stesso nel concetto di “bello”! […] “Bello – ha detto
Kant – è quel che piace in guisa disinteressata”.
Disinteressata! Si confronti questa definizione con
47
OFN VI, 2, Al di là del bene e del male V, 192, p. 91; KGW
VI, 2, p. 116.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
149
quell’altra, fatta da uno “spettatore” e artista vero
– Stendhal, che chiama il bello une promesse de
bonheur. Qui in ogni caso è rifiutata e cancellata
proprio quell’unica cosa che rileva Kant nella condizione estetica: le désintéressement. Chi ha ragione:
Kant o Stendhal?48
Nella globalità del discorso nietzschiano, la polemica antikantiana non investe soltanto la concezione
dell’esperienza artistica, ma anche il piano dell’esperienza conoscitiva: una conoscenza impersonale e disinteressata per Nietzsche non si dà. Ogni conquista
teoretica è piuttosto orientata in direzione della vita,
nascendo da esigenze fisiologiche. Nel suo essere legata alla vita, abbandonata la prerogativa del désintéressement, la conoscenza ha un’immediata conseguenza
pratica. L’essere umano può essere in grado di concepire la stessa conoscenza come una “promessa di
felicità”: non appena si sia scoperta la “erroneità” dei
presupposti scientifico-conoscitivi – le finzioni logiche succitate – e smascherata l’esistenza in quanto
fenomeno estetico, la scienza potrà finalmente dirsi
gaia. Di qui la scoperta del nesso non più soltanto tra
immaginazione e vita, ma tra immaginazione e vita
felice. L’autentico conoscitore, non più inibito dalla
gelida oggettività e impersonalità del vero assoluto,
è mosso dalla «passione della conoscenza»49, il cui
valore risiede nell’incorporazione e incarnazione del
sapere inteso come un frammento della vita stessa. Il
sapere diviene desiderio, erotica tendenza a identificar48
OFN VI, 2, Genealogia della morale III, 6, p. 306; KGW
VI, 2, pp. 364-365.
49
OFN V, 2, La gaia scienza II, 107, p. 116; KGW V, 2, p. 140.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
150
si con ciò che si conosce. La passione della conoscenza
si distingue dall’ascetismo degli scienziati adoranti i
fatti, «con un settore della loro attività intellettuale
nettamente separato dal sentimento, per cui la scienza è preminentemente qualcosa di rigoroso, freddo,
spassionato»50. Si potrebbe osservare la vicinanza
di queste tesi alla caratterizzazione leopardiana del
filosofo guidato dall’immaginazione, che congiunge
intelletto e sentimento, osando conferire alla ragione
i caratteri della passione.
La creazione/immaginazione assume, inoltre, un
ruolo del tutto decisivo a livello pratico-morale in Così
parlò Zarathustra, rendendo possibile la redenzione
dell’essere umano.
Complessa e sfaccettata appare la trattazione della
funzione della poesia e della figura del poeta all’interno
dell’opera. Zarathustra ci inviterebbe in prima battuta a
diffidare dei poeti, che mentono troppo51. Si proclama
stufo della loro sorte infelice e li indica come cattivi
discepoli [schlechte Lerner], ma egli stesso si presenta
come un Dichter52. Ciò che rimprovera a coloro che
poetano è una certa malattia della volontà, il loro essere “smaniosi di Dio”, che li ha portati a creare un
OFN V, 2, FP 1881, 14 [3], p. 447; KGW V, 2, 14 [3], p. 521.
«Die Dichter lügen zuviel» (KGW VI, 1, Also sprach Zarathustra II, Von den Dichtern, p. 159).
52
Il rapporto tra l’identità di Zarathustra e il suo monito riguardo ai poeti è stato messo in relazione al paradosso del mentitore cretese (cfr. H. Weichelt, Zarathustra-Kommentar, Felix
Meiner, Leipzig 1922). Mi sembra interessante, inoltre, notare
che secondo lo stesso Nietzsche il proprio Also sprach Zarathustra sarebbe forse classificabile come Dichtung, «poema» (cfr.
KGB III, 1, p. 327, Lettera del 13 febbraio 1883 all’editore Ernst
Schmeitzner).
50
51
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
151
«mondo dietro il mondo»53, costituito da stabilità e
durata, essenza e unità: in altre parole gli abitatori del
mondo dietro il mondo [Hinterweltler] non si rivelano
altro che metafisici54.
Il Dichter che è Zarathustra si presenta tuttavia come
un verace: «Verace – spiega Zarathustra – così io chiamo colui che va nel deserto, dove gli dèi non sono, e ha
spezzato il suo cuore venerante»55. Commenta Maria
Cristina Fornari: «La veracità è la virtù di uno spirito
attento alla verità, è l’esser conseguenti alla verità, e
con ciò intersecare la sfera del coraggio»56. La veracità
di Zarathustra «è un impegno che lo espone a una solitudine analoga a quella del bugiardo, una solitudine
che nasce dal segno d’eccezione che la verità produce,
irrompendo nell’inerzia del presunto conosciuto»57. La
verità di cui si fa latore Zarathustra è il riconoscimento
della non-verità di strutture stabili e permanenti dell’essere, lo smascheramento del mondo vero come favola.
Tale verità, al deflagrare della considerazione metafisica/tradizionale della realtà, «restituisce al mondo la
sua più propria dimensione poetica e creativa»58. Negli
53
OFN VI, 1, Così parlò Zarathustra I, Di coloro che abitano
un mondo dietro il mondo, p. 31; KGW VI, 1, p. 31.
54
Tale equivalenza è esplicitata nella nota alla versione italiana
dell’aforisma 17 di Opinioni e sentenze diverse, dove il termine
“Hinterweltler” viene spiegato come «l’esatta traduzione tedesca
della parola, di origine greca, “metafisici”» (OFN IV, 3, Note al
testo di Umano, troppo umano, II, p. 407).
55
OFN VI, I, p. 128; KGW VI, 1, p. 124.
56
M.C. Fornari, Ancora dei poeti e della verità, in F. Cattaneo, S. Marino (a cura di), I sentieri di Zarathustra, Pendragon,
Bologna 2009, pp. 127-128.
57
Ivi, p. 127.
58
Ivi, p. 128.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
152
anni Settanta, il filosofo della conoscenza tragica, al
tramonto della metafisica, doveva “aiutare a vivere”;
similmente, in questi anni, il compito di Zarathustra è
quello di redimere l’essere umano dalla visione metafisica della realtà. Dunque egli invoca la vocazione creativa
nei propri discepoli e fa dell’immaginazione poetica il
senso della propria azione redentiva:
Il senso di tutto il mio operare è che io immagini
come un poeta e ricomponga in uno [in Eins dichte]
ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo
non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!59
L’immaginazione è quindi strumento della vocazione redentiva della poesia-filosofia simboleggiata da
Zarathustra. La sua sfida, la sfida della sua Dichtung,
è sostituire al caos un’unità e riordinare i frammenti,
senza cadere nella trappola fraudolenta dei poeti-metafisici60. La piena e gioiosa accettazione del transeunte,
la sua eternizzazione nella pienezza dell’attimo, è il
fulcro della verità di Zarathustra e della sua proposta di redenzione. Quest’ultima passa per una nuova
creazione del volere, ossia imparare a volere a ritroso
– il “così volli che fosse” che si oppone alla stabilità
dell’irreversibile pietra del “così fu”61. La volontà è
concepita come qualcosa che crea, sino a comporre
59
OFN, VI, 1, Così parlò Zarathustra II, Della redenzione,
p. 170 (corsivo mio); KGW, VI, 1, p. 175.
60
M.C. Fornari, Ancora dei poeti e della verità, cit., p. 128.
61
OFN VI, 1, Così parlò Zarathustra II, Della redenzione,
pp. 171-173; KGW, VI, 1, pp. 175-177.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
153
una conciliazione con il passato. Solo colui il quale si
spinga sino a tali vette della creazione, sarà finalmente
libero dall’oppressione del passato.
L’accettazione del passato e la valorizzazione del
transeunte significa immersione nel divenire, celebrata dall’espressione poetica. Zarathustra, colui che è
capace di tale immersione, infine parla il linguaggio
dionisiaco del ditirambo, dimostrandosi davvero un
poeta, ma, a differenza dei poeti di cui diffidare, non
«immagine, colonna di Dio»62, piuttosto «nelle foreste
selvagge a casa più che dinanzi ai templi»63, non più
maschera che nasconde, ma «soltanto giullare! Soltanto poeta!»64, narrando di un mondo ormai liberato
e redento.
5. Conclusioni
Sebbene occorra ascoltare il monito di Sebastiano
Timpanaro a non forzare l’assimilazione dei due filosofi
più di quanto il dato storico consenta65, ritengo che
la concezione del ruolo e dell’importanza dell’immaginazione sia, in alcuni punti salienti della filosofia
nietzschiana e in una particolare fase di quella leopardiana, per certi versi simile. Entrambi i pensatori
conferiscono alla suddetta facoltà una particolare capacità di cogliere il vero, ben più a fondo della ragione.
La contrapposizione di verità ed errore come termini
62
OFN VI, 1, Così parlò Zarathustra IV, Il canto della melanconia, p. 363; KGW VI, 1, p. 368.
63
Ibidem.
64
Ivi, p. 365 (p. 370: «Nur Narr! / Nur Dichter!»).
65
M. Biscuso, Leopardi tra i filosofi, cit., p. 148.
154
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
antitetici non trova luogo nel pensiero nietzschiano,
che, abbandonando la logica binaria, mostra la convergenza e continua mescolanza di “illusione” e “verità”.
Leopardi, alle prese con il problematico rapporto tra
ragione e natura, già nel 1821 nega verità e falsità intese in senso assoluto, ridimensionando il principio di
non contraddizione, di cui dal 1824 denuncia i limiti66.
Una simile considerazione della mancata corrispondenza tra ragione/principio di non contraddizione e
ordine naturale/realtà esistente, posta una distinzione
tra il punto di vista razionale e il flusso della vita, si
ritrova in Nietzsche, secondo il quale il principio di non
contraddizione è un imperativo «non per conoscere il
vero, ma per porre e ordinare un mondo che dev’essere
vero per noi»67.
Dunque l’immaginazione riesce a ricoprire un significativo ruolo teoretico all’interno dei due diversi
impianti filosofici, aiutando e completando – quando
non addirittura fondando, come si è visto – la cognizione razionale.
D’altra parte, l’analogia non va estesa alla ricca e
variegata produzione filosofica leopardiana nella sua
interezza e al suo pensiero costantemente mosso e in66
Questa è l’opinione della maggior parte degli studiosi. Al
contrario, Biscuso osserva: «Per la nostra ragione la natura contiene in sé contraddizioni inconcepibili, ma questo non implica
che la natura in sé debba essere contraddittoria, perché essa è
l’insieme dei possibili. L’esistenza ha una logica che non è quella
dell’esistente» (M. Biscuso, La “spaventevole conchiusione” della metafisica leopardiana, in Id. [a cura di], Oltre il nichilismo,
Leopardi, numero monografico de «il cannocchiale», 2009, 1-2,
p. 254).
67
KGW VIII, 2, 9 [97], p. 53; OFN VIII, 2, FP 1887-1888,
p. 47.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
155
quieto, non esente da radicali cambiamenti di prospettiva, sempre drammaticamente oscillante tra pienezza
estatica – il nietzschiano “pensiero della bellezza” – e
disincantata e insuperabile osservazione del reale, liricamente evocata dal pastore d’Asia:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male68.
68
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, TPP, p.
163, vv. 100-104.
LA POTENZA DELL’AMORE:
SUL RAPPORTO TRA FILOSOFIA
E POESIA IN LEOPARDI
Nicolò Galasso
Scopo del presente intervento è valorizzare alcune letture filosofiche che sono state date di un tema
centrale nella poesia e nella riflessione di Leopardi,
l’amore, la sua forza produttrice e, in un certo senso,
salvifica. L’attenzione sarà rivolta a tre grandi studiosi,
i quali, ancorché diversissimi per formazione ed esiti
speculativi, hanno fatto di tale questione il centro della
loro interpretazione: Giovanni Gentile, Antonio (Toni)
Negri ed Emanuele Severino. Attraverso l’analisi di
queste letture sarà possibile mettere in evidenza come
l’amore sia non tanto una passione psicologicamente
connotata, quanto appunto una forza produttiva di
pensiero e di azione, e insieme il luogo in cui la vera
filosofia diviene poesia autentica e viceversa.
La creatività dell’amore è la forza che permette di
passare da una sorta di nichilismo passivo, dovuto alla
cognizione dell’amara verità dell’insensatezza della
vita, a un nichilismo attivo che, fino a un certo punto,
permette all’uomo l’azione eticamente fondata. Infatti,
proprio la mancanza di una verità ontologica immu-
158
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
tabile, al di là di quella della vanità di tutte le cose,
accorda all’uomo la possibilità di agire umanamente
e liberamente. D’altro canto, è nella creatività dell’amore che la filosofia e la poesia trovano la loro unità
riscattando ognuna la propria unilateralità: la durezza
intellettualistica e improduttiva della prima, il vano
vagheggiare introspettivo e soggettivo della seconda.
L’amore, nelle letture che ne danno Gentile, Negri e
Severino, libera la figura di Leopardi dall’immagine, a
lungo prevalente, di un poeta che è veramente tale solo
laddove si emancipa dal suo pensiero pessimistico e
intellettualistico: il Leopardi crociano poeta idilliaco.
Sebbene abbiano finalità ermeneutiche diverse, i
tre interpreti concordano, inoltre, su un altro punto
fondamentale: il legame inscindibile che si instaura tra
potenza espressiva della parola e contenuto del pensiero, sottolineando la parzialità di quelle analisi che, in
modo intellettualistico, prendono in considerazione un
aspetto indipendentemente dall’altro. Convinzione dei
tre interpreti è, infatti, la valenza filosofica della forza
poetica leopardiana e, allo stesso tempo, la valenza
poetica della sua riflessione filosofica.
Connessa a questa, vi è l’altra convinzione comune
alle tre interpretazioni, ossia il valore ontologicamente
costruttivo dell’opera poetico-filosofica di Leopardi
volto a rifondare l’agire etico e, dunque, una comunità
autenticamente umana.
1. La lettura che Gentile propone di Leopardi, soprattutto dagli anni ’20 in poi, ha come obiettivo polemico l’interpretazione che, prima con Croce e poi con
Vossler, si era diffusa nella cultura italiana: Leopardi
come poeta idilliaco. La grandezza del Recanatese,
secondo questi ultimi, andava cercata nei rari momenti
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
159
in cui la sua forza poetica si liberava dal giogo della
riflessione filosofica, arida e fallace in quanto schiava
del meccanicismo e materialismo settecenteschi. Nei
barlumi di pura poesia, segnatamente nel canto lirico
introspettivo, Leopardi, secondo la lettura crociana,
era veramente poeta1.
Al di là della critica metodologica che Gentile
muove al suddetto approccio, ossia lo sforzo improduttivo di comprendere un grande poeta isolandone
alcune parti, trascurandone così la visione d’insieme2,
l’aspetto che il filosofo siciliano più valorizza per mostrare l’inconsistenza della suddetta tradizione è la
filosofia di Leopardi. Non solo essa non è un intralcio
alla bellezza e purezza del verso ma, al contrario, ne
costituisce parte integrante, senza la quale lo stesso
valore estetico del componimento sarebbe compromesso. La tesi gentiliana è che, nel caso di Leopardi,
non si può analizzare in modo indipendente il verso
e la riflessione teorica, giacché uno stretto legame li
tiene insieme. In tal modo Gentile riesce a proporre
una nuova immagine di Leopardi, non più pensatore
paradigmatico di un pessimismo radicale, nemico di
ogni azione, ma piuttosto poeta, se non dell’ottimismo,
almeno dell’accettazione attiva e positiva della mancanza di senso della vita. Il pessimismo è, pertanto,
pilastro fondamentale della poesia leopardiana non
Cfr. M. Biscuso, Gli usi di Leopardi. Figure del leopardismo
filosofico italiano, manifestolibri, Roma 2019, pp. 35-39, 43-50.
2
Cfr. G. Gentile, La poesia del Leopardi, 1927, adesso in Id.,
Manzoni e Leopardi, Sansoni, Firenze 1960, pp. 183-186, dove
Gentile conclude ironicamente con queste parole: «È fortuna se
alla prova di questa critica si salva qualche frammento della poesia
del Leopardi»; cfr. G. Gentile, Poesia e filosofia del Leopardi,
1938, adesso in Id., Manzoni e Leopardi, cit., pp. 225-230.
1
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
160
rappresentandone, però, il messaggio ultimo. L’amore,
come nota Gentile, è la prima e l’ultima parola delle
Operette morali3.
Gentile distingue nella filosofia di Leopardi due
diversi momenti4. Da una parte vi è la filosofia che,
debitrice dell’illuminismo sensista e materialista del
XVIII secolo, distrugge ogni illusione e ogni fede.
Questo è in senso stretto il momento pessimistico, in
cui l’uomo viene ridotto a materia governata da stimoli
e risposte a essi. Tale analisi disincantata e cinica del
mondo estirpa nell’uomo, che ne sia consapevole, la
capacità di compiere grandi azioni nella misura in cui
dissolve le illusioni che lo proteggono dalla conoscenza
della vacuità dell’esistenza. Tuttavia, e qui emerge la
peculiare lettura gentiliana, tale momento pessimistico non costituisce il fine ma il motore dialettico della
filosofia leopardiana:
L’incanto della poesia è qui, in questa unità dei due
opposti motivi, che si fondono insieme e infondono
nello spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel momento stesso che pare prostri
G. Gentile, Le operette morali, 1916, adesso in Id., Manzoni
e Leopardi, cit., p. 153: «Amore è la prima e l’ultima parola delle
Operette».
4
Cfr. G. Gentile, Poesia e filosofia del Leopardi, 1938, adesso
in Id., Manzoni e Leopardi, cit., p. 230: «se egli [scil. Leopardi]
ha una filosofia tutta negativa, naturalistica e materialistica, che
gli sembra inoppugnabile e che fa materia di assiduo pensare e
ispirazione altresì del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua
filosofia. […] in questa filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della
filosofia, giudicata inutile anzi dannosa». Per approfondimenti cfr.
M. Biscuso, Gli usi di Leopardi, cit., pp. 74-77.
3
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
161
gli animi nel più disperato dolore, li solleva, conforta
ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soavità. Idillio e dolore. […] Questa tragedia, che non è
ottimismo, né pessimismo, ma il commosso e serio
concetto della nobiltà, del valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e adorabile,
angosciosa e felice: questa è l’essenza della poesia
leopardiana5.
La negazione nichilistica della bellezza della natura
e della forza delle illusioni coincide con la presa di
coscienza che colloca il poeta a un livello superiore:
la negazione della naturalità immediata dell’uomo,
attuata per mezzo della ragione, porta a una seconda
natura6, questa veramente umana, che è accettazione
della vita, segno di grandezza dell’uomo, in quanto
unico essere in grado di cogliere la sua propria piccolezza. La consapevolezza del dolore non elimina
quest’ultimo ma, in un certo senso, lo nobilita. Il poeta, ribellandosi con tutta la sua forza intellettuale e
sentimentale all’insensatezza che avvolge ogni cosa,
trascende l’orizzonte meramente materiale, in cui è imprigionato l’uomo insieme a tutto ciò che è, dischiudendo un livello spirituale dove acquista senso e ragione
la stessa contrapposizione alla natura.
Da ciò non si deduce un effettivo superamento
del dolore ma una ribellione a esso che, rendendo il
dolore dominabile, nobilita l’uomo. Il deserto in cui
G. Gentile, La poesia del Leopardi, 1927, adesso in Id.,
Manzoni e Leopardi, cit., p. 198.
6
Cfr. ivi, p. 199: «Se non che questo pensiero devastatore e
distruttore della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso
stesso una nuova natura».
5
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
162
la ginestra spande il proprio profumo, come emerge
dall’omonimo componimento, non diventa una foresta rigogliosa, bensì rimane spoglio e nudo deserto.
Nondimeno il profumo della ginestra lo redime, lo
trasfigura senza creare vane fole che riporterebbero
l’uomo nel mito e nella religione. Il profumo della
ginestra simboleggia, dunque, l’amore che non annulla la morte (anzi ne è fratello) conferendo la forza
per sopportarla e accettarla7. Non si tratta dell’accettazione passiva, quietistica, di un dato naturale,
ossia della morte come necessità fisica. La morte,
che comunque rimane un fatto inaggirabile, viene in
qualche modo umanizzata per il tramite della forza
redentiva dell’amore. Il dato naturale del morire viene
trasfigurato nell’orizzonte di significato proprio della
comunità umana.
Nella lettura gentiliana di Leopardi l’amore è visto, dunque, come una sorta di sintesi tra due momenti contrapposti. Da una parte ci sono le illusioni del
mito e della religione che attribuiscono un falso senso
al mondo, dall’altra l’oggettiva e disincantata analisi
scientifica della realtà e dell’uomo che annienta ogni
possibile senso e, conseguentemente, scoraggia l’azione. Cogliendo questa dura verità l’uomo, in modo
dialettico, prende coscienza della sua superiorità in
quanto spirito cosciente. La contrapposizione dell’uomo alla natura dona la consapevolezza che permette di
uscire dal circolo della natura meccanicamente orienG. Gentile, Introduzione a Leopardi, prolusione del 1927,
adesso in Id., Manzoni e Leopardi, cit., p. 101: «Amare è redimersi, entrare nel mondo morale, che è il mondo della libertà»;
cfr. Poesia e filosofia del Leopardi, 1938, adesso in Id., Manzoni
e Leopardi, cit., pp. 230-242.
7
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
163
tato8. Tuttavia, il meccanismo dialettico ravvisato da
Gentile non collima perfettamente con la stessa analisi
che il filosofo di Castelvetrano propone della poesia
leopardiana. La contrapposizione tra uomo e natura, infatti, genera angoscia, paura e desolazione, non
immediatamente compiacimento spirituale. L’amore
nasce sì dalla visione del dolore, la quale pone il poeta
al di fuori del meccanicismo materialistico dominante
la natura, ma non ne è una conseguenza necessaria:
solo personalità particolarmente significative, come fu
quella di Leopardi, sono infatti in grado di trascendere
positivamente il dolore. Il surplus costituito dall’amore, sebbene venga giustificato da Gentile in modo
dialettico, rimane qualcosa di più vicino a un evento
fortuito e imprevisto che non la concretizzazione di
una legge inaggirabile. La conoscenza scientifica del
mondo nella sua oggettività e nella sua indifferenza
verso l’uomo non garantisce il superamento del nichilismo che svuota di senso ogni azione. Il nobile slancio
costituito dall’amore è una eccedenza imprevedibile
nella sua radicale contingenza. Quantunque sia presente in modo implicito nell’interpretazione gentiliana,
tale gratuità che contraddistingue l’amore nell’opera
leopardiana acquista massima centralità nell’interpretazione di Toni Negri.
8
G. Gentile, Introduzione a Leopardi, prolusione del 1927,
adesso in Id., Manzoni e Leopardi, cit., p. 93: «La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi
concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa
pure l’opporsi dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà
dotata di attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra».
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
164
2. In questo senso la lettura di Toni Negri riprende
quella di Gentile. L’amore leopardiano non è né l’amore
religioso ineffettuale e solipsistico né quello dell’uomo
naturale antico. L’amore è la forza trasfigurante con
la quale il poeta, ossia il filosofo giunto a perfezione,
è in grado di ridare senso alla realtà. Negri sottolinea
l’aspetto ontologicamente creativo della poesia leopardiana che non spaccia illusioni per meglio rendere
sopportabile la vita ma, al contrario, denunciando con
cruda consequenzialità l’insensatezza dell’universo,
conferisce anche la forza per accettarlo. Negri, dunque,
sviluppa un aspetto che in Gentile, seppur presente,
rimaneva in ombra: l’accettazione del reale come nuova
creazione di esso. Scrive Leopardi: «Pare un assurdo,
e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo
un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza
al mondo che le illusioni»9. Se tutto è illusione e la
conoscenza del vero consiste nel prender coscienza
della totale estraneità della natura rispetto all’uomo, se
dunque le cose non hanno una loro stabilità ontologica
ma sono delle possibilità perennemente minacciate dal
nulla, il quale alla fine le inghiottirà cancellandone
persino la memoria, allora, afferma Negri, la poesia
leopardiana (poesia filosoficamente densa) può liberare
la forza della vera immaginazione, del desiderio che
non inventa un mondo onirico in cui rifugiarsi, bensì
si contrappone al mondo esistente e alle sue illusioni.
Il desiderio e l’immaginazione acquistano, dunque,
centralità e potenza ontologica nella lettura negriana,
permettendo una rivalutazione politica della poesia
del Recanatese:
9
Zib. 99.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
165
Che cos’è l’immaginazione? È la possibilità che si
realizza, è l’assuefazione che s’innova, è entusiasmo,
sentimento, eroismo. È l’illusione che diventa attiva,
è rinnovamento della conoscenza, nuovo rapporto
fra rappresentazioni e stati del reale. È poesia. L’immaginazione è la lotta di natura e ragione che così
viene producendo la realtà, è tempo che si rapprende
verso il futuro – è anche “onore”, e cioè identificazione collettiva10.
La virtù, ossia l’azione etica che si contrappone
all’assurdità e alla violenza che dominano il mondo,
sebbene continuamente vinta, non perisce e non smette
mai di muovere l’animo dell’uomo capace di desiderare. La virtù, sciolta dal legame con il mondo presente,
diviene forza produttiva di un mondo altro, totalmente
diverso dall’esistente. Negri ravvisa in questo tratto
distintivo del pensiero leopardiano la sua natura postdialettica, giacché non vi è passaggio necessario tra
critica delle illusioni e creazione di un nuovo mondo.
Qui risiede, inoltre, la differenza con Gentile il quale, al contrario, imprigionava in un unico movimento
dialettico l’aspetto distruttivo e quello costruttivo del
lavoro del poeta. Tale differenza, tuttavia, è meno marcata di quello che non appaia. In Gentile, pensatore
dialettico per eccellenza, la consapevolezza della dura
verità (la filosofia pessimista e materialista del poeta)
conduce al superamento di questo momento negativo,
nell’amore che redime il dolore del mondo rendendolo
accettabile. Come abbiamo visto, infatti, la negazione della negazione, ossia l’accettazione vigorosa del
10
A. Negri, Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Leopardi,
SugarCo Edizioni, Milano 1987, p. 90.
166
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
dolore, nonostante la terminologia usata dal filosofo
siciliano, non annulla il dolore né deriva con necessità
dal momento negativo. La consapevolezza della vanità
delle cose, come si diceva sopra, produce come effetti
necessari l’individualismo, l’incapacità di grandi azioni
e grandi pensieri, la paura e la noia. Solo nell’occhio
del poeta tutto ciò sveglia l’indignazione e spinge alla
contrapposizione con l’esistente.
In effetti, anche in Gentile, al netto delle formule dialettiche utilizzate, il contenuto della dura verità
comporta perversione morale e disperazione. Solo
nell’animo delle persone grandi tale visione risveglia
il disgusto e, dunque, l’opposizione alla natura, proiettando l’individuo su un piano più elevato rispetto a
quello turpe dell’esistente. Benché Gentile concepisca
il momento del riscatto come sintesi di quelli precedenti e utilizzi una terminologia dialettica, a rigore
l’amore eccede in modo non razionalmente prevedibile la consapevolezza della dura verità. Negri insiste
su questo carattere di indeducibilità dell’amore e del
desiderio, il quale permette una vera contrapposizione
(non dialettica) e quindi un autentico agire sia etico
sia politico. Per Negri non si può parlare di sintesi
e neanche di superamento, bensì di rottura, rigetto,
alternativa11. Pertanto, in questa ottica, Leopardi non
può essere in alcun modo interpretato come pensatore
progressista o antesignano del materialismo dialettico, dal momento che non vi è una concezione lineare
della storia. Il Leopardi negriano è, pertanto, il pensatore della rottura rivoluzionaria, il poeta del desiderio eccedente il mondo dato in vista di un totalmente
11
Cfr. ivi, p. 282, dove Negri critica l’interpretazione de La
Ginestra come canto progressista.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
167
altro il quale, tuttavia, non è un’illusione metafisica
e religiosa12. La natura, nel suo incessante circolo di
produzione e distruzione, può produrre tanto l’odio
e l’egoismo quanto l’amore. La comunità veramente umana, cantata nella Ginestra, si fonda sul lavoro
dell’immaginazione che, eccedendo i limiti naturali,
produce nuovi legami sociali volti alla cooperazione
e alla solidarietà. La centralità che in questa lettura
assume la comunità la distanzia da quella di Gentile
in cui, invece, la poesia era la creazione del genio riservata a pochi e dove, quindi, l’aspetto propriamente
politico giocava un ruolo marginale.
Negri sottolinea, al contrario, la potenza creativa
dell’immaginazione e dell’amore nel fondare l’alternativa, etica prima che politica. Il Leopardi negriano è
dunque poeta filosofo a tutti gli effetti poiché si emancipa da ogni verità, da ogni riconciliazione, conferendo
valore ontologico all’immaginazione. Il legame che
tiene insieme poesia, etica e verità si fonda, secondo
Negri, sul superamento della verità metafisica eterna.
L’immaginazione e l’amore (e dunque la poesia) possono esprimere la loro natura creativa e costitutiva solo in
un orizzonte in cui viene meno la verità trascendente,
astrattamente oggettiva:
Finché l’uomo non rifiuta la necessità del vero e
conquista invece la fatticità radicale, etica del vero
bene, fino a quel punto egli si rivolterà nel nulla e
nella morte. Mentre la sola maniera di liberarsi, dal
nulla e dalla morte, è comprenderli, ma nel soffrirli
garantire la passione, e fra disperazione e speranza, ma sempre incontro alla sorte, e alla conoscen12
Cfr. M. Biscuso, Gli usi di Leopardi, cit., pp. 149-151.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
168
za, e al vero e ai suoi simulacri, alzando la fronte,
bene, dentro le passioni, costruire, costruire realtà.
Il problema è comunque fissato ontologicamente,
analizzato filosoficamente, risolto poeticamente13.
3. Emanuele Severino dedica a Leopardi un denso
libro uscito nel 1990 in cui, oltre a proporre una lettura
complessiva del pensiero del poeta, collega la figura di
Leopardi alla sua personale interpretazione del nichilismo occidentale14. Approfondire, anche in minima
parte, le tesi sul nichilismo di Severino porterebbe
troppo lontano15 e, perciò, ci soffermiamo unicamente
su quello che, a nostro avviso, può essere considerato
un punto di contatto con le interpretazioni viste sopra.
Severino intitola “L’alternativa”16 un importante
paragrafo della nona sezione del suo libro. L’età della
tecnica, ossia l’apoteosi della volontà di potenza, porta
all’inazione e al nulla. Leopardi, che per Severino è
il pensatore che inaugura l’età della tecnica e la porta
a compimento, essendone il più radicale e geniale interprete, mostra l’ultima conseguenza della fede nel
divenire, ossia la nullità di tutte le cose e l’insensatezza
della vita. La grandezza di Leopardi risiede nel fatto
che, insieme a questa terribile verità, egli ne indica
anche il rimedio (inefficace per Severino). L’opera del
A. Negri, Lenta ginestra, cit., pp. 302-303.
E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della
tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990 [BUR 2005]. Severino
ritornerà in modo sistematico su Leopardi in Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997.
15
Per una sintesi chiara degli aspetti del pensiero di Severino
che più ne influenzano la sua lettura di Leopardi cfr. M. Biscuso,
Gli usi di Leopardi, cit., pp. 167-180.
16
Cfr. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., pp. 182-183.
13
14
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
169
genio, l’opera cioè che vede la compenetrazione tra
filosofia e poesia, è l’alternativa alla distruzione incessante che governa il Tutto. Un’alternativa che non
propone i sogni della religione e della metafisica, anzi
conferma l’impossibilità di scampare al nulla. Come
già aveva notato Gentile, la radicalizzazione di questa
consapevolezza e la forza poetica in cui viene espressa provoca il miracolo della (momentanea) salvezza.
Scrive Severino:
L’opera del genio – che congiunge la filosofia e la
poesia – è l’alternativa possibile alla filosofia moderna come dottrina della volontà di potenza che si
dissolve nella dottrina dell’angoscia estrema della
noia. La volontà di potenza, guidata dalla ragione
moderna ed esprimentesi nella civiltà della ragione
e della tecnica, tende all’’inazione’: essenzialmente
impotente, sprofonda nel nulla. L’opera del genio è
l’alternativa, non perché riesca a salvare dal nulla,
ma perché è l’ultimo galleggiare dell’essere, prima
di affondare nel nulla, l’unico modo in cui la volontà
di potenza (l’operare) può sopravvivere all’annientamento di ogni volontà di potenza17.
L’opera del genio costituisce l’alternativa dal momento che riesce, grazie alla sua forza produttiva,
a mantenere nell’essere ciò che è destinato al nulla,
seppur per breve tempo. L’inaudita forza poietica della poesia consiste, dunque, nel mostrare la nullità di
tutto ciò che è e, nondimeno, trattenerlo nell’orizzonte
dell’essere. Il nulla rimane comunque il fine ultimo
di ogni ente, visto che anche Leopardi, per Severino,
17
Ivi, p. 182.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
170
è pensatore nichilista. Questa nullità, tuttavia, viene
rimandata, allontanata dall’atto creativo della vera
poesia. L’amore, l’odore della ginestra, non è, nota
Severino, né l’amore universale né una forma d’amore riconducibile alla tradizione teologico-metafisica
dell’Occidente18. L’amore che costituisce l’apice della
riflessione leopardiana non ha un fondamento metafisico, bensì poetico. La poesia fonda l’etica risemantizzando il concetto stesso di amore.
Severino, come già Gentile, rivolge l’attenzione non
solo al contenuto della poesia ma alla forza con cui
questo viene espresso19, all’aspetto quindi che suscita
passione e partecipazione. In modo diametralmente
opposto a chi tenta di analizzare l’opera leopardiana distinguendo analiticamente l’aspetto filosofico da quello
propriamente poetico, Severino, così come Gentile,
vede nell’arte del Recanatese un tutt’uno, dove la filosofia svolge un ruolo poetico e la poesia uno filosofico.
L’effettiva elaborazione concettuale che Leopardi propone della sua filosofia ne costituisce solo una parte,
benché importante. L’altra è insita nella forza poetica
del verso che raccoglie, potenziandola e arricchendola,
l’analisi. Un rilievo simile è presente in Negri, il quale
Cfr. Ivi, p. 260.
Cfr. G. Gentile, Prosa e poesia nel Leopardi, 1919, adesso
in Id., Manzoni e Leopardi, cit., p. 172: «Vero è che per leggere
Leopardi non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma
al modo piuttosto in cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui
propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore
della sua prosa»; cfr. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 261:
«la grandezza e la forza del canto, il profumo del canto (non il
suo contenuto!), proprio per il suo esser tale, si rivolge verso la
salvezza e porta con sé tutti gli uomini – e appunto per questo è
“consolazione” e “amore”».
18
19
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
171
ravvisa la grandezza di Leopardi nella potenza che
questi conferisce al desiderio e all’immaginazione,
potenza che si concretizza nell’amore. In Negri, tuttavia, l’aspetto della radicale contingenza della poesia
ha una valutazione estremamente positiva. Proprio
la mancanza di un perché del suo darsi è per Negri
garanzia della sua radicale novità, irriducibile all’orizzonte dell’essere attuale20. Perciò, nell’interpretazione
negriana, Leopardi non è un progressista, bensì un
rivoluzionario. L’attimo che la poesia strappa al nulla,
estremo sforzo votato al fallimento secondo Severino, è
il momento in cui, per Negri, il mondo diviene nostro,
determinando la possibilità di una alternativa, dell’azione etica ontologicamente costruttiva21.
