Studi e ricerche del Dipartimento di Lettere e Filosoia
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XXXVI Certamen Ciceronianum Arpinas
Cicerone oratore
Atti dell’VIII Simposio Ciceroniano
Arpino 6 maggio 2016
a cura di
Paolo De Paolis
Cassino
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
Dipartimento di Lettere e Filosoia
2017
Copyright © Dipartimento di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale (Italy)
ISBN 978-88-99052-08-9
Direzione scientifica
Edoardo Crisci
Comitato scientifico
Girolamo Arnaldi, Sapienza-Università di Roma; M. Carmen del Camino Martinez,
Universidad de Sevilla; Giuseppe Cancillo, Università Federico II di Napoli; Marco
Celentano, Università di Cassino e del Lazio Meridionale; Carla Chiummo, Università
di Cassino e del Lazio Meridionale; Mario De Nonno, Università di Roma Tre; Paolo
De Paolis, Università di Cassino e del Lazio Meridionale; Marilena Maniaci, Università
di Cassino e del Lazio Meridionale; Antonio Menniti Ippolito, Università di Cassino
e del Lazio Meridionale; Serena Romano, Université de Lausanne; Manuel Suárez
Cortina, Universidad de Cantabria; Patrizia Tosini, Università di Cassino e del Lazio
Meridionale; Franco Zangrilli, The City University of New York, Baruch College;
Bernhard Zimmermann, Albert-Ludwigs-Universität Freiburg.
Tutti i volumi pubblicati nella collana sono sottoposti ad un processo di peer review
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Informazioni
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Progetto grafico
Pasquale Orsini
Finito di stampare nel mese di aprile 2017
da Rubbettino print
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Indice
7 Paolo De Paolis
Introduzione
11 Gianluigi Baldo
Dall’oratoria alla storia: Marcello in Cicerone e in Livio
33 Renata Raccanelli
Dopo il ritorno: strategie apologetiche e pragmatica dell’autorappresentazione nei discorsi di Cicerone al senato e al popolo
63 Giorgio Piras
La prosopopea di Appio Claudio Cieco (Cic. Cael. 33-34):
tradizione letteraria, memoria familiare e polemica politica
GIORGIO PIRAS
La prosopopea di Appio Claudio Cieco (Cic. Cael. 33-34):
tradizione letteraria, memoria familiare e polemica politica
Tra i passi più noti delle orazioni ciceroniane va senz’altro annoverata la celebre prosopopea di Appio Claudio Cieco contenuta nella
Pro Caelio (§§ 33-34), la cui fama risale già all’antichità. In Quintiliano,
per esempio, si fa più volte accenno a questo brano1 e sono frequenti
i riferimenti e le citazioni letterali anche da altri luoghi dell’orazione2.
Lo stesso Cicerone considera l’utilizzo di personae fictae un modo per
1. Della prosopopea si parla in inst. 3, 8, 54, a proposito dell’uso dei discorsi fittizi nelle orazioni, Frequentissime […] utimur ficta personarum quas ipsi substituimus
oratione: ut apud Ciceronem pro Caelio Clodiam et Caecus Appius et Clodius frater, ille
in castigationem, hic in exhortationem vitiorum compositus, adloquitur, e 11, 1, 39 etiam
in iis causis quibus advocamur […] Utimur […] fictione personarum et velut ore alieno
loquimur, dandique sunt iis quibus vocem accommodamus sui mores. Aliter enim P. Clodius, aliter Appius Caecus, aliter Caecilianus ille, aliter Terentianus pater fingitur; si fa
menzione di essa anche in 12, 10, 61, e una citazione della fine del brano è presente in 9,
2, 60. La rievocazione dei morti come artificio tipico della prosopopea è menzionata in
9, 2, 31 Quin deducere deos in hoc genere dicendi et inferos excitare concessum est, sulla
scorta di Cic. or. 85, citato all’inizio del discorso quintilianeo (9, 2, 29: L. Gamberale,
La prosopopea di Appio Claudio Cieco nella Pro Caelio di Cicerone, in J.F. González
Castro et al. [ed. por], Actas del XI Congreso Español de Estudios Clásicos (Santiago
de Compostela, del 15 al 20 de septiembre de 2003), Madrid 2005, 849-861: 851 e n.
11; sul brano ciceroniano vd. infra, n. 4). Quintiliano in questi capitoli aveva del resto
sicuramente in mente, tra le altre, la prosopopea di Appio Claudio, richiamata con rispondenze testuali precise (9, 2, 30): His (scil. fictionibus personarum, quae prosopopoiiai
dicuntur) et adversariorum cogitationes velut secum loquentium protrahimus (qui tamen
ita demum a fide non abhorrent si ea locutos finxerimus quae cogitasse eos non sit absurdum)
et nostros cum aliis sermones et aliorum inter se credibiliter i n t r o d u c i m u s, et suadendo,
o b i u r g a n d o, querendo, laudando, miserando p e r s o n a s idoneas damus.
2. Riferimenti espliciti alla Pro Caelio si trovano in inst. 4, 1, 31; 4, 1, 39; 4, 2, 27;
5, 13, 30; 6, 3, 25; 9, 2, 39; 11, 1, 68; citazioni letterali in 8, 3, 22; 8, 4, 1; 9, 2, 15; 9, 2,
99; 9, 4, 64; 9, 4, 97; 9, 4, 102; 11, 1, 28. Piuttosto nota e citata è del resto nell’antichità
l’intera orazione: C. J. Classen, Ciceros Rede für Caelius, in Aufstieg und Niedergang der
Römischen Welt, 1/3 (1973), 60-94: 60. Una possibile eco della prosopopea nel discorso
di Augusto nella Apocolocintosi (10) è ipotizzata da E. Narducci, Il discorso di Augusto
nella Apocolocyntosis di Seneca e un passo della Pro Caelio di Cicerone, «Maia», 55 (2003),
105-106 [= Cicerone e i suoi interpreti. Studi sull’Opera e la Fortuna, Pisa 2004, 197-198].
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G. PIRAS
amplificare il livello del discorso sul piano retorico3: la prosopopea di
personaggi defunti è uno stratagemma adatto in particolare agli oratori
più dotati e possenti4. Nel Brutus parlando di sé con finta modestia Cicerone menziona con orgoglio l’abilità con cui ha rievocato un personaggio
importante del passato mostrando competenze non comuni per i suoi
tempi (Brut. 322): Nihil de me dicam: dicam de ceteris, quorum nemo
erat qui […] memoriam rerum Romanarum teneret, ex qua, si quando
opus esset, a b i n f e r i s locupletissimos testes e x c i t a r e t. È molto
probabile che qui si stia riferendo proprio alla rievocazione di Appio
Claudio Cieco nella Pro Caelio.
Altrettanto viva è stata l’attenzione da parte dei moderni nei confronti del brano, in particolare negli anni più recenti, in cui si sono avute
una serie di letture critiche della Pro Caelio che hanno messo in evidenza
gli aspetti teatrali dell’orazione5 – rilevanti anche in considerazione del
fatto che il processo si tenne durante i ludi megalensi –, come pure
molti altri rilevanti elementi di portata ideologica e culturale contenuti
nel testo ciceroniano6.
3. Vd. de orat. 3, 205 personarum ficta inductio vel gravissimum lumen augendi;
part. or. 55 Rerum amplificatio […] valent […] maximeque similitudines et exempla;
fictae etiam personae, muta denique loquantur; omninoque ea sunt adhibenda, si causa
patitur, quae magna habentur. Sull’efficacia della conformatio vd. anche de orat. 2, 357
facillime animo teneri posse, si ea, quae perciperentur auribus aut cogitatione, etiam
oculorum commendatione animis traderentur; ut res caecas et ab aspectus iudicio remotas
conformatio quaedam et imago et figura ita notaret, ut ea, quae cogitando complecti vix
possemus, intuendo quasi teneremus.
4. Or. 85 Non faciet (scil. orator acutus, subtilis) rem publicam loquentem nec ab
inferis mortuos excitabit [...] Valentiorum haec laterum sunt nec ab hoc, quem informamus,
aut exspectanda aut postulanda; erit enim ut voce sic etiam oratione suppressior; vd. anche
top. 45 Ficta enim exempla similitudinis habent vim [...] In hoc genere oratoribus et philosophis concessum est, ut muta etiam loquantur, ut mortui ab inferis excitentur, ut aliquid
quod fieri nullo modo possit augendae rei gratia dicatur aut minuendae, quae ὑπερβολή
dicitur, multa alia mirabilia. Sul dare la parola agli estinti vd. anche de orat. 1, 245.
5. La critica recente in questa direzione è stata inaugurata dal fondamentale (e fortunato) K.A. Geffcken, Comedy in the Pro Caelio, with an Appendix on the In Clodium
et Curionem, Leiden 1973; sulla prosopopea vd. in part. 17-19.
6. Specifici sul brano E. Narducci, Modelli etici e società. Un’idea di Cicerone, Pisa
1989, 221-222 (cfr. anche E. Narducci – C. Giussani – C. Lazzarini [a cura di], Marco
Tullio Cicerone, Difesa di Marco Celio, introd. di E.N., trad. di C.G., note di C.L., Milano
20049, 49-51); B. Dufallo, Appius’ Indignation: Gossip, Tradition, and Performance in
Republican Rome, «TAPhA», 131 (2001), 119-142; G. Moretti, Marco Celio al bivio.
Prosopopea, pedagogia e modello allegorico nella Pro Caelio ciceroniana (con una nota
allegorica su fam. V 12), «Maia», 59 (2007), 289-308: 289-295; Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1); J. Osgood, Cicero’s Pro Caelio 33–34 and Appius Claudius’ Oratio de
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
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Cicerone nella sua arringa (probabilmente l’ultima delle orazioni difensive del processo7), dopo aver risposto ai generici rimproveri per il
comportamento dissoluto e immorale rivolti a Marco Celio dai sostenitori
dell’accusa e dopo aver iniziato ad affrontare più da vicino l’argomento del
processo (il giovane Marco Celio, difeso da Cicerone e Crasso, oltre che
da se stesso, è accusato de vi, di violenza politica, e Clodia è un testimone
fondamentale8), introduce un discorso fittizio di Appio Claudio Cieco.
Pyrrho, «CPh», 100 (2005), 355-358; G. Moretti, Lo spettacolo della Pro Caelio: oggetti
di scena, teatro e personaggi allegorici nel processo contro Marco Celio, in G. Petrone – A.
Casamento [a cura di], Lo spettacolo della giustizia: le orazioni di Cicerone, Palermo
2006, 139-164: 150-161; B. Dufallo, The Ghosts of the Past. Latin Literature, the Dead,
and Rome’s Transition to a Principate, Columbus (Ohio) 2007, 13-30, 76-82; G. Piras,
Letterarietà e polemica anticlodiana: a proposito della (e a partire dalla) prosopopea di
Appio Claudio Cieco nella Pro Caelio di Cicerone, «Scienze dell’Antichità», 17 (2011),
727-732; sugli aspetti teatrali dell’orazione cfr. anche M.R. Salzman, Cicero, the Megalenses and the Defense of Caelius, «AJPh», 103 (1982), 299-304; A. Arcellaschi, Le Pro
Caelio et le théâtre, «REL», 75 (1997), 78-91; M. Leigh, The Pro Caelio and Comedy,
«CPh», 99 (2004), 300-335; G. Moretti, La scena oratoria: sententiae teatrali e modalità
della composizione nella Pro Sestio e nella Pro Caelio (insiemi di citazioni e architettura
argomentativa nell’oratoria ciceroniana del 56 a.C.), in Ch. Mauduit – P. Paré-Rey [édd.],
Les maximes théâtrales en Grèce et à Rome: transferts, réécritures, remplois. Actes du
colloque organisé les 11-13 juin 2009 par l’Université Jean Moulin – Lyon 3 et l’ENS
de Lyon, Paris 2011, 255-275: 269-275; su altri temi cfr. M.B. Skinner, Clodia Metelli,
«TAPhA», 113 (1983), 273-287; G.E. Gaffney, Severitati Respondere: Character Drawing
in Pro Caelio and Catullus’Carmina, «CJ», 90 (1994-1995), 423-431; J.M. May, Patron
and Client, Father and Son in Cicero’s Pro Caelio, ibid., 433-441; A. Leen, Clodia Oppugnatrix: The Domus Motif in Cicero’s Pro Caelio, ibid., 96 (2000-2001), 141-162; D.
Christenson, Unbearding Morality: Appearance and Persuasion in Pro Caelio, ibid., 100
(2004-2005), 61-72; W. Jeffrey Tatum, Invective Identities in Pro Caelio, in Ch. Smith
– R. Covino [ed. by], Praise and Blame in Roman Republican Rhetoric, Swansea 2011,
165-179; L. Gamberale, Quaeramus seria ludo. La Pro Caelio tra tragedia e mimo, in P.
De Paolis [a cura di]. Oratoria, retorica, cultura: contributi alla figura di Cicerone. Atti
del II Simposio Ciceroniano in memoria di Emanuele Narducci, Arpino 15 maggio
2009, Cassino 2011, 19-42; F.R. Berno, Il compromesso impossibile. Marco Celio tra vizi
e virtù, «Lexis», 31 (2013), 321-335 (altri contributi saranno citati più avanti).
7. Cfr. Cael. 18 Id, quod vir clarissimus, M. Crassus […] paulo ante dixit; 23 itaque
illam partem causae facile patior graviter et ornate a M. Crasso peroratam; 45 audistis
cum pro se diceret (scil. M. Caelius); cfr. A. Cavarzere, La Pro Caelio: vent’anni dopo, in
B. Santalucia [a cura di], La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e
persuasione, Pavia 2009, 383-426: 397-402; Cicero, Pro Marco Caelio, ed. A. R. Dyck,
Cambridge 2013, 4, 11.
8. Vd. in part. Cael. 1 esse legem quae de seditiosis consceleratisque civibus qui armati
senatum obsederint, magistratibus vim attulerint, rem publicam oppugnarint cotidie quaeri
iubeat; tutte circostanze che secondo Cicerone non riguarderebbero in realtà il suo cliente
(nullum facinus, nullam audaciam, nullam vim in iudicium vocari), accusato peraltro da una
meretrice (oppugnari […] opibus meretriciis). Il tutto è richiamato nel finale dell’orazione,
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G. PIRAS
L’illustre antenato di Clodia, evocato dagli inferi, si rivolge alla donna
direttamente, indirizzandole un aspro rimprovero per il legame con Celio
che si trasforma in una severa requisitoria per la condotta lasciva della
donna. A Clodia Appio Claudio contrappone gli irreprensibili esempi di
alta moralità forniti da altri suoi discendenti, i vari antenati di Clodia, sia
uomini che donne. Questa personificazione di Appio Claudio trova una
precisa corrispondenza nel seguito dell’orazione in quella del fratello minore della donna, l’acerrimo avversario di Cicerone P. Clodio (§ 36): anch’egli
rivolge un rimprovero alla sorella, anche se più blando e urbano di quello
di Appio Claudio, sempre prendendo spunto dalla sua relazione con Celio.
Cicerone articola infatti in due momenti paralleli ma differenti nel tono il
suo primo consistente attacco nei confronti di colei che considera la vera
ispiratrice delle accuse contro Celio, sostenute formalmente dal giovane
Lucio Sempronio Atratino e dai più esperti subscriptores Lucio Erennio
Balbo e Publio Clodio. A detta di Cicerone infatti Res est omnis in hac
causa nobis […] cum Clodia (§ 31). È Clodia il testimone fondamentale
dell’accusa a detta degli stessi avversari di Cicerone: Cael. 35 Accusatores
[…] significant nihil se te invita dicere; 50 et crimen accusatores abs te et
testem eius criminis te ipsam dicunt se habere; ma Cicerone afferma esplicitamente che l’intera accusa deriva dalla donna (Cael. 18 ostendam, hanc
Palatinam Medeam […] huic adulescenti causam sive malorum omnium sive
potius sermonum fuisse; 31 Horum duorum criminum video auctorem, video
fontem, video certum nomen et caput), un’amante abbandonata e piena di
rancore nei confronti di Celio (Cael. 55 totum crimen profertur ex inimica,
ex infami, ex crudeli, ex facinerosa, ex libidinosa domo).
