Il Te Deum ritrovato: gli angeli musici e l’iconoteologia unionista
nel ciclo pittorico lorenziano
Barbara Aniello
«I
mbambolato», «grossolano», «discontinuo»,1 il coro degli angeli
osannanti del ciclo pittorico ideato
da Lorenzo da Viterbo in Santa Maria della
Verità mostra «una certa inerzia ripetitoria
e debolezze di fattura non imputabili al
maestro»2 (tav. X; figg. 140-141). Per il suo
tipico «tratto trascurato e rustico», per la
sua «resa approssimativa e superficiale»,3
la critica lo ha comprensibilmente liquidato
quale prodotto di bottega, «espressione di
un medesimo e mal ripetuto modello grafico»,4 nel quale «è arduo scorgere un intervento diretto di Lorenzo, quanto piuttosto
una trasposizione fiacca dei suoi disegni
preparatori»5 (figg. 140-141).
Già uscito con ogni probabilità dal cantiere
viterbese, il magister non lo controlla più,
anche se nulla esclude che ne abbia originariamente progettato il programma, sul
quale, in seguito, mani più incerte delle sue
eseguirono gli affreschi.
Sua, del resto, è certamente la Madonna in
Gloria (fig. 142), assisa su un trono di nuvole
e ritratta nella solenne ascesa; suoi sono gli
apostoli irrigiditi nelle pose fortemente plastiche (figg. 143-144). Ma è proprio quella
ripetizione ritmica, modulare e modulante,
degli ormai forse non totalmente suoi angeli musici a nascondere sorprendenti chiavi
di lettura, a patto che si sollevi lo sguardo
fino alla vela della vòlta corrispondente
(figg. 140-141).
Siamo nella parete di fondo della Cappella
Mazzatosta (tav. X), orientata a nord, dedicata all’Assunzione della Vergine, culmine del
ciclo mariano effigiato da Lorenzo da Viterbo6. Il soggetto è il punto d’arrivo di una
narrazione apparentemente discontinua:
una volta varcato l’arcone d’ingresso (tav. I),
lo sguardo rimbalza da una parete all’altra,
alternando così la Presentazione al Tempio
di Maria bambina (parete est, tav. IV), al
momento dell’Annunciazione (parete ovest,
tav. VII), lo Sposalizio della Vergine (parete
est, tav. V) alla Natività, o meglio, come precisa il Réau,7 all’Adorazione del bambino (parete ovest, fig. tav. VIII), per poi imbattersi
nell’Assunzione (parete nord, tav. X), alla presenza dei cori angelici. È come se il visitatore
fosse obbligato ad un curioso andirivieni, da
una parte all’altra della Cappella, ripercorrendo le storie di Maria e la sua eccezionale
esistenza terrena, per meglio prepararsi
alla contemplazione del suo altrettanto eccezionale transitus ultraterreno. Questo iter
oculare ha una duplice direzione: orizzontale e verticale. La narrazione parte in alto
a sinistra (Presentazione) e finisce in basso
a destra (Natività o Adorazione), passando
per i due tornanti dell’Annunciazione e dello Sposalizio e, da qui, cioè da quell’evento
chiave nell’economia della salvezza dell’umanità, che è l’Incarnazione, riceve il suo
slancio vitale e definitivo per approdare
sulla parete di fondo (Assunzione). Il coup
245
Fig. 141
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Assunzione, particolare con angeli oranti
e musicanti, Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità, Cappella
Mazzatosta, parete di
fondo, lato destro (per
l’osservatore).
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Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
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d’œil procede dal basso (Apostoli, figg.
143-144) in alto (vòlta, tav. II) e, per intermedio di angeli musici e oranti, culmina in
Maria, attesa in un cielo abitato da profeti,
evangelisti, dottori e padri della chiesa. La
percezione visiva della parete di fondo, da
contemplare dal basso in alto, è giustificata
dalla sua struttura: questa è l’unica, infatti, a possedere una narrazione continua e
non bipartita, come lo sono invece le pareti
che la affiancano, supportando un dialogo
spezzato, quasi a cori alterni.
È straordinariamente rilevante rimarcare
246
che lo slancio che conduce l’osservatore
all’approdo finale sia dato dall’Incarnazione in atto, ovvero dal Gesù Bambino appena nato e adorato dalla madre. La beatitudine di Maria non è dovuta, infatti, alla sua
maternità divina, ma all’ascolto silenzioso
del Verbo fatto carne:
Mentre diceva questo, una donna alzò la
voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il
ventre che ti ha portato e il seno da cui
hai preso il latte!». Ma egli disse: «Beati
piuttosto coloro che ascoltano la parola di
Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28).
Fig. 142
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Assunzione, particolare con Madonna in
Gloria, Viterbo, Chiesa
di Santa Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete di fondo
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247
Fig. 143
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Assunzione, particolare con gli Apostoli,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete di fondo, lato sinistro
(per l’osservatore).
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248
Fig. 144
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Assunzione, particolare con gli Apostoli,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete di fondo, lato destro
(per l’osservatore).
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249
Fig. 145
Pietro di Miniato, Natività, 1400-1405, Firenze,
Santa Maria Novella,
affresco della controfacciata.
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Fig. 146
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Natività o Adorazione del bambino, particolare con bue inginocchiato, Viterbo, Chiesa
di Santa Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete destra.
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250
In effetti, la Natività di Lorenzo da Viterbo è
ascrivibile al ristretto numero di immagini
appartenenti all’Adorazione del bambino da
parte della Santissima Vergine Maria, il cui
prototipo si trova tra gli affreschi della controfacciata di Santa Maria Novella, della
fine del XIV sec., attribuiti a Pietro di Miniato (fig. 145). In particolare il Gesù bambino
della Cappella Mazzatosta appartiene alla
tipologia dell’infante luminoso e raggiante
(fig. 169) che, lungi dall’essere un’invenzione di Correggio nella sua celebre Notte,
affonda le sue radici iconografiche nelle Rivelazioni di Santa Brigida, XIV sec., e nella
pittura fiamminga. A differenza dei primi
esempi bizantini, in cui il bambino era illuminato dall’esterno, tramite i raggi della
stella, qui la luce proviene dal suo interno e
inonda gli astanti. Osservando bene, Gesù
protende la destra e benedice alla latina
sua Madre, con il gesto canonico del pollice, indice e medio distesi, e i suoi raggi
non si devono alla luce fisica proveniente
dalla bifora nella lunetta superiore, in cui
è rappresentata l’Annunciazione, ma sono
direttamente correlati al gesto di Dio Padre
che spunta a mezzobusto da una nuvola al
di sopra del messo angelico. Come nel prologo giovanneo:
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità. (Gv 1,14)
Un indizio che collega Viterbo a Firenze, ovvero Lorenzo a Pietro Miniato: è
l’inginocchiarsi appena visibile del bue
(fig. 146), sul cui significato torneremo nelle conclusioni finali. Ma un motivo in più
fa sì che, nella commistione stalla-grotta,
tipica delle Natività di questo periodo,
anche la Madre si inginocchi (fig. 57a). Si
tratta della spiga (fig. 168), doppia, appe-
Fig. 147
Lorenzo da Viterbo,
Sposalizio della Vergine,
particolare con le buccine del corteo nuziale,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete sinistra.
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na percettibile, ricamata sulla sua camorra
(veste) candida8, chiaro rimando eucaristico a Gesù, posto dinnanzi a lei. Così, dietro
al Verbo fatto carne, si intravede già quel
panis angelicus, per mezzo del quale Cristo
prometterà agli apostoli di essere con loro
«tutti i giorni fino alla fine del mondo»
(Mt 28,20). In un momento storico come
quello che incornicia gli affreschi lorenziani, contrassegnato da un forte dibattito
sulle forme e sulla sostanza della liturgia
eucaristica, oscillante tra posizioni orientali e occidentali, protagonista il cardinal
Bessarione, un simile rimando ci sembra
degno di nota9.
La decorazione della Cappella Mazzatosta segue, dunque, un preciso itinerario
visivo-spirituale: dall’historia all’a-storia10,
dalla vita all’eternità, dall’umano al divino. Questo forse il senso di quest’aurora
consurgens inscritta nei pennacchi delle
vele che si incrociano abbracciandosi nella
vòlta (fig. 149): i due orizzonti, terreno e
ultraterreno, si unificano, ammantando gli
avvenimenti umani e sovrumani sotto un
unico cielo.
In sintesi, la porzione di affresco più trascurata dalla letteratura critica, che si è opportunamente concentrata per motivi stilistico-conservativi sullo Sposalizio, costituisce
il vertice icono(teo)logico11 dell’intero ciclo,
celando nello spicchio della vòlta corrispondente, inedite chiavi interpretative.
Per capire il ruolo non secondario di questo
angelicus concentus è importante partire dalla
storia del miracolo, connaturata alla genesi
della Cappella Mazzatosta e narrata dal cronista Niccola di Bartolomeo della Tuccia.
1446. L’8 di maggio tre mammolini andorno in S. Maria della Verità di Viterbo
in mercordì su l’ora di nona, e videro su
l’altare della Madonna una bella donna
vestita di bianco, che cantava: poi videro
un uomo vestito di sacco, a modo di frustatore, che gridava misericordia. Poi fu
posta cura a quella figura su ’l viso che
ci stà adesso; tutta era piena di gocce di
sangue, e da quel di in qua ha fatto molti
251
Fig. 148
Lorenzo da Viterbo
e aiuti, S. Agostino, S.
Giovanni, S. Beda il Venerabile, Viterbo, Chiesa di Santa Maria della
Verità, Cappella Mazzatosta, Volta, vela corrispondente alla parete
di fondo
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miracoli. E li mammoletti eran tutti d’età
d’anni dieci12.
Non intendo entrare nella questione dell’icona miracolosa, rimandando al saggio nel
presente volume di Simonetta Angeli13, ma
desidero soffermarmi sulla citazione del
canto della Donna biancovestita. Oltre al
profondo legame tra suono e silenzio che
investe l’iconografia mariana fin dalla sua
origine e che echeggia nella ritmica alternanza degli angeli musicanti e oranti14 dipinti nella Mazzatosta, è degno di nota – in
questo contesto iconografico-musicale – il
fatto che l’affresco commemori un’apparizione miracolosa della Madonna in cui
l’elemento del canto è centrale. Maria è la
Regina del silenzio, è colei che ha goduto
del silenzio di Dio, lo ha conservato nel suo
cuore, ha ispirato il silenzio adorante di poveri pastori e di magi intellettuali15. Maria è
252
anche la Regina del suono, è lei il soggetto
che canta il Magnificat, che scioglie questo
inno di incomparabile bellezza a Dio, parlando a nome di tutto il popolo di Israele,
della Chiesa e dell’Umanità intera16.
Nella Cappella viterbese la presenza della
musica dipinta non si limita solamente ai
cori angelici. La ritroviamo nelle buccine
del corteo nuziale, allusive alla tradizionale
pratica (fig. 147), Giotto docet, di accompagnare la sposa lungo le strade della città17;
la ravvisiamo nel salterio in mano a David
(fig. 153), effigiato, non a caso, nella vela
della vòlta corrispondente all’Annunciazione e all’Adorazione. Non solo la presenza
del profeta è connessa con la discendenza
davidica di Gesù, concepito per opera
dello Spirito Santo (lunetta superiore) e
adorato dalla Madre (lunetta inferiore),
come confermano i Vangeli (Mt 1,20; 9,27;
12,23; 15,22; 20,30.31; 21,9.15; Lc 1,69; 18,39;
Fig. 149
Pennacchio tra la parete nord e la parete ovest,
particolare con l’aurora,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta.
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Fig. 150
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Assunzione, particolare con la cintola, Viterbo, Santa Maria della
Verità, Cappella mazzatosta, parete di fondo.
20,41-42) e l’Apostolo delle Genti (Rom 1,4;
2Tim 2,8), ma nella stessa Liturgia dell’Annunciazione, che la Chiesa celebra ogni 25
marzo, troviamo l’Antifona d’Ingresso, il
Salmo 39 e il Vangelo nei quali l’Ecce del
Figlio e l’Ecce della Madre echeggiano sottilmente l’un l’altro:
Disse il Signore, quando entrò nel mondo:
«Ecco, io vengo
per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5.7)
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto,
non hai chiesto olocausto né sacrificio per
il peccato.
Allora ho detto: «Ecco, io vengo».
«Nel rotolo del libro su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo». (Sal 39,7-9)
«Ecco la serva del Signore, avvenga di me
quello che hai detto». (Lc 1,38)
Questo passaggio è di fondamentale im-
portanza per via del ruolo della musica interrupta al momento dell’Annunciazione18.
Tornando all’Assunzione lorenziana, gli angeli musici e i loro strumenti suonano, affiancando Maria nella sua ascesa.
La presenza della musica angelica in contesti mariani non è una novità. Un dulcis concentus accompagna spesso le immagini che
narrano la parentesi terrena di Maria, dalla
Nascita all’Annunciazione, dallo Sposalizio
alla Dormitio, dall’Assunzione all’Incoronazione. A Viterbo una rosa di rossi serafini19
contorna l’Assunta (fig. 142), posta al centro di una luminosissima mandorla, proiettando il proprio profilo, in un sottile gioco
grafico-scultoreo, sul timpano dell’edicola
marmorea (fig. 166), mentre due schiere
di angeli musici la scortano, affiancandola
specularmente20.
L’apparente convenzionalità della scena
nasconde una poco evidente anomalia. È
proprio la presenza di San Beda il Venerabile e Sant’Agostino a fianco a San Gio-
253
Figg. 151 a-b-c-d
Lippo Vanni, Angeli
musicanti, 1360-70 ca.,
Eremo di San Leonardo
al Lago, Monteriggioni
(Siena), vòlta, particolare delle vele:
a: Angeli oranti, suonatori
di altobasso, buccine, timpani, cornetto;
b: Angeli musicanti, suonatori di salterio, liuto,
organo portativo, viella,
ribeca;
c: Angeli oranti, suonatori di tamburello, flauto
doppio, buccine, timpani,
flauto dritto e cimbali;
d: Angeli cantori, incensieri e reggifiaccole.
254
vanni sulla vela corrispondente, a destare
inedite riflessioni (fig. 148).
Come è noto, la Sacra Scrittura tace riguardo a quello che sarebbe divenuto il dogma,
tardivamente proclamato da Papa Pio XII,
il 1° novembre del 1950, con la bolla Munificentissimus Deus, dell’Assunzione di Maria,
per cui «la Madre di Dio sempre vergine
Maria, terminato il corso della vita terrena,
fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo»21.
Già dal IV e V secolo, tuttavia, gli scritti
dei padri della Chiesa, sostenevano che il
corpo di Maria rimase incorrotto dopo la
morte (Efrem il Siro); che la Vergine era
immortale perché il Cristo l’aveva trasferita
nei luoghi della sua ascensione (Timoteo di
Gerusalemme); che la Madonna quasi certamente possedeva già con la carne il regno
dei cieli (Epifanio di Salamina).
