Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

Il lancio dell'Operation Cyclone: l'amministrazione Carter e l'Afghanistan

L'obbiettivo della mia tesi è quello di dimostrare il contrasto tra i “due volti” di Carter, illustrando il passaggio da una politica estera incentrata sulla tutela dei diritti umani nel mondo, al ripristino della priorità di un anticomunismo tipico dell'epoca del contenimento in seguito all'ingresso dell'Armata Rossa in Afghanistan. Inoltre, nello specifico, ho voluto sottolineare come l'Operation Cyclone non sia stata ideata da Reagan e dal suo direttore della CIA, William Casey, bensì dall'amministrazione democratica di Carter. Casey, che voleva “farla pagare ai russi in Afghanistan”, trovò quindi delle solide fondamenta su cui costruire la vendetta statunitense. Durante la stesura, oltre agli studi già esistenti riguardanti la politica estera di Carter e l'Operation Cyclone, ho consultato una varietà di fonti di diversa provenienza. Si sono dimostrate importanti le memorie dei protagonisti dell'amministrazione Carter, tra cui quelle dello stesso ex presidente, di Brzezinski e di Robert Gates (che sotto Carter ebbe prima un ruolo nella NSA, ed in seguito nella CIA). Meno significative si sono, invece, rivelate le memorie del segretario di Stato Cyrus Vance, probabilmente per il suo minor coinvolgimento nell'Operation Cyclone. Fondamentali per accedere ai documenti desecretati, originali o trascritti, sono state soprattutto alcune raccolte di fonti consultabili online come il sito del materiale archivistico dalla CIA reso pubblico dalla National Security Agency (NSA), il Digital National Security Archive della George Washington University.e il Cold War International History Project del Woodrow Wilson Center di Washington, DC. I discorsi e gli interventi di Carter sono stati visionati attraverso The American President Project della University of California at Santa Barbara. La mia tesi è suddivisa in quattro capitoli: 1)Gli Stati Uniti all'angolo: lo shock del Vietnam, lo scandalo Watergate e la speranza Carter; 2)La tutela dei diritti umani all'opera: Carter e il tentativo di svolta nella politica estera; 3)“The situation is bad and is getting worse”. Dall'ascesa del comunismo afghano all'invasione sovietica; 4)“[T]his is Cold War in most classic, extreme form”. Carter di fronte all'invasione sovietica dell'Afghanistan

Scuola di Studi Umanistici e della Formazione Dipartimento SAGAS Corso di laurea in Storia Il lancio dell'Operation Cyclone: l'amministrazione Carter e l'Afghanistan Relatore: Prof. Stefano Luconi Candidato: Gabriele Magnolfi N° matricola 5085160 Correlatrice: Prof.ssa Monica Galfré anno accademico 2013-2014 INDICE Elenco delle abbreviazioni ………………………………………….1 Introduzione …………………………………………………………3 Gli Stati Uniti all'angolo: lo shock del Vietnam, lo scandalo Watergate e la speranza Carter........................................................10 La tutela dei diritti umani all'opera: Carter e il tentativo di svolta nella politica estera ..........................................................................25 “The situation is bad and is getting worse”. Dall'ascesa del comunismo afghano all'invasione sovietica………………………37 “[T]his is Cold War in most classic, extreme form”. Carter di fronte all'invasione sovietica dell'Afghanistan……………………..55 Conclusioni…………………………………………………………78 Bibliografia…………………………………………………………87 Elenco delle abbreviazioni ACDA = Arms Control and Disarmament Agency CC = Comitato Centrale CIA = Central Intelligence Agency CUSLAR = Commission on United States-Latin American Relations DCI = Director of Central Intelligence FBI = Federal Bureau of Investigation FSLN = Frente Sandinista de Liberación Nacional ISI = Inter-Services Intelligence KGB = Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (servizi segreti russi) LRA = Lord's Resistance Army MFN = Most Favored Nation MPLA = Movement for the Liberation of Angola NATO = (North Atlantic Treaty Organization) NFLA = National Front for the Liberation of Angola NPT = Non-Proliferation Treaty NSA = National Security Agency NSC = National Security Council PCUS = partito comunista dell’Unione Sovietica PD = Presidential Directive PDPA = Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan RDF = Rapid Deployment Force 1 SALT = Strategic Arms Limitation Talks SCC = Special Coordination Committee SPLA = People's Liberation Army UNITA = National Union for the Total Independence of Angola URSS = Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ZANU = Zimbabwe African National Union ZAPU = Zimbabwe African Peoples Union 2 Introduzione Nel terminare il suo studio sulla politica estera dell'amministrazione di Jimmy Carter, Scott Kaufman affronta i limiti interni ed esterni affrontati dall'ex presidente democratico: “every president faces such limits. A successful president, though, understands those limitations and then finds a way to work within them, if not take advantage of them. That was not Jimmy Carter”1. Mario del Pero attribuisce alla politica estera di Carter un ruolo non secondario nella percezione di “malessere di cui soffriva il paese” al termine degli anni Settanta 2. Raymond Garthoff, a proposito dell'eredità dell'amministrazione Carter, parla di “a hollow aspiration to renew détente that coexisted uneasily with a failed policy keyed to compelling the Soviet Union to withdraw from Afghanistan. The new administration, however, speedily brushed aside both” 3. Questi sono solo alcuni dei numerosi giudizi negativi forniti dagli storici sull'operato in politica estera di Carter. Negli studi che ho consultato per la stesura della mia tesi spesso mi sono reso conto di come l'approccio di Carter venga molte volte condannato come debole ed inefficace, soprattutto se paragonato a quello del suo successore Ronald Reagan. 1 Scott Kaufman, Plans Unraveled. The Foreign Policy of the Carter Administration, DeKalb, Northern Illinois University Press, 2008, p. 241. 2 Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 375. 3 Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation, American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington, D.C, The Brooking Institution, 1985, p. 1008. 3 Le critiche sulla conduzione della politica estera di Carter sono spesso condivisibili. Ma per quanto riguarda la debolezza delle sue scelte è importante considerare anche un aspetto che solo dalla fine del Novecento ha iniziato ad assumere importanza e rilevanza negli studi sull'ex presidente democratico: l'avvio da parte di Carter di una delle operazioni segrete più costose della storia statunitense, l'Operation Cyclone. Come vedremo, la mia trattazione sottolineerà il ruolo di Carter in questa dispendiosa manovra della Central Intelligence Agency (CIA) finanziata dagli Stati Uniti, finalizzata a contrastare l'invasione sovietica dell'Afghanistan avvenuta nel 1979. L'incidenza di Carter sull'andamento dell'Operation Cyclone è rimasta in buona parte sconosciuta fino alla metà degli anni Novanta, quando salì agli onori della cronaca in seguito alla pubblicazione delle memorie di Robert Gates, che durante l’amministrazione Carter fu prima uno dei membri del Consiglio di sicurezza nazionale (guidato da Zbigniew Brzezinski) e successivamente direttore dell’ufficio per le ricerche strategiche della CIA. In queste volume Gates ha fatto presente come l'amministrazione Carter avesse iniziato a dare appoggio ai ribelli afghani ben prima dell'intervento dell'Armata Rossa4. Dalla fine del Novecento ad oggi sono stati pubblicati numerosi studi riguardanti l'Operation Cyclone, in particolare in seguito all’intervento militare statunitense in Afghanistan del 2001, in risposta agli attentati terroristici dell'11 settembre al World Trade Center ed al Pentagono. La necessità di ricostruire un antefatto di questi avvenimenti ha spinto la ricerca storica ad approfondire ulteriormente le relazioni degli Stati Uniti con il piccolo stato afghano. La mole di 4 Robert M. Gates, From the Shadows. The Ultimate Insider’s Story of Five Presidents and How They Won the Cold War, New York, Simon & Schuster, 2006. 4 documenti desecretati negli ultimi anni, sia negli archivi americani che dell'ex Unione Sovietica (l'attuale Federazione Russa), ha permesso agli storici una ricostruzione maggiormente dettagliata e una valutazione più accurata delle dinamiche dell'invasione dell'Afghanistan e della reazione di Carter con l'Operation Cyclone. In questo contesto storiografico si colloca il mio elaborato. In particolare, l'obbiettivo della mia tesi è quello di dimostrare il contrasto tra i “due volti” di Carter, illustrando il passaggio da una politica estera incentrata sulla tutela dei diritti umani nel mondo, al ripristino della priorità di un anticomunismo tipico dell'epoca del contenimento in seguito all'ingresso dell'Armata Rossa in Afghanistan. Inoltre, nello specifico, ho voluto sottolineare come l'Operation Cyclone non sia stata ideata da Reagan e dal suo direttore della CIA, William Casey, bensì dall'amministrazione democratica di Carter. Casey, che voleva “farla pagare ai russi in Afghanistan”5, trovò quindi delle solide fondamenta su cui costruire la vendetta statunitense. Oltre alla disamina dell'importanza delle iniziative di Carter sulla condotta e gli esiti dell'Operation Cyclone, è tutt'ora vivo tra gli studiosi un dibattito sull'impatto della politica a favore della difesa dei diritti umani che fu intrapresa dall'ex presidente. Soprattutto viene considerato il peso che questo sostegno potrebbe aver avuto sul crollo dell'Unione Sovietica. Gates non esita a dare peso al “Jimmy Carter's contribution to the collpase of the Soviet Union and the end of the Cold War”6. La ricerca storica odierna sta tuttavia concentrando la sua 5 George Crile, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La guerra segreta del deputato Wilson, il Saggiatore, Milano, 2005, p. 122. 6 Gates, From the Shadows, cit., p. 176. 5 attenzione in maniera crescente sulle cause interne del tramonto sovietico7. L'impossibilità di trattare nel complesso i “too many projects” 8 di politica estera affrontati da Carter durante il suo mandato in uno spazio relativamente ristretto mi ha costretto a selezionare solo quelli che mi sono apparsi più significativi ed utili allo sviluppo della mia tesi. Durante la mia stesura, oltre agli studi già esistenti riguardanti la politica estera di Carter e l'Operation Cyclone, ho consultato una varietà di fonti di diversa provenienza. Si sono dimostrate importanti le memorie dei protagonisti dell'amministrazione Carter, tra cui quelle dello stesso ex presidente, di Brzezinski e di Gates 9. Meno significative si sono, invece, rivelate le memorie del segretario di Stato Cyrus Vance, probabilmente per il suo minor coinvolgimento nell'Operation Cyclone10. Fondamentali per accedere ai documenti desecretati, originali o trascritti, sono state soprattutto alcune raccolte di fonti consultabili online come il sito del materiale archivistico dalla CIA reso pubblico dalla National Security Agency (NSA), il Digital National Security Archive della George Washington University.e il Cold War International History Project del Woodrow Wilson Center di Washington, DC. I discorsi e gli interventi di Carter sono stati visionati attraverso The American President Project della University of California at Santa Barbara. La mia tesi è suddivisa in quattro capitoli. Nel primo capitolo viene fornito un quadro della situazione statunitense dall'inizio degli anni Settanta fino all'elezione di Carter. In particolare viene evidenziata la crisi di fiducia che stava 7 8 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 236. Jimmy Carter, Keeping Faith. Memoirs of a President, New York, Bantam Books, 1982, p. 143. 9 Carter, Keeping Faith, cit.; Zbigniew Brzezinski, Power and Principle: Memoirs of the National Security Adviser. 1977-1981, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1983; Gates, From the Shadows, cit. 10 Cyrus Roberts Vance, Hard choices: Critical Years in America's Foreign Policy, New York, Simon & Schuster, 1983. 6 attraversando l’opinione pubblica americana, causata in buona parte dalle vicende del Vietnam e del Watergate. In questo clima l’ex governatore della Georgia si presentò come un “redentore” estraneo all’establishment di Washington. Nella sua campagna elettorale Carter promise di riabilitare una politica estera troppo a lungo subordinata al bisogno di contrastare il comunismo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi punto del mondo, asserendo la necessità di collocare la salvaguardia dei diritti umani al centro dell’orientamento di Washington in campo internazionale. Nel secondo capitolo ho illustrato la volontà del presidente Carter di dare un seguito pratico alle sue dichiarazioni da candidato, mostrando nello specifico il comportamento statunitense nei confronti delle situazioni presenti in Nicaragua, Grenada e Rhodesia nel primo triennio della sua amministrazione. Ho affrontato anche la questione delle relazioni tra Washington e Mosca nel medesimo periodo, soffermandomi in particolare sulla difficoltà di coniugare un proficuo dialogo volto al raggiungimento di un nuovo accordo per la limitazione degli armamenti, nell’ambito delle Strategic Arms Limitation Talks (SALT II), con la critica di Carter sulle violazioni di diritti umani perpetrata dal Cremlino verso i propri cittadini. Nel terzo capitolo ho tracciato una panoramica della situazione in Afghanistan precedente all'invasione sovietica, in cui ho elencato anche le peculiarità del piccolo paese. Ho descritto lo sviluppo degli eventi in seguito alla rivoluzione che portò al potere il Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan (PDPA) ed il successivo deterioramento delle sue relazioni con Mosca che indusse infine il Cremlino ad optare per l'intervento. Ho ricostruito altresì come i media statunitense percepirono la presunta inattività statunitense di fronte al colpo di 7 Stato che aveva insediato i comunisti al governo Kabul, soffermandomi su come tali impressioni siano smentite nella realtà dalla constatazione che Carter aveva approvato un programma di aiuti ai ribelli afghani già nell'aprile 1979. Nell'ultimo capitolo della mia tesi ho affrontato la risposta di Carter all'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'inizio e lo svolgimento dell'Operation Cyclone e la Dottrina enunciata dal presidente. Ho illustrato in particolare le cifre dell'operazione segreta della CIA, il suo andamento nel tempo ed alcuni dei suoi attori principali. Ho riscontrato le maggiori difficoltà proprio nel reperire dati precisi ed affidabili riferiti alla conduzione dell'Operation Cyclone nell'ultimo anno del mandato di Carter. In questo ambito si sono rivelati molto utili gli studi di George Crile, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La guerra segreta del deputato Wilson; di Steve Coll, La guerra segreta della CIA. L'America, l'Afghanistan e Bin Laden dall'invasione sovietica al 10 settembre 2001, e di Peter Dale Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of America11. In questa parte ho ricostruito anche l’atteggiamento del Cremlino di fronte all'andamento dell’intervento sovietico e le prime informazioni pervenute a Mosca sull'appoggio ai ribelli afghani da parte di forze esterne al Paese. Nelle considerazioni finali ho inserito alcune considerazioni sui caratteri di continuità e discontinuità della politica di Carter con quella della successiva amministrazione Reagan, passando poi ad analizzare le conseguenze dell'Operation Cyclone nel lungo periodo e la loro influenza sul risentimento islamico verso Washington sorto nella parte finale del secolo scorso. Ho tracciato 11 Crile, Il nemico del mio nemico, cit.; Steve Coll, La guerra segreta della CIA. L’America, l’Afghanistan e Bin Laden dall’invasione sovietica al 10 settembre 2001,Milano, BUR Storia, 2008; Peter Dale Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of America, Berkeley, University of California Press, 2007. 