Per entrambi i discorsi contrapposti, quello di Appio Claudio e
quello di Clodio, Cicerone si richiama a modelli e situazioni tipici del
mondo del teatro9. L’intervento di Appio Claudio costituisce il momento
al principio della peroratio (70): Quae lex ad imperium, ad maies-tatem, ad statum patriae,
ad salutem omnium pertinet, quam legem Q. Catulus armata dissensione civium rei publicae
paene extremis temporibus tulit, quaeque lex sedata illa flamma consulatus mei fumantis
reliquias coniurationis extinxit, hac nunc lege Caeli adulescentia non ad rei publicae poenas,
sed ad mulieris libidinosae delicias deposcitur. Sul processo vd. la scheda in M. C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50 BC, Toronto – Buffalo – London
1990, 134 nr. 275. Sui problemi giuridici riguardanti la legge e la sua applicazione al caso
specifico vd. Cavarzere, Vent’anni dopo (cit. n. 7), 386-388, 418-420.
9. Rivelatore l’uso dell’espressione personam inducere: Cael. 35 Sed quid ego […]
ita gravem personam induxi? [...] iam enim ipse tecum nulla persona introducta loquor
(cfr. Geffcken, Comedy [cit. n. 5], 17).
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
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grave e severo, quello di Clodio è presentato come leggero e urbano,
secondo uno schema generalmente simmetrico, con riprese e parallelismi
testuali molto evidenti. Tale simmetria si ripresenterà anche più avanti
nell’orazione, quando lo stesso Cicerone in una lunga digressione (§§
39-43), rivolgendosi a Celio e affrontando il tema della condotta morale
della gioventù, impersonerà la figura ora del padre severo, ‘Ceciliano’
(37), ora di quello più permissivo, secondo il modello del Micione degli
Adelphoe (38).
Il primo posto in questa sequenza di discorsi della Pro Caelio ricchi
di riferimenti letterari, sia in termini di collocazione che di rilevanza,
spetta alla evocazione di Appio Claudio (§§ 33-35, il testo della Pro
Caelio citato è sempre quello di Maslowski10):
Sed tamen ex ipsa quaeram prius utrum me secum severe et
graviter et prisce agere malit, an remisse et leniter et urbane.
Si illo austero more ac modo, aliquis mihi ab inferis excitandus est ex barbatis illis, non hac barbula qua ista delectatur,
sed illa horrida quam in statuis antiquis atque imaginibus
videmus, qui obiurget mulierem et qui pro me [et pro me
Dyck] loquatur ne mihi ista forte succenseat. Existat igitur ex
hac ipsa familia aliquis ac potissimum Caecus ille; minimum
enim dolorem capiet qui istam non videbit. (34) Qui profecto, si extiterit, sic aget ac sic loquetur: ‘Mulier, quid tibi cum
Caelio, quid cum homine adulescentulo, quid cum alieno?
Cur aut tam familiaris huic fuisti ut aurum commodares, aut
tam inimica ut venenum timeres? Non patrem tuum videras,
non patruum, non avom, non proavum, non atavum audieras
consules fuisse; non denique modo te Q. Metelli matrimonium
tenuisse sciebas, clarissimi ac fortissimi viri patriaeque amantissimi, qui simul ac pedem limine extulerat, omnis prope
civis virtute, gloria, dignitate superabat? Cum ex amplissimo
genere in familiam clarissimam nupsisses, cur tibi Caelius tam
coniunctus fuit? Cognatus, adfinis, viri tui familiaris? Nihil eorum. Quid igitur fuit nisi quaedam temeritas ac libido? Nonne
te, si nostrae imagines viriles non commovebant, ne progenies
10. M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, Fasc. 23, Orationes In P. Vatinium testem. Pro M. Caelio, ed. T. Maslowski, Stutgardiae et Lipsiae 1995.
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G. PIRAS
quidem mea, Quinta illa Claudia, aemulam domesticae laudis
in gloria muliebri esse admonebat, non virgo illa Vestalis Claudia quae patrem complexa triumphantem ab inimico tribuno
plebei de curru detrahi passa non est? Cur te fraterna vitia
potius quam bona paterna et avita et usque a nobis cum in viris
tum etiam in feminis repetita moverunt? Ideone ego pacem
Pyrrhi diremi ut tu amorum turpissimorum cotidie foedera
ferires, ideo aquam adduxi ut ea tu inceste uterere, ideo viam
munivi ut eam tu alienis viris comitata celebrares?’. (35) Sed
quid ego, iudices, ita gravem personam induxi ut verear ne se
idem Appius repente convertat et Caelium incipiat accusare
illa sua gravitate censoria?
Una doppia serie di tre avverbi antitetici (severe, graviter, prisce; remisse,
leniter, urbane) caratterizza l’opposizione tra la severità arcaica e l’urbana
leggerezza con cui ci si può porre nei confronti di Clodia, introdotta da
Cicerone – come si è detto – come mandante neanche troppo occulta delle
accuse a Celio e riguardo alla quale si dispiega per un lungo tratto dell’orazione una notevole serie di artifici retorico-letterari. L’antitesi tra opposti
atteggiamenti e valori morali, che è alla base della struttura dell’orazione
e la pervaderà sino alla fine con esemplificazioni storiche e letterarie, era
stata in parte anticipata dalla breve raffigurazione della varia e multiplex
indole di Catilina (Cael. 14), menzionato perché tra le accuse rivolte a Celio
c’era la familiaritas con il celebre avversario di Cicerone (Cael. 10 Catilinae
familiaritas obiecta Caelio est)11, anch’essa una parola e un tema importante
nell’orazione12. Catilina secondo Cicerone era incline a volgere la propria
natura ora in un verso ora nel suo opposto (Cael. 13):
Quis clarioribus viris quodam tempore iucundior, quis turpioribus coniunctior? Quis civis meliorum partium aliquando,
11. Del rapporto di Celio con Catilina Cicerone parla con qualche ambiguità e
imbarazzo nei §§ 10-15.
12. Celio è accusato, con implicazioni non del tutto chiare, di essere anche familiaris
di Bestia (26), il padre naturale di Atratino, ma soprattutto Cicerone insiste poi sulla
vera o presunta familiaritas di Clodia con l’accusato (31; 34; 35; 53; 58; 61; 75; cfr. anche
34 tibi Caelius tam coniunctus) e con i suoi stessi schiavi (57; 58) o con un balneator
(62) o infine con i protagonisti della vicenda ambientata nelle balneae Seniae (63; 67);
non appare perciò casuale che Cicerone nella peroratio evocherà proprio il tema della
propria familiaritas con Celio come garanzia sul futuro comportamento del giovane.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
69
quis taetrior hostis huic civitati? Quis in voluptatibus inquinatior, quis in laboribus patientior? Quis in rapacitate avarior,
quis in largitione effusior? Illa vero, iudices, in illo homine
admirabilia fuerunt, comprehendere multos amicitia, tueri
obsequio, cum omnibus communicare quod habebat, servire
temporibus suorum omnium pecunia, gratia, labore corporis,
scelere etiam, si opus esset, et audacia, versare suam naturam
et regere ad tempus atque huc et illuc torquere ac flectere,
cum tristibus severe, cum remissis iucunde, cum senibus graviter, cum iuventute comiter, cum facinerosis audaciter, cum
libidinosis luxuriose vivere.
Nel paragrafo su Catilina compaiono alcuni dei campi semantici
chiave del discorso morale portato avanti nel corso dell’orazione
(tristibus, severe, iucunde, graviter, libidinosis, luxuriose), ma è soprattutto la contraddittorietà dei comportamenti ad anticipare uno dei tratti
strutturali della praemunitio.
Il volto severo del discorso rivolto a Clodia è rappresentato da Appio Claudio, richiamato in vita per portare avanti al posto di Cicerone
un duro richiamo a Clodia. Il verbo excitare è espressione ‘tecnica’ per
indicare l’evocazione dei morti13. Interessante in particolare il confronto
con un passo di un ignoto autore tragico (fr. adesp. 51 Schauer; cfr. inc.
inc. 76-77 Ribbeck3): unde animae e x c i t a n t u r obscura umbra opertae,
i m a g i n e s / mortuorum, alto ostio Acheruntis, salso sanguine, citato
dallo stesso Cicerone in Tusc. 1, 37, che poi aggiunge Has tamen
i m a g i n e s l o q u i volunt. Questi versi potevano naturalmente
essere già noti a Cicerone ai tempi della Pro Caelio e potrebbero anche
aver contribuito ad ispirare il nostro brano, assieme ad altri luoghi
che citeremo più avanti. Appare curioso il fatto che nelle Tusculanae,
proprio poco prima di questa citazione tragica, compaia come autore
di νεκυομαντεῖα un Appio Claudio, Appio Claudio Pulcro, il fratello di
13. Per excitare in questo senso cfr. in part. Brut. 322 (cit. supra); or. 85 (supra, n.
4); top. 45 (supra, n. 4); p. red. in sen. 25 P. Servilius [...] et auctoritatis et orationis suae
divina quadam gravitate ad sui generis communisque sanguinis facta virtutesque revocavit,
ut haberet in consilio et fratrem [ab inferis], socium rerum mearum, et omnis Metellos,
praestantissimos civis, paene ex Acherunte excitatos; vd. anche Sest. 130 excitatus cum
summa auctoritate P. Servili (tum incredibili) quadam gravitate dicendi, cum ille omnis
prope ab inferis evocasset Metellos; Mil. 79 e 90 (su cui vd. infra, 100).
70
G. PIRAS
Clodia console nel 54, definito da Cicerone amicus meus e suo collega
nel collegio degli auguri (su di lui torneremo più avanti).
Appio Claudio Cieco è secondo Cicerone un esponente dei ‘barbuti’
che si è soliti vedere in statuis antiquis atque imaginibus: la contrapposizione tra le barbe lunghe del tempo antico e quelle rasate e curate dei
contemporanei era già stata usata da Cicerone con connotazione morale
negativa per i seguaci di Catilina14 e, più di recente e in maniera molto
simile alla nostra, nella Pro Sestio (un’orazione pronunciata poco prima
che vedremo avere importanti punti di contatto per quanto ci riguarda con
la Pro Caelio), per contrapporre il corrotto Gabinio e l’apparentemente
rigoroso Pisone: Sest. 19 quam taeter incedebat, quam truculentus, quam
terribilis aspectu! Unum aliquem te e x b a r b a t i s i l l i s, exemplum imperi veteris, imaginem antiquitatis, columen rei publicae diceres intueri15.
Di Appio Claudio, immediatamente prima dell’inizio del suo discorso, si dice che minimum […] dolorem capiet qui istam non videbit,
un’allusione alla sua cecità che farà sì che egli non proverà dolore per il
fatto di non vederla, da intendere naturalmente in maniera ironica come
preannuncio dello spettacolo indegno che avrebbe offerto all’antenato
la sconcia discendente («evoco Appio Claudio, visto che in quanto cieco
non proverà dolore perché non la vedrà»). Di recente è stato notato che
le parole che introducono il discorso diretto di Appio Claudio non sono
affatto una semplice battuta sulla cecità del vecchio censore, come erano
state interpretate fino a poco tempo prima, ma alludono all’esordio del
celebre discorso pronunciato in senato da Appio Claudio in tarda età
nel 280 (o nel 279), ormai cieco e ritiratosi dalla vita politica, contro
la stipula della pace con Pirro quando le truppe greche erano ancora
presenti in Magna Grecia (ORF, 1, 4-13)16. Del discorso esistono solo
alcuni resoconti tramandati da fonti greche17, della cui aderenza al testo
14. Catil. 2, 22 quos pexo capillo nitidos aut inberbis aut bene barbatos videtis; Att. 1,
14, 5 concursabant barbatuli iuvenes, totus ille grex Catilinae; 1, 16, 11 isti commissatores
coniurationis barbatuli iuvenes.
15. Cfr. anche Mur. 26 apud illos barbatos […] homines e fin. 4, 62 antiqui illi quasi
barbati, ut nos de nostris solemus dicere. Sul valore simbolico assunto dalla cura con cui
si teneva la barba vd. Christenson, Unbearding Morality (cit. n. 6), 61-62.
16. Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 852-854; Osgood, Cicero’s Pro Caelio (cit.
n. 6), 356-357 (il primo, stampato nel 2005, rimanda ad un convegno tenutosi nel 2003
e non è noto ad Osgood).
17. Deve aver pesato sulla nostra conoscenza di esso la perdita della seconda decade
liviana, dove si parlava degli avvenimenti di quel periodo. Nel riassunto del libro XIII
è presente un breve accenno al discorso di Appio Claudio (Per. 13, 5-6 Cineas legatus
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
71
originale si è spesso dubitato, ed è frequente l’allusione ad esso da parte
degli scrittori latini18.
Le tre versioni greche conservate ci forniscono un resoconto abbastanza dettagliato dell’episodio e riportano come parole iniziali del
discorso un riferimento alla propria cecità da parte di Appio Claudio
che serve ad evidenziare la criticità del momento per mezzo di una
studiata antitesi tra cecità/sordità, vedere/sentire e si presenta in forme
leggermente differenti tra le tre testimonianze:
Plut. Pyrrh. 18, 8-19, 1 19 (Κλαύδιος Ἄππιος) […] τοὺς
θεράποντας ἄρασθαι κελεύσας αὑτόν ἐκομίζετο πρὸς τὸ
βουλευτήριον ἐν φορείῳ δι᾽ ἀγορᾶς. Γενόμενον δὲ πρὸς ταῖς
θύραις οἱ μὲν παῖδες ἅμα τοῖς γαμβροῖς ὑπολαβόντες καὶ
περισχόντες εἰσῆγον, ἡ δὲ βουλὴ σιωπὴν αἰδουμένη τὸν ἄνδρα
μετὰ τιμῆς ἔσχεν. ῾O δὲ αὐτόθεν καταστάς, ‘Πρότερον μέν,’
a Pyrrho ad senatum missus petiit ut conponendae pacis causa rex in urbem reciperetur.
De qua re cum ad frequentiorem senatum referri placuisset, Appius Claudius, qui propter
valetudinem oculorum iam diu consiliis publicis se abstinuerat, venit in curiam et sententia
sua tenuit ut id Pyrrho negaretur).
18. In part. Cic. sen. 16; Brut. 55, 61; Quint. inst. 2, 16, 7; Val. Max. 8, 13, 5; vir. ill.
34, 9; Isid. orig. 1, 38, 2 = Varro GRF, fr. 319 (le testimonianze principali sono raccolte
in M. Humm, Des fragments d’historiens grecs dans l’Ineditum Vaticanum?, in M.-L.
Freyburger – D. Meyer [éd. par], Visions grecques de Rome – Griechische Blicke auf
Rom, Paris 2007, 277-318: 299-310). Sul discorso l’esposizione più completa e recente
è in M. Humm, Appius Claudius Caecus. La République accomplie, Roma 2005, 61-73,
ma vd. anche B. Niese, Zur Geschichte des Pyrrhischen Krieges, «Hermes», 31 (1896),
481-507: 489-494; P. Lévèque, Pyrrhos, Paris 1957, 351-355; W. Suerbaum, Rhetorik
gegen Pyrrhos. Zum Widerstand gegen den Feind aus dem Osten in der Rede des Appius
Claudius Caecus 280/279 v.Chr. nach Ennius, Oratorum Romanorum fragmenta und B.