Anche tra gli scritti apocrifi, e in particolare nel Discorso di San Giovanni il Teologo sul
riposo della Santa Teotoco, si narra del privilegio riservato alla Madre di Dio22. L’evangelista, dietro il quale si cela, in realtà, un
testo del VI sec., narra del prodigioso arrivo di Giovanni a Betlemme, trasportato da
una nube, la stessa nube che rapisce, a turno, tutti gli altri apostoli, in un’ora imprecisata, definita dall’autore «sul principio
del giorno23». Non a caso a Viterbo troviamo proprio S. Giovanni (fig. 148), ritratto
al centro della vela, mentre dal nodo dei
pennacchi da cui si dipartono i costoloni
della crociera spunta una stupenda aurora
sorgente (fig. 149). Durante il racconto, diversi sono i momenti dedicati al canto, sia
durante la veglia del corpo della Vergine
dormiente, quando il Signore, rivolto a
Pietro, dice «è giunto il momento di intonare l’inno24», sia quando al coro umano
degli apostoli risponde quello divino degli
angeli: «e quando intonò l’inno tutte le potenze del cielo risposero l’alleluia. Allora il
volto della Madre del Signore divenne più
splendente della luce25».
Affidato sia agli apostoli, sia agli eserciti
celesti, l’elemento musicale costella quasi
tutti i testi apocrifi della famiglia del transitus Mariae:
Il Salvatore e gli angeli erano sulle nubi
a una certa distanza davanti al lettuccio
inneggiando invisibili: si udiva soltanto
la voce di una grande moltitudine, tanto
che uscì fuori tutta Gerusalemme26.
Gli apostoli camminavano salmodiando27.
«Vi fu un grande chiarore e un profumo
soavissimo mentre gli angeli cantavano il
Cantico dei Cantici28».
Cantando, persino gli Apostoli sono trasportati in cielo per deporre Maria sotto
l’albero della vita: «Il Signore disse a Michele di innalzare il corpo di Maria su di
una nube e trasferirlo in paradiso. Quando
il corpo fu innalzato, il Signore disse agli
apostoli di avvicinarsi a lui e saliti sulla
nube cantavano inni angelici29».
Sulla parete di fondo della cappella Mazza-
Fig. 152
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, S. Beda il Venerabile, dettaglio delle lacrime, Viterbo, Chiesa
di Santa Maria della
Verità, Cappella Mazzatosta, vòlta, vela corrispondente alla parete
di fondo.
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tosta, dunque, non solo è raffigurato il passaggio dalla terra al cielo della Vergine, ma
un particolare inedito apre nuovi scenari. È
proprio il caso di dire con Warburg che Dio
si nasconde nei dettagli, perché Gentilini e
Principi, nel loro saggio dedicato a questo
volume30, grazie anche all’accurata campagna fotografica eseguita da Mauro Magliani e Barbara Piovan, hanno riconosciuto la
presenza di una fibbia (fig. 150) nella parte
finale di una cintola, posta poco al di sopra
dell’edicola, nella parte destra dell’affresco,
a metà tra i due orizzonti, umano e divino.
Denunciata anche dalle mani di Tommaso
(fig. 138), che si protendono come ad ac-
coglierla, questo accessorio vestimentario,
citato dai testi apocrifi31, è il dato fondante
per ipotizzare un sarcofago di Maria proprio al di sotto dell’ingombrante ciborio
marmoreo32, che spartisce a sinistra e destra,
secondo lo schema tradizionale, il gruppo
degli apostoli divisi nel numero di cinque e
sei, mancando Giuda (figg. 143-144).
A sua volta il beato Tommaso, che vestiva ancora i paramenti sacerdotali, riferì
loro come mentre stava cantando la messa, in India, senza che se ne avvedesse, la
parola di Dio lo trasportò sul monte degli
Ulivi dove vide salire in cielo il santissimo corpo della beata Maria e le chiese di
255
Fig. 153
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Davide in atto di
suonare il salterio, Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, vòlta,
vela corrispondente alla
parete sinistra.
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dargli una benedizione, come ella avesse
esaudito alla sua supplica e gli avesse
gettato il cordone che la cingeva; e fece
vedere il cordone a tutti33.
Questo elemento iconografico della cintola è diffuso soprattutto in Toscana, per
via della presenza della sacra reliquia a
Prato. Pur con le opportune distinzioni
tra area senese e pratese, già scandagliate
da Gentilini e Principi in questa sede, non
è pleonastico evidenziare come l’esempio viterbese si ponga quale sintesi tra le
due proposte iconografiche, essendo la
cintola lorenziana sospesa in aria, e non
offerta dalle mani della Madonna, come a
Siena, e di un color verde plumbeo, come
a Prato34. Tuttavia, se in Occidente troviamo casi in cui il soggetto dell’ascesa
di Maria Assunta in cielo è indipendente dalla citazione della sua sepoltura, in
area orientale all’Assunzione si preferisce
la Dormitio35.
256
L’edicola marmorea (tav. X), disinvoltamente giustapposta alla parete, non solo
nasconde parzialmente il soggetto affrescato, rendendo ardua l’osservazione della
parte inferiore del corpo seduto di Maria e
facendo a fatica intravedere, al di là della
pigna che ne sormonta il pinnacolo, le sue
mani e il volto, ma cela certissimamente
un sepolcreto vuoto o, come da tradizione, sigillato da quei gigli e rose con cui gli
scritti apocrifi siglano la purezza dell’eccezionale evento36. Come da manuale,
dunque, il coro degli angeli lorenziani si
unisce a quello apostolico e quest’ultimo
– almeno nella parte sinistra - in maniera
quasi contrappuntistica ne replica gesti e
ritmi, accompagnando la Vergine che, lasciando il proprio sepolcro vuoto in basso,
solca i cieli.
Nella vela della vòlta, ordinata concentricamente e attraversata da una linea-arcobaleno, Sant’Agostino e San Beda il Venerabile37
sono ritratti ai lati di S. Giovanni (fig. 148),
sormontato dal suo emblema, l’aquila, e
dal profeta Zaccaria con il proprio filattero. La presenza alternata di un dottore e di
un padre della Chiesa che affiancano un
Evangelista, ripetendosi in ciascuna delle
quattro vele, si presta qui ad una lettura in
chiave icono(teo)logica, scaturita proprio
dal peculiare contesto musicale.
L’autore del De musica, Agostino, considera l’arte dei suoni l’elemento ordinatore di
tutto l’universo. Basata sul numero38, più
che un’arte, la musica è una scientia bene
modulandi39. Essa parla più alla ragione che
ai sensi e, nonostante procuri piacere in chi
ascolta, deve veicolare quell’edoné che porta all’intendimento mentale e non alla percezione uditiva, di per sé vana e transeunte.
Tutta la scala dei sentimenti della nostra anima trova nella voce e nel canto il
giusto temperamento e direi un’arcana,
eccitante corrispondenza. Ma spesso
il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di sfibrare lo spirito, mi
seduce: quando la sensazione, nell’accompagnare il pensiero, non si rassegna
a rimanere seconda, ma, pur debitrice a
quello di essere accolta, tenta addirittura
di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza
avvedermene, e poi me ne avvedo40.
Nel suo trattato, scritto in forma di dialogo
tra maestro ed alunno, Agostino dichiara
che suono e silenzio hanno entrambi a che
vedere con il ritmo perché, anche se l’anima tace, produce comunque «qualcosa di
ritmico».
Il silenzio, ovvero l’astinenza dal suono, è
praticabile come antidoto alla seduzione
prodotta dalla musica. Contro questa tentazione, Agostino evoca il modo di pregare di
Atanasio: «questi faceva recitare al lettore i
Fig. 154
Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, Apparizione al
monte Tumba, particolare con i due gruppi di
frati basiliani e francescani, 1464-1468, Roma,
Basilica dei SS. Apostoli, Cappella Bessarione.
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Edifici di Culto del Ministero dell’Interno.
salmi con una flessione della voce così lieve,
da sembrare più vicina a una declamazione
che a un canto41».
Il salmo cantato si assottiglia talmente tanto, dunque, da divenire quasi parola, verbo
declamato, pura preghiera.
Tre, inoltre, sono per Agostino, i generi di
ritmo: della memoria, della sensazione e
del suono42.
E come non vedere trasposta nella gerarchica disposizione degli angeli questa tripartizione? Non incarnano forse gli angeli
musicanti e silenti del coro in basso e quelli
adoranti del coro in alto questa triplice
concezione di suono-silenzio-memoria?
Il suono, nella tangibile concretezza degli
strumenti musicali, rappresenta il livello
infimo della scientia bene modulandi, mentre
la pausa, ovvero il silenzio, costituisce una
musica purificata, così come la memoria ne
è la trasposizione mentale.
La musica ha, inoltre, un ruolo preciso nella
257
Fig. 155
Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, Apparizione al
monte Tumba, particolare dello spartito sorretto
dai basiliani, 1464-1468,
Roma, Basilica dei SS.
Apostoli, Cappella Bessarione.
Patrimonio del Fondo
Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
Centrale per l’Amministrazione del Fondo
Edifici di Culto del Ministero dell’Interno.
resurrezione della carne. Come ricorda Pizzani nella sua lectio augustiniana «l’umano
spirito, giunto alla fase più alta della sua
ascesa verso il vero, quella della visio et contemplatio veritatis, accetterà la pur controversa dottrina della resurrezione della carne,
come più certa dello stesso quotidiano risorgere del sole43». Di qui il richiamo all’alba
che si intravede nei pennacchi della volta
che, come abbiamo detto, è cerniera tra cielo
e terra44 (fig. 149). La questione della resurrezione della carne nel De musica è resa attraverso la tripartizione gerarchica che vede in
cima la divinità, al centro l’anima umana e
in basso il corpo. Lo stesso impianto è leggibile nella parete lorenziana, con la mandorla
di luce in alto, al centro della quale Maria,
ovvero l’umanità rigenerata, è trasportata,
e gli apostoli in basso. Questa tensione tra i
258
due mondi, umano e divino, è spiegata dal
vescovo di Ippona in altri luoghi della sua
scrittura: «l’anima fa da tramite tra il creatore che la regge e il corpo che a sua volta
la tiene. L’anima non può raggiungere la
pienezza del suo essere priva del Signore, a
cui sempre deve tendere, ma neanche si può
privare del corpo, che funge da servo45».
Ed è a questo punto che, citando proprio
Giovanni l’evangelista, Agostino parla
dell’ascesa dell’anima verso la contemplazione divina:
L’anima giungerà al frutto del suo amore e dei suoi sforzi, compiuta la propria
santificazione e compiuto anche il ritorno
alla vita del suo corpo, ed eliminati dalla
memoria i turbamenti dei fantasmi, inizierà a vivere presso Dio stesso per Dio
solo, quando si sarà compiuto ciò che ci
Fig. 156
Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano) e
aiuti, Apparizione al monte Tumba, particolare con
il presunto autoritratto
del pittore, 1464-1468,
Roma, Basilica dei SS.
Apostoli, Cappella Bessarione.
Patrimonio del Fondo
Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
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259
Figg. 157 a-b
a: Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, Apparizione sul
monte Gargano, particolare con le frecce degli arcieri, 1464-1468,
Roma, Basilica dei SS.
Apostoli, Cappella Bessarione;
b: Lorenzo da Viterbo,
Sposalizio della Vergine,
particolare con le verghe spezzate, Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità, Cappella
Mazzatosta, parete sinistra.
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è promesso per volontà divina in questo
modo: Carissimi, ora siamo figli di Dio e
non si è ancora manifestato che cosa saremo.
Ma sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come è
[Gv 3,2]46.
Non solo il legame tra musica e resurrezione della carne, per intermedio della Sacra
Scrittura e di Giovanni, è fondamentale
per questo dottore della Chiesa, ma anche
il nesso tra la scienza dei suoni e la Vergine Maria è strettissimo. La virtù principale
di Maria, quella che sostiene tutte le altre,
è per Agostino quella dell’ascolto. Per
questo il vescovo di Ippona commenta il
brano di Luca summenzionato (Lc 11,2728):
Maria, dunque, fu più beata nell’accogliere la fede in Cristo, che nel concepire il
corpo di Cristo. A quel tale che le diceva:
«Beato il ventre Che ti ha portato!» [Cristo] rispose: «Beati piuttosto coloro che
ascoltano la parola di Dio e la custodiscono»47.
Precedenti diretti degli angeli musici lorenziani, connessi all’iconografia musicale
ispirata a S. Agostino, sono i soggetti mariani affrescati da Lippo Vanni nell’eremo
di San Leonardo al Lago (figg. 151 a-bc-d), presso Santa Colomba, nel comune di
Monteriggioni, in provincia di Siena. Qui,
nel 1360, il pittore senese decora con una
260
straordinaria varietà organologico-strumentale le pareti del piccolo eremo sperduto nelle suggestive colline dello scomparso lago del Verano. L’ipotesi di un
legame di Lorenzo da Viterbo con Siena,
delineata da De Simone48, si fa ancor più
allettante per il dato iconografico-vestimentario rilevato da Elisabetta Gnignera49,
concernente l’esempio di drapo o drapeselo
delle orazioni in mano alla Vergine Maria.
Questo esemplare raro trova il più antico
dei suoi precedenti nella scena dipinta da
Lippo Vanni, collegando così i due Sposalizi, senese e viterbese, realizzati a cento
anni di distanza. Del resto, anche per via
dell’identica selezione delle scene della
Presentazione, Annunciazione, Sposalizio e
Assunzione il ciclo mariano di Lorenzo ricalca quello di Lippo.
Quasi certamente Lorenzo è stato a Siena
e dall’ambiente intellettuale senese era riconosciuto, come anche attesterebbe la predilezione nei suoi confronti del Cardinal
Piccolomini50, e da quell’ambiente avrebbe
mutuato una concezione ancora scolastica
della musica, basata sul numerus, sulla scia
di quegli insegnamenti agostiniani che
sono alla base degli affreschi vanniani51. La
presenza della musica angelica nell’eremo
agostiniano è stata messa in relazione con
gli scritti del vescovo di Ippona che, soprattutto nelle Confessioni, come abbiamo visto,
cita la teoria degli stati d’animo legati alla
musica52.
Figg. 158 a-b
Il coro degli angeli senesi, trattato come
soggetto indipendente e allo stesso tempo come motivo di supporto, occupando
interamente la vòlta dell’Annunciazione,
riproduce, secondo Ghisi53, l’opposizione
monodia-polifonia, voci-strumenti, tipica
dell’Ars Nova del Trecento54. La medesima contrapposizione potrebbe ravvedersi
nella duplice schiera angelica della parete
viterbese, in cui i celesti spiriti si alternano
tra strumentisti e cantori (coro inferiore) e
si intervallano tra musici e oranti (coro superiore vs coro inferiore).