Seppur ognuno seguendo i propri interessi e usando
una propria terminologia, Gentile, Negri e Severino
riconoscono nella potente sintesi di poesia e filosofia
sfociante nell’amore la peculiarità dell’arte leopardiana, la cui forza ontologica permette la fondazione della
dimensione etica. Mentre in Gentile la conoscenza
custodita nell’opera leopardiana si limita a una consapevolezza tragica trasfigurata nel sentimento della
Cfr. A. Negri, Lenta ginestra, cit., p. 300.
Cfr. ivi, p. 304: «La poesia è questo andare al punto più
profondo, è questo scavare e scoprire un tesoro vivo, un minerale
ricchissimo – che salta fuori dalla terra e innova la nostra produzione. La poesia è il mondo che diviene nostro, per un attimo,
per un tratto – lo possediamo intero, in quel momento, senza che
il possesso si trasformi in senso di potere – al contrario, consapevoli che quel rischiaramento dell’essere che si è determinato è
solo una possibilità di avanzare, e guardare, e costruire le deboli
resistenze di un amore che si vuole enorme e su questa enormità
si prova. Leopardi ci insegna questa divinissima umana atea via
di liberazione».
20
21
172
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
propria unicità in quanto esseri coscienti, Negri sviluppa l’aspetto rivoluzionario e politico della poesia
del Recanatese. Lo stretto legame tra creazione poetica, nulla e contingenza, interpretato da Negri come
la forza ontologica e demitizzante di Leopardi, è il
segno per Severino della sua appartenenza alla storia
del nichilismo occidentale.
L’inscindibile legame tra poesia e filosofia, la consapevolezza della contingenza radicale di tutte le cose,
la forza (in parte) salvifica e creativa dell’amore sono
costanti delle interpretazioni filosofiche sopra richiamate. Gentile, come abbiamo visto, evidenzia la nobiltà
romantica dello spirito del poeta che si ribella con decisione alla vanità di tutte le cose, in ciò ponendosi al
di sopra della insensatezza della natura; Negri, invece,
dà rilievo alla forza ontologicamente e politicamente rivoluzionaria che la filosofia-poesia leopardiana
sprigiona e alle implicazioni comunitarie dell’amore;
Severino, riprendendo entrambi questi aspetti, si focalizza sul carattere fallimentare a cui è votata l’opera
geniale del Recanatese, in quanto sublime e coerente
espressione del nichilismo ossia, per Severino, della
massima follia dell’Occidente. Concludiamo con una
bella pagina nella quale il pensatore bresciano mette
a fuoco il miracolo costituito dall’accadere dell’amore, miracolo che per Gentile esprime la nobiltà dello
spirito e per Negri coincide con la possibilità della
rivoluzione:
Se nella ginestra si considera soltanto il suo stare
di fronte al pericolo estremo, il suo essere visione
del deserto, cioè della nullità delle cose, la ginestra
non agisce, non ama, è un fiore che si trova legato
al deserto, è “contenta del deserto”, cioè limitata
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
173
ad esso, consapevole dell’impossibilità di evaderne.
Ma se si considera la grandezza e la forza di questa
visione – il profumo della fioritura, la grandezza, la
prosperità e l’ardimento dello stesso canto – allora
l’entusiasmo che il canto del genio accende è anche
azione, amore per gli uomini, partecipazione attiva
alla “guerra comune” contro il vero nemico colpevole. La forza, la grandezza e l’ardimento del canto
del genio, non solleva soltanto la mente, ma anche
la volontà. Il diventar “magnanimo” (v. 98) – l’ingrandirsi e sollevarsi dell’anima, quando essa è in
rapporto all’opera del genio – è appunto l’abbracciar
tutto con “vero amor”22.
E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., pp. 259-260. Subito
dopo Severino puntualizza che anche il “vero amore” è illusorio.
Cfr. ibidem: «[scil. il vero amore] appartiene all’illusione da cui
il canto non può staccarsi nemmeno quando ne scorge con totale
chiarezza il carattere illusorio», (in corsivo nel testo).
22
POESIA E FILOSOFIA:
DA GIACOMO LEOPARDI AGLI AUTORI
DEL SECONDO NOVECENTO
Giulia Venturi
Giacomo Leopardi viene considerato da molti studiosi e critici letterari il primo poeta moderno, sebbene questa osservazione appaia in netto contrasto con le parole
dello stesso Leopardi che spesso, durante la sua vita, si
è dichiarato in aperta rivalità con la modernità. Il poeta
affermava infatti con veemenza che proprio l’antichità
e il classico rappresentavano il porto sicuro dell’opera
lirica, poiché nella contemporaneità non era possibile
una qualsiasi forma di aderenza fra la poesia e la vita.
In Leopardi vi era dunque un rifiuto del proprio tempo
e una polemica forte nei confronti dei poeti romantici
che, al contrario, promuovevano la diffusione di un’opera
lirica in continuo dialogo con la propria epoca1. Questa
1
Cfr. Zib. 2944-2945: «Gridano che la poesia debba essere
contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere
i costumi, e fors’anche gli accidenti de’ nostri tempi […]. Ma io
dico che tutt’altro potrà essere contemporaneo a questo secolo
fuorché la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e
seguir le idee e mostrare i costumi d’una generazione per cui la
176
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
posizione ben chiarisce il particolare classicismo leopardiano e il suo attaccamento al canone della tradizione.
Tuttavia, paradossalmente, nonostante questa scelta
orientata verso l’antichità, la lirica di Leopardi comunica
con un linguaggio nuovo, eccezionalmente moderno.
Una delle novità introdotte da Leopardi è infatti la concezione della lingua poetica, che egli associa a «un modo
di parlare indefinito, o non ben definito, o sempre meno
definito del parlar prosastico volgare»2. Con questa definizione Leopardi intende ancora una volta distaccarsi
dai poeti romantici e rifuggire ogni possibilità di concretezza del poetico che, secondo la sua visione, non può in
nessun modo avere un contatto con la realtà povera della
sua epoca, ma si colloca in uno spazio indeterminato.
Tuttavia, come sottolinea Fernando Bandini,
è all’interno di questo eccezionale décalage fra l’attualità del testo poetico leopardiano e la contestualità
superiore della tradizione, che la lingua del Leopardi
realizza la sua originalità e la sua maggior durata
nei confronti di quella dei coevi romantici. Qui sta
il senso particolare che acquista il suo ricorso alla
tradizione: quanto più il poeta sembra separato e
lontano dalla pratica linguistica suggerita dai romantici per essere moderni, tanto più egli è vicino
alla moderna sensibilità della coscienza e in grado
di esprimere valori totalizzanti, di farsi portavoce
dei destini universali dell’uomo3.
gloria è un fantasma, la libertà la patria l’amor patrio, l’amor vero
è una fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite».
2
Zib. 1900-1901.
3
F. Bandini, La poetica leopardiana e il testo dei “Canti”, in
G. Leopardi, Canti, Garzanti, Milano 1999, p. XVII.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
177
La modernità di Leopardi non si ferma al linguaggio
poetico. Si può notare come nelle sue liriche, all’interno
dell’armonia di una versificazione tradizionale, si insinui spesso qualcosa che stride, che altera la regolarità di
queste strutture. Leopardi in effetti adotta con scrupolosa
attenzione le forme metriche classiche, ma con altrettanta
regolarità accade che egli le corroda. Spesso all’interno
di un endecasillabo troviamo gli accenti rimossi dalla
loro posizione tradizionale oppure riscontriamo come,
attraverso una fitta rete di assonanze, allitterazioni e rime
interne, egli crei delle rispondenze che logorano, dal punto di vista sonoro, la classicità pura del verso. Questo è
molto evidente ad esempio nella celebre canzone A Silvia,
che, non a caso, viene spesso considerata un testo poetico
«d’una novità formale sconcertante: Maurer parlerà di
dissoluzione dei singoli generi lirici, Carducci di “forma
senza forma”»4. La poesia infatti si distacca in modo
brusco dal metro classico amato da Leopardi e si concede
un certo margine di libertà nella misura delle strofe, nel
libero alternarsi di settenari ed endecasillabi, nelle rime
ora più rare ora più insistenti. Anche per quanto riguarda
lo schema metrico dei singoli versi la critica moderna sottolinea le peculiarità dell’accentazione «onde i settenari
non si leggono come tali (è proprio il caso dell’attacco) e
gli endecasillabi rifiutano la partizione interna»5.
Queste osservazioni contribuiscono in conclusione
«alla creazione di un linguaggio nuovo che s’impone
irresistibilmente sull’antico»6. Occorre allora interrogarsi
A. Bon, Invito alla lettura di Leopardi, Mursia, Milano 1985,
p. 96.
5
Ibidem.
6
D. De Robertis, Introduzione ai “Canti di G. L.”, Mondadori,
Milano 1978, p. XXXVII.
4
178
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
sul motivo di questo cambio di direzione all’interno della
lirica leopardiana. Come mai la modernità riesce a insinuarsi nei versi del poeta che da sempre ribadiva il suo
amore per il classicismo e il suo rifiuto per la modernità?
È necessario innanzitutto sottolineare che Leopardi è
innovativo non soltanto dal punto di vista formale. I versi
del Recanatese sviluppano infatti contenuti filosoficoesistenziali difficilmente affrontati in precedenza da poeti
italiani. Questo è particolarmente evidente all’interno
dei Canti, che rappresentano un coagulo inscindibile tra
pensiero e invenzione poetica. Le strutture tradizionali
predilette dal poeta non bastano più allora ad accogliere
la portata filosofica dell’espressione lirica, ma si adattano
a questi nuovi contenuti, cambiano forma dando vita a un
nuovo linguaggio poetico. A corrodere le strutture tradizionali è principalmente un lessico scientifico-filosofico
che inizia a serpeggiare fra gli idilli e una sintassi che procede per causali o ipotetiche, a imitazione del periodare
saggistico7. Nasce così «una poesia “impura”, stracolma
di umori meditativi, di pensiero, di vera e propria filosofia, quale non si era più rivista, in Italia almeno, dopo
Dante. E l’impurità della materia non può che riflettersi
sulla lingua, sicché il linguaggio dei Canti è sempre un
“linguaggio del vero”, linguaggio “pensante”»8.
La modernità dei versi leopardiani nasce dunque
dal particolare connubio tra la poesia, nelle sue strutture più classiche, tradizionali e pure, e la filosofia.
7
Vd. Canto notturno, vv. 107-112: «Quanta invidia ti porto! |
Non sol perché d’affanno | Quasi libera vai; […] | Ma più perché
giammai tedio non provi»; oppure La quiete dopo la tempesta, vv.
50-54: «Umana | prole cara agli eterni! | Assai felice | Se respirar
ti lice | D’alcun dolor beata | Se te d’ogni dolor morte risana».
8
A. Girardi, Lingua e pensiero nei Canti di Leopardi, Marsilio, Venezia 2000, p. 61.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
179
Questo nuovo poetare però mette Leopardi in una posizione alquanto scomoda, perché egli non può essere
definito banalmente poeta, ma nemmeno filosofo. Si
apre dunque grazie alla lirica dei Canti un’interessante
questione che pone l’attenzione sul rapporto tra filosofia e poesia. Da questo momento in poi si crea una fitta
rete di interventi di poeti, filosofi e critici letterari che
trovano nell’opera di Leopardi un punto di confluenza
e di attenzione, una possibilità di dialogo e di scambio,
ma anche di intuizione riguardo alle sorti che l’opera
poetica avrebbe avuto in Italia dopo Leopardi.
In particolare, questo genere di studi nasce in Italia
nel secondo dopoguerra, quando l’esperienza dell’ermetismo aveva assorbito e rielaborato la poetica innovativa
di Leopardi. Il trait d’union fra gli studiosi e letterati
che si sono avventurati nel rivendicare l’autenticità e
l’importanza della lirica filosofica di Leopardi per la poesia italiana a lui successiva è la polemica anti-crociana.
Infatti, coloro che si sono avvicinati in altre prospettive
allo studio delle opere del Recanatese l’hanno fatto in
opposizione all’estetica crociana, che dai primi anni
del Novecento dominava in modo invadente la critica
letteraria italiana9. Si diffonde dunque in quegli anni
un modo nuovo di leggere i Canti che si distacca dalla
concezione crociana che contrapponeva rigidamente la
filosofia alla poesia, il concetto all’intuizione.
A ben guardare già nel primo Novecento Giuseppe Rensi andava oltre tale contrapposizione. Nei suoi
Cfr. R. Bruni, Leopardi e la filosofia: Giuseppe Rensi e
Adriano Tilgher, https://www.leparoleelecose.it/?p=32568 (consultato il 9 gennaio 2020): «Croce, infatti, non riconobbe a Leopardi nessun valore filosofico, limitando il suo apprezzamento
per l’opera leopardiana al solo versante lirico-idillico».
9
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
180
scritti, ripubblicati recentemente in un’unica raccolta, l’autore definisce Giacomo Leopardi «uno dei più
grandi filosofi italiani (forse il sommo)»10 o anche «il
sommo filosofo d’Italia»11. Come sostiene Raoul Bruni, «oggi giudizi del genere sarebbero sottoscritti o
accettati da molti, ma nel contesto culturale dell’Italia
primo-novecentesca, egemonizzato dal neo-idealismo,
il solo fatto di considerare Leopardi un filosofo rappresentava di per sé una sovversiva eresia critica»12. Rensi
non si approccia soltanto nello specifico alla poesia
di Leopardi in modo totalmente nuovo, ma propone
inoltre la possibilità di una similitudine assai evidente
tra la figura del poeta e quella del filosofo. Nell’idea di
Rensi la poesia di Leopardi non ha soltanto una matrice
filosofica, ma dimostra quanto e come tra filosofia e
lirica ci siano grandi affinità e quindi lampanti possibilità di compenetrazione e dialogo. Secondo Rensi ciò
che da sempre ha portato a un distacco rigido fra queste due materie è la concezione erronea che la filosofia
sia scienza, sia verità, sia più simile alla matematica
che a una qualsiasi espressione artistica13. Al contrario
Rensi sostiene che l’arte come la filosofia non siano
G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, Zanichelli, Bologna 1921, p. 114.
11
G. Rensi, Apologia dello scetticismo, La Vita Felice, Milano
2011, p. 85.
12
R. Bruni, Leopardi e la filosofia, cit.
13
Cfr. G. Rensi, La filosofia come lirica, in Id., Leopardi,
Nino Aragno Editore, Milano 2018, p. 59: «Che non si leggano
più i vecchi scritti di astronomia e fisiologia e si studino invece gli
antichissimi libri di filosofia, significa che quelle sono scienze e
progressive, e quindi i vecchi autori rimangono esautorati; questa
non è scienza, riproduce sempre gli stessi motivi, ed è perciò che
i suoi scrittori (appunto come i poeti) non sono mai oltrepassati».
10
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
181
altro che un’interpretazione e successivamente una rappresentazione personale del mondo. Questa concezione
individuale della realtà, delle cose, delle persone viene
proposta dall’artista, dal poeta o dal filosofo attraverso
un mezzo di espressione che può essere un saggio come
una poesia. Perciò, afferma Rensi, «la metafisica è […]
lirica. Come la lirica esprime non una pretesa di verità
obbiettiva, ma un certo modo personale di sentire la
vita, di provare passione, di scorgere il mondo»14.
Successivamente Rensi si oppone anche a chi, individua nella pretesa di verità dei sistemi filosofici l’essenza della disciplina filosofica, che si pone in questo
modo al livello di una scienza e si distacca quindi
dalla creazione artistica la quale, anche laddove presenti spunti di pensiero metafisico, li propone in modo
frammentato, confuso. Lo stesso pensiero leopardiano in effetti si presenta in modo molto disordinato:
ogni canto esprime un pensiero filosofico distinto dal
precedente e autonomo, che certo non fa capo a un
disegno, un sistema ideato dal suo pensatore. A fronte
di questa osservazione, Giuseppe Rensi sostiene, però,
che il sistema è «soltanto la scoria o il cemento che
serve a tener uniti i soli pochi pensieri valevoli. Cosa
migliore e più schietta è dunque enunciare questi da
sé, staccati, come hanno fatto Leopardi e Amiel»15. In
quest’ottica, quindi, presentare le proprie speculazioni
in modo frammentario non impoverisce in nessuna maniera il proprio pensiero, anzi in parte lo rende meno
artificioso, più immediato e sincero.
Giuseppe Rensi quindi scopre grazie a Leopardi
un modo nuovo di filosofare, ma anche di far poesia;
14
15
Ivi, p. 64.
G. Rensi, La filosofia come lirica, cit., p. 95.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
182
e forse la vera modernità della lirica leopardiana è
da ricercarsi principalmente in questo nuovo modo di
pensare in versi, di riflettere con e attraverso la poesia.
Questa nuova concezione di lirica conobbe una grande
fortuna presso alcuni giovani autori italiani, stanchi del
“bello” proposto da Croce, poeti che avevano superato
i modelli dannunziani. Un ruolo molto importante in
questo modo innovativo di pensare e produrre versi
era stato rivestito senza dubbio dalle enormi catastrofi
storiche che avevano coinvolto l’intera umanità nella
prima metà del Novecento: le guerre mondiali avevano
certamente smosso le coscienze degli autori che non si
accontentavano più di una letteratura di intrattenimento, ma cercavano qualcosa di più profondo e riflessivo.
E chi meglio di Leopardi in questo contesto poteva far
loro da maestro?
Già dai primi decenni del Novecento quindi, in
concomitanza con la diffusione della nuova concezione
della poesia leopardiana da parte di Giuseppe Rensi,
si sviluppa questa nuova idea di filosofo-poeta, come
un individuo che non sa né conosce la verità, ma che
guarda il mondo e ne ricava un’interpretazione personale da condividere con i lettori attraverso un atto di
creazione poetica o, più in generale, artistica16.
Cfr. G. Rensi, Lettera IV, in Id., Lettere Spirituali, Fratelli
Bocca Editori, Milano 1943, p. 15: «Più si acquista la consuetudine
del pensiero filosofico, e più si tocca con mano che il filosofo è
artista. Non già uno che sa ma uno che guarda. Non uno che sa:
che conosce tutte le soluzioni che si sono date a un problema […].
Ma uno che guarda: che, cioè, come l’artista, ha una certa sua
visione personale delle cose e le esprime nel modo in cui le vede.
Così, egli fa, al pari del poeta, nei trattati i suoi poemi, nei saggi
o nei frammenti le sue liriche».
16
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
183
Uno dei primi autori novecenteschi che parla di
poesia filosofica e metafisica è Eugenio Montale. Il
poeta in un’intervista afferma che la sua opera potrebbe in qualche modo essere ricondotta proprio a questa
dimensione. Egli dice infatti: «C’è stata però, a partire
da Baudelaire e da un certo Browning, e talora dalla
loro confluenza, una corrente di poesia non realistica,
non romantica e nemmeno strettamente decadente, che
molto all’ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato
in quel solco»17. Tuttavia, poco più avanti Montale afferma: «Resti inteso che io non tengo molto nemmeno
al cartellino di metafisico»18.
Il poeta quindi non fa in tempo a posizionarsi tra
i poeti filosofi che subito si distacca da questa definizione. Probabilmente Montale non voleva apporsi
quest’etichetta da solo, ma in ogni modo queste sue
parole fanno intendere che il celebre autore non era
del tutto indifferente a questa nuova concezione della
creazione poetica. È interessante notare inoltre che
Montale nel suo discorso fa riferimento a Browning, lo
stesso autore che Giuseppe Rensi menziona all’interno
del saggio Intuizione e concetto. Metafisica e lirica,
proprio annoverandolo fra gli esempi di poeta filosofo: «Per esempio forse Lucrezio e Leopardi, SullyPrudhomme e Browning tutti poeti che hanno voluto
dar espressione nei loro versi […] essenzialmente alla
conoscenza di universali e di concetti»19. Questo fatto
potrebbe suggerire che Montale in qualche modo fosse
a conoscenza degli scritti di Rensi e che nel parlare di
E. Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, p. 581.
Ibidem.
19
G. Rensi, Intuizione e concetto. Metafisica e lirica, in Id.,
Leopardi, cit., p. 76.
17
18
184
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
poesia filosofica ne fosse stato naturalmente suggestionato. Tuttavia questa è soltanto un’ipotesi e il rapporto
tra i due autori non è mai stato approfondito. Inoltre,
sempre all’interno di questa intervista, il poeta elabora
un’ulteriore riflessione che ha degli evidenti punti di
contatto con le teorie di Rensi. Egli infatti riconsidera le sue precedenti riflessioni in merito al rapporto
tra filosofia e poesia, che vedevano queste due discipline distinte se non opposte. Questo tipo di divario,
secondo Montale, non è più facilmente possibile nel
suo tempo in cui la filosofia metafisica sta scomparendo per lasciare spazio all’arte e a una speculazione
non sistematica, a un insieme di idee frammentario
e decisamente poco coeso che si incontra facilmente
nelle opere letterarie e in particolare nella creazione
poetica20.
Montale, in dialogo con Rensi, prevede dunque una
diffusione capillare della poesia filosofica e metafisica
più conforme alla propria epoca rispetto alla poesia
tradizionale e alla filosofia metafisica come si era intesa
fino a quel momento. In effetti Montale non sbaglia,
poiché è noto che la lirica delle generazioni poetiche
successiva alla sua sia intrisa di pensiero, di speculazioni filosofiche assai complesse e difficilmente decifrabili. Sono soprattutto i poeti ermetici di seconda e
terza generazione che adottano naturalmente, ma forse
anche suggestionati dalle riflessioni di Montale, loro
20
Cfr. E. Montale, Sulla poesia, cit., p. 582: «Nella frase da
voi citata io distinguevo l’arte dalla filosofia (teoretica); ma esistono poeti più filosofi dei filosofi: per esempio Dostoevskij. In
questi anni assistiamo al crollo della filosofia metafisica; magari
risorgerà, ma quando? Il posto della metafisica è stato occupato
dall’arte o dalla speculazione non sistematica».
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
185
indiscusso maestro, questo nuovo modo di poetare.
Tuttavia, questo certamente non sarebbe stato possibile
senza il magistrale esempio di Leopardi.
Il poeta ermetico che più degli altri abbraccia l’idea di poesia filosofica di cui parla Montale nella sua
intervista è Piero Bigongiari e non è certamente un
caso che egli lo faccia dopo uno studio accurato e
approfondito dell’opera leopardiana. Il poeta infatti
ha sempre dimostrato, durante tutta la sua carriera
letteraria, un grande interesse per la figura di Giacomo
Leopardi, che manifestò già in giovane età laureandosi
nel 1937 all’Università di Firenze con una tesi intitolata L’elaborazione della lirica leopardiana. Anche
successivamente Bigongiari si occupò del lavoro di
Leopardi, riprendendo e rielaborando riflessioni in
parte già contenute nella sua tesi di laurea. Gli scritti
sul poeta di Recanati sono molti e si dispongono in un
lungo arco di tempo che ci fa capire che l’interesse di
Bigongiari per Leopardi rimane costante durante tutta
la sua vita. Questa fascinazione per la lirica leopardiana ha senza dubbio delle ripercussioni sulla riflessione
di Bigongiari intorno al concetto di poesia. Infatti, i
suoi saggi su Leopardi sono raccolti all’interno di un
volume, La Poesia pensa21, che contiene inoltre alcune
considerazioni da parte di Bigongiari sul proprio modo
di fare poesia.
Il titolo di questo volume prende il nome proprio
da uno dei saggi su Leopardi, quasi a mettere in luce
un ruolo di preminenza di quest’autore sugli altri. La
poesia pensante d’altronde è un concetto centrale nella
riflessione bigongiariana ed è di particolare interesse
21
Vd. P. Bigongiari, La poesia pensa. Poesie e pensieri inediti.
Leopardi e la lezione del testo, Leo S. Olschki, Firenze 1999.
186
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
notare che questa idea nasca da un lavoro intorno ai
Canti di Leopardi. Bigongiari inizia le sue considerazioni affermando che: «ogni canto successivo non
somiglia mai al precedente, nel senso che occupa uno
spazio, come ho accennato, direi psichico e mentale
e riflessivo della cui millimetrica modificazione, non
possiamo fare a meno, perché altrimenti finirebbe per
rompersi l’anello costruttivo, questo anello tra riflessione e invenzione che […] in Leopardi è assolutamente necessario»22. L’idea centrale è quindi che non
si possa parlare, per quanto riguarda Leopardi, di una
poesia distaccata dalla riflessione filosofica, ogni lirica
è riconducibile a un pensiero definito, a un concetto,
un’immagine. Questa prima considerazione lo porta
a concludere «Io se dovessi scrivere un libro di questa
fatta, lo intitolerei, La poesia pensante, perché la poesia di Leopardi è veramente il momento fondamentale
di questo coagulo, di questo qualcosa di assolutamente
unitario e inscindibile che tra il pensiero e l’invenzione poetica sussiste» e ancora «parlare di una filosofia
leopardiana distaccata dalla poesia è qualche cosa di
innaturale, come è qualche cosa di innaturale pensare
alla poesia come distaccata da questa filosofia»23.
Piero Bigongiari parla dunque di una felice unione
tra poesia e filosofia nella lirica leopardiana. Nei Canti
la filosofia è lirica. Questa affermazione non può che
rimandare nuovamente alle parole di Giuseppe Rensi.
Inoltre Bigongiari parla anche di frammentarietà del
pensiero leopardiano, tematica anche questa affrontata
ampiamente dal filosofo all’interno del saggio Filosofia
22
P. Bigongiari, I Canti come voce desiderante dell’io, in Id.,
La poesia pensa, cit., p. 82.
23
Ibidem.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
187
e lirica. Nella riflessione di Bigongiari, come in quella
di Montale, sembrano quindi esserci evidenti punti di
contatto con il pensiero rensiano. Tuttavia, quello che
più conta, con o senza l’influsso di Rensi, è che qualcosa di unanime era cambiato all’altezza del Novecento
nel modo di concepire la poesia di Leopardi, ma anche
nel modo di concepire la poesia tutta. Infatti, Bigongiari non si limita allo studio della poesia pensante dei
Canti, ma vuole che la sua poesia, anzi che la poesia
di tutta la sua generazione, pensi.
La lirica di Bigongiari, infatti, sarà generatrice di
pensiero, di idee, come il poeta rende noto in un suo
saggio, La poesia, una Weltanschauung: «Non è una
filosofia che muove la mia scrittura. Se mai è vero il
contrario: è la mia scrittura, è il pensiero lirico che
muove una “filosofia”»24. Questo ci fa capire che quindi
esiste una filosofia anche nelle opere di Bigongiari, ma
non è il punto di partenza della scrittura del poeta,
semmai il punto di arrivo. Questo perché la poesia ha
un ruolo fortemente attivo, non è un mezzo attraverso
cui spiegare o chiarire un concetto filosofico o un pensiero, ma qualcosa che al contrario genera l’idea, che
nasce, cresce e muore quasi simultaneamente all’interno del processo creativo dell’autore.
In Bigongiari i rapporti tra poesia e filosofia si fanno quindi sempre più stretti, la compenetrazione fra le
due discipline più profonda. Al contrario di Rensi infatti Bigongiari pensa che la poesia non sia banalmente
il mezzo espressivo della filosofia, ma sia generatrice
del pensiero filosofico che non nasce prima di lei, ma
nasce con lei e in lei.
24
P. Bigongiari, La poesia, una Weltanschauung, in Id., La
poesia pensa, cit., p. 205.
188
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
C’è da ricordare però che quello di Piero Bigongiari
non è un caso isolato. Ad abbracciare questa concezione di lirica come generatrice di pensiero sono molti
poeti della sua generazione. La poesia era diventata
per questi giovani letterati una cosa davvero seria, un
modo di parlare e di pensare. Come scrive Carlo Bo,
autore contemporaneo a Bigongiari: «a questo punto
è chiaro come non possa esistere – se non su una carta
ormai abbandonata di calcoli e di storie letterarie –
un’opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutte
e due e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi
di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità
di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad
attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci
superi o ci soddisfi»25. La letteratura è dunque scoperta, la poesia è indagine della realtà: in queste parole è
definitivamente sancita l’unione tra poesia e filosofia
che da Leopardi approda e si diffonde radicalmente
fra i poeti italiani del Novecento.
L’esigenza di questa unione viene ancor meglio
esplicata all’interno del saggio Il Pensiero poetante
di Antonio Prete. Anch’egli in questo scritto molto
celebre rivolge la sua attenzione alla lirica leopardiana
ed elabora il concetto di “pensiero poetante” che, anche
soltanto per assonanza, rimanda in modo molto immediato all’idea di poesia pensante di Bigongiari trattata
in precedenza. Difatti sostanzialmente la riflessione è
la stessa: il pensiero poetante nasce secondo Antonio
Prete dalla necessità delle generazioni novecentesche
non di una nuova poesia o di una nuova filosofia, come
si era erroneamente pensato in precedenza, ma di una
25
C. Bo, Letteratura come vita, in D. Valli, Storia degli ermetici, Editrice La Scuola, Brescia 1978, p. 225.
lungo il confine trA filosofiA e poesiA
189
poesia che incontri e sposi la filosofia26. Sempre in
aperta critica col crocianesimo Prete accusa il sapere
occidentale di essere «un sapere fondato sulla recinsione dei campi, un sapere-potere»27, quindi un sistema che non permette le contaminazioni tra discipline,
ma quella tra poesia e filosofia è una contaminazione
naturale e questo fatto è evidente nelle generazioni di
poeti italiani del Novecento. Leopardi in questo era
stato certamente precoce, aveva colto con sensibilità
di grande intellettuale questa possibilità di scambio
fra i due saperi e l’aveva attuata all’interno dei Canti
e teorizzata in parte all’interno dello Zibaldone28.
Leopardi aveva dunque insegnato un modo nuovo
di poetare stravolgendo le forme classiche, dilatando le strutture cristallizzate dalla tradizione in modo
che queste potessero finalmente accogliere il pensiero.
Questo modo di operare era necessario ai poeti italiani
del Novecento che, di conseguenza, lo accolgono e lo
approfondiscono fino a proporre una lirica che nasce da
una compenetrazione ancora più profonda tra filosofia
e poesia. Non a caso le strutture poetiche tradizionali
prese in adozione da questi autori si corrompono fino
Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante, Feltrinelli, Milano 1980,
p. 87: «Ciò che il tempo della crisi richiede non è né l’invocazione della filosofia, di una nuova filosofia, né della poesia, di
una nuova poesia: esso richiede l’incontro tra pensare poetante
e poesia pensante».
27
Ibidem.
28
Vd. Zib. 1833: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, d’eroismo, di illusioni
vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso
sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto
o sentito i poeti non può assolutamente essere un grande, vero e
perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato».
26
190
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
a non farsi più riconoscere, il linguaggio lirico si fa
sempre più prosastico e il lessico più tecnico e meno
aulico.
Giacomo Leopardi trasmette così ai poeti contemporanei un modo di leggere e fare poesia che, con le
sue controversie, si contraddistingue per la sua durevolezza. Per cui la Ginestra nella primavera del 1836 e
nella magistrale lettura di Elio Germano a conclusione
del film Il giovane favoloso nel 2015 cattura il pubblico
con la stessa intensità. Una poesia così connessa all’interiorità, alle proprie considerazioni, al proprio modo
di vedere il mondo non può esaurirsi in un determinato
momento storico: è una poesia che non si storicizza.
Come sottolinea Piero Bigongiari in riferimento alla
poesia di Leopardi: «questa credo sia l’unica, vera
storicità di una poesia: poesia non di commento, ma
d’invenzione, sorpresa dunque ogni volta, e ogni volta
messa in forse dal suo stesso esistere, dalla sua tentazione esistenziale»29 e questo sembra abbiamo appreso
i poeti italiani contemporanei, passando dall’interpretazione di Rensi, dalla poesia di Leopardi.
Ed è soprattutto per questo che Giacomo Leopardi
viene considerato da molti studiosi e critici letterari il
primo poeta moderno.
29
P. Bigongiari, Autoritratto poetico, Sansoni Editore, Firenze
1985, p. 22.
La potenza dell’immaginazione
nel campo delle scienze e dell’etica
IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE:
VAILATI E LEOPARDI
Luca Natali
1. Vailati lettore di Leopardi
Che Giovanni Vailati1 fosse un fine e assiduo frequentatore dei testi “classici” di ogni disciplina che
1
Il presente contributo è stato ideato e portato a termine
nell’ambito delle ricerche sulla filosofia italiana contemporanea
sviluppate grazie a un assegno finanziato dal Progetto di Eccellenza del Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università
degli Studi di Milano. Per uno sguardo d’insieme sulla vita e le
opere di Vailati è utile tenere presente almeno: A. Santucci, Il
pragmatismo in Italia, il Mulino, Bologna 1963, pp. 156-215; M.
Quaranta (a cura di), Giovanni Vailati nella cultura del Novecento,
Forni, Sala Bolognese 1989; M. De Zan (a cura di), I Mondi di
Carta di Giovanni Vailati, Franco Angeli, Milano 2000. Strumenti
indispensabili per lo studio della personalità e il pensiero vailatiano sono il volume Scritti di G. Vailati (1863-1909), Barth-Seeber,
Leipzig-Firenze 1911 (d’ora in poi citato come Scritti), da integrare
con l’edizione G. Vailati, Scritti, a cura di M. Quaranta, 3 voll.,
Forni, Sala Bolognese 1987; l’ampia selezione dell’epistolario
contenuta in G. Vailati, Epistolario (1891-1909), a cura di G. Lanaro, Einaudi, Torino 1971 (d’ora in poi citato come Epistolario);
194
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
incontrasse il suo interesse, è non solo testimoniato
dalla sua multiforme produzione, ma è stato esplicitamente dichiarato, sia da chi ne ricordava la figura
amica dopo la morte, sia da chi, nel revival vailatiano
del secondo dopoguerra, tentava di fissare le prime
coordinate storico-critiche del rapportarsi del filosofo
cremasco con alcune tra le più eminenti figure della
storia del pensiero2. Tra i nomi delle personalità, più
o meno intensamente frequentate da Vailati, che si
possono leggere nelle pagine dei suoi lettori critici,
risulta essere quasi del tutto assente quello di Giacomo Leopardi. Autore che Vailati, a dispetto di questa
circostanza, lesse, citò e discusse, seppure, certamente,
non con la penetrazione e l’intensità rivolta ad altre
figure intellettuali3.
l’inventario dell’Archivio Vailati (AV) e della Biblioteca Vailati
(BV) in L’archivio Giovanni Vailati, a cura di L. Ronchetti, Cisalpino, Bologna 1998.
2
Cfr. per es. U. Ricci, Giovanni Vailati, «Giornale degli Economisti», 38 (1909), pp. 627-630; E. Garin, Giovanni Vailati nella
cultura italiana del suo tempo, «Rivista critica di storia della
filosofia», 18 (1963), pp. 275-293; S. Marcucci, Alcuni giudizi di
Vailati su “classici” della filosofia, «Rivista critica di storia della
filosofia», 18 (1963), pp. 354-362.