G. Niebuhr, in Ch. Schubert – K. Brodersen – U. Huttner [hrsg. von], Rom und der
Griechische Osten. Festschrift für Hatto H. Schmitt zum 65. Geburtstag dargebracht von
Schülern, Freunden und Münchener Kollegen, Stuttgart 1995, 251-265, e M. Humm,
Rome et l’Italie dans le discours d’Appius Claudius Caecus contre Pyrrhus, «Pallas», 79
(2009), 203-220 (quest’ultimo in particolare sull’inquadramento e il valore storico del
discorso di Appio Claudio). Secondo Suerbaum il discorso si collocherebbe «in einem
merkwürdigen Zwischenreich zwischen Fiktion und Historie» (252) e sarebbe ‘implicitamente’ considerato da Cicerone non autentico o comunque non degno di figurare
in una storia dell’oratoria latina (260 e n. 20; vd. in proposito Humm, Appius Claudius
Caecus [cit.], 64-65, con rinvii alla bibliografia precedente).
19. Cfr. anche Plut. An seni r.p. ger. 21, 794d-e (Κλαύδιος Ἄππιος) […] ἧκε δι᾽
ἀγορᾶς φερόμενος πρὸς τὸ βουλευτήριον εἰσελθὼν δὲ καὶ καταστὰς εἰς μέσον ἔφη
πρότερον μὲν ἄχθεσθαι τῷ τῶν ὀμμάτων στέρεσθαι, νῦν δ᾽ ἂν εὔξασθαι μηδ᾽ ἀκούειν
οὕτως αἰσχρὰ καὶ ἀγεννῆ βουλευομένους καὶ πράττοντας ἐκείνους.
72
G. PIRAS
ἔφη, ‘τὴν περὶ τὰ ὄμματα τύχην ἀνιαρῶς ἔφερον, ὦ Ῥωμαῖοι,
νῦν δὲ ἄχθομαι πρὸς τῷ τυφλὸς εἶναι μὴ καὶ κωφὸς ὤν, ἀλλ᾽
ἀκούων αἰσχρὰ βουλεύματα καὶ δόγματα ὑμῶν ἀνατρέποντα
τῆς Ῥώμης τὸ κλέος […]’.
App. Samn. fr. 10, 4-5 Ἄππιος Κλαύδιος, ὁ Καῖκος ἐπίκλησιν,
ἤδη τετυφλωμένος, ἐς τὸ βουλευτήριον τοῖς παισὶν αὑτὸν
ἀγαγεῖν κελεύσας, ‘ ’Ηχθόμην,’ εἶπεν, ‘ὅτι μὴ βλέπω· νῦν δ᾽
ὅτι ἀκούω. Tὰ γὰρ τοιαῦτα ὑμῶν βουλεύματα ἠξίουν μήθ᾽ ὁρᾶν
μήτ᾽ ἀκούειν […]’.
FGrH, 839, fr. 1, 2 (Ineditum Vaticanum = Vat. gr. 435, f. 220rv) τὸν (scil. Ἄππιον) δὲ ἐπὶ πολὺν χρόνον σιωπήσαντα εἰπεῖν
μόλις ‘Πάλαι μέν, ὦ βουλή, ὑπερηχθόμην ἀνάπηρος ὤν, νῦν
δὲ πολλὴν τῇ συμφορᾷ ταύτῃ χάριν ἔχω, μὴ ὁρᾶν ὑμᾶς τοὺς
τοιαῦτα βουλεuομένους· εἴθε δέ με καὶ κωφὸν γεγονέναι, ἵνα
μηδὲ ἀκούοιμι αἰσχρῶν λόγων’.
La battuta di Cicerone che precede l’inizio del discorso di Appio
Claudio (minimum enim dolorem capiet qui istam non videbit) richiama
da vicino l’antitesi tra cecità e sordità presente nelle fonti greche e assume un valore ed un’efficacia letteraria ben più pregnante se intesa come
un’allusione al principio del celebre discorso: la collocazione in Cicerone
potrebbe essere del resto una conferma della sua originale posizione
incipitaria. Essa sembra richiamare in particolare più da vicino la forma
presente nel Frammento Vaticano20: in Plutarco infatti Appio Claudio
afferma che ora, a differenza di quanto non avveniva in precedenza, egli
soffre (ἄχθομαι) non solo di essere cieco, ma di non essere anche sordo
e così di sentire le turpi intenzioni deliberative (αἰσχρὰ βουλεύματα
καὶ δόγματα) dei senatori. Così anche in Appiano egli soffre (è usato
sempre il verbo ἄχθομαι) di sentire le deliberazioni che non si sarebbe
aspettato di vedere e sentire, mentre nel Frammento Vaticano – sempre
a differenza del passato recente in cui soffriva molto per la cecità, o
meglio infermità (si noti l’uso del raro verbo ὑπεράχθομαι e il fatto che
propriamente Claudio si lamenta di essere ἀνάπηρος, ‘infermo, mutilato,
20. Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 853 n. 20.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
73
zoppo’21) – sostiene ora di considerare una gran fortuna di non vedere
i senatori che prendono tali decisioni e si augura di essere anche sordo
per non sentirle. Nei primi due autori la sofferenza presente è quella di
ascoltare – una sofferenza ‘temporanea’, contrapposta a quella stabile
della condizione di non vedere –, mentre nella terza testimonianza è un
vantaggio il non vedere chi si comporta in maniera così sfavorevole alla
gloria di Roma, una conseguenza logica della cecità che non compare
nelle altre due versioni del discorso.
Cicerone nell’introdurre le parole di Appio Claudio allude alla sua ben
nota condizione di cecità, evidenziando come essa gli permetterà di non
soffrire nel trovarsi di fronte alla sua dissoluta discendente dal momento
che non vedrà la protagonista di tante azioni degradanti per l’illustre gens
cui appartiene. L’affermazione potrebbe richiamare antiteticamente la sofferenza per la cecità presente in tutte e tre le testimonianze (‘soffro a non
vedere’ / ‘non soffre perché non la vedrà’), ma è più efficace se si riferisce
all’affermazione tramandata dal frammento vaticano (‘sono contento di non
vedere voi che fate queste cose’ / ‘non soffre perché non la vedrà’). La
vicinanza alla versione del frammento vaticano potrebbe essere conferma21. Humm, Fragments (cit. n. 18), 280-281 e 302 n. 93, nota come l’aggettivo sembrerebbe essere la traduzione letterale di claudus, anziché di Claudius o forse anche Caecus,
che doveva essere nella versione latina. La posizione predicativa dell’aggettivo nella prima
occorrenza nel frammento (Οἶόν τι περὶ Ἀππίου τοῦ ἀναπήρου πεπύσμεθα) rende probabile
tale interpretazione, anche se poi nel principio del discorso attribuito ad Appio Claudio
citato nel testo esso parrebbe piuttosto la traduzione di Caecus, visto che la condizione
di essere ἀνάπηρος è intesa come fortunata perché t a l e s v e n t u r a consente di
n o n v e d e r e i colleghi che deliberano in tal modo e Appio Claudio si augura perciò di
essere a n c h e sordo (a meno di non voler intendere la menzione della cecità come una
sorta di esagerazione retorica della sua condizione generale di infermità: cfr. P. Corbier,
Pyrrhus en Italie, réflexion sur les contradictions des sources, «Pallas», 79 [2009], 221-231:
229). Del resto nelle parole di Appio Claudio non sarebbe impossibile distinguere tra
il precedente lamento sullo stato di ἀνάπηρος, da intendersi quindi come una sorta di
gioco di parole sul proprio nomen, e la considerazione che al momento è una fortuna
non vedere i senatori (τῇ συμφορᾷ ταύτῃ potrebbe essere prolettico di µὴ ὁρᾶν ὑμᾶς
[...] e non riferirsi invece ad ἀνάπηρος ὤν): un’ambiguità di tal genere nelle sue parole
potrebbe essere all’origine del soprannome di Cieco poi impostosi; sull’origine della
cecità di Appio Claudio vd. Liv. 9, 29, 9 sgg. (vd. infra, n. 75); sulla notizia e la questione
del cognomen, forse non originario pur se presente già nei Fasti Capitolini, vd. Humm,
Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 43, 84-85. La mancata comprensione del sistema di
denominazione romano potrebbe essere secondo Humm un indizio dell’origine greca
della versione del Frammento Vaticano. Per le modalità di denominazione Plutarco
sembra invece più vicino alla tradizione annalistica, con l’assenza del cognomen e la
tipica inversione tra praenomen e nomen (ma vd. il testo della periocha liviana [supra n.
17], dove è sì assente il cognomen, ma si ha la sequenza praenomen-nomen).
74
G. PIRAS
ta anche dalla locuzione minimum dolorem che sembra essere antitetico a
ὑπερηχθόμην del frammento vaticano, una locuzione presente peraltro solo
in questo luogo nell’intera letteratura latina tramandata, a conferma del fatto
che qui Cicerone sta compiendo uno sforzo linguistico la cui motivazione
potrebbe risiedere nel tentativo di alludere al discorso di Appio Claudio22.
Tale allusione non poteva sfuggire ai suoi ascoltatori, vista la notorietà e la
valenza quasi proverbiale del discorso contro la pace con Pirro, ed era quindi ben adatta a conferire particolare autorevolezza al discorso che seguiva
immediatamente nell’orazione, e perciò indirettamente alle tesi difensive
dello stesso Cicerone23.
Una versione del discorso di Appio Claudio è fornita anche da Ennio
nel VI libro degli Annales, un libro incentrato sulla guerra contro Pirro. Ne
rimane un frammento tramandato da Cicerone nel De senectute (16) che di
fatto costituisce la più antica testimonianza conservata del discorso (le fonti
greche conservate sono tutte seriori). Cicerone menziona Appio Claudio
22. Minimo dolore si trova in Ov. met. 9, 675 (ma alcuni mss. tramandano la variante
labore); maximus dolor compare in Verr. 2, 4, 52; Cluent. 30; Sull. 90; fin. 2, 28; 2, 93;
Att. 3, 5; 3, 15, 4; 11, 5, 1; 11, 15, 2; fam. 1, 9, 3; ad Brut. 26, 3. Non cambia il nostro
ragionamento se si intende minimum con valore avverbiale o aggettivale (la relativa ha
valore causale: per l’uso dell’indicativo vd. Hofmann – Szantyr, II, 559). Da segnalare
che anche dolorem capi è espressione piuttosto rara in latino (ad es. Plaut. truc. 454-455;
Ter. And. 719-720 v.l.), ma ricorre abbastanza frequentemente in Cicerone, in particolare
nell’epistolario (Att. 11, 24, 4 Ex quo magnum equidem capio dolorem sed non tantum
quantum videor debere; 11, 21, 1 doloremque quem ex Quinti scelere iam pridem acceptum
iam abieceram, lecta eius epistula gravissimum cepi; fam. 1, 6, 1 in summo dolore quem
in tuis rebus capio; fam. 4, 6, 2; cfr. anche fam. 5, 16, 1 e nat. 3, 32). Da ricordare in
particolare – anche per quanto si dirà poco più avanti alla n. 25 – l’incipit del Brutus
(1), Cum e Cilicia d e c e d e n s Rhodum venissem et eo mihi de Q. Hortensi morte
esset adlatum, opinione omnium m a i o r e m animo c e p i d o l o r e m. In Cicerone
compare di frequente anche dolorem accipere; da notare soprattutto Phil. 1, 14, in cui
ad una possibile reminiscenza di questa frase della Pro Caelio si associa poco dopo una
domanda retorica che fa pensare alle domande finali del discorso di Appio Claudio su
cui ci soffereremo più oltre: Qua quidem ex re m a g n u m a c c i p i o d o l o r e m,
homines amplissimis populi Romani beneficiis usos L. Pisonem ducem optimae sententiae
non secutos. Idcircone nos populus Romanus consules fecit, ut in altissimo gradu dignitatis
locati rem publicam pro nihilo haberemus?
23. Cfr. Osgood, Cicero’s Pro Caelio (cit. n. 6), 357: «In calling on Appius Claudius
to speak against Clodia, and referring to the blindness that he suffered from at the time
of his speech and the ripped-up treaty, Cicero was inviting the original audience of the
Pro Caelio to recall the censor’s famous oration […] The stature of Caecus, especially
on that occasion […] would suggest that he – and so Cicero – had to be believed on
this occasion too. And, if he was coming out to speak again in his blind old age, the
subject must be urgent, as it had been in 279».
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
75
tra gli esempi che smentiscono la tesi che a rebus gerendis senectus abstrahit
(sen. 15), dopo Quinto Fabio Massimo (per il quale Cicerone aveva già citato
Ennio come importante testimone della sua attività nei §§ 10 e 14), Emilio
Paolo e i ceteres senes, Fabricii Curii Coruncanii, questi ultimi attivi nella
prima metà del III secolo e collegati alla guerra contro Pirro24:
sen. 16 Ad Appi Claudi senectutem accedebat etiam ut caecus
esset; tamen is cum sententia senatus inclinaret ad pacem cum
Pyrrho foedusque faciendum, non dubitavit dicere illa, quae
versibus persecutus est Ennius [202-203 Vahlen2 = 199-200
Skutsch]:
Quo vobis mentes, rectae quae stare solebant
Antehac, dementis sese flexere viai25?
ceteraque gravissime; notum enim vobis carmen est; et tamen
ipsius Appi exstat oratio.
24. Cfr. sen. 43. Su Manio Curio Dentato, trionfatore su Pirro, Cicerone ritorna
ancora in sen. 55. I Fabrizii e i Curii erano presenti anche in Cael. 39 come esempi di
dedizione assoluta al dovere, di persone dotate di divina quaedam bona che avevano
resa grande Roma: sono modelli di educazione rigorosa che però è difficile, se non
impossibile, ripetere se non per chi è in possesso di qualità naturali eccezionali. Sono
tra gli esempi da imitare anche in Sest. 143 (quos equidem in deorum immortalium coetu
ac numero repono) e altrove.
25. Viai è correzione del tràdito via già presente in Lambin (ma vd. E. Flores – P.
Esposito – G. Jackson – D. Tomasco [a cura di], Quinto Ennio, Annali (Libri I-VIII):
Commentari, II, Napoli 2002, 152), da Lachmann in poi di solito accettata; Skutsch pone
invece la crux prima di via. Sul fr. vd. B. Luiselli, Nota enniana, «AFLC», 28 (1960),
3-7; O. Skutsch [ed. by], The Annals of Q. Ennius, with Introd. and Comm., Oxford
1985, 360-362 (che ritiene insostenibile l’opposizione tra lo stare dritto e il deviare e
guarda con favore a vietae di Scaligero = ‘incurvate, afflosciate’); Cicero, Cato Maior
De senectute, ed. with introd. and comm. by J. G. F. Powell, Cambridge 1988, 136-138
(nota la difficoltà di accogliere vietae, secondo predicativo riferito a mentes e poco appropriato per una domanda che comincia con quo); Flores, Quinto Ennio (cit.), 152-154;
S. La Barbera, Mentes dementes. Un’allusione enniana in Agostino? (Enn. ann. 199 sg.
Sk. ~ Aug. civ. 1, 33), «RFIC», 137 (2009), 161-170: 165-167; J. Elliott, Ennius and the
Architecture of the Annales, Cambridge 2013, 220-222. Si sarebbe tentati dal vedere
un’allusione a questo secondo verso in Cael. 38 Huic tristi ac derecto seni (cioè il padre
severo delineato da Cecilio, corrispettivo paterno di Appio Claudio) responderet Caelius
se nulla cupiditate inductum d e v i a d e c e s s i s s e (cfr. anche am. 61 declinandum
de via sit, modo ne summa turpitudo sequatur e Cael. 42 haec deserta via et inculta atque
interclusa iam frondibus et virgultis relinquatur […] derecta ratio e Brut. 1, cit. supra, n.
22); al valore filosofico della metafora dell’allontanamento dalla retta via fa riferimento
Moretti, Lo spettacolo (cit. n. 6), 157-158, 161 n. 28, che comprende nell’elenco degli
spunti ciceroniani sul tema anche sen. 16 con inclusa la citazione enniana.