Tuttavia nell’affresco di Lorenzo gli strumenti sono ridotti nel numero e nella tipologia. Mentre Lippo Vanni descrive dettagliatamente piatti, tamburino cilindrico,
flautino, tamburello a cornice con sonagli,
tre coppie di timpani, due coppie di trombe
dritte, due cennamelle, cennamella doppia,
organo portativo, salterio, due liuti e una
viella55, l’organico di Lorenzo si limita al
salterio, arpa, tamburello, organo portativo, flauto doppio, triangolo, cimbali, viella,
liuto (figg. 140-141).
Derivata dal modello di Ambrogio Lorenzetti a Montesiepi, è la finestra che
bipartisce la scena, a Siena come a Viterbo. La metafora della finestra, attraverso
la quale la luce dei raggi solari penetra
senza offendere il vetro, è emblema, da
S. Bernardo in poi, della perenne verginità mariana56.
Fin qui l’affinità tra gli scritti agostiniani e
l’iconografia lorenziana.
Ma anche la presenza di Beda il Venerabile (fig. 148), che occupa con Sant’Agostino
la stessa porzione di cielo, apre analoghi
scenari. Autore di diversi commenti alle
pericopi mariane, Beda sottolinea, a proposito della Visitazione, lo stretto legame
tra voce e spirito, tra ascolto e movimento
interiore:
a: Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, Apparizione al
monte Tumba, particolare con le conchiglie,
1464-1468, Roma, Basilica dei SS. Apostoli, Cappella Bessarione;
b: Lorenzo da Viterbo
e aiuti, Adorazione del
Bambino o Natività, particolare con le chiocciole, Viterbo, Chiesa di
Santa Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete destra.
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«Ecco, non appena la voce del tuo saluto
è giunta alle mie orecchie, il bambino ha
esultato di gioia nel mio seno». Elisabetta,
nel momento stesso in cui fu ricolma della
rivelazione dello Spirito, comprese qual
era il senso dell’esultanza del bambino,
cioè che era giunta madre di colui del quale egli sarebbe stato precursore e testimone. Davvero meraviglioso, rapidissimo fu
l’intervento dello Spirito santo! Là dove lo
Spirito santo è il maestro, non si frappone
alcun indugio nell’apprendere. La gioia
del bambino nasce contemporaneamente
alla voce di colei che saluta, perché mentre
la voce giunge alle orecchie del corpo, la
potenza dello Spirito entra nel cuore di
colei che ascolta e infiamma d’amore per
il Signore che viene non soltanto la madre,
ma anche il figlio57.
261
Figg. 159 a-b-c
a: Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, Apparizione al
monte Tumba, particolare con il mammolo
“luce del mondo”, 14641468, Roma, Basilica dei
SS. Apostoli, Cappella
Bessarione;
b: Lorenzo da Viterbo
e aiuti, Presentazione al
Tempio di Maria bambina, particolare con il
mammolo “gioia del
mondo”, Viterbo, Chiesa di Santa Maria della
Verità, Cappella Mazzatosta, parete sinistra;
c: Lorenzo da Viterbo
e aiuti, parasta destra
della parete di fondo,
particolare con mammolini che giocano al
cavalluccio,
Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità, Cappella
Mazzatosta.
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262
Ma la presenza di questo santo e dottore
della Chiesa si presta ad ulteriori, sorprendenti riflessioni.
Se, come dicono i mistici, tra Dio e gli uomini c’è la distanza della preghiera, questa distanza, scrive Beda, è colmata dalla
misericordia dello Spirito Santo che si incarna in diverse forme. I multiformi modi
di pregare assumono gesti e circostanze
diverse e ogni buona azione fa ascendere la persona davanti a Dio come il buon
odore dell’incenso in divino examine instar
orationum ascendit58. Mentre l’Alleluia è la
preghiera di adorazione più breve offerta a
Dio, riservata alla sua croce o alla sua gloria, esistono preghiere di ringraziamento,
fatte con umiltà e riconoscenza, il cui scopo
è unirsi alla preghiera della Gerusalemme
Celeste nell’Ultimo Giorno. Lì, inter choros
beatorum, l’anima può scegliere se exorare, petere o suplicare, a seconda che voglia
chiedere clemenza, assistenza spirituale,
sollievo dai dolori fisici oppure dimostri
contrizione. Consapevole dei peccati, faglie, omissioni, essa non deve disperare e
scoraggiarsi, ma supplicare l’intercessione
dei santi e degli angeli, ricordandosi che
questi ultimi sono impotenti se non si passa per la Madonna o Cristo. A tal proposito Beda ricorda il Salmo 33:
Esultate, giusti, nel Signore;
ai retti si addice la lode.
Lodate il Signore con la cetra,
con l’arpa a dieci corde a lui cantate.
Cantate al Signore un canto nuovo,
suonate la cetra con arte e acclamate.
Poiché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama il diritto e la giustizia,
della sua grazia è piena la terra.
Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Come in un otre raccoglie le acque del
mare, chiude in riserve gli abissi. (Sal
33,1-7)
Che sia personale o comune, vocale o mentale, la preghiera è sempre di intercessione
e deve sempre passare per Mariam. Dice S.
Beda che l’orazione è comunemente parlata o cantata, perché i monaci la intonano,
esprimendo vocalmente o oralmente l’eterno desiderio di vedere Dio nel loro cuore.
Se uno è triste, colpevole o commette ingiuria, tutti insieme bisogna cantare per espia-
Fig. 160
Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano)
e aiuti, particolare con
angelo di profilo (Virtù), 1464-1468, Roma,
Basilica dei SS. Apostoli, Cappella Bessarione.
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re la colpa, chiedendo in ginocchio grazie e
consolazione.
Ammonisce così Beda: «lasciate che la tristezza del mondo che porta la morte non
inghiotta voi stessi scacciando la malattia
dannosa della tristezza dal tuo cuore con
frequenti dolci salmi cantati59».
La preghiera mentale è invece un dulce
colloquium con il Signore, occasione per
riflettere e meditare sulle Scritture, ripensando alla propria vita, facendo l’esame di
coscienza. Qui il silenzio non solo rinforza
questo stato meditativo, ma lo accresce e
Beda raccomanda vari modi per non distrarsi.
Quel che stupisce è l’enfasi posta dal monaco benedettino sulla preghiera di intercessione, da fare ginocchio. Tutto questo
coincide straordinariamente con la figura
del Santo, ritratto da Lorenzo inginocchia-
to, con gli occhi socchiusi e il libro serrato a
terra, come a suggerire uno stato di contemplazione interiore, al contrario di Agostino
che dall’altra parte della nuvola è effigiato
seduto e scrivente.
«Le membra del nostro corpo sono a servizio di Dio, le nostre mani per le opere
buone e i nostri piedi diretti sulla via della
pace60». Così Beda si esprime riguardo al
collegamento anima-corpo. Se in piedi si
mostra il gioioso spirito che prega Dio, in
ginocchio, invece, si sperimenta la contrizione. Nella Settimana Santa si sta in ginocchio, ma nella Domenica di Pasqua si canta
in piedi l’Alleluia. In ginocchio si prega per
supplica, penitenza o lutto, così come per la
conversione dei nostri nemici o persecutori, come fanno i martiri e gli apostoli. Non a
caso il Santo è l’unico tra quelli che abitano
la vòlta ad essere ritratto in ginocchio, pro-
263
Fig. 161
Antonio di Benedetto degli Aquili (noto
come Antoniazzo Romano) e aiuti, Apparizione sul monte Gargano, particolare con la
città turrita (Siponto?),
1464-1468, Roma, Basilica dei SS. Apostoli,
Cappella Bessarione.
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prio perché parte di un contesto iconoteologico che, come vedremo, è molto più ampio
di quello che appare a prima vista.
L’importanza del corpo nell’orazione per
Beda si estende anche alla posizione delle
mani, che sono giunte e tese verso l’alto
per indicare supplica o petizione, o vengono raccolte sul petto denotando ringraziamento. Di qui le diverse pose nell’iconografia degli angeli oranti appartenenti
alla schiera superiore. Inoltre le lacrime
accompagnano sovente i canti, afferma
Beda. Gemere, sospirare, lacrimare serve
ad esprimere il sentimento della comunione tra i credenti e a stimolare la pietà nei
peccatori. Allo stesso tempo, attraverso le
lacrime si fa memoria del peccato originale e del conseguente sentimento di contri-
264
zione, capace di suscitare la misericordia
di Dio, allontanandone l’ira. Per Beda le
lacrime rappresentano la perfezione della
preghiera e indicano anche che questa è in
atto. Tra le pieghe della più aggiornata critica, come addita nel suo saggio Simonetta
Valtieri61, è emersa l’urgenza di un doveroso restauro degli affreschi viterbesi. Questo evidenzierà ancor più la presenza di
due già percettibili lacrime che spuntano
dalle palpebre socchiuse di Beda (fig. 152).
Così, in ginocchio, le labbra semiaperte,
Beda sussurra piangendo la sua orazione,
silenziosamente e perfettamente.
Il legame tra Beda e la musica, in parallelo con Agostino, è provato dai suoi scritti,
in particolare Musica Theorica, in cui da
una parte conferma la radice di quest’arte
Fig. 162
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Presentazione al
Tempio di Maria bambina, particolare con torri moresche, Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità, Cappella
Mazzatosta, parete sinistra.
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fondata sulla ratione e sul numerus62, dall’altra individua nella ragione la forza vitale
dell’anima, che resta nascosta sotto il velo
del silenzio e si palesa quando fuoriesce
attraverso il suono:
Haec vivacitas rationis est ipsa vis rationis
animse, quae sub silentio in animo latet. Tunc
autem miscetur corpori, quando mirabiliter
per sonos foras egreditur63.
Dunque non solo nel trattato di Beda è riconoscibile l’impronta agostiniana, ma è
citata quell’alternanza tra suono e silenzio
manifesta negli angeli oranti e musicanti
della cappella Mazzatosta. Egli conferisce,
inoltre, una posizione preminente al concetto greco di θεώρημα (theórema), ovvero
alla contemplazione delle regole attraverso
la mente, rispetto all’esecuzione materiale
delle consonanze sonore64. Tutto questo
si rispecchia nella parete lorenziana e, in
particolare, nella superiorità gerarchica
del coro di angeli contemplativi rispetto a
quello degli strumentisti-cantori che, posti
su due file, rispettivamente gli uni sopra
gli altri, indicano una graduale e crescente
prossimità alla visio Dei (figg. 140-141). Gli
angeli theoretici, essendo silenziosi, sono
più vicini a Dio - termine ultimo del viaggio
sovrumano che sta compiendo la Vergine rispetto a quelli sonantes, legati ancora ad
una condizione sensibile e materica della
musica.
In altri luoghi della sua scrittura, il monaco benedettino, fa da cronista alle storie
di Sant’Agostino di Canterbury e dei suoi
265
duits en grec, sur les controverses théologiques agitées entre les deux Églises. Le
caractère de ce recueil sera suffisamment
indiqué si j’ajoute qu’on y rencontre tour
à tour les nomes et les œuvres, entre autres, de Jean Vecchus (du Concile de Lyon
de 1274) de Bessarion, du Cardinal Julien
Cesarini (du Concile de Florence), associés
aux dissertations concernant la procession
du Saint-Esprit, et aux textes grecs et latins
qui l’établissent66.
Fig. 163
Antonio di Benedetto
degli Aquili (noto come
Antoniazzo Romano),
Madonna in Gloria, seconda metà del XV secolo, Viterbo, Museo Civico (proveniente dalla
Chiesa di Santa Maria
al Prato a Campagnano
Romano – Roma).
compagni. In particolare narra il momento
del loro ingresso nell’isola di Thanet:
Fertur autem, quia adpropinquantes
civitati, more suo cum cruce sancta et
imagine magni regis Domini nostri Iesu
Christi, hanc laetaniam consona voce
modularentur: ‘Deprecamur te, Domine,
in omni misericordia tua, ut auferatur furor
tuus et ira tua a ciuitate ista, et de domo sancta tua, quoniam peccauimus. Alleluia’65.
266
Tra questi manoscritti il Te Deum in greco
si trova sotto il titolo di Ουτος Άμβροσίους
ovvero “quello di Ambrogio”, il che avvalora l’ipotesi dell’origine leggendaria di cui
abbiamo parlato67.
Questo dossier è presente non solo nella biblioteca di Vienna, come abbiamo scoperto,
ma anche in quella Marciana, facendo parte
del primo nucleo della stessa, dovuto alla
donazione bessarionea. Il Cardinal Bessarione, del resto, è citato espressamente da
Cagin come uno dei rari possessori di questo Te Deum in greco, insieme a Giovanni il
Vecchio e a Giuliano Cesarini, facente parte
di un dossier contenente fonti greche e latine
sulla disputa del filioque68. Questo testo era
riprodotto in una doppia redazione, in modo
che il lettore potesse scegliere tra le diverse
alternative (figg. 170 a-b). In particolare Cagin sottolinea l’attenzione al verso numerari:
Dal punto di vista liturgico e musicale questa citazione documenta l’esistenza di un
antifonario tradizionale al quale i monaci
latini si riferiranno in futuro. A tal proposito
Cagin cita un originale greco del Te Deum:
Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni,
quos pretioso sanguine redemisti.
Aeterna fac cum sanctis tuis in gloria numerari.
Il existe dans le fonds grec de la Bibliothèque Impériale de Vienne, un manuscrit
grec du XVIe siècle, contenant toute une
collection de documents grecs, et de documents du manuscrit de Vienne latins tra-
Da notare che numerari è tradotto con aritmestai, in linea con la stessa idea di numerologia sacra riservata dagli antichi, Platone e
Pitagora in primis, e dai cristiani, Agostino
e Boezio in secundis, alla musica69.
Fig. 164
Francesco del Cossa
(attr.), Pala dell’Osservanza, particolare con L’Annunciazione, 1470 ca.,
Dresda, Gemäldegalerie.
267
Fig. 165
Francesco del Cossa
(attr.), Pala dell’Osservanza, dettaglio della
lumaca dalla Annunciazione, 1470 ca., Dresda,
Gemäldegalerie.
Del resto, una curiosa triangolazione lega
la presenza di Sant’Agostino nella vòlta e
la regia bessarionea negli affreschi lorenziani con questo antico canto che trae la
sua origine proprio dalla conversione e
dal battesimo di Sant’Agostino ad opera di
Sant’Ambrogio. Devo a Elisabetta Gnignera
la segnalazione di un passo dei Commentarii di papa Piccolomini che narrano che l’11
aprile del 1462, al culmine della solenne
cerimonia di restituzione, dopo essere stata riportata da Patras in Italia dal despota
turco Tomaso Paleologo70, della reliquia del
capo di Sant’Andrea alla Chiesa di Roma,
alla presenza del Papa e di tre Cardinali, tra
cui in posizione di spicco il Bessarione, si
intonò proprio un Te Deum: «A questo punto fu intonato a gran voce il cantico che ha
inizio con le parole Te Deum laudamus e che
fu composto, a quanto si ritiene, dai celebri
Padri della Chiesa Ambrogio e Agostino71».