8 infine una sintesi sull'impegno di Carter in favore della salvaguardia dei diritti umani nel mondo in seguito al termine del suo mandato come presidente. 9 Gli Stati Uniti all’angolo: lo shock del Vietnam, lo scandalo Watergate e la speranza Carter Nel suo discorso all’università di Notre Dame del 22 maggio 1977 Jimmy Carter parlò di una “profound moral crisis” e di una “crisis of confidence” mondiale verso il modello americano, generata dalla guerra del Vietnam1. La caduta di Saigon del 30 aprile 1975 fu senza dubbio un evento drammatico e cruciale per l’opinione pubblica statunitense e del mondo occidentale in generale. La confusionaria evacuazione degli ultimi funzionari americani e delle loro famiglie dalla capitale sud-vietnamita raffigurò bene l’immagine di un paese in confusione, un paese che stava faticando a ritrovare un’identità, un paese e, soprattutto, un popolo stanco. Perché questo non fu l’unico evento cruciale della prima metà degli anni ’70 che andò ad intaccare la fiducia statunitense, ma solo l’ultimo e forse il più clamoroso. Circa tre anni prima, infatti, precisamente la notte del 17 giugno 1972, ebbe inizio in sordina quello che fu considerato (ed è considerato ancora oggi) uno dei momenti più oscuri della storia americana. Cinque scassinatori furono arrestati nel complesso edilizio del Watergate di Washington, colti in flagrante all’interno di quella che era la sede del comitato nazionale democratico. L’avvenimento fu riportato l’indomani sul “Washington Post” ma non ebbe immediatamente un grande impatto sul pubblico, come dimostrò la trionfale rielezione (61% dei voti 1 Jimmy Carter, Address at Commencement Exercises at the University, University of Notre Dame, 22 maggio 1977, in The American Presidency Project http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7552, consultato il 18 aprile 2014. 10 popolari) di Richard Nixon, ai danni di un poco convincente candidato democratico George McGovern. Se la gravità del fatto non fu percepita subito dagli elettori, preoccupò invece immediatamente il direttore della Central Intelligence Agency (CIA) Richard Helms, non perché la CIA fosse stata direttamente coinvolta, ma perché le conseguenze del Watergate non tardarono ad arrivare a Langley. I successivi tentativi di Helms di tenere lontana l’agenzia dallo scandalo portarono solamente ad una sostituzione al vertice della CIA decisa da Nixon, con James Schlesinger che salì al comando, “un suo [del presidente] uomo”2. Seguì un periodo molto duro per la CIA che si trovò a fronteggiare internamente l’ostilità del presidente ed il licenziamento di più di mille e cinquecento dipendenti da parte del nuovo impopolare Director of Central Intelligence (DCI), ed esternamente la sete di verità e trasparenza dei cittadini statunitensi. Spiati per anni (particolarmente durante l’ultima amministrazione) dall’Agenzia, dalla National Security Agency (NSA) e dal Federal Bureau of Investigation (FBI), trovarono un alleato in un Congresso deciso a portare a galla gli scheletri nell’armadio della CIA e a riacquisire forza nella politica nazionale, a scapito del potere esecutivo. Le indagini su ciò che era accaduto al Watergate Complex continuarono, e i tentativi di Nixon di insabbiare l’inchiesta con l’aiuto dell’FBI non ebbero altro esito se non quello di portare la Camera dei Rappresentanti a formulare una richiesta di impeachment per il presidente nella primavera del 1974, con le accuse di abuso di potere ed ostacolo al Congresso. 2 Tim Weiner, CIA, Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, BUR Storia, Milano, 2010, p. 312. 11 Robert Gates (futuro direttore CIA) entrato a far parte del National Security Council (NSC), ricorda del suo arrivo alla Casa Bianca l’8 luglio 1974: “by the time I arrived, Nixon and his Presidency were zombies and the atmosphere at the White House was funereal” 3. Esattamente un mese dopo il presidente rassegnò le proprie dimissioni, lasciando la presidenza al vice presidente Gerald Ford. La “sindrome del Vietnam” complicò la posizione internazionale degli Stati Uniti, paralizzandone la politica estera, e galvanizzando l’Unione Sovietica. Questa situazione si manifestò in maniera eclatante in Angola, dove il processo di indipendenza dal Portogallo aveva portato allo scontro per il potere tre fazioni locali: il Movement for the Liberation of Angola (MPLA), guidato da Agostinho Neto e appoggiato da URSS e Cuba; il National Front for the Liberation of Angola (NFLA) con a capo Holden Roberto e il supporto di Stati Uniti e Cina; e la National Union for the Total Independence of Angola (UNITA) di Jonas Savimbi, che ebbe relazioni con la Repubblica Popolare Cinese ed il Sud Africa. Nell’ottobre 1974 i sovietici alzarono il loro grado di coinvolgimento, fornendo armi alla MPLA ed addestrandone poi le truppe in Unione Sovietica nel dicembre dello stesso anno. Ad inizio del 1975 la CIA decise di non restare a guardare, e chiese un modesto appoggio per la NFLA alla Casa Bianca, ottenendo dopo attente valutazioni una cifra iniziale di soli 300.000 dollari (significativa della paura d’esporsi statunitense è l’attenzione nel concedere una cifra relativamente bassa). Nel frattempo l’MPLA chiese ed ottenne ulteriori armamenti dai sovietici, e in maggio iniziarono ad arrivare mercenari e truppe regolari cubane. A questo punto Kissinger prese la situazione in mano, spingendo fortemente per aiuti più 3 Robert M.Gates, From the Shadows, cit., p. 53. 12 incisivi a NFLA e UNITA, che furono approvati dal presidente Ford in luglio, con l’invio di armi che partì entro fine mese. Il successivo invio in Angola da parte di Cuba di circa 4.000 truppe spinse il DCI Colby a richiedere nuovi fondi (impossibilitato a trovarli nelle casse della CIA) al Congresso. Tale fatto causò l’irritazione dei componenti di quest’ultimo, riluttanti a rischiare di trascinare gli Stati Uniti in un altro Vietnam. Il 19 dicembre 1975 fu approvato l’emendamento del senatore Dick Clark che chiuse la covert operation in Angola4 lasciando così senza sostegni finanziari l’NFLA e l’UNITA e spingendo il governo amico sudafricano a ritirare i propri soldati intervenuti contro l’MPLA. Il fallimento in Angola, con l’MPLA oramai al potere nella primavera del 1976 causò criticismo verso gli Stati Uniti, che apparvero deboli nell’imporre la loro influenza sui paesi del Terzo Mondo (debolezza che verrà attaccata sia internamente dalla destra repubblicana, che esternamente dalla Cina) e danneggiarono le relazioni con il Sudafrica5. Inoltre un ottimismo senza precedenti prese piede in Unione Sovietica per il “proprio” successo in Angola6. Con il paese in uno dei suoi momenti più delicati, il governatore della Georgia James “Jimmy” Earl Carter Jr. annunciò la sua candidatura alle presidenziali nel dicembre del 1974. Per la nomination democratica sfidò il più esperto Henry Jackson, senatore dello Stato di Washington. Esponente dell’ala neoconservatrice, Jackson aveva tentato di ottenere la candidatura democratica già alle presidenziali del 1972, ma fu sconfitto da McGovern. I neoconservatori furono tra i più accesi contestatori della distensione promossa da Kissinger e 4 5 Ivi, pp. 65-68. Odd Arne Westad, The Global Cold War, New York, Cambridge University Press, 2005, p. 237. 6 Ivi, p. 241. 13 Nixon, paragonata ad una “new form of appeasement”7, critica che raggiunse il suo apice nell’opposizione ai trattati Strategic Arms Limitation Talks (SALT): “This country has not prevailed for two hundred years,” proclamò Jackson nel 1975, “only to have its chief foreign policy spokesman side with the Soviet rulers against the American commitment to freedom”8. I neoconservatori, guidati da un rinnovato nazionalismo e da un anti-comunismo tipico degli albori della guerra fredda, invitarono a diffidare del nemico sovietico. Jackson espresse la convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati sarebbe potuta dipendere solo da “a margin of advantage in nuclear power for the peace-keepers over the peace-upsetters”9. Anche Carter durante la sua campagna elettorale criticò alcune decisioni di politica estera delle ultime amministrazioni, non riguardo ai rapporti USA-URSS come aveva fatto Jackson, ma piuttosto in riferimento alla scarsa attenzione per i diritti umani delle recenti amministrazioni statunitensi. Troppo spesso esse avevano stretto alleanze con regimi anticomunisti senza considerare il loro impegno nel garantire i basilari diritti umani dei loro cittadini. La speranza di Carter fu quella di riportare gli Stati Uniti ad essere nuovamente l’esempio giusto per il mondo libero, come si desume dalla sua autobiografia, dove parla del proprio sogno al momento della candidatura: That this country set a standard within the community of nations of courage, compassion, integrity, and dedication to basic human rights.10 7 Mario Del Pero, The Eccentric Realistic. Henry Kissinger and the Shaping of American Foreign Policy, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2010, p. 8. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 122. 10 Carter, Keeping Faith, cit., p. 143. 14 Da questa speranza si evince molto bene l’idealismo di Carter. Georgiano di solidi valori morali e profondamente religioso, svolse il servizio militare in marina dal 1942 al 1953, dove acquisì numerose conoscenze e diventò un qualificato ingegnere nucleare11. Dopo la morte del padre nel 1953 si dedicò con successo all’attività di famiglia (coltivazione di arachidi) riportandola al benessere finanziario. Quindi nel 1962 prese la decisione di entrare in politica, ottenendo un posto nel senato statale della Georgia. Quattro anni dopo si candidò per la carica di governatore senza successo, ma tentò nuovamente nel ’70 e raggiunse il suo obbiettivo. La decisione di candidarsi per la presidenza venne in un momento ideale per Carter, quando il suo linguaggio profetico e millenaristico 12, focalizzato sull’importanza dei valori morali, stridette fortemente con l’indesiderato lascito della potenza amorale13 di Henry Kissinger e Nixon. Il richiamo ai diritti umani era già stato portato all’attenzione del pubblico statunitense dai neoconservatori nell’ambito delle discussioni sul Trade Reform Act, iniziate nel 1973, mirante ad espandere le prerogative presidenziali sulle negoziazioni riguardo alle riduzioni di tariffe e alle concessioni commerciali. Tuttavia l’aspetto che scatenò l’opposizione dei neoconservatori fu lo status di Most Favored Nation (MFN) che la legge avrebbe garantito all’Unione Sovietica. Jackson sottolineò il “traditional [American] commitment to individual liberty” 14 un impegno rafforzato ulteriormente dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite, ed un impegno che avrebbe impedito 11 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 12. Mario Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 368. 13 Ivi, p. 354. 14 Del Pero, The Eccentric Realistic, cit., p. 138. 12 15 l’accesso allo status di nazione favorita a quei paesi ad economia non di mercato che stavano ostacolando l’emigrazione dei propri cittadini. Jackson godeva dell’appoggio delle organizzazioni ebraiche statunitensi, e sebbene nella proposta non fosse stato presente un esplicito rimando alla situazione degli ebrei in URSS, impossibilitati ad emigrare, appare scontato un riferimento implicito a questo tema. Con la proposta, che si trasformò nell’emendamento Jackson-Vanik, si aprirono due dilemmi che sarebbero riapparsi con forza nella futura amministrazione Carter: da una parte come mantenere un equilibrio tra difesa degli interessi nazionali e impegno verso i diritti umani; dall’altra come evitare di irritare la leadership sovietica (che espresse disappunto per l’emendamento) su ciò che loro considerarono come interferenze nella loro politica interna, ovvero l’insistenza sui diritti dell’uomo. Un fattore ulteriore decisamente importante per la candidatura di Carter fu che si presentò come un estraneo a Washington, “An Outsider in Washington” 15 come non esita a definirsi nella sua autobiografia, dunque solo uno spettatore lontano dei recenti scandali della politica statunitense. Questa era una “dote” che il senatore Jackson non possedeva, e che si rivelò fondamentale per la netta vittoria del governatore della Georgia. Carter accettò la nomination alla convention democratica del luglio 1976 ribadendo la necessità di una svolta e di un ritorno negli Stati Uniti della fedeltà ai principi delle origini: We want to have faith again. We want to be proud again. We just want the truth again.