76
G. PIRAS
Si tratta probabilmente dell’inizio del discorso di Appio Claudio,
forse ispirato all’incipit del discorso di Ecuba in Il. 24, 201-202 (‘ὤ μοι
πῇ δή τοι φρένες οἴχονθ᾽, ᾗς τὸ πάρος περ / ἔκλε᾽ ἐπ᾽ ἀνθρώπους ξείνους
ἠδ’οἷσιν ἀνάσσεις;, il che confermerebbe la collocazione iniziale dei versi
enniani). Esso è diverso però da quello conservato dalle fonti di tradizione storiografica citate poc’anzi, tutte, come detto, di età successiva
rispetto alla testimonianza ciceroniana.
L’allusione ciceroniana nella Pro Caelio al principio del discorso
claudiano come tràdito dagli storici conferma però l’esistenza ai tempi
dell’oratore di una versione prosastica di esso, distinta dalla resa enniana, come del resto è esplicitamente affermato nel De senectute (notum
enim vobis carmen est; et tamen ipsius Appi exstat oratio) e in maniera
meno netta nel Brutus (61), Nec vero habeo quemquam antiquiorem,
cuius quidem scripta proferenda putem, nisi quem Appi Caeci oratio haec
ipsa de Pyrrho et nonnullae mortuorum laudationes forte delectant26.
Tale versione però doveva avere un incipit differente da quello presente
in Ennio. A questo resoconto in prosa del discorso in senato hanno
attinto Cicerone stesso per la Pro Caelio e – indipendentemente da
Cicerone che non mostra la stessa completezza – le fonti utilizzate dagli
storici greci che ci hanno tramandato resti di quella versione. Ciò non
prova naturalmente che il discorso ancora noto ai tempi di Cicerone
sia quello effettivamente pronunciato da Appio Claudio e ad un certo
26. Indiretta la testimonianza di Brut. 55 Possumus Appium Claudium suspicari
disertum, quia senatum iamiam inclinatum a Pyrrhi pace revocaverit (Appio Claudio
come rappresentante antonomastico di un’oratoria arcaica compare anche in Tac. dial.
18, 4; 21, 7; Sen. ep. 114, 13). Suerbaum, Rhetorik (cit. n. 18), 260 n. 20 osserva come
sia singolare che Cicerone non abbia compreso Appio Claudio tra i primi oratori romani
di cui ci rimane testimonianza (Marco Cornelio Cetego è il primo di questa categoria
in Brut. 57-60 proprio sulla base di una testimonianza di Ennio), ma per quanto ne
sappiamo Ennio non ne lodava l’eloquenza – a differenza di quanto avveniva nel caso
di Cetego (ann. 303 sqq. V.2 = 304 sqq. Sk.) – e non poteva averlo sentito declamare
(ancora a differenza di Cetego, Brut. 57). Resta comunque strano che Appio Claudio non
sia annoverato da Cicerone tra gli oratori che avevano pubblicato le proprie orazioni,
il cui primo rappresentante sarebbe stato Catone, benché si sostenga – come appena
visto – di avere a disposizione un suo discorso: se tale circostanza non è un riflesso delle
diverse modalità di diffusione e conservazione di tali testi, sembra abbia pesato in particolare il giudizio stilistico non positivo (appunto Brut. 61 Nec vero habeo quemquam
antiquiorem, cuius quidem scripta proferenda p u t e m) e il desiderio di fare di Catone
un iniziatore della letteratura latina (cfr. G. De Sanctis, Storia dei romani, II, Torino
1907, 506-507: «lo scarso valore letterario che, a giudizio di Cicerone, essa aveva, al
pari delle altre orazioni arcaiche a lui note, ne conferma la genuinità»).
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
77
punto registrato con maggiore o minore fedeltà in forma scritta e non
esclude peraltro a rigore neanche la possibilità che il testo prosastico
accessibile a Cicerone possa essere stato ricavato dai versi di Ennio (tale
versione potrebbe essere stata ricavata dagli Annales, e il terminus ante
quem per questa operazione andrebbe retrodatato almeno ai tempi di
Cicerone)27. Sono presenti infatti alcuni elementi in comune tra il breve frammento enniano e quelli tramandati dagli storici. La struttura
interrogativa dei versi enniani è simile a quella presente nel prosieguo
del discorso riportato da Plutarco (Plut. Pyrrh. 19, 2 Ποῦ γὰρ ὑμῶν ὁ
πρὸς ἅπαντας ἀνθρώπους θρυλούμενος ἀεὶ λόγος, ὡς [...]) e da Appiano
(Samn. fr. 10, 5 οἳ δι᾽ ἓν ἀτύχημα ἀθρόως οὕτως ἑαυτῶν ἐκλέλησθε)28.
È da notare inoltre come sia in Ennio che nella versione del discorso
degli storici appaia una netta contrapposizione tra la posizione ferma e
intransigente assunta in precedenza e quella poi vacillante: in particolare
nel passaggio appena riportato di Plutarco (Ποῦ γὰρ ὑμῶν [...]) viene
stabilita una chiara antitesi tra il comportamento che i Romani di un
tempo avrebbero tenuto di fronte ad Alessandro e quello, vile, tenuto
nei confronti di Caoni, Molossi e di Pirro29. Tale sviluppo di pensiero
manca nella breve versione dell’Ineditum Vaticanum, ma di esso credo
si possano trovare tracce in Appiano, nell’improvviso ‘dimenticare voi
stessi’ che abbiamo menzionato e che concretamente vuol dire lasciare
i possedimenti degli antenati a Lucani e Bruzzi (καὶ τὰ τῶν προγόνων
κτήματα Λευκανοῖς καὶ Βρεττίοις δοῦναι), ed esso rimanda alla contrapposizione iniziale πρότερον […] νῦν (o πάλαι […] νῦν) di tutte e
tre le fonti storiche. Del resto una simile concezione oppositiva tra il
coraggio e la gloria del passato da un lato e la degenerazione presente
dall’altro è alla base dello stesso discorso di Appio Claudio immaginato
da Cicerone nella Pro Caelio.
La differenza nell’incipit non basterebbe ad escludere l’eventuale rielaborazione prosastica a partire dal testo di Ennio con modifica
dell’inizio del discorso. L’antitesi retoricamente efficace posta da Appio
27. Cfr. Luiselli, Nota enniana (cit. n. 25), 6-7; Skutsch, The Annals (cit. n. 25),
360; Niese, Zur Geschichte (cit. n. 18), 493 n. 6, sospettava che si trattasse di una falsificazione sorta negli ultimi anni di vita di Cicerone; contra Humm, Appius Claudius
Caecus (cit. n. 18), 71-72 e n. 130.
28. Vd. Luiselli, Nota enniana (cit. n. 25), 5; Skutsch, The Annals (cit. n. 25), 360
(che però, 360 n. 8, considera la somiglianza con Plutarco «accidental»); Osgood,
Cicero’s Pro Caelio (cit. n. 6), 357; Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 66-67.
29. Luiselli, Nota enniana (cit. n. 25), 4-6.
78
G. PIRAS
Claudio tra la sofferenza per la mancanza della vista e il vantaggio che
essa comportava di non assistere allo spettacolo indecoroso della stipula
della pace con Pirro (oppure con il desiderio di essere anche sordo per
non ascoltare i discorsi dei senatori favorevoli alla pace) è possibile che
fosse presente anche in Ennio. Al discorso di Appio Claudio appartiene presumibilmente infatti anche un altro breve frammento enniano
conservato in cui sembrerebbe di potersi scorgere traccia del lamento
di Appio Claudio sulle sue condizioni (204 V.2 = 201 Sk.), Sed ego hic
animo lamentor30. La frase, tramandata in maniera non del tutto sicura
dal commento di Donato a Terenzio (ad Ter. Phorm. 821)31, è attribuita
al VI libro e potrebbe quindi far parte dell’orazione di Appio Claudio, in
particolare presenterebbe somiglianze con il suo lamento, dimostrando
quindi che l’antitesi retorica era già in Ennio32. Il contrasto tra vedere
30. Sul fr. vd. Skutsch, The Annals (cit. n. 25), 362-364; Flores, Quinto Ennio (cit.
n. 25), 154-156. Sarebbe verosimilmente da attribuire al discorso di Appio Claudio
anche il v. 494 V.2 = 514 Sk. Dum quidem unus homo Romanus toga superescit secondo
Suerbaum, Rhetorik (cit. n. 18), 256 n. 11.
31. Alcuni codd. hanno Sed quid ego (per cui vd. ann. 314 V.2 = Sk. Sed quid ego
haec memoro? Dictum factumque facit frux), che renderebbe il verso piuttosto simile ad
altre espressioni di lamento presenti nella letteratura latina: Lucil. 1000 M. Sed quid ego
haec animo trepidanti dicta profundo?, Catull. 64, 164 Sed quid ego ignaris nequiquam
conqueror auris?, Plaut. merc. 218 Sed quid ego hic in lamentando pereo?, truc. 766 Sed
quid ego hic clamo?, Ter. Andr. 886 Sed quid ego? Quor me excrucio? Quor me macero?,
Plin. ep. 5, 21, 6 Sed quid ego indulgeo dolori?, Apul. met. 7, 3 Sed quid ego pluribus de
Fortunae scaevitate conqueror?. Proprio la naturalezza e la frequenza dell’espressione
potrebbero aver indotto alcuni copisti alla variante (che sarebbe semmai da ricondurre
non al νῦν δὲ ἄχθομαι di Plutarco, bensì al Πάλαι μὲν ὑπερηχθόμην del frammento
vaticano: Skutsch, The Annals [cit. n. 25], 363). Tale variante mi sembra però vicina al concetto presente nell’inedito vaticano (νῦν δὲ πολλὴν τῇ συμφορᾷ ταύτῃ χάριν
ἔχω) e mostra alcune singolari somiglianze con altri brani ciceroniani, a partire già dal
commento dell’oratore alla fine della prosopopea di Appio Claudio (35 Sed quid ego,
iudices […]); tra di essi si segnalano Att. 2, 5, 2 S e d q u i d e g o h a e c quae cupio
deponere et toto a n i m o atque omni cura philosophein? (già Skutsch, The Annals [cit.
n. 25], 363), Sest. 118 Sed quid ego populi Romani animum virtutemque commemoro
[…]? (parlando della candidatura alla edilità di Clodio) e har. resp. 28 Sed quid ego id
admiror? (in un contesto che vedremo presentare diversi punti di contatto con la nostra
orazione). La frequenza della locuzione non permette però di trarre conclusioni certe
sul testo enniano eventualmente presente a Cicerone.
32. Cfr. Skutsch, The Annals (cit. n. 25), 362-363; Suerbaum, Rhetorik (cit. n. 18),
256; Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 66-67. Diversamente Luiselli, Nota
enniana (cit. n. 25), 5-6, vede in queste parole «una felice battuta di passaggio [...] al
nuovo tema […] cioè ad illustrare e a sviluppare ciò che egli stesso aveva enunciato,
inizialmente, nel motivo del contrasto tra le mentes rectae di una volta e le mentes
dementes di poi».
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
79
e sentire è peraltro presente nel discorso di Appio Claudio nella Pro
Caelio anche più avanti e non è limitato all’introduzione di esso (Cael.
34 Non patrem tuum v i d e r a s, non patruum […] a u d i e r a s consules
fuisse) e l’idea delle imagines (ibid.) dimostreremo aver avuto una certa
rilevanza nel concepimento della scena. Ennio, Cicerone e gli storici
mostrano quindi elementi comuni che rendono probabile la derivazione da una fonte unica. In definitiva sembra certo che esistesse ancora
ai tempi di Cicerone una versione prosastica del discorso di Appio
Claudio, e questa versione ha una certa probabilità di risalire a tempi
antichi e di conservare elementi, se non la forma, del discorso originale.
Non sembra così fondata invece l’ipotesi che questa versione in prosa
fosse stata in realtà ricavata dagli Annales, mentre appare più probabile
che Ennio trasmetta un rendiconto diverso del discorso, o sia autore di
una rielaborazione personale parallela a quella prosastica. Cicerone ha
accostato le due versioni in opere differenti (tra di loro sono trascorsi
dieci anni), sempre però con ben in mente una concezione severa e
autorevole di Appio Claudio. Si noti infatti come nell’introdurre la sua
figura nella Pro Caelio usi l’avverbio graviter (Cael. 33) e l’insieme del
discorso di Appio Claudio evocato nel De senectute con la citazione
del suo incipit da Ennio sia descritto con la chiosa ceteraque gravissime,
immediatamente seguente i due versi degli Annales.
La indipendenza della tradizione storiografica da Ennio potrebbe
essere confermata anche dall’ipotesi che il frammento contenuto nel
manoscritto vaticano risalga in ultima analisi ad una fonte greca coeva
agli avvenimenti narrati, Timeo di Tauromenio, autonoma dalla successiva annalistica romana33: in tal caso Cicerone potrebbe aver attinto
ad un’antica redazione del discorso, distinta e precedente anche alla
rielaborazione poetica enniana, che avrebbe buone possibilità di risalire
ad una fase molto alta della tradizione del discorso, assai vicina, se non
identica, alla prima versione scritta dell’intervento in senato di Appio
Claudio34.
33. Cfr. Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 68-72; Humm, Fragments (cit.
n. 18), 279-281, 284-288, 293-294: il frammento, proveniente dalla monografia su Pirro
di Timeo, sarebbe stato citato dal retore di età augustea Cecilio di Calatte, epitomato
poi in età imperiale da Plutarco o pseudo-Plutarco, come si ricava dall’intestazione
del brano nel manoscritto vaticano (Πλουτάρχου Κεκιλίου ᾽Αποφθέγματα ‘Ρωμαικά,
variamente integrato).
34. Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 71: «il semble donc bien qu’il ait
existé, peut-être dès le IIIe siècle, en tout cas dès le IIe siècle, un exemplaire du discours
80
G. PIRAS
Dal discorso deriverà poi il tema dell’opposizione tra la cecità e l’autorevolezza pubblica e privata di Appio Claudio sia in sen. 16 che in 37:
Quattuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas
Appius regebat et caecus et senex, intentum enim animum tamquam arcum
habebat nec languescens succumbebat senectuti. Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos: metuebant servi, verebantur liberi,
carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius et disciplina.
Esso si ritrova anche in Tusc. 5, 112 Appium quidem veterem illum, qui
caecus annos multos fuit, et ex magistratibus et ex rebus gestis intellegimus
in illo suo casu nec privato nec publico muneri defuisse. In questo luogo
si sta affrontando il tema della cecità e si potrebbe sospettare una vaga
reminiscenza dell’episodio di Appio Claudio nella frase che precede
immediatamente: Etenim si nox non adimit vitam beatam, cur dies nocti
similis adimat? Nam illud Antipatri Cyrenaici est quidem paulo obscenius,
sed non absurda sententia est; cuius caecitatem cum mulierculae l a m e n
t a r e n t u r, «Quid agitis?» inquit, «an vobis nulla videtur voluptas esse
nocturna?» e, ancora poco dopo, quando si continua a parlare della
cecità (115): Itaque augurem Tiresiam, quem sapientem fingunt poetae,
numquam i n d u c u n t d e p l o r a n t e m c a e c i t a t e m suam. La
contrapposizione tra la sua mancanza della vista e la chiarezza della sua
concezione politica compare in maniera esplicita in Ov. fast. 6, 203-204
(Appius est auctor, Pyrrho qui pace negata / multum animo vidit, lumine
captus erat) e Val. Max. 8, 13, 5 (Hunc caecum aliquis nominet, a quo
patria quod honestum erat per se parum cernens coacta est pervidere?)35.