3
Un’eccezione degna di nota è rappresentata dal paragrafo
4.8.5 di M. De Zan, La formazione di Giovanni Vailati, Congedo,
Galatina 2009, pp. 262-266, tutto dedicato alla presenza di Leopardi nell’opera, edita e inedita, di Vailati. Il fulcro della disamina
di De Zan è costituito da alcune recensioni apparse tra il 1899 e il
1902; egli ricorda rapidamente però, anche i «taccuini di massime
redatti da Vailati», in cui, eccezion fatta per Machiavelli, «l’unico
[…] autore italiano citato è Giacomo Leopardi» (ivi, p. 263). Con
l’espressione «taccuini di massime» l’autore intendeva riferirsi a
quelli composti, secondo l’inventario dell’AV, tra il «maggio del
1883» e il «giugno del 1884» (ivi, p. 254), ma nella sua descrizione dei contenuti relativi agli estratti da Leopardi, egli doveva
lA potenzA dell’immAginAzione
195
Le carte manoscritte e i volumi posseduti da Vailati
testimoniano con certezza il suo interesse nei confronti
del Recanatese e – il che è decisivo – l’attenta lettura
dell’opera leopardiana. Un’attestazione di tale atteggiamento è rinvenibile già in un appunto autografo,
minimo ma significativo, contenuto in uno tra i più
datati Notes vailatiani. La stringata indicazione bibliografica in esso presente, nasconde, forse, l’intenzione
di concentrarsi (o di tornare) sulle pagine di Leopardi:
alla c. 7r si può leggere infatti «Leopardi Pensieri»4.
Ove essa sarà, con ogni probabilità, da ricondurre alla
raccolta leopardiana omonima, edita postuma nel 1845,
fatto che sembrerebbe trovare conferma tra gli scaffali
della Biblioteca Vailati, in cui è conservata una copia
della quinta edizione (1883) delle Prose di Giacomo
Leopardi, contenente appunto, alle pp. 203-250, il testo
dei Pensieri5. È un esemplare, acquistato probabilmente nel giugno 18846, che riporta un buon numero di
riferirsi particolarmente, visti i contenuti citati (cfr. ivi, p. 263),
al quaderno di cui in AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”.
4
Cfr. AV, cart. 26, fasc. 249, “ottobre 1881”. Per gran parte dei
Notes inventariati, nel volume L’archivio Giovanni Vailati e sulle
camicie archivistiche del nuovo condizionamento, viene fornita
una titolazione ricavata da argomenti interni (per la massima
parte datazioni autografe). Il taccuino in questione si presenta,
in realtà, assai composito per quanto riguarda modalità e tempi
di composizione, registrando anche l’assenza di alcune pagine e
l’inserzione di altre, riconducibili evidentemente a strati testuali
differenti. Si cfr. per es. la c. 5r in cui si trova scritto «Systeme
de Logique 1894».
5
Si tratta di Prose di Giacomo Leopardi con le notizie della
sua vita, 5a Edizione stereotipa, Sonzogno, Milano 1883. Cfr. BV,
segn. 3L.GV.E.148.
6
Cfr. il frontespizio, su cui Vailati appunta: «Giugno 1884».
È però da registrare che la lettura (o rilettura) di alcune Operette
196
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
interventi autografi, la cui natura è variegata; semplici
sottolineature o segnalazioni a margine si alternano a
postille, più o meno ampie, con integrazioni e osservazioni. Sono soprattutto queste ultime a destare un certo
interesse, in quanto non si limitano a riassumere il
pensiero leopardiano con brevi sentenze riepilogative,
come comunque in più occasioni accade, ma registrano anche punti controversi, mettono in luce aspetti di
non immediata e piana comprensione, o, infine, fanno
emergere incongruenze o idiosincrasie nei confronti di
determinati atteggiamenti intellettuali7. In riferimento
a particolari temi queste note risultano poi ripetute
e/o maggiormente estese, manifestando al contempo
il carattere dell’interpretazione teorica vailatiana nei
confronti di Leopardi e, dappresso, i temi percepiti dal
filosofo come più sentiti: l’antiteleologismo, la netta
critica della modernità e la particolare teoria del piada parte di Vailati è indicata tramite datazioni autografe risalenti
al 1896 e 1898.
7
Come esempi di ciascuna di dette categorie si possono
prendere i seguenti casi. Sotto il titolo dell’operetta di Malambruno, così Vailati riepiloga il tema dello scritto: «insaziabilità
dei desideri umani»; leggendo gli ultimi capitoli del Parini non
può poi fare a meno di sottolineare come, nel testo leopardiano, «manca il Social Standpunkt [sic]»; trae poi, dalla pagina
della Storia del genere umano, ove si dichiara che «gli uomini
oppressi dai morbi e dalle calamità, fossero meno pronti che
per l’addietro a volgere le mani contra se stessi», il concetto
che «una delle cause dell’aumentare dei suicidi è l’accrescersi
della sicurezza personale»; infine, con evidente sarcasmo, interviene sul seguente segmento testuale di Pens. XXX: «Come
suole il genere umano, biasimando le cose presenti, lodare le
passate», sostituendo, in interlinea superiore, «genere umano»
con «Leopardi». Cfr., per quanto precede, BV, 3L.GV.E.148, pp.
47, 108, 25, 218.
lA potenzA dell’immAginAzione
197
cere8. Ma su più fronti teoretici Vailati pareva attratto
dal Recanatese, come dimostrano altri autografi.
Che la lettura delle Prose avesse infatti lasciato
un segno e che il pensiero leopardiano non fosse stato
derubricato da Vailati a dilettantismo filosofico o a
semplice estrinsecazione della sofferenza intima, è
confermato da due quadernini di appunti iniziati probabilmente attorno al 18839. Essi, insieme a un gran
numero di citazioni da diversi autori, spesso raggruppate per tema, riportano diversi excerpta dalle Prose,
tra cui si possono riconoscere passi delle Operette
morali, dei Volgarizzamenti in prosa e, per la massima parte, dei Pensieri, il che già rivela un’attenzione
prevalentemente rivolta all’aspetto filosofico del dettato
leopardiano. Per limitarci ad alcuni esempi: sotto la
titolazione «Struggle for life», Vailati raccoglie due
passi dai Pensieri C e CI, in cui è proprio il tema della
lotta per l’esistenza a risaltare, secondo una prospettiva
eminentemente “sociale”, dove la similitudine tra la
società umana e la meccanica dei fluidi pare aver colpito uno spirito scientifico come quello del cremasco10.
Di un certo interesse, a ben guardare, è poi il giudizio
sulla natura della moltitudine e sull’atteggiamento nei
8
Sotto ai titoli delle Operette dell’Islandese e del Folletto,
Vailati appone, diversamente abbreviato, il termine «antiteleologia», mentre sotto al dialogo di un Fisico scrive: «non la vita
lunga è desiderabile ma la vita piacevolmente agitata e occupata»
(cfr. ivi, pp. 43, 68, 79).
9
Si tratta di AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”; AV, cart.
26, fasc. 252, “14 marzo 1884”. Quest’ultimo, oltre alla datazione
«14 March 1884» (cc. 39r; 41v), ne reca anche, alla c. 46r, una
seconda: «2 December 1883».
10
Cfr. per le due citazioni da C e CI, AV, cart. 26, fasc. 251,
“22 maggio 1883”, c. 32r-v.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
198
confronti di essa: qui sono i Pensieri LIII e LXXXIII
a parlare11, declinando la questione, per altro, secondo
una curvatura che riprende la dinamica della coppia
concettuale uno-molti, già fissata su carta col Pensiero
CI, e introducendo il problema, quanto mai sentito da
Leopardi, del rapporto col proprio pubblico12.
L’attrazione verso Leopardi, e, nello specifico, verso
il Leopardi prosatore filosofico, è confermata da un
taccuino datato 1898, in cui si trova la medesima indicazione stesa tempo addietro: «Leopardi Pensieri»13.
Che qui però la stringa testuale non sia da ricondurre
a un ulteriore ritorno alla raccolta omonima del ’45,
ma sia da mettere in relazione allo Zibaldone, è reso
praticamente certo dalla corrispondenza temporale tra
la datazione autografa del quaderno e l’uscita, risalente
a quel medesimo anno, della princeps dell’opera leopardiana, il cui titolo (Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura) poteva benissimo corrispondere a
quello sommariamente indicato da Vailati («Pensieri»).
Il fatto è, del resto, confermato dalla presenza, tra i
libri di Vailati, di quattro dei complessivi sette volumi
di quella prima edizione14. Si ponga, infine, l’attenzione
AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”, cc. 8v-9r; AV,
cart. 26, fasc. 252, “14 marzo 1884”, c. 8r.
12
Cfr. AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”, c. 8v. Cfr.
AV, cart. 26, fasc. 252, “14 marzo 1884”, c. 8r; Pens. LXXXIII.
13
AV, cart. 28, fasc. 265, “5 dicembre 1898”, c. 1r (che funge
anche da frontespizio al quaderno).
14
Così M. De Zan, La formazione di Giovanni Vailati, cit.,
p. 263: «nella biblioteca di Vailati non si conserva copia dell’edizione dello Zibaldone». Anche il catalogo della BV non riporta
indicazioni in merito, mentre attesta come presente il volume delle
Prose (cfr. L’archivio Giovanni Vailati, cit., p. 439). In verità tra gli
scaffali della sua Biblioteca sicuramente una parte dell’opera era a
11
lA potenzA dell’immAginAzione
199
su di una circostanza che, nella sua apparente banalità,
porta un altro argomento in favore dell’ipotesi che,
scrivendo «Pensieri», Vailati intendesse lo Zibaldone:
il terzo volume attesta alla sguardia anteriore il nome
del possessore, «G. Vailati», e, ragionevolmente, il
momento dell’acquisto, «Mai 99»15. Un’indicazione
questa che permette non solo di accostare, grazie alla
precocità di acquisto dimostrata, il taccuino del 1898
allo Zibaldone, testimoniando l’immediata attenzione
del cremasco per questo inedito (Vailati dovette essersi
procurato quasi subito i volumi, sia nel ’98 che nel ’99),
ma fa trasparire anche la sua continuità temporale.
Come nel caso del volume delle Prose sopra ricordato, Vailati, anche allo Zibaldone, seppure in forma
sensibilmente più diluita, non risparmia sottolineature
e glosse16; pochi sono però nel complesso, gli interventi che possono vantare un valore intrinseco; più
lui accessibile: cfr. BV, 3L.GV.E.338/1, 3, 6, 7. Si tratta di Pensieri
di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo Leopardi, Le
Monnier, Firenze, vol. 1 [1898], vol. 3 [1899], voll. 6-7 [1900].
15
Non ci si stupisca della notazione in lingua francese, il
poliglottismo di Vailati si esercitava spesso nei suoi taccuini e
nelle copie personali dei propri libri. Si veda ad esempio, per
restare nel contesto leopardiano, una postilla alle Prose, in cui,
riconoscendo tre autori («La Rochefoucauld, Pascal, Chamfort»)
come fonti del Recanatese, scrive: «Leopardis Quellen» (cfr. BV,
3L.GV.E.148, p. 238). Si consideri inoltre che al frontespizio del
volume (BV, 3L.GV.E.338/3) compare il timbro: « tipogrAfiA e
libreriA / chiAntore-mAscArelli / pinerolo», il che è perfettamente compatibile con la presenza di Vailati al liceo di Pinerolo,
proprio nel 1899; cfr. i carteggi con Alessandro Padoa (AV, cart.
5, fasc. 134) e Benedetto Croce, pubblicato in B. Croce-G. Vailati,
Carteggio (1899-1905), a cura di C. Rizza, Bonanno, AcirealeRoma 2006.
16
Cfr. per es. BV, 3L.GV.E.338/1, p. 341.
200
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
interessante risulta invece considerare con quale tipo
di sguardo si era avvicinato Vailati allo Zibaldone.
Egli si era dimostrato sensibile alle fini disquisizioni
etimologiche del Recanatese (cfr. il vol. VII) – quello
per il linguaggio e le sue trasformazioni era difatti un
suo campo d’indagine prediletto17 – e aveva compiuto
uno scavo, seppure solo abbozzato, inteso a rinvenire
tracce delle fonti filosofiche di Leopardi, come certifica
l’elenco composto sulla terza di copertina, dei nomi di
alcune personalità filosofiche che appaiono nel vol. III.
Un riflesso importante di tali letture si ha nella
produzione edita del cremasco, in cui, seppur rapsodicamente, Leopardi non è assente; fatto che autorizza
a riconoscere la sedimentazione del dettato leopardiano. L’impressione nella mente di Vailati di certe
sentenze dello Zibaldone è infatti incontrovertibilmente attestata già a partire dal 189918, quando egli,
17
Celebre la prolusione Alcune osservazioni sulle Questioni di
Parole nella Storia della Scienza e della Cultura, Bocca, Torino
1899, poi in Scritti, cit., pp. 203-228. Vailati aveva inoltre in preparazione, secondo quanto testimoniato da persone a lui vicine,
un’opera dedicata all’«analisi filosofica dei giuochi di parole, dei
motti e delle facezie» (Prefazione degli editori, in Scritti, cit.,
p. xi). Cfr. quanto scrive Quaranta nella Nota all’edizione degli
scritti di Giovanni Vailati, in G. Vailati, Scritti, a cura di M.
Quaranta, cit., p. LVII.
18
Cfr. Scritti, cit., p. 243. Si tratta di una recensione a D. Mobac [pseudon. di D. Comba], Genio, Scienza ed Arte e il Positivismo di Max Nordau, Streglio, Torino 1899. Curiosamente, qualche
anno prima, Vailati aveva criticato un certo modo di fare storia
letteraria, che esprime giudizi su personalità complesse a partire
dalla considerazione atomica di singole proposizioni, scrivendo:
«questa via, la quale del resto è battuta anche da critici di grido,
tra i quali basterà citare il troppo famoso Max Nordau, si potrebbe
giungere assai facilmente a provare che Shakespeare era un feroce
lA potenzA dell’immAginAzione
201
nella «Rivista di studi psichici», rivolgendosi contro
il dogmatismo positivistico che tanto deprecava19, usa
Leopardi20 per illustrare come tale atteggiamento sia
dipeso dalla mancanza di spirito critico e, in definitiva,
di un approccio compiutamente razionale21. Poco dopo
lo utilizzerà ancora, invitando i «giovani sociologi e
“filosofi”» troppo inclini a servirsi della terminologia
propria di campi disciplinari (matematica e fisica) padroneggiati in malo modo, a far proprio l’insegnamento
che «il miglior mezzo per celare altrui i confini della
propria scienza è quello di non oltrepassarli»22.
Più storiograficamente orientato è invece un altro
contributo vailatiano, dedicato precipuamente alla discussione di una monografia su Leopardi23. Qui non si
assassino, Wagner [un] erotomane incestuoso e Leopardi… un
pastore errante nell’Asia» (Scritti, cit., p. 49).
19
Cfr. A. Santucci, Il pragmatismo in Italia, cit., p. 161; M.
De Rose, L’educazione dell’intelletto. Il pragmatismo di Giovanni
Vailati, Guida, Napoli 1986, p. 34, nota 50.
20
Si richiama qui una categoria concettuale, correlata a quella
di interpretazione, che, in riferimento alle letture leopardiane del
Novecento filosofico italiano, ha introdotto M. Biscuso, Gli usi di
Leopardi, manifestolibri, Roma 2019, p. 7.
21
Vailati cita Zib. 1055 a p. 371 del vol. II [1898] della princeps.
Ciò fa supporre che egli possedesse non solo i quattro volumi
superstiti della BV.
22
Scritti, cit., p. 252; è una recensione a P. Rossi, L’animo della
folla, Riccio, Cosenza 1898, stampata nella «Rivista di Scienze
Biologiche» nel luglio 1899. Dove la fonte leopardiana non sarà
quindi Zib. 4482, la cui pubblicazione risale al settimo volume
della prima edizione [1900], bensì Pens. LXXXVI, che Vailati
poteva leggere nel volume citato delle Prose.
23
G. Cargnelli, Giacomo Leopardi, novello Epicuro, Era
Nuova, Palermo 1901. Vailati recensisce il libro per la «Rivista
popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali» nel febbraio 1902,
cfr. Scritti, cit., pp. 406-407.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
202
tratta di attingere ai testi per supportare una posizione assunta; l’obiettivo si sposta verso una valutazione
della specificità teorica del pensiero dell’autore, nel
contesto della quale Vailati, nel secondo capoverso
della recensione, rileva un avvenuto mutamento di
paradigma nella critica:
La soverchia attenzione che fu comunemente dedicata a quello che si potrebbe chiamare l’elemento pessimistico nel pensiero Leopardiano ha avuto infatti per
effetto che tutte quelle parti del suo contenuto che
si riattaccavano ad altre correnti filosofiche furono
lasciate, comparativamente, in ombra. Tuttavia il
parlare di «Leopardi ottimista» è ora, dopo che la
pubblicazione dello Zibaldone ha messo in vista le
intime influenze che esercitarono su lui gli scritti
del Rousseau e degli Enciclopedisti, qualche cosa
di assai meno paradossale di quanto sarebbe stato
una decina d’anni fa24.
Queste poche righe sottendono uno sguardo critico
che, nel cremasco, va oltre la mera necessità di parlare
del volume in oggetto. Egli rimarca come l’uscita dello
Zibaldone costituisca uno spartiacque nelle modalità di
avvicinamento alla filosofia di Leopardi e possa a buon
diritto determinare un vero e proprio capovolgimento
prospettico, esemplificato dall’opposizione ottimismopessimismo. Il che riflette, da un lato il carattere non
corsivo della lettura di Vailati, documentato dalla ricerca delle fonti25, e dall’altro la conoscenza della reazioScritti, cit., p. 406.
Vailati parla nel 1902, a proposito delle fonti leopardiane, delle «intime influenze che esercitarono su lui gli scritti del
24
25
lA potenzA dell’immAginAzione
203
ne suscitata dallo Zibaldone, fattore che dà la misura
dell’impegno vailatiano anche nello scandaglio della
letteratura critica. Sebbene infatti l’input per la lettura
e poi la disamina pubblica del saggio di Cargnelli sia,
con ogni probabilità, da attribuire a contingenze biografiche26, non si può ignorare il fatto che il cremasco
si trovi a proprio agio in quel quadro disciplinare, come
– è bene in ogni caso precisarlo – in molti altri, visto
il suo quasi proverbiale eclettismo27. Qui però Vailati
pare anticipare, in qualche misura, un dibattito che, nel
giro di pochi anni, diverrà piuttosto ampio e variegato.
Egli infatti, in anticipo sulla pubblicazione degli studi
che avrebbero dato il “la” alla stagione novecentesca
delle letture critiche zibaldoniane, parla dello Zibaldone come di un elemento di novità non aggirabile
Rousseau e degli Enciclopedisti», ma già nelle postille alle Prose
e allo Zibaldone aveva dato prova di una ricerca autonoma in
tale direzione. Si cfr. ad esempio, per il caso di «Rousseau», BV,
3L.GV.E.338/1, p. 106.
26
Il carteggio tra Vailati e un esponente di spicco della cultura
palermitana tra Otto e Novecento, Giovanni Amato Pojero, ci
informa della personale conoscenza tra il cremasco e Cargnelli.
Cfr. G. Vailati – G. Amato Pojero, Epistolario (1898-1908), a cura
di A. Brancaforte, Franco Angeli, Milano 1993, in part. pp. 74, 78,
88, 91, 97. Sappiamo inoltre, da una lettera di Vailati ad Amato
Pojero del 28 febbraio 1902, che Vailati inviò la «recensioncina» a Napoleone Colajanni, direttore della «Rivista popolare»,
nell’ottobre del 1901 (cfr. ivi, p. 92). Tra i libri della BV si conserva
anche un estratto di una recensione a Cargnelli: V. Graziadei, A
proposito di un nuovissimo libro su Giacomo Leopardi. Lettera
al Capitano G. Cargnelli, Estr. dal 6 fasc. – anno I. dell’Antologia
Siciliana, Palermo 1901. BV, 3L.GV.ML.G.41.
27
Si vedano i giudizi di G. Loria, Gli scritti di Giovanni
Vailati, «Rivista ligure», 33 (1911), pp. 146-150 e G. Papini, 24
cervelli, Studio Editoriale Lombardo, Milano 19173 [prima ed.
1912], pp. 274-276.
204
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
per una corretta e completa ricostruzione del pensiero
leopardiano. Se infatti il primo a servirsi criticamente
delle pagine dello Zibaldone fu il suo “editore” Carducci già nel 189828, si dovrà però attendere qualche
tempo perché vedano la luce i contributi di Zumbini,
Tocco, Giani, e Levi, tutti usciti tra il 1902 e il 191129.
Sono saggi che non determinarono una penetrazione
incisiva delle pagine dello Zibaldone nella critica letteraria nazionale, per la quale si sarebbe dovuto aspettare
sino ai primi anni del secondo dopoguerra30; tuttavia
essi rappresentano un capitolo, seppure marginale, non
certo senza importanza nell’economia della leopardistica, se non altro perché, per primi, rivendicarono
un ruolo centrale allo Zibaldone per la comprensione
della filosofia leopardiana, poi più a fondo indagata a
partire dagli anni ’2031.
Che Vailati, poco tempo prima (o nel medesimo
anno, se guardiamo a Zumbini), si fosse occupato delle
medesime tematiche, senza impegnarsi comunque in
una ricostruzione sistematica, e avesse colto immedia28
G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di
Giacomo Leopardi, Zanichelli, Bologna 1898.
29
B. Zumbini, Studi sul Leopardi, 2 voll., Barbera, Firenze
1902-1904 (si veda il cap. IV del vol. 1: Attraverso lo “Zibaldone”,
pp. 91-205); F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana,
nel volume collettivo Dai tempi antichi ai tempi moderni. Da
Dante al Leopardi, Hoepli, Milano 1904, pp. 565-581; R. Giani,
L’estetica nei “pensieri” di Giacomo Leopardi, Bocca, Torino
1904; G.A. Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi, Bocca,
Torino 1911.
30
Cfr. il giudizio di C. Colaiacomo, Zibaldone di pensieri di
Giacomo Leopardi, in Letteratura italiana, A. Asor Rosa (diretta
da), vol. 9, L’età moderna, Le opere 1800-1860, Einaudi, Torino
2007, pp. 323-327.
31
È la tesi di M. Biscuso, Gli usi di Leopardi, cit., pp. 17-20.
lA potenzA dell’immAginAzione
205
tamente l’importanza dello Zibaldone, è indicativo di
una predisposizione intellettuale che lo lasciava aperto
a tutti i campi del sapere, nella convinzione che la filosofia è, più che un sapere, un metodo, uno strumento
di conoscenza32; egli non disdegnava quindi di trarre
spunti teorici proficui, anche laddove non spirasse il
vento della filosofia in senso stretto. Anzi, Vailati si
dimostrò sempre assai più aperto, sicuramente anche a
causa della sua formazione, al mondo degli scienziati,
degli economisti, dei sociologi, che non a quello dei
filosofi di professione. Non faceva eccezione l’ambiente
filologico-letterario, tanto che egli, riflettendo sul tema
a lui caro dell’insegnamento, giunse a scrivere che il
«campo della filologia comparata» ha «più stretta attinenza colla filosofia e colla metafisica, che tutte le altre
scienze prese insieme»33. La lettura del settimo volume
dello Zibaldone orientata dall’interesse etimologico
può venire interpretata in questa direzione; esistono
però altri temi, soprattutto legati allo status esistenziale
dell’uomo, sui quali Vailati si era soffermato leggendo
Leopardi. Tra questi s’affaccia quello delle illusioni34 a
cui si connette un altro nodo concettuale leopardiano
essenziale: l’immaginazione, che anche in Vailati e
nella sua definizione di pragmatismo sembra trovare
32
Nel 1901 Vailati scrive che il compito della filosofia «non è
tanto di fare delle scoperte quanto piuttosto di prepararle, di provocarle, di farle fare, contribuendo coll’analisi, colla critica, colla
discussione a sgomberare la via che ad esse conduce, e fornendo i
mezzi o gli strumenti (ὄργανα) richiesti per superare gli ostacoli
che rendono difficile progredire in essa» (Scritti, cit., p. 352).
33
G. Vailati-G. Amato Pojero, Epistolario (1898-1908), cit.,
p. 91.
34
Cfr. AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”, c. 40v. Cfr.
AV, cart. 26, fasc. 252, “14 marzo 1884”, c. 4r.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
206
una funzione primaria nella corretta determinazione
del concetto di verità di un’asserzione.
2. Il ruolo dell’immaginazione nel contesto del
pragmatismo vailatiano
Una esplicita valutazione teorica della teoria pragmatista, o, meglio, dei pragmatismi, Vailati la fornisce
compiutamente in alcuni densi scritti usciti poco tempo
prima della sua morte e composti in collaborazione
con l’amico/allievo Mario Calderoni35. Nel primo di
questi, intitolato Le origini e l’idea fondamentale del
Pragmatismo, Vailati, affermando la natura non assoluta dei concetti di sostanza, materia e realtà, fissa il
principio peirciano del pragmatismo: «Il solo mezzo
di determinare e chiarire il senso d’una asserzione
consiste nell’indicare quali esperienze particolari si
intenda con essa affermare che si produrranno, o si
produrrebbero date certe circostanze»36, riconoscendo, conseguentemente, nella nozione di previsione il
cardine della teoria pragmatica del reale.
L’utilizzo dell’indicativo futuro e del condizionale
presente non è casuale. Essi, nelle pagine successive, si
scoprono individuare le due forme di previsione esplicitate: quella propriamente detta e quella, per l’appunto,
Su Calderoni è ancora utile vedere il fascicolo monografico della «Rivista critica di storia della filosofia», 34 (1979), pp.
243-426. Cfr. anche G. Villa, Sul pragmatismo logico di Vailati e
Calderoni: la questione delle varietà del pragmatismo, «Memorie
dell’Accademia delle Scienze di Bologna», 10 (1962), pp. 187213; Lettere inedite di Vailati a Calderoni, a cura di M. Volpato,
«Rivista critica di storia della filosofia», 37 (1982), pp. 82-92.
36
Scritti, cit., p. 920.
35
lA potenzA dell’immAginAzione
207
«condizionale»37. Dove la distinzione trova la propria
ragione nella diversa generalità delle proposizioni che
le esprimono: particolari per la prima e universali per
la seconda:
[U]na distinzione importante che occorre subito
rilevare è quella […] sussistente tra l’aspettarsi,
senz’altro, che qualche fatto avverrà, e l’aspettarsi
che qualche fatto avverrebbe, se qualche altro fatto avvenisse (previsioni condizionali). […] Questo
modo di presentare la distinzione di cui parliamo
ha il vantaggio di mettere in luce i rapporti che sussistono tra essa e quella fondamentale distinzione
tra asserzioni, che è indicata dai logici coll’opporre le proposizioni «particolari» alle proposizioni
«generali»38.
Al di là dei vantaggi logico-operativi di una tale
posizione, enucleati in apertura del secondo saggio: Il
Pragmatismo e i vari modi di non dir niente39, alcune conseguenze metafisiche emergono con forza. In
primis la relatività dei concetti metafisici di «realtà»,
«sostanza», «materia», come l’incipit berkeleyano attesta; essi «non indicano che determinate “possibilità
di sensazioni”»40, dove l’espressione virgolettata lascia
intravedere immediatamente lo sbilanciamento verso
la dimensione temporale del futuro imbrigliata nella
dinamica previsiva, riconosciuta come l’unica in grado
di ancorare a un terreno sicuro termini che, altrimenti,
Cfr. Scritti, cit., p. 925.
Ibidem.
39
Cfr. ivi, p. 933.
40
Ivi, p. 920.
37
38
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
208
non possederebbero un riferimento semantico certo.
Questo punto, in verità, Vailati lo aveva già toccato
nel 1896 recensendo le Populär-Wissenschaftliche Vorlesungen. Scriveva infatti:
Le leggi naturali sono, secondo il Mach, paragonabili
a dei caratteri tipografici che servono ad imprimerci
facilmente nella mente l’immagine del mondo reale, ed
egli mette in guardia contro il permanente pericolo che
questi caratteri divenendo, per effetto dell’abitudine,
stereotipi, riescano poi d’ostacolo alle nuove edizioni,
che il progresso delle scienze umane rende continuamente necessarie. Egli crede che perfino i concetti più
fondamentali della scienza moderna, ad esempio quelli
di materia e di forza, debbano piuttosto essere considerati come artifici provvisori, a cui la mente umana
ricorre, per facilitare a se stessa la descrizione e la comprensione dei fenomeni naturali, che non come segni
che rappresentino qualche cosa di oggettivo e di reale41.
Egli si doveva trovare in accordo con quel giudizio
di Mach, avendo scritto al cugino Orazio Premoli, nel
giugno dell’anno precedente, che «i veri rappresentanti della scienza moderna […] [d]ella parola materia
non si servono che come d’un segno comodo per designare una classe di fenomeni e distinguerli da altri
non meno importanti e reali»42. La discussione della
definizione di alcune nozioni, in particolare quella di
esistenza, nei termini di «possibilità di sensazioni», e
la conseguente negazione del loro carattere assoluto
a favore della costituzione correlativa nei confronti
41
42
Ivi, p. 44.
Epistolario, p. 37.
lA potenzA dell’immAginAzione
209
della dinamica della previsione, si ritrova anche molto
prima del saggio stampato nel 190943, segno che si è
di fronte a una prospettiva teorica da tempo isolata
dall’autore. Scrive Vailati a Bernardino Varisco nel
1902: «[A]nche a me pare accettabile […] l’ipotesi che
per le sensazioni altresí, come per gli oggetti materiali
si possa parlare di un “esse” distinto dal “percipi”.
Solo per me, questo “esse” non significa altro […]
che la “possibilità di essere percepite” (cioè la nostra
credenza che esse sarebbero state percepite dato che
altre condizioni supplementari fossero, o fossero state
presenti)»44. Lo schema è speculare a quello, giocato
sul piano squisitamente metodologico e incentrato
sul potere della deduzione45, introdotto a proposito
delle operazioni logico-matematiche delle scienze,
dove la questione essenziale non è tanto quella di
arrivare a determinare ciò che avverrà, quanto ciò
che avverrebbe date certe o certe altre condizioni di
partenza: «[N]on bisogna perder di vista che, anche
nelle scienze fisiche o meccaniche, ciò che si indica
col nome di legge non è tanto l’espressione di ciò
che avviene effettivamente quanto piuttosto di ciò
che tende ad avvenire, cioè di ciò che avverrebbe
se fossero verificate date circostanze, le quali ben
raramente o mai sono suscettibili di trovarsi perfet-
Cfr. per. es. Scritti, cit., p. 279 [1899] e 723 [1906].
Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931), a cura di M.
Ferrari, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 129.
45
Cfr. la prolusione al corso di Storia della Meccanica tenuto
all’Università di Torino nell’a.a. 1897-1898: Il Metodo Deduttivo
come Strumento di Ricerca, confluito poi negli Scritti, cit., pp.
118-148.
43
44
210
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
tamente realizzate»46. Che la realizzabilità effettiva
delle circostanze descritte sia un elemento derubricato come poco rilevante, la dice lunga non solo sulla
posizione teorica vailatiana nei confronti dell’impresa scientifica, ma anche sull’atteggiamento – e
si tratta della seconda conseguenza metafisica – nei
confronti del reale, ove con reale sarà da intendersi
ciò che, nell’apparato teoretico di riferimento, soddisfa (o non soddisfa) quelle date implicazioni assunte.
Non è certamente, quello di Vailati, un relativismo
gnoseologico e ontologico in cui possa venir meno
un punto di riferimento esterno all’impianto concettuale47; la teoria si rivolge sempre a dei fatti che essa
deve prevedere48; con la precisazione, però, che fatti
46
Così scrive Vailati recensendo l’Einführung in die Philosophie der reinen Erfahrung di Petzoldt, in Scritti, cit., p. 316.
Cfr. anche con Scritti, cit., pp. 396, 538. Un referente di primaria
importanza per questa concezione è, per Vailati, il testo di A.
Naville, Nouvelle classification des Sciences, Alcan, Paris 1901,
testo da lui posseduto (BV, 3L.GV.E.266) e recensito (Scritti, cit.,
pp. 429-439). Cfr. anche Scritti, cit., pp. 462, 538, 664.
47
Come Kant, Vailati ritiene che i mezzi per la conoscenza
della realtà (fenomenica) siano di natura concettuale, ma, al contrario del filosofo tedesco, egli crede che questi non siano puri e
immutabili, viceversa il risultato di una costruzione scientifica
sempre modificabile, perché sempre migliorabile nel suo essere
esplicativa del reale. La legge di causalità non è per lui una categoria dell’intelletto (e nemmeno l’espressione di un meccanismo
psicologico), è un modo di procedere, che si rivela utile nella
prassi scientifica (cfr. Scritti, cit., p. 635).
48
Chiede retoricamente Vailati al proprio lettore: «E non è
sempre forse nel rintracciamento di analogie di questo genere,
atte a permettere una rappresentazione sempre più coerente e
comprensiva dell’andamento dei fatti naturali, che consiste in
fondo ogni spiegazione non semplicemente verbale o formale, e
che meriti veramente il nome di “scientifica”?» (Scritti, cit., p.
lA potenzA dell’immAginAzione
211
vanno considerati anche le opinioni degli uomini o
le leggi delle teorie fisico-matematiche49. Assai note,
a proposito, queste righe:
[Il] mondo di carta di cui Galileo parla con tanto
disprezzo, il mondo delle idee e delle immaginazioni
umane, non è né meno reale, né meno sensibile, né
meno meritevole di studio e di diligente osservazione, di quell’altro mondo all’investigazione del quale
egli ha rivolto con tanto successo l’attività della sua
mente. Le opinioni, siano esse vere o false, sono pur
sempre dei fatti, e come tali meritano ed esigono di
essere prese ad oggetto d’indagine, di accertamento, di confronto, d’interpretazione, di spiegazione
precisamente come qualunque altro ordine di fatti,
e allo stesso scopo50.
Compare qui il termine immaginazione. Non incidentalmente verrebbe da dire, a giudicare almeno da
una trama di passi che mette in comunicazione questo
concetto con quello, ancora una volta, di previsione.
Non si deve tacere, in prima istanza, il fatto che,
già nel 1896, ancora nella recensione alle Vorlesungen
di Mach, comparsa nello stesso anno delle righe in
corpo minore che precedono, Vailati avesse fermato il
proprio sguardo sull’immaginazione come parte inte393). Non a caso Vailati pervicacemente rivendica la separazione
tra questioni di fatto e questioni di parole, riallacciandola alla
distinzione di Mill tra proposizioni verbali e proposizioni reali,
e, in second’ordine, a quella brentaniana tra rappresentazioni e
aspettazioni (cfr. Scritti, cit., p. 337).
49
Per la relativizzazione dei concetti di fatto e di legge cfr.
Scritti, cit., p. 433.
50
Scritti, cit., p. 65.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
212
grante del meccanismo della costruzione delle teorie
scientifiche. Seppure non si debba rimanere a esse legate come a delle verità monolitiche ed eterne (poiché
semplicemente non lo sono), le teorie di cui si fa uso
sono in grado – così glossava Vailati l’opera del fisico
austriaco – di indirizzare le nostre ricerche alla comprensione più piena dei fenomeni studiati; così i loro
caratteri rappresentativo e analogico non sono affatto
un elemento deteriore, anzi essi «pongono la nostra
fantasia e la nostra immaginazione al servizio della
nostra memoria, e fanno un ufficio analogo, sebbene
assai più importante, a quello delle figure di animali
o di personaggi mitologici di cui gli astronomi si servono per raggruppare le stelle in costellazioni»51. Il
fatto stesso che la previsione, più che l’osservazione,
assurga a momento chiave della scoperta scientifica52,
non lasciava dubbi circa la funzione dell’immaginazione, cosa che infatti viene puntualmente messa nero
su bianco nel 1901, nel contesto della rivendicazione
del valore dell’attitudine alla riproducibilità pratica
(mentale o effettiva) delle condizioni concrete dell’esperimento probante: «Il possesso d’un concetto, o la
cognizione d’una legge generale, non consiste solaIvi, p. 63.