[…] America's birth opened a new chapter in mankind's history. Ours was the first nation to dedicate itself clearly to basic moral and philosophical 15 Carter, Keeping Faith, cit., p. 63. 16 principles [...]two hundred years later, we must address ourselves to that role, both in what we do at home and how we act abroad among people everywhere.16 Il presidente Ford nel frattempo ottenne la nomination repubblicana, dopo aver combattuto e sconfitto (non senza difficoltà) l’ex governatore della California Ronald Reagan. Debole e privo di legittimazione elettorale 17 dette un duro colpo alle proprie speranze di elezione con la decisione di concedere il perdono a Nixon. Nelle elezioni del 1976, con la ferita del Vietnam sempre aperta, la politica estera si presentò ovviamente al centro dei dibattiti elettorali. La maggior parte delle conoscenze del candidato democratico su questo tema furono acquisite nella sua esperienza come membro della Commissione Trilaterale, fondata da David Rockefeller nel 1973 e diretta da Zbigniew Brzezinski, con lo scopo di rafforzare l’interdipendenza mondiale in maniera pacifica sotto l’iniziativa di Stati Uniti, Canada, dei paesi dell’Europa occidentale e del Giappone. Leggendo i rapporti della Commissione, Carter plasmò buona parte delle sue idee di politica estera. Intrecciando l’enfasi sulla moralità con il discorso sui diritti umani, caposaldo della sua idea di conduzione della politica estera, il futuro presidente degli Stati Uniti dichiarò di voler uscire dai vincoli della visione Est-Ovest, una visione che troppo spesso in passato aveva spinto ad abbracciare regimi autoritari, purché non comunisti. Carter promise un impegno indirizzato a fornire aiuti e solidarietà a quei paesi le cui politiche sui principali diritti e sulle principali libertà dell’uomo (definite in base a testi fondamentali come la Dichiarazione universale 16 Jimmy Carter, "Our Nation's Past and Future": Address Accepting the Presidential Nomination at the Democratic National Convention, New York City, 15 luglio 1976, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=25953, consultato il 28 aprile 2014. 17 Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 367. 17 dei diritti dell’uomo, o come i recenti accordi di Helsinki del 1975) sarebbero state allineate agli standard statunitensi. L’intento del candidato fu quello di riabilitare una politica estera statunitense che per troppo tempo era stata subordinata alla paura dell’espansione del comunismo. Questo atteggiamento aveva portato troppo spesso a fornire aiuti a paesi con politiche repressive in materia di diritti civili, contrastando invece personaggi sgraditi a Washington anche con mezzi poco convenzionali, come avrebbe dimostrato Alleged Assassination Plots Against Foreign Leaders, il rapporto della Commissione Church. La commissione guidata da Frank Church, senatore democratico dello Stato dell’Idaho, fu incaricata in seguito ai recenti sconvolgimenti del sud-est asiatico e del Watergate, di indagare sulle operazioni della CIA,. Il risultato fu il rapporto che confermò i tentativi di assassinio di Patrice Lumumba e di Fidel Castro da parte della CIA, ma non si giunse ad affermare un diretto coinvolgimento dei presidenti statunitensi o dei loro collaboratori, sebbene risultasse chiaro che l’Agenzia non avrebbe mai agito di propria iniziativa18. Le conseguenze di queste investigazioni furono un (ulteriore) duro colpo sia per la CIA, sia per il governo degli Stati Uniti, che sembrava oramai interessato esclusivamente a fermare l’avanzata sovietica, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Carter pensò dunque di poter recuperare la credibilità statunitense in patria e all’estero, sostituendo al criterio dell’ “anticomunismo”, considerato dai più oramai sorpassato e dannoso, un enfasi sui diritti umani che avrebbe rispecchiato gli antichi valori delle origini e che soprattutto avrebbe preso le distanze dai compromessi e dai “patti col diavolo” tipici del periodo Nixoniano/Kissingeriano. 18 John Ranelagh, The Agency. The Rise & Decline of the CIA, Dunton Green, Sevenoaks, UK, Sceptre, 1986, pp. 595-596. 18 Per contribuire alla sicurezza globale, Carter sottolineò con forza la necessità di limitare produzione e trasferimento di armi convenzionali e, soprattutto, di porre un freno alla proliferazione nucleare. Su questo punto senza dubbio sarebbe stato necessario continuare ed approfondire la distensione con l’Unione Sovietica, proseguendo sulla strada che già aveva portato alla firma del Non-Proliferation Treaty (NPT) nel 1968 e degli accordi SALT nel 1972. Proprio su questo argomento si nota la nascita di una delle prime fondamentali contraddizioni della futura amministrazione Carter: sarebbe stato possibile approfondire il dialogo con l’URSS, un paese nella quale le violazioni dei diritti umani erano all’ordine del giorno, e allo stesso tempo perseguire con coerenza una politica estera volta alla promozione globale delle libertà e dei diritti dell’uomo? Lo stesso candidato democratico non contribuì a fare chiarezza, denunciando le violazioni degli accordi di Helsinki da parte sovietica ed esprimendo allo stesso tempo il suo desiderio di cooperare sempre più con l’Unione Sovietica sui grandi problemi globali (riduzione degli armamenti nucleari su tutti)19. Questo suo “doppio messaggio” da una parte creò confusione tra gli elettori, e dall’altra avrebbe creato problemi alla sua amministrazione sin dal giorno del suo insediamento20. Quello che senza dubbio Carter lasciò capire dai suoi discorsi fu che il governo degli Stati Uniti sotto la sua guida non avrebbe interferito negli affari interni di altri paesi né per mano della CIA né di altre organizzazioni, tolta l’eccezione di una “ovvia minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti o della sua gente”21. Il futuro presidente sostenne che avrebbe piuttosto 19 Gaddis Smith, Morality, Reason & Power. American Diplomacy in the Carter Years, New York, Hill and Wang, 1987, pp. 30-31. 20 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 16. 21 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 30. 19 perseguito con coerenza una politica estera guidata dai diritti umani e non da una visione degli avvenimenti esteri come espressioni dello scontro con l’URSS, come accaduto con l’intervento nel sud-est asiatico. Nelle elezioni di novembre Carter sconfisse Ford con un margine risicato, e nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 1977 ribadì con forza aspetti che già aveva sottolineato da candidato: The American dream endures. We must once again have full faith in our country and in one another. […] Our commitment to human rights must be absolute.[…] Our Nation can be strong abroad only if it is strong at home.22 Dopo aver annunciato alla nazione l’impegno assoluto della sua amministrazione per la tutela dei diritti umani, invitò gli altri paesi a fare lo stesso, con l’intento non di “intimidire”, ma di instaurare corsie preferenziali con quei paesi più in linea con gli standard statunitensi. In chiusura di discorso lanciò poi la sua profetica visione di un cammino verso un mondo pacifico, libero da armamenti nucleari e con sempre meno armamenti convenzionali, un cammino che sarebbe potuto essere efficace solo se condiviso dal mondo intero (anche se non specificato nel discorso, fu chiaro l’invito in particolare all’Unione Sovietica)23. La particolare situazione in cui si trovarono gli Stati Uniti all’epoca giocò un ruolo determinante per la vittoria di Carter, che con i suoi propositi portò speranza al pubblico statunitense dopo gli esiti di una guerra impopolare 22 Jimmy Carter, Inaugural Address, Washington, 20 gennaio 1977, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=6575, consultato il 14 aprile 2014. 23 Ibidem. 20 (Vietnam) dalla quale gli statunitensi uscirono a testa bassa e sconfitti, e ad un popolo sempre più consapevole dei grossi rischi di una sfrenata corsa agli armamenti, soprattutto nucleari. In campagna elettorale questo contesto, unito all’estraneità di Carter a Washington, costituì un vantaggio per Carter, ma una volta giunto al potere la situazione si capovolse. Da una parte l’inesperienza sarebbe stata messa alla prova dai processi decisionali, dai giochi di potere interni alla Casa Bianca e da un Congresso con cui non avrebbe saputo gestire quel gioco di “give-and-take”24 fondamentale per non paralizzare le future iniziative di politica estera; mentre dall’altra il trauma del Vietnam avrebbe richiesto un attento bilanciamento di una politica estera che voleva essere diretta alla salvaguardia dei diritti umani, ma che asseriva di non voler interferire con gli affari interni degli altri paesi. Per fronteggiare queste sfide Carter scelse due importanti protagonisti ad affiancarlo (oltre ad assegnare il ruolo di vicepresidente al fidato Walter Mondale): Cyrus Vance nel ruolo di segretario di Stato e Zbigniew Brzezinski come consigliere per la sicurezza nazionale. I tre protagonisti delle future decisioni di politica estera furono tutti concordi sulla questione fondamentale di non ripetere il modello Kissinger25 e, almeno inizialmente, Brzezinski tenne fede al “patto”. Ma le differenze tra i due principali consiglieri dell’amministrazione non avrebbero tardato molto a sfociare in contrasto. “Cy”, anche lui membro della Commissione Trilaterale, aveva avuto un importante passato e possedeva una grande fama di abile negoziatore. Simile al suo presidente per molti aspetti, nutriva grande attenzione per qualsiasi dettaglio, 24 25 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 27. Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 43. 21 come l’“ingegnere” Carter26, e soprattutto dimostrò di essere pronto a svincolare la politica estera statunitense dalla visione bipolare della Guerra Fredda. Il suo impegno nei confronti dei diritti umani fu convinto e continuo nel corso dell’amministrazione, ma a differenza di Carter ritenne poco attuabile un impegno “assoluto”, come il presidente dichiarò nel suo discorso inaugurale, verso di essi. Probabilmente rittenne incompatibile questa promessa con il futuro dialogo con l’Unione Sovietica sul tema che a Vance stava più a cuore: il dialogo sul disarmo nucleare27. Il nuovo National Security Advisor, la cui nomina preoccupò la leadership sovietica (la sua linea poco accomodante nei confronti dell’Unione Sovietica fu presente già nei suoi primi scritti, dove sostenne ad esempio la necessità statunitense di dialogare da una posizione di forza 28), era per molti aspetti diverso dal diplomatico segretario di Stato. Figlio di un nobile polacco, pensò che l’impegno verso i diritti umani sarebbe potuto essere sfruttato “per mettere l’Unione Sovietica sulla difensiva dal punto di vista ideologico” 29. Rispetto a Vance si dimostrò meno propenso a slegare alcuni aspetti della politica estera dal dialogo con i leader sovietici, e usò sempre toni decisi nei loro confronti. Già in un memorandum del 1976 avvisò il futuro presidente Carter del fatto che la distensione era intesa dall’URSS come un mezzo per promuovere “the world revolutionary process”, e che la futura amministrazione avrebbe dovuto chiarire subito che comportamenti irresponsabili verso l’ordine globale sarebbero stati considerati incompatibili con il processo di distensione, portando ad esempio 26 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 18. Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 41. 28 Zbigniew Brzezinski and Samuel P. Huntington, Political Power: USA/USSR, New York, Viking Press, 1964 cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 20. 29 Andrea Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 19451991, Bologna, il Mulino, 2008, p. 424. 27 22 “Angola, the Middle East, and the UN”30. Mosca intanto cercò di instaurare un dialogo costruttivo con il neo presidente statunitense su molti temi delicati, mantenendo i toni bassi, cosa che l’insistenza sui diritti umani del presidente Carter complicò sin dal principio, come si può notare dalla corrispondenza con il leader sovietico Leonid Brezhnev nei primi mesi del 1977 in cui sottolinea che “we cannot be indifferent to the fate of freedom and individual human rights”31. Brezhnev sottolineò la necessità che qualsiasi rapporto tra i due paesi fosse regolato dal principio fondamentale di “non-interference into the internal affairs of the other side”32. Appare ovvia la preoccupazione riguardo al riferimento sui diritti umani, questione ritenuta di pertinenza della politica interna dalla leadership sovietica. Carter tentò di tranquillizzare il leader sovietico nella lettera successiva, cercando di inserire il suo invito della prima lettera in un semplice impegno degli accordi firmati ad Helsinki da parte sovietica e non in una sorta di interferenza statunitense nella loro politica interna33. Difficile credere che questa risposta avesse placato l’apprensione del partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) anche perché la firma degli accordi stava causando non pochi problemi coi paesi satelliti dove sempre più voci di protesta iniziarono a levarsi. Praticamente Helsinki si trasformò nel “manifesto of the [Soviet bloc] dissident and liberal movement […] 30 31 Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 189. Jimmy Carter a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 26 gennaio 1977 in Woodrow Wilson Center, Cold War International History Project, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112019, consultato il 2 maggio 2014. 32 Leonid Brezhnev a Jimmy Carter, Mosca, 4 febbraio 1977, in Woodrow Wilson Center, Cold War International History Project, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112017 consultato il 2 maggio 2014. 