Il soprannome di Appio Claudio e la sua menomazione fisica, oltre che
essere ricordati esplicitamente in sen. 16 e 37 e Tusc. 5, 112, erano stati
del resto già menzionati da Cicerone per rendere il contrasto tra vedere
e non vedere, con valore quasi antonomastico, in Caec. 54 a proposito
di un’actio: Actio est in auctorem praesentem his verbis: «quandoque te
in iure conspicio». Hac actione Appius ille Caecus uti non posset, si ita
d’Appius Claudius Caecus qui a pu servir de modèle, peut-être à Timée, en tout cas
à Ennius ainsi qu’à toute la tradition annalistique», un esemplare, forse conservato
nell’archivio familiare o forse affisso nel tempio di Bellona (in esso è probabile che si
trovasse un elogio di Claudio – vd. più avanti – e lì potrebbe essere stato pronunciato
il discorso), poi passato all’Ineditum forse tramite Timeo, ad Appiano tramite Diodoro,
mentre Livio e Dionigi sarebbero stati ispirati da una tradizione annalistica più tarda
di tendenza anticlaudiana (ibid., 72-73).
35. Sul tema vd. anche Phil. 13, 10 Deinde vos obsecro, patres conscripti, quis hoc
vestrum non videt, quod Fortuna ipsa, quae dicitur caeca, vidit?
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
81
in iure homines verba consectarentur ut rem cuius causa verba sunt non
considerarent36.
Appio Claudio comincia il suo discorso nella Pro Caelio apostrofando in maniera sprezzante Clodia e immediatamente chiedendole conto
del legame con Celio37 che ha reso possibile l’esistenza stessa dei due
principali crimina, o meglio maledicta, nei confronti del giovane (vd.
Cael. 30), l’aurum e il venenum (§ 34): Mulier38, quid tibi cum Caelio,
quid cum homine adulescentulo, quid cum alieno? Cur aut tam familiaris
huic fuisti ut aurum commodares, aut tam inimica ut venenum timeres?
Le domande di tono retorico di Appio Claudio sono incalzanti per tutto
il suo intervento, ricordano forse l’andamento del discorso ‘originale’
per come ci è testimoniato dal frammento enniano e dalle fonti storiografiche (vd. anche supra, 77) e volgono rapidamente verso il tema della
ascendenza di Clodia e della nobiltà della famiglia dei Claudii, centrale
nella prosopopea, in fondo costitutivo della stessa. Di grande effetto
appare in particolare il richiamo alla serie degli antenati di Clodia che
hanno ricoperto la carica di console (Cael. 34): Non patrem tuum videras,
non patruum, non avom, non proavum, non atavum audieras consules
fuisse […]39? Si tratta dei discendenti maschili di Appio Claudio che
36. Sulla complessa problematica della pubblicazione delle legis actiones, collegata
da alcune fonti antiche con Appio Claudio, vd. Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n.
18), 441 sgg. (su questo passo 446 sg. e n. 25).
37. La relazione, vera o presunta, con Clodia potrebbe essere stata introdotta
nel dibattimento da Cicerone o, in maniera incidentale e forse imprudente, già dagli
accusatori: sulla questione e il ruolo di Clodia nella strategia difensiva di Cicerone vd.
M.C. Alexander, The Case for the Prosecution in the Ciceronian Era, Ann Arbor 2002,
222-229, 233-236; Cavarzere, Vent’anni dopo (cit. n. 7), 408-413; Dyck, Pro Caelio (cit.
n. 7), 12-14 e cfr. anche supra, n. 8.
38. Cicerone si rivolge per lo più a Clodia nell’orazione con il termine mulier,
chiaramente con valore dispregiativo (Leen, Clodia Oppugnatrix [cit. n. 6], 148 e n. 23;
cfr. anche Christenson, Unbearding Morality [cit. n. 6], 63 e n. 9), e di fatto la distingue
dalle matronae al § 32 (petulanter facimus, si matrem familias secus quam matronarum
sanctitas postulat nominamus), chiamandola immediatamente dopo di nuovo mulier
(Sin ista muliere remota […]). Sostiene il tono colloquiale dell’incipit Austin (M. Tulli
Ciceronis Pro M. Caelio Oratio, ed. R.G. Austin, Oxford 19603, 92), ma vd. Gamberale,
La prosopopea (cit. n. 1), 857: è certo il tono arcaizzante dell’espressione.
39. Cfr. Dyck, Pro Caelio (cit. n. 7), 113: «The Censor leads Clodia on a tour, as
it were, of the ancestral imagines». Si tratta rispettivamente di Appio Claudio Pulcro
(cos. 79), di suo fratello C. Claudio Pulcro (cos. 92), di Appio Claudio Pulcro (cos. 143,
cens. 137), di C. Claudio Pulcro (cos. 177, cens. 169), di P. Claudio Pulcro (cos. 249
a.C.), quest’ultimo figlio di Cieco, forse il primo a portare il soprannome di Pulcher.
Su molti di loro possediamo notizie non positive, in particolare per quanto riguarda il
82
G. PIRAS
conducono fino a Clodia40: si noti la distinzione videras/audieras che
rispecchia la differenza tra esperienza diretta e indiretta della memoria
familiare della donna (oltre, come detto, eventualmente a richiamare uno dei temi strutturali della prosopopea: vd. supra, 78 sg.)41. Una
elencazione simile a questa, ma limitata a soli tre gradi di ascendenti
maschi, compare nell’attacco rivolto al fratello di Clodia Appio Claudio
Pulcro in Sest. 126 (padre, nonno e bisnonno evocati sono ovviamente
gli stessi, ma lì si glissa sugli altri antenati: maiorum denique suorum
omnium, vd. infra, 97) e ancora, ridotta al solo padre e allo zio, in har.
resp. 26 (vd. infra, 99).
Non bastasse il richiamo ai celebri antenati maschili, Appio Claudio – dopo il ricordo del matrimonio di Clodia con Quinto Metello
(della sua morte assai sospetta si parlerà a lungo più avanti nell’orazione, §§ 59-60) – menziona anche due donne illustri discendenti di
rispetto dei riti religiosi e l’azione politica, tanto che si può legittimamente parlare di
una tradizione anticlaudiana: essa si sarebbe sviluppata secondo T.P. Wiseman (Clio’s
Cosmetics. Three Studies in Greco-Roman Literature, Leicester 1979, 57-139) sul finire
della carriera di Cicerone e sarebbe stata in parte favorita proprio dalle sue affermazioni
(cfr. anche A. Vasaly, Personality and Power: Livy’s Depiction of the Appii Claudii in the
First Pentad, «TAPhA», 117 [1987], 203-226; Humm, Appius Claudius Caecus [cit. n.
18], 77-97). Il figlio di Cieco fu responsabile della sconfitta di Drepano e venne accusato
di non aver tenuto conto degli auspici contrari (cfr. Cic. nat. 2, 7 e div. 1, 29; 2, 71; 72);
il console del 143, suocero di Tiberio Gracco, fu un sostenitore delle riforme graccane e
avversario di Scipione (vd. rep. 1, 31, che mostra qualche punto di contatto con questo
passo della Pro Caelio, e cfr. I. McDougall, The Reputation of Appius Claudius Pulcher,
Cos. 143 BC, «Hermes», 120 [1992], 452-460, in part. 458-460).
40. C. M. Francken, Ciceronis Oratio pro Caelio, «Mnemosyne», n. s. 8 (1880),
201-229: 218, propone l’aggiunta di abavum prima di atavum, cioè Appio Claudio
Pulcro, cos. 212, il fratello di Claudia Quinta menzionata da Cicerone poco dopo, il
che permetterebbe di completare le cinque generazioni che dovrebbero separare Appio
Claudio da Clodia (l’aggiunta è accolta da Clark, ma non dagli ultimi editori).
41. Si noti come anche il consolato dello zio Gaio Appio (92) non sia compreso
nelle conoscenze dirette di Clodia (non patruum […] a u d i e r a s consules fuisse). Si
sarebbe tentati dal prenderlo come un indizio biografico ed abbassare di conseguenza
la presunta data di nascita di Clodia, di solito collocata attorno al 94 (F. Münzer, in
RE, IV 1 [1900], s.v. Clodius, 64-111: 105, 54-55), ma non sembra si possa spostare
dal 93 la nascita del più giovane dei fratelli (vd. da ultimo F. X. Ryan, Das Geburtsjahr
des Clodius, «RSA», 30 [2000], 165-169): a parte l’eventualità di un leggero errore di
Cicerone nella cronologia, si farà qui solo allusione alla precedenza del consolato dello
zio rispetto a quello del padre e quindi alla maggiore età del patruus di Clodia, il cui
consolato ella non ebbe modo di vedere direttamente (sembra impossibile del resto
fare sia di patrem che di patruum il soggetto dell’infinitiva sottintesa, consules fuisse,
retta da videras e diversa da audieras consules fuisse).
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
83
Appio Claudio (§ 34; l’ordine tra i due esempi è quello cronologico
delle vicende di cui sono protagoniste): Nonne te, si nostrae imagines
viriles non commovebant, ne progenies quidem mea, Quinta illa Claudia,
aemulam domesticae laudis in gloria muliebri esse admonebat, non virgo
illa Vestalis Claudia quae patrem complexa triumphantem ab inimico
tribuno plebei de curru detrahi passa non est?. Il primo esempio è quello di Quinta Claudia, nipote di Appio Claudio e figlia di P. Claudio
Pulcro, protagonista dell’introduzione del culto di Cibele a Roma nel
204 a.C., in seguito progressivamente assimilata ad una vestale (si noti
l’associazione in questo brano con un’altra Claudia vestale), evocata
con ogni probabilità per il legame con l’atmosfera dei Megalensia che
circondava il processo42. Il personaggio è richiamato da Cicerone anche
nella De haruspicum responso (un’orazione – come si vedrà – di poco
successiva alla Pro Caelio e ricca di riferimenti ad essa, in particolare
negli attacchi contro Clodio e la sorella), in un passo che somiglia molto
a quello appena citato della nostra orazione (§§ 27-28): femina autem
quae matronarum castissima putabatur, Q. Claudia, cuius priscam illam
severitatem mirifice tua soror existimatur imitata. Nihil te igitur neque
maiores tui […] permovit quo minus castissimos ludos omni flagitio pollueres, dedecore maculares, scelere obligares? Sed quid ego id admiror?43.
42. Sulla figura di Quinta Claudia, di cui esistono anche testimonianze figurative, e il celebre episodio dell’arrivo del simulacrum della Magna mater vd. J. Gérard,
Légende et politique autour de la Mère des Dieux, «REL», 58 (1980), 153-175; R. J.
Littlewood, Poetic Artistry and Dynastic Politics: Ovid at the Ludi Megalenses (Fasti 4.
179-372), «CQ», 31 (1981), 381-395 e, da ultimo, E. W. Leach, Claudia Quinta (Pro
Caelio 34) and an Altar to Magna Mater, «Dictynna», 4 (2007), URL: http://dictynna.
revues.org/157, e C. Torre, Ritratti di signora (per un’interpretazione di Ovidio, Fasti
IV 247-349), in P.F. Moretti – C. Torre – G. Zanetto [a cura di], Debita dona. Studi in
onore di Isabella Gualandri, Napoli 2008, 471-501: 477-482, che scorge nella scena descritta da Ovidio in fast. 4, 247-349 reminiscenze del discorso di Appio Claudio e della
raffigurazione di Clodia nella Pro Caelio («la Claudia ovidiana è […] “pronipote” della
Clodia ciceroniana», 482). Per il richiamo ai ludi Megalenses vd. Salzman, Cicero (cit. n.
6), 301: questo e altri rimandi alla festività rientrerebbero secondo l’autrice in una più
ampia strategia dell’oratore tesa a suscitare simpatia per il collegio di difesa e ostilità
nei confronti dell’accusa che non permette ai giudici di assistere agli spettacoli (302) e
comunque dovevano assumere anche un significato politico a seguito del disturbo dei
ludi attribuito da Cicerone a Clodio nella De haruspicum responso (§§ 21-29: 304); assai
improbabile mi pare il proposto parallelismo Magna Mater/Clodia e Attis/Celio (302).
43. Si notino le interrogative retoriche dipendenti dal composto di movere (cfr.
Cael. 34 nostrae imagines viriles non c o m m o v e b a n t, ne progenies quidem mea […]
a d m o n e b a t […] fraterna vitia potius quam bona paterna et avita […] m o v e r u n t).
La prisca severitas, oltre l’inizio della prosopopea di Appio Claudio, ricorda la lettera
84
G. PIRAS
Il riferimento a Q. Claudia ‘emulata’ da Clodia (tua soror, sta rivolgendosi a Clodio) è da intendere naturalmente in senso ironico: Cicerone,
esagerando (mirifice) sull’imitazione della prisca severitas di Q. Claudia,
evidenzia la distanza da lei di Clodia, niente affatto matronarum castissima. Del resto Appio Claudio esortava la nipote a farsi emula di Claudia,
ritenendo ovviamente che non lo fosse44. Non possiamo essere del tutto
certi che Cicerone, il nostro testimone più antico della leggenda, che
in entrambi i luoghi non menziona esplicitamente l’episodio dell’arrivo
della statua della dea e della rilevanza avuta in quelle circostanze da
Claudia, conoscesse la versione che vedeva nel prodigioso ruolo da lei
avuto nel disincagliare la nave che trasportava la statua un segnale divino
della castità della donna, altrimenti oggetto di voci di segno opposto
(elemento quest’ultimo della tradizione ‘anti-clodiana’). Se fossimo sicuri che Cicerone aveva presente il racconto si potrebbe interpretare il
passo della orazione sul responso degli aruspici come ironico anche nei
confronti della stessa Claudia, la cui fama di matrona castissima sarebbe
quindi molto dubbia (si noti il putabatur) e si configurerebbe quindi
come una degna antenata di Clodia, sua straordinaria emula, mentre
la domestica laus in gloria muliebri di Appio Claudio diverrebbe una
sottile e tacita frecciata anti-clodiana dell’oratore su cui far sorridere i
propri ascoltatori e lettori45.
Il secondo esempio muliebre è noto essenzialmente per la vicenda
qui narrata: si tratta della zia di Clodia, figlia (secondo Svetonio, Tib.
2, 4, sorella) di Appio Claudio Pulcro, console nel 143, che riuscì a
celebrare il suo contestato trionfo per la vittoria sui Salassi grazie al coche narra dell’altercatio con Clodio in senato (Att. 1, 16, 8 senatum ad pristinam suam
severitatem revocavi atque abiectum excitavit, Clodium presentem fregi in senatu cum
oratione perpetua plenissima gravitatis tum altercatione eius modi [...]); per Sed quid
ego vd. supra, n. 31. Cfr. inoltre per matronarum castissima Ov. fast. 4, 313 Haec ubi
castarum processit ab agmine matrum.
44. Cfr. E.W. Leach, Gendering Clodius, «CW», 94 (2000-2001), 335-359: 343 n. 35
(«a perfect foil to Clodius’ notorious sister»); Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 856.
45. Torre, Ritratti di signora (cit. n. 42), 477-478, giudica tale menzione come
poco opportuna nel contesto della Pro Caelio e soprattutto come inutile durante i ludi
megalesi dove la rievocazione dell’episodio doveva essere centrale (ma vd. Gamberale,
La prosopopea [cit. n. 1], 855 n. 28). Sul problema dell’elusività sul mito di Cicerone
vd. Leach, Claudia Quinta (cit. n. 42), 7-9, che formula tra l’altro l’ipotesi che «Cicero
would scarcely have found it advantageous in his defamation to use a version of the
story culminating in the miraculous vindication of a Claudian woman’s reputation» (8);
cfr. anche Wiseman, Clio’s Cosmetics (cit. n. 39), 109-110.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
85
raggio della donna che impedì ad un tribuno della plebe suo avversario
di farlo scendere dal carro. Anche in questo caso è incerto se Cicerone
conoscesse una versione della vicenda sostanzialmente negativa per il
protagonista, in altre fonti arrogante nel cercare e celebrare la vittoria
contro la volontà del senato e del popolo46. E certo non saranno stati
in pochi a pensare a Clodio nel sentire in questa vicenda di un inimicus
tribunus plebei (per la somiglianza con altre caratterizzazioni di Clodio
vd. infra, n. 69; è discussa la presenza fisica di Clodio al processo, che
aumenterebbe di certo l’effetto del possibile riferimento: anche di questo
più avanti47).