Risale ad una cronaca milanese dell’XI sec.,
falsamente attribuita al vescovo Dacio, la
leggenda per cui il Te Deum sarebbe frutto del dialogo intonato da Sant’Agostino
e Sant’Ambrogio nel giorno del battesimo
del primo ad opera del secondo, avvenuto
a Milano nel 386. Per questo venne chiamato anche “inno ambrosiano”72.
Nonostante l’importanza della solenne
cerimonia romana, tale da indurre Paolo
Romano ad effigiare, nel bassorilievo del
268
sepolcro del Pontefice, lo stesso Bessarione
in preghiera di fronte a Enea Silvio Piccolomini, ritratto nell’atto di deporre la sacra reliquia sull’altare di San Pietro, come ricorda
Ronchey73 (fig. 171), il precedente diretto per
l’iconografia musicale dell’affresco viterbese, ci sembra, l’altrettanto maestosa, ma al
tempo stesso fresca e popolare processione
del Corpus Domini del 1462, citata negli stessi
Commentarii. Tra i diversi apparati effimeri
costruiti per le vie di Viterbo ad opera dei
cardinali, degni di nota sono quelli del Bessarione e del Forteguerri, rispettivamente
cardinale di Nicea e di Teano: «[…] veniva
un altare eretto dal cardinale di Nicea, il
quale aveva riunito un gruppo di fanciulli
che cantavano come angeli74».
Niccolò cardinale di Teano, per far piacere al pontefice, che sapeva amante delle
cose singolari, fece venire da Pistoia, sua
città natale, un gruppo di attori e un coro
di fanciulli. […] Diciotto erano i fanciulli
che nel volto, nella voce e nell’atteggiamento sembravano angeli, e cantavano
dolcemente a voci alterne un canto responsorio75.
Entrambi i passi citano la prova vocale affidata a fanciulli abbigliati da angeli e, nel secondo caso, essi sono interpreti di un canto
di forma responsoriale. Tale notazione tecnica potrebbe essere un rimando implicito
Fig. 166
Anonimo scultore del
Quattrocento (Isaia da
Pisa?), Cimasa ora parte
dell’Altare della Madonna delle Grazie nella Cappella Mazzatosta,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità.
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al Te Deum, che va eseguito, appunto, a cori
alterni. Non sorprende, del resto, che proprio questo canto di ringraziamento sia stato scelto per accompagnare la processione
del Corpus Domini, nel solenne allestimento
viterbese, nato per scongiurare la peste
che imperversava in quegli anni76. Se tra
gli inni eucaristici troviamo il Pange lingua,
adatto alla processione, il Lauda Sion, tipico
della Messa, e il Tantum ergo, caratteristico
dell’adorazione, proprio il Te Deum, il canto di ringraziamento per eccellenza, poteva
essere intonato, in forma responsoriale,
dall’assemblea riunita in processione per le
vie di una Viterbo trasformata in una grandiosa macchina teatrale.
Dal confronto tra la fonte erudita dei Com-
mentarii e quella più genuina del della Tuccia, risultano le stesse evidenze:
Il tratto riservato al Bessarione era quello
che andava dalla chiesa di S. Quirico a S.
Angelo:
Di lì sino presso la chiesa di S. Chirico77
la fece coprire l’arte de’ mercanti. Di lì,
sino passata la detta chiesa, la fece ornare
il cardinale Niceno Greco, simile con un
magnifico altare78.
Mentre la zona del Forteguerri andava da
S. Angelo a piazza del Comune:
[…] e fece inanti a S. Angelo un ricco altare. Di lì sino a piè la piazza del Comune, la fe’ ornare il cardinale di Tiano con
panni di raza di ogni lato, e archi in croce
269
Fig. 167
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Presentazione al
Tempio di Maria bambina,
dettaglio della Madonna che sale i gradini,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete sinistra.
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270
sopra la strada tutti coperti di verdura;
e fu più bell’ornamento di nessun altro,
sopra coperto di panni di lana, e in mezzo la piazza fe’ fare un bel tabernacolo di
legname, ove era un monimento d’archi:
in piedi detta piazza due fune grossa,
che gioungevano sino al monimento ove
stava un giovane ben ornato come un angelo79.
A questo punto, il cronista viterbese aggiunge non solo l’identità di due dei cantori, probabilmente imparentati con quel notaio che redige il testamento del Cardinal
Niceno, dato anche il quartiere «dei notari»
in cui Forteguerri allestisce il suo altare, ma
ci tramanda anche l’ammirazione del papa
che assiste al concerto:
Fig. 168
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Natività o Adorazione del bambino, dettaglio del disegno della
spiga ricamato sulla camorra (veste) di Maria,
Viterbo, Chiesa di Santa
Maria della Verità, Cappella Mazzatosta, parete destra.
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[…] e dui fanciulli di ser Rosato nostro
cittadino, vestiti a modo d’angeli, ogn’un
da per sé, cantava versi a commendazione
del papa, e sopra quell’altare erano altri
putti belli, vestiti come angeli, con ale d’oro. Il papa sì fermò ad udire detti canti80.
Inoltre, a suo modo e secondo le sue conoscenze, con quell’«ogn’un da per sé» ci
conferma la natura dialogante e alternata
del canto responsoriale da identificare, definitivamente, quindi, nel Te Deum.
Non a caso è la stessa figura del cardinal
Niceno, che si cela dietro ad entrambi gli
allestimenti, del Corpus Domini e della traslazione della reliquia S. Andrea, ad aver a
mio avviso suggerito l’iconografia musicale a Lorenzo. Dalle due cerimonie religiose,
sotto la sapiente regia del Bessarione, il pittore mutua il soggetto musicale della sua
parete.
A conferma di questo è l’allestimento del
tratto finale della processione del Corpus
Domini, quello davanti alla Cattedrale,
271
Fig. 169
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Natività o Adorazione del bambino, particolare con Gesù Bambino raggiante, Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità, Cappella
Mazzatosta, parete destra.
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dove si svolge, con una scenotecnica degna
dei prototipi fiorentini e senesi, il grandioso
apparato dell’Assunzione di Maria in cielo.
Il cardinale dei Santi Quattro Coronati,
innalzando alte travi collegate da funi,
aveva ricoperto tutta la vasta piazza che
si apre davanti alla cattedrale e l’aveva
decorata con addobbi e oggetti mirabili,
In un luogo conveniente innalzò un altare alla cui destra collocò il trono papale
ei seggi per i cardinali, ed alla sinistra,
in una disposizione simile a quella del
Palazzo Apostolico, collocò le anche per
i vescovi, i proto notari e gli abati. Su un
lato della piazza, in un punto un poco elevato, fece erigere il sepolcro della gloriosa vergine Maria e più in alto, sopra i tetti
delle case, il palazzo del Re del cielo con
272
Dio seduto in maestà e i cori degli angeli
e dei santi e le stelle ardenti e le gioie della gloria paradisiaca raffigurate in modi
meravigliosi. Il servizio divino venne celebrato tra la devozione grandissima del
popolo. Il cardinale di San Marco celebrò
la messa. Il papa benedisse la folla. Quindi un fanciullo in veste di angelo con un
canto dolcissimo annunciò l’imminente
ascensione della Vergine. S’aperse allora
il sepolcro e ne uscì una fanciulla bellissima, che, sostenuta dalle mani degli angeli, venne portata per un poco nell’aria,
quindi lasciò cadere la cintura nelle mani
a lei tese di un apostolo. Poi, piena di
gioia, cantando dolcemente, fu assunta in
cielo, dove le venne incontro suo Figlio,
che è anche suo Padre e Signore, il quale
baciò sulla fronte la madre e la presentò
Figg. 170 a-b
Paul Cagin., L’Euchologie Latine étudiée dans la
tradition de ses formules
et de ses formulaires. I: Te
Deum ou Illatio? Contribution à l’histoire de l’euchologie latine à propos
des origines du Te Deum,
Abbaye de Solesmes,
1906 (Scriptorium Solesmense, I,1):
a: vista della pagina 140;
b: vista della pagina
141.
al Padre eterno, facendola sedere alla sua
destra. Cominciarono allora a cantare e
schiere degli spiriti celesti, e a suonare gli
strumenti, e a mostrare la loro letizia, e
a esprimere la loro gioia, e a far sentire
in tutto il cielo il loro gaudio, E così ebbe
termine la festa81.
Impossibile non ravvisare in questo passo la fonte iconografica dello spettacolare
evento in cui culmina tutto il ciclo mariano
effigiato nella Cappella Mazzatosta.
Come spesso avviene dal Medioevo in poi,
per gli artisti gli spettacoli e le feste legati
alla devozione popolare divengono lo spunto visivo dal quale mutuare la propria ispirazione. Come Firenze era stata trasformata
dalle macchine teatrali del Brunelleschi, che
nel 1439 aveva firmato un’Annunciazione descritta dal Vasari82, reiterando la propaganda
unionista in occasione del Concilio83, così Viterbo doveva apparire agli occhi di Lorenzo
e dei suoi concittadini con una scenotecnica
meravigliosamente paradisiaca:
tutti coloro che entrarono in Viterbo in
quel giorno credettero di essere entrati
nella dimora degli dei e non fra le abitazioni di esseri umani e raccontarono di
aver visto la patria celeste, ancor vivi in
carne e ossa84.
Il particolare della cintola e delle mani tese
dell’apostolo non lascia adito a dubbi: la
parete lorenziana trae spunto dalla festa
del Corpus Domini, il cui terminus ante quem
è proprio quel giovedì 17 giugno del 1462
in cui ebbe luogo.
Una eco in sermo humilis a questi aulici versi
dei Commentarii è riscontrabile nelle Cronache del nostro della Tuccia:
Gionto poi alla piazza di S. Lorenzo, fe’
cantare la messa solenne fuor di detta
chiesa dal cardinale di S. Marco; e cantata
la messa, fu fatta una rappresentazione
di nostra Donna quando andò in cielo; e
andò sopra un ingegno da basso in alto,
che pareva come il paradiso con angeli,
soni e canti: o dui angeli discesero in
terra cantando; e la Vergine Maria entrò
in mezzo di loro, e lassò la centura a S.
Tomasso, e poi se n’andò in cielo. Fatte
detto cose, il papa entrò nel palazzo del
Vescovato, ‘e moltissima gente andò
dietro, e dette la benedizione ni popolo,
che si stimò fossero circa 150 migliara
di persone: e pose indulgenza di colpa e
pena in quella processione. Grandissimo
trionfo e onore fece il cardinale de’ Santi Quattro al papa e a tutti i cardinali e
anco a tutta la corte, chè li costò ducali
circa 500, con tanta splendidezza, ch’io
273
il catalogo degli scritti del Perotti, l’Oratio
de Assumptione Beate Virginis86 appare particolarmente pertinente a questo contesto,
non solo perché collima con il soggetto iconografico interamente ospitato nella parete
di fondo della Cappella, ma proprio perché
cita a mio avviso, tra le pieghe di un latino
ecclesiastico quattrocentesco estremamente
raffinato, la ragione teologica delle cintole
ritorte ed attorcigliate. Così la SS. Vergine
parla in prima persona, dirigendosi al popolo cristiano:
Fig. 171
Paolo Romano, Monumento funebre a papa Pio
II, Enea Silvio Piccolomini, particolare con
il ritratto del Cardinal Bessarione, 14651470, Roma, Basilica
di Sant’Andrea della
Valle.
nol potrìa narrare. Dopo desinare, il papa
tornò alla rôcca, e i cardinali ognuno a
loro stanzie85.
Di particolare rilievo, ai fini iconografici,
oltre alla citazione musicale e all’elemento
della cintola, è la discesa dei due angeli, in
mezzo ai quali la Madonna appare, il cui
duplicato marmoreo è riscontrabile nel timpano dell’edicola della Mazzatosta, nella
quale la Vergine, al centro della mandorla,
è sorretta proprio da due presenze celesti
(fig. 166).
Se questo attributo iconografico resta seminascosto agli occhi dei più, particolare
enfasi acquistano, invece, le cintole degli
angeli musici dipinti intorno al trono della Vergine. Mosse e agitate come da un
vento invisibile, queste si contorcono inspiegabilmente se paragonate all’assetto
fisso e ieratico di chi le indossa. Scorrendo
274
Ho messo radici ― disse ― nel popolo
beato e nelle parti del mio Dio è la sua
eredità del mio Dio e nella pienezza dei
Santi è la mia dimora». «Radicavi», vale
a dire ho messo radici nel popolo beato
cioè nel coro dei Serafini.
Parimenti è come se dicessi che dove ha
fine la perfezione di grazia e gloria di tutte creature, qui inizia la mia lode.
Infatti dopo essere stata innalzata sopra i
Serafini metto radici in loro; infatti attraverso me mano a mano sono illuminate
quelle creature che prima non avevano in
alcun modo luce da Dio.
Le cintole angeliche sarebbero, dunque, la
trasposizione visiva di queste radici che la
Madonna dice essere il fondamento del suo
trono che è nei cieli, ma dal quale la luce si
irradia sulla terra, per tutte le genti.
Più avanti spiega che è proprio da queste
radici che si origina il frutto, ovvero Gesù,
presente in corpo, anima e divinità in tutti i
tabernacoli del mondo.
Et in partes Dei mei herditas illius»: Qual
è questa eredità? Il frutto che proviene
dalla radice; questo è meritatamente la
ricompensa. E infatti come un Serafino
non sono appagata di avere una sola parte del mio Dio, ma tutte le parti; infatti
Figg. 172 a-b
Maestro di Castiglione
in Teverina (Domenico
Velandi?), Madonna della Cintola, fine XV secolo, Castiglione in Teverina (Viterbo), Chiesa
Collegiata dei Santi Filippo e Giacomo:
a: riproduzione a colori;
b: riproduzione in bianco
e nero.
Gesù Cristo mio dolcissimo figlio e mio
Dio ha tre sostanze in una sola persona
così come nella divinità tre persone sono
in una sola sostanza. Dunque i Serafini
hanno due parti di quella. Infatti godono
della sua divinità come prima sostanza
e della sua stessa anima come mezzo di
tutte le grazie.
Io invece possiedo tutte le sue parti poiché
godo della sua divinità e sono illuminata
dalla sua anima e abbraccio il suo corpo.
La mia anima conserva due parti di Lui, il
corpo ne conserva la terza come recitava
Salomone « La sua mano sinistra sotto la mia
testa e la sua mano destra mi abbraccerà». E
«in plenitudine sanctorum» perché io sola
esulto di ogni genere di gioia nell’anima
e nel corpo per la divinità per l’umanità
del Figlio e del mio Dio che solo è nella
pienezza dei Santi, che solo può renderli
beati nell’anima e nel corpo. Questa dunque è la mia vita, questa è la mia beatitudine che non mi può essere tolta. Io mi
trovo sempre presso mio Figlio, godo di
Lui, con Lui dimoro, Lo prego per voi e
come Egli stesso continuamente per voi
mostra al padre il costato e le ferite, così
io mostro il seno e le mammelle.