33 Jimmy Carter a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 14 febbraio 1977, in Woodrow Wilson Center, Cold War International History Project, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111269 consultato il 2 maggio 2014. 23 totally beyond the imagination of the Soviet leadership” 34. Fu solo l’inizio dei rapporti tra l’amministrazione Carter e la leadership sovietica, ma già si notano le prime fratture e i limiti dei discorsi e delle speranze del presidente. 34 Anatoly Dobrynin, In Confidence: Moscow’s Ambassador to America’s Six Cold War Presidents (1962-1986), New York, Times Books/Random House, 1995, p. 346, cit. in Peter Dale Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of America, Berkeley, University of California Press, 2007, p. 55. 24 La tutela dei diritti umani all’opera all’opera: Carter e il tentativo di svolta nella politica estera Carter completò le proprie nomine inserendo in ruoli di rilievo altri membri della Commissione Trilaterale: Harold Brown come segretario della difesa, W. Michael Blumenthal come segretario del tesoro; e Paul C. Warnke come direttore della Arms Control and Disarmament Agency (ACDA) e futuro capo negoziatore per gli accordi SALT II1. Dal momento in cui mise piede nello studio ovale il neopresidente si dovette occupare di dare un seguito pratico alle dichiarazioni elettorali e di come combattere la profonda decadenza morale statunitense e la relativa crisi di fiducia. Il delicato tema dei diritti umani, nei cui confronti Carter aveva proclamato un impegno “absolute” 2, era senza dubbio il più scottante, dal momento che l’idealità dei diritti umani difficilmente si sarebbe potuta coniugare col pragmatismo richiesto dalle necessità della politica estera. Il presidente tentò sin da subito di fare chiarezza, procedendo con la nomina di Patricia M. Derian come coordinatrice ed in seguito assistente segretario di Stato per i diritti umani. In seguito il sottosegretario di Stato Warren Christopher fu posto a capo dell’Interagency Group on Human Rights and Foreign Assistance (che a seguito di questa nomina verrà spesso identificato come “Christopher Group”). Il compito della Derian e Christopher sarebbe stato proporre al Congresso sanzioni per gli 1 2 Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 38-39. Jimmy Carter, Inaugural Address, cit. 25 stati che avessero violato i diritti umani, e premiare con un incremento, o nuovi programmi, di aiuti quei paesi che avessero provveduto a migliorare il rispetto dei diritti umani dei propri cittadini. Ma oltre a non poter sanzionare, ovviamente, paesi che non ricevevano alcun aiuto come Cuba o la Cambogia, le proposte di sanzioni per i paesi violatori di diritti umani trovarono spesso nel dipartimento di Stato la resistenza dei responsabili regionali e nel caso di critiche verso Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese, del presidente in persona. Carter si mostrò infatti restio a delegare una critica così delicata, critica che peraltro non verrà quasi mai portata all’attenzione dei cinesi, data la volontà dell’amministrazione di normalizzare le relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare3. Brzezinski lamentò le pressioni di un Congresso propenso ad una critica troppo diretta delle violazioni dei diritti umani, e proprio per questo inefficace e non utile a mettere sulla difensiva in particolare i sovietici 4. L’effetto di questo atteggiamento sarebbe stato solamente un inutile aumento della tensione con l’Unione Sovietica e, per usare le parole del National Security Advisor, “pressure on the Soviets is justified; but it has to be measured in order to be effective”5 . Nel febbraio del 1978 il presidente firmò la Presidential Directive (PD) 30, cercando ancora una volta di definire con più precisione l’impegno statunitense verso i diritti umani. Ribadendo l’importanza di questo obbiettivo indicò nei mezzi utili a questo scopo le pressioni diplomatiche nella loro interezza (punto 2); un incremento di aiuti verso quei paesi che avessero migliorato i loro standard verso i diritti umani (punto 4) e una considerazione che favorisse i miglioramenti 3 Gaddis Smith, Morality, Reason & Power, cit., pp.51-54. Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 126. 5 Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 126. 4 26 a lungo termine nella valutazione degli stati stranieri (punto 5). Ma, più delle dichiarazioni e dei propositi (che ricalcavano in larga misura i discorsi precedenti del presidente e le precedenti metodologie del “Christopher Group”) a favore dei diritti umani, colpisce il punto 6, in cui si sostenne che gli Stati Uniti non avrebbero fornito aiuti a governi colpevoli di serie violazioni dei diritti umani “other than in exceptional circumstances”6. Senza chiarire specificatamente cosa potesse o non potesse essere considerata una circostanza eccezionale, il presidente lasciò ampio spazio di manovra all’amministrazione e venne così a cadere il proclamato impegno assoluto verso i diritti umani del presidente Carter. L’America Latina fu il primo banco di prova dell’amministrazione e del suo impegno a sostegno del rispetto dei diritti umani. Sarebbe potuta diventare un esempio di cambiamento nell’ottica dell’abbandono del paternalismo statunitense e nella riduzione della sottolineatura del pericolo sovietico nella regione, cercando addirittura di aprire un dialogo con la vicina Cuba di Fidel Castro 7. La critica della minaccia comunista avrebbe lasciato spazio alla promozione di un dialogo nordsud con l’aiuto degli stati sudamericani8. L’approccio dell’amministrazione venne influenzato dalla Commission on United States-Latin American Relations (CUSLAR), in particolare da un suo rapporto del 1975 intitolato The Americas in a Changing World, più noto come “Linowitz Report”. Questo rapporto denunciò l’inadeguatezza delle politiche adottate nei confronti del Sudamerica dal secondo dopoguerra e promosse un nuovo atteggiamento scevro dal paternalismo attuato 6 Jimmy Carter, Presidential Directive/NSC-30, Washington, D.C, 17 febbraio 1978 http://www.jimmycarterlibrary.gov/documents/pddirectives/pd30.pdf, consultato il 3 novembre 2014. 7 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 100. 8 Jimmy Carter, Organization of American States Address Before the Permanent Council, alla Pan American Union, 14 aprile 1977, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7347, consultato il 16 ottobre 2014. 27 fino a quel momento, in particolare evitando il ricorso ad operazioni segrete e ad aiuti economici volti ad influenzare i governi latino-americani 9. Buona parte dell’amministrazione Carter avrebbe appoggiato queste idee e avrebbe respinto la percezione dell’Unione Sovietica come fonte dell’instabilità regionale10. La situazione in Nicaragua, dove si trovava al potere dal 1967 Anastasio Somoza Debayle e dove le violazioni dei diritti umani avevano oramai raggiunto livelli critici, sembrò poter offrire un’opportunità per mostrare l’abilità dell’amministrazione nell’indurre ad un positivo cambiamento il presidente nicaraguense. Soprattutto si sarebbe dimostrata la volontà statunitense di superare la visione da guerra fredda, criticando un presidente di estrema destra apertamente anti-sovietico e pro-statunitense. La repressione messa in atto da Somoza si inasprì fortemente nella seconda metà degli anni settanta, a causa della crescita di seguito di un gruppo radicale ostile al presidente nicaraguense: il Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN). Il gruppo richiamava la memoria di Augusto Sandino, leggendario guerrigliero che resistette alla presenza militare statunitense degli anni Venti del Novecento, per poi venire ucciso per ordine di Anastasio Somoza García nel 1934, padre di Anastasio Somoza e iniziatore della loro dinastia politica. L’assassinio di Pedro Chamorro nel gennaio del 1978, leader dell’opposizione non radicale al regime, diede il via alle discussioni su come gli Stati Uniti avrebbero dovuto reagire. Se divisioni interne al Congresso furono presenti sul modo di procedere, non si avvertirono invece sulla quasi unanime percezione degli avvenimenti nicaraguensi come del tutto o quasi estranei a 9 Executive Intelligence Review, Linowitz Report On Latin America: Blueprint for confrontation, 4 gennaio 1977 http://www.larouchepub.com/eiw/public/1977/eirv04n0119770104/eirv04n01-19770104_066-linowitz_report_on_latin_america.pdf, consultato il 24 ottobre 2014. 10 Gaddis Smith, The Last Years of the Monroe Doctrine, 1945-1993, s.l., HarperCollinsCanadaLtd, 1994, pp. 153-154. 28 influenze esterne. Ed effettivamente fu letta bene la situazione, dato che Castro iniziò ad aiutare i sandinisti solo verso la fine della loro lotta e l’Unione Sovietica evitò un coinvolgimento diretto lasciando l’iniziativa ai cubani11. L’amministrazione Carter procedette comunque con cautela, perché la base di supporto dei sandinisti fu sì riconosciuta come interna ma i loro comandanti furono considerati marxisti-leninisti, che avrebbero dunque visto gli Stati Uniti come un nemico. L’amministrazione si trovò così tra un dittatore che si rifiutava di sostenere ed un movimento di guerriglia che non intendeva appoggiare12, cercando una impraticabile via di mezzo con una soluzione negoziale tra le parti in conflitto. Se da una parte questa strategia dette l’idea della ricerca pacifica di un compromesso, dall’altra evidenziò una persistente preoccupazione riguardo al comunismo a dispetto dei proclami, dato che Carter non fornì alcun appoggio materiale o verbale ai ribelli e che nel giugno del 1978 chiese ai presidenti di Panama, Messico, Costa Rica, Colombia e Venezuela “how to constrain Cuban and other communist intrusion in the internal affairs of Caribbean and Latin America Countries” 13. Certamente l’impasse creatasi in Nicaragua fu dovuta anche all’ostilità di non pochi membri del Congresso che si mostrarono ostinatamente favorevoli a mantenere buoni rapporti con Somoza e decisamente contrari al FSLN, ma un ruolo decisivo lo ebbero anche le mosse titubanti di Carter. Moderati proclami ed ancor più moderate e confuse azioni (pressioni diplomatiche per ridurre le atrocità, aiuti prima negati e poi ristabiliti ecc. 14) costituirono forse l’abbandono 11 Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 682. Robert A. Pastor, The Carter Administration and Latin America: a Test of Principle, luglio 1992, http://www.cartercenter.org/documents/1243.pdf, consultato il 10 settembre 2014. 13 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 119-120. 14 Ibidem. 12 29 del paternalismo tanto criticato dal “Linowitz Report”, ma tarparono le ali ad eventuali politici capaci a cui mancarono mezzi ed assistenza, politici che avrebbero potuto costituire un’alternativa in Nicaragua. Un atteggiamento, quello statunitense, di “laissez faire forse esagerato”15. Riguardo alla situazione nicaraguense Lincoln Bloomfield, docente di relazioni internazionali del Massachusetts Institute of Technology, nel 1981 scrisse un rapporto finale sull’amministrazione Carter, in cui sostenne che Washington si sarebbe certo trovata in una posizione migliore tre anni dopo, se già nel 1978 avesse applicato in maniera coerente la politica dei diritti umani sospendendo le forniture di armi al dittatore Somoza16. Dopo il fallimento definitivo dei tentativi di mediazione, l’incertezza statunitense spinse i sandinisti all’offensiva finale che, nel giugno 1979, portò Somoza a rassegnare le proprie dimissioni e fuggire nel luglio del 1979 (per poi finire assassinato in Paraguay l’anno seguente 17). I sandinisti si insediarono al governo e gli Stati Uniti si trovarono impegnati in un inutile sforzo di mantenere buoni rapporti con il Nicaragua. Sempre in America Latina un caso che catturò l’attenzione ed attirò numerose critiche da parte di Washington fu il colpo di Stato di Maurice Bishop del 13 marzo 1979 nell’isola di Grenada e la successiva richiesta di aiuti del nuovo leader a Castro. L’arrivo nella piccola isola caraibica di armi e consiglieri cubani aumentò la preoccupazione di Carter che interpellò la CIA ed in particolare il suo nuovo DCI Stanfield Turner, suggerendo un’azione finalizzata a concentrare la critica internazionale su Grenada. Il 3 luglio 1979 il presidente statunitense 15 Massimiliano Guderzo, Ordine mondiale e buon vicinato, gli Stati Uniti e l’America latina negli anni di Carter, 1977-1981, Firenze, Edizioni Polistampa, 2012, p. 38. 16 Ivi, pp. 101-102. 17 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 121. 30 autorizzò a procedere ad un’ operazione segreta, mirante a promuovere la democrazia nell’isola caraibica, e ad appoggiare gli oppositori del governo marxista. Almeno questo fu l’intento di Carter, ma il Senate Intelligence Committee, quando passò al vaglio l’autorizzazione presidenziale, espresse una forte contrarietà, sottolineando il forte contrasto di questa decisione con la posizione dell’amministrazione sui diritti umani e la non interferenza, affondando di fatto l’iniziativa sul nascere. Gates fa notare come il tentativo di Carter sia fallito a causa del fatto che la CIA vedesse la sua credibilità e autorevolezza ridimensionata dalle investigazioni congressuali subite nel periodo precedente all’elezione del presidente democratico18. La piccola isola caraibica finì col cadere nell’orbita cubana, allontanandosi da Washington, andando a costituire un successo isolato per Cuba nell’area caraibica19. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, l’Africa ottenne dal neopresidente statunitense molta attenzione per due ragioni: la convinzione morale di Carter dell’iniquità del fatto che in paesi come la Rhodesia fosse al comando una minoranza bianca poco attenta ai diritti della maggioranza nera africana e l’intento del presidente di compiacere gli elettori afro-americani20. La Rhodesia, ex colonia britannica indipendente dal 1965, si era trovata sotto la guida di Ian Smith, un bianco di stirpe anglosassone, sin dal momento della sua indipendenza, ma negli ultimi anni si erano verificati episodi di guerriglia volti a rovesciare il governo, guidati dallo Zimbabwe African Peoples Union (ZAPU) e dallo Zimbabwe African National Union (ZANU), entrambi appoggiati dall’Unione Sovietica 21. 