Gli antenati evocati da Appio Claudio sono rappresentati nella prosopopea nella loro evidenza visiva: Cael. 34 si nostrae imagines viriles
non commovebant (cfr. anche 33 illa horrida [i.e. barba] quam in statuis
antiquis atque imaginibus videmus), con evidente riferimento alle statue,
alle imagines, i ritratti dei defunti conservati nelle abitazioni delle famiglie più illustri (Austin, Pro Caelio [cit. n. 38], ad loc.). Se pure è possibile
che la scena richiamasse al pubblico romano la gravità e la solennità
dei funerali aristocratici, è assai improbabile che qui Cicerone faccia
riferimento alla pratica della processione delle maschere di cera degli
antenati o anche alle laudationes funebres48: le imagines sono piuttosto
le statue (o i ritratti) ed eventualmente le maschere funebri conservate
46. Cfr. McDougall, The Reputation (cit. n. 39), 457 n. 23: «Although Suetonius
makes it clear that Claudius was acting iniussu populi, neither Cicero nor Valerius
makes any mention of the fact that he had received no approval for his triumph. For
Cicero, however, stressing such a matter would not have served his argument at that
point in the Pro Caelio». Vicino al brano ciceroniano in part. Val. Max. 5, 4, 6 Magna
sunt haec virilis pietatis opera, sed nescio an his omnibus valentius et animosius Claudiae
Vestalis virginis factum. Quae, cum p a t r e m suum t r i u m p h a n t e m e c u r r u
violenta tribuni <pl.> manu <d e t r a h i> animadvertisset, mira celeritate utrisque se
interponendo amplissimam potestatem inimicitiis accensam depulit; si noti che Valerio
Massimo parla anche di un trionfo celebrato da Claudia verso il tempio delle vestali,
parallelo a quello del console verso il Campidoglio: anche in questo caso è possibile
immaginare l’influenza di qualche esempio figurativo.
47. Che Clodio non fosse interessato all’esito del processo era del resto impensabile
(Skinner, Clodia Metelli [cit. n. 6], 282 n. 23).
48. Cfr. H.I. Flower, Ancestor Masks and Aristocratic Power in Roman Culture,
Oxford 1996, 129 n. 5; Dufallo, Appius’Indignation (cit. n. 6), 132, che arriva a sostenere
che «Through Appius, Cicero speaks (perhaps startlingly) as an imago» (nel senso di
maschera di cera).
86
G. PIRAS
dalle famiglie, intese però come testimonianza figurativa statica49, di cui
è chiaro il valore simbolico (cfr. il già ricordato Sest. 19 Unum aliquem te
ex barbatis illis, exemplum imperi veteris, imaginem antiquitatis, columen
rei publicae diceres intueri, un passo con varie somiglianze con il nostro),
e si può semmai affermare che Appio Claudio parla come imago nel
senso metaforico di defunto evocato dall’oltretomba.
È significativo ricordare che secondo Plinio furono collocate nel
tempio di Bellona, il tempio fondato proprio da Appio Claudio Cieco
nel 296 (cfr. Ov. fast. 6, 199-208), una serie di clupei con le immagini
degli antenati e dei loro tituli (nat. 35, 12):
Verum clupeos in sacro vel publico dicare privatim primus instituit, ut reperio, Appius Claudius qui consul cum P. Servilio
fuit anno urbis CCLVIIII. Posuit enim in Bellonae aede maiores suos, placuitque in excelso spectari et titulos honorum
legi, decora res, utique si liberum turba parvulis imaginibus
ceu nidum aliquem subolis pariter ostendat, quales clupeos
nemo non gaudens favensque aspicit.
L’autore dell’operazione di sistemazione delle immagini clipeate all’interno del tempio secondo il testo pliniano tramandato sarebbe addirittura l’Appio Claudio decemviro, console nel 495, ma è stato da tempo
supposto che si deve in realtà trattare di Appio Claudio, cos. 79 (assieme appunto a P. Servilio)50, cioè del padre di Clodia. Suggestivo anche
il possibile accostamento tra queste imagines clipeatae, in cui compare
anche una liberum turba, con il quadretto di Appio Claudio circondato
dalla sua discendenza in Cic. sen. 37 (supra, 80): Quattuor robustos filios,
quinque filias, tantam domum, tantas clientelas Appius regebat et caecus et
49. Cfr. Leen, Clodia Oppugnatrix (cit. n. 6), 150 e n. 28 («Cicero’s audience would
have been familiar with the imagines mentioned by Appius Claudius, whether or not
they had ever entered a Claudian home residence»). Sull’importanza delle immagini
degli antenati e il loro culto cfr. Liv. 3, 58, 2; Sall. Iug. 85, 10; Suet. Vesp. 1.
50. Gli editori o correggono Plinio o conservano il testo ritenendolo un errore
dell’autore. Vd. da ultimo Humm, Appius Claudius Caecus (cit. n. 18), 43-47 (con bibliografia precedente), che accosta la testimonianza di Plinio alla prosopopea di Appio
Claudio: «nul doute en effet que Cicéron connaissait parfaitement son portrait lorsqu’il
évoqua ab inferis, devant Clodia, l’un des ancêtres barbus» (46; vd. anche 505-506), ma
più dell’esistenza di un eventuale ritratto di Appio Claudio è importante la testimonianza
su una galleria di immagini di antenati.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
87
senex (simile in Val. Max. 8, 13, 5). Secondo le fonti greche (vd. supra) il
censore si presentò del resto accompagnato dai figli in senato per tenere
il suo discorso contro la pace con Pirro. Che Cicerone possa aver subito
l’ispirazione di questo monumento nell’inscenare la rievocazione della
memoria familiare dei Claudii non è affatto improbabile (collocato ai piedi
del colle capitolino, il tempio non doveva essere indifferente ai frequentatori del foro) e, se è giusta l’identificazione dell’autore dell’affissione
delle imagines con il console del 79, è da sottolineare il fatto che Appio
Claudio nel suo rimprovero alla discendente parte proprio dall’esempio
del padre (Non patrem tuum videras […]), una figura caratterizzata positivamente da Cicerone in dom. 83 sg., dove è ricordato anche come figlio
di un clarissimus vir ed è contrapposto con decisione a Clodio.
Il discorso di Appio Claudio si chiude con una grave e orgogliosa
contrapposizione dei propri meriti con il turpe scempio di essi condotto
da parte della pronipote, ancora una volta, come al principio, con una
serie incalzante di domande (§ 34): Ideone ego pacem Pyrrhi diremi ut tu
amorum turpissimorum cotidie foedera ferires, ideo aquam adduxi ut ea tu
inceste uterere, ideo viam munivi ut eam tu alienis viris comitata celebrares?.
Tre fra i principali risultati della sua carriera – l’aver sventato la stipula
della pace con Pirro, la costruzione dell’acquedotto Claudio e della via
Appia (il primo avvenimento è databile al 280/279 a.C., il secondo e il
terzo risalgono alla censura del 312) – sono contrapposti all’esito finale
contrario o corrotto che hanno avuto nella sua discendente (rispettivamente nel primo esempio, pacem diremi / foedera ferires, e nel secondo
e terzo caso, aquam adduxi / ea [scil. aqua] inceste uterere e viam munivi
/ eam [scil. viam] alienis viris comitata celebrares)51. La triplice elencazione si sviluppa in una serie di tre interrogative retoriche scandite dalla
ripetizione di ideo + oggetto senza connotazione aggettivale + verbo al
perfetto (azioni di Cieco) e di ut tu e congiuntivo imperfetto (comportamenti di Clodia), con denotazione negativa delle azioni presenti della
51. Notevole la ripresa dell’espressione da dom. 129 (foedera feriebantur provinciarum), dove è impiegata in un contesto di polemica anticlodiana. Il primo dei tre
comportamenti di Clodia qui citati da Appio Claudio è menzionato poco più avanti
da Clodio, con linguaggio di ascendenza comica, alla fine della sua prosopopea (Cael.
36): hinc licet condiciones c o t i d i e legas.
88
G. PIRAS
donna (turpissimorum, inceste52, alienis viris comitata53). La frase è ricca di
allitterazioni, in particolare per i nessi riguardanti lo stesso Appio Claudio
(pacem Pyrrhi, aquam adduxi, fine e inizio di parola in viam munivi), e di
clausole ritmiche54. Ma la conclusione del discorso è ricercata anche dal
punto di vista puramente lessicale: Cicerone mirava di certo ad ottenere
un effetto di arcaica solennità con il ricorso a formule del tempo antico55, un obiettivo sicuramente dell’intero intervento di Appio Claudio
che rivela dal punto di vista linguistico un moderato arcaismo56 inteso
probabilmente a richiamare la lingua e la figura arcaica del Censore per
mezzo di locuzioni desuete e ricorrenti figure di suono.
Il finale del discorso mostra interessanti punti di contatto con l’esempio di prosopopea avanzato nella Rhetorica ad Herennium per illustrare
la rievocazione di un celebre personaggio storico, in quel caso il Bruto
52. A proposito dell’utilizzo sconcio dell’acqua (sottolinea il valore religioso del termine Gamberale, La prosopopea [cit. n. 1], 860), Ch. Bruun, Water for Roman Brothels:
Cicero Cael. 34, «Phoenix», 51 (1997), 364-373, ipotizza un riferimento alle pratiche
tipiche dei bordelli romani, testimoniate tra l’altro da un passo di Frontino (aq. 76, 2)
che cita con ogni verisimiglianza un frammento di un perduto discorso tenuto da Celio
durante la sua edilità in cui ci si lamentava degli allacciamenti idrici abusivi per varie
attività, tra cui le corruptelae: inriguos agros, tabernas, cenacula etiam, corruptelas denique
omnes perpetuis salientibus instructos invenimus. J.L. Butrica, Using Water “Unchastely”:
Cicero Pro Caelio 34 Again, «Phoenix», 53 (1999), 136-139 suggerisce invece un più
generale e diretto riferimento all’attività sessuale, a prescindere dalla prostituzione; J.L.
Butrica, Using Water “Unchastely”: Cicero Pro Caelio 34 Again – Addendum, ibid., 336,
ribadisce invece di nuovo un legame con la dimensione della prostituzione, sospettando
che la domanda di Appio Claudio vada intesa «Did you think I was your aquariolus
when I built the Aqua Appia?» (aquariolus = «“a servant who supplied washing-water
for prostitutes”»). Per un anticipo della scena delle terme all’interno della Pro Caelio
(§§ 61-66) si esprime V. Fyntikoglou, Caecus, Clodia, Metellus: Theatre and Politics in
pro Caelio, in C. Deroux [ed. by], Studies in Latin Literature and Roman History, 11,
Bruxelles 2003, 186-198 (cfr. anche In Cl. et Cur., fr. 19, 2 aquis calidis uterentur, un
brano di cui si discute infra, 92).
53. Per alienis si vd. quanto detto prima (§ 34) a proposito di Celio, quid cum alieno?
Somiglianze verbali si hanno a § 47, nell’ambito di un’altra descrizione del comportamento lascivo di Clodia: in t u r p i s s i m i s rebus frequentissima c e l e b r i t a t e et
clarissima luce laetetur.
54. Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 857. Da aggiungere il dispondeo viam
munivi e forse anche aquam adduxi (dispondeo con scioglimento del primo elemento
e iato), isosillabico e simmetrico col precedente (entrambi con forti assonanze tra le
due parole che li compongono).
55. Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 857-858.
56. Cfr. l’accurato esame linguistico di Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 856860, che conclude per «una leggera, moderata patina di arcaismo nel lessico e in alcune
iuncturae» (860).
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
89
artefice della cacciata dei re. Si tratta in particolare di uno degli esempi
di conformatio presenti nel trattato (Rhet. Her. 4, 66)57:
Quodsi nunc Lucius ille Brutus revivescat et hic ante pedes
vestros adsit, is non hac utatur oratione: «E g o reges eieci, v o s
tyrannos introducitis; e g o libertatem, quae non erat, peperi,
v o s partam servare non vultis; e g o capitis mei periculo
patriam liberavi, v o s liberi sine periculo esse non curatis?».
La somiglianza con la Pro Caelio è evidente sia nell’evocazione di
un personaggio famoso (Lucius ille Brutus revivescat / Existat igitur
[...] Caecus ille; Quodsi [...] is non hac utatur oratione / si extiterit, sic
aget ac sic loquetur), sia nella struttura antitetica delle sue esclamazioni
che possono essere confrontate con le domande retoriche del finale del
discorso di Appio Claudio (si noti la struttura tripartita, l’opposizione
ego/vos, la costruzione delle frasi con l’oggetto seguito dal perfetto
alla fine) ed è possibile che proprio questo brano della Rhetorica ad
Herennium abbia fortemente influenzato Cicerone nella elaborazione
della struttura del brano, accanto forse alla memoria poetica pacuviana
di cui parleremo tra poco (97 sg.), da cui potrebbe essere stato tratto
l’elemento ‘patetico’ del defunto che sorge a rimproverare il suo congiunto con un appello iniziale.
Tale caratterizzazione dei principali meriti di Appio Claudio rimase
tradizionale, come è testimoniato dall’elogium che era collocato alla base
di una sua statua situata nel foro di Augusto e ci è stato tramandato in
copia. Esso menziona, n e l l o s t e s s o o r d i n e (che, ricordiamo,
non è quello cronologico), tutte e tre le azioni che troviamo nella Pro
Caelio (CIL XI 1827 = ILS 54 = Inscr. It. XIII, 3, 79):
complura oppida de Samnitibus cepit, Sabinorum et Tuscorum exercitum fudit, pacem fieri cum Pyrrho rege prohibuit,
in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit,
aedem Bellonae fecit58.
57. Gamberale, La prosopopea (cit. n. 1), 850-852.
58. L’analisi più completa – anche per le possibili fonti – in Humm, Appius Claudius
Caecus (cit. n. 18), 49-60.
90
G. PIRAS
Il testo è probabile che risalga ad Igino grammatico ma è possibile
che tenga conto di materiale epigrafico conservato dalla famiglia, forse
nel tempio di Bellona già più volte menzionato, sede delle memorie
familiari dei Claudii, e non si può escludere che Cicerone possa essere stato ispirato da qualche testimonianza celebrativa. In ogni caso
l’elogio si concentra in parte sulle stesse grandi opere menzionate dal
personaggio evocato nella Pro Caelio ed è una concreta testimonianza
della visione diffusa della personalità storica di Appio Claudio che deve
aver influenzato Cicerone (meno probabile che sia al contrario un tardo
risultato della fortuna del brano della Pro Caelio). Ma la costruzione del
discorso di Appio Claudio in Cicerone risente e rimanda anche ad altre
sue opere e ad altre raffigurazioni dei Claudii (e dei Clodii): si osserva
un’interessante interscambiabilità tra le raffigurazioni dei due fratelli,
Clodia e il tribuno (ma non solo), che risente con ogni probabilità del
complesso svolgersi della vita pubblica del tempo.
Già prima della Pro Caelio, che è del 56, Cicerone aveva sfruttato
il contrasto tra Appio Claudio e i suoi discendenti insistendo spesso
sulla cecità dell’antenato, in primo luogo – per quanto a noi noto – in
una serie di attacchi rivolti nei confronti di Clodio che prendono il via
già dalla perduta In Clodium et Curionem, un’orazione pronunciata nel
61 ma diffusa più tardi (a quanto pare contro la volontà di Cicerone e
probabilmente tra una cerchia assai ristretta di lettori59) e conservata
solo in frammenti. In essa compaiono diversi elementi che si ritrovano
nella Pro Caelio e nella prosopopea di Appio Claudio, con cui si possono rintracciare collegamenti testuali precisi, e l’illustre antenato di
Clodio viene presentato, con forte accento posto sulla sua cecità, come
contraltare rispetto al corrotto discendente60. Cicerone sembra aver
riutilizzato nella Pro Caelio materiale impiegato cinque anni prima, in
questa occasione però contro Clodia e non più contro il fratello, se non
indirettamente61. Da tenere presente tra l’altro che nel 56 il secondo dei
59. Cfr. C. Loutsch, Remarques sur la publication du Pro Caelio de Cicéron, in M.
Ledentu [éd. par], Parole, Media, Pouvoir dans l’Occident Romain. Hommages offerts
au Professeur Guy Achard, Paris 2007, 53-71: 63-65.