275
Figg. 173 a-b
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Vòlta della Cappella
Mazzatosta, vele corrispondenti alla parete
sinistra, Viterbo, Chiesa di Santa Maria della
Verità:
a: S. Gregorio Magno;
b: S. Pier Damiani.
Patrimonio del Fondo
Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
Centrale per l’Amministrazione del Fondo
Edifici di Culto del Ministero dell’Interno.
La particolare relazione Madre-Figlio, sottolineata in tutte le storie mariane viterbesi,
permette a lei di godere di tutte e tre le di
lui sostanze in una sola, per via dell’Incarnazione.
Le cintole si muovono a sottolineare la vitalità e fecondità di questo legame tra terra
e cielo, di questi frutti che, a partire dall’Incarnazione, ovvero dall’evento-chiave per
la storia della Salvezza, si perpetuano fino
alla fine dei tempi. Inoltre, la Madonna
intercede, dall’alto dei Cieli, per la beatitudine l’Umanità intera. E lo fa attraverso il
canto. Questo elemento non è secondario
nell’Oratio, nella quale l’arcivescovo di
Siponto fa esprimere in prima persona la
lode alla Madonna nel coro dei Serafini. È
una lode intessuta dei versi del canto di Salomone che esprimono l’unione tra Maria
e Gesù, tra la Chiesa e Cristo. È importante
sottolineare che questa Oratio, composta
276
da Perotti dieci anni prima dell’esecuzione
degli affreschi, costituisce il testo fondante
per spiegare le non poche anomalie ed eccezioni iconografiche. Come ribadisce Gnignera87, la presenza di personaggi di spalle,
corroborerebbe la tesi per cui sulla parete
dello Sposalizio ci sarebbero figure di armeni, ebrei, alemanni, greco-bizantini che
hanno disatteso la causa unionista portata
avanti dal Bessarione proprio in quella dieta di Mantova del 1459 che vide il Perotti
pronunciare l’Oratio di fronte al papa Pio II.
Effigiati sulla parete sinistra della Cappella, tali figuri girerebbero le spalle a quella
stessa Madre che, dipinta nella sua ascesa
al cielo, sulla parete di fondo, li esortava a
combattere per l’unità dei cristiani in chiave anti-turca.
È impossibile non ravvisare dietro tutti
questi rimandi musicali e teologici una
complessa regia che a mio avviso è attri-
Figg. 174 a-b
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Vòlta della Cappella Mazzatosta, vele
corrispondenti all’arcone d’ingresso, Viterbo,
Chiesa di Santa Maria
della Verità:
a: S. Ambrogio;
b: S. Giovanni Crisostomo.
Patrimonio del Fondo
Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
Centrale per l’Amministrazione del Fondo
Edifici di Culto del Ministero dell’Interno.
buibile non solo al Perotti, seppure illustre
membro del raffinato milieu umanistico
romano, nonché rettore di Viterbo dal
1464 al 1469, né tantomeno alla figura di
Nardo Mazzatosta, pur sempre mero mercante della città e finanziatore dell’opera,
ma è da ricercare nello stesso cardinal
Bessarione, fautore del dialogo tra Occidente ed Oriente e promotore di quella
tesi unionista che si coglie, quasi una eco
post-conciliare, tra le righe dell’iconografia dell’intera cappella.
Sorprende ma non stupisce, allora, la continua esortazione da parte della Madonna al
popolo di Dio per la difensa dell’unità contro gli infedeli, in straordinaria assonanza
con l’insolita scelta iconografica di porre,
nello Sposalizio, personaggi raffigurati di
spalle, come rilevato e sottolineato da Elisabetta Gnignera nel saggio pubblicato in
questa sede88.
Sorprende ma non stupisce, allora, il programma iconografico effigiato nella cappella Bessarione ai SS. Apostoli, che traduce in
immagini il testo di Beda e per la cui descrizione dettagliata rimandiamo al testo di
Tiberia89.
Nella controfacciata della cappella romana,
la scena dell’Apparizione al monte Tumba
ritrae il momento in cui Aubert con i suoi
compagni raggiungono con inni e lodi il
luogo sacro.
Mi permetto di divergere dall’ipotesi di
Pina Belli d’Elia90, che vuole i due gruppi
di frati entrambi francescani, osservanti
e conventuali per via di presunte fattezze
non orientali dei secondi. Si tratta invece rispettivamente di monaci francescani, in secondo piano, e monaci basiliani, in primo,
come già intuito da Tiberia, per via degli
abiti (fig. 154).
Nel 1446, vent’anni prima della realizza-
277
Figg. 175 a-b
Lorenzo da Viterbo e
aiuti, Vòlta della Cappella
Mazzatosta, vele corrispondenti alla parete
destra, Viterbo, Chiesa
di Santa Maria della
Verità:
a: S. Girolamo;
b: S. Bernardo.
Patrimonio del Fondo
Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione
Centrale per l’Amministrazione del Fondo
Edifici di Culto del Ministero dell’Interno.
zione degli affreschi il cardinale Bessarione
riunisce un Capitolo generale a Roma, proprio ai SS. Apostoli, rivolto ai monasteri e
agli ordini dei monaci basiliani di rito greco
nel Regno delle Due Sicilie, per discutere
sull’opportunità di aprire il campo al rito
misto, abbandonando quello greco-orientale. Tra i molti passi della riforma riguardanti anche l’eucarestia, si trova una riflessione
sugli abiti. Al capitolo seguì la Bolla di
Eugenio IV del 14 dicembre 1446 intitolata Monachi græci Ordini S. Basilii sub Græcorum ritu vivere consueti, per cui i monaci
basiliani avrebbero dovuto adottare l’abito
benedettino, mantenendo unicamente l’uso
orientale della barba per distinguersi dai
confratelli occidentali. La mancanza della
barba nell’affresco romano si deve, invece,
al tentativo di uniformare, a vent’anni dal
Capitolo, detti monaci basiliani alla fazione
278
occidentale, nella cappella funebre di un
cardinale da sempre circondato dal sospetto di essere filo-orientale proprio per il suo
aspetto “barbazzuto” 91.
Questi monaci greci che intonano un prototipo del Te Deum il cui spartito è vestigio,
purtroppo, di una musica ficta (fig. 155),
sono gemellati con gli angeli viterbesi che
eseguono un Te Deum di fatto, ringraziando la Madonna per la peste scampata e il
miracolo avvenuto.
Tornando a Viterbo, in assonanza con Elisabetta Gnignera, credo che un doppio motivo colleghi gli affreschi lorenziani al tema
dell’ex voto, se si pensa alla loro genesi e
cronologia. Si tratta del miracolo del 1446
e di quello del 1467, non a caso entrambi
narrati dallo stesso cronista, Niccola della
Tuccia. Accanto a quello della Madonna
della Verità, summenzionato, lo storico
relata la liberazione dalla peste avvenuta
grazie all’intervento della Madonna della
Quercia:
In quel tempo era in Viterbo la moria e
tucti castelli e terre datorno schifavano
nostre conservationi e nullo viterbese
posseva entrare in dette terre, e, quando
fo palesato detto miracolo, restrinse detta
moria e non ci morìo più persona […]92.
Di qui il Patto d’Amore tra la Madonna e
la città, per cui i viterbesi ogni anno ancora
oggi il 14 Settembre si recano a piedi al Santuario, in memoria dello scampato pericolo.
Non stupirebbe se, inizialmente, in attesa di
un programma definitivo dedicato al ciclo
mariano, fosse stato proprio quest’ultimo
soggetto, quello della Madonna della Quercia, ad essere effigiato al di sotto degli affreschi lorenziani, quale primo modello della
cappella di Nardo, distante pochi mesi dal
miracolo di Bagnaia. Tale riscontro sarebbe
auspicabile attraverso opportuni esami ad
opera di attrezzature non invasive.
Tornando alle analogie tra la cappella Mazzatosta e quella del Bessarione, non stupisce che Antoniazzo Romano potesse aver
preso Lorenzo da Viterbo in bottega, come
testimonierebbe anche la posa con le mani
intrecciate di quest’ultimo, autoritratto nello sposalizio in vestina verde sovrastata da
un corto lucco giovanile93, sulla scia del maestro romano, il quale si distingue dal suo
corteo per la posa frontale e a mani giunte94
(figg. 123, 156). E come non notare che le
frecce dei giovani arcieri, le cui fattezze
ricordano i giovani pretendenti di Maria
nello Sposalizio viterbese, sono poste alla
stregua delle verghe spezzate a terra, in
prospettico assetto (figg. 157 a-b)? E come
non comparare le chioccioline sorgenti e risorgenti nella scena della Natività lorenzia-
na, disseminate alla stregua delle conchiglie della spiaggia di Thanet, nella cappella
bessarionea, quale segno di generazione
incorrotta o rigenerazione95, parallelamente alla concezione verginale del Verbo fatto
carne (figg. 158 a-b)? E come non ravvisare
la sorprendente analogia tra la presenza di
“mammolini” (figg. 159 a-b) che in entrambe le cappelle significano rispettivamente
la luce del mondo (ravvisabile nel bambino
che porta la candela nella processione romana) e la gioia nel mondo (identificabile
nel fanciullo di spalle che gioca al cavalluccio nella Presentazione viterbese)96? E che
dire della sorprendente assonanza tra gli
angeli di profilo che circondano Cristo nella
vòlta bessarionea, appartenenti alla seconda schiera, il cosiddetto coro delle Virtù,
della seconda gerarchia, ovvero la Media
Coelestis Hierarchia97, con quelli che circondano la Vergine della Mazzatosta, tanto
stilisticamente affini agli angeli lorenziani
da far supporre un intervento del magister
viterbese nella cappella romana (figg. 141,
160)? Non sorprenderà allora la citazione
delle torri moresche poste a difesa della città fortificata, evocatrici dell’esotica Siponto
della cappella romana, se confrontate con
gli edifici orientali che spuntano tra le mura
viterbesi, fiancheggiando il tempio rotondo
sui gradini del quale corre Maria bambina
(figg. 161-162, 167).
Un’ulteriore conferma stilistica lega Antoniazzo romano a Lorenzo da Viterbo: è la
presenza nell’adiacente Museo Civico della
Madonna in Gloria (fig. 163), in cui la firma
dell’autore della cappella bessarionea è ben
visibile nell’«inarcato mignolo della Vergine»98. Quest’analogia, finora sfuggita alla
critica, tra la tavola di Antoniazzo proveniente dalla Chiesa di Santa Maria a Campagnano Romano99 e l’affresco lorenziano,
279
fa del primo l’antecedente iconografico
diretto del secondo, mentre gli apostoli in
basso, certamente autografi, sono imputabili ad altre ascendenze realistiche, per la
critica fluttuanti tra memorie squarcionesche e ipotesi mantegnesche100, con rimandi
perfino alla tradizione toscana101.
Concludendo, è mia forte convinzione che
non solo nella più volte evocata e smentita
presenza di Lorenzo nel cantiere di Antoniazzo si debba propendere per la prima
ipotesi, ma anche che, accanto all’accertato
nome dell’arcivescovo Perotti, come possibile autore del programma iconografico
viterbese, dettato a Lorenzo e finanziato
da Nardo Mazzatosta, stia il cardinal Bessarione. A tal proposito un documento
riesumato da Grigioni confermerebbe Lorenzo abitante a Roma, nel rione Colonna,
appellato magister già nel 1462: «[…] et
magister Laurentium de Viterbio pictorem
de Regione columnae102». Il rione è lo stesso
della Cappella del Bessarione, situata ai
SS. Apostoli di cui il Cardinale è ufficiale
protettore dal 10 settembre del 1463, trasferendovi l’Ordine dei Frati Minori, ma
che già dal 1446 presiedeva. Che Lorenzo
fosse entrato nel milieu dell’accademia
bessarionea è confermato direttamente da
una lettera inviata dall’allora cardinale
Jacopo Ammannati Piccolomini, nel 1473,
a Lorenzo il Magnifico nella quale egli
raccomandava «uno maestro Lorenzo da
Viterbo»103 per la pittura di alcuni fregi.
Tale documento non solo è importante
come terminus post quem per circoscrivere
la data di morte del pittore, (cfr. Ginevra
Bentivoglio)104, ma è essenziale per la comprensione dei rapporti tra il circolo bessarioneo e quello umanistico viterbese, raccolto intorno al vescovo Niccolò Perotti,
residente a Viterbo quale governatore del
280
Patrimonio di San Pietro nel quinquennio
1464-1469.
Da parte sua, il cardinal Bessarione, al
secolo Basilio di Trebisonda, era stato
mandato ― come conferma nel suo saggio Concetta Bianca105 ― come legatus a
latere per garantire alla Signoria l’aiuto
finanziario del papa, a Venezia, sua città d’elezione, alla quale lascia la propria
ricca collezione di codici antichi, nucleo
della futura Biblioteca Marciana. L’atto
notarile del lascito fu rogato proprio a Viterbo il 31 maggio del 1468 dai notai Rosato e Lelio da Viterbo, presente lo stesso
Bessarione ex balneis Viterbiensibus di
cui era assiduo frequentatore negli anni
dell’esecuzione della Cappella Mazzatosta conclusa nell’aprile del 1469. Questo
dato documentario fornisce conferme
iconografiche essenziali nella lettura iconologica del programma degli affreschi
della Cappella Mazzatosta, incentrati
sul dialogo tra Oriente e Occidente. La
tesi unionista, tanto cara al cardinal Bessarione, è leggibile, infatti, nell’intero
ciclo di affreschi per via della presenza
dei rappresentanti della Chiesa d’Oriente (San Beda, S. Giovanni Crisostomo,
S. Girolamo, S. Pier Damiani) e della
Chiesa d’Occidente (S. Bernardo, S. Agostino, S. Gregorio Magno, S. Ambrogio)
(figg. 148, 173a-b,174a-b,175 a-b); per la
sovrapposizione del tema dell’Assunzione
(occidentale) con quello della Dormitio
(orientale) (tav. X); per la diversa postura di angeli musicanti che pregano alla
occidentale (mani giunte) e alla orientale
(mani incrociate sul petto)106 (figg. 140141); per le fogge degli abiti dei personaggi dello Sposalizio, vestiti – come insegna
Elisabetta Gnignera107 – secondo la moda
orientale e occidentale, affollati intorno al
sacerdote le cui fattezze sembrerebbero
ricalcare quelle del Bessarione stesso, cardinale “greco, barbazuto” nelle descrizioni dei suoi contemporanei108(tav. II); per
la presenza anomala, nella Presentazione,
di un corteo di uomini in numero di sei,
forse ad indicare i sessanta prodi che seguivano le vergini portatrici di fiaccole,
secondo la visione di Salomone, riportata
dalle omelie Giacomo di Sarug109, iconografia, questa, di attestata radice siriaco-bizantina (fig. 112).