18 Gates, From the Shadows, cit., p. 143. Guderzo, Ordine mondiale e buon vicinato, cit., p. 36. 20 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 61. 21 Gates, From the Shadows, cit., p. 76. 19 31 Nonostante la sottolineatura di tale impegno sovietico da parte di Brzezinski e il suo suggerimento di non delegare eccessivamente alla Gran Bretagna i compiti della mediazione22, la linea di Vance, più incline ad occupare un ruolo minore nella trattativa e a sottolineare i fattori interni di apartheid in Rhodesia, finì col prevalere. La vicenda riguardò da vicino anche il Sud Africa, in cattivi rapporti con gli Stati Uniti a causa delle pressioni dell’amministrazione Carter sui diritti umani e della critica del sistema di apartheid. Inoltre era ancora fresca la memoria del comportamento statunitense durante la recente crisi angolana, che aveva portato il governo sudafricano, in una scomoda situazione, a ritirare i propri soldati dall’Angola. Il primo ministro sud africano John Vorster si mostrò comunque favorevole ad una soluzione pacifica per la Rhodesia, ma fu ulteriormente irritato dalle pressioni e dalle domande di Walter Mondale, in visita a Pretoria, in merito alla concessione del diritto di voto nel Sud Africa alle persone di colore ed alla concessione dell’indipendenza alla Namibia. L’intenzione statunitense di pressare Pretoria con sanzioni economiche non ebbe tuttavia speranza di successo sin dall’inizio dato che, come sottolineò l’assistente segretario del Tesoro Fred Bergsten: “[T]he U.S. is more vulnerable to South African economic sanctions than South Africa is to U.S. action”23. Di conseguenza, l’amministrazione Carter decise di dare priorità esclusivamente al caso della Rhodesia e ridimensionò la critica per le violazioni dei diritti umani nel Sud Africa. Nel febbraio del 1978 Ian Smith e Bishop Abel Muzorewa, uno dei leader di colore, trovarono un accordo, conosciuto come “The Salisbury Plan”, che avrebbe garantito la maggioranza nera in parlamento e la scelta di un primo 22 23 Brzezinski, Power and Principle, cit., pp. 139-140. Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 64. 32 ministro di colore, ma che avrebbe lasciato ai bianchi il controllo della quasi totalità dei restanti organi governativi, comprese le forze armate e di polizia. Il piano fu contestato da Vance e Andrew Young (ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite) ma Carter, nonostante ritenesse questa soluzione inadeguata, evitò di condannarla direttamente ed ordinò a Young di non proporre risoluzioni che rigettassero il “Salisbury Plan”. Il presidente finì con l’irritare non solo buona parte del Congresso, sia tra i democratici che tra i repubblicani, ma anche gli oppositori della minoranza bianca all’estero24. La conduzione della politica estera di Carter nei casi esaminati di Grenada, Nicaragua e Rhodesia attirò enormi critiche dalla destra repubblicana sulla debolezza dell’approccio democratico, critiche che nel 1979 si sarebbero sommate all’ampia opposizione ai trattati SALT II, che culminò nella denuncia del senatore Jackson di “appeasement” riguardo ai trattati e alla distensione in generale 25. La discussione su un futuro accordo tra le due superpotenze era del resto iniziata già nel 1977, con la corrispondenza tra Carter e Brezhnev. Il segretario del PCUS scrisse al presidente statunitense “We believe that this task is completely manageable. Because the main parameters of the agreement are, in fact, already determined on the basis of the agreement which was reached in Vladivostok26.” Il leader sovietico volle riferirsi al comunicato firmato da lui stesso e da Ford nel 1974 a Vladivostok, ma Carter mise subito in chiaro la sua volontà di procedere ad un trattato completamente nuovo, caratterizzato dai tagli agli arsenali strategici anziché dalle limitazioni alla loro crescita (su cui invece si basava il 24 Ivi, pp. 63-67. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 741. 26 Brezhnev, Brezhnev a Carter, cit. 25 33 comunicato di Vladivostock) che finora avevano favorito i sovietici 27. Sempre nella stessa lettera, come abbiamo precedentemente visto, Brezhnev sottolineò l’importanza che gli Stati Uniti non insistessero sulla questione dei diritti umani, ritenuta di pertinenza della politica interna sovietica, suggerimento respinto cortesemente da Carter sulla base degli accordi di Helsinki. Il ministro degli esteri sovietico Andrei Gromyko sottolineò nelle sue memorie il ruolo personale di Carter “as Washington engaged more and more actively in ideological subversion against the USSR”, e queste dichiarazioni trovano riscontro nelle parole dell’allora membro dell’NSC, Robert Gates: “He [Carter] was the first President during the Cold War to challenge publicly and consistently the legitimacy of Soviet rule at home” 28. Lo stesso Carter, seppur non disposto ad imputare alla pressione sui diritti umani i problemi nella trattativa SALT II con i sovietici, riconosce che l’argomento creò spesso tensioni29. Ma il presidente, appoggiato in questo da Brzezinski ed in opposizione a Vance, ritenne che non fosse possibile evitare pressioni sui diritti umani e sulle iniziative sovietiche in tutto il mondo (specialmente in Africa) per agevolare le trattative coi sovietici, sia per motivi ideologici, sia per l’ostilità che tale atteggiamento avrebbe provocato nel Congresso, rendendo la ratificazione dell’eventuale accordo raggiunto assai problematica30. Ma i dissapori ebbero inizio molto presto in Senato dove, in relazione alla ratifica della nomina di Paul Warnke come capo negoziatore SALT, si sviluppò un ampio dibattito in cui i neoconservatori fecero sentire la loro voce, dichiarando che la “colomba” Warnke avrebbe concesso troppo al Cremlino. La 27 Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 149. Gromyko cit. in Gates, From the Shadows, cit., p. 90-177. 29 Carter, Keeping Faith, cit., p. 149. 30 Gates, From the Shadows, cit., p. 124. 28 34 nomina passò per 58 voti a favore e 40 contrari, ovvero con meno della maggioranza dei due terzi che sarebbe stata necessaria per la ratifica di un eventuale SALT II, un segnale di certo non incoraggiante. La decisione di Carter di abbandonare i termini di Vladivostok in favore di forti tagli agli arsenali rifletté in parte anche il desiderio di compiacere Jackson, favorevole a questa iniziativa, dato che il senatore sarebbe stato, come disse Vance “A major asset in a future ratification debate if he supported the treaty, and a formidable opponent if he opposed it”31. La volontà di Carter di superare una visione della politica estera dominata dal rapporto con l’Unione Sovietica, e di conseguenza di ridurre il profilo e la sostanza dei rapporti americano-sovietici, non poté ovviamente applicarsi negli ambiti delle trattative per la riduzione degli armamenti convenzionali e strategici dal momento che il presidente dovette dar luogo alle promesse elettorali di abbandonare il timore dei sovietici ed approfondire un dialogo con loro sui temi sopra citati, anch’essi parte del programma elettorale 32. L’intenzione dell’amministrazione fu quella di procedere rapidamente e con fermezza, e di invitare Brezhnev a Washington già nel 1977. Vance fu inviato in marzo a Mosca per proporre il nuovo piano statunitense favorevole ai tagli degli arsenali. Le intenzioni statunitensi dovettero però scontrarsi con una dirigenza sovietica che era convinta di consolidare un accordo “90 percent completed”33, ovvero quello di Vladivostok, e questa inversione di marcia del presidente Carter (volta anche ad ottenere un accordo frutto non del lavoro di Nixon, Ford e Kissinger, ma della nuova amministrazione democratica) fu accolta con forte diffidenza al Cremlino, 31 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 39. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 565-566. 33 Ibidem 32 35 come rileviamo dal commento di Georgy Arbatov, consigliere del comitato centrale del PCUS che in seguito avrebbe osservato: The [American] proposal were extremely one-sided and in fact amounted to a suggestion that the negotiations should start again from scratch. This confirmed the impression in Moscow that Carter was not serious34. Ma più della “mancanza di serietà” di Carter ciò che più preoccupava i dirigenti sovietici era l’approccio aggressivo sui diritti umani del presidente, volto secondo il Cremlino ad incoraggiare il dissenso interno all’Unione Sovietica, come un memorandum della CIA a Brzezinski illustrò già nel febbraio del 1977 35. La diffidenza sovietica, rafforzata dalle dichiarazioni di Carter sui diritti umani, dal suo appoggio a dissidenti sovietici come Andrei Sakharov e dal suo cambio di rotta riguardo agli obbiettivi del SALT II36, fece naufragare sul nascere la speranza statunitense di raggiungere velocemente un accordo. In seguito, il fallimento di tenere un meeting per giungere ad un accordo sul SALT II già nel 1977 si rivelerà fatale per l’esito degli accordi, dato che le vicende internazionali (e interne all’amministrazione Carter) che intercorsero nei due anni precedenti alla firma di metà 1979 intaccarono l’efficacia di un accordo che, se raggiunto nel 1977, avrebbe avuto più probabilità di rivelarsi fruttuoso37. 34 Georgy Arbatov cit. in Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 566 (corsivo nell’originale). 35 Gates, From the Shadows, cit., p.88. 36 Carter, Keeping Faith, cit., p. 146. 37 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 575. 36 “The situation is bad and is getting worse”1. Dall’ascesa del comunismo afghano all’invasione sovietica L’Afghanistan fu unificato nel tardo Ottocento e ricoprì essenzialmente il ruolo di Stato cuscinetto tra l’impero russo a nord e l’impero britannico a sud est, dove il confine con l’India inglese venne tracciato sulle mappe dal segretario degli esteri nell'India britannica Sir Mortimer Durand nel 1893 con l’omonima linea. La situazione sarebbe cambiata solo in seguito al secondo conflitto mondiale, con il processo di decolonizzazione che portò la Gran Bretagna ad uscire dallo scenario mediorientale. Di conseguenza l’Afghanistan instaurò relazioni sempre più forti con l’Unione Sovietica, dai cui aiuti economico-militari iniziò a dipendere in maniera sempre crescente. Un altro episodio fondamentale per la storia dello Stato afghano fu la creazione del Pakistan nel 1947, ad est della linea Durand. Il nuovo Stato inglobò parte dell’etnie e delle tribù afghane, e fu contrastato sin dalla sua nascita dall’Afghanistan, unico paese a votare contro l’ammissione del nuovo paese alle Nazioni Unite, inutilmente1. L’etnia prevalente in Afghanistan è quella dei pashtun, un popolo nomade che sin dal XVIII secolo si è sempre distinto nella fiera difesa della propria indipendenza, resistendo ad ogni tentativo di controllo da parte di poteri esterni2. 1 Taraki, Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei Kosygin and Afghan prime minister Nur Mohammed Taraki, 17 marzo 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113262, consultato il 15/12/2014. 1 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 981. 2 Giorgio Vercellin, Iran e Afghanistan. Questioni nazionali religiose e strategiche in una delle zone più calde del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 21. 37 Il Regno dell’Afganistan terminò con l’abdicazione dell’ultimo re Mohammed Zahir Shah in seguito ad un colpo di stato organizzato da suo cugino Mohammed Daoud Khan, che diventò il primo presidente della Repubblica dell’Afghanistan. Nella salita al potere Daoud fu aiutato da membri del Partito comunista formatosi nel 1965: il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA). I membri che appoggiarono Daoud appartenevano alla fazione denominata Parcham (“bandiera”), che presentava una prevalenza della componente etnica tagika. L’altro gruppo che venne a formarsi durante la scissione del Partito nel 1967 fu quello dei Khalq (“Le masse”), che vedeva tra i suoi membri una maggioranza dell’elemento tribale Pashtun. Il segretario generale del PDPA Nur Mohammad Taraki era a capo della fazione Khalq, mentre Babrak Karmal comandava il gruppo Parcham. Daoud tentò in seguito di modernizzare uno dei paesi più poveri al mondo, con un tentativo che portò a pochi vantaggi e molto risentimento da parte della popolazione, che vedeva sacrificate le prerogative locali a favore delle necessità dello sviluppo e della centralizzazione del potere3. In riconoscenza per l'appoggio ricevuto durante il colpo di Stato Daoud nominò diversi membri dei Parcham nel suo gabinetto ed in altri posti di rilievo (causando l’ironia dei Khalq che definirono il Partito di Karmal “The Royal Communist Party”4), ma solo inizialmente, dato che già dal 1974 procedette a rimuovere e sostituire i membri Parcham. Sul versante internazionale Daoud avviò un dialogo con paesi come la Repubblica Popolare Cinese, Iran e Pakistan, diminuendo il legame afghano con l’Unione Sovietica. L’Afghanistan rimase 3 4 Westad, The Global Cold War, cit., p. 299. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 893. 38 comunque fortemente dipendente dai sovietici per quanto concerneva gli aspetti economico-militari, ma Daoud continuò nella sua opera d’allargamento delle relazioni, e nella primavera del 1978 visitò India, Pakistan, Egitto, Libia, Turchia, Yugoslavia, Arabia Saudita e Kuwait. Le relazioni con l’Unione Sovietica iniziarono a farsi più complicate5. Il 25 aprile 1978 Daoud prese una decisione che si sarebbe rivelata fatale per il suo futuro politico: ordinò l’arresto di molti esponenti del PDPA scatenando la reazione dei Khalq che due giorni dopo con un colpo di Stato rovesciarono il regime di Daoud e salirono al potere, guidati da Taraki e dal suo braccio destro Hazifullah Amin. L’Unione Sovietica apprese la notizia con cauto ottimismo. L’ambasciatore sovietico a Kabul Aleksandr Puzanov riassunse così la situazione in una lettera al ministro degli esteri Gromyko: Conclusions: The situation in the country "overall is stabilizing more and more," the government is controlling all its regions and is taking measures "to cut off...the demonstrations of the domestic reaction."The most important factor for the further strengthening of the new power will be the achievement of unity in the leadership of the PDPA and the government6. Effettivamente le due fazioni dello stesso Partito, Khalq e Parcham, finivano spesso col sembrare due partiti separati piuttosto che un unico Partito, e i tentativi da ambo i lati di accaparrarsi separatamente più aiuti sovietici possibili 5 Ivi, p. 894. Aleksandr Puzanov, Political letter from USSR ambassador to Afghanistan A. Puzanov to soviet foreign ministry, ‘about the domestic political situazion in the DRA’ (notes), Kabul, 31 maggio 1978, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113255, consultato il 3 gennaio 2015. 