60. Vd. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 70 sgg., con la conclusione (88) «it seems
increasingly clear that Cicero’s comic treatment of the Clodii in the defense speech
Pro Caelio in large measure derives from what he began in the invective In Clodium et
Curionem»; vd. già Austin, Pro Caelio (cit. n. 38), 165-166.
61. Sembra però molto improbabile che non operasse in Cicerone la volontà di
danneggiare politicamente Clodio colpendone la sorella; giustamente è tornato ad in-
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
91
Claudii Pulcri è pretore, Clodio è edile, gestisce e, a detta di Cicerone,
turba lo svolgimento dei Megalensia durante i quali si tiene il processo
contro Celio (Cael. 1 quod diebus festis ludisque publicis, omnibus forensibus negotiis intermissis, unum hoc iudicium exerceatur)62.
La distanza tra Cieco e il pronipote è esplicitamente messa in risalto
da Cicerone nella In Clodium et Curionem con un’apostrofe a Clodio
che ricorda la conclusione del discorso della prosopopea in cui ad essere biasimata è invece la sorella. Anche qui infatti l’argomentazione è
costruita con una serie di interrogative retoriche basate sul contrasto
tra l’atteggiamento corrotto e dissoluto di Clodio e l’illustre antenato
(fr. 23 Crawford)63: Tune, cum vincirentur pedes fasciis, cum calautica
capiti accommodaretur, cum vix manicatam tunicam in lacertos induceres,
cum strophio accurate praecingerere, in tam longo spatio numquam te
Appi Claudi nepotem esse recordatus es? Nonne etiamsi omnem mentem
libido averterat, tamen ex […]. La libido che ha sconvolto la mente di
Clodio è del resto sin dall’inizio della Pro Caelio collegata a Clodia: un
eventuale spettatore che osservasse il processo, dice Cicerone, sarebbe
infatti naturalmente portato a ritenere necessario che venissero repressi
i desideri sfrenati di quella donna (§ 1 libidinem muliebrem comprimendam putet)64.
sistere su questo aspetto politico Fyntikoglou, Caecus (cit. n. 52), in part. 193-195,
che però (195 n. 23) pensa che l’obiettivo di Cicerone siano i più recenti Clodii e non
l’intera gens Claudia. Sui retroscena politici del processo vd. anche il quadro in Cavarzere, Vent’anni dopo (cit. n. 7), 413-417 (forti dubbi sulla portata politica del processo
derivano soprattutto dalla mancanza di informazioni precise sui protagonisti di quel
periodo, con conseguente difficoltà di ricostruire con esattezza azioni e posizioni dei
singoli in quel torno di tempo). Sul complesso degli attacchi a Clodio presenti nelle orazioni ciceroniane vd. R. Seager, The (Re/De)Construction of Clodius in Cicero’s
Speeches, «CQ», 64 (2014), 226-240.
62. Vd. har. resp. 22 Vis enim innumerabilis incitata ex omnibus vicis conlecta servorum ab hoc aedile religioso repente <e> fornicibus ostiisque omnibus in scaenam signo
dato inmissa inrupit e cfr. T.P. Wiseman, Cinna the Poet and other Roman Essays, Leicester 1974, 159-169.
63. Vd. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 77.
64. Appio Claudio riconduceva il comportamento di Clodia a temeritas ac libido
(Cael. 34). Vd. poi ancora, sempre detto di Clodia, Cael. 2 (alicuius intolerabili libidine),
35 (Accusatores quidem libidines […] iactant, vd. supra, n. 37), 38 (iure suo libidines
omnium commearent), 47 (huc unius mulieris libidinem esse prolapsam, ut […]), 49
(explere libidinem), 53 (de libidine eius), 55 (ex libidinosa domo), 57 (domo in qua mater
familias meretricio more vivat, in qua nihil geratur quod foras proferendum sit, in qua
inusitatae libidines, luxuries, omnia denique inaudita vitia ac flagitia vorsentur), 70 (ad
mulieris libidinosae delicias deposcitur), 78 (ne patiamini […] Caelium libidini muliebri
92
G. PIRAS
Nel fr. 19 è notevole che Clodio venga ironicamente raffigurato come
un uomo durus ac priscus, la cui rigidità non è sopportabile dai costumi
contemporanei: con una sorta di variazione della figura retorica della prosopopea, Cicerone immagina che Clodio, descritto con tratti che il lettore
certamente riconosceva come non suoi, chieda conto a Cicerone della
sua frequentazione di Baia, il che fa indubbiamente pensare – anche con
precise corrispondenze – al discorso di Appio Claudio nella Pro Caelio:
Primum homo durus ac priscus invectus est in eos qui mense
Aprili apud Baias essent et aquis calidis uterentur. Quid cum
hoc homine nobis tam tristi ac severo? Non possunt hi mores
ferre hunc tam austerum et tam vehementem magistrum, per
quem hominibus maioribus natu ne in suis quidem praediis
impune tum, cum Romae nihil agitur, liceat esse valetudinique
servire. Verum tamen ceteris <licitum sit ignoscere, ei vero
qui praedium habeat> in illo loco, nullo modo. ‘Quid homini’
inquit ‘Arpinati cum Baiis, agresti ac rustico?’65.
Alcune riprese lessicali e tematiche sono evidenti nella Pro Caelio:
per l’iniziale homo durus ac priscus si veda la premessa alla prosopopea
di Appio Claudio (§ 33), me secum severe et graviter et prisce agere, e
la successiva definizione ciceroniana del personaggio di Cieco da lui
addotto (§ 36), illum senem durum ac paene agrestem: nel frammento
della In Clodium è invece ironicamente lo stesso Cicerone ad essere
definito agresti ac rustico da Clodio. Proprio il finale del frammento,
‘Quid homini’ inquit ‘Arpinati cum Baiis, agresti ac rustico?’, è peraltro
simile al principio dell’intervento di Appio Claudio (§ 34), quid tibi
cum Caelio, quid cum homine adulescentulo, quid cum alieno?. Quella di
Clodio nei confronti di Cicerone era un’accusa, o meglio un rimprovero,
che risaliva al tempo dell’altercatio avvenuta in senato tra i due, subito
dopo l’assoluzione di Clodio nel processo seguito alla violazione dei riti
della Bona dea (vd. Att. 1, 16, 10). Essa compare anche nei frammenti 20
e 21 della In Clodium e la frequentazione di Baia torna più volte come
condonatum). La libido è ricordata nella Pro Caelio anche come caratteristica di Catilina
(§ 12 Erant apud illum inlecebrae libidinum multae; 13 Illa vero, iudices, in illo homine
admirabilia fuerunt […] cum libidinosis luxuriose vivere).
65. Vd. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 72; J. W. Crawford, M. Tullius Cicero, The
Fragmentary Speeches. An Edition with Commentary, Atlanta 19942, 252-253, fr. 19.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
93
metafora di dissolutezza nella Pro Caelio. Un’accusa analoga a quella di
Clodio contro Cicerone doveva essere stata rivolta da Erennio contro
Celio (Cael. 27): Tibi autem, Balbe, respondeo primum precario, si licet,
si fas est defendi a me eum qui nullum convivium renuerit, qui in hortis
fuerit, qui unguenta sumpserit, qui Baiias viderit66. L’accento va posto
in quest’ultimo brano, con un certo grado di autoironia, su a me: come
se Cicerone intendesse ‘se io sono la persona adatta a difendere’, non
tanto per la sua dignità consolare quanto forse appunto con un sottile
richiamo agli antichi rimproveri a lui rivolti da Clodio, richiamo che solo
una ristretta cerchia era probabilmente in grado di cogliere (vd. supra).
Questo richiamo ripropone il problema dell’identificazione del
subscriptor dell’accusa P. Clodius, menzionato da Cicerone in tono sprezzante proprio immediatamente prima della risposta a Balbo appena vista
(Cael. 27): Nam P. Clodius, amicus meus, cum se gravissime vehementissimeque iactaret et omnia inflammatus ageret tristissimis verbis, voce
maxima, tametsi probabam eius eloquentiam, tamen non pertimescebam;
aliquot enim in causis eum videram frustra litigantem67. Naturalmente
l’appellativo di amicus meus è ironico e forse proprio questo potrebbe
essere un indizio che si tratti realmente dell’ex tribuno, acerrimo nemico di Cicerone, di solito escluso dall’identificazione con l’accusatore
di Celio68, ma di frequente definito suo inimicus69. A proposito della
66. Cfr. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 75. Il rimprovero è richiamato anche al § 35.
L’immagine è poi rivolta da Cicerone contro Clodia (§§ 38, 47, 49).
67. Sugli aspetti più propriamente retorici di tale denigrazione vd. H. C. Gotoff,
Cicero’s Analysis of the Prosecution Speeches in the Pro Caelio: An Exercise in Practical
Criticism, «CPh», 81 (1986), 122-132: 131-132. La frase mi pare in ogni caso un altro
esempio di quella tattica processuale ciceroniana che consiste nel descrivere l’avversario come a sé vicino, quasi in un rapporto di amicizia, per poi limitarne le capacità,
soprattutto nei confroni delle proprie (su di essa cfr. Ch. P. Craig, The Accusator as
Amicus: An Original Roman Tactic of Ethical Argumentation, «TAPhA», 111 [1981],
31-37, e Gamberale, Quaeramus seria ludo [cit. n. 6], 31-32).
68. Sulla questione della identificazione di questo Clodio vd. Alexander, Trials (cit.
n. 8), 134 e n. 3; A. Cavarzere [a cura di], Cicerone, In difesa di Marco Celio (Pro Caelio),
Venezia 20149, 17, 37 n. 25; Cavarzere, Vent’anni dopo (cit. n. 7), 391-392, 415-416;
Alexander, The Case for the Prosecution (cit. n. 37), 220, 225; Gamberale, Quaeramus
seria ludo (cit. n. 6), 30-31 (tutti con richiamo alla bibliografia precedente). Essa è ora
sostenuta con buone ragioni da A. D. Dyck, P. Clodius, Amicus Meus: Cic. Cael. 27,
«Historia», 54 (2005), 349-350: egli nota, tra l’altro, come con simile ironia Clodio è
detto vir bonus in dom. 107 (cfr. anche Dyck, Pro Caelio [cit. n. 7], 7, 102).
69. Sest. 133; Phil. 2, 17; post red. in Sen. 4 (cfr. anche 6 e 25); Att. 2, 21, 6; cfr. anche
In Cl. et Cur. 20, 4 C.; Sest. 15 (vd. anche supra, 85, a proposito di inimicus tribunus
plebei nel discorso di Cieco); della sua inimicizia con Cicerone si fa cenno anche in Cael.
94
G. PIRAS
foga oratoria qui evocata ricordo che nel passo della In Clodium et
Curionem citato poc’anzi egli è definito vehemens magister (19, 3-4
C.) e sempre in quel brano compare l’aggettivo tristis (qui si parla di
tristissimis verbis). Forse anche inflammatus potrebbe rimandare alla
frequente caratterizzazione di Clodio in connessione con l’immagine
del fuoco distruttivo70. Per quanto detto alla fine di Cicerone (aliquot
enim in causis eum videram frustra litigantem) va osservato che degli
altri quattro processi noti con Clodio come accusatore (oltre eventualmente il nostro), nei tre casi precedenti il processo contro Celio l’esito
fu sfavorevole all’accusa71. Clodio, si è già detto, come edile avrebbe
dovuto sovraintendere ai contemporanei Megalensia, cosa che secondo
Cicerone avrebbe fatto con grande scandalo, ma potrebbe essere stato
presente al processo e ai giochi dedicando un solo giorno per ognuno
degli eventi (a detta di Cicerone egli, almeno fino alla tarda primavera
del 57, non avrebbe peraltro mai assistito ai ludi: Sest. 116). La sua
partecipazione attiva al processo potrebbe gettare una luce diversa sulle
diverse menzioni dell’ex tribuno da parte di Cicerone nell’orazione, che
si caricherebbero di significato diverso e più pregnante e certamente
avrebbe un effetto ironico ancora maggiore la prosopopea di Clodio in
cui egli esorta la sorella a lasciar perdere il giovane Celio (§ 36 Confer
te alio […] cur huic qui te spernit, molesta es?, 36)72.
Anche nella In Clodium et Curionem – si è già accennato – la memoria dell’antenato è rievocata attraverso il tema della cecità, ma in maniera
meno diretta rispetto a quanto visto nella Pro Caelio. Clodio è infatti
presentato come ‘cieco’ per aver visto ciò che non era lecito vedere, i
riti femminili della Bona dea; per questo è incapace di rendersi conto
che rimproverando Cicerone per la frequenza di Baia (fr. 15; supra, 92)
32 (mihi inimicitiae cum istius mulieris viro – fratrem volui dicere, dove subito dopo si
parla di inimicitiae muliebres e si introduce il celebre gioco di parole amica-inimica su
Clodia, detta inimica anche nei §§ 34 e 55 [qui propriamente la domus]).
70. Per essa vd. F.R. Berno, Fuoco e fiamme su Cicerone: il personaggio di Clodio
nella De domo sua, «Pan», 23 (2005), 113-129: 115-118 (per inflammo in part. 118).
Lo stesso Cicerone suggerisce in Sest. 121 l’applicabilità alla distruzione della sua casa
ispirata da Clodio di un verso dell’Andromacha di Ennio da lui citato (86 R.3 = 92 J. = fr.
23 M.), haec omnia vidi inflammari (cfr. Moretti, La scena oratoria [cit. n. 6], 264-265).
71. Cfr. Alexander, Trials (cit. n. 8), nrr. 167, 212, 266, in particolare quest’ultimo
processo dello stesso anno 56; l’unico successo noto è il nr. 284 del 54.
72. R. Heinze, Ciceros Rede pro Caelio, «Hermes», 60 (1925), 193-258: 196 ritiene
invece impossibile che Cicerone avrebbe fatto pronunciare questo consiglio al personaggio di Clodio se questo fosse da identificare con il tribuno.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
95
attacca anche il suo difensore, C. Scribonio Curione, e anche un altro
illustre arpinate, C. Mario, la cui villa a Baia era appunto stata acquistata
da Curione (fr. 20, 1-4 C.), Quo loco ita fuit caecus, ut facile appareret,
vidisse eum quod fas non fuisset. Nec enim respexit illum ipsum patronum
libidinis suae non modo apud Baias esse, verum eas ipsas aquas habere,
quae <e> gustu tamen Arpinatis fuissent73.
Cicerone in discorsi di poco precedenti o successivi alla Pro Caelio
più volte ci descrive un Clodio afflitto da cecità, come in questo ultimo
frammento della In Clodium, una cecità tutta morale causata dalla sua
empietà ma spesso collegata a quella reale del suo antenato74. Lo vediamo molto chiaramente in dom. 105, dove il rapporto con gli antenati è
pure un tema rilevante e Appio Claudio è esplicitamente menzionato
con una interessante antitesi tra la cecità fisica di Cieco, che pure non
aveva visto nulla di illecito, e la cecità dell’animo che colpì Clodio per
i suoi crimini ed empietà (cfr. anche § 129 in furore animi et caecitate):
Quem umquam audisti maiorum tuorum, qui […] cum sacrificium Bonae Deae fieret interfuisse? Neminem, ne illum
quidem qui caecus est factus. Ex quo intellegitur multa in
vita falso homines opinari, cum ille, qui nihil viderat sciens
quod nefas esset, lumina amisit, istius, qui non solum aspectu
sed etiam incesto flagitio et stupro caerimonias polluit, poena
omnis oculorum ad caecitatem mentis est conversa75.