A chiosa del presepe viterbese, inoltre, in
linea con la politica di riappacificazione e
di unione tra le due Chiese, appare il bue
appena inginocchiato (fig. 146), in modo
analogo a quello di Pietro Miniato a S. Maria Novella, cui abbiamo sopra accennato,
ma anche all’affresco della Natività di Tagliacozzo (fig. 308), recentemente attribuita
a Lorenzo da De Simone110. Si deve proprio
a Sant’Agostino la riflessione sul Cristo
appena nato, come pietra angolare dei due
popoli:
Poiché è detto nella Scrittura: Ecco, io
pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa; colui che crede in essa non
rimarrà confuso. Coloro che hanno ascoltato e obbedito vennero da ambedue le
parti, si riconciliarono, terminarono le
inimicizie: le primizie di ambedue furono
i pastori e i magi. In essi il bue cominciò
a riconoscere il suo padrone e l’asino la
greppia del suo Signore. Il bue, che ha
le corna, è simbolo dei Giudei perché in
mezzo ad essi a Cristo furono preparati
i due vertici della croce. L’asino, animale
tipico per le orecchie, è simbolo dei pagani; di essi era stato predetto: Un popolo
a me sconosciuto mi servì, al primo udirmi
con gli orecchi si sottomise a me. Colui che
era insieme padrone del bue e signore
dell’asino giaceva in una mangiatoia e ad
ambedue dava un medesimo cibo111.
Dunque è un’adorazione in fieri, quella dipinta a Viterbo, a cominciare dal bue che
per primo si inginocchia, riconosce e adora
il Signore, incamminandosi sulla quella
via della pace tra Ebrei e Pagani, alias tra
Oriente e Occidente, tanto auspicata dal
Bessarione.
Tornando al tema del puer ludens, nulla impedisce, che nell’insistita citazione del gioco infantile del cavalluccio reso da canne e
bastoni (in franc. dada) nel monocromo della parasta destra dell’Assunzione, nel mammolo ritratto di spalle della Presentazione
e nella formella del pavimento maiolicato
(figg. 122, 159 b-c) echeggi un espediente
goliardico dell’artista per rievocare, in maniera faceta, l’emblema del committente,
derivato dal patronimico Mazzatosta.
Di più. Questo elemento, unitamente alla
postura adorante della Madre e del bue
nella Natività viterbese, di inequivocabile
derivazione dagli affreschi fiorentini di
Pietro Miniato, è da riconnettersi, a mio
avviso, alle Rivelazioni di Santa Brigida di
Svezia, sicura fonte iconografica di questi
ultimi. In particolare, dopo la descrizione
del parto verginale della Madonna, descritta nella posta dell’orante, in ginocchio
verso il sole, vi è il successivo passo della
reciproca benedizione tra Madre e Figlio
che parrebbe l’antecedente letterario della
reiterata raffigurazione della verga nella
Mazzatosta:
La santa vergine diceva “Sii benedetto,
Figlio mio, Figlio carissimo senza inizio e
senza fine! In te sono la saggezza, la potenza e la virtù”[...]. E il Figlio rispose: “Sii
benedetta, tu che sei vergine e madre allo
stesso tempo” Tu sei l’arca che era secon-
281
do la legge e conteneva tre oggetti, ossia
la verga, la manna, la tavola. Sono state
fatte tre cose con la verga: è stata tramutata in un serpente senza veleno; ha diviso
le acque e infine ha fatto sgorgare l’acqua
dalla pietra. Ed io, che sono restato nel tuo
ventre ed ho assunto l’umanità da te, sono
la rappresentazione di quella verga112”.
Le Rivelazioni spiegherebbero anche la
presenza del mare nella Natività viterbese.
La Madre loda, infatti, l’opera del Figlio che
si dispiega in tutta la sua potenza, in cielo,
terra, mare, ovvero i tre livelli cosmogonici:
“Hai manifestato la tua saggezza in tutto
quello che si trova in cielo, sulla terra e
in mare la tua potenza nella creazione del
mondo, creandolo dal nulla; la tua virtù
quando sei stato mandato nelle mie viscere113”.
Questa raffinatezza di rimandi misticoteologici si deve indubbiamente all’erudita
direzione del Bessarione, così come l’allusione al dialogo tra Oriente e Occidente.
Sappiamo, grazie a Petrocchi e al suo studio basato sulla fonte del Muntz114, che uno
dei soggetti che decoravano le porte lignee
di San Pietro narrava proprio gli eventi del
1439 e quella tesi unionista che, a distanza
di 28 anni, sarebbe poi riaffiorata a Santa
Maria della Verità, sulle pareti affrescate da
Lorenzo e dalla sua bottega. Curioso è che
l’autore fosse sempre un viterbese, Antonio
da Viterbo, la cui firma ritorna anche per le
opere oggi a San Michele Arcangelo a Capena, nel Cristo in trono tra SS. Pietro e Paolo
e nel trittico dell’Annunciazione.
Bessarione, dotto teologo e celebre umanista, oltre a possedere una biblioteca ricchissima con titoli eruditi sulla matematica,
282
ottica, geometria, filosofia, teologia, liturgia, era anche un profondo conoscitore di
manoscritti e trattati musicali, redatti sia
in lingua greca che latina, tra cui il celebre
testo agostiniano in pergamena115, come si
evince dal catalogo del lascito alla marciana, edito da Labowsky116. Non solo. Nella
formazione della sua biblioteca si preoccupava di salvare la “voce” dell’antica Grecia,
proponendosi come ultimo baluardo di una
cultura che, con la caduta di Costantinopoli
in mano ai Turchi, rischiava di scomparire.
Da quel 29 maggio del 1453, Bessarione,
con varie lettere all’amico Michele Apostolio, tentava di acquisire tutti i testi greci che
si trovassero a Adrianopoli, Tessalonica,
Aenos, Gallipoli, Atene117. Un dato, questo,
che suffraga notevolmente una così ricca
e articolata direzione del programma icono(teo)logico emerso dall’analisi della parete e della cappella lorenziana, tanto più
che il celebre motto che contraddistingue il
cardinal Niceno, inter graecorum latinissimus
e inter latinorum graecissimus118, si rispecchia
nella continua alternanza di temi, abiti,
pose, scene e gesti ascrivibili ai due mondi.
Orare, Adorare, Glorificare: se diverse
sono le lodi e le pose, unico è il coro degli
angeli-musici della Cappella Mazzatosta.
In pieno rinascimento italiano, l’affresco
viterbese, tra suoni e silenzi, ci guarda e ci
riguarda con il suo eloquente, muto, armonioso concerto. In dialogo con le tesi di una
Chiesa riformata e da riunificare, Lorenzo
da Viterbo e i suoi aiuti realizzano, sotto la
sapiente regia del cardinal Bessarione e la
scaltra orchestrazione del vescovo Perotti,
un compendio di teologia mistica in bilico
tra il visivo e il sonoro.
NOTE
1
A. ColivA, Lorenzo da Viterbo nella cappella Mazzatosta, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, S. MACChioni (ed.), Scandicci (Firenze), La Nuova Italia,
1994,111.
2
i. FAldi, L’affermazione della nuova visione rinascimentale: Lorenzo da Viterbo e il suo seguito locale,
in id., Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma, Ugo
Bozzi Editore, 1970, 29.
3
S. PetroCChi, Da Lorenzo da Viterbo a Piermatteo d’Amelia: ipotesi intorno a Nicolaus Pictor alias il Maestro
del trittico di Chia, in «Rivista dell’istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte», ser. III/28
(60 [2005]), 175.
4
Ivi, 176.
5
G. de SiMone, Per Lorenzo da Viterbo, dal Palazzo
Orsini di Tagliacozzo alla Cappella Mazzatosta, in
«Predella» 4 (2011: numero monografico a stampa, G. de SiMone – F. MArCelli (ed.), Su Lorenzo da
Viterbo e Piermatteo d’Amelia. Ricerche in Abruzzo,
Lazio, Marche, Umbria), 45-46.
6
Per la cronologia degli affreschi, ipoteticamente
realizzati tra il 1467 e il 1469, cfr. S. AnGeli, infra,
151 e segg.
7
L. réAu, Iconographie de l’Art Crétienne, I-VI, Paris,
Presse Universitaire de France, 1956, vol. 2, 226227; 230-231. Cfr. B. Aniello, infra, 300-306.
8
Per quanto riguarda la lettura vestimentaria del
motivo decorativo della spiga ricamata sulla camorra della Vergine, cfr. il contributo di E. GniGnerA, infra, 201.
9
Cfr. B. Aniello, infra, 361.
10
C. CArozzi, Dalla Gerusalemme celeste alla Chiesa: testo, immagini, simboli, in e. CAStelnuovo - G. SerGi
(ed.), Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Torino,
Arti e Storia nel Medioevo, 2004, 145-166.
11
La definizione di icono(teo)logia, che estende a
quattro le tre fasi del metodo panovskiano (lettura pre-iconografica, iconografica e iconologica), si
deve a E. MArino, Estetica, ermeneutica, critica d’arte
ed iconografia-iconoteologia. Discorso sul metodo, Pistoia, Provincia romana di S. Caterina da Siena,
2005. Per Marino l’iconoteologia rappresenta la
strumentazione adeguata ad una indagine che
supera la religiosità vaga, per entrare nel campo
di una fede artisticamente espressa dalla parola
e dall’immagine. L’iconoteologia si avvale dell’iconografia e iconologia tradizionali, superandone
però l’approccio formale e contenutistico, per
approdare alla critica storica, esegesi letteraria,
sapientia saecularis, che sono alla base dell’arte
cristiana, intesa come forma-mimesi-di-Fede. Ivi, 20.
12
N. DellA tuCCiA, Cronache di Viterbo e di altre città
scritte da Niccola della Tuccia in I. CIAMPI (ed.),
Cronache e statuti della città di Viterbo, Firenze,
G. P. Viesseux 1872, (Documenti di Storia Italiana,
5), 56.
13
S. AnGeli, infra, 313 e segg.
14
Cfr. sull’argomento I. lArrAñAGA, Il Silenzio di Maria, Roma, San Paolo, 2015.
15
Papa Francesco parla della «cura del mistero»,
della «nube del mistero» che copre e custodisce le
grandi cose fatte dall’Onnipotente. Il Papa commentando (Lc 1,26-38) cita l’ombra con la quale la
potenza dell’Altissimo copre Maria, che è simile
alla nube che aveva protetto gli ebrei nel deserto. Per noi quest’ombra si traduce nel «mistero
del nostro rapporto col Signore» e nel «silenzio
interiore con il quale lo custodiamo». Conclude
il Papa che «l’icona perfetta di questo silenzio è
Maria, che nel silenzio ha custodito il mistero del
rapporto con suo Figlio, fino ai piedi della Croce».
PAPA FrAnCeSCo, Omelia pronunciata il 17 dicembre
2013 presso Casa Santa Marta, disponibile in: https://www.youtube.com/watch?v=8CctFP_5knI
(durata 7’18’’; data emissione: 20 dicembre 2013;
data ultimo accesso: 20 maggio 2018).
16
A. vAlentini, Il Magnificat, Genere letterario, struttura, esegesi, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1987,
127-138.
17
M. e. BeCk, Giotto’s Harmony: Music and Art in
Padua at the Crossroads of the Renaissance, Florence,
European Press Academic Publishing, 2005, 21-23.
18
Dopo la domanda di Maria «Come è possibile,
non conosco uomo» (Lc 1,34) e la risposta dell’angelo «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui
che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio
di Dio. Vedi, anche Elisabetta, tua parente, nella
sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il
sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla
è impossibile a Dio» (Lc 1,35) ci fu un silenzio che
precedette l’istante dell’Incarnazione, che corrisponde al verso di Lc 1,38: «Eccomi, sono la serva
del Signore, avvenga di me quello che hai detto».
Analogo a questo è il tacet dell’Ultimo Giorno
«Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece
silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (Apoc 8,1).
Dal silenzio di Maria scaturisce il suo Fiat. Dal silenzio di Dio, in attesa del Fiat di Maria, scaturisce
il Verbo incarnato. «Mentre un profondo silenzio
avvolgeva tutte le cose, e la notte giungeva a metà
del suo corso, la Tua Parola onnipotente è scesa
283
dal Cielo dal Tuo trono regale» (Sap 18,14). Non
a caso, riferito all’Ultimo Giorno, questo brano
un tempo si leggeva a Natale, legando così in un
unico nodo il mistero dell’Incarnazione a quello
dell’Apocalisse. Per questo spesso gli angeli e i
pastori che accompagnano in Gloria la Natività
eseguono una musica interrupta, un canto silenzioso, alludendo a ciò che esplicitamente San
Giovanni della Croce cita: «Il Padre pronunciò
una Parola: Suo Figlio. Questa parla sempre in un
eterno silenzio e nel silenzio deve essere ascoltata
dall’anima», GiovAnni dellA CroCe, Scritti minori,
II Spunti d’Amore, 99, in id., Opere Complete, Roma,
San Paolo, 2001, 116.
19
I Serafini. Sono il primo Coro, il più vicino a
Dio, ne circondano il trono e lo contemplano, lo
glorificano. Il nome deriva dall’ebraico saraph,
letteralmente “bruciare, ardere”. Il significato
dunque è esattamente “coloro che ardono”, ma il
verbo deve essere inteso in senso transitivo e intransitivo, perché questi esseri, infiammati, a loro
volta infiammano gli uomini dell’amore di Dio. La
descrizione è data dal Profeta Isaia: «Sopra di lui
stavano dei serafini, ognun de’ quali aveva sei ali:
con due si copriva la faccia, con due si copriva i
piedi, e con due volava.» Is 6,2.
Dalla descrizione ricaviamo indirettamente l’indizio della somiglianza umana, per via dei dettagli
anatomici. Grazie al loro grande Amore per Dio, i
Serafini sono tenuti vicini al suo Trono, ma per rispetto non lo guardano e per modestia si coprono
i piedi. Le ali si interpongono tra Creature e Creatore. Hanno il compito di cantare incessantemente
la perfezione di Dio, il loro canto è così forte che
Isaia lo assimila al grido che scuote le porte, facendole vibrare, mentre il tempio – nella sua visione
– si riempie di fumo, forse per via del fuoco di “coloro che ardono”. «Vibravano gli stipiti delle porte
alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si
riempiva di fumo» (Is 6,4). Hanno inoltre il compito della purificazione per mezzo del fuoco, come
si può dedurre dalla descrizione della visione di
Isaia (Is 6,6-7): «Allora uno dei serafini volò verso
di me; teneva in mano un carbone ardente che
aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò
la bocca e mi disse: “Ecco, questo ha toccato le tue
labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo
peccato è espiato”». Nella Visione di Isaia, miniatura dalle Omelie di Giacomo Kokkinobaphos, XII
sec. tra la sontuosa schiera di angeli, scorgiamo
un serafino che tocca le labbra di Isaia col carbone
ardente per purificarle, in basso, dopo di che Isaia si volge verso la sua visione. Dalla nozione di
ardore, i Serafini derivano la loro caratteristica di
esseri caldi. Spirito serafico è uno spirito comple-
284
tamente assorbito nell’amore di Dio. Serafico è S.