6 39 continuarono anche dopo la rivoluzione d’aprile7. I Khalq che avevano guidato la rivoluzione non persero tempo e procedettero rapidamente nel tentativo di neutralizzare i Parcham. Accusati di essere controrivoluzionari furono in buona parte imprigionati, o allontanati, come Karmal che fu esiliato in Cecoslovacchia 8. Taraki, per quanto riguarda il versante estero, denunciò nella sua visita in Unione Sovietica l’azione di forze provenienti dal Pakistan intenzionate a danneggiare l’Afghanistan. Le differenze principali tra la dirigenza afghana e quella pakistana si constatavano sulle diverse attitudini nei confronti delle tribù dei Pashtun (in Pakistan era loro concesso un regime di semiautonomia 9) e dei Beludzuns. Sconsigliando reazioni, il PCUS raccomandò al dirigente del PDPA di procedere al dialogo sottolineando l’importanza per il suo governo di incoraggiare la partecipazione piuttosto che il contrasto10. Da parte statunitense il colpo di stato comunista in Afghanistan fu accolto con reazioni contrastanti tra il dipartimento di Stato e l’NSC. Vance propose di non interrompere le relazioni con la neonata Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Anzi, suggerì di continuare a fornire gli aiuti economici a Kabul che gli Stati Uniti fornirono già prima del colpo di stato, nel tentativo di mantenere buone relazioni col neonato governo. Questa linea era indirizzata ad un tentativo di riduzione dell’influenza sovietica a cui anche Brzezinski puntava, differendo però nei mezzi. Il consigliere per la sicurezza nazionale propose infatti un’interruzione dei contatti con Kabul e la realizzazione di operazioni segrete 7 Westad, The Global Cold War, cit., pp. 302-303. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p.893 9 Vercellin, Iran e Afghanistan, cit., p. 22. 10 Nur Mohamed Taraki, Information about the visit of the Afghan party and State delegation, headed by prime minister of the democratic republic of Afghanistan Nur Mohamed Taraki to the USSR, Afghanistan, 4 dicembre 1978, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112458, consultato il 9 ottobre 2015. 8 40 miranti a destabilizzare il nuovo governo comunista. Carter optò per la linea del Dipartimento di Stato e procedette ad inviare un nuovo ambasciatore in Afghanistan, Adolph Dubs11. Il “New York Times” sottolineò come l’amministrazione Carter fosse rimasta “unruffled” di fronte al colpo di stato comunista a Kabul, ed evidenziò lo stridente contrasto con la vecchia politica estera statunitense dove non più di “A decade ago, a Communist gain anywhere would have been felt as a distinct loss for Washington”12. Nell’autunno del 1978 l’evento più importante che influì in particolar modo sulle vicende afghane ma anche sul più ampio scenario globale fu il dilagare delle proteste in Iran. La rivolta che esplose in quei giorni fu la risposta alla cosiddetta “rivoluzione bianca” dello shah iraniano Mohammad Reza Pahlavi, che consistette in un tentativo di accelerata modernizzazione del paese. Il progetto, con alcune similitudini con il tentativo di Daoud in Afghanistan (ma allo stesso tempo tenendo presente le importanti differenze tra i due paesi), fallì in buona parte nei suoi obbiettivi e suscitò l’ostilità di ampie frange della popolazione iraniana. In particolare la critica allo Shah, fondamentale alleato storico statunitense nella regione, venne mossa con successo da un rappresentante del clero islamico sciita: l’ayatollah Ruollah Khomeini. Allontanato dall'Iran proprio dallo Shah Pahlavi nel 1963, Khomeini riuscì egualmente a far sentire la propria voce dal suo esilio a Parigi sino in Iran, dove questa diventò espressione del malcontento della popolazione. La protesta andava a colpire la laicizzazione dello Stato promossa dallo Shah ed i costumi occidentali che ne derivarono, considerati 11 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 162. A Communist Coup in Afghanistan, “New York Times”, 5 maggio 1978, http://timesmachine.nytimes.com/timesmachine/1978/05/05/112780160.html?pageNumber=32, consultato il 14 gennaio 2015. 12 41 immorali dal clero sciita. Stimolata ulteriormente dal peggioramento delle condizioni economiche e dalla violenta repressione del regime, la rivoluzione finì per travolgere il governo di Pahlavi, che abbandonò il paese lasciando così spazio al trionfante rientro di Khomeini ed al suo progetto di plasmare una repubblica islamica13. L’Unione Sovietica accolse favorevolmente questo cambiamento che per essa significava una sconfitta per gli Stati Uniti, e venne auspicata una futura guida del Tudeh (il Partito comunista iraniano) che fino ad allora aveva sostenuto Khomeini. Ma l’ayatollah si comportò in maniera non prevista dai vertici sovietici: iniziò a colpire la stampa secolare e liberale, licenziò insegnanti laici e finì col colpire anche il Tudeh14. Al modello statunitense e a quello sovietico se ne stava aggiungendo un terzo che si distaccava dalle logiche della guerra fredda in maniera netta e decisa: il modello del fondamentalismo islamico, che avrebbe esercitato una forza d’attrazione decisamente più importante di quanto le superpotenze mondiali si aspettassero all’epoca. “Non capimmo chi era Khomeini né ci rendemmo conto del sostegno di cui godeva il suo movimento” avrebbe ammesso in seguito il direttore della CIA Turner15 . Il fondamentalismo islamico non era tuttavia una novità neppure in Afghanistan, dove già nel 1975 era iniziata l’insurrezione armata di un gruppo chiamato Hezb-i-Islami, finanziata da Pakistan e Libia, un evento importante in chiave futura16. È innegabile però l’importanza della svolta verificatasi in Iran che causò causò una crescita di fiducia tra le sacche afghane di resistenza islamica. Inoltre, in un paese con la percentuale di popolazione 13 Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009 p. 273. 14 Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 455. 15 Turner cit. in Weiner, CIA, cit., p. 355. 16 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p.893 42 musulmana al 90%, le vicende iraniane ampliarono potenzialmente la capacità attrattiva dei mujaheddin (i combattenti musulmani afghani) ed il pericolo per il PDPA. L’Unione Sovietica nel 1979 si trovava dunque con la prospettiva (smentita dagli eventi in seguito) di acquisire un nuovo importante alleato mediorientale, l’Iran, e con il PDPA al comando in Afghanistan. Tutto questo diede ai sovietici l’impressione di una svolta internazionale a loro favorevole. Ma i problemi che furono presto lampanti con Khomeini, si presentarono ancor più rapidamente nella neonata Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDA). La popolazione afghana, come ho già sottolineato parlando dei Pashtun, si era sempre mostrata fortemente indipendente, tanto da guadagnarsi in passato l’appellativo di “unruly” dai britannici17. Se la caduta di Daoud non dispiacque particolarmente agli afghani a causa dei suoi continui tentativi di accentramento, neppure la Repubblica Popolare seppe ingraziarsi la popolazione. Continuarono infatti i tentativi di centralizzazione e proseguirono con altri gesti decisamente avventati, come la sostituzione della tradizionale bandiera islamica verde, nera e rossa con una bandiera rossa simile a quella adottata dalle repubbliche sovietiche centroasiatiche, una scelta che irritò non solo i fondamentalisti islamici ma anche la fede religiosa del paese nel suo complesso. Le decisioni della dirigenza del PDPA andarono ad urtare contro la tradizione ed in particolar modo contro le prerogative culturali del paese, irritando i mujaheddin che oramai avevano un modello importante di cambiamento proprio al loro fianco: la repubblica islamica dell’Iran. La religione continuava senza dubbio a costituire un polo attrattivo più efficace dell’ideologia comunista. Tenendo conto del fatto che l’85% della 17 Ivi, p. 899. 43 popolazione risiedeva in aree rurali, il PDPA varò vari programmi di riforma agraria, che furono tuttavia osteggiati dalle élite locali18. La resistenza armata dei fondamentalisti islamici come abbiamo visto era iniziata già sotto il governo di Daoud, ma la lotta aumentò decisamente di intensità e proporzione a partire dall’estate 1978 per poi dilagare nell’inverno seguente in buona parte dell’Afghanistan. Il conflitto fu accompagnato da una sempre crescente diserzione nell’esercito afghano, schierato oramai in buona parte contro i nuovi dirigenti filosovietici19. Il PDPA faticava ad esercitare la propria autorità e il 14 febbraio 1979 accadde un fatto che avrebbe focalizzato l’attenzione degli Stati Uniti sulla situazione afghana: l’omicidio dell’ambasciatore Dubs. L’assassinio fu opera di ribelli islamici mal contrastati dalla polizia afghana 20, “a tragic event”, affermò Brzezinski, “which involved either Soviet ineptitude or collusion” 21. Da questo avvenimento in poi il consigliere per la sicurezza nazionale iniziò ad aumentare le pressioni su Carter per intervenire a favore dei ribelli islamici, finanziandoli ed aiutandoli a rovesciare il regime comunista di Kabul22. Questa serie di disordini toccò il suo apice nel marzo 1979 presso la città di Herat dove un’intera divisione di fanteria dell’esercito afghano disertò a favore dei ribelli contro cui stava combattendo, lasciandoli liberi di procedere ferocemente a togliere la vita a molti consiglieri sovietici insieme alle loro famiglie. Taraki rivelò tutta la sua preoccupazione in una conversazione telefonica con Kosygin del 17 marzo: 18 Westad, The Global Cold War, cit., p. 308. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 900. 20 Weiner, CIA, cit., p. 350. 21 Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 413. 22 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 163. 19 44 the situation is bad and is getting worse [...] Iran and Pakistan are working against us, according to the same plan. Hence, if you now launch a decisive attack on Herat, it will be possible to save the revolution. 23 Il primo ministro rispose titubante alle richieste del leader del PDPA, in particolare sulla possibilità di lanciare un attacco sovietico sulla città di Herat, che avrebbe esposto l’URSS ad una forte pressione internazionale. L’Unione Sovietica si trovava difatti vicina alla conclusione delle discussioni sul trattato SALT II con gli Stati Uniti, ed un intervento in Afghanistan avrebbe probabilmente affossato la speranza di raggiungere un accordo. È interessante notare come anche Gromyko, in una riunione del Politburo avvenuta il giorno stesso della conversazione con Taraki, evidenziò la responsabilità di forze esterne aggiungendo ad Iran e Pakistan “[the] participation of [...] China, the United States of America” 24. La questione è utile soprattutto a sottolineare la necessità sovietica d’identificare un nemico esterno, il cui intervento incisivo appare dubbio e rimane in ogni caso indimostrabile per tutti i paesi sopracitati, per nascondere le colpe reali del PDPA25. Gromyko proseguì ribadendo l’importanza della questione afghana: “under no circumstances may we lose Afghanistan”, posizione a cui fece eco quella del capo del Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (KGB, i servizi segreti russi) Jurij Vladimirovic Andropov: “We must finalize the political statement, bearing in mind that we will be labeled as an aggressor, but that in spite of that, 23 Taraki, Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei Kosygin and Afghan prime minister Nur Mohammed Taraki, cit. 24 Politburo, Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, 17 marzo 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113260, consultato il 17/12/2014. 25 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 901-902. 45 under no circumstances can we lose Afghanistan”26. Per quanto sia i vertici afghani che quelli sovietici tentassero di attribuire la responsabilità degli eventi di Herat all’intervento di forze straniere, nell’Unione Sovietica erano tuttavia ben presenti le mancanze del PDPA, la nocività delle continue dispute tra Khalq e Parcham, e lo scarso appoggio che il Partito di Taraki nutriva tra la popolazione. Il leader del Partito afghano insistette invano sulla necessità di un invio di truppe sovietiche, ma i vertici del PCUS continuarono ancora in aprile a rifiutarsi di prendere in considerazione seriamente questa ipotesi, suggerendo invece un allargamento della base politica del PDPA ed un uso meno indiscriminato della repressione nel paese27. L’ambasciata sovietica a Kabul provò a convincere i Khalq al comando ad includere membri dei Parcham e addirittura del vecchio regime per ampliare il proprio consenso, ma questa proposta non fu accolta. Amin si giustificò con Puzanov sostenendo la necessità di rimanere all’erta perché il PDPA si trovava circondato da nemici. Gli sforzi dell’ambasciatore sovietico a Kabul si concentrarono allora sul contrastare il pericoloso Amin, l’ambizioso vice di Taraki, cercando di farlo allontanare dalla leadership del Partito. Verso la fine dell’estate del 1979 Amin stava pianificando le esecuzioni di personaggi influenti che avevano partecipato alla rivoluzione d’aprile e di membri stessi del PDPA, quando un preoccupato Puzanov fece sentire la sua voce presso Taraki chiedendo nuovamente di ridurre la repressione, in modo particolare verso i membri del Partito28. Molte voci si stavano levando contro Amin, non solo da parte sovietica, 26 Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, cit. Politburo, Memo on protocol #149 of the Politburo,”Our future policy in connection with the situation in Afghanistan”, Mosca, 1 aprile 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/110060, consultato il 26/12/2014. 28 Westad, The Global Cold War, cit., p. 311. 27 46 ma anche all’interno dell’Afghanistan, dove a metà luglio iniziarono a circolare volantini che dipingevano Amin come “‘criminal’, supported by a ‘fascist band of gangsters’, and even a secret ‘CIA agent’”29. Nel frattempo Brzezinski e Mondale convinsero Carter a compiere il primo timido passo statunitense a favore dei ribelli islamici in Afghanistan 30. Con un intervento presidenziale firmato in aprile Carter autorizzò la CIA a spendere circa 500.000 dollari in attività di propaganda, oltre a rifornire di apparati radio, equipaggiamenti medici e denaro contante i mujaheddin afghani 31. La rilevanza di tale aiuto appare particolarmente simbolica per due motivi: questo provvedimento andò a scontrarsi con quello che il “New York Times” aveva descritto come un atteggiamento “unruffled” dell’amministrazione Carter, che qui dimostrò invece la sua propensione ad entrare nelle vicende afghane. Inoltre possiamo notare come le decisioni del presidente iniziarono sempre più a rispecchiare la linea “dura” di Brzezinski, piuttosto che la linea di Vance, il cui principale obbiettivo era quello di minimizzare le tensioni con l’URSS. La guerra civile afghana continuava e le preoccupazioni di Mosca crescevano insieme ad essa. Il Cremlino decise allora di agire con più forza ed organizzò una missione militare, arrivata a Kabul il 17 agosto e capeggiata dal vice ministro della Difesa Ivan Pavloskii, con lo scopo di riorganizzare l’esercito afghano. I toni iniziarono a farsi decisamente duri, dato che la missione di Pavloskii fu accompagnata dalla minaccia di ritirare l’assistenza militare sovietica nel caso in cui Taraki non si fosse mostrato collaborativo. Il leader del PDPA comprese la situazione e comunicò al Politburo di voler procedere all’attuazione 29 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 902. Weiner, CIA, cit., p. 351. 31 Coll, La guerra segreta della CIA, p. 67. 30 47 di una serie di misure di emergenza, che includevano la rimozione di Amin, il rilascio di prigionieri politici e la creazione di un governo di coalizione. Taraki accettò definitivamente le proposte che la dirigenza sovietica aveva avanzato fin dalla rivoluzione di aprile in un incontro con la dirigenza sovietica a Mosca, in cambio della promessa personale di Brezhnev e Gromyko di nuovi aiuti militari. Ma appena tornato a Kabul Taraki fece marcia indietro coi suoi propositi, timoroso della reazione di Amin. I vertici sovietici avevano esaurito la pazienza, e con un messaggio di Gromyko fu ordinato a Puzanov, Pavloskii ed ai capi delle missioni militari a Kabul di organizzare un meeting immediato con Taraki ed Amin la sera del 13 settembre. Giunto all’incontro, Puzanov iniziò ad elencare i problemi del PDPA, concentrandosi sulle inaccettabili ambizioni personali di alcuni personaggi all’interno del Partito (con tutta probabilità riferendosi ad Amin). Taraki ed Amin tuttavia si mostrarono d’accordo e dichiararono la presunta unità del Partito. In realtà Taraki non si fidava assolutamente del suo vice, e la mattina del 14 settembre Amin fu invitato ad un nuovo incontro presso la residenza del presidente afghano, ma fu bersagliato dagli spari delle guardie presidenziali non appena si avvicinò alla dimora di Taraki, uscendone però illeso. Amin fece allora appello alle unità militari ancora fedeli a lui, che circondarono il palazzo di Taraki ed arrestarono il leader afghano, lasciando così spazio alla presa di potere di Amin. Il nuovo presidente provvide prontamente ad organizzare una serie di purghe che non avrebbero risparmiato neanche l’ex capo del PDPA, la cui esecuzione avvenne il 9 ottobre32. Gli avvenimenti non presero la direzione desiderata da Mosca, ma il Politburo non drammatizzò immediatamente l'accaduto e decise di dare 32 Westad, The Global Cold War, cit., pp. 311-313. 48 un’opportunità ad Amin, anche se le parole di Brezhnev non sembrarono comunque troppo ottimiste per il futuro: Amin will be pushed toward this by the current situation and by the difficulties which the Afghan government will face for a long time to come. [...] [our] job will be difficult and delicate.33 Fu dunque accettato un leader che fino a pochi giorni prima Mosca avrebbe voluto eliminare dalla guida del PDPA. Ma il nuovo corso e la timida fiducia concesse non sembrarono portare benefici, dato che già alla fine di novembre Gromyko, Andropov, il ministro della difesa Dmitrij Fedorovic Ustinov ed il membro del Politburo Boris Nikolayevich Ponomarev compilarono un rapporto decisamente negativo su Amin e sulla situazione in Afghanistan. Il documento, indirizzato al comitato centrale (CC) del PCUS, denunciava una repressione che invece d’attenuarsi come da richiesta sovietica si era rafforzata con le purghe di Amin, che aggravarono ulteriormente la divisione in seno al PDPA. Un altro motivo di grave preoccupazione fu la convinzione che gli Stati Uniti avrebbero potuto approfittare della situazione portando Amin ad avvicinarsi a Washington34. Effettivamente il leader mostrò più volte l’intenzione di migliorare le relazioni con gli Stati Uniti. L’incontro col presidente pakistano Muhammad Zia ul-Haq, che avrebbe dovuto avere luogo il 30 dicembre, sarebbe potuto essere un primo passo verso Washington e dunque un alleggerimento della 33 Brezhnev, Excerpt from transcript, CPSU CC Politburo meeting, Mosca, 20 settembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111568, consultato il 3 gennaio 2015. 34 Gromyko, Andropov, Ustinov, Ponomarev, Report on the situation in Afghanistan to CPSU CC, Mosca, 29 novembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111576, consultato il 3 gennaio 2015. 49 dipendenza dall’Unione Sovietica. I sospetti sovietici si accrebbero quando, in novembre, Amin rifiutò un invito a visitare Mosca. Per quanto riguarda le prove concrete è però difficile andare oltre alla dichiarazione di un semplice interesse del leader del PDPA ad un incremento dei rapporti con l’occidente, che non implicasse necessariamente un abbandono dell’URSS35. In ogni caso la già scarsa fiducia in Amin iniziò a crollare nel novembre 1979, ma già precedentemente nel mese di ottobre il KGB aveva instaurato contatti con gli ex dirigenti del PDPA esiliati in Cecoslovacchia e Bulgaria, arrivando a contattare il più importante tra questi: Babrak Karmal. Nello stesso periodo l’ipotesi di una qualche azione militare non sembrò più così remota, in particolare nella mente di Ustinov, che mise in piedi i preparativi per un’eventuale missione. Un’invasione non era stata ancora presa seriamente in considerazione, ma i contatti di Amin con alcuni ufficiali statunitensi monitorati dal KGB allertarono le alte sfere sovietiche. La criticità della situazione aveva oramai raggiunto livelli di guardia, e la richiesta di Amin a fine novembre di procedere alla sostituzione dell’ambasciatore Puzanov fu una sorta di scintilla, che convinse Ustinov ed anche Andropov della necessità di un operazione militare e soprattutto della rimozione di Amin. In passato l’URSS si era mostrata riluttante ad un intervento a causa della delicata situazione internazionale ed in buona parte per non compromettere le trattative per il SALT II. Ma adesso l’accordo era stato firmato e l’opposizione interna statunitense rendeva difficile l’ipotesi di una ratificazione del Senato. Inoltre i nuovi missili a medio raggio che la NATO (North Atlantic Treaty Organization) aveva intenzione di schierare in Europa irritarono non poco l’Unione Sovietica. Il tutto contribuì a limitare la 35 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 910. 50 preoccupazione sovietica per l’eventuale reazione occidentale ad un intervento in Afghanistan36. Il 29 novembre, data del rapporto fortemente critico della situazione afghana al Comitato Centrale firmato da Andropov, Ustinov, Ponomarev e Gromyko coincise con l’invio nella città di Bagram, al nordovest di Kabul, di due battaglioni della 105esima divisione aerotrasportati, che portarono il totale degli uomini sovietici in terra afghana a 2.50037. Andropov tentò di fare pressioni a favore dell’intervento direttamente su Brezhnev, elencando in un memorandum per il leader sovietico le ragioni della necessità di un mutamento in Afghanistan. Amin aveva distrutto con le sue azioni il PDPA, l’esercito ed il governo, scrisse Andropov, ed aggiunse le sue considerazioni sul concreto pericolo di un possibile cambio di bandiera del leader afghano a favore degli Stati Uniti. Urgeva un cambiamento, ed il capo del KGB informò Brezhnev dei contatti avvenuti con Karmal ed anche con Asadullah Sarwari, uno dei Khalq esiliati ostili ad Amin. Andropov concluse informando Brezhnev dell’esistenza di un piano organizzato dagli oppositori dell’attuale leader del PDPA, “In these conditions, Babrak and Sarwari [...] have raised the question of possible assistance, in case of need, including military” 38. L’intenzione era di usufruire dei due battaglioni stazionati vicino a Kabul per liberarsi di Amin, schierando però in via preventiva alcune divisioni militari al confine con l’Afghanistan, per evitare impreviste complicazioni. Il documento di Andropov ebbe lo scopo di portare Brezhnev dalla propria (e di Ustinov) parte, per aggirare 36 Westad, The Global Cold War, cit., pp. 316-318. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 911. 38 Andropov, Personal memorandum to Brezhnev, Mosca, 1 dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113254, consultato il 10/1/2015. 37 51 le resistenze di personaggi importanti del Politburo come Gromyko 39. Oramai la preparazione dell’invasione era alle porte e l’8 dicembre si tenne un altro meeting tra Brezhnev, Andropov, Ustinov, Gromyko ed il capo del dipartimento internazionale Michail Suslov, in cui venne discussa in maniera concreta la possibilità di un'azione militare in Afghanistan. Andropov ed Ustinov, favorevoli all’invasione, insistettero sul pericolo di un intervento statunitense, puntando il dito contro il presunto tentativo della CIA di costituire un “new Great Ottoman Empire”40. Nell’immaginario del capo del KGB l'agenzia segreta statunitense avrebbe potuto tentare di riunire le popolazioni turche delle repubbliche meridionali dell'URSS (Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan) in un nuovo impero ottomano ostile all'Unione Sovietica ed alleato all'occidente. La NATO avrebbe potuto stabilire una base in Afghanistan e porre in serio pericolo le scarse difese aeree meridionali sovietiche, con il possibile aiuto del Pakistan 41. Due giorni dopo Ustinov informò il capo di Stato maggiore sovietico Nikolai Orgakov della decisione preliminare riguardante l’introduzione di truppe sovietiche in territorio afghano in un numero tra le 75.000 e le 80.000 unità. Orgakov ritenne che l’entità di quest’ultime fosse decisamente insufficiente a modificare la situazione in Afghanistan ed a sedare la guerra civile. Fu allora immediatamente convocato dal cosiddetto “small politburo” (Andropov, Gromyko ed Ustinov). In questa sede Orgakov dichiarò le sue preoccupazioni su quanto stava per avvenire: “We will reestablish the entire eastern Islamic system [islamizm] against us […] and we will lose politically in the entire world”, ma fu freddato da Andropov: 39 Westad, The Global Cold War, cit., p. 319. Alexander Lyakhovskiy, Account of the decision of the CC CPSU decision to send troops to Afghanistan, dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/115531, consultato il 7/1/2015. 41 Coll, La guerra segreta della CIA, cit., pp. 70-71. 40 52 “Stick to military affairs! We, the Party, and Leonid Il'ich will handle policy” 42. L’ultimo passo fu compiuto il 12 dicembre, quando venne contattato il generale del KGB Nikolay Ivanov stanziato a Kabul, per una sua valutazione sulla situazione in Afghanistan43. I preparativi iniziarono immediatamente. Insieme e parallelamente all’invasione il KGB iniziò a dedicarsi all’organizzazione dell’“operazione Agat” che avrebbe permesso la sostituzione al potere di Amin con Karmal44. La direttiva n° 312/12/001 del 24 dicembre 1979, firmata da Ogarkov ed Ustinov, dette il via alle operazioni: The decision has been made to introduce several contingents of Soviet troops deployed in southern regions of the country to the territory of the Democratic Republic of Afghanistan in order to given international aid to the friendly Afghan people and also to create favorable conditions to interdict possible anti-Afghan actions from neighboring countries45. Il resto della 105esima divisione (due battaglioni erano già stati spostati a Bagram dal 29 novembre al 5 dicembre) atterrò all’aeroporto di Kabul tra il 24 ed il 26 dicembre46. L’operazione principale partì alle 15:00 del giorno di Natale, seguendo due direttive: via aerea con le truppe aerotrasportate dirette a Kabul e Shindad; mentre via terra le divisioni stazionate ai bordi iniziarono a muoversi verso l’interno dell’Afghanistan. Il 27 dicembre prese invece il via l’“operazione Agat”, con 700 unità speciali del KGB che riuscirono nell’assalto al palazzo di 42 CC del PCUS, Summary of a meeting on Afghanistan, 10 dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111780, consultato il 9 gennaio 2015. 43 Alexander Lyakhovskiy, Account of the decision of the CC CPSU decision to send troops to Afghanistan, cit. 44 Westad, The Global Cold War, cit., p. 321. 45 Ustinov, Orgakov, directive n° 312/12/001 of 24 december 1979, Mosca, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111784, consultato il 10 gennaio 2015. 46 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 911. 53 Amin e giustiziarono il presidente insieme a buona parte dei suoi sostenitori e familiari. A Karmal, arrivato a Kabul, non restò che proclamarsi Primo Ministro e Segretario Generale del PDPA47. 47 Westad, The Global Cold War, cit., p. 321. 54 “[T]his is Cold War in the most classic, extreme form”1. Carter di fronte all'invasione sovietica dell'Afghanistan L'invasione sovietica dell'Afghanistan fu accolta con sorpresa dalla CIA, ma non furono i movimenti delle truppe sovietiche a sfuggire all'attenzione statunitense. Quello che gli analisti dell'Agenzia non riuscirono a comprendere furono le ragioni dell’iniziativa sovietica. Un rapporto della CIA a Carter, redatto pochi giorni prima, il 19 dicembre 1979, affermò che “further augmentation [of the Soviet forces near the border of Afghanistan] is likely soon, and […] preparations for a much more substantial reinforcement may also be under way”, ma ipotizzò anche che tali forze fossero probabilmente indirizzate a “hold other key points, engage insurgents in selected provinces, or free Afghan Army units for operations elsewhere”. La conclusione a cui giunse il documento fu che “to conduct extensive anti-insurgent operations on a countrywide scale would require mobilization of much larger numbers of regular ground forces” 1. Solo due giorni dopo gli esperti dell'Agenzia constatarono che l'intervento era praticamente già in corso. Gates avrebbe sostenuto che “CIA's Soviet analysts just couldn't believe that the Soviets actually would invade […] it would be foolish […] to do so”2. 1 George Kennan cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210. Douglas MacEachin, Predicting the Soviet Invasion of Afghanistan: The Intelligence Community's Record, in CIA, https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csipublications/books-and-monographs/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record.html, consultato il 29/12/2014. 2 Gates, From the Shadows, cit., p. 134. 1 55 Il 26 dicembre Brzezinski inviò a Carter un promemoria in cui rifletteva sugli avvenimenti dei giorni precedenti. Il National Security Advisor espresse la sua idea del rischio di un effetto domino, ovvero che la caduta dell'Afghanistan avrebbe potuto portare anche ad un passaggio del Pakistan nella sfera d'influenza sovietica. Questo sviluppo avrebbe significato per gli Stati Uniti un'inaccettabile perdita dell'accesso all'oceano Indiano. La situazione era delicata e Brzezinski iniziò a valutare l'ipotesi di trasformare l'Afghanistan in un “Soviet Vietnam”. Il problema erano, però, le modalità per giungere a tale esito. I guerriglieri anticomunisti erano disorganizzati e mal equipaggiati. Sarebbe stato, dunque, necessario non solo continuare a finanziarli, ma anche armarli con il tramite del Pakistan. Il presidente Zia ul-Haq era stato però annoverato dagli Stati Uniti tra i leader violatori dei diritti umani della propria popolazione ed era stata perciò vietata la vendita di armi statunitensi al governo di Islamabad. Inoltre il Pakistan si era dimostrato intenzionato ad acquisire un proprio arsenale nucleare, scontrandosi con la politica di non proliferazione dell'amministrazione Carter 3. Brzezinski fu tra i primi a proporre e sostenere la necessità di riallacciare un dialogo proficuo con Zia per ottenere il suo appoggio. Washington ci avrebbe provato con una proposta di forniture di armamenti ad Islamabad. Dopo il rifiuto di Zia dell'offerta statunitense di 400 milioni di dollari in aiuti militari, definiti “peanuts”, l'NSC Advisor partì con Christopher per incontrare il presidente pakistano allo scopo di convincerlo ad accettare le condizioni dell'assistenza statunitense4. Una stretta relazione di Washington con Zia avrebbe comportato 3 4 Smith, Morality, Reason & Power, cit., pp. 231-232. Ivi, p. 232. 56 l'ignorare in buona parte le precedenti considerazioni sui diritti umani. Vance, però, non si oppose alle decisioni di Carter e Brzezinski. Ma evitò pure di offrire un appoggio diretto alle proposte dei due. Brzezinski nelle sue memorie fa notare come, riguardo al suo viaggio con Christopher in Pakistan, “Vance did not object”, lasciando trapelare però la mancanza di un sostegno convinto del segretario di Stato alla strategia del consigliere per la sicurezza nazionale 5. Il viaggio ad Islamabad non riuscì comunque nell'intento di persuadere Zia ad accettare il denaro statunitense perché il leader pakistano continuò a ritenere la somma insufficiente. Carter ottenne comunque la collaborazione di Zia per aiutare i ribelli afghani. Accettò poi i suggerimenti del suo consigliere per la sicurezza nazionale ed aumentò il livello di coinvolgimento statunitense in Afghanistan il 29 dicembre, quando diede istruzione alla CIA di allargare l'aiuto ai mujaheddin includendo l'invio di materiale bellico6. Il presidente autorizzò l'Agenzia a fornire ai ribelli armamenti, ma non direttamente, bensì con il tramite del Pakistan e l'appoggio del suo presidente7. L'aiuto comprendeva fucili Lee Enfield a ripetizione manuale, in uso nell'esercito britannico fino agli anni Cinquanta e migliaia di lanciarazzi RPG-7 arrivati dall'Egitto e dalla Repubblica Popolare Cinese8. Da questi due paesi giunsero nel Pakistan, già nel 1980, anche fucili d'assalto automatici AK-47 e missili anticarro SA-7 destinati all'arsenale dei ribelli. Queste armi di produzione sovietica sarebbero potute essere scambiate facilmente dai soldati dell'Armata Rossa per scorte rubate dai ribelli, inducendoli 5 Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 448. Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 209. 7 George Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 24. 8 Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 81. 6 57 così a escludere l'ipotesi di una loro provenienza estera 9. La CIA fornì ai mujaheddin anche esplosivi al plastico C-4 per i sabotaggi, e con essi la consulenza di esperti per insegnarne l'utilizzo 10. Dal punto di vista pratico l'InterServices Intelligence (ISI), i servizi segreti pakistani, si sarebbe occupata di portare gli aiuti statunitensi direttamente ai ribelli. L'Arabia Saudita si sarebbe impegnata a co-finanziare le operazioni in misura eguale a quella statunitense. Carter assegnò la decisione sull'allocazione degli aiuti al governo pakistano ed ai suoi servizi segreti, che sarebbero stati liberi di scegliere quali gruppi di insorti finanziare11. Stava entrando nel vivo “[la] più grande e fortunata” operazione segreta della storia statunitense: l'Operation Cyclone12. Gli Stati Uniti avrebbero poi provveduto ad un'attività di propaganda mirante a denunciare i sovietici come violatori della pace e a sostenere l'indipendenza dei paesi islamici13. Il consigliere per la sicurezza nazionale comunicò a Vance le decisioni concordate col presidente: ripristinare le vendite militari ad Islamabad e l'intenzione di posticipare le discussioni sulla nuclearizzazione del Pakistan a crisi afghana risolta14. L'invasione dell'Afghanistan e la necessità della fondamentale intermediazione di Zia cambiarono le carte in tavola: l’impegno dell’amministrazione Carter a tutelare i diritti umani fu sacrificato, sul vecchio altare della guerra fredda, a favore dell'urgenza di affrontare con decisione la 9 Steve Galster, Afghanistan: Lessons from the Last War. The Making of US Policy, 19731990, 9 ottobre 2001, in NSA Archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB57/essay.html, consultato il 3 gennaio 2015. 10 Hartman, The Red Template, cit. 11 Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 81. 12 Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 14. 13 Brzezinski, Reflections on Soviet Intervention in Afghanistan, Washington, 26 dicembre 1979, in NSA archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1979-1226%20Brzezinski%20to%20Carter%20on%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014. 14 Brzezinski, Presidential Decision on Pakistan, Afghanistan and India, Washington, 2 gennaio 1980, in NSA Archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01-02%20Presidential %20Decisions%20on%20Pakistan%20-%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014. 58 minaccia sovietica. Washington con questo non si dimostrò favorevole ed anzi riaffermò la sua opposizione al tentativo pakistano di acquisire un armamento non convenzionale, ma l’amministrazione Carter preferì evitare il discorso piuttosto che continuare con la denuncia aperta di Islamabad in questo momento di necessità15. Gates, nelle sue memorie del 1996, ha menzionato per la prima volta l'esistenza di un programma statunitense di aiuti ai ribelli afghani addirittura antecedente all'invasione sovietica dell'Afghanistan. Gates ha fatto notare che, contrariamente all'idea che gli Stati Uniti avessero agito con colpevole ritardo nel teatro afghano, “Carter and Brzezinski […] initiated work on covert response nine months before, and implemented a covert finding to help the insurgents resist the soviets almost six months before the massive Soviet move”16. Secondo questa ricostruzione, la possibilità di fornire assistenza ai mujaheddin fu valutata dallo Special Coordination Committee (SCC) del consiglio di sicurezza nazionale a partire da un meeting del 6 aprile 1979. Il via all'operazione fu infine approvato con una direttiva di Carter firmata il 3 luglio17. In un'intervista del 1998 Brzezinski ha confermato l'importanza di questa iniziativa tra le cause della decisione del Cremlino di inviare l'Armata Rossa nel Paese. In tale occasione, l'ex consigliere della sicurezza nazionale ha parlato della caduta dell'Unione Sovietica nella “Afghan trap” come di un passo decisivo verso il collasso dell'impero comunista18. Nelle sue memorie Brzezinski non ha invece trattato direttamente dell'aiuto ai mujaheddin deciso a partire dal 6 aprile. Ha 15 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 234. Gates, From the Shadows, cit., p. 149. 17 Ivi, pp. 145-146. 18 Brzezinski, Interview with “Le Nouvel Observateur”, 15-21 gennaio 1998, in University of Arizona, http://dgibbs.faculty.arizona.edu/brzezinski_interview, consultato il 13 dicembre 2014. 16 59 esposto piuttosto la linea proposta da lui e Brown riguardante l'urgenza di esprimere aperta preoccupazione sulle interferenze di Mosca in Afghanistan, avversata senza successo da Vance e Christopher ed accettata da Carter. In retrospettiva inoltre la sottolineatura della spinta di Brzezinski tramite l'SCC “to be more sympathetic to those Afghans who were determined to preserve their country's independence” appare un chiaro riferimento al meeting dello Special Coordination Committee del 6 aprile19. Carter, nelle sue memorie, si è limitato a scrivere dell'invio di armi di produzione sovietica ai mujaheddin in seguito all'invasione sovietica “and […] giving them [Afghan rebels] what encouragement we could”20. Le dichiarazioni di Brzezinski a “Le Nouvel Observateur”, però, non sembrano trovare riscontro nell’atteggiamento di Washington tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. La reazione a caldo dell'amministrazione Carter fu quella di esprimere con forza la sua preoccupazione per gli sviluppi in Afghanistan. Fu del tutto assente qualsiasi sorta di entusiasmo derivante dalla constatazione che Mosca fosse caduta nella presunta trappola alla quale avrebbe fatto riferimento Brzezinski alcuni anni più tardi. A Washington era piuttosto presente il timore di una mossa sovietica che avrebbe finito col colpire l'intero golfo Persico. Nessuna soddisfazione pervase l'amministrazione Stati Uniti, anzi, l'atmosfera era dominata da una “momentary hysteria”21. Il presidente annunciò la sua valutazione e le sue reazioni nel discorso alla nazione del 4 gennaio 1980: 19 Brzezinski, Power & Principle, cit., pp. 426-427. Carter, Keeping Faith, cit., p. 475. 21 Senatore Frank Church in Charles A. Kupchan, The Persian Gulf and the West. The Dilemmas of Security, Allen & Unwin. Winchester, MA, 1987, p. 77. 20 60 This invasion is […] a callous violation of international law and the United Nations Charter […] because of the Soviet aggression, I have asked the United States Senate to defer further consideration of the SALT II treaty so that the Congress and I can assess Soviet actions and intentions […] The Soviets must understand our deep concern22. Comunicò inoltre la volontà di interrompere le esportazioni di grano e tecnologia avanzata verso l'Unione Sovietica, insieme alla decisione di boicottare le Olimpiadi che si sarebbero tenute a Mosca quell'estate. Nel successivo discorso sullo stato dell'Unione del 23 gennaio Carter avvisò che le “implications of the Soviet invasion of Afghanistan […] could pose the most serious threat to the peace since the Second World War”. Aggiunse poi una netta dichiarazione di forza Let our position be absolutely clear: An attempt by any outside force to gain control of the Persian Gulf region will be regarded as an assault on the vital interests of the United States of America, and such an assault will be repelled by any means necessary, including military force23. L'atteggiamento statunitense nei confronti dell'invasione sovietica dell'Afghanistan qui espresso dal presidente sarebbe divenuto noto come “Dottrina Carter”. Suona particolarmente stridente il contrasto tra la visione 22 Jimmy Carter, Address to the Nation on the Soviet Invasion of Afghanistan, Washington, 4 gennaio 1980, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/? pid=32911, consultato il 21 novembre 2014. 23 Jimmy Carter, The State of the Union Address Delivered Before a Joint Session of the Congress, Washington, 23 gennaio 1980, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=33079, consultato il 21 novembre 2014. 61 retrospettiva espressa da Brzezinski nel 1998 e “the president's personal passion” a seguito dell'invasione sovietica24. Risulta difficile pensare all'effettiva esistenza di un piano statunitense per far cadere Mosca nella “Afghan trap”. Appare molto più credibile un'impreparazione di Washington di fronte agli eventi del Natale del 1979. Come ha sostenuto Mario Del Pero, la dichiarazione espressa da Brzezinski nel 1998 quindi “appare assai discutibile, e il suo scopo sembra essere quello di attribuire all'amministrazione Carter parte del