Per una discussione della previsione in Vailati vanno viste
anche le prime lettere del carteggio con Papini (Epistolario, pp.
324-344) e la recensione a L. Limentani, La previsione dei fatti
sociali, Bocca, Torino 1907, in Scritti, cit., pp. 794-798. Si veda
inoltre l’ancora utilissimo lavoro di M.V. Predaval Magrini, Il
tema della previsione nel pensiero di Calderoni, «Rivista critica di storia della filosofia», 34 (1979), pp. 294-315. Certamente
uno spirito scientifico come quello del cremasco non poteva non
ascrivere all’osservazione un ruolo, comunque, di grande rilievo,
cfr. per es. Scritti, cit., p. 184.
51
52
lA potenzA dell’immAginAzione
213
mente in una disposizione a raffigurarsi o ad anticipare
coll’immaginazione il verificarsi d’una data relazione
tra fenomeni»53.
Lo stesso giudizio, seppure in un quadro interpretativo lievemente modificato alla luce dei più chiari
approdi pragmatisti di Vailati54, si ha nella penetrante
recensione di Erkenntnis und Irrtum del 1905. In essa,
accostando implicitamente il metodo, a lui caro, della
aspettazione condizionale, a quello machiano dell’esperimento mentale, Vailati viene infatti a rimarcare,
ancora e più incisivamente, come sia necessario, in
questi quadri procedurali
riconoscere la parte che […] è da attribuire alla elaborazione preventiva di teorie non ancora provate, alla
determinazione delle conseguenze d’ipotesi anche
notevolmente discordanti da ciò che sembra essere
la «realtà delle cose», all’impiego, infine, dell’immaginazione da una parte, della deduzione dall’altra:
queste due attività della mente che, ad onta della
nozione volgare che le rappresenta come opposte e
quasi escludentisi, hanno tra loro rapporti assai più
intimi e assai maggiori affinità di quanto ciascuna di
esse non ne abbia colle attitudini puramente passive
e recettive della mente, o colle qualità che dispongono questa a funzionare da semplice apparato reIvi, p. 349. È una recensione ancora a Mach, ma all’Analyse
der Empfindungen.
54
Cfr. M. Ferrari, Giovanni Vailati e l’epistemologia europea
del primo Novecento, in M. De Zan (a cura di), I Mondi di Carta
di Giovanni Vailati, cit., pp. 19-20. Il tentativo di fare di Mach, se
non un alfiere, almeno un alleato del pragmatismo è ben visibile
in Scritti, cit., pp. 669-670; cfr. anche ivi, p. 664, in cui al nome
di Mach vengono associati quelli di Naville e Peirce.
53
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
214
gistratore o tutt’al più classificatore, discriminatore,
digerente, dei dati che l’esperienza ci offre55.
Deduzione e previsione fanno sì che, nella filosofia
che Vailati ha disseminato in brevi lavori, sempre meno
si possa parlare di un referente in sé a cui guardare
nella costruzione dell’impianto scientifico interpretante il mondo. È piuttosto al mondo immaginato, alla
sua coerenza deduttiva e alle sue potenzialità pratiche
che è preferibile (e quindi necessario) guardare, nella
convinzione che la questione non è tanto su ciò che è,
ma su ciò che sarebbe se…
3. Un possibile dialogo con Leopardi
Nella grande messe delle diverse letture di Leopardi date dal Novecento filosofico italiano, non è
mancato chi ha ritenuto di individuare nella filosofia
del Recanatese i prodromi della grande stagione del
pragmatismo americano. Pasquale Gatti, in un corposo libro che ebbe una certa eco e che fu recensito
anche da Gentile56, pare infatti assai ben disposto a
questa rischiosa operazione culturale. Impossibile,
egli argomenta, negare che Leopardi abbia «precorso
Ivi, p. 668.
P. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo
Leopardi. Saggio sullo Zibaldone, 2 voll., Le Monnier, Firenze
1906. La recensione di Gentile apparve nel 1907 all’interno della
«Rassegna bibliografica della letteratura italiana», la si può leggere in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Sansoni, Firenze 19602,
pp. 31-44. Gatti tornerà anni dopo sul tema, rispondendo anche
a Gentile (cfr. P. Gatti, L’unità del pensiero leopardiano. Saggio
critico-polemico, Giannini, Napoli 1921).
55
56
lA potenzA dell’immAginAzione
215
di quasi un secolo una delle più recenti, oltre che la
più importante direzione del pensiero contemporaneo», identificata «dalla filosofia così detta della fede
e del sentimento e dal movimento pragmatistico»57.
Ma su cosa si fonda questa convinzione? Il suo accostamento, giunto in chiusura di un’opera sostanzialmente espositiva, è fondato, seppure velatamente,
sulla sinossi volontà-intelletto. Gatti crede di trovare
il punto di rottura del pragmatismo con la tradizione
nella sua considerazione della filosofia come «scienza
generale dei valori», avversa a ritenere il solo lato
intellettuale, a scapito di quello sentimentale, come
il fulcro della speculazione astratta. Così vede in
Leopardi un antesignano dell’antintellettualismo: la
ragione come dissipatrice di illusioni di Zib. 216 (e di
Zib. 115) è l’analogo della reazione antipositivistica di
certo pragmatismo, soprattutto spenceriano, e della
filosofia dei valori del neokantismo del Baden58. Ciò
che in Leopardi, come nei movimenti citati, sarebbe
Id., Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi, cit., vol. 2, pp. 272-273. Gatti ha in mente soprattutto
le opere di James e di pochi altri; accenna solo rapidamente
alla provincia italiana, nella quale il pragmatismo «è sostenuto
da una bella schiera di giovani filosofi», chiara allusione al
movimento del «Leonardo», al quale anche Vailati a suo modo
parteciperà (cfr. G. Lanaro, Vailati e il «Leonardo», in N. Badaloni et al. (a cura di), La storia della filosofia come sapere
critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Franco Angeli, Milano
1984, pp. 604-619).
58
Superfluo dire che la lettura gattiana non è storiograficamente avvertita; l’autore rivela di basarsi, per l’esame delle opere
di Balfour e James, su degli appunti da lui presi alle lezioni di
Alessandro Chiappelli durante l’a. a. 1904-1905, nell’Università
di Napoli (cfr. P. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di
Giacomo Leopardi, cit., vol. 2, pp. 277-278).
57
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
216
posto al centro della riflessione è non tanto l’oggetto
dell’esperienza, quanto il valore fondativo del nostro
giudizio; così «il valore di ogni principio razionale
[dovrà] essere misurato dalle conseguenze ch’esso
spiega nella vita», di modo che «il fondamento della
verità [sarà quindi] da ricercarsi nelle facoltà direttrici, nelle attività pratiche, cioè nella volontà e nel
sentimento»59. E ancora, citando Balfour, Gatti parla
della necessità per l’uomo di giungere a una «convenzione generale relativa all’ordine dell’universo ed
ai fini ultimi di esso», tale che risponda «ai bisogni
essenziali dell’umana natura»; il che, per attuarsi,
non necessita dell’accordo con la realtà del «sistema
ideale», in quanto non è grazie alla «verificazione
razionale» che degli assunti divengono credenze, ma
in pro della «forza» con la quale essi si presentano60.
Come non scorgere, osserva a questo punto Gatti,
l’affinità tra vedute di tal genere e quelle di Zib. 416,
in cui si dichiara consistere la «perfezione della ragione» non nella «cognizione della verità», ma nel suo
essere «stabile fondamento delle credenze», oppure
quelle di Zib. 408 e 426 e segg., in cui si inquadra
il cristianesimo come «fonte d’illusioni» e «mezzo
d’impedimento all’estremo esercizio della ragione»61.
Non poteva mancare poi un richiamo alla teoria del
Belief di James. Attorno al «bisogno di credere» Gatti
sviluppa un parallelo basato su Zib. 438 e segg., che
è poi quello che dal punto di vista teorico porta gli
argomenti più stringenti, elaborati a partire dal binomio cognizione-credenza:
Ivi, pp. 276-277.
Cfr. ivi, pp. 277-279.
61
Cfr. ivi, pp. 280-281 e note.
59
60
lA potenzA dell’immAginAzione
217
L’oggetto della cognizione è la verità; l’oggetto della
credenza è una proposizione credibile […]. La verità
dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna
sapere quali determinazioni a credere siano atte a
produrre una determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente) all’essere pensante e vivente;
e perciò quali determinazioni a credere, o sia quali
credenze, sieno atte a produrre la sua felicità62.
È quindi sul carattere operativo delle due concezioni che si sofferma l’autore. La credenza, come la
fede, alimentandosi da se stessa (è un fatto che produce altri fatti in cui trova la propria verificazione) è
un’ipotesi di lavoro e di vita, che fonda la possibilità
stessa dell’azione: la fede fornisce la forza della credibilità alle illusioni, «senza le quali non c’è felicità»
e che, sole, possono spingere ad «operare»63. Il metro
per misurare la bontà delle ipotesi è l’efficacia pratica:
il loro valore sta nella capacità di determinare effetti
positivi per il vivere, questo in buona sostanza il motivo teorico che, agli occhi di Gatti, fa di Leopardi un
pragmatista ante litteram.
Anche se andrebbe meglio precisato il giudizio storiograficamente sedimentato, che ancora oggi si trova
in molta manualistica, della maggiore vicinanza di
Vailati a Peirce rispetto a James, non è possibile traslare, in forma scientificamente plausibile, l’operazione
di Gatti sul terreno del pragmatismo del cremasco.
Il nesso tra volontà e conoscenza è portato avanti da
lui con altre modalità, avendo come referente anche
Zib. 438.
Cfr. P. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo
Leopardi, cit., vol. 2, pp. 288-289 e Zib. 115-117; 410-412.
62
63
218
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Brentano64; inoltre la lettura di Gatti indugia su aspetti
volontaristici che Vailati avrebbe con certezza rifiutato. In un altro senso però è possibile riscontrare in
Vailati, sempre attraverso James, quella connessione
tra desiderio e conoscenza, tra anelito e costruzione
teorica (e poetica), che è una delle cifre della filosofia
leopardiana. Nella sua recensione a Will to Believe,
Vailati – siamo nel 1899 – sembra accogliere, anche
se con qualche riserva meglio espressa in seguito65, la
tesi dell’«influenza perturbatrice» (anche in positivo)
della volontà nei confronti della «formazione delle
credenze e opinioni», nonché la possibilità che questa
agisca in modo tale da facilitare il realizzarsi di certe
situazioni66; egli giudica benevolmente anche l’aver
affermato energicamente che «nei processi di ricerca
scientifica l’arditezza nel costruire ipotesi è un elemento di successo non meno importante della prudenza nel
trarre le conclusioni»67. Certo Vailati, nel definire il
pragmatismo attingerà poi da Peirce, sottolineando per
giunta che è proprio la sua «regola metodica» a rendere
più «oggettiva» l’applicazione pragmatista dei concetti di verità e falsità; eppure la posizione jamesiana
64
Cfr. Scritti, cit., pp. 336-340. Su Vailati e Brentano si vedano
le lettere (The Brentano-Vailati Correspondence, a cura di R.M.
Chisholm, M. Corrado, «Topoi», 1 [1982], pp. 3-30) e gli studi di
A. Santucci, Franz Brentano e i pragmatisti italiani e F. Modenato, Conoscere e volere. L’incontro di Vailati e Calderoni con
Brentano, entrambi in L. Albertazzi, R. Poli (a cura di), Brentano
in Italia. Una filosofia rigorosa contro positivismo e attualismo,
Guerini, Milano 1993, pp. 21-66.
65
Cfr. Scritti, cit., pp. 284-285.
66
Cfr. ivi, p. 269; Epistolario, pp. 159, 341.
67
Scritti, cit., p. 270.
lA potenzA dell’immAginAzione
219
non smetterà di esercitare un certo influsso su di lui68.
L’aver dato risalto al momento attivo (contrapposto al
ricettivo) del processo intellettuale umano, esemplificato dalle «attività costruttive e anticipatrici»69, è un
merito che va a James riconosciuto e già nel 1898 era
forse questo elemento alla base del giudizio favorevole
sul suo utilizzo delle teorie come ipotesi di lavoro70.
Ed è certo su quest’ultimo concetto che Vailati, ben
più attento di Gatti a non fare di James un pragmatista
“magico”, può essere ancora accostato, in un certo
modo, a Leopardi.
Secondo questa visuale, il versante dell’immaginazione, che Gatti prende in considerazione solo
dal punto di vista leopardiano71, offre infatti qualche
possibilità di dialogo in più. Si tralascerà qui l’analisi
dell’aspetto più strettamente stilistico-letterario della
riflessione di Leopardi sull’argomento, consegnato al
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica72, per prendere di petto la declinazione in termini
razionali del pensiero immaginativo.
68
Sull’influsso peirciano si può consultare G. Silvestri, Peirce
e il pragmatismo italiano: quale influenza, in M. Quaranta (a
cura di), Giovanni Vailati nella cultura del ’900, cit., pp. 149-163.
Mentre sul rapporto Vailati-James cfr. quanto scrive M. Ferrari,
Heidelberg 1908. Giovanni Vailati, Wilhelm Jerusalem e il pragmatismo americano, «Giornale critico della filosofia italiana», 89
(2010), p. 21 e segg.
69
Scritti, cit., p. 283.
70
Cfr. Epistolario, p. 73.
71
Cfr. P. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo
Leopardi, cit., vol. 1, pp. 381-454.
72
Per una disamina del saggio, relativamente all’immaginazione, si veda il recente A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo
Leopardi. Agire e patire: analisi del sistema dello Zibaldone,
Mimesis, Milano 2019, pp. 271-276.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
220
Nel passaggio dalle note zibaldoniane più antiche
(Zib. 150 e segg.; 274 e segg.) alle successive l’attenzione sembra spostarsi da una ricerca delle diversità tra
immaginazione poetica e filosofica a una affermazione
della comune radice delle due73:
la facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali,
e caratteristiche qualità e parti dell’immaginazione.
Or questa facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle grandi verità.
E si può dire che da una stessa sorgente, da una
stessa qualità dell’animo, diversamente applicata, e
diversamente modificata e determinata da diverse
circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero
e di Dante, e i Principii matematici della filosofia
naturale di Newton74.
L’immaginazione è quindi un tratto comune a questi due ambiti disciplinari e a essi necessario, come da
lui precedentemente affermato: «[c]hi non ha o non
ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità
di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi,
di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso
sistema del bello, chi non legge o non sente, o non
ha mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente
essere un grande, vero e perfetto filosofo»75; non in
quanto la fantasia produca più verità del freddo raziocinio, ma poiché «[l]’analisi delle idee, dell’uomo, del
sistema universale degli esseri, deve necessariamente
cadere in grandiss‹ima› e principaliss‹ima› parte, sulCfr. ivi, p. 278.
Zib. 2132-2133.
75
Zib. 1833.
73
74
lA potenzA dell’immAginAzione
221
la immaginaz‹ione› sulle illusioni naturali, sul bello,
sulle passioni, su tutto ciò che v’ha di poetico nell’intero sistema della natura. Questa parte della natura,
non solo è utile, ma necessaria per conoscer l’altra»76.
Che sia necessaria «molta forza immaginativa» per
compiere progressi filosofici (cfr. anche il Parini) è
poi giustificato dal fatto che «la scienza della natura»
è una «scienza di rapporti» e «l’immaginazione è la
più feconda e maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti
e delle armonie le più nascoste»77; il tutto sostenuto
dall’assunzione della omogeneità ontologica tra natura e immaginazione78. Spesso, proprio per questo, le
grandi verità si affacciano all’uomo «sotto l’aspetto
delle illusioni e in forza di grandi illusioni», concepite, a volte, in stato entusiastico, di disperazione o,
addirittura, di ubriachezza79.
Difficile seguire Leopardi su questa via sperando
di trovare consonanze con l’asciutto metodo previsivo
vailatiano. Ma, come sopra, è solo questione di aggiustamento della prospettiva. Si considerino le parole di
Leopardi secondo cui, l’analisi, «in ordine alla filosofia», delle variegate forme del sistema della natura
«dev’esser fatta non già dall’immaginazione o dal cuore, bensì dalla fredda ragione che entri ne’ più riposti
segreti dell’uno e dell’altra»80. Il mondo del cuore e
dell’immaginazione di Leopardi è il mondo di carta
di cui parla Vailati e il cui studio, per entrambi, è necessario alla stessa comprensione della natura. Certo,
Zib. 1834.
Zib. 1836.
78
Cfr. Zib. 3242.
79
Zib. 1855.
80
Zib. 1834, cfr. anche Zib. 1841-1842.
76
77
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
222
nel cremasco l’esortazione all’analisi delle teorie storicamente determinatesi è circostanziata e prodromica
alla rivalutazione delle indagini di storia scientifica,
preoccupazione assente in Leopardi, interessato più a
porre al centro della propria disamina la dimensione
valoriale delle illusioni. Tuttavia il comune riferimento
euristico pare indicare un altrettanto comune indice di
orientamento nei confronti della potenzialità dell’immaginazione come complemento indispensabile al
corretto intendimento del mondo.
Il potere dell’immaginazione è, in Leopardi, legato
a doppio filo a quello delle illusioni e il suo carattere
emancipativo sta, appunto, nella ricchezza della produzione dei fantasmi, o larve (per usare un termine delle
Operette), responsabili della vivificazione dell’esperienza esistenziale81. Nell’arido vero della dimensione
razionale, in cui peraltro sembra spettare certezza alla
sola apposizione dubitativa82, ecco che le illusioni assumono un ruolo cruciale, esse
non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non dagl’illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia o possa essere veramente qualcosa, e
qualcosa di bello. Illusione capitalissima: e quindi il
mezzo filosofo combatte le illusioni perchè appunto
81
«La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende
la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo principalmente
d’immaginazione e d’inganno», scrive Leopardi in Pens. XXIX
e trascrive Vailati in AV, cart. 26, fasc. 251, “22 maggio 1883”, c.
41r. Un testo esemplificativo in questo senso è certamente la Storia
del genere umano, la cui fittizia ricostruzione evolutiva delle vicende umane potrebbe essere considerata una sorta di esperimento
mentale, applicato idealmente al passato, ma proiettato al futuro.
82
Zib. 1655.
lA potenzA dell’immAginAzione
223
è illuso, il vero filosofo le ama e predica, perchè non
è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più
certo segno d’imperfettissimo e insufficientissimo
sapere, e di notabile illusione83.
La dialettica tra illusione creduta vera e illusione
accettata nel suo essere tale porta così alla definizione di una filosofia che, riconosciuta l’impossibilità di
un accesso al mondo univocamente e positivamente
definitorio, si volge alla costruzione (predicazione)
di immagini, atte a fornirne un quadro che, sebbene riconosciuto a priori come non reale («possa essere veramente qualcosa»), non ne risulti destituito
di significato. Uno scenario teorico – qui esperito in
lessico non tecnico – che pare quindi rifiutare ogni
forma di essenzialismo, come anche la negazione della
legittimità di utilizzo in chiave ontologica di alcune
categorie metafisiche (sostanza, materia ecc.) aveva
lasciato intendere nei testi vailatiani84. Viene pertanto affacciandosi una concezione delle costruzioni
dell’immaginazione intese come ipotesi di lavoro85,
provvisoriamente assunte nel tentativo di costruire
un’immagine del mondo che sia funzionale a una determinata visione o scopo. Scrive Leopardi in un passo
che, nell’indice del suo esemplare, Vailati sottolinea
marginalmente con un doppio tratto verticale a lapis86
Zib. 1715. Cfr. anche Zib. 213-217; 271-272; 325-326.
Vailati non si preoccupò mai di chiarire direttamente ed
esaustivamente la propria posizione ontologica; a riguardo si veda
tuttavia il contributo di M. Brodbeck, Vailati’s Implicit Ontology,
«Rivista critica di storia della filosofia», 18 (1963), pp. 332-337.
85
Lo sottolinea anche A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo
Leopardi, cit., p. 278.
86
Cfr. BV, 3L.GV.E.338/1, p. 25.
83
84
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
224
(si noti l’emergere del tema della supposizione e, implicitamente, della deduzione):
Le scienze e i sistemi non possono andare che per
via di paradigmi e di esempi, supponendo tali e tali
subbietti, di tali e tali qualità in tali e tali circostanze
ec. ovvero generalizzando, sia col salire da questi
particolari esempi alla università de’ subbietti in
qualche modo diversi, e delle combinazioni diverse, sì nelle cause sì negli effetti; sia in qualunque
altra guisa. E tutte sono obbligate di fare più o meno
come le matematiche, che per considerare gli effetti
delle forze, suppongono i corpi perfettamente duri, e
perfettamente levigati, e l’assenza del mezzo, ossia
il vóto, ec.; e così il punto indivisibile ec.87.
Non lontana effettivamente da questa – nei suoi
tratti generalissimi ben inteso – fu una certa sensibilità pragmatista (italiana ed europea) che ebbe una
discreta importanza e un certo peso storico; si allude
qui, nello specifico, alla riflessione sulle finzioni dell’anima di Giovanni Marchesini, sviluppata negli stessi
anni che videro il maggior impegno teorico di Vailati
nei confronti del pragmatismo e che ebbe anche una
controparte influente in Germania88. Più neutra sotto
Zib. 3978.
Cfr. G. Marchesini, Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica
pedagogica, Laterza, Bari 1905. Per un primo inquadramento
della figura di Marchesini si veda il numero monografico della
«Rivista critica di storia della filosofia», 37 (1982), pp. 363-500.
Cfr. anche H. Vaihinger, Die Philosophie des Als Ob, Reuther &
Reichard, Berlin 1911. Per Vaihinger si veda M. Neuber (Hrsg.),
Fiktion und Fiktionalismus. Beiträge zu Hans Vaihingers “Philosophie des Als Ob”, Königshausen & Neumann, Würzburg 2014.
87
88
lA potenzA dell’immAginAzione
225
il profilo metafisico e più avvezza alla critica metodologica invece la proposta teorica di Vailati, la quale
rimase tuttavia strettamente connessa a una teoria
dell’immaginazione che, se da un lato ne rivendicava
la provvisorietà e la limitatezza, dall’altro, come il
Leopardi che aveva letto, ne affermava con forza le
potenzialità euristiche.
IMMAGINAZIONE, RICORDANZA E IMITAZIONE
IN GIACOMO LEOPARDI E PAOLO MARZOLO
Alice Orrù
1. Due pensatori illuminati
È continuamente oggetto di discussione da parte
della critica il ruolo dei vari letterati (studiosi di lingue orientali, studiosi di linguistica comparata ecc.)
nella definizione della linguistica in quanto disciplina accademica e del conseguente allontanamento dal
pensiero filosofico in senso lato. Se dopo la morte di
Wilhelm von Humboldt nel 1835 la linguistica europea si spoglia sempre più di un taglio evidentemente
filosofico, rimangono tuttavia nel panorama italiano
(dove le prime cattedre di linguistica compariranno
solo dagli ’50 dell’Ottocento in poi) fermi baluardi di
un trait d’union filosofico-linguistico.
Paolo Marzolo (1811-1868), medico, filosofo e linguista padovano, fu tra coloro che lavorarono a un sapere filosofico e multidisciplinare. Studioso poliedrico,
titolare di corsi universitari di linguistica comparata
e di lingua e letteratura greco-latina presso l’Accademia di Scienze e Lettere di Milano (1860-61) e le
228
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Università di Napoli (1861-62) e Pisa (1862-65), fu
molto apprezzato da alcuni suoi contemporanei (tra
questi Carlo Cattaneo), ma tacciato di incompletezza
e arretratezza dalla critica otto-novecentesca e perciò
relegato a puro “eterodosso” del pensiero ottocentesco,
autore di un’opera dispersiva del sapere1. La sua principale fatica, cui dedicò quarant’anni della sua vita, è
Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola2,
prevista in sedici tomi, che per ragioni economiche e
di stesura rimase incompiuta: furono infatti editi solo
quattro tomi tra il 1847 e il 1866; le tematiche dei tomi
mai redatti, citate nella prefazione dell’opera, furono
1
La definizione di «eterodosso geniale» è di Graziadio Isaia
Ascoli (G.I. Ascoli, Studj critici, vol. II, Loescher, Torino 1877, p.
42, nota 8). Successivamente, Bruno Migliorini scrisse che l’opera
del Marzolo «concepita su un grandioso disegno, è ricca di spunti
felici, ma l’elaborazione dei materiali non era tale da consentire
una così vasta sintesi» (B. Migliorini, Marzolo, Paolo, in Istituto
dell’Enciclopedia Italiana (a cura di), Enciclopedia Italiana di
scienze, lettere ed arti, vol. XXII, Roma 1934; ora in Treccani
Enciclopedia online: https://www.treccani.it/enciclopedia/paolomarzolo_%28Enciclopedia-Italiana%29/, ultima visita in data
07/01/2020). Ancor più ingeneroso, sbagliando persino il nome
di battesimo (Luigi invece di Paolo), fu B. Terracini, Il Giubileo
dell’Archivio Glottologico e gli studi di linguistica storica in Italia
durante l’ultimo cinquantennio, «Archivio Glottologico Italiano»,
19 (1923-25), p. 135: «[Marzolo] digiuno affatto d’ogni nozione dei
nuovi metodi, imbevuto com’era di filosofia e di erudizione del sec.
XVIII, prima di studiare le lingue come documenti storici dell’umanità, aveva creduto necessario d’indagare la natura e l’origine
del linguaggio, riuscendo ad una specie di trattato di psicologia
linguistica che sarà un’opera assai discutibile, ma che idealmente
è da porsi allo stesso livello delle teorie sul linguaggio».
2
P. Marzolo, Monumenti storici rivelati dall’analisi della
parola, tomi I-IV, Tipografia del Seminario, Padova 1847-1866.
lA potenzA dell’immAginAzione
229
sviluppate in numerose memorie e prolusioni comparse
in diverse riviste dell’epoca.
Nella biografia curata dall’allievo Matteo Ceccarel,
Marzolo viene presentato come un nuovo Leopardi,
paragone che, oltre un puro raffronto biografico3, si
estende alla figura di uomo, poeta e intellettuale ad
ampio spettro. Ceccarel si serve di alcuni versi della
Ginestra per descrivere la misera condizione intellettuale di Marzolo4, disprezzato dai più e tenuto in
considerazione da pochissimi, e anche nelle memorie
funebri e nei successivi ricordi degli amici più cari e
di chi lo aveva conosciuto, la sua figura viene costantemente affiancata a quella del Recanatese. Del resto,
il giovane Marzolo, che dopo la laurea (1834) aveva
cominciato a esercitare la professione di medico condotto nel Trevigiano, ambiva a emulare il Leopardi
3
In M. Ceccarel, Della vita e degli scritti di Paolo Marzolo,
Tipografia di Luigi Priuli, Treviso 1870, p. 19 si parla di una
«ricca libreria di famiglia», fonte di formazione comune a molti
intellettuali italiani dell’epoca e anche al Leopardi (la biblioteca
del padre Monaldo). Inoltre, la lettera del 18 dicembre 1858 indirizzata dal Marzolo ad Alberto Cavalletto, dedicatario dell’opera e
suo editore (P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo II, pp. 3-4)
sembra ricalcare quella da parte di Leopardi a Pietro Giordani del
2 marzo 1818, che Marzolo probabilmente lesse in G. Leopardi,
Epistolario con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e le
lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all’autore, raccolto
e ordinato da Prospero Viani, Le Monnier, Firenze 1849, vol. I,
pp. 85-88.
4
M. Ceccarel, Della vita e degli scritti di Paolo Marzolo, cit.,
pp. 10 e 309. I vv. 102-110 della Ginestra citati da Ceccarel (ivi, p.
10) precedono il più diretto riferimento leopardiano a Lucrezio ai
vv. 111-113, autore caro a Marzolo e che egli citava a memoria (ivi,
p. 305; inoltre S. Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in Id.,
Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995, p. 144).
230
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
poeta, con poco successo – riuscì infatti a pubblicare
solo due carmi, Sofia nel 1840 e Anatome nel 1842, dai
toni romantici (centrale è l’elemento “sublime” della
natura) e ispirati alla mitologia antica (non solo grecoromana), nei quali compaiono anche dirette influenze
di William Shakespeare e George Gordon Byron5.
Anche il Leopardi filologo è stato sicuramente un
punto di riferimento del Marzolo, sebbene quest’ultimo
se ne sia servito più per studi linguistici che filologici:
nei Monumenti storici, trattando i suoni patetico-interiettivi, una delle tre tipologie di elementi originari
delle lingue (oltre agli automatici/meccanici e onomatopeici/imitativi), egli cita gli Studi filologici leopardiani, con la traduzione dei vv. 6-7 dell’epitaffio di
Mosco per la morte di Bione presi a esempio del suono
αἴ αἴ o “ahi ahi” in quanto «interiezione di dolore, di
lamento»6, mentre riguardo alle desinenze delle parole,
spiegando la desinenza “abilis” viene citato il Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi, dove Leopardi
si rifà al monaco cristiano Beda il Venerabile7.
5
P. Marzolo, Sofia Versi di Paolo Marzolo, Coi tipi della
Minerva, Padova 1840; Id., Anatome, Coi tipi della Minerva,
Padova 1842.
6
Id., Monumenti storici, cit., tomo I, p. 166.
7
Id., Monumenti storici, cit., tomo II, p. 105. L’edizione di
riferimento del Marzolo è quella fiorentina di Le Monnier: G.
Leopardi, Opere, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l’ultimo intendimento dell’autore da A. Ranieri, vol. II,
Le Monnier, Firenze 1845 per i Pensieri (in M. Ceccarel, Della
vita e degli scritti di Paolo Marzolo, cit., p. 14 è citato Pensieri
X); G. Leopardi, Opere, vol. III, Le Monnier, Firenze 1845 per
gli Studi filologici (curato da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani)
e Id., Opere, vol. IV, Le Monnier, Firenze 1845, per il Saggio
sugli errori popolari degli antichi (curato da Prospero Viani). A
proposito del Leopardi filologo, Croce scrisse che egli «e in verso
lA potenzA dell’immAginAzione
231
Tolte le citazioni suddette delle opere filologiche,
una prima lettura dei testi marzoliani non presenta tracce del Leopardi. Va tuttavia osservato che il “filosofo
linguista” padovano aveva l’abitudine di citare solo le
fonti linguistiche e mediche strettamente necessarie alla
sua esposizione tecnica, tendendo invece a non menzionare esplicitamente le fonti letterarie e filosofiche;
queste, che fanno da sfondo alla trattazione e di cui il
suo pensiero è profondamente permeato, compaiono
però costantemente nel testo rielaborate e integrate,
probabilmente anche perché citate a memoria.
Ma, al di là dei riferimenti non esplicitati ad altri
testi leopardiani, ciò che maggiormente interessa è
notare come Leopardi e Marzolo presentino una comune prospettiva di pensiero empiristico-sensista, con
riferimenti (dichiarati o meno) al De rerum natura di
Lucrezio8, all’Essay Concerning Human Understanding di John Locke9 e agli idéologues e illuministi
francesi – gli Elémens d’idéologie di Destutt de Tracy10, i Rapports du physique et du moral de l’homme
e in prosa irrise […] la filologia che si permetteva di rompere
gli schemi tradizionali e scoprire parentele tra le lingue indoeuropee» (B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura
europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1923, p. 111). Per
uno studio capace invece di valorizzare la filologia leopardiana
si ricorda S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Le
Monnier, Firenze 19782.
8
T. Lucrezio Caro, La natura, a cura di A. Fellin, UTET,
Torino 19974.
9
J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding
[1690], voll. I-II, collected and annotated, with prolegomena,
biographical, critical, and historical by A. Campbell Fraser, The
Clarendon Press, Oxford 1894.
10
A.-L. Destutt de Tracy, Elémens d’idéologie, voll. I-V, Courcier, Imprimeur-Librairie, Paris 1817-1818.
232
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
di Cabanis11, l’Essai sur l’origine des connaissances
humaines di Condillac12. Marzolo sicuramente non
poteva leggere lo Zibaldone di pensieri (1817-1832),
edito trent’anni dopo la sua morte nel 189813, l’opera
in cui è maggiormente evidente il sostrato empiristicosensista del pensiero leopardiano; tuttavia, esaminando
anche solo il quarto tomo dei Monumenti storici (1866)
e alcuni brevi scritti precedentemente pubblicati14, è
evidente come il pensiero del medico padovano affondi
le radici in quelle tematiche empiristico-sensiste al
centro dei dibattiti sei-settecenteschi e tanto care al
Leopardi.
Nel presente contributo ci si soffermerà perciò sul
rapporto tra i due autori sulla scorta delle suddette
11
P.-J.-G. Cabanis, Rapports du physique et du moral de
l’homme, voll. I-II, Caille & Ravier, 18153.
12
E.B. de Condillac, Œuvres complètes, voll. I-XVI, Lecointe
et Durey, Paris 1821-1822, vol. I.
13
Sulla vicenda editoriale dello Zibaldone si veda G. Pacella,
Vicende e fortuna dello “Zibaldone” tra ’800 e ’900, «Rivista di
letteratura italiana», 22 (1993), 1, pp. 39-51.
14
P. Marzolo, Brevissimo cenno sui rapporti della parola col
pensiero, «Rivista Veneta. Giornale ebdomadario non politico»,
1 (1856), 4, pp. 25-26. Il testo riprende, con qualche modifica, Id.,
Trattato ideologico ossia Dei rapporti della parola col pensiero,
in «Atti delle adunanze dell’Imperial Regio Istituto Veneto di
Scienze Lettere ed Arti», 3 (1852), pp. 40-50; per questo, si preferirà citare direttamente l’estratto pubblicato nella «Rivista Veneta». Inoltre, va ricordato anche Id., Delle disposizioni originarie
soggettive dell’uomo e degli effetti loro, «Atti del Reale Istituto
Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti», 3 (1862), pp. 89-115, che
anticipa il modello di trattazione dell’unica sua opera completa,
Id., Saggio sui segni, Tipografia Nistri, Pisa 1866, ora edito in Id.,
Saggio sui segni, a cura di B. Lauretano, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2003 (nel presente contributo si farà riferimento
a quest’ultima edizione).
lA potenzA dell’immAginAzione
233
comuni fonti filosofiche e linguistiche, relativamente
all’ambito mnemonico-sensoriale (“memoria”, “ricordanza”; “sensazione”, “sentimento”, ecc.), centrale nel
rapporto della parola col sentimento e col pensiero e nel
processo di significazione dei suoni, poi con riferimento alla facoltà imitativa, in Marzolo capacità attiva di
ricevere le impressioni esterne e in Leopardi connessa
all’assuefazione15. Questo al fine di dimostrare come il
pensiero italiano del primo Ottocento abbia ereditato il
sostrato empiristico, sensista e materialista del secolo
precedente, che ne ha permeato capillarmente i vari
campi, dalla letteratura alla filosofia alla medicina, e
che successivamente ha influito sulla formazione di
un pensiero positivista, sempre più ancorato ai fatti e
al progresso scientifico. Leopardi e Marzolo sono, nei
loro diversi aspetti, la dimostrazione di questo radicarsi
di un pensiero “sensoriale” e “illuminato”.