Il tema ricompare nella Pro Sestio, ille caecus atque amens tribunus
plebis (§ 1776; cfr. anche § 139) e, poco dopo la celebrazione del processo
73. Cfr. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 73-75; Crawford (cit. n. 65), 253-254.
74. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 73; Crawford (cit. n. 65), 254.
75. Per E. Narducci, Cecità degli occhi e accecamento della mente. Nota a Cicerone,
De domo 105 (con un contributo su Ovidio, fast. 6, 437-454), «RFIC», 126 (1998), 279289: 287-289 [= Cicerone e i suoi interpreti (cit. n. 2), 201-213: 210-213], il riferimento
alla cecità di Appio Claudio in questo frammento richiamerebbe la tradizione ‘negativa’
dei Claudii – vd. supra, n. 39 – e sarebbe la punizione divina per il trasferimento, o
meglio la divulgazione, dei riti del culto di Ercole presso l’ara massima al Foro Boario da
lui portato avanti durante la sua censura (cfr. in part. Liv. 9, 29, 9-11); contra Wiseman,
Clio’s Cosmetics (cit. n. 39), 108.
76. Clodio è fraternis flagitiis, sororiis stupris, omni inaudita libidine exsanguis (Sest.
16-17). Di frequente si parla della sua amentia o del suo furor; sugli epiteti ingiuriosi
rivolti a Clodio da Cicerone vd. F. Pina Polo, Cicerón contra Clodio: el lenguaje de la
invectiva, «Gerión», 9 (1991), 131-150: 144-150 (incompleto); sul furor di Clodio e l’e-
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G. PIRAS
contro Celio, in har. resp. 38, ancora a proposito della violazione dei
riti della Bona dea e ancora una volta con la cecità di Appio Claudio
contrapposta a quella, tutta mentale, di Clodio77:
Quis enim ante te sacra illa vir s c i e n s v i d e r a t [cfr.
dom. 105], ut quisquam poenam quae sequeretur id scelus
scire posset? An tibi l u m i n i s o b e s s e t c a e c i t a s
plus quam libidinis? Ne id quidem sentis, c o n i v e n t i s
i l l o s o c u l o s a b a v i t u i magis optandos fuisse quam
hos flagrantis sororis?
Si noti il riferimento alla libido di Clodio – vd. supra, n. 64 – e la
menzione degli occhi della sorella, un accenno che si spiega bene con
l’influsso dell’orazione Pro Caelio dove si parla della flagrantia oculorum
di Clodia (Cael. 49).
La tentazione del resto di utilizzare i nomi della gens Clodia per farne
parodia e scherno non ha risparmiato neanche il cognomen di Clodio: è
definito pulchellus puer nella lettera in cui Cicerone dà conto dell’altercatio in senato (Att. 1, 16, 10) e altrove semplicemente pulchellus (Att. 2,
1, 4; 2, 18, 3; 2, 22, 1)78. Sappiamo peraltro che Atratino aveva definito
Celio pulchellus Iason (RhLM, p. 124 Halm), di certo nella sua orazione
di accusa nel processo, ispirando a Cicerone la celebre assimilazione di
Clodia a Medea (Cael. 18 Palatinam Medeam, con una citazione dalla
piteto di Furia usato di frequente per lui da Cicerone vd. F.R. Berno, La Furia di Clodio
in Cicerone, «BStudLat», 37 (2007), 69-91. Sarà poi una delle caratteristiche attribuite
ad Antonio nelle Filippiche: egli è furiosior quam Clodius (Phil. 2, 1); sull’accostamento
di Antonio a Clodio e Catilina vd. R. Evans, Phantoms in the Philippics: Catiline, Clodius
and Antonian Parallels, in T. Stevenson – M. Wilson [ed. by], Cicero’s Philippics. History,
Rhetoric and Ideology, Auckland 2008, 62-81.
77. Cfr. anche dom. 26 e 48, dove Clodio (legem) caecus amentia non videbat
(cfr. J.O. Lenaghan, A Commentary on Cicero’s Oration De Haruspicum Responso, The
Hague – Paris 1969, 154-155).
78. Cfr. anche In Cl. et Cur. fr. 24 (Sed credo, postquam speculum tibi allatum est,
longo te a pulchris abesse sensisti); vd. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 79-80. Clodio è
definito invece illa populi Appuleia in Att. 4, 11, 2, con denigrazione di tipo sessuale.
Sulla scelta ricorrente nelle orazioni Post reditum, ponderata dal punto di vista retorico
e comunicativo, di non nominare espressamente Clodio vd. C. Steel, Name and Shame?
Invective against Clodius and Others in the Post-Exile Speeches, in J. Booth [ed. by],
Cicero on the Attack. Invective and Subversion in the Orations and Beyond, Swansea
2007, 105-128 (cfr. anche R.A. Kaster [ed.], Marcus Tullius Cicero, Speech on Behalf
of Publius Sestius, Translated with Introduction and Commentary, Oxford 2006, 146).
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
97
Medea exsul di Ennio). Ma è improbabile che l’uso del medesimo soprannome per i due uomini possa essere collegato in qualche modo79.
Nella Pro Sestio Cicerone dirige un attacco anche contro il fratello
maggiore di Clodio, Appio Claudio (pretore nel 57, console nel 54 e
censore nel 50)80, facendo riferimento al suo deviare dal comportamento
degli antenati con una formula che somiglia a quella della prosopopea
di Appio Claudio Cieco e, ancora una volta, sfruttando il suo nome per
scagliare le sue frecciate contro di lui. In maniera un po’ più contorta
compare anche in connessione con la Via Appia, ironica denominazione
del percorso da lui solitamente utilizzato per giungere di soppiatto a
guardare i ludi gladiatori (Sest. 126):
At vero ille praetor, qui de me n o n p a t r i s, a v i,
p r o a v i, m a i o r u m d e n i q u e s u o r u m o m n i u m,
sed Graeculorum instituto contionem interrogare solebat […]
is, cum cotidie gladiatores spectaret, numquam est conspectus
cum veniret. Emergebat subito, cum sub tabulas subrepserat,
ut ‘mater, te appello’ dicturus videretur. Itaque i l l a v i a
l a t e b r o s i o r, q u a s p e c t a t u m i l l e v e n i e b a t,
A p p i a i a m v o c a b a t u r.
La citazione introdotta da Cicerone (mater te appello) è quella del
principio dell’appello rivolto alla madre nell’Iliona di Pacuvio dal fantasma di Deifilo, il figlio di Iliona e Polimestore ucciso per errore al
posto di Polidoro (197-201 Ribbeck3 = fr. 146 Schierl; cfr. anche ac.
2,88). Il brano compare in maniera più ampia anche in Tusc. 1, 106,
dove il personaggio parlante viene presentato – nell’ambito di un lungo
79. Sulla interpretazione di questa definizione di Celio cfr. Alexander, The Case
for the Prosecution (cit. n. 37), 226-229.
80. Con lui – una figura assai controversa (Wiseman, Clio’s Cosmetics [cit. n. 39],
124-125) – Cicerone sarà in seguito in discreti rapporti, o comunque si manterrà su di
una linea di prudenza (vd. Wiseman, Clio’s Cosmetics [cit. n. 39], 107, 122; R. Schuricht,
Cicero an Appius (Cic. fam. III). Umgangsformen in einer politischen Freundschaft, Trier
1994; Kaster, Cicero Speech on Behalf [cit. n. 78], 287-288; J.-E. Bernard, Le langage
de l’amicitia dans les lettres de Cicéron à Appius Claudius, in P. Galand-Hallyn – S.
Laigneau – C. Lévy – W. Verbaal [édd.], La société des amis à Rome et dans la littérature médiévale et humaniste, Turnhout 2008, 95-112). Ci restano alcune lettere a lui
indirizzate da Cicerone: in fam. 3, 11, 5 l’oratore si congratula per la censura del 50
richiamando l’illustre antenato (Vale et in censura – si iam es censor, ut spero – de proavo
multum cogitato tuo). Vd. anche Tusc. 1, 37, cit. supra, 69.
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G. PIRAS
discorso sulla sensibilità del corpo dopo la morte – in quanto defunto
che ritorna in vita:
Ecce alius exoritur e terra, qui matrem dormire non sinat:
‘Mater, te appello, tu, quae curam somno suspensam levas,
neque te mei miseret, surge et sepeli natum –!’. Haec cum
pressis et flebilibus modis, qui totis theatris maestitiam inferant, concinuntur, difficile est non eos qui inhumati sint
miseros iudicare. ‘Prius quam ferae volucresque –’ metuit,
ne laceratis membris minus bene utatur; ne combustis, non
extimescit. ‘Neu reliquias semesas sireis [Pohlenz praeeunte
Bentley: quaeso mias sireis Ribbeck] denudatis ossibus per
terram sanie delibutas foede divexarier –’.
Nella tarda opera filosofica ricompare uno degli elementi caratterizzanti della prosopopea di Appio Claudio nella Pro Caelio: anche qui
troviamo un defunto che torna dagli inferi (Ecce alius exoritur e terra:
da confrontare con Cael. 33 aliquis mihi ab inferis excitandus est […]
Existat igitur ex hac ipsa familia aliquis) per rimproverare un congiunto
(qui matrem dormire non sinat: cfr. Cael. 33 qui obiurget mulierem) chiedendo di essere seppellito e che quel che rimane di lui non sia oggetto
di un trattamento turpe e osceno (foede divexarier). In Pacuvio il figlio
di Iliona si rivolge in sogno alla madre con tono di biasimo, con un
appello iniziale assimilabile al mulier incipitario del discorso di Appio
Claudio nella Pro Caelio81. Un indizio significativo della possibile ripresa
dell’immagine tragica nell’ideazione della prosopopea credo sia offerto
proprio dal fatto che le parole iniziali dell’apparizione spettrale pacuviana sono utilizzate da Cicerone, sebbene in contesto del tutto diverso,
per svilire un altro esponente della famiglia dei Clodi nel passo della
Pro Sestio che abbiamo appena visto (Sest. 126).
81. Sul frammento vd. B. P. Wallach, Deiphilus or Polydorus? The Ghost in Pacuvius’
Iliona, «Mnemosyne», 32 (1979), 138-160; G. Manuwald, Pacuvius’Iliona. Eine römische
Version des Polydorus-Mythos, in G. Manuwald [hrsg. von], Identität und Alterität in
der frührömischen Tragödie, Würzburg 2000, 301-314; P. Schierl, Die Tragödien des
Pacuvius, Berlin 2006, 318-319, 324-327. Sull’uso ciceroniano della citazione V. Bonsangue, Dinamiche di pathos tragico e vis comica nella Pro Sestio di Cicerone, «Pan», 21
(2003), 151-163: 159-162; L. Spahlinger, Tulliana simplicitas. Zu Form und Funktion
des Zitats in den philosophischen Dialogen Ciceros, Göttingen 2005, 163-164, 232-233.
La prosopopea di Appio Claudio Cieco
99
In quell’anno 56 l’attacco alla famiglia dei Clodii da parte di Cicerone sembra essere stato insistito, focalizzato su alcuni temi ricorrenti.
Ancora Appio Pulcro è confrontato infatti con sfavore con i suoi antenati
in har. resp. 26 a proposito dei tumulti provocati durante i Megalensia
del 56, già citati per Clodio, con l’effetto di una sorta di degradazione
dei ludi che avvicina il comportamento dei Claudii attuali a quello di
schiavi famosi piuttosto che agli illustri padre e zio di Appio Claudio,
importanti sostenitori di tali giochi:
Istius modi Megalesia fecit pater tuus, istius modi patruus? Is
mihi etiam generis sui mentionem facit, cum Athenionis aut
Spartaci exemplo ludos facere maluerit quam C. aut Appi
Claudiorum82?
Più tardi, nel 52, in un clima ancora più teso, Cicerone ancora una
volta è tornato a rovesciare sull’altro suo obiettivo preferito, Clodio, una
delle accuse rivolte alla sorella nella prosopopea. Nella Pro Milone egli
non esita a notare l’ironia tragica insita nel fatto che Clodio ha trovato
la morte presso uno dei monumenta della sua illustre famiglia83, la via
Appia (Mil. 17-18):
eo mors atrocior erit P. Clodi, quod is in monumentis maiorum
suorum sit interfectus – hoc enim ab istis saepe dicitur; proinde quasi Appius ille Caecus v i a m m u n i v e r i t, non qua
populus uteretur, sed ubi impune sui posteri latrocinarentur!
Itaque in eadem ista Appia via cum ornatissimum equitem
Romanum P. Clodius M. Papirium occidisset, non fuit illud
facinus puniendum, homo enim nobilis in suis monumentis
equitem Romanum occiderat: nunc e i u s d e m A p p i a e
n o m e n q u a n t a s t r a g o e d i a s e x c i t a t! Quae
cruentata antea caede honesti atque innocentis viri silebatur,
eadem nunc crebro usurpatur, postea quam latronis et parricidae sanguine imbuta est.
82. Per lo sconvolgimento provocato ai ludi vd. supra, 91.
83. Cfr. Geffcken, Comedy (cit. n. 5), 19 n. 2: «Cicero continued to enjoy comparing
contemporary Clodians to their illustrious ancestors».
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G. PIRAS
Evidente il richiamo al finale del discorso di Appio Claudio nella
menzione della costruzione della via Appia: quasi Appius ille Caecus
viam muniverit, non qua populus uteretur, sed ubi impune sui posteri
latrocinarentur! riprende non solo l’espressione ideo viam munivi della
Pro Caelio ma, con populus uteretur, anche l’immagine di Clodia che
percorre la via Appia accompagnata da tanti uomini, privandola però di
significato negativo (si noti anche la ripresa del verbo utor e poi anche
l’espressione eadem nunc crebro usurpatur). A ciò si unisce l’ironia sulla
vanagloria della famiglia dei Claudi (hoc enim ab istis saepe dicitur), con
un richiamo anche alla nota arroganza familiare di stampo nobiliare
(per cui cfr. Tac. ann. 1, 4 vetere et insita Claudiae familiae superbia):
nel passo si sottolinea infatti che Clodio aveva ucciso un cavaliere senza
subire alcuna punizione (in Cael. 4 Cicerone criticava gli accusatori per
aver menzionato la condizione equestre del padre di Celio alla stregua
di un crimen). Nel brano della Pro Milone Clodio è ironicamente definito homo nobilis, una definizione che possiamo accostare alla celebre
battuta rivolta a Clodia in Cael. 31 (Clodia, muliere non solum nobili
verum etiam nota), riecheggiata dallo stesso Clodio quando si rivolge
a lei con l’appellativo di nobilis mulier (36). L’uso del verbo excitare a
proposito delle tante tragedie provocate dalla Via Appia ricorda inoltre
la terminologia usata per la rievocazione di Appio Claudio (vd. supra,
69). Nella Pro Milone il verbo e l’immagine del richiamo in vita dei
morti saranno usate del resto più avanti anche a proposito dello stesso
Clodio: si ipse Cn. Pompeius […] potuisset […] ipsum ab inferis excitare
(79), Excitate, excitate ipsum, si potestis, a mortuis (90)84. Ma nel brano
della prima parte dell’orazione che abbiamo citato per esteso excitare è
collegato esplicitamente alla teatralità (quantas tragoedias excitat), come
nell’immagine di Deifilo dell’Iliona di Pacuvio presente nelle Tusculanae. Cicerone non ha saputo resistere dal recuperare qualche elemento
della sua decennale propaganda anticlodiana anche in morte del suo
acerrimo nemico.
84. Cfr. Dufallo, The Ghosts (cit. n. 6), 30-34.