Francesco, ferito da un Serafino che gli procura le
stimmate. Lo Pseudo-Dionigi parla di loro come
immagine del fuoco di amore. «Il nome Serafini
indica chiaramente la loro incessante ed eterna
rivoluzione attorno ai Principii Divini, il loro calore e ardore, l’esuberanza della loro intensa, continua, instancabile attività, e la loro tendenza ad
assimilare ed elevare al proprio livello di energia
tutti coloro che sono più in basso, infiammandoli
e bruciandoli con il proprio calore, e purificandoli
interamente con una fiamma ardente e divorante;
e con una lampante, inestinguibile, inalterabile,
raggiante e illuminante energia in grado di disperdere e distruggere le ombre delle tenebre.»
dioniGi l’AeroPAGitA, De coelestis Hierarchia, III, 1,
G. Burrini (ed.), Teramo, Trilopa, 1981.
Per questo gli artisti li raffigurano di colore rosso,
con uno, due o tre paia di ali infuocate. L’iconografia della fiamma deriva anche da S. Tommaso
d’Aquino che nella Summa Theologiae scrive che i
Serafini sono l’immagine della Carità, in quanto
fiamme che tendono verso l’alto, illuminano e riscaldano. L’essere in contatto con Dio determina
fervore e questo contagia anche le altre schiere, in
senso discendente. Non solo il numero di ali, dunque, ma anche il colore determina la distinzione
tra un serafino e un cherubino, o tra un serafino
e un altro angelo. Un esempio di questo è Pietro
Cavallini, che disegna intorno al trono divino
la schiera dei Cherubini connotandola di rosso.
Cfr. i. SPAdACini – M. StAnzione, Gli angeli e l’arte, Todi, Tau, 2010; A. Geretti – S. CAStri, Angeli:
volti dell’Invisibile, Torino, Allemandi, 2010. Quelli
viterbesi sono rossi, hanno 4 ali, la testa aureolata
e circondano la mandorla luminosissima della
Madonna che ascende al cielo, come da loro trasportata. Del resto, il tema dell’Assunzione si contrappone a quello dell’Ascensione come il passivo
all’attivo: mentre Cristo sale in cielo con mezzi
propri, la Vergine viene trasportata in Paradiso
dalle ali degli angeli. l. réAu, Iconographie de l’Art
Crétienne, vol. 2, 616.
20
Il cosiddetto Maestro di Castiglione in Teverina,
sulla cui identificazione con Domenico Velandi,
appartenente alla scuola di Lorenzo da Viterbo,
la critica non è concorde, elabora una sintesi dello
schema della Cappella Mazzatosta nella tavola
della Madonna della Cintola, ubicata nella collegiata dei Santi Filippo e Giacomo di Castiglione in
Teverina. Si tratta di un connubio tra il modello
dell’Assunta, contornata da una mandorla abitata
da angeli musici e oranti e sorretta da cherubini,
e l’aggiunta di un imberbe San Tommaso inginocchiato davanti al sarcofago vuoto, con le mani
alzate nell’atto di ricevere la sacra cintola. Cf. I.
FAldi, Pittori Viterbesi di cinque secoli, 34 (figg. 172
a-b).
21
Pio Xii, Bolla di indizione della glorificazione di Maria
con l’assunzione al cielo in anima e corpo: Munificentissimus Deus (1° Novembre 1950).
22
Sono una ventina i testi che appartengono alla
famiglia del Transitus Mariae, ma nessuno di loro
è un prototipo, trattandosi spesso di varianti di
tipi assai più antichi. l. MorAldi (ed.), Apocrifi del
Nuovo Testamento, I- III, Torino, Utet, 1994, vol. 3,
164, 226 e sgg.
23
Ivi, 231.
24
Ivi, 232.
25
Ivi, 234.
26
Ivi, 193.
27
Ivi, 216.
28
Ivi, 206.
29
Ivi, 196.
30
G. Gentilini GiAnCArlo – l. PrinCiPi, infra, 351.
31
l. MorAldi (ed.), Apocrifi del Nuovo Testamento, 226
e sgg.
32
In uno scambio avuto con Enzo Bentivoglio, nel
gennaio del 2018, lo studioso ipotizzava un sarcofago al di sotto dell’Assunta, in analogia con la
matrice servita della cappella. In un’altra conversazione nel febbraio del 2018 Francesco Buranelli
intravedeva nell’edicola la tipologia dell’altare-sarcofago, la cui funzione, alla luce del dato
iconografico della cintola emerso, sarebbe stata
“assorbita” dall’affresco successivamente coperto
dall’altare.
33
Ivi, 208.
34
C. Gnoni MAvArelli, L’assunta e la Cintola: exempla
di una iconografia in Toscana, dal XIII al XVI secolo,
in A. de MArChi – C. Gnoni MAvArelli, (ed.), Legati
da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città, catalogo di mostra, Prato, Museo di
Palazzo Pretorio, 7 settembre 2017-14 gennaio 2018,
Firenze, Mandragora, 2017, 72 e sgg.
35
L. réAu, Iconographie de l’Art Crétienne, vol. II, 616.
36
Ivi, 617-618.
37
Gli attributi vescovili, rappresentati dalla mitra e
dal mantello, accomunano sia Agostino che Ambrogio, presente nella vela opposta, ma quello dal
manto più ricco è da identificare con il vescovo
di Ippona, mentre Ambrogio, predicatore della
povertà, sarebbe ritratto in abiti più umili. S. vAltieri – e. BentivoGlio, Le pitture di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta, in «Mitteilungen des
Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XVII/1
(1973), 90. Riguardo invece al tipo di mitra indossata da S. Agostino, cito la comunicazione scritta
ricevuta da Elisabetta Gnignera in data 1 Marzo
2018, che estende le sue annotazioni anche alla
mitra indossata dal vescovo effigiato sulla parete
bessarionea: «Con riferimento alle mitre indossate
rispettivamente dal Vescovo raffigurato nella cappella bessarionea e da Sant’Agostino nella Cappella Mazzatosta, possiamo riferirle alla tipologia
della mitra con scudi (punte) centrali (frontale e
posteriore) che inizia a comparire in Occidente
dalla metà del XII secolo. In conseguenza alla
posizione frontale e posteriore degli scudi, la decorazione sarà stabilmente caratterizzata da una
fascia circolare intorno alla testa (circulus), la cui
decorazione sarà detta «in circulo» e da una banda
verticale centrale dalla punta alla base (decorazione in titulo). Si consideri che la mitra occidentale
può dividersi nelle seguenti tre tipologie:
MITRA SYMPLEX: in lino o seta bianca senza decorazioni con frange bianche o rosse, usata nelle
benedizioni, negli uffizi funebri nei giorni di penitenza quali il Venerdì Santo e la Candelora, nei
Concili generali e anche nelle funzioni papali;
MITRA AURIFREGIATA di tela d’oro e con ricami d’oro senza altro ornamento: usata per l’amministrazione dei sacramenti, per la prima parte
della messa e dei vespri pontificali, durante le
processioni solenni, in Avvento e Quaresima;
MITRA PRETIOSA: in seta bianca con ricami dorati e pietre preziose, usata per le funzioni solenni,
per la seconda parte dei Vespri, e, come la aurofregiata, durante le processioni solenni, in Avvento e
Quaresima.
In entrambi i casi, dunque, si può parlare con certezza di Mitre pretiose perché costellate da due decorazioni, preziose appunto, ai lati della decorazione verticale ‘in tutulo’: nel caso della Cappella
Bessarionea le placche sono ovali, presupponendo
una valenza ‘orientale’ della Mitra mentre nel caso
di Sant’Agostino la incastonatura romboidale della gemma non può che non ricondurci agli studi
di Andrzej Pikulski che alla Mitra occidentale ha
dedicato una trattazione specifica, dove, in sintesi,
dimostra che la mitra occidentale risente, verso la
metà del XII secolo, di un modello geometrico ‘ad
quadratum’ desunto dal platonismo veicolato negli
ambiente di Chartres quando «in accordo con il
già esistente riconoscimento della mitra come
simbolo della divinità di Cristo, in cui il numero
quattro svolgeva ruolo dominante, è stata creata
una forma nuova della mitra stessa, servendosi
della figura del quadrato, cioè dell’ espressione
geometrica del numero quattro». Sulla base di
ciò, e considerando il castone quadrangolare della
mitra di S. Agostino ― ma l’indizio è troppo labile
per essere assertivo ― le due mitre deterrebbero
rispettivamente una valenza orientale per quanto
riguarda la Cappella Bessarionea ed occidentale
285
per quanto riguarda la Mazzatosta. Cfr. A. PikulSki, La mitra, studio storico artistico, Firenze, Edifir,
20052, (Arte orafa arte tessile. Monografie I), 77.»
38
L’impianto medievistico edificato da Boezio nel
suo De institutione musicae non implica una derivazione da Agostino, indimostrata e indimostrabile, come invece vorrebbe Corbin. AuGuStinuS,
“De musica” di Agostino d’Ippona, u. PizzAni –
G. MilAneSe (ed.), Palermo, Edizioni “Augustinus”, 1990, 22, 60.
39
S. Aurelii AuGuStini, De musica, Opera Omnia, PL
32, 1,2,2. La definizione non è originale di Agostino, ma è mutuata da lui per tutto il Medioevo.
Forse deriva da Aristosseno o Quintiliano, anche
se alcuni critici la fanno risalire a Varrone. Cfr.
Aurelio AGoStino, Ordine, Musica, Bellezza, M. Betterini (ed.), Milano, Rusconi, 1992, 90, n. 11.
40
Aurelio AGoStino, Confessioni, X, 33-49, C. CArenA
(trad.), Torino, Einaudi, 2000.
41
Ivi, X, 50.
42
S. Aurelii AuGuStini, De musica, VI, 6.
43
AuGuStinuS, “De musica” di Agostino d’Ippona, 77.
44
Cfr. B. Aniello, infra, 251.
45
S. Aurelii AuGuStini, De musica, VI, 5, 13.
46
S. Aurelii AuGuStini, De musica, VI, 6.
47
AGoStino, Sulla verginità, 2, 2-3, 3, in Maria. Testi
teologici e spirituali dal I al XX secolo, e. BiAnChi CoMunità di BoSe (ed.), Milano, Mondadori, 2014,
193.
48
G. de SiMone, The use of Trecento sources in Antoniazzo Romano and Lorenzo da Viterbo, in «Predella»
(edizione digitale), 35 (2014), 104.
49
e. GniGnerA, infra, 223.
50
Iacopo Ammannati Piccolomini raccomanda a
Lorenzo il Magnifico il magister viterbese Lorenzo.
Cfr. B. Aniello, infra, n. 103.
51
L’analisi delle fonti agostiniane è stata condotta
da e. BorSook, The frescoes at San Leonardo al Lago,
in «The Burlington magazine», 98 (1956), 351-358.
Cfr. anche e. CArli, Lippo Vanni a San Leonardo al
Lago, Firenze, Edam,1969 (Quaderni d’arte, 3) e
A. CorniCe, Gli affreschi di Lippo Vanni: San Leonardo al lago, in C. AleSSi (ed.), Lecceto e gli eremi agostiniani in terra di Siena, Siena, Monte dei Paschi,
1990, 287-308.
52
Cfr. B. Aniello, infra, n. 38, 42.
53
F. GhiSi, Danza e strumenti musicali nella pittura senese del Trecento, in L’Ars Nova italiana del Trecento,
A. GAllo (ed.), Bologna, Il Saggiatore Musicale,
1970, (Storia della Musica, II) 83-104.
54
h. MAyer Brown, Catalogus: A Corpus of Trecento
Pictures with Musical Subject Matter, Part I, Instalment 3, «in Imago musicae», III (1986), 103 e sgg.
55
F. GhiSi, Danza e strumenti musicali nella pittura senese del Trecento, 83-104; l. SerrAvAlle, Angelicus
286
Concentus: gli strumenti musicali nei dipinti di area
senese e grossetana dei secoli XIII – XVII, Grosseto,
Biblioteca Chelliana, 2006, 34 e sgg.
56
d. ArASSe, L’annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, Firenze, Usher Arte, 2009, 92 e cfr.
B. Aniello, infra, 299.
57
BedA il venerABile, Omelia per la festa della Visitazione della beata Maria, 2, in Maria. Testi teologici e
spirituali dal I al XX secolo, 560.
58
BedA venerABiliS, Cantica Canticorum, IV.
59
Ibidem.
60
BedA venerABiliS, Omelia 1,6.
61
Cfr. S. vAltieri, infra, 437.
62
«Notandum est quod omnis ars in ratione continetur. Musica quoque in ratione numerorurn
consistit atque versatur.», BedA venerABiliS, Musica Theorica, P. l., oPP. Pars I., Segt. II., Dubia et
Spuria, 909.
63
Ibid.
64
«Contemplatio regularum ex mente, quae Graece
θεώρημα dicitur», Ivi, 911.
65
BedA venerABiliS, Hist. Ecc., lib. I, c. XXV, Migne,
Pat. Lat., t. XCV, 56.
66
P. CAGin, L’Euchologie Latine étudiée dans la tradition de ses formules et de ses formulaires. I : Te Deum
ou Illatio? Contribution à l’histoire de l’euchologie
latine à propos des origines du Te Deum, Abbaye de
Solesmes, 1906 (Scriptorium Solesmense, I,1), 140141.
67
Ivi, 140.
68
Il Te Deum, talvolta indicato come Himnus ambrosianus o come Hymnus in honorem sanctae
trinitatis, o ancora come Hymnus in die dominica,
è tradizionalmente attribuito al dialogo tra Ambrogio ed Agostino al momento del battesimo di
quest’ultimo. Tale leggenda risale all’859 quando
l’arcivescovo di Reims, Hincmar (806-882) pubblicò questo testo: «A maioribus nostris audivimus
tempore baptismatis sancti Augustini hunc hymnum beatus Ambrosius fecit et idem Augustinus
cum eo confecit.» A conferma della tradizione
nella Historia Mediolanensis di Landolfo Senior
del secolo XI troviamo: «in quibus fontibus prout
Spiritus sanctus dabat eloqui eis Te Deum Laudamus decantantes, cunctis qui aderant audientibus
et videntibus simulque mirantibus, in posteris
ediderunt quod ab universa ecclesia Catholica
usque ad hodie tenetur et religiose decantatur.».