2. Gnoseologia, empirismo e sensismo: l’eredità lucreziana, lockiana e ‘ideologica’ in Leopardi e
Marzolo
Nel quarto tomo dei Monumenti storici, intitolato
Trattato dei rapporti della parola col sentimento e
col pensiero, Marzolo distingue tra “espressione” e
“significazione” dei prodotti fonetici, ovvero tra azione
15
Per approfondire il significato e il contesto dei lemmi leopardiani in riferimento all’ambito mnemonico-sensoriale, imitativo
e assuefativo si vedano N. Bellucci, F. D’Intino, S. Gensini (a
cura di), Lessico leopardiano 2014, Sapienza Università Editrice,
Roma 2014 e Iid. (a cura di), Lessico leopardiano 2016, Sapienza
Università Editrice, Roma 2016.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
234
“simpatica” e “ideologica” dei suoni16. Linguisticamente parlando, significa distinguere tra un’azione che non
si ricorda e una che si può “ricordare”. Filosoficamente
invece, si può intendere che il pensiero o “ideologia” è
qualcosa di distinto dalla pura percezione sensibile (è
ciò che veramente distingue l’uomo dagli animali), ma
anche complementare nonché posteriore ad essa; sia il
pensiero che il sentimento sono quindi necessari alla
costituzione del processo “ideologico-fonetico” o di
significazione dei suoni. Già nel decennio precedente
Marzolo aveva messo in luce l’importanza dell’ambito
mnemonico-sensoriale nell’attribuzione dei significati
alle parole, sempre posteriori a esse e connessi alle
circostanze:
I linguisti considerano come un tutto la parola ed il
significato suo, come se questo fosse coevo ad essa
[…] come se prima si avesse avuto in mente un’idea
e poi si fosse creata la parola per riferire alla medesima […] Se così fosse, l’essenza oggettiva avrebbe
cessato d’essere un’incognita che non abbiamo mezzi
di far comunicare colla soggettiva: l’aseismo inaugurato da Cartesio […] ed il sensismo avrebbero
un punto di convegno: il me ed il mondo ambiente
fonderebbersi in uno […]. Ma purtroppo la parola
è ben lungi dall’avere questa intimità coll’essenza
delle cose […]. Bisogna distinguere due maniere di
intelligenza reciproca tra gli uomini col mezzo fonetico: la prima è simpatica, generalissima; la seconda
è ideologica, e questa è relativa e specifica. La prima
desta sentimenti e la sua azione è immediata, sta
nelle sensazioni che produce l’atto: la seconda ha il
16
P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo IV, p. 5.
lA potenzA dell’immAginAzione
235
suo effetto riferendosi ad una sensazione preceduta,
di cui si ridesta la memoria ossia una riproduzione
più o meno vivace17.
È qui evidente la polemica del Marzolo contro
l’innatismo cartesiano delle idee e la presa di posizione a favore dell’empirismo inglese di fine XVII
secolo e del sensismo francese settecentesco: il suo
Trattato ideologico porta infatti già nel titolo un chiaro rimando agli idéologues e in particolare a Destutt
de Tracy, che utilizzò per primo il termine idéologie
in un’accezione sensista, riprendendo, sulla scorta di
Condillac, l’etimologia di idée nell’originario senso
del verbo greco εἴδω (infinito ἰδεῖν), che significa
“vedere”18:
Il est encore très-exact, si l’on égard à l’étymologie
grecque du mot idée : car le verbe εἴδω veut dire,
je vois, je perçois par la vue, et même je sais, je
connois. Le substantif εἶδος, ou ἐιδέα, que l’on traduit ordinairement par tableau, image, bien analysé,
signifie donc réellement perception du sens de la
vue. […] Or, puisque d’εἴδω nous avons fait idée pour
exprimer une perception en général, nous pouvons
bien en faire idéologie pour exprimer la science qui
traite des idées ou perceptions, et de la faculté de
penser ou percevoir19.
Id., Brevissimo cenno, cit., p. 25
F. Lo Piparo, Matérialisme et linguistique chez Leopardi,
«Historiographia Linguistica», 9 (1982), 3, p. 367.
19
A.-L. Destutt de Tracy, Mémoire sur la faculté de penser,
«Mémoires de l’Institut national des sciences et des arts pour l’An
IV de la République; Sciences morales et politiques», 1 (1798),
pp. 324-325.
17
18
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
236
Ancor prima degli idéologues, è John Locke nel
terzo libro dell’Essay Concerning Human Understanding a sostenere la relazione tra i nostri pensieri e le
sensazioni provate, il fatto cioè che non si nasca con
delle idee, ma che esse siano frutto delle sensazioni
esperite, del venire a contatto con la realtà materiale
che ci si presenta davanti:
[S]ensible ideas are transferred to more abstruse significations, and made to stand for ideas that come not
under the cognizance of our senses; v.g. to imagine,
apprehend, comprehend, adhere, conceive, instil,
disgust, disturbance, tranquillity, &c., are all words
taken from the operations of sensible things […] and I
doubt not but, if we could trace them to their sources,
we should find, in all languages, the names which
stand for things that fall not under our senses to have
had their first rise from sensible ideas. […] since they
could consist of nothing but either of outward sensible
perceptions, or of the inward operations of their minds
about them; we having, as has been proved, no ideas
at all, but what originally come either from sensible
objects without, or what we feel within ourselves,
from the inward workings of our own spirits, of which
we are conscious to ourselves within20.
Come Marzolo, anche Leopardi è stato debitore di
questa visione empiristico-sensista. Il suo materialismo, di origine gnoseologica e linguistica21, è spogliato
J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding,
cit., vol. II, pp. 5-6.
21
F. Lo Piparo, Matérialisme et linguistique chez Leopardi,
cit., p. 367.
20
lA potenzA dell’immAginAzione
237
della visione innatista e metafisica cartesiana, individuando nell’esperienza sensibile il punto di partenza
della conoscenza umana, in cui il linguaggio svolge un
ruolo fondamentale attraverso i segni (le parole), che
permettono di associare e ricordare le sensazioni percepite22. Sul finire del 1820, egli scrive che sono stati i
«moderni ideologi» a rilevare che «le idee o credenze,
le più primitive, le più necessarie all’azione la più vitale
[…] non vengono altro che dall’esperienza»23, mentre
in una nota del 28 giugno 1821 egli riconosce come
Locke e de Tracy abbiano stabilito «che il progresso
delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un’idea ne contiene un’altra»24, cosa che non accadrebbe
presentandole «nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti»25. In un’altra nota,
datata 26 luglio dello stesso anno, Leopardi sembra
riprendere proprio il passo di Locke citato supra:
Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire
le origini ultime delle parole in qualsivoglia lingua,
vedrebbe che non v’è azione o idea umana, o cosa
veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi,
che sia stata espressa con parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata per lei. Tutte simili cose
[…] non hanno ricevuto il nome se non mediante
metafore, similitudini ec. prese dalle cose affatto
sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque
22
C. Gazzeri, Pensiero, parola, corporeità: un nesso ideologico-sensista nella filosofia del linguaggio di Giacomo Leopardi,
«Segni e comprensione», 19 (2005), 56, p. 116.
23
Zib. 443.
24
Zib. 1235.
25
Zib. 1234.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
238
modo, e con qualsivoglia modificazione di significato o di forma, ad esprimere le cose non sensibili26.
Sullo sfondo si intravede il rimando all’Essai sur
l’origine des connaissances humaines di Condillac,
testo che ha fortemente ispirato Leopardi e probabilmente anche Marzolo27. Locke era il modello di riferimento del sensismo francese28 e specificamente di
Condillac, la cui opera ricalca nel titolo l’Essay lockiaZib. 1388.
Come nota C. Gazzeri, Pensiero, parola, corporeità, cit.,
pp. 114-115, nello Zibaldone Leopardi cita gli idéologues (escluso Condillac), tuttavia nel catalogo della biblioteca paterna non
c’è traccia delle loro opere; se ne può comunque supporre una
conoscenza indiretta, in particolare attraverso la divulgazione
del pensiero lockiano e sensista da parte del padre barnabita
Francesco Soave, curatore dell’edizione italiana dell’Essay (G.
Locke, Saggio filosofico su l’umano intelletto compendiato dal Dr.
Winne, tradotto, e commentato da Francesco Soave, tomi I-III,
Nella Stamperia Baglioni, Venezia 17943), questa presente nella
biblioteca leopardiana. Per uno studio delle influenze sensiste su
Leopardi si vedano: A. Frattini, Leopardi e gli ideologi francesi
del Settecento, in Leopardi e il Settecento, Atti del 1. Convegno
internazionale di studi leopardiani: Recanati, 13-16 settembre
1962, Centro nazionale di studi leopardiani, Olschki, Firenze
1964, pp. 253-282; M. De Poli, L’Illuminismo nella formazione
del pensiero di Leopardi, «Belfagor», 29 (1974), pp. 511-546; G.
Landolfi Petrone, Filosofi del Settecento nelle letture leopardiane, in E. Canone (a cura di), Bibliothecae Selectae. Da Cusano a
Leopardi, Olschki, Firenze 1993, pp. 475-491. Anche Marzolo non
cita mai Condillac, tuttavia se ne può ragionevolmente ipotizzare
una lettura diretta, vista la sua vasta conoscenza della cultura e
della lingua francese e la sua particolare attenzione al pensiero
illuminista (Cabanis, Charles De Brosses, ecc.), senza escludere
una conoscenza della divulgazione di Soave del pensiero lockiano.
28
F. Lo Piparo, Matérialisme et linguistique chez Leopardi,
cit., p. 368.
26
27
lA potenzA dell’immAginAzione
239
no. Nell’introduzione all’opera, egli precisa come dei
due tipi di metafisica, la prima miri alla scoperta dei
misteri, della natura e dell’essenza delle cose, mentre
la seconda cerchi di «voir les choses […] comme elles
sont en effet»29; come quindi tra i filosofi sia stata di
gran lunga preferita la prima (col suo massimo rappresentante Cartesio, il quale «n’a connu ni l’origine ni la
génération des nos idées»30), mentre Locke sia stato «le
seul […] borné à l’étude de l’esprit humain, et [que] a
rempli cet objet avec succès»31. Condillac continua la
linea lockiana, ponendo come oggetto del suo saggio
la conoscenza umana e l’aspetto sensoriale delle idee,
che non sono innate, come sosteneva Cartesio, ma derivano piuttosto dall’esperienza, e che solo attraverso
i segni riusciamo a produrre, comunicare e ricordare:
Notre premier objet […] c’est l’étude de l’esprit humain, non pour en découvrir la nature, mais pour
en connaître les opérations […]. Il faut remonter à
l’origine de nos idées […]. Ce n’est que par la voie des
observations que nous pouvons faire ces recherches
avec succès, et nous ne devons aspirer qu’à découvrir
une première expérience que personne ne puisse
révoquer en doute, et qui suffise pour expliquer toutes les autres. Elle doit montrer sensiblement quelle
est la source de nos connaissances […]. J’ai, ce me
semble, trouvé la solution de tout ces problèmes dans
la liaison des idées, soit avec les signes, soit entre
elles […]. On voit que mon dessein est de rappeler
à un seul principe tout ce qui concerne l’entendeE.B. de Condillac, Œuvres complètes, cit., p. 2.
Ivi, pp. 2-3.
31
Ivi, p. 2.
29
30
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
240
ment humain, et que ce principe […] sera […] une
expérience constante, dont toutes les conséquences
seront confirmées par de nouvelle expériences. Les
idées se lient avec les signes, et ce n’est que par ce
moyen […] qu’elles se lient entre elles32.
La polemica condillachiana anti-cartesiana è lo
sfondo su cui Marzolo costruisce il “sistema” presentato nei Monumenti storici. Nell’introduzione all’opera, egli si scaglia contro i filosofi metafisici secondo i
quali, sulla scia del Cratilo platonico, «nel primo linguaggio ogni parola doveva essere una definizione»33,
sostenendo piuttosto che «la parola non fu mai capace di rappresentare il pensiero, ma solo di destarlo
colla reminiscenza nel caso di cognizione relativa»34.
Obiettivo principale di Marzolo, trait d’union tra positivismo ottocentesco ed empirismo e sensismo seisettecenteschi, è dimostrare la fallacia delle opinioni
religiose e metafisiche attraverso il metodo scientifico
dell’osservazione, poiché «passa[ndo] dinanzi ai siti
d’origine d’un dato errore, d’una data fallacia […] il
solo sguardo gettatovi risparmia ogni raziocinio»35.
Ecco spiegato anche il v. 92 della Satira V di Aulo
Persio Flacco (Dum veteres avias tibi de pulmone revello) posto a esergo dell’opera36: estirpare dalle viscere
Ivi, pp. 4-6.
P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo I, p. 9.
34
Ibidem.
35
Id., Concetto dell’opera Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, «Il Politecnico: Repertorio mensile di studj
applicati alla prosperità e coltura sociale», 8 (1860), 4, pp. 397-398.
36
Quasi sicuramente Marzolo utilizzò l’edizione italiana allora
in circolazione: V. Monti, Satire di A. Persio Flacco, Dal Genio
Tipografico, Milano 1803.
32
33
lA potenzA dell’immAginAzione
241
dell’intelletto umano i vecchi pregiudizi della teologia
e della metafisica, trasferendo la base del sistema «dagli spazii metafisici all’empirismo dei sensi»37.
Anche Leopardi, individuando in Locke lo scopritore della «falsità delle idee innate»38, un inganno alla
base di un’«infinita catena di errori»39, sostiene l’imprescindibilità della dimensione mnemonico-sensoriale
nell’acquisizione dell’esperienza e della conoscenza:
Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’intelletto non potrebbe niente senza la favella, perchè la
parola è quasi il corpo dell’idea la più astratta. Ella è
infatti cosa materiale, e l’idea legata e immedesimata
nella parola, è quasi materializzata. La nostra memoria, tutte le nostre facoltà mentali, non possono,
non ritengono, non concepiscono esattamente nulla,
se non riducendo ogni cosa a materia, in qualunque
modo, ed attaccandosi sempre alla materia quanto
è possibile; e legando l’ideale col sensibile; e notandone i rapporti più o meno lontani, e servendosi di
questi alla meglio40.
Marzolo d’altro canto, concentratosi nel Trattato
ideologico e nel Brevissimo cenno sul rapporto tra
parola e pensiero, nel quarto tomo dei Monumenti
storici conferisce maggiore rilievo al sentimento in
quanto momento di acquisizione di una sensazione, che dopo essere stata percepita, provata (“patetica”, originaria), può essere espressa (“simpatica”
P. Marzolo, Concetto dell’opera, cit., p. 397.
Zib. 2707.
39
Zib. 2708.
40
Zib. 1657.
37
38
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
242
o espressiva) e infine comunicata (“significativa”)41.
Noi ricordiamo una sensazione solo se l’abbiamo già
subìta, pensiamo perché sentiamo e non viceversa, e
l’idea è “ben definita e fissa” nella mente solo se ben
tenuta in memoria. La prima condizione del rapporto
tra parola e pensiero è dunque l’atto del “ricordare” a
partire da qualcosa di sensibile che ha “destato una
reminiscenza”:
Questa è la prima condizione ideologica delle parole, cioè di destare una reminiscenza […]. Nessuna parola di alcuna lingua potè mai servire a
rappresentanze ideologiche, senza che siavi stata
la precedenza d’una sensazione che essa sia capace
di ricordare 42.
Similmente Leopardi, vedendo le parole come «il
corpo de’ pensieri»43, nel 1820 scrive:
Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne
sappiamo il significato chiaro e già noto per l’uso
altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa
nella mente, e ben determinata e circoscritta. […]
Perché un’idea senza parola o modo di esprimerla,
ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e
mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita.
Colla parola prende corpo, e quasi forma visibile, e
sensibile, e circoscritta44.
P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo IV, p. 6 e segg.
Id., Brevissimo cenno, cit., p. 25.
43
Zib. 1694.
44
Zib. 95.
41
42
lA potenzA dell’immAginAzione
243
Se Leopardi classifica la memoria tra le facoltà dell’anima insieme all’intelletto e all’immaginazione, Marzolo si riferisce al pensiero e al sentimento come «due
modi di atteggiamento, uno ideologico, l’altro affettivo»
della coscienza e della soggettività45; è la facoltà della
memoria, attraverso il ricordo delle sensazioni provate
in precedenza, cioè la loro riproduzione e ripetizione
in momenti successivi alla prima affezione, a tenere
insieme «le rappresentanze del mondo esteriore e quelle
del me»46. In questo contesto agisce la facoltà imitativa:
introdotta da Marzolo nel primo tomo dei Monumenti
storici come terzo elemento originario del linguaggio
dopo l’automatico-meccanico e il patetico-interiettivo
(quest’ultimo implicante una mera passività dell’individuo nel ricevere le impressioni), essa è al tempo stesso
capacità passiva e attiva, in quanto non solo riceve le
sensazioni, ma le “registra” in memoria in modo da
poter «reagire» e «imitare»47. Proprio all’imitazione
e all’assuefazione Leopardi lega le facoltà dell’anima:
La facoltà imitativa è una delle principali parti
dell’ingegno umano. L’imparare in gran parte non
è che imitare. Ora la facoltà d’imitare non è che una
facoltà di attenzione esatta e minuta all’oggetto e sue
parti, e una facilità di assuefarsi. Chi facilmente si
assuefa, facilmente e presto riesce ad imitar bene48.
Descrivendo il processo di apprendimento del
fanciullo (che produce nomi onomatopeici assegnati
P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo IV, p. 19.
Ivi, tomo I, p. 20.
47
Ivi, tomo I, p. 62.
48
Zib. 1364-1365.
45
46
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
244
a tutto ciò che lo circonda, ad esempio agli animali
domestici), Marzolo evidenzia come il legame della
natura “imitatrice” umana, alla base del processo “ideologico-fonetico”, dipenda fortemente dall’abitudine e
dall’influenza delle circostanze esterne:
Ecco i fatti che mostrano la necessità dell’imitazione.
Certo che in questo non entra il volere. […] la volontà è, per una parte, una manifestazione della legge
d’abitudine. Tra le cause organiche di quest’istinto
di imitare nell’uomo fu notato ch’esso è più sommesso all’influenza di cause esterne, ch’è quello cui la
applicazione fortuita o ragionata di differenti corpi
dell’universo può modificare con maggior forza; […]
perciò tanto può sopra di lui l’educazione49.
In questo passo la fonte principale del Marzolo
è Cabanis, come lui medico e filosofo, inserito dal
Leopardi tra i più grandi pensatori moderni50; l’edizione italiana dei Rapports è del 1820, stesso anno
delle prime riflessioni di Leopardi sul linguaggio e
sulla conoscenza51. A proposito del nesso imitazioneassuefazione, sul finire del 1823 Leopardi scrive:
La facoltà d’imitazione non è che facoltà di assuefazione; perocché chi facilmente si avvezza, vedendo
o sentendo o con qualunque senso apprendendo […]
riducesi ad abito quelle tali sensazioni o apprensioni,
di modo che presto […] gli divengono come proprie;
il che fa ch’egli possa benissimo e facilmente rapP. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo I, p. 63.
Zib. 945.
51
C. Gazzeri, Pensiero, parola, corporeità, cit., p. 120.
49
50
lA potenzA dell’immAginAzione
245
presentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto
che imitandole, […] sicché la vera imitazione non
sia propriamente imitazione […] ma espressione.
Giacché l’espressione de’ propri affetti o pensieri o
sentimenti o immaginazioni ec. comunque fatta, io
non la chiamo imitazione, ma espressione52.
È proprio l’assuefazione, in quanto «natura secondaria e acquisita dell’uomo»53, che permette all’individuo di esprimere le proprie affezioni, ma questo
solo dopo che si è reso conto di averle provate, ovvero
dopo che le ha impresse in memoria. Sia Leopardi
che Marzolo sottolineano l’importanza della funzione
mnemonica, ma mentre per il primo l’espressione è
l’appropriarsi delle affezioni precedentemente provate,
la consapevolezza del ricordo di una sensazione, per
Marzolo l’espressione costituisce lo stadio primordiale
e necessario per l’attivazione del processo comunicativo tra chi parla e chi ascolta; egli parla di espressione
in riferimento al rapporto tra parola e sentimento ma
non a quello tra parola e pensiero, dove c’è invece una
componente imitativa e prevalentemente mnemonica.
Nonostante Marzolo non usi il termine “immaginazione”, sembra comunque sottintesa una funzione
immaginativa della facoltà imitativa all’interno del
Zib. 3941-3942. Inoltre, De Mauro parla di “elogio dell’imitazione”, menzionando Zib. 1697 e il nesso con assuefazione
e memoria (T. De Mauro, Guida all’uso delle parole. Parlare
e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire, Editori
Riuniti, Roma 1980, pp. 85-88).
53
A. Prato, Immaginazione, conoscenza e linguaggio in Leopardi, in L. Formigari, G. Casertano, I. Cubeddu (a cura di), Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell’immaginazione,
Carocci, Roma 1999, p. 324.
52
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
246
processo “ideologico-fonetico” in quanto produttrice
di immagini derivanti dagli organi di senso.
Leopardi descrive la facoltà inventiva come «una
delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità
e parti dell’immaginazione»54: proprio l’immaginazione diventa, in un’ottica profondamente sensista,
«facoltà della combinazione associativa, dotata di
memoria, che conclude e amplia le sensazioni»55.
D’altra parte, il concetto di “associazione” e la funzione associativa costituiscono il punto focale della
riflessione filosofica e linguistica del Marzolo, che
nel Saggio sui segni, trattando le imperfezioni degli
stessi, spiega come l’istruzione del tempo non si basasse sulla percezione fisica dell’ambiente circostante
(per esempio osservare il sole all’alba o al tramonto
per studiare la cosmografia), ma sullo studio delle
«sfere artificiali»56 che riproducono i disegni del cielo,
apprendendo quindi i segni «senza conoscere la realtà cui si riferiscono»57 e inducendo spesso in errore
i fanciulli, i quali ricordano le sensazioni prodotte
esclusivamente dalle figure simboliche.
A partire dal processo di “associazione” o di “allusione” si sviluppa dunque il processo “ideologicofonetico” (l’assegnazione del significato o “ideologia”
a un suono, con il primo sempre posteriore al secondo), processo in costante evoluzione a causa della
continua ricezione delle “impressioni sensorie” e del
Zib. 2132.
G.L. Gualandi, L’energia dell’immaginazione. La poetica
moderna leopardiana, «Intersezioni», 9 (1989), 2, p. 233.
56
P. Marzolo, Saggio sui segni, cit., p. 191.
57
Ivi, p. 192.
54
55
lA potenzA dell’immAginAzione
247
«fissarne la ricordanza»58 attraverso i segni. Prima di
trattare l’abuso, l’applicazione e l’interpretazione erronea dei segni, insegnati in maniera astratta e aprioristica invece di privilegiare la diretta «conoscenza
delle cose»59, facendo riferimento alle funzioni delle
entità significanti oltre a quella di significare Marzolo
scrive:
I segni stessi […] agiscono come stimolo a mettere in
attività l’intelletto, come i suoni tentati dal compositore di musica sul clavicembalo […] o come i moti
dei piedi che fanno i ballerini per preludio alla danza
[…] poiché i segni coll’azione loro attuale mettono
in giuoco le associazioni mnemoniche nelle quali
consiste il processo intellettuale […]. Poiché il fatto
che una cosa serva di segno è un profitto che l’essere capace di sentire trae da quella, e quindi non
costituisce l’entità dell’oggetto: può darsi che la cosa,
che serve di segno, possa anche avere altri rapporti
coll’essere capace di sentire. E il primo rapporto
delle cose con tal essere è nella sensazione: dopo
può determinare la reminiscenza60.
Criticando il filosofo vicentino Ambrogio Fusinieri,
che nella memoria Sull’influenza dei segni nella formazione delle idee aveva sostenuto l’appartenenza dei
segni alla mera soggettività e la loro non implicazione
nello scambio comunicativo61, Marzolo mostra come
58
Ibidem.
Ivi, p. 193.
60
Ivi, pp. 145-146.
61
A. Fusinieri, Sull’influenza dei segni nella formazione
delle idee, «Atti dell’Imperial Regio Istituto Veneto di Scienze,
59
248
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
l’attività intellettuale consista in un mero processo
allusivo fondato sull’incatenarsi delle associazioni
mnemoniche individuali. Alla base di ciò è evidente
il sostrato lockiano e quello ideologico di de Tracy, che
hanno influenzato anche la concezione leopardiana del
processo intellettuale umano:
Nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose,
e decomporre sempre più le nostre idee […] così la
massima parte di dette voci non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora
separate dalle altre parti delle idee madri, mediante
l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto
naturalmente di queste idee madri […] la bellezza del
discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi di
idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine e nel vago, confuso, indeterminato, incircoscritto.
Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono
un’idea composta di molte parti, e legata con molte
idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole
precise o co’ termini […] i quali esprimono un’idea
più semplice e nuda che si possa62.
Lettere ed Arti», 1 (1855-1856), pp. 7-32, ora edito in P. Marzolo, Saggio sui segni, cit., pp. 221-246. Come Marzolo e sulla
scorta dell’Essay lockiano, Fusinieri non condivide la visione
cartesiana innatista delle idee, considerando l’immaginazione
«una forza di riprodurre le immagini ricevute dalle sensazioni»,
che diventa “memoria” nel momento in cui «vengono riprodotte
anche le immagini delle circostanze in cui ebbe luogo la sensazione»; essendo poi immaginazione e memoria imperfette,
il segno diventa il loro «mezzo virtuale di rappresentazione»
(ivi, p. 231).
62
Zib. 1235-1236.
lA potenzA dell’immAginAzione
249
La stessa prospettiva empiristico-sensista si ritrova
in conclusione del Brevissimo cenno del Marzolo:
I significati dunque che ora [i nomi] rappresentano
non sono se non l’effetto delle ricordanze che in noi
suscitano, dappoiché ci fanno ricorrere il pensiero
a quelle narrazioni dove figurano. […] Non vi ha
significato, di rapporto ideologico, che non abbia
origine da una allusione. In seguito i lavori della
mente umana, per gli accorgimenti dell’analogia e
pel raziocinio fanno trasportare ad altre associazioni
l’uso delle parole medesime che avevano i significati
per allusione; ricordano cioè i prodotti di questi lavori intellettuali medesimi; e quindi si perde l’origine
del rapporto tra la parola ed il significato; quindi le
parole di mano in mano andarono allontanandosi
da questo rapporto definito, concreto, ed a noi sono
giunte nella loro rappresentanza che dicesi astratta,
che in realtà meglio direbbesi vaga. Così pel cambiamento di circostanze si perdono le allusioni di
date parole e frasi d’uso continuato […]. Collo stesso processo di allusione, per cui gli uomini vanno
associando alle parole dati rapporti coi significati,
questi rapporti stessi vengono appresi da quelli che
non assistettero alle occasioni alla cui reminiscenza
si riferiscono63.
Da ciò si evince dunque che, sulla scia della tradizione empiristica, sensista e illuminista, tanto per
Marzolo quanto per Leopardi la parola si radica nel
sentimento e nel pensiero, il meccanismo associativo
è alla base dell’acquisizione di ogni conoscenza che
63
P. Marzolo, Brevissimo cenno, cit., p. 26.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
250
passa sempre attraverso il canale sensoriale, la memoria è la facoltà che riproduce nel presente sensazioni
passate, l’immaginazione in quanto facoltà intellettiva
porta con sé una funzione imitativa e inventiva mediante l’assuefazione quale seconda natura umana64.
Indubbiamente, il sostrato empirista, materialista
e sensista di Leopardi e Marzolo ha una radice profonda anche nel De rerum natura lucreziano. Come
nota Timpanaro, Leopardi è erede di quella corrente
epicureista settecentesca che metteva al centro la «ricostruzione della storia dell’umanità primitiva senza
intervento divino e […] raffigurazione della vita dei
primi uomini»65; la lotta condotta da Lucrezio alla
superstizione era condivisa anche da Marzolo, che la
applicava ai problemi del suo tempo, cioè alla credibilità attribuita alla metafisica e alla teologia piuttosto
che al progresso scientifico.
Leopardi ha probabilmente compiuto una lettura,
assai precoce, diretta e integrale del De rerum natura,
anche se l’esame delle citazioni lucreziane nel Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi dimostra che
la maggior parte di esse viene dal libro V66. Ad esso
si riferisce anche Marzolo, che cita nell’introduzione
ai Monumenti storici i vv. 1041-1090 a dimostrazione
dell’origine naturale del linguaggio da suoni emessi
per istinto naturale, contro la teoria del linguaggio
A tal proposito, A. Prato, Immaginazione, conoscenza e
linguaggio in Leopardi, cit., p. 324.
65
S. Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, cit., p. 155.
66
Timpanaro sottolinea che Leopardi aveva ben in mente
la parte finale del libro ai vv. 925-1457 (ibidem). Nel Saggio le
citazioni più consistenti (con indicazione del libro ma non del
numero dei versi) sono al capitolo XII e riguardano soprattutto i
vv. 534-563 (TPP, p. 907).
64
lA potenzA dell’immAginAzione
251
come prodotto artificiale del legislatore esposta nel
Cratilo platonico67. In un’ottica monogenista che vede
nel processo “fono-articolatorio” dei suoni e in quello
“ideologico-fonetico” la comune origine e il punto di
partenza dello sviluppo delle lingue68, importante è
l’elemento culturale, in quanto le lingue si evolvono
non solo per difetto o variazione di pronuncia, ma
anche per il continuo rinnovarsi del rapporto tra il
suono e il suo significato. La lingua ha un fondamento
naturale, fisico, ma sviluppandosi nella società, si
modifica con gli usi e le abitudini e con il processo
comunicativo tra parlante e ascoltatore, e la storia
di tali modifiche può essere ricostruita attraverso lo
studio etimologico.
Anche Leopardi esalta l’elemento materiale e sociale del rapporto tra linguaggio e realtà, sostenendo
l’inseparabilità delle componenti biologica e socioculturale e considerando la varietà come caratteristica
intrinseca e specifica delle lingue69. Esse poi si sono
sviluppate progressivamente attraverso la continua
metaforizzazione dei termini70, che hanno perso il
loro senso originario «a forza di similitudini e di
P. Marzolo, Monumenti storici, cit., tomo I, pp. 7-8.
Sulla concezione marzoliana monogenetica delle lingue si
vedano F.M. Dovetto, La concezione semiologica della lingua
secondo Marzolo tra naturalismo e comparativismo nell’Analisi
della parola (1859 [1847] - 1866), «Studi e Saggi Linguistici», 56
(2018), 2, p. 105; L.M. Savoia, La linguistica di Paolo Marzolo e
il pensiero del suo tempo, «Studi Italiani di Linguistica Teorica
e Applicata», 37 (2008), 3, pp. 523 e segg.
69
S. Gensini, Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e
prospettive politico-culturali, il Mulino, Bologna 1984, p. 142.
70
A. Prato, Immaginazione, conoscenza e linguaggio in Leopardi, cit., pp. 332-333.
67
68
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
252
rapporti»71, cioè quello che Marzolo definisce processo
di “allusione” e Locke chiama «connexion between
ideas and words»72. Lo studio della varietà delle lingue,
finalizzato a una plurale e capillare ramificazione della
conoscenza intesa come studio ed esperienza diretta
attraverso i sensi, deve essere la «massima fondamentale d’ogni vero filosofo linguista»73.
Zib. 1702.
J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding,
cit., vol. I, p. 535.
73
Zib. 2127.
71
72
IL LEOPARDI PERSUASO DI ALDO CAPITINI
Daniele Taurino
1. L’infinito, oltre a essere il titolo di una delle più
celebri poesie di Giacomo Leopardi, è anche uno dei
punti archimedei della sua poetica filosofica: sia se con
esso s’intenda quel moto dell’immaginazione che apre
agli spazi celesti e a tutto ciò che è illimitato, posto
fuori da una dimensione specificamente umana, sia se
con esso ci si riferisca a quel movimento dell’immaginazione che ha a che fare con la consapevolezza del
limite, l’amara coscienza della propria inadeguatezza.
L’ipotesi di ricerca del saggio qui proposto parte dal
riconoscimento di questo intreccio di prospettive ed
esamina il dinamismo interpretativo di una particolare
“figura” – quella del Persuaso di Aldo Capitini – che
dapprima la lettura di Leopardi contribuisce a formare
nel pensiero del filosofo perugino, poi da questi viene
adoperata per rileggere la visione filosofica del poeta
recanatese, fino a fare paradossalmente di Leopardi
stesso una sorta di exemplum del persuaso.
Il filosofo italiano della nonviolenza, infatti, ha
sempre apertamente dichiarato nelle sue opere l’in-
254
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
fluenza decisiva del pensiero e della poesia di Leopardi1. E non mancano innumerevoli intrecci biografici,
sui quali torneremo: i primi studi di letteratura italiana alla Normale con Attilio Momigliano, culminati
successivamente con un saggio dal titolo Svolgimenti
interni della poesia leopardiana2, la rilettura leopardiana attraverso Michelstaedter, l’amicizia con Walter
Binni. L’intenzione è di provare a meglio comprendere
questa influenza, attraverso la lente infinita dell’immaginazione, nel suo nucleo specificamente filosofico. Da
un lato, tenendo presente il fatto che i termini in gioco
di infinito, natura, ragione, immaginazione, illusione
etc. subiscono durante tutto l’arco di svolgimento del
pensiero del Recanatese costanti ridefinizioni e spostamenti di significato; dall’altro, che il termine immaginazione ci suggerisce già esemplarmente che non
1
Sulla precoce influenza leopardiana, in particolare rispetto
alla poesia, di Capitini rimando a S. Gentili, Infinito e serenità:
il giovane Capitini legge Leopardi (1928-1929), «Il Ponte», 74
(2018), 4, pp. 33-52. Tale influenza perdurerà nel tempo toccando
tutta la produzione leopardiana e portandolo ad assumere vere e
proprie tesi di critica letteraria.
2
A. Capitini, Svolgimenti interni alla poesia leopardiana,
«Aretusa», 10 (1945), pp. 20-30. Poi in Id., Educazione aperta,
vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 224-236. Capitini coglie nella poesia leopardiana un movimento che lo conduce dalla
maturità “platonica” degli Idilli alla maturità “pratica” propria
del ciclo di Aspasia e della Ginestra. Con Momigliano aveva
invece discusso la tesi di laurea Realismo e serenità in alcuni
poeti italiani (Iacopone, Dante, Poliziano, Foscolo, Leopardi), il
10 novembre 1928 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa (conservata dattiloscritta presso l’Archivio di
Stato); e poi l’anno successivo, con pieni voti e lode, una tesi
di perfezionamento sempre alla Normale su La formazione dei
Canti del Leopardi.
lA potenzA dell’immAginAzione
255
esistono risposte preesistenti alle sfide poste dall’incrocio tra le biografie individuali e la storia delle idee3.
Si tratta di un tentativo – qui parziale – di indagare il
movimento che conduce Capitini dall’interpretazione
letteraria della poesia leopardiana al suo “uso” filosofico4. Accordandoci alla prospettiva approfondita da
Massimiliano Biscuso nel recente volume sulle figure
del leopardismo filosofico italiano del Novecento –
secondo la quale ripercorrere e indagare gli “usi” di
Leopardi può aiutare a meglio comprendere la storia
della filosofia italiana del secolo breve – non ci soffermeremo in questo paragrafo sul Capitini poeta lettore
delle liriche leopardiane, ma su temi e connessioni più
squisitamente filosofici. Certo, il filosofo perugino si
avvale di queste letture, prende i testi leopardiani e li
risemantizza in un nuovo contesto teorico, inserendoli
nella trama della filosofia della compresenza e della
nonviolenza. Il nodo centrale rimane allora cercare di
chiarire quali elementi di tale contesto teorico Capitini intende rafforzare tramite l’innesto della visione
leopardiana. Nella storia del leopardismo filosofico
3
«Dopo che l’uomo è divenuto stabilmente infelice […], dopo
ch’egli ha conosciuto sé stesso e le cose, tanto più addentro che non
doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo, l’immaginazione
veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è propria
se non de’ fanciulli […] l’animo del poeta […] ogni volta che si
abbandona all’entusiasmo […] si rivolge all’affetto, al sentimento,
alla malinconia, al dolore» (Zib., 725-727).
4
A cui il lettore può certamente aggiungere nel conto anche
l’“uso” dell’autore che qui scrive. Sulla differenza tra “interpretazione” e “uso” rimando per brevità alla nota 2 in M. Biscuso,
Gli usi di Leopardi. Figure del leopardismo filosofico italiano,
manifestolibri, Roma 2019, p. 7, testo al quale si rinvia nella sua
interezza.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
256
italiano del Novecento, come scrive Biscuso, quello
di Leopardi:
È apparso a molti il pensiero più potente che la nostra tradizione culturale recente offriva a chi volesse
pensare la crisi senza ridurla a un negativo che si
facesse momento dialettico della inevitabile e trionfante positività5.
Capitini sentì certamente nel profondo questa necessità di pensare la crisi, fin dagli anni giovanili egli
gracilissimo di costituzione negli anni della retorica nazionalista della Prima guerra mondiale, e ancor
più drammaticamente con l’avvento del fascismo. Il
parere di chi scrive è che in questa storia degli usi/
interpretazioni di Leopardi, il filosofo perugino abbia
diritto a una “casa”, non soltanto come una postilla su
Michelstaedter, ma con una sua peculiare autonomia:
in qualche modo origine e collettore di quel vero e
proprio “caso Leopardi”, intorno al quale grazie ai contributi critici di Binni e Luporini6 fiorì una rinnovata
stagione di interessi e approfondimenti; e sicuramente
come contributo originale, seppur per certi versi ardito,
Ivi, p. 9.
Per mettere un altro tassello agli intrecci biografici: il primo
tentativo di un’edizione omnia delle opere di Capitini, avviato
dopo il decennale della sua morte, vede il coordinamento scientifico di Walter Binni, Norberto Bobbio e Cesare Luporini: il
piano editoriale prevedeva cinque volumi ma ne usciranno soltanto
due e tardivamente (1992, 1994). Tutti e tre erano stati giovani
frequentatori delle clandestine lezioni antifasciste di Capitini a
Perugia e aderenti alle posizioni liberalsocialiste da lui elaborate
con Calogero.
5
6
lA potenzA dell’immAginAzione
257
nell’ottica di una riattualizzazione e radicalizzazione
delle posizioni filosofiche leopardiane.
2. L’importanza dell’incontro con Capitini per lo
sviluppo del leopardismo di Binni è certamente più
valorizzata dallo stesso critico letterario che dai suoi
commentatori. I due perugini già si conoscevano quando Binni approdò alla Normale di Pisa nell’estate del
1931, trovandovi la confortante presenza del segretario-economo Capitini, che tale rimarrà fino alla rottura pubblica con Gentile e il fascismo nel 1933. Così,
durante l’estate del 1932 Binni cominciò a esercitarsi
nell’interpretazione dei Canti, nell’edizione, curata da
Alfredo Straccali, che era presente nello studiolo di
Capitini, e li assimilò «minutamente, canto per canto,
assorbendo anche gli stimoli di quelle annotazioni del
maestro-amico [Capitini], fertilissime di intuizioni
eccezionali»7. Anche molti anni dopo, nel saggio introduttivo all’edizione di Tutte le opere di Leopardi,
da lui curata per Sansoni, Binni citerà esplicitamente
Capitini, osservando come egli avesse appieno recepito
alcuni aspetti del sistema leopardiano:
Si pensi almeno, in Italia, a posizioni come quella di
Aldo Capitini (da Vita religiosa a la Compresenza
dei morti e dei viventi) che tanto deve alla lezione
leopardiana di denuncia di insensibilità della natura
(«l’acqua di una piena copre ugualmente un sasso
W. Binni, Ricordo di Aldo Capitini, in Id., La tramontana
a Porta Sole, Morlacchi, Perugia 2007, p. 160 e segg. Cfr. anche
A. Capitini-W. Binni, Lettere 1931-1968, a cura di L. Binni e L.
Giuliani, Carocci, Roma 2008.
7
258
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
e il volto di un bimbo» in Vita religiosa, Bologna
1942, p. 11) e del rifiuto dell’idea di Dio come compartecipe di una realtà chiusa e crudele8.
In un discorso tenuto a Perugia il 13 settembre
19739 all’inaugurazione della Sagra Musicale Umbra
con una composizione di Valentino Bucchi su testi
poetici di Capitini da Colloquio corale e Atti della
presenza aperta, Binni non soltanto rimarca il debito
di «sollecitazioni profonde» alla sua formazione, ma
connette la «teoria mai separata dalla prassi» di Capitini, illuminata dalla forza della persuasione, alla nota
zibaldonica 1557 «il sentimento senza la persuasione è
nullo», sottolineando che il perugino «avrebbe potuto
dire ciò anche dell’azione e aggiungere che la persuasione è nulla se non è esercitata coerentemente nella
prassi, nell’azione».
Per quanto riguarda l’altro protagonista della “svolta del ’47”, Cesare Luporini, Pareyson ha osservato10
come sia possibile parlare di un influsso di Capitini
sull’autore del celebre Leopardi progressivo: oltre ai
8
W. Binni, Leopardi poeta delle generose illusioni e dell’eroica persuasione, in Introduzione a G. Leopardi, Tutte le opere,
Sansoni, Firenze 1969, vol. I, p. XLIX, nota 3. Ripubblicato con
aggiunte e il nuovo titolo di La protesta di Leopardi nel volume
omonimo.
9
W. Binni, Aldo Capitini e il suo “Colloquio corale”, nel
supplemento al n. 4 dei «Quaderni della Regione dell’Umbria»,
Perugia 1974, che comprende anche il testo autobiografico di Capitini Attraverso due terzi del secolo.
10
L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze
1950, p. 42: «Cesare Luporini si pone alla confluenza dell’idealismo italiano, del bergsonismo e della filosofia dell’esistenza,
nel suo pensiero rivivono alcune delle “esperienze” più vere di
Michelstaedter e di Capitini».
lA potenzA dell’immAginAzione
259
lavori giovanili, vanno ricordati gli Elementi di un’esperienza religiosa, di poco precedenti a Il pensiero
di Leopardi, il primo importante intervento leopardiano di Luporini11. A partire dal 1936 Luporini maturò convinzioni etico-politiche vicine alle posizioni
liberalsocialiste, proprio collaborando, tra gli altri,
con Capitini e Binni. Quest’ultimo ricorda significativamente come Leopardi si presentasse loro, in quel
particolare momento storico,
come un punto eccezionale di riferimento, come
il massimo interlocutore dei nostri problemi, l’alto
esempio di una lucida posizione di pessimismo e di
lotta, il supremo contestatore-poeta di contro prima
alle chiusure fasciste e poi alle ideologie della classe
borghese che si poneva d’ostacolo alle nuove forze
veramente progressive e democratiche12.
Così trova a nostro avviso il suo pieno contesto la
citazione di Leopardi che, come osserva Biscuso13,
Luporini espungerà dai successivi lavori: si tratta della nota dello Zibaldone del 12 agosto 1823 che ben
si accoppia alla coscienza appassionata della propria
finitezza, tema caro a Capitini: «Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano
intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter
A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza,
Bari 1937; C. Luporini, Il pensiero di Leopardi, in AA.VV., Studi
su Leopardi, Belforte & C., Livorno 1938, pp. 41-69.
12
W. Binni, Leopardi. Scritti 1969-1997, Il Ponte, Firenze
2014, p. 210.
13
M. Biscuso, Gli usi di Leopardi, cit., p. 95. Si rimanda
allo stesso testo, pp. 89-115, per la parabola dell’interpretazione
luporiniana di Leopardi.
11
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
260
l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza»14.
Tuttavia, è probabilmente sull’uso del termine
“persuasione” riferito al Recanatese che i tre autori si intrecciano e differiscono allo stesso tempo, in
particolare poiché per Capitini non si tratta di un termine isolato e interscambiabile, ma di uno dei dispositivi concettuali più potenti di tutta la sua filosofia.
All’impostazione che gli derivava da Michelstaedter,
egli aggiunge l’orizzonte della nonviolenza e apre alla
figura del persuaso la possibilità di cambiare il mondo, di venire ai ferri corti non soltanto con la propria
vita, ma anche con la realtà così com’è, con tutto il
suo portato di ingiustizie e violenze. In altre parole,
Capitini ha cercato la qualità specifica di quell’Azione,
di quell’attività (energheia) attraverso cui solo è possibile fare esperienza della persuasione stessa, nella sua
duplice veste – che può essere solo “rettoricamente”
sdoppiata – dell’essere persuaso (arghia) e del persuadere (beneficare, dare)15. E ci è riuscito anche grazie a
un diverso uso della lezione leopardiana: dal sostare
nella solitudine e nella sofferenza, come posizioni propriamente filosofiche, lo sguardo si apre oltre l’antropologia, la politica e la storia, negando ogni illusoria
immaginazione di un ritorno all’età dell’oro o a una
condizione originaria che garantirebbe la salvezza. Su
questa linea Capitini identifica un tratto essenziale del
pensiero leopardiano: la sua totale rinuncia ad appoggiarsi a qualunque elemento sovrumano, essendo in
Zib. 3171.
Sulla questione mi permetto di rimandare al mio contributo
La via della Persuasione con Carlo Michelstaedter ed Aldo Capitini, «Educazione democratica», 8 (2014), pp. 15-34.
14
15
lA potenzA dell’immAginAzione
261
lui «essenziale questo porre la realtà dell’uomo scissa
da ogni principio divino o metafisico, e anzi contro
di essa»16; ma con un ulteriore sforzo immaginativo
rende concrete le figure di quest’operazione: gli ultimi, i sofferenti, gli impediti, i colpiti, gli annientati si
trasformano nel punto dal quale protestare contro la
realtà così com’è ora.
Ho sofferto acutamente nel vedere, proprio al centro della mia attenzione, che c’è chi è colpito dalla
realtà com’è ora: l’ammalato, l’esaurito, lo stolto, il
morto, e mi sono messo in rapporto – attraverso il
tu a quell’infelice – con una realtà che non lo escluda e lo tenga unito con altri esseri che sono nati
(realtà di tutti), e lo renda uguale e lo compensi,
sviluppandosi anche lui nella cooperazione ai valori,
come chi è sano, vigoroso, vivente (compresenza).
Questa apertura alla compresenza si può chiamare
religiosa, se «religione» è vivere un rapporto […]
con l’«altro». E l’apertura religiosa è pratica, perché
la realtà della compresenza non la posso conoscere
scientificamente come le parti della realtà attuale,
ma la posso vivere mediante impegni in atto, nel
tu-tutti che le rivolgo17.
Meraviglia che negli studi capitiniani non sia ancora stata valorizzata a sufficienza l’influenza che la
poesia e il pensiero di Leopardi hanno avuto nella costruzione delle teorie del perugino, tanto che tutti i suoi
A. Capitini, La realtà di tutti, in Id., Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Protagon, Perugia 1998, p. 176.
17
A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 11.
16
262
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
lavori filosofici se ne nutrono vitalmente18. Un esempio
emblematico può essere tratto dal secondo volume di
Educazione aperta, ultimo libro la cui pubblicazione fu
curata da Capitini stesso prima della morte. Per mettere
in forma argomentativa filosofica la sua concezione
de La realtà di tutti, Capitini parte dai vv. 21-24 delle
Ricordanze di Leopardi19, che per il perugino esprimono meglio d’ogni prosa il senso di distacco dalla
felicità, dalla perfezione e dall’assoluto, che l’uomo
talvolta soffre acutamente, il dramma interno per cui
egli sente con angoscia un’assoluta differenza tra lo
stato in cui si trova e un altro in cui potrebbe, vorrebbe
o dovrebbe essere. Da questo sentimento si sviluppa
un senso di inadeguatezza del singolo verso la realtà,
che ben può mutare nell’indignazione imprescindibile
per qualsiasi teoria del cambiamento: anche qui Capitini rende vivido questo stato nell’immaginazione
del lettore attraverso dei versi leopardiani («Ma non
è cosa in terra | Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
| Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, | Saria, così
conforme, assai men bella»20). Infine, altri versi di
Leopardi, stavolta dal Risorgimento21, concretizzano
per Capitini l’immagine del dualismo palpitante tra
un’aspirazione infinita e una realtà limitata; dualismo
18
Più approfondita è stata l’analisi dell’influenza di Leopardi
sulla produzione poetica di Capitini; oltre al già citato contributo
di Gentili vd. P. Sargentini, Aldo Capitini Poeta, Guerra, Perugia
2003.
19
«Di quel lontano mar, quei monti azzurri, | Che di qua
scopro, e che varcare un giorno | Io mi pensava, arcani mondi,
arcana | Felicità fingendo al viver mio!».
20
Alla sua donna, vv. 19-22.
21
«Mancano, il sento, all’anima | Alta, gentile e pure, | La
sorte, la natura, | Il mondo e la beltà» (vv. 153-156).
lA potenzA dell’immAginAzione
263
che, abbandonato ogni sentire proprio del Romanticismo, prefigura il suo scioglimento nella realtà di tutti:
una infinita presenza al valore, cui l’amore aggiunge
instancabilmente possibilità di vita e azioni22.
A fronte di questo modo di procedere dell’argomentazione filosofica capitiniana, la maggior parte degli
studiosi23, pur registrando l’interesse letterario e gli
studi universitari dedicati al poeta recanatese, non è
andata oltre la parafrasi di quanto lo stesso Capitini
dice sulla sua «conversione» degli anni 1918-19 nello
scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo
e in altri passi delle sue opere:
Autodidatta accuratissimo, in condizione di povertà
per le grammatiche e i classici che compravo ad uno
ad uno, sottoponevo la mia gracile costituzione fisica
(che mi aveva risparmiato il servizio militare e la
guerra) ad uno sforzo che mi portò all’esaurimento
e alle continue difficoltà del sonno e della digestione; così, oltre il classicismo letterario e quasi filoA. Capitini, Educazione aperta, vol. II, cit., pp. 3-8.
È il caso non isolato delle prefazioni di Mario Martini alla
riedizione delle opere del perugino a cura della Fondazione Aldo
Capitini e delle due pur accurate biografie intellettuali su Capitini: G. Zanga, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Bresci
editore, Torino 1988; F. Truini, Aldo Capitini. Le radici della
nonviolenza, Il Margine, Trento 2011. D’altra parte, Zanga ricorda (G. Zanga, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, cit., p.
74) come non mancasse mai nelle orazioni pubbliche di Capitini
qualche citazione di Leopardi e ravvede (ivi, p. 107) un’eco della
condanna leopardiana della natura matrigna nelle argomentazioni
di Capitini a favore del vegetarianesimo come rottura dell’ordine
naturale; mentre Truini accenna (F. Truini, Aldo Capitini. Le
radici della nonviolenza, cit., p. 137) all’intreccio leopardiano
sul tema della festa.
22
23
264
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
logico, la conoscenza della Bibbia e la vicinanza al
Leopardi, acquisii in quegli anni anche l’esperienza
della finitezza umana, del dolore fisico, dell’inattività
sfinita in mezzo alle persone attive, un’esperienza
che, con la componente della costruzione culturale,
era la componente della ricerca etico-religiosa, già
da anni indipendente dalla religione tradizionale24.
Eppure, non può essere un caso se lo stesso Capitini
in un dialogo con Guido Calogero nel 1963 sulla rivista
«La Cultura», costretto alla sintesi, definisce il suo
sistema filosofico «kantiano-leopardiano»25. Bisogna
però subito premettere che Capitini quando studia un
autore – e ciò vale in questa sede per Leopardi, ma in
altre per Gandhi, Kant o Hegel – non mira a un’operazione filologica, ossia a un esame critico staccato
dalla propria vita. Per lui interpretare è sempre riattualizzare, così come il conoscere il mondo è sempre
connesso con il volerlo cambiare. Gli interessa in primo luogo capire, ma soltanto per afferrare quell’essen24
A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo, in Id., Scritti
sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Protagon, Perugia 1992,
p. 3. Originalmente apparsi in «La Cultura», 6 (1968), 10, pp. 457473. È il profilo autobiografico che Capitini scrive nell’agosto del
1968, a due mesi dalla morte (19 ottobre). «Penso di stendere ora
alcune pagine intitolate Attraverso due terzi di secolo!», scrive
da Perugia il 16 agosto all’amico Walter Binni, inviandogli il
21 agosto il dattiloscritto, datato 19 agosto. Il 16 agosto ne ha
proposto la pubblicazione a Guido Calogero sulla sua rivista,
«La Cultura», dove sarà pubblicato postumo. Capitini ha dunque
scritto Attraverso due terzi del secolo in pochi giorni, lavorando
sdraiato per attenuare il dolore della malattia per cui sarà fatalmente operato in ottobre.
25
A. Capitini, Apertura e dialogo, in Id., Educazione aperta,
vol. I., La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 7.
lA potenzA dell’immAginAzione
265
ziale di una posizione teorica che gli permetta poi di
inquadrarla nella più ampia storia della cultura e/o di
integrarla nella concezione personale che pian piano
va formandosi. Così si può capire come l’itinerario
formativo capitiniano coniughi lo studio letterario di
Leopardi con il riconoscimento di sé come persuaso
sulle orme di Michelstaedter, da cui prese il termine
e che declinò da subito anche in senso antifascista e
nonviolento (raccolse i pensieri di quegli anni in La
persuasione religiosa, che ebbe solo una circolazione
clandestina tra gli amici).
Tra le poche eccezioni negli studi capitiniani26, Federica Curzi considera la poesia di Giacomo Leopardi
e la visione del mondo in essa presente tra le fonti
dirette della filosofia di Capitini, senza fermarsi alla
sola enunciazione del dato di fatto. In questo senso
Leopardi costituisce non solo una passione degli studi giovanili, ma diventa una presenza costante, una
«chiave di lettura che gli permetterà, a volte, di comL’eccezione più corposa per quantità mi pare C.F. Pedretti,
Approssimarsi alla compresenza: Aldo Capitini e Giacomo Leopardi, in Id. Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini, Vita
e Pensiero, Milano 2005, pp. 392-441. Pedretti si focalizza molto
sull’aspetto dell’educazione letteraria e sul confronto con Gentile,
riguardo la correlazione tra le filosofie di Capitini e Leopardi la
imputa «al complesso maturare del pensiero leopardiano, che non
soltanto implica un compenetrarsi di motivi civili ed eroici e di
motivi idillici e sentimentali fin dalle prime esperienze poetiche,
ma insinua una persistente tensione all’interno di quella stessa
produzione giovanile che già ne spinge gli elementi verso un
suggestivo orizzonte religioso non confinato nella pura contemplazione, ma impegnato sul piano della prassi, capace di un’originale
commistione con il campo dell’arte e, in particolare, volto ad
assegnare un nuovo significato ed un’alta valenza educativa alla
dimensione della forma» (ivi, p. 410).
26
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
266
piere quel salto in avanti nel superamento di posizioni
filosofiche inadeguate alla proclamazione di una realtà
liberata»27. Gli studi letterari e critici sono il fondamento necessario per uno «uno sviluppo in senso eticoreligioso» delle tematiche leopardiane, sviluppo che
mira a rintracciare nel poeta recanatese l’esistenza di
una tensione interiore verso la possibilità di una realtà
diversa, liberata dai limiti della morte e della violenza,
a farne appunto un preludio di Persuaso. Allo stesso
tempo il sentimento leopardiano d’insufficienza verso
la realtà così come essa è e la sua protesta contro una
natura matrigna costituiscono per Capitini il nastro di
partenza per accedere a una nuova comprensione del
mondo. Dal particolare punto di vista di una serena
accettazione del limite, di questa siepe che da tanta
parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, Capitini
può immaginare lo spazio infinito dell’apertura nonviolenta. Il contributo più peculiarmente filosofico che
il perugino scorge nel «travaglio spirituale leopardiano
è nella tensione che conduce dalla non accettazione di
una realtà insufficiente alla ricerca – vissuta nel suo
umano soffrire, spezzarsi, amare, imbattersi nei limiti
e nella morte – di una liberazione»28, di una realtà che
non accetti la morte come dato, che non sia rassegnata
alla legge del pesce grande che mangia il pesce piccolo,
al fatto che «l’acqua di una piena copre egualmente un
sasso e il volto di un bimbo»29.
La soggettività che scaturisce da questo movimento dischiude alla sua immaginazione una realtà
F. Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella, Assisi 2004, p. 26.
28
Cfr. ivi, pp. 26 e segg.
29
A. Capitini, Vita religiosa, Cappelli, Bologna 1942, p. 11.
27
lA potenzA dell’immAginAzione
267
corale e multidimensionale, in cui finito e infinito si
compenetrano e così anche la formula auto-definitoria
del “kantiano-leopardiano” assume le sembianze di
un percorso di recupero della finitezza che non abbia
come suo mortale esito il contraltare di un assoluto
trascendente. E aggiungo: se Capitini da Leopardi ha
imparato a sentire il finito e immaginare l’infinito,
dall’approfondimento della ragion pratica ha appreso la
possibilità per l’umano (che lui estese a tutti gli esseri)
di partecipare sia del finito che dell’infinito: questa
compresenza, che ha origine nell’atto poetico del Tu, è
il nucleo del suo argomentare filosofico. In altre parole,
Capitini usa l’atto poetico leopardiano – certamente
non solo quello, ma anche Hegel e altri – per ricucire
lo iato tra sensibile e intelligibile30.
3. Appare ormai chiaro, quindi, che anche gli Svolgimenti interni alla poesia leopardiana non vanno
considerati un esercizio di critica letteraria estrinseco
alla maturazione filosofica di Capitini, ma contengono
già quegli elementi leopardiani capaci, nelle intenzioni
del perugino, di rafforzarne il contesto teorico31. Tant’è
30
In una lettera a Walter Binni del 26 agosto 1967 Capitini
si definisce non senza una punta di ironia «come Leopardi, un
razionalista fin quanto si riesce ad esserlo. (Me lo disse Ginzburg:
altro che mistico, sei un razionalista)» (cfr. A. Capitini, Agli amici.
Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma 2011, p. 48).
31
Così scrive, nel contesto di una critica all’utilitarismo: «tutte
quelle cose che il Leopardi chiamava virtù, sono state per molti
anni per me tema di ricerca» (A. Capitini, Educazione aperta, vol.
I, cit., p. 100). Riprendendo la medesima critica in Id., Educazione
aperta, vol. II, cit., p. 279, cita come ammonimento per il campo
utilitario i vv. 59-65 de Il pensiero dominante di Leopardi.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
268
che Capitini stesso inserisce il saggio, pressoché immutato, nell’ultima opera da lui pubblicata in vita, il
secondo volume di Educazione aperta, in cui raccoglie
e porta a compimento il suo rivoluzionario programma
pedagogico. L’inserimento è giustificato dall’Autore in
apertura del capitolo dedicato all’educazione letteraria
che ha tra i suoi valori più importanti «vedere che il
Bello può avere una nascita faticosa, accertare che il
meglio è venuto dopo, luminosamente in seguito a
ricerca. Per questo faccio seguire un saggio sulle correzioni nella poesia del Leopardi»32. In questo saggio
Capitini ravvede in Leopardi un movimento teorico
che lo porta da una iniziale posizione platonica a una
pratica, movimento che per il Recanatese va inteso in
senso più ideale che cronologico:
Il conte Giacomo Leopardi che nasce, più di ogni
altro poeta, entro la tradizione più tradizionalistica,
la più nobilesca, clericale, paesana, filologica, esce
dalla superiorità del suo palazzo in A Silvia dove
Silvia e lui sono proprio sullo stesso piano, entro la
giovinezza, la primavera, il canto, il comune destino, e così si avvia alla Ginestra, e ad affermare un
vangelo ultrailluministico e ultrarisorgimentale, di
una socialità prometeica e innocente33.
Soffermarsi su questo movimento, la cui interpretazione non è certo esente da possibili critiche, è indispensabile per comprendere come Capitini possa usare
il suo Leopardi, ormai persuaso, nella comparazione
Ivi, p. 216.
A. Capitini, Svolgimenti interni alla poesia leopardiana,
cit., pp. 29-30; anche in Id., Educazione aperta, vol. II, cit., p. 235.
32
33
lA potenzA dell’immAginAzione
269
con altri pensatori, per far emergere la potenzialità
di quel di più che egli sente di aggiungere ai testi del
poeta. Proviamo a fare un paio di esempi.
Parlando della contrapposizione filosofica tra le
concezioni della storia vivente e le concezioni del nulla, Capitini prende come paladino delle prime Benedetto Croce e a questi mette di contro proprio Leopardi,
mostrando come soltanto dalla posizione di quest’ultimo – che ha indicato «l’infinita vanità del tutto e lo
spegnersi di ogni atto, pur caro» senza rinchiudersi
in un «nichilismo inerte, ignavo e insensibile» – sia
possibile il superamento del dualismo34. Così, arriva a
dire nel capitolo della Compresenza intitolato Più del
mondialismo dei viventi:
La protesta per il passo della morte è più religiosa
che la sua accettazione, e il Leopardi è più religioso
del Croce. Dal Leopardi possono venire le aperture
pratiche religiose, dal Croce può venire il servizio
ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l’affermazione dei
valori. Il Leopardi comprende questi (le virtù), ma
cerca gl’individui, e li vede morire, non li trova più,
sono i morti. È aperto, dunque, al tu; in potenza
ci sono le aperture pratiche religiose. Come si può
arrivare a capire la compresenza se non ci si apre al
tu-tutti, e non si protesta contro i colpi che la realtà
dà loro? Finché siamo davanti a una società-realtà
come è questa, non ci si può borghesizzare e accet-
34
Cfr. A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi,
cit., pp. 131-132.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
270
tare i modi con i quali essa si manifesta. Ci si pone
in una posizione di protesta-rivoluzione35.
La domanda che Capitini inserisce nel ragionamento
non ha bisogno di una risposta, ma pensiamo che possa
essere anche ben parafrasata in: “Come si può arrivare a
capire la filosofia della compresenza se prima non si capisce il modo in cui Capitini interpreta e usa Leopardi?”.
Il secondo caso di confronto che qui proponiamo
non è oppositivo, ma un rafforzamento e una chiarificazione di posizioni. Secondo il filosofo perugino,
quando Mazzini afferma che l’universo non potrà
risorgere se non grazie agli sforzi concordi di tutti i
mortali, egli non fa altro che concretare l’augurio della
Ginestra di Leopardi36. E ancora Mazzini, esprimendo
in campo politico-sociale «la supremazia dell’ideale
nel dramma della vita», non nel senso di prevedere che
si realizzerà, ma di garantire l’attuazione nella realtà
di questo «ideale inteso in modo più largo e messo
nel moto del progresso, non esclusivamente questo o
quell’ideale politico e particolare. Anche qui il Mazzini
è vicino al Leopardi, e realizza il sogno di lui: che la
virtù, che l’alto sentire, che lo slancio ideale, fossero
realtà più valide di questa realtà avversa»37.
4. Degli usi concettuali di Leopardi – e quindi degli
elementi filosofici che Capitini trasfigura nel suo contesto teorico-pratico – qualcosa si è già detto. Prima di
concluderei vorrei però indugiare su due termini geneIvi, p. 131.
Cfr. A. Capitini, Educazione aperta, vol. II, cit. p. 297.
37
Ivi, p. 311.
35
36
lA potenzA dell’immAginAzione
271
rativi della filosofia di Capitini: il primo, la Festa, che è
il punto di congiunzione tra persuasione, nonviolenza e
compresenza; il secondo, il Tu, che ne è l’atto fondativo.
Il punto di partenza è sempre il contrasto con il
mondo, l’insufficienza della realtà («E d’un celeste
fuoco | Disprezzo è la mercé» scrive Leopardi nel Risorgimento, citazione ripetuta in Capitini): ma anche se
sia pessimismo sia ribellismo sono monchi della pars
construens, senza un tale sentimento di contrasto con
il mondo non è possibile procedere con un «animo del
costruire»38. Infatti, in ogni individuo c’è un’antitesi
che dall’interiorità si specchia nella realtà di tutti i
giorni, quella tra la festa e i giorni feriali:
È un’antitesi intima e cara al sentimento, per la quale
nella festa tutto è diverso, la casa, la luce, le siepi della
campagna; e anche in noi c’è una pacatezza solenne,
una disposizione alla mitezza, a sorpassare i contrasti, a non portare nel drammatico le innumerevoli
asprezze e avversità e difficoltà del vivere. C’è nella
festa qualche cosa di misterioso, di indefinibile e non
circoscrivibile con la misura del pensiero: la sostanza
stessa della realtà appare diversa, la trama dell’aria e
del vibrare, l’aprirsi della sensibilità; siamo in qualche
cosa di altro, c’è una presenza diffusa39.
Di cosa allora rimane deluso l’animo di Leopardi?40
Si risponde Capitini: dell’immaginazione che l’ha trat38
A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi,
Torino 1950, p. 86.
39
A. Capitini, Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di
Avanguardia, Bologna 1949, p. 95.
40
Cfr. A. Capitini, Educazione aperta, vol. I, cit., p. 34: «Prima
c’è il Kant e c’è il Leopardi, che è triste davanti alla festa perché
272
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
to in inganno perché la festa sembra autorizzare al
sogno di una felicità alta, di uno stato di beatitudine
terrena. In quel sogno il poeta effonde «il desiderio
di uno stato misteriosamente nuovo e indicibile» che
rende doloroso il ritorno al calendario, quando la realtà
della festa torna a mimetizzarsi nei giorni scanditi dal
lavoro. Da una parte abbiamo la struttura dei giorni
ordinari, che è quella «di sonante intreccio drammatico
di attività», dall’altra la struttura capovolta dei giorni
di festa, nei quali «dal silenzio e dalla sospensione
emerge un atto, un gesto, un insieme di suoni, che hanno il valore di rivelazione, di celebrazione, di liturgia.
Questo capovolgimento è da tenere ben presente per
comprendere l’intimo valore della festa e per vedere il
punto a cui essa può essere portata anche da noi»41. Il
problema del poeta, ciò che non riesce a superare, è lo
stordimento che si porta addosso dai giorni di lavoro, e
così nella “domenica di festa” gli pare di toccare il vuoto della realtà «che gli era fatto meglio conoscere da un
passo solitario nella via, dal suono di un organetto, da
un raggio di sole cadente, più triste del consueto. Egli
non sentiva che quel vuoto dall’agire, quel silenzio tra
gl’individui, era una presenza religiosa»42. È proprio
nell’intimo di questi sfasamenti che Leopardi non ha
esitato, osserva Capitini, nel pronunciare il tu a Silvia
e il tu alla «lenta ginestra». Ma è il Canto notturno
d’un pastore errante nell’Asia a configurarsi soprattutto come «canto del filiale e fraterno tu; e il tu è più
che alla luna». Un tu che ha la funzione di «risolvere
e superare tre cose: la rappresentazione paradisiaca,
“Nerina ora non gode”».
41
A. Capitini, Italia nonviolenta, cit., pp. 95-96.
42
Cfr. ivi, pp. 96-97.
lA potenzA dell’immAginAzione
273
il fare ragionativo, il romanticismo eroico»43. Capitini
lo spiega ancor più chiaramente in una lettera a Binni
da Cagliari, il 13 giugno 1963:
Non ci fu il tempo che chiarissi al COR quello che
accennai, e che non è nuovo: il recupero che il Leopardi fa in situazioni di pieno sentire (“non chiamerò
spietato chi lo spirar mi dà”), e in quadri di suprema armonia (paesaggi e altro). E ripeto: il valore
grandissimo di questo essersi appuntato verso il tu,
come nessun altro nella poesia italiana. Il Tu con la
maiuscola preferisce vanificarlo, e metterci il nulla,
l’infinito, il silenzio; al tu limitato dà, perciò, tutto il
rilievo che può. Restava da chiarire filosoficamente
un problema di realtà; e il punto è tutto lì44.
Il Tu con la maiuscola è l’atto del Tu che sta alla
base dell’orientamento nonviolento, grazie al quale
soltanto quotidianamente si rinnova il miracolo della
nascita («La mia nascita è quando dico un tu», scrive
Capitini poeta in Colloquio corale), non ha una direzione predefinita, non può essere scelto: si rivolge a
ciascuno individualmente, ma tenendo presenti i tutti.
43
Cfr. A. Capitini, Svolgimenti interni alla poesia leopardiana, cit., pp. 24-25. Anche Id., Educazione aperta, vol. II, cit.,
p. 229.
44
Contenuta in A. Capitini, Agli amici, cit., p. 36. Le sottolineature, qui rese con il corsivo, sono di Capitini. “La religione del
Leopardi” è una lezione ricorrente nei cicli di incontri organizzati
da Capitini per lo sviluppo del Centro d’Orientamento Religioso a
Perugia. Per una trattazione più estesa del tema della festa, che ne
contempla anche le implicazioni pedagogiche e sociali, il rimando
è a G. Falcicchio, I figli della festa. Educazione e liberazione in
Aldo Capitini, Levante, Bari 2009.
274
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Così Leopardi “protesta”45, non accetta la realtà così
com’è, non accetta che la natura umana venga quotidianamente strappata ai suoi alti sentimenti, proprio
in virtù del fatto che «non si rassegna a che Silvia non
canti più, a che Nerina non veda più la primavera»46.
A questa impostazione, abbiamo visto, Capitini fa la
sua libera aggiunta: la persuasione che attraverso atti
di nonviolenza si possa pagare il proprio debito con
la violenza, e, sviluppandosi in crescente nonviolenza
verso gli esseri, rimediare alla crudeltà della natura e trasformarla progressivamente; così ogni atto di
nonviolenza è anche un atto di speranza in una trasformazione della cruda forza della natura. Quella
contrapposizione assoluta tra le due posizioni, della
compresenza come salvezza e della Natura come distruzione dei singoli individui (che essa produce, secondo il detto leopardiano: «madre in parto ed in voler
matrigna»), si attenua, argomenta Capitini, se viene
visto nella compresenza un dinamismo, alla cui punta
estrema sta la trasformazione della Natura “secondo
la compresenza”.
È con questa tensione del Tu che Capitini «tutti
abbraccia con vero amor»47 come parte di quell’u45
«E il Leopardi faceva la sua protesta, non con baldanza
ma con candore, contro ogni potere esterno, arbitrario, crudele. Bisognava che questa contrapposizione fosse sempre meno
pura ribellione e sempre più fondazione di valori, assunzione
di responsabilità, e da separazione tra l’uomo e Dio diventasse trasferimento di valore e di responsabilità: altrimenti l’uomo
restava quello che era sotto il Dio arbitrario e in funzione di
quello», scriveva Capitini nel 1950 (Id., Nuova socialità e riforma
religiosa, cit., p. 125).
46
Ivi, p. 100.
47
La ginestra, vv. 130-131.
lA potenzA dell’immAginAzione
275
mana compagnia, degna solo se “confederata”, cui il
poeta-filosofo recanatese allude nella Ginestra. Qui,
alla ricerca di un nuovo modello di esistenza etica,
Leopardi – con un’azione di una potenza paragonabile nella cultura italiana a quella che Giordano Bruno
compie nella Cabala del cavallo pegaseo – abbatte
ogni differenza e costruisce un ponte che giunge direttamente alla sponda estrema degli esseri senzienti:
il fiore. È la ginestra che sola, protestando contro la
realtà-deserto, prefigura la “festa” di una futura alleanza e rende possibile immaginare altri paesaggi. Ed
è questa una delle immagini che ha in mente Capitini
nel descrivere la “persuasione alla compresenza” nella
sua opera filosoficamente più complessa:
Il Leopardi non ritenendo possibile che una sola
realtà, serve i valori e si apre al tu-tutti (tanto che
ne fa un problema non solo del destino proprio, o
di Silvia o Nerina o la donna bella nel sepolcro),
e protesta quindi, e vorrebbe lasciare questa realtà
che non si adegua agli esseri, che è matrigna: al
massimo propugna l’unità di tutti, l’amore tra tutti
e perfino «una grande alleanza contro alla natura»
che comprenda non solo gli esseri intelligenti, ma
anche i bruti cioè i subumani48.
Naturale contraltare ne è una nota zibaldonica del
13 aprile 1827, scritta da Leopardi in preparazione
della Lettera a un giovane del XX secolo dove viene
posto il tema della possibile modificazione dei rapporti fra le specie e con la natura, tema molto caro al
48
A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, cit.,
p. 132.
276
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
filosofo perugino. Come ancor più caro gli è il tema
della guerra, da antimilitarista qual era; anche su questo punto la sua riflessione può trovare in Leopardi
un sostegno, anche dal punto di vista dell’analisi49.
Per il poeta recanatese l’interesse politico è sempre
indissolubilmente legato a questioni morali, e lo dimostra allorché, rifacendosi alla tradizione del pensiero
politico settecentesco, pone il problema del governo
delle nazioni, chiedendosi quale sia il modo migliore di
giovare al pubblico interesse, alla pubblica utilità: egli
riconosce nel binomio libertà-uguaglianza il massimo
bene da perseguire, escludendo qualsiasi tipologia di
“società stretta”. Analogamente, per Capitini una “società aperta” è una comunità che tende all’infinito e
che grazie a questo si apre all’immaginazione di nuovi
mondi possibili, nello sforzo continuo dell’esercizio
del potere di tutti per garantire a ciascuno il massimo di libertà e il massimo dell’uguaglianza: l’abisso
in cui nella storia, ripetutamente, questo sforzo naufraga è quello della guerra. Leopardi ne condivide la
tragicità e anzi afferma che con essa viene a cadere
ogni analogia tra la specie umana e «qualsivoglia altra
specie conosciuta, sia animale o inanimata, sia d’animali insocievoli o de’ più socievoli dopo l’uomo»50. La
ratio politica, l’interesse utilitaristico per la quale la
guerra è sempre possibile si dispiega come astrazione
dal vivente e dal Tu: in questa astrazione c’è la radice
49
Su una possibile polemologia contenuta nello Zibaldone si
rimanda al contributo di R. Bruni, Leopardi, la guerra moderna
e la tendenza all’estremo, in N. Turi (a cura di), Raccontare la
guerra. I conflitti bellici e la modernità, Firenze University Press,
Firenze 2017, pp. 207-214.
50
Cfr. Zib. 1390-1393.
lA potenzA dell’immAginAzione
277
stessa della violenza51. Una volta che questa radice è
stata riconosciuta, cade ogni tentativo di giustificare
la guerra, chiamandola con i diversi nomi di “diritto”,
“strategia”, “giustizia”, “missione di pace”:
Se davanti alle forze della Natura non ci si è mossi
con il programma che la lotta e la loro utilizzazione
fosse per tutti, «fra sé confederati» diceva il Leopardi, si è persa la tensione a trovare il punto della
trasformazione della Natura al servizio di tutti, come
singoli: chi dà la morte, non può rimproverare la
Natura di preparare la nostra morte52.
Capitini e Leopardi hanno coscienza dei limiti
dell’esistenza umana e sanno interrogare la vita e la
morte perché avvertono che «niuna cosa maggiormente dimostra la potenza dell’intelletto umano che il poter
l’uomo comprendere e sentire la propria piccolezza»53.
Tutti e due cercando di andare oltre la logica oppositiva
delle concezioni dualiste, operano in via incrementale,
per aggiunte; assumono toni che sono stati variamente
intesi “profetici” e che li hanno spinti sulla strada di
una riforma della religiosità: e di tutti e due, in varie
forme, i testi, sebbene così lontani nel tempo, vengono
messi all’Indice dei libri proibiti. Li lega anche la forma
dell’elaborazione filosofica così strettamente legata
alla poesia – pur con le dovute differenze –, intesa
come atto conoscitivo sia preliminare che interno allo
svolgimento del pensiero. Abbiamo poi visto anche
Cfr. C. Veronese, Etica animalista ed ecologica in Giacomo
Leopardi, «Appunti Leopardiani», 8 (2014), 2, pp. 5-6.
52
A. Capitini, Il potere di tutti, Guerra, Perugia 1999, p. 94.
53
Zib. 3171.
51
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
278
come l’uso filosofico che Capitini fa degli elementi
leopardiani rafforzi un messaggio propositivo in ambito etico-sociale, portato alle radicali conseguenze
dalla prospettiva nonviolenta. Non è tanto il fatto che
la “natura matrigna” della Ginestra leopardiana può
essere radicalmente superata soltanto dalla compresenza orientata alla nonviolenza, quanto il fatto che
il Leopardi persuaso di Capitini fonda la possibilità
della nonviolenza sul sentimento della natura matrigna
che è da trasmutare in una realtà liberata. Non sarà un
caso se nella raccolta poetica Atti della presenza aperta ritroviamo un versetto che, in forma di domanda
(ma di domanda retorica, la cui risposta è senz’altro
“sì”), sembra far un dolente controcanto al versetto
di Giovanni («E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce»), antifrasticamente posto in epigrafe
alla Ginestra di Leopardi. Scrive a sua volta Capitini:
«Non bastavano le tenebre a far dubitare della luce?».
Ancora una volta un barlume di risposta può arrivarci
da una lettera che il filosofo perugino invia a Binni,
il 19 ottobre 1962:
In questi giorni […] pensavo che assolvo un debito
fondamentale della mia vita, che sta in rapporto alla
posizione del Leopardi (a parte la felicità, colore che
gli viene dal Settecento); muovere filosofia, religione,
politica, per la finitezza degli esseri; il Leopardi ha
cantato dolorosamente il loro sparire, di tutti, anche
del passero; io ho cercato di guardare se veramente
spariscono, e di muovere (come è del Novecento)
la prassi. Basta questo per giustificare una fatica54.
54
Contenuta in A. Capitini, Agli amici, cit., p. 34.
lA potenzA dell’immAginAzione
279
La capacità di immaginare propria del poeta viene
tesa all’infinito dal filosofo nello sforzo di pensare modalità diverse, migliori e meno violente di interazione
tra gli esseri umani fra loro, con le altre specie e con la
natura. Il coraggio di rischiare e intraprendere strade
nuove, a partire dall’elaborazione di alcuni principi
basilari, si abbina in Leopardi e Capitini a una visione
di crescente consapevolezza, di coscienza appassionata della propria finitezza: così si apre l’infinito, si
schiudono all’immaginazione del futuro i limiti, gli
errori, le pratiche che noi stessi abbiamo abbracciato
o sostenuto, e che oggi possiamo a buona ragione considerare violente; e pertanto rifiutare e superare, con
la forza di un fiore55.
55
Tanto che Pietro Pinna, che portò avanti con Capitini e
dopo la sua morte il lavoro per la nonviolenza organizzata, amava
ripetere (anche a me) che formalmente avevano dovuto dare al
Movimento Nonviolento uno statuto, ma che il vero manifesto
degli amici e delle amiche della nonviolenza non poteva che rimanere la Ginestra di Leopardi.
LA COMUNITÀ IMMAGINATA:
L’IDEA DELLA RELAZIONE SOCIALE
TRA SCETTICISMO, MATERIALISMO E POLITICA
IN RENSI E LEOPARDI
Franco Gallo
Ne Le ragioni dell’irrazionalismo Giuseppe Rensi
dedica un importante capitolo alla “teoria della pazzia”,
nel quale relativizza i concetti di sanità e devianza mentale (per dirla in termini moderni). Rensi sostiene che
la migliore approssimazione alla piena sanità mentale,
coincidendo con il puro empirismo e l’esercizio rigoroso
del pensiero astratto, finirebbe per recidere ogni rapporto del concreto pensiero umano con «tutto quello che
più pressantemente importa alla nostra vita spirituale»1.
In un più tardo testo (Le ragioni dell’irrazionalismo esce nel 1933)2, La Morale come pazzia, Rensi è
portato, non a caso, ad attrarre sul quadro in fondo
cristiano-paolino della pazzia creativa la capacità della persona di proporre innovazione etica e valoriale3;
G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, a cura di M. Fortunato, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, p. 140.
2
Edito presso Guida, Napoli.
3
G. Rensi, La morale come pazzia, a cura e con introduzione
di A. Montano, Mattia&Fortunato Editori, Napoli 2006 (ed. or. a
1
282
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
in questo quadro nessun fattore etico sembra potersi
qualificare come fondamento di una relazione sociale
orientata alla comune negoziata determinazione dell’agire, né ciò varia rispetto a prese di posizione più antiche proprie di una fase di forte presenza di Rensi nel
dibattito politico4.
In Rensi infatti è sempre presente un’idea della relazione tra le posizioni individuali mediate nel corpo
sociale che è di sapore schmittiano5, legata alla tesi
dell’opposizione permanente e non negoziabile tra
le diverse assunzioni di valore. Rensi non condivide
affatto un pensiero caratteristico della generazione,
prevalentemente inquadrata nello storicismo, a cui biograficamente pure apparteneva: ossia che vi sia una
reale dimensione di accomunamento degli uomini in
un quadro storico-generazionale che ponga loro, insieme ai problemi peculiari della loro moralità, anche
la strumentazione culturale e teorica per affrontarli
come collettività.
cura di A. Tilgher, prefazione di a.f. [A. Fersen], Guanda, Parma
1942); cfr. soprattutto pp. 98-101 e 112-116.
4
Cfr. «Perché la vita politica fosse razionale, occorrerebbe
l’unanimità, e non nella fantasia o nell’arbitrio, ma nella realtà di
fatto. Ciò è impossibile; dunque l’irrazionale del puro imperio,
della coartazione, della mera autorità è indispensabile e sempre
presente» (Id., La filosofia dell’autorità, La Vita Felice, Milano
2013 [ed. or. Sandron, Palermo 1920], p. 125). Si vedano anche le
notevoli pp. 92-96 in Id., La morale come pazzia, cit.
5
I limiti della sovrapponibilità tra la posizione schmittiana e
quella di Rensi sono evidenziati, tuttavia, con pertinente riferimento alla diversa prospettiva gnoseologica di fondo, da F. Mancuso, Aporie dell’autorità e della democrazia. Politica, diritto,
filosofia in Giuseppe Rensi, in F. Mancuso, A. Montano (a cura di),
Irrazionalismo e impoliticità in Giuseppe Rensi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 51-70, passim, ma soprattutto pp. 65-66.
lA potenzA dell’immAginAzione
283
A differenza di altri spiriti coevi, l’accomunamento
generazionale come dimensione portante dell’identità
è completamente negato da Rensi, e con esso anche la
natura sostanziale del legame sociale; l’eticità condivisa con un gruppo sociale e culturale di appartenenza,
che ancora Heidegger assume de facto come destino
della “generazione”, viene trasformata dall’approccio
rensiano attraverso uno sguardo scettico che relativizza prima di tutto ogni patriottismo e ne fa soltanto
una sorta di miopia congenita dell’agire umano nella
storia6. Né d’altronde sfuggono alla relativizzazione
rensiana anche le diversità dei “costumi” e delle pratiche sociali, ineluttabilmente ricondotte a un aliter
sed eadem7.
6
Cfr. Id., Frammenti di una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, Orthotes, Napoli-Salerno 2011 (ed.
or. Guanda, Parma 1937), pp. 94-95; per un confronto su posizioni antitetiche vd. M. Heidegger, Sein und Zeit, 19. Auflage.
Niemeyer, Tübingen 2006, § 74 e, per limitarne la leggibilità in
esclusivo ingenuo senso nazional-patriottico, il commento di T.
Sheehan, reperibile a https://www.academia.edu/24936041/HEIDEGGER_ON_HISTORICITY_AND_SCHICKSAL_IN_SEIN_
UND_ZEIT_74?auto=download, Xi Tengsi Tsinghua University,
Beijing 2016 (consultato il 07.01.2020 – che poi altro orizzonte
concretamente Heidegger non abbia saputo elaborare, è un altro
tema); in Italia almeno le pagine esemplari di R. Serra in Esame
di coscienza di un letterato: «Dietro di me son tutti fratelli, quelli
che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. Mi
contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le
divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e
che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una
cadenza, un destino solo, per tutti» (Scritti di Renato Serra, a cura
di G. De Robertis e A. Grilli, Le Monnier, Firenze 1939, p. 411).
7
G. Rensi, Le ragioni, cit., pp. 131-134. Nel medesimo volume
segue, non a caso, un capitolo sulla condizione statica della natura umana, con il logico corollario della negazione della storia.
284
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
Rensi giunge così a sostenere che quei legami sociali di doverosità patriottica o di eticità di classe, che
vengono immaginati come fondamenti valoriali del
cambiamento politico innescato dalle azioni dell’uomo, in realtà non hanno alcuna capacità di influire sui
fatti stessi.
In primo luogo essi si avvicendano continuamente
nella storia, appannaggio di ogni tipo di ideologia,
stato o regime8.
Inoltre in un mondo sempre più parmenideo, sulla
base di quella che è in fondo una lettura prevalente e
possibile della concezione del mondo elaborata dalla
teoria della relatività, i fatti sono già là; il futuro non
è l’esito imprevedibile del cambiamento dovuto all’azione incalcolabile degli individui, ma semplicemente
il manifestarsi nella sequenza spaziotemporale di ciò
che già è che non può che essere così9.
Rispetto a questo punto, massima è la distanza dall’antropologia
leopardiana, fondata sul concetto di conformabilità, che ha un
carattere ancipite non significando soltanto decadenza, e sulla
lettura dello sviluppo della condizione storica umana come esito
del caso e delle vicende delle diverse tecniche e non della ripetizione inerte dello schematismo naturale.
8
G. Rensi, Frammenti, cit., p. 109.
9
Ivi, p. 117. Non deve stupire la compresenza in Rensi di tre
diverse e apparentemente contraddittorie asserzioni: quella testé
commentata, quella che la storia è caso, e quella che la storia è
ripetizione; cfr. G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, con una nota
di R. Chiarenza, Adelphi, Milano 1991 (ed. or. Corbaccio, Milano 1937), capp. VIII e VIII, pp. 167-218. Unitariamente l’essere
appare a Rensi come una catena di ragioni sufficienti dispiegate
nel tempo-spazio, prive di giustificazione teleologica e come tali
volte a riproporre, con variazioni minime, un cliché sempre omogeneo. Vedi al proposito anche Id., Lettere spirituali, prefazione
di L. Sciascia, a cura e con nota bio-bibliografica di R. Chiarenza,
lA potenzA dell’immAginAzione
285
La vita politica dunque non è mai esito dell’azione
delle masse, ma solo opera degli individui eccezionali
che quelle masse manovrano e coartano10. Non esiste
nessuna autentica efficace azione storica delle opinioni,
delle correnti, delle linee di pensiero che attraversano
e agitano le collettività.
Ora si capisce bene come l’ostilità allo storicismo
idealistico porti Rensi a negare la dimensione di ciò
che si sarebbe definito allora “spirito” o “spirito dei
popoli”; ma la critica finisce per perdere, chiaramente,
la capacità di cogliere quegli elementi di storia della
mentalità e delle formazioni sociali collettive che, del
resto, erano estranee originariamente anche all’avvicinamento rensiano al socialismo, orientato piuttosto
alla dimensione movimentistica e attivistica.
Che non si tratti soltanto di una deriva del tardo
Rensi scettico e irrazionalistico, lo testimonia il poderoso capitolo L’inesistenza del popolo che ha un valore
centrale ne La filosofia dell’autorità, testo dell’epoca
della parziale convergenza del Rensi conservatore con
l’avvento del fascismo; «popolo», scrive Rensi, non è
che un nome collettivo che ci permette di considerare
unitariamente gruppi di individui secondo un bisogno
comodistico del momento; e con ciò non vale né più
né meno dei concetti che designano invece le classi
sociali11. Non vi è un elemento fattuale profondo che
debba farci pregiare l’identità italiana piuttosto che
quella borghese, proletaria etc.; concetto che inevitabilmente dimostra, insieme ad altri tratti, la lontananza
Adelphi, Milano 1987 (ed. or. Bocca, Milano 1943), Lettera XX,
pp. 107-111, in particolare p. 109.
10
Ivi, p. 136.
11
Id., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 153-166.
286
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
prima e ultima del pensiero conservatore di Rensi da
quello fascista12.
L’isostenia13 delle posizioni morali, l’irrilevanza valoriale ultima delle identità storico-politiche, la dimensione centrale nella storia dell’individuo eccezionale:
tutto converge verso la tesi dell’impossibilità originaria
dell’accomunamento degli individui in istanze sociali
e politiche omogenee. La dimensione sociale appare
quasi epifenomeno privo di solida identità soggiacente.
Rensi sostiene anzi che solo eccezionalmente vincoli obiettivi di ordine culturale o economico sospingano un numero significativo di individui ad agire come
masse omogeneamente orientate (sempre al netto della
natura fenomenica e nominalistica di tali concetti). Un
caratteristico capitolo dei Principi di politica impopolare delinea un quadro dell’agire umano nel quale,
contro i semplicismi del riduzionismo economicistico
12
Cfr. sul tema T. Gazzolo, Giuseppe Rensi fascista? Note biografiche e scritti politici (1919-1923), «Materiali per una storia della cultura giuridica», 42 (2012), 2, pp. 331-355 (doi: 10.1436/38792).
Il testo analizza con estremo acume il punto di contatto tra Rensi
e il fascismo (la reazione al parlamentarismo e all’azione disgregatrice dei corpi intermedi sindacali) e il punto di frizione (per il
conservatore Rensi questa reazione deve appoggiarsi all’autorità
costituita della monarchia, per il fascismo invece farà leva sul
partito e quindi sulla democrazia di massa). Gazzolo analizza
anche l’oscillazione di Rensi sul vero fondamento dell’invocata
autorità monarchica (non più strettamente ancorata alla tradizione, ma, in quanto reagisce alla sfida del disordine socialista e al
caos politico, di natura affine al principe che per fortuna e virtù
costruisce e mantiene lo Stato). Su quest’ultimo aspetto vedi G.M.
Barbuto, Nichilismo e stato totalitario, Guida, Napoli 2007, p. 17.
13
Il concetto è discusso in particolare nel terzo capitolo di G.
Rensi, Apologia dello scetticismo, La Vita Felice, Milano 2011
(ed. or. Formiggini, Roma 1926).
lA potenzA dell’immAginAzione
287
e deterministico, i singoli individui sono spinti a far
parte, in modo simultaneo, di un numero vario se non
incalcolabile di affiliazioni con altri; e gli stessi movimenti principali, quello religioso e quello economico,
si confondono e mescolano tra di loro senza permettere
né appartenenze né distinzioni nette14.
L’accomunamento morale e politico è dunque illusorio, puramente immaginario15. Né il popolo né la
classe esistono: lo scetticismo rensiano opera su queste
come su tutte le altre dimensioni di identificazione
valoriale, gnoseologica, politica, religiosa, affermando
da un lato la positività del fatto, dall’altro l’irrazionalità del conferimento di senso che l’uomo opera nei
confronti del fatto. Che tutto già sempre sia lì, che sia
già anche immutabile nella sua (per noi) dimensione
futurativa, non ha altra ragion d’essere se non quella di
essere così; la costruzione immaginaria di percorsi di
senso, di valore, di razionalità del decorso della storia
si spiega come debolezza dell’intelletto umano, con la
persistenza di un «livello infantile» della capacità di
comprendere16.
G. Rensi, Principi di politica impopolare, introduzione di P.
Beltramin, La Vita Felice, Milano 2015 (ed. or Zanichelli, Bologna
1920), pp. 47-54 (da un articolo del 1919).
15
Cfr. G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, a cura di
N. Emery, Castelvecchi, Roma 2014 (ed. or. Zanichelli, Bologna
1919, I ed.; 1921, II ed.), pp. 156-157, sul tema del concetto di
popolo come «convenzionale e simbolica designazione d’un
gruppo di fenomeni», insieme di «gruppi disformi di individui
disformi», del tutto impalpabile se nemmeno il suo elemento
costitutivo primo, l’individuo, è già non sostanza ma nome simbolico di un insieme di rappresentazioni e di fenomeni. Il testo
riproduce la seconda edizione del volume rensiano.
16
Id., Frammenti, cit., p. 130.
14
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
288
Si può qui, solo implicitamente, individuare una tesi
essenziale che rimane in filigrana nel pensiero di Rensi.
La peculiarità del punto di vista filosofico, accessibile
a pochi, non può in alcuna misura essere mediata e
partecipata dalle istituzioni sociali ed educative; né lo
Stato, con la sua forza organizzativa, né la dimensione
comunitaria con le sue dinamiche espressive, comunicative economiche etc. riescono a dare all’individuo
accesso e/o partecipazione alla razionalità filosofica o
all’incivilimento morale; il che appunto sarebbe impossibile, poiché il senso di quelle forze collettive è quello
di manifestazioni dell’assurdo e dell’improvvido.
Dunque non vi è una partecipazione possibile, mediante un sistema di istituzioni sociali e pratiche, a un
contenuto morale e razionale che la filosofia individui
ed espliciti; né l’arte, la religione, la politica o la cultura, fino a quando sono affermazione del senso di
processi mondani, sono esenti dall’inanità del tutto
(essendo piuttosto fughe occultanti dalla verità ultima
del male e dell’errore).
Ma anche le dottrine egualitarie ed eversive, come
il socialismo, non vanno in direzione della riconquista
di un livello di umanità più alto; non si fanno eredi, per
il Rensi degli anni Venti e seguenti, che di atavismi
materialistici, di propensioni animali volte alla soddisfazione di istinti acquisitivi e di potere. Il movimento
socialista opera per costituire la nuova baronia privilegiata di un ceto, al di sopra della legge e del diritto,
a svantaggio di tutti gli altri17.
Il mondo contemporaneo appare così alla luce della
ragione filosofica rensiana non spazio fervido di politeismo dei valori, in contrasto vitale e in continua intera17
Cfr. Id., Principi, cit., pp. 44-45.
lA potenzA dell’immAginAzione
289
zione sintetica e politica gli uni con gli altri, bensì mondo dell’isostenia delle posizioni di forza che affermano
non valori (che non esistono) ma diritti, tutti egualmente
esigibili e pertanto tutti pariteticamente validi fino a
quando l’autorità della legge non li sceveri18.
Come in Leopardi, si è verificata una strage delle
illusioni; ma questa strage si estende, per Rensi, all’intera dimensione del mondo antico, a ogni tratto della
mentalità contemporanea e insomma a tutto il decorso
storico umano; non c’è spazio per la distinzione di va-
18
Come Rensi escluda la coerenza di un’etica della pluralità
materiale dei valori, si vede bene da diversi testi; in particolare
ne La morale come pazzia, cit., pp. 89-91, si espone la necessaria
antinomia tra le esperienze di piacere che debbono accompagnare
il perseguimento soggettivo del valore e dunque dalla certa conflittualità delle diverse prospettive individuali di etica materiale
dei valori. A Rensi sembra quindi completamente estranea l’idea
che il piacere, proprio in quanto mediato dalla produzione e dal
consumo dei beni, possa essere oggetto di un’esperienza che viene
a costituire una dimensione sempre più condivisa di gusto e di
inclinazione. Ciò anche per la sua corrosiva critica del linguaggio,
di cui a Lettere spirituali, cit., pp. 32-36, e le sue convinzioni in
materia di scepsi estetica, la cui espressione più efficace si trova
forse nella trattazione sintetica svolta da Rensi nei Paradossi
d’estetica e Dialoghi dei morti, Corbaccio, Milano 1937, dove la
relazione tra i diversi pareri estetici viene ricondotta alla medesima dimensione polemologica di quelli etici, religiosi e politici
con concisa chiarezza (cfr. ivi, p. 34). Nel maggiore G. Rensi,
La scepsi estetica, Zanichelli, Bologna 1919, viene esplicitata la
natura accidentale del costituirsi dei canoni e delle tradizioni, non
mancandovi un puntuale uso di Leopardi mediante un richiamo
al Parini (ivi, pp. 220-222); più problematicamente Rensi sostiene
anche che, reso incerto anche sulle proprie pretese dalla potenza
della scepsi, «il nostro isolato giudizio si sente nuovamente per
forza sospinto a cercar la conferma di sè stesso nel consenso degli
altri» (ivi, p. 224).
290
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
lore di determinate esperienze umane, che in Leopardi
rimane quanto meno come dato storico e come ipotesi
problematica di riappropriazione.
Neppure si salva la forma primaria di sociazione,
quella dei rapporti coniugali e parentali inscritti fin nel
cuore della costituzione affettiva della famiglia, che
Rensi, in un testo sotto molti aspetti segnato dall’acquiescenza a pregiudizi ideologici, svolge invece con
acume cogliendone gli elementi repressivi e le certe
conseguenze infelicitanti19.
A distinguere pertanto lo scetticismo rensiano da
quello leopardiano stanno due temi: uno, la natura
prevalentemente storico-culturale, e non intellettivognoseologica, dello scetticismo leopardiano20; l’altro,
19
«[…] ogni sforzo per la costruzione d’una comunità che sia,
oltre indipendentemente dal durare di questi bisogni [i bisogni
della prole, F.G.], spiritualmente intensa, intima e permanente, a
nient’altro conduce che ad infrangimenti, disinganni e delusioni»
(G. Rensi, Critica dell’amore e del lavoro, Etna, Catania 1935,
p. 66). Di qui l’idea che la famiglia umana, come quella animale,
potrebbe forse meglio dissolversi dopo l’accudimento della prole.
Il testo contiene altresì una critica serrata dell’idea che l’amore, affettivo e sessuale, possa essere foriero di accomunamento
umano e felicità.
20
Ho sostenuto in altra sede come in Leopardi lo scetticismo è
in realtà anche sempre dissolvimento della metafisica negativa, in
quanto quest’ultima è esito conforme di un medesimo dottrinarismo razionalistico che, non potendo o volendo dedurre il mondo da
Dio, dal mondo induce allora gnosticamente una potenza negativa
che ne sia fondamento e in ultima analisi ragione (per quanto
deforme e umanamente odiosa). La posizione scettica in Leopardi
funge allora da contraltare critico sia alla tesi della razionalità
metafisica dell’universo, sia a quella del fondamento ontologico
del male (cfr. F. Gallo, Conseguenze morali dello scetticismo in
Rensi e in Leopardi: un confronto, «il cannocchiale», 44 (2019),
1-2, pp. 191-214).
lA potenzA dell’immAginAzione
291
il diverso valore di quel carattere primitivo, infantile e
sorgivo, dell’immaginazione proprio ai fini della possibilità dell’ordine sociale e morale.
Pur convergendo in fondo anche Leopardi sull’idea
di un positivismo assoluto del fatto, il mondo leopardiano rimane lucreziano, largamente indeterminato, a
fronte di quello rensiano raggelato nel parmenidismo
della sua incomprensibilità sfingea. E il concetto di
scienza in Leopardi, anche per ovvie ragioni storiche,
porta con sé una minore invadenza teorico-previsiva
rispetto al sistema dei fatti.
Quanto all’immaginazione, occorre notare in primo
luogo che lo statuto ontologico dell’etica, in Rensi, si
pone come necessariamente irrazionale21; l’applicazione sistematica del decorso razionale e del consequenzialismo teorico di un’etica filosofica ai fatti del
mondo produce, in situazioni concrete, quegli esempi
ben noti (come Socrate o Trasea Peto) in cui atti moralmente eccellenti sono anche fallimenti realissimi, e ai
migliori individui toccano le sorti peggiori; sennonché,
per Socrate, Trasea Peto o anche Gesù, una fine preannunciata non toglie l’obbligo di sposare pienamente una
posizione etica a quel punto logicamente insostenibile.
Si origina qui la dimensione nuova del gesto esemplare,
folle agli occhi del mondo e concepibile appunto solo
per «pazzia»22.
Cfr. la notevole rassegna in G. Rensi, Critica della morale,
Etna, Catania 1935, che conclude, in realtà, che sono possibili bensì diverse forme dottrinali consequenziali, ma che la loro
unilateralità le rende inapplicabili ai singoli casi; una stessa «casuistica morale», poi, sarebbe ancora insufficiente dato che tutti
i casi sono diversi l’uno dall’altro (ivi, pp. 170-171).
22
Cfr. sul tema T. Ottobrini, Prodromi all’etica filosofica
della polis: tra l’aretalogia di Solone e l’ermeneutica di Giuseppe
21
292
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
La pazzia però non è immaginazione comune, propria di tutti gli uomini, ma appunto solo di pochi spiriti, intrinsecamente lontani dagli altri e rari nel tempo.
Anche in Leopardi la morale, ove fosse strettamente
utilitaristica e consequenziale, sarebbe incapace di
stringere alcun vero legame umano; ma il nesso teorico
attorno al quale ruota il tema dell’immaginazione in
Leopardi è molto più grande e variegato di quanto
accada in Rensi e permette una valutazione dell’agire
umano dove, senza che nulla venga tolto alla dimensione di distanziamento critico dalla Zivilisation, vengano anche preservate differenziazioni storico-sociali
dei suoi contenuti, elementi di articolazione del suo
funzionamento che si sottraggono alla “notte in cui
tutte le vacche sono nere” dove lo scetticismo rensiano
sospinge ogni affermazione umana di valore.
Leopardi fonda la coesione del corpo sociale su
illusioni, certo, ma anche su affetti. Di questi ultimi,
diremo brevemente che essi hanno una matrice ancora
anteriore a quella dell’immaginazione, promanando
dalla dimensione gregaria della specie e originandosi
dalla compassione, un «moto naturale» dell’animo che
assieme all’amor proprio, e al timore per la distruzione
di ciò che è caro e buono, forma una triade di potenti
affetti originari. Patire insieme, e insieme impedire
che il male accada, sono due dimensioni di natura23
Rensi sull’intellettualismo socratico, «Syzetesis», 5 (2018), 2, pp.
329-343 (vedi anche a https://www.syzetesis.it); per il riferimento
a Cristo cfr. p. 340. Sulla lettura del Trasea, peraltro, mi permetto
di rimandare a F. Gallo, Conseguenze, cit., nota 15 (cfr. G. Rensi,
Trasea, contro la tirannia, prefazione di A. Poggi, Corbaccio
Dall’Oglio, Milano 1948).
23
Cfr. Zib. 517-519. Per cui «Quello che ho detto in parecchi
pensieri della compassione che eccita la debolezza, si deve con-
lA potenzA dell’immAginAzione
293
alle quali lo scetticismo del fatto rensiano non attribuisce alcuna particolare distinzione. O non è forse
vero che la morale può sussistere, creativamente, solo
come pazzia? E che per il resto, si coltivano devianze
individuali minime dal costume del proprio tempo,
cosicché si apre uno spazio enorme, e apparentemente
deserto, tra l’idiosincrasia individuale e la creatività
etica assoluta?
Questo spazio intermedio è in effetti quello leopardiano delle illusioni, di quei valori e simboli attraverso
i quali la cultura e la società si rappresentano come
incarnazioni dotate di senso oltre la caducità della vita
individuale o oltre gli orizzonti materiali e animali
della vita.
Leopardi, come Rensi, non ha in simpatia nessuno
di questi (piccoli oppure grandi) orizzonti valoriali,
ma nondimeno il suo percorso di relativizzazione degli stessi è diverso, caratterizzato non da un’analisi
siderare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in
quel momento la loro forza, e ne’ quali questo sentimento contrasta coll’aspetto della debolezza o impotenza di quel tale oggetto
amabile o compassionevole: amabilità che in questo caso deriva
dalla sorgente della compassione, quantunque quel tale oggetto
in quel punto non soffra, o non abbia mai sofferto, né provato il
danno della sua debolezza. […] L’uomo forte ma nel tempo stesso
magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento
della sua forza un sentimento di compassione per l’altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa
facoltà di sentire l’amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore
che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli,
piuttosto che soverchiarli, ancorché giustamente» (Zib. 940-941).
Uomini secondo natura, appunto, come si dice nel dialogo tra
Plotino e Porfirio; e l’intervenire di Plotino contro il ventilato
suicidio di Porfirio nella nota Operetta è proprio dato dall’agire
di questo moto naturale descritto nella pagina zibaldonica.
294
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
storica monocorde, ma da una lettura più complessa
della diversità delle vicende dei popoli e delle loro
identità collettive. Da vero materialista, verrebbe da
dire da materialista della seconda natura, Leopardi
accetta e accentua infatti le analisi storico-psicologiche
sulle collettività storiche europee che le sue fonti gli
consegnano, e le approfondisce con finezza soprattutto
in relazione all’Italia.
Rensi nega l’esistenza del popolo, e la consistenza
obiettiva delle dimensioni immaginarie proprie della
cultura collettiva è dissolta dalla sua posizione scettico-individualistica; nell’approccio leopardiano, che
indubbiamente è diversamente orientato, la rilevazione
di diverse matrici ideologiche e comportamentali non
è soltanto un’astratta classificazione comodistica, ma
una vera e propria serie di proprietà emergenti della
vita collettiva dove gli aggregati hanno forza e vigore
oltre l’individuo.
Le pagine di Leopardi sono molte e note, ma vale
la pena riportarne alcune. Leggiamo per esempio la
celebre caratterizzazione dei popoli meridionali:
Ma questa è appunto la proprietà dei popoli meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni,
massime stranieri. Somma disposizione all’attività,
ed al riposo: egualmente atti a guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e
cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti
alla mollezza, e all’inerzia. Tante risorse trovano
questi popoli nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente, ancorchè neghittosa e nulla all’esterno.
Leur vie n’est qu’un rêve, dice la Staël. Tanta è l’attività della loro anima, che questa come è capacissima
lA potenzA dell’immAginAzione
295
di condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla
sola vera attività esterna, perchè la sola che abbia il
suo principio nell’attività interiore, come si vede nel
paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali,
che sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti
ad ogni impulso, che come viventi) così anche li dispensa dall’attività del corpo, e ne li compensa, ogni
volta che questa manca: trovando essi bastante vita
nel loro interno, nel loro individuo. […] (quantunque,
offerta l’occasione, l’attività del corpo, ch’è l’effetto
dell’entusiasmo e dell’immaginazione, o che allora
è forte e viva, quando proviene da questi principii,
prorompe vivamente; eccetto se l’assuefazione non
ha di troppo intorpiditi certi popoli, come l’italiano24.
A differenza di un’idea di storia come ripetizione
di schematismi sempre identici, in Leopardi emerge
inoltre, e precocemente, una tipizzazione del comportamento umano rispetto alla teleologia della vita e al
punto centrale in essa ricoperto dall’immaginazione,
dalla ragione oppure dall’equilibrio senza particolari
preponderanze dell’una o dell’altra25.
La comunità, necessariamente anche immaginata
(perché l’immedesimazione con altri è sempre caratterizzata dalla transazione, dalla condivisione di
segni, gesti e parole), in Leopardi risente sempre di
una possibile propensione emotiva originariamente
aperta verso l’altro e simpatetica, mentre in Rensi una
dimensione polemologica e individualistica originaria
appare insuperabile per cui è impossibile ogni comu-
24
25
Zib. 622-623.
Zib. 102-104.
296
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
nità senza mediazione istituzionale26. Tale mediazione
però è strutturalmente autoritaria.
Rispetto al modello riduzionistico dell’analisi sociale e politica di Rensi, il procedimento leopardiano
muove da una base comparativistica di psicologia della
cultura, che contestualizza il caso italiano non nello
scenario universale della guerra o dell’assurdo metafisico, bensì nella concretezza della complessione
materiale della sua storia evolutiva e comunitaria. Il
seguente precoce testo leopardiano infatti porrebbe
anche il problema, dal punto di vista rensiano, della
legittimità stessa del concetto di popolo qui invocato:
Del resto che la forza e fecondità dell’immaginazione
1. come rende facilissima l’azione, così spessissimo
renda facile l’inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità della mente, la quale per lo contrario
conduce all’infelicità, è manifesto per l’esempio de’
popoli meridionali, segnatamente degl’italiani, rispetto ai settentrionali. Giacché gl’italiani 1. come
una volta per il loro entusiasmo figlio di un’immaginazione viva e più ricca che profonda, erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si
accorgono o almeno non si disperano affatto di una
vita sempre uniforme, e di una perfetta inazione, è
la stessa immaginazione ugualmente ricca e varia,
e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva,
26
Qualche oscillazione verso un diverso approccio, che sembra
salvare uno spazio spontaneo di socialità produttiva anteriore
allo Stato e alla sua autorità organizzativa, in realtà non manca
soprattutto nel Rensi tardo, in polemica contro il fascismo e in
tensione teorica con il movimento del proprio pensiero nel senso
mistico-negativo.
lA potenzA dell’immAginAzione
297
la quale gl’immerge senza che se n’avvedano in una
specie di rêve, come i fanciulli quando son soli ec.
cosa continuamente inculcata dalla Staël, laddove i
settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a consolarli, per necessità ricorrono
all’esterna, e divengono attivissimi. 2. la profondità
della mente, e la facoltà di penetrare nei più intimi
recessi del vero dell’astratto ec. quantunque non sia
loro ignota a cagione della loro sottigliezza, prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il
concepimento e la scoperta del vero, laddove agli
altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con
tutta la profondità) contuttociò non è il loro forte, e
per lo contrario forma tutta l’occupazione e quindi
l’infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò
la frequenza de’ suicidi in Inghilterra) i quali non
hanno cosa che li distragga dalla considerazione del
vero. (V. p.143-144.)27.
Ciò implica dunque che per quanto una comunità si
possa anche fondare sull’immaginazione, e non sugli
affetti, questa comunità è fragile e frivola se quell’immaginazione non si riconnette in qualche modo agli
affetti (almeno) dell’amor proprio28 e al bisogno reciproco di riconoscimento.
Zib. 176-177.
Su questo punto sono importanti le considerazioni di F.
Scrivano: «Quell’assenza di amor proprio degli italiani che Leopardi denuncia, infatti, è una cosa impossibile. Perché non si può
eliminare un sentimento primordiale: una civiltà può manifestarlo
in tutta la brutale presenza ed essenza, lasciarlo correre libero
verso qualsiasi degenerazione, concedergli di prendere le forme
più strane e inquietanti. Ma non può eliminarlo né ferirlo. Gli
italiani non hanno nulla di masochistico o di autolesivo: sempli27
28
298
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
La ragione di fondo dell’ineffettualità del sistema
italiano dei costumi, che è solo affettazione ed egoismo, sta nella privazione di forza affettiva della nostra
vita nazionale. Una pagina zibaldonica coglie il tema
in riferimento alla poesia:
Ma la vera causa per cui gl’italiani, a differenza di
tutti gli altri, non conoscono oggidì altra poesia che
la immaginativa, e della sentimentale sono affatto
digiuni, ve la dirò io. In quest’ozio, in questa noia,
in questa frivolezza di occupazioni, o piuttosto dissipazioni, senza scopo, senza vita, in somma senza
né patria né guerre né carriere civili o letterarie né
altro oggetto di azioni o di pensieri costanti, l’italiano non è capace di sentir nulla profondamente,
né difatto egli sente nulla. Tutto il mondo essendo
cemente non sanno valutare ciò che sarebbe conveniente, anzi si
rifiutano di farlo, si ostinano a praticare una soggettività incontrollata e incontenibile. Per cui la liberazione dell’amor proprio
sta nella sua costante mortificazione, e consiste forse nel creare
le condizioni per palparne la sua esistenza violenta, la reattività
un po’ dolorante, che è atto di non sottomissione, di ribellione, di
insofferenza […]. Nessuno ha più la possibilità di costruire un conflitto interno alla società, facendo valere il sé in unione con altri, e
quindi è destinato a precipitare in completa solitudine, nemico del
prossimo» (Id., Le conseguenze del disamore nel Discorso sopra
lo stato presente dei costumi degli [sic, F.G.] italiani di Giacomo
Leopardi, «Revista de la Sociedad Española de Italianistas», 11
(2015-2017), pp. 205-218, soprattutto pp. 214-215, testo online a
https://dialnet.unirioja.es/servlet/articulo?codigo=6433093&orde
n=0&info=link, consultato il 20.01.2021). Scrivano conclude che
«la differenza tra il comportamento degli italiani e quello degli
altri europei, che ancora mostrano di avere un po’ di coesione
sociale, non nasce da una causa diversa: sono solo due modi di
reagire alla stessa desolazione spirituale che contraddistingue
l’età moderna» (ibidem).
lA potenzA dell’immAginAzione
299
filosofo, anche l’italiano ha tanto di filosofia che basta e per farlo sempre più infelice, e per ispegnergli o vero intorpidirgli l’immaginazione, di cui la
natura l’avrebbe dotato; ma non quanta si richiede
a conoscere intimamente le passioni, gli affetti, il
cuore umano, e dipingerlo al vivo; oltre che quando
anche potesse conoscergli, non saprebbe dipingergli,
giacché bisogna convenire che all’italiano d’oggidì
manca la massima parte di quello studio ch’è duopo
per iscriver cose, come son queste, difficilissime. […]
così agl’italiani d’oggidì, persone, come ho detto,
che non sentono, e non hanno bastante cognizione
del cuore umano, è molto più facile il genere immaginativo, che alla fine è cosa arbitraria, e dove si può
anche abbagliare, come ha fatto l’Ariosto, di quello
che il sentimentale dove bisogna seguire esattamente
e passo passo la natura ed il vero, e dove il cuor
di ciascuno, è prontissimo e acutissimo e rigoroso
giudice della verità o falsità, della proprietà o improprietà, della naturalezza, o forzatura, della efficacia
o languidezza ec. delle invenzioni, delle situazioni
de’ sentimenti, delle sentenze, delle espressioni ec.
E la facoltà immaginativa si può in qualche modo
fingere, o forzare, o almeno comandare: la sensitiva
non mai29.
Gli Italiani, costretti a fondare una comunità immaginaria e non di affetti, essendo incapaci di sentire, sono quindi lontani dalla vera natura materiale del
fondamento comunitario; la critica leopardiana, come
emerge dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani, investe quella frivola dimensione sociale
29
Zib. 730-733 (corsivi nostri).
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
300
che è la stessa sulla quale insiste Rensi quando nega che
possa darsi un vero concetto di popolo o di classe con un
fondamento ontologico; quell’affaccendarsi e svagarsi
intorno a tante cose diverse, interessanti per tradizione,
abitudine, mera occasione o convenzione, che portano
ciascuno sempre più verso la chiusura in se stesso, o
ancor peggio, a diventare succube di questo habitus;
ma alla fine, dal punto di vista metafisico ultimo, ciò
non fa per Rensi una vera differenza30.
Ben diverso è nel Discorso, ma anche (mediatamente) in un altro essenziale momento del proprio
pensiero come il frammento sul Parallelo della civiltà
degli antichi e di quella dei moderni, il modo in cui
Leopardi valuta quel sistema oggettivamente nuovo,
individualistico e liberale, che se per Rensi rientra nella
ineluttabile ripetizione del medesimo, per Leopardi,
che crede realmente alla novità storica e all’effetto del
caso sulle vicende umane, costituisce una costellazione
storico-fattuale ben delimitata nello spazio e nel tempo.
Scrive adeguatamente A. Placanica: «Il Discorso
rinuncia risolutamente ad ogni generale critica allo
30
«L’annullamento, avvertito giorno per giorno, minuto per
minuto. Questo – si lavori, si giuochi, si ozi – è l’unico frutto
della vita» (G. Rensi, Frammenti, cit., p. 81). Ben diversa la rivolta
leopardiana, antiquietistica se ve ne è una, e indipendentemente
dalla sua classificabilità come progressiva, democratica o rivoluzionaria. Basti pensare, di contro, all’esito ateistico del pensiero
rensiano, che si autointerpreta come realizzazione coerente del
bisogno insito nelle religioni di abolire egoismo e attaccamento
alla vita (cfr. Id., Apologia dell’ateismo, prefazione di N. Emery,
Castelvecchi, Roma 2013, pp. 112-114; ed. or. Formiggini, Roma
1925). A Rensi va riconosciuto tuttavia di saper cogliere, anche
nella sua tarda fase frammentistica, alcuni aspetti ribellistici della
posizione leopardiana (cfr. per es. Id., Frammenti, cit., p. 129).
lA potenzA dell’immAginAzione
301
“stato presente del mondo” […]. Ci sono delle società dove il connettivo sociale è ormai ristretto a mera
lustra e volgare ipocrisia, le quali – come nel caso
dell’Italia – servono soltanto a ricoprire un totale sostanzialissimo egoismo, anarchico dispersivo dissolutive; ma ci sono anche delle società – ed è il caso delle
nazioni del Nord, a cui appartiene il mondo dell’oggi
e, ancor più, del domani – che veramente meritano
questo nome, e in cui i valori collettivi sono vivi e
vitali»31; si tratta di quei valori derivanti dalla metamorfosi moderna dell’ambizione, che si estrinsecano
come ricerca di onore, successo, approvazione. In altre
parole, quell’individualismo moderno che si esplica nel
quadro delle relazioni sociali e professionali tipiche
del mondo che, soddisfatti i bisogni primi, ruota ora
sui bisogni secondi32.
Questa moderna versione dell’illusione antica della gloria, mediandosi nell’azione del corpo sociale,
produce un costume, senza il quale la società non può
stare insieme; né può fare ciò la politica (l’azione dello
Stato), che infatti pur non mancando in Italia non produce, secondo Leopardi, alcun giovamento in termini
di costruzione di socialità viva e funzionale.
In Leopardi inoltre, a differenza di quanto accada in
Rensi, c’è ancora un momento materiale dello stare inA. Placanica, Leopardi o della modernità, introduzione a G.
Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Marsilio, Venezia 1989, p. 68; Placanica elabora di seguito
la propria riflessione in relazione al menzionato Parallelo, laddove
si tratta di interpretare il senso di come la civiltà moderna sia un
“risorgimento” che implica la concreta possibilità di recuperare
aspetti qualificanti della civiltà degli antichi.
32
Su tali concetti Leopardi svolge appunto nel Discorso sopra
lo stato presente dei costumi degl’Italiani tutta la parte prima.
31
302
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
sieme che è più radicale della dispersione del divertissement33 e indipendente dall’azione accomunante dello
Stato: è la materialità dei moti naturali dell’animo, due
su tre dei quali, non va dimenticato, sono dotati di
possibili effetti prosociali. La comunità vera pertanto
non è mai soltanto immaginata, frutto dell’azione in
parte casuale in parte storicamente determinata della
cultura e dei suoi sistemi simbolici: è sempre possibile
un suo fondamento naturale, nonostante la fortissima
conformabilità34 dell’uomo possa deviare gran parte
della forza emotiva che ne sta alla base.
Al contrario la trattazione rensiana dell’istinto non
perviene mai a coglierne le potenzialità come fattore di sociazione; da un lato esso appare come forma
aggregante sì, ma nel senso della spersonalizzazione;
dall’altro, limitate alla superficialità fenomenica e alla
33
Fortissima l’accentuazione rensiana in tale senso; tra le
tante possibili, scegliamo questa osservazione: «Tutto ciò che
facciamo, scrivere dei libri, fare all’amore ecc. è in fondo, in
senso largo, un passatempo: un modo di vivere senza pensare alla
vita» (G. Rensi, Frammenti, cit., p. 138). La dimensione sociale
intenzionata da ogni azione umana, amore lavoro cultura, viene
così obliterandosi. Davvero la dimensione comunitaria, pur originandosi secondo alcuni spunti rensiani da esigenze convergenti
di individui diversi (cfr. Id., Critica dell’amore, cit., pp. 206-209,
per le tesi sull’origine del ceto plebeo), appare ormai un vero e
proprio by-product del divertissement.
34
Sui concetti di conformabilità e assuefazione, che vi si
riconnette in uno stretto nesso teorico, cfr. le puntualizzazioni
di sintesi rispettivamente di M. Karp, Conformabilità (in Lessico
Leopardiano 2016, a cura di N. Bellucci, F. D’Intino, S. Gensini,
Sapienza Università Editrice, Roma 2016, pp. 25-28) e di A. Malagamba, Assuefazione/assuefabilità (in Lessico Leopardiano 2014,
a cura di N. Bellucci, F. D’Intino, S. Gensini, Sapienza Università
Editrice, Roma 2014, pp. 29-36).
lA potenzA dell’immAginAzione
303
semplice individuazione di ragioni sufficienti le capacità delle descrizioni scientifiche, la possibilità stessa
di comunicare viene messa in discussione dalla natura
effettiva del linguaggio, che è traditrice della realtà. Se
nella Prefazione a Royce35 del 1911 Rensi espone con
apparente simpatia una dottrina idealistica dell’intersoggettività come dimensione incoativa, originaria, di
possibilità di comunanza in Dio delle menti, più avanti i
toni si faranno foschi: ne La filosofia dell’assurdo da un
lato sta l’istinto animale, privo di storia e di distinzione,
dove condizione gregaria e adeguatezza irriflessa alla
natura fanno sì che tutto, dolore come piacere, non sia
che un fatto che è e non uno che dovrebbe o non dovrebbe essere (cioè assiologicamente connotato); dall’altro,
senza gradazione di passaggio, la ragione che introduce
una disarmonia irricomponibile e l’isolamento individualistico e la sofferenza per ciascuno36.
La comunità vera e propria quindi diventa possibile
per Rensi solo mediante la rinuncia al nucleo passionale forte della persona, e soltanto come altruismo disinteressato successivo a un vero e proprio annientamento
Cfr. G. Rensi, Prefazione del traduttore, in J. Royce, Filosofia della fedeltà, Laterza, Bari 1911, pp. V-XXIV.
36
Cfr. G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 98-103. Sulla
complessa riflessione rensiana sull’istinto interviene puntualmente
C. Stancati, Oltre la storia e il linguaggio: Giuseppe Rensi e il
rifiuto dell’antropomorfismo del mondo, in I. Pozzoni (a cura
di), Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, Morolo 2011,
pp. 9-28, soprattutto pp. 25-28. L’autrice, dato il taglio del suo
contributo, non ricollega qui il capitolo dei Lineamenti di filosofia
scettica dove l’istinto, avvicinato al «temperamento», diventa
fondamento dell’opzione filosofica di ciascun pensatore che si
traduce poi in immaginazione lirica (cfr. G. Rensi, Lineamenti,
cit., pp. 233-236).
35
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
304
dell’Io37, fatti salvi quegli accomunamenti puramente
immaginari che sono dati dalla speranza “disperata”
e motivati dall’estrema infelicità38; mentre in Leopardi
si può affermare solo come superamento delle illusioni
storicamente ormai ineffettuali e dell’immaginazione (o almeno del suo uso ben preciso, storicamente
determinato, reattivo e diversivo), e come recupero
di una radice materiale della vita che ci riporta alla
contestualità gregaria propria della nostra esperienza
di animali finiti.
Sopra questo fondamento diventa possibile un altro
uso politico e costruttivo dell’immaginazione, che non
mi pare vada nel senso della mitopoiesi rinunciando
alla dimensione critico-negativa del pensiero filosofico39, bensì si fondi esattamente sulla conquista ultima
e limitata di questo stesso pensiero: quell’animalità
dell’uomo, o quella dimensione gregaria, senza la quale
la resistenza alla natura diventa ancor più penosa. Se
poi sia contraddittorio nei confronti del quadro morale
definito dal Dialogo di Plotino e di Porfirio e dall’Ottonieri quanto Leopardi verrebbe sostenendo nell’eVedi sul tema D. Fulvi, La morale come esigenza esistenziale nei pensieri di Giuseppe Rensi e Giovanni Papini, «Bollettino della Società Filosofica Italiana. Rivista quadrimestrale
della S.F.I.», settembre/dicembre 2014, Nuova Serie num. 213, pp.
27-46, soprattutto pp. 32-33.
38
Cfr. G. Rensi, Frammenti, cit., p. 86.
39
Va in questa direzione il contributo estremamente acuto
di F. Frosini Leopardi politico, «Isonomia. Online philosophical
journal of the University of Urbino “Carlo Bo”» ISSN 2037-4348,
vecchia serie, 2006, 45 pp. (consultato il 22.01.2020: https://isonomia.uniurb.it/vecchiaserie/2006frosini.pdf). Segue qualche mia
considerazione di dissenso sulle conclusioni di Frosini, rapidamente sunteggiate da chi scrive.
37
lA potenzA dell’immAginAzione
305
poca della Ginestra, dei Paralipomeni e dei Pensieri,
cioè che il machiavellismo di società sia veramente
superabile solo attraverso un nuovo appello retorico
ed enfatico emulo della cultura antica; se in Leopardi
non sia sempre attiva, anche in quest’ultima fase, la tesi
essenziale di una nuova politicità dal basso che opera
attraverso attenzioni dirette da persona a persona nel
quadro del quotidiano, è altro argomento40.
Tutto ciò è manifestamente impossibile nella prospettiva rensiana, che anzi vede la dimensione sociale
40
A questa dimensione dell’attenzione interpersonale dedica
spazio rilevante A. Vigorelli, La “pazienza” di Giacomo Leopardi. Agire e patire: analisi del sistema dello Zibaldone, Mimesis,
Milano 2019, soprattutto nelle pagine conclusive, pp. 318-326.
Osservazioni importanti sulla lettura di questa cardinale Operetta mi sembra rimangano quelle di M. Biscuso, laddove scrive:
«Il radicale materialismo di Plotino/Leopardi rivela i limiti di
una concezione razionalistica ed eccessivamente spiritualizzata
dell’uomo, propria dei moderni, di cui si fa portavoce Porfirio:
le considerazioni della ragione, e il sentimento che da questa
scaturisce, non possono durare dinanzi alle ragioni del corpo che
riprova gusto per la vita […]. La gratuità della philía, della cura,
non può essere definita un inganno, un’illusione o tanto meno un
errore di computo, perché inganni, illusioni ed errori ci sono solo
per l’intelletto: qui è il “senso dell’animo” che “ci governa”. Il
senso dell’animo indica la mente in quanto radicata nel corpo e nel
senso, non più la ragione che si oppone al corpo e al suo impulso
di autoconservazione e di vita: è, in quanto mente, cura per gli
altri, per quegli altri che sentiamo appartenere alla nostra vita»
(M. Biscuso, Plotino (e Porfirio), in M. Biscuso, F. Gallo, Leopardi
antitaliano, con scritti di G. De Liguori e P. Zignani, manifestolibri, Roma 1999, pp. 206-207). Ritengo di poter aggiungere che
l’azione di questo senso dell’animo si esplicherà solo sulla base di
un’immedesimazione affettiva nella quale la parola fa da ponte,
non da machiavellico ostacolo e tranello, tra le persone, perché
la relazione è appunto non emulativa o agonistica, ma di cura.
«il primo fonte dellA felicità umAnA»
306
come attraversata o da massificazioni spersonalizzate
di individui narcotizzati dal lavoro e dal divertissement, o come spazi deserti dove singoli consapevoli
del dolore di vivere sono diventati per ciò stesso dissimili dagli altri uomini più di quanto questi ultimi
differiscano dalla mera condizione animale41. Dove
gli stessi singoli consapevoli maturano la convinzione
conclusiva che «io stesso […] ai miei stessi occhi, mi
dissipo e scompaio come un’illusione»42.
Aniello Montano ha suggerito la possibilità di paragonare la filosofia politica di Rensi a quella di Spinoza, per la comune accentuazione della centralità della
forza nella determinazione del potere e dello Stato43.
Alla luce delle considerazioni svolte e tenendo conto
della natura delegittimata del potere, quand’anche tradizionale, nel pensiero di Rensi44, sembra ragionevole
Cfr. G. Rensi, Frammenti, cit., p. 130. Un Rensi parzialmente
divergente si trova nella Critica dell’amore: «Il lavoro è contrario all’essenza spirituale dell’uomo, perché è schiavitù, e tale
essenza esige solo la libertà del giuoco e della contemplazione»
(Id., Critica dell’amore, cit., p. 157, corsivi nostri). Sembra qui
aprirsi una delle rare accezioni vitali e prosociali del Rensi degli
anni Trenta, in un testo mutato sensibilmente per arricchimenti e
orientamenti dalla prima edizione in G. Rensi, Le Antinomie dello
Spirito, Pontremolese, Piacenza 1910 (su ciò vedi quanto dice lo
stesso Rensi nella prefazione alla Critica dell’amore, cit., pp. 9-11).
42
G. Rensi, Frammenti, cit., p. 95.
43
Cfr. A. Montano, Giuseppe Rensi interprete di Spinoza,
«Rivista di Storia della Filosofia», 50 (1995), 1, pp. 117-140.
44
Il senso dell’affermarsi dello Stato in Rensi muove dall’equivalente sostenibilità di tutte le posizioni e dalla loro incompatibilità, di cui è il risolutore con la forza creativa della propria
azione; in Spinoza, per semplificare, dal contratto tra individui non
ancora completamente capaci di ragione (che mediano tra di loro
in modo simbolico-immaginario) e che aspirano alla libertà di cui
lo stato è strumento. Nego, ovviamente, che in Spinoza le posizioni
41
lA potenzA dell’immAginAzione
307
chiedersi se questo paragone non debba essere limitato,
ancor di più, dall’assenza in Rensi di una dimensione
valoriale condivisa e condivisibile mediante simboli e
pratiche transindividuali. In altri termini, lo studioso
veronese di Spinoza è certo politicamente meno spinozista di quanto non lo fosse il poeta-filosofo di Recanati, pur convinti entrambi che la dimensione dell’accomunamento immaginario degli uomini meritasse
una critica serrata (del resto, seguendo Althusser, ben
presente anche in Spinoza): in Rensi, per smascherare
l’inanità di ogni vicenda umana; in Leopardi, alla ricerca di nuovi difficili equilibri dell’esperienza storicosociale, sospettosi sia della reazionaria metafisica del
male sia della facile idealizzazione delle controverse
forze del tempo moderno. Equilibri nei quali essenziale
sarebbe una transazione sociale comunque fondata su
affetti e immaginazione, non l’affermazione autoritaria
e giocoforza repressiva del potere.
morali e di interesse possano essere considerate tutte isosteniche.
Sulla centralità della dimensione simbolico-immaginaria ai fini
della costituzione della compagine politica cfr. l’interessante lettura di sintesi (in particolare tra Vinciguerra, Bove e Althusser)
di V. Morfino, Immaginazione e ontologia della relazione: note
per una ricerca, «Etica & Politica / Ethics & Politics», 16 (2014),
1, pp. 142-161 e online a https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/10453/1/MORFINO.pdf (consultato il 07/01/2020).
INDICE DEI NOMI
Albertazzi, L. 218
Allocca, N. 34
Aloisi, A. 77, 101, 109
Althusser, L. 307
Amato Pojero, G. 203, 205
Amiel, H.-F. 181
Amoroso, L. 126
Apollonio Rodio 136
Ariosto 299
Aristotele 115
Arqués, R. 62, 68, 70, 73
Ascoli, G.I. 228
Asor Rosa, A. 60, 204
Assenza, C. 124
Badaloni, N. 215
Balfour, I. 215, 216
Balzano, M. 79, 80
Bandini, F. 176
Barbuto, G.M. 286
Baudelaire, C. 183
Beda, il Venerabile 230
Beissner, F. 126
Bellucci, N. 58, 109, 233,
302
Beltramin, P. 287
Biancu, S. 109, 126
Bigongiari, P. 20, 62, 83,
185-188, 190
Binni, W. 28, 254, 256-259,
264, 267, 273, 278
Biscuso, M. 11, 13-14, 17,
22, 28, 53-54, 66, 73,
82, 84-85, 131, 133-134,
153-154, 159-160, 167168, 201, 204, 255-256,
259, 305
Bo, C. 188, 304
Bobbio, N. 256
Boi, L. 10, 18, 22, 131
Bon, A. 177
Bove, L. 307
310
Brancaforte, A. 203
Brentano, F. 218
Brioschi, F. 57
Brodbeck, M. 223
Browning, R. 183
Bruni, R. 179-180, 276
Bruno, G. 275
Bucchi, V. 258
Bülow, H. von 134
Byron, G.G. 230
Cabanis, P.-J.-G. 232, 238,
244
Cacciapuoti, F. 73
Calderoni, M. 206, 212, 218
Callimaco 136
Calogero, G. 117, 256, 264
Campbell Fraser, A. 231
Campioni, G. 135
Canaletto 94
Canone, E. 238
Capitini, A. 253-279
Carducci, G. 177, 204
Cargnelli, G. 201, 203
Cartesio, vedi Descartes, R.
Casertano, G. 245
Cattaneo, C. 228
Cattaneo, F. 151
Cavalletto, A. 229
Ceccarel, M. 229-230
Cellerino, L. 67, 70
Celso 134
Chiappelli, A. 215
Chiarenza, R. 284
Chisholm, R.M. 218
Chopin, F. 139
Cicerone 134
indice dei nomi
Colaiacomo, C. 60, 204
Colajanni, N. 203
Coleridge, S.T. 120
Colletta, P. 229
Colli, E. 117, 126
Colli, G. 117, 126, 132
Colombo, C. 98
Comba, D. 200
Condillac, E.B. de 68, 232,
235, 238-239
Cori, P. 81
Corrado, M. 218
Cristofolini, P. 72
Croce, B. 158, 179, 182, 199,
230-231, 269
Cubeddu, I. 245
Curzi, F. 265-266
Cusano, N. 238
Dal Pra, M. 215
Damascio 114
Dante (Alighieri) 35, 116,
141-142, 178, 204, 220,
254
Daumier, H. 93
De Brosses, C. 238
De Liguori, G. 305
De Mauro, T. 245
De Poli, M. 238
De Robertis, D. 177
De Robertis, G. 283
De Rose, M. 201
Descartes, R. 48, 141, 234,
239
De Zan, M. 193-194, 198,
213
Di Meo, A. 74
indice dei nomi
D’Intino, F. 13-14, 58, 60,
75, 99, 109, 113-120, 123,
127, 233, 302
Doering, S. 124
Dondero, M. 53-54
Dostoevskij, F. 69, 184
Dovetto, F.M. 251
Dürer, A. 94
Eleandro 84-85, 145
Emery, N. 287, 300
Empedocle 125-126
Epicuro 70, 201, 229, 250
Esposito, R. 82
Falcicchio, G. 273
Fasano, P. 140
Fedi, F. 93
Felici, L. 23
Fellin, A. 231
Ferrari, M. 209, 213, 219
Ferretti, A. 17, 27
Ferrucci, C. 36-37, 39, 47
Fersen, A. 282
Filone 134
Flegonte 134
Formigari, L. 245
Fornari, M.C. 151-152
Fortunato, M. 281
Foscolo, U. 254
Frattini, A. 238
Fronterotta, F. 117
Frosini, F. 304
Fulvi, D. 304
Fusinieri, A. 247
311
Gaiardoni, C. 79
Galasso, N. 19, 158
Galileo 141, 211
Galimberti, C. 66, 69, 123
Gallo, F. 14-15, 21, 66, 8485, 281, 290, 292, 305
Galluppi, P. 70
Gandhi, M.K. 264
Garaventa, R. 69
Garin, E. 194
Gatti, P. 214-219
Gazzeri, C. 237-238, 244
Gazzolo, T. 286
Genovesi, A. 74
Gensini, S. 13-14, 28, 33-34,
43, 45, 49, 58, 73, 82,
233, 251, 302
Gentile, G. 15, 19, 81, 157167, 169-172, 214, 257,
265
Gentili, S. 254, 262
Germano, E. 190
Gerratana, F. 135
Gersdorff, C. von 133
Giamblico 114
Giani, R. 204
Giordani, P. 57, 59, 93, 134,
229-230
Giovanni, evangelista 278
Girardi, A. 178
Giuliani, L. 257
Goethe, J.W. von 15, 69
Graf, A. 92
Graziadei, V. 203
Grilli, A. 283
Gualandi, G.L. 246
312
Hamerling, R. 133
Hegel, G.W.F. 122, 264, 267
Heidegger, M. 126, 283
Hogarth, W. 93
Hölderlin, F. 15, 18, 122,
124-127
Humboldt, W. von 227
Iacopone (da Todi) 254
Jacoppsen, A. 69
Jaeschke, W. 122
James, W. 215-219
Janz, C.P. 133
Jerusalem, W. 219
Kaltenbacher, W. 22
Kant, I. 14, 72, 131, 148-149,
210, 264, 271
Karp, M. 302
Kerényi, K. 123
Lanaro, G. 193, 215
Landi, P. 57
Landolfi Petrone, G. 238
Lauretano, B. 232
Leibniz, G.W. von 141
Leopardi, M. 72, 229
Lessing, G.E. 90
Levi, G.A. 204
Lievi, C. 125
Limentani, L. 212
Li Vigni, F. 22
Locke, J. 14, 29, 231, 236239, 241, 252
indice dei nomi
Lo Conti, G. 64
Lonardi, G. 96-97
Lo Piparo, F. 235-236, 238
Loria, G. 203
Lucrezio 70, 73-74, 183, 229,
231, 250
Luporini, C. 28, 30, 36-37,
45, 256, 258-259
Mach, E. 208, 211, 213
Machiavelli, N. 81-82, 194
Madame de Staël 48, 143,
294, 297
Malagamba, A. 58, 77-78,
302
Mancuso, F. 282
Mandruzzato, E. 124
Manzoni, A. 81, 159-163,
170, 214
Marchesini, G. 224
Marcucci, S. 194
Marino, S. 151
Martinetti, P. 15, 193
Martini, M. 261, 263
Marzolo, P. 20, 227-236,
238, 240-252
Maurer, K. 177
Mazzini, G. 270
Melchiori, R. 54
Melosi, L. 66
Michelstaedter, C. 254, 256,
258, 260, 265
Migliorini, B. 228
Mill, J.S. 211
Modenato, F. 218
Momigliano, A. 254
indice dei nomi
Montale, E. 20, 183-185, 187
Montano, A. 281, 282, 306
Montesquieu 14
Monti, V. 240
Montinari, M. 132
Morfino, V. 307
Natale, M. 109
Natali, L. 15, 20, 193
Naville, A. 210, 213
Negri, A. 19, 157-158, 163168, 170-172
Negri, G. 68
Neuber, M. 224
Neumeister, S. 124
Newton, I. 35, 141-142
Niehbur, B.G. 73
Nietzsche, F. 15, 18-19, 72,
131-137, 139-140, 146147, 149-150, 154
Nordau, M. 200
Novalis 15
Omero 91, 116, 134-135, 141142, 220
Orrù, A. 20, 227
Ottobrini, T. 291
Pacella, G. 23, 54, 232
Padoa, A. 199
Papini, G. 203, 212, 304
Pareyson, L. 258
Pascal, B. 48, 199
Pedretti, C.F. 265
Peirce, C.S. 213, 217-219
Pellegrini, P. 134, 230
313
Perini Bianchi, I. 125
Persio Flacco, A. 240
Petzoldt, J. 210
Pindaro 15, 137
Pinna, P. 279
Piperno, M. 109
Placanica, A. 300-301
Platone 14, 18, 48, 113-119
Plotino 114
Poggi, A. 292
Poli, R. 218
Poliziano 254
Polizzi, G. 14-15, 73
Polledri, E. 124
Porfirio 114
Pozzoni, I. 303
Prato, A. 245, 250-251
Predaval Magrini, M.V. 212
Premoli, O. 208
Prete, A. 188-189
Quaranta, M. 193, 200, 219
Raffaello (Sanzio) 139
Ranieri, A. 230
Rascaglia, M. 73
Rensi, G. 15, 20-21, 179-184,
186-187, 190, 281-296,
300-304, 306-307
Ricci, U. 194
Rigoni, M.A. 54, 62, 143
Rizza, C. 199
Rohde, E. 133, 135
Ronchetti, L. 194
Rossi, P. 201
Rousseau, J.-J. 48, 79, 202-203
314
Royce, J. 303
Santucci, A. 193, 201, 218
Sargentini, P. 262
Savarese, G. 93
Savoia, L.M. 251
Scala, M. 124
Schelling, F. 122, 143
Schippa, L. 264
Schmeitzner, E. 150
Schopenhauer, A. 15, 19,
140
Schwibach, S. 10, 18, 22,
107
Sciascia, L. 284
Scrivano, F. 297-298
Segneri, P. 93
Seneca 71, 73-74
Serra, R. 283
Severino, E. 19, 86, 157-158,
168-173
Shakespeare, W. 141, 200,
230
Sheehan, T. 283
Silvestri, G. 219
Sinner, G.R.L. von 134
Soave, F. 238
Spinoza, B. 72, 131, 306-307
Stancati, C. 303
Stendhal 149
Straccali, A. 257
Sully-Prudhomme 183
Tartaro, A. 78
Taurino, D. 21, 253
Terracini, B. 228
Tilgher, A. 119-120, 179, 282
indice dei nomi
Timpanaro, S. 70, 134-135,
153, 229, 231, 250
Tocco, F. 204
Tortonese, P. 115, 120
Tracy, A.-L.-C. D. de 29,
231, 235, 237, 248
Trevi, E. 23
Truini, F. 263
Turi, N. 276
Vaihinger, H. 224
Vailati, G. 20, 193-225
Valgimigli, M. 119
Valli, D. 188
Varisco, B. 209
Velardi, R. 117
Venturi, G. 19, 175
Veronese, C. 277
Viani, P. 229-230
Vico, G. 72-74, 81, 131
Vieusseux, G.P. 64
Vigorelli, A. 14-15, 17, 77,
89, 93, 104, 219, 223, 305
Villa, G. 206
Vinciguerra, L. 307
Volpato, M. 206
Vossler, K. 158
Wagner, R. 134, 201
Weichelt, H. 150
Wundt, W. 15
Zanga, G. 263
Zanotti, F.M. 73-74
Zignani, P. 305
Zumbini, B. 204