La datazione della sua composizione risalirebbe
al 400-450. Il giorno di Pasqua, Agostino ricevette
il battesimo insieme all’amico Alipio, convertito dalle prediche di S. Ambrogio, e a Adeodato,
figlio dello stesso Agostino. Allora S. Ambrogio,
secondo quello che lui stesso dice, gridò: Te Deum
laudamus e S. Agostino rispose: Te Dominum con-
fitemur. E in tal modo, rispondendosi, composero
quest’inno, come riporta Onorio in Lo specchio della
Chiesa. In realtà l’origine è incerta. Certamente anteriore al V secolo, fu forse composto da S. Nicetas
(340-414), vescovo di Remesiana, alla fine del IV.
DEUMM (Dizionario Enciclopedico Universale
della Musica e dei Musicisti), Lessico, I- IV, Torino,
Utet, 1983-1984, 508.
69
Indubbiamente il principio che la musica sia legata agli affetti e che influisca sull’animo deriva da
Boezio, il quale a sua volta lo mutua da Pitagora,
che parla del principio di creazione e di de-creazione nella natura, paragonabili alla musica e al
silenzio che insieme si fondono.
70
Alla cerimonia Bessarione non solo prende parte,
ma occupa una posizione di spicco, consegnando
lui stesso al papa lo scrigno con il sacro cranio e
pronunciando, il giorno seguente, il sermone in
S. Pietro, per invocare la protezione degli apostoli
Pietro e Andrea contro i Turchi.
71
eneA Silvio PiCColoMini. PAPA Pio ii, I Commentarii,
I-II, l. totAro (ed.), Milano, Adelphi 2008vol. 2,
1517, 1601-1609.
72
Cfr. B. Aniello, infra, n. 45.
73
S. ronChey, Volti di Bessarione, in A. riGo – A. BABuin – M. trizio (ed.), Vie per Bisanzio, Atti del VII
Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di
Studi Bizantini, Venezia, 25-28 novembre 2009, Bari,
Edizioni di Pagina, 2013, 537, n. 3.
74
eneA Silvio PiCColoMini, PAPA Pio Xii, I Commentarii, vol. 2, 1601.
75
IvI, 1603-1605.
76
Mentre la peste imperversava a Roma, Papa Piccolomini venne a visitare Viterbo, ospite a San Francesco alla Rocca e, secondo le Cronache del della
Tuccia, si faceva portare «a sollazzo» per la città,
«per provare le acque del bullicame in Faule».
Trovatosi lì con 17 cardinali, ordinò di fare una
solenne processione del Corpus Domini a Viterbo
che della Tuccia colloca nel 1462 e Iuzzo nel 1463.
n. dellA tuCCiA, Cronache di Viterbo e di altre città,
87, n. 1.
77
S. Quirico corrisponde all’attuale Chiesa del Suffragio, come conferma S. Valtieri che ringrazio per
la segnalazione.
78
n. dellA tuCCiA, Cronache di Viterbo e di altre città,
85.
79
Ivi, 85-86.
80
Ivi, 86.
81
eneA Silvio PiCColoMini, PAPA Pio Xii, I Commentarii, vol. 2, 1609.
82
G. vASAri, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed
architettori. Con nuove annotazioni e commenti, I-IX,
G. MilAneSi (ed.), Firenze, Sansoni, 1906, vol. 2,
327-394.
83
P. ventrone, La propaganda unionista negli spettacoli fiorentini per il Concilio del 1439, in La stella e la
Porpora. Il coreto di Benozzo e l’enigma del Virgilio
Riccardiano, G. Lazzi e G. Wolf (ed.), Firenze, Polistampa, 2009, 23-48.
84
eneA Silvio PiCColoMini, PAPA Pio Xii, I Commentarii, vol. 2, 1613.
85
n. dellA tuCCiA, Cronache di Viterbo e di altre città,
87.
86
La Oratio de assumptione Beatae Virginis, pronunciata dal Perotti a Mantova il 15 agosto del 1459, è
contenuta nel seguente testo dove però si riporta
erroneamente la data del 15 agosto 1458: J.Hankis,
Humanism and Platonism in the Italian Renaissance, I-II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
2003, vol. 1 (Raccolta di Studi e Testi, 235), 411415. Riportiamo interamente in appendice la traduzione italiana con testo latino a fronte, a cura
di Claudia Falcioni, dalla quale sono tratti i due
brani citati a seguire nel testo. .
87
Cfr. e. GniGnerA, infra, 212.
88
Ibid.
89
v. tiBeriA, Antoniazzo Romano per il Cardinale Bessarione a Roma, Todi, Ediart, 1992, 29 e sgg.
90
P. Belli d’eliA, Il toro, la montagna, il vescovo: considerazioni su un tema iconografico, in C. CArletti
– G. otrAnto (ed.), Culto e insediamenti micaelici
nell’Italia meridionale fra tarda antichità e medioevo,
Atti del Convegno Internazionale, Monte Sant’Angelo
18-21 novembre 1992, Bari, Edipuglia, 1994, 575602.
91
Ringrazio Elisabetta Gnignera per avermi fornito
la seguente indicazione bibliografica riguardante questo indizio vestimentario che si è rivelata
cruciale per l’identificazione dei monaci basiliani:
Pietro PoMPilio rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia osservato dai greci,
monaci basiliani, e albanesi, II, 1760, Roma, Giovanni Generoso Salomoni, 230-233.
Ripropongo inoltre la annotazione di Elisabetta
Gnignera inviata alla sottoscrìtta con comunicazione scritta del 27 febbraio 2018: «I monaci
basiliani adottarono l’abito dei benedettini, ma
serbando alcuni inizialmente la folta barba alla
orientale quale memento e signo della loro origine
e a differenza degli ordini occidentali privi di barba e con tonsura del capo, come si osserva negli
affreschi della cappella bessarionea (1464-1468)
dove sono evidentemente raffigurati monaci basiliani ormai perfettamente ‘allineati’ alle comunità
monastiche occidentali in quanto a vesti e acconciature. Il Cardinale Niceno rimase fedele alla sua
cultura, serbando la folta barba per tutta la vita».
92
n. dellA tuCCiA, Cronache di Viterbo e di altre città,
87.
287
93
Cfr. e. GniGnerA, infra, 211.
Ibid.
95
Risale all’antichità la credenza che le lumache nascessero per generazione spontanea dalla rugiada
e questo le rende uno degli emblemi della maternità verginale di Maria. Cfr. h. ettlinGer, The Virgin Snail, in «Journal of the Warburg and Courtland Institutes», XLI (1978), 316. Una chiocciolina
attraversa la soglia tra l’osservatore e la scena
dell’Annunciazione nella Pala dell’Osservanza di
Francesco del Cossa, datata 1470 e conservata alla
nella Gemäldegalerie a Dresda. Nella predella
dell’angelica confabulazione contempliamo una
Natività che appartiene alla tipologia dell’Adorazione del bambino da parte della Vergine. La curiosa assonanza tra il bambino supino e benedicente
alla latina, la Vergine adorante e la citazione della
lumaca come emblema della generazione verginale, apre futuri campi di indagine sui rapporti
intercorsi tra Francesco del Cossa e Lorenzo da
Viterbo. Per il ribaltamento paradossalmente prospettico dell’estrema visibilità del piccolo animale
ritratto in primo piano e della quasi invisibilità di
Dio Padre tra le nuvole lontane, proprio come a
Viterbo (figg.164-166). Cfr. d. ArASSe, L’annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, 212-214,
363. Per il dibattito critico sul misterioso apprendistato di Lorenzo da Viterbo e per l’accenno a
Francesco del Cossa cfr. S. PetroCChi, Artisti Viterbesi del Quattrocento a Roma: da Antonio a Lorenzo da
Viterbo, in «Studi Romani», LV/3-4 (2007[2009]),
372-373.
96
Quest’intuizione nasce da uno scambio tra dati
iconografici e ludico-vestimentari con Elisabetta
Gnignera, come da nostra conversazione il 13
febbraio 2018, cfr. e. GniGnerA, infra, 207. Per l’iconografia del gioco cfr. P. BirAl, Puer ludens: giochi
infantili nell’iconografia dal XIV al XVI secolo, Venezia, Editoria Universitaria, 2005, 43-44.
97
Secondo lo Pseudo-Dionigi l’Aeropagita tre sono
le gerarchie degli spiriti celesti: Suprema Coelestis
Hierarchia, Media Coelestis Hierarchia, Infima Coelestis Hierarchia. Ciascuna di esse è a sua volta divisa
in tre cori. Partendo dall’alto troviamo: Serafini,
Cherubini, Troni (Suprema); Dominazioni, Virtù, Potestà (Media); Principati, Arcangeli, Angeli (Infima).
S. Pietro e S. Paolo nominano questo coro celeste
delle Virtù. Dionigi dice che «indicano un certo
potente e forte coraggio che scaturisce da tutte
le loro energie simili a Dio». Hanno la funzione
di precedere gli uomini, ricoprendoli di virtù.
Aiutano gli eroi a compiere la lotta per il Bene,
danno il dono dei miracoli. Sarebbero “angeli zodiacali” nel senso che presiedono al movimento
dei corpi celesti. Presiedono alle qualità del Creato
94
288
stabilendo le caratteristiche di forma, profumo,
colore, dimensione, temperatura. L’Iconografia è
incerta: raffigurato con gigli o rose, questo coro
spesso è ritratto nell’atto di aiutare le anime. Nel
caso specifico, ipotizziamo, per analogie stilistiche
con la Mazzatosta, Lorenzo da Viterbo autore, nel
cantiere di Antoniazzo, di questi angeli cantori
dalle labbra aperte, vestiti di una tunica di colore
bruno, dipinti di profilo, con le braccia incrociate
sul petto. Cfr. dioniGi l’AeroPAGitA, De coelestis
Hierarchia, III, 1.
98
r. BuSCAroli, Melozzo e il Melozzismo, Bologna,
Athena, 1955, 146.
99
S. rinAldi, I dipinti del Museo Civico di Viterbo. Censimento conservativo in omaggio a Michele Cordaro,
Todi, Ediart 2004, 91.
100
C. StrinAti, Lorenzo da Viterbo, in R. CAnnAtà-C. StrinAti (ed.), Il Quattrocento a Viterbo, catalogo di mostra, Viterbo, Museo Civico 11 giugno – 10
settembre 1983, Roma, De Luca Editore, 1983, (Il
Quattrocento a Roma e nel Lazio, 6), 188.
101
S. vAltieri – e. BentivoGlio, Le pitture di Lorenzo da
Viterbo nella Cappella Mazzatosta, 99.
102
C. GriGioni, Un documento romano sul pittore Lorenzo da Viterbo, in «l’Arte», XXXI (1928), 115. Anche
in S. vAltieri – e. BentivoGlio, Le pitture di Lorenzo
da Viterbo nella Cappella Mazzatosta, 89 e S. PetroCChi, Artisti viterbesi del Quattrocento, 368.
103
iACoPo AMMAnnAti PiCColoMini, Lettere (14441479), I-III, P. CheruBini (ed.), Ministero per i beni
culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni
archivistici, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, (Fonti XXV), vol. 3, 1742-1743; 1782.
104
Cfr. G. BentivoGlio, infra, 92, n. 5.
105
Cfr. C. BiAnCA, infra, 151.
106
Questa doppia gestualità nel pregare, la presenza
del Redentore e il forte scorcio dal basso, adottati
da Antoniazzo Romano, hanno influenzato Melozzo da Forlì nella decorazione dell’abside dei
SS. Apostoli. Quest’ultimo, insieme a Lorenzo da
Viterbo, avrebbe partecipato al cantiere della cappella bessarionea, creando poi, nel 1472, i celebri
angeli musicanti, i cui lacerti sono oggi presenti
ai Musei Vaticani. Cfr. e. Sidoni, L’Ascensione di
Cristo e gli Angeli Musicanti di Melozzo da Forlì:
una rilettura alla lucedell’iconografia musicale, in
B. Aniello (ed.), L’arte dei suoni dipinti. Il concerto
angelico e la sua iconografia tra il XV e il XVII secolo,
Napoli, Il Pozzo di Giacobbe, 2018, 48-49.
107
Cfr. e. GniGnerA, infra, 212 e segg.
108
Ivi, 216.
109
Per l’inusuale iconografia ci appoggiamo a quanto
riferito da L. réAu, Iconographie de l’Art Crétienne,
vol. 2, 165. Per l’analisi abbigliamentaria a suffragio della tesi cfr. e. GniGnerA, infra, 229. Si tratta
della terza omelia di Giacomo di Sarug, dedicata
alla Presentazione al tempio: «La Vergine, seguita
dai sessanta forti (angeli) della Cantica armati di
lance e scudi, sui quali è dipinta una croce; da
coro di donzelle con le fiaccole; e i genitori della
Vergine, seguiti da molti altri.» GiACoMo di SAruG,
Omelia sulla Natività di Nostro Signore, in C. vonA,
Omelie Mariologiche di S. Giacomo di Sarug: introduzione, traduzione dal siriaco e commento, Roma, Fac.
Theol. Pont. Athenaei Lateranensis, 1953, 255.
110
Per una completa trattazione della recente attribuzione e analisi degli affreschi di palazzo Orsini
a Tagliacozzo si rimanda a: G. de SiMone, Per Lorenzo da Viterbo, 29-79.
111
S. AGoStino, Epifania del Signore, 204, 3 in id., Discorsi, IV/1, Sui tempi liturgici, P. Bellini– F. CruCiAni– v. tArulli (trad.), Roma, Città Nuova, 1984,
133. Ringrazio Suor Maria Teresa Fraternità della
SS. Vergine Maria, per avermi messo sulle tracce
di Sant’Agostino.
112
SAntA BriGidA, Liber coelestium revelationum dominae Birgittae de Svetia VII,21; IV,88 e VI,1 e 58, in
www.chiesa-cattolica.net consultato in data 23
giugno 2018.
113
Ibidem.
S. PetroCChi, Artisti viterbesi del Quattrocento a
Rom, 355, n. 2.
115
Item musica sancti Augustini, in pergameno B 353 è
la dicitura con la quale viene indicata l’opera musicale agostiniana. l. lABowSky, Bessarion’s library
and the Biblioteca Marciana, six early inventories,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979 (Sussidi Eruditi, 31).
116
Negli inventari redatti da Labowsky numerosi
sono i titoli riguardanti la musica, dai trattati teorici ai manoscritti. Ivi, 52, 67, 166-167, 185, 187,
197, 201, 218, 222, 245-246, 291-292, 303, 330, 333,
337, 345, 362-363, 375-377, 379, 386, 388, 406, 413,
418, 421.
117
e. Mioni, La formazione della biblioteca greca di
Bessarione, in G. FiACCAdori (ed.), Bessarione e l’Umanesimo, catalogo di Mostra (Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana, 27 aprile -31 maggio 1994), Napoli, Vivarium, 1994, (Istituto italiano per gli studi
filosofici. Saggi e ricerche 1), 236-238.
118
C. Märtl-C. kAiSer-t. riCklin (ed.), “Inter graecos
latinissimus, inter latinos graecissimus”: Bessarion
zwischen den Kulturen, Berlin, De Gruyter, 2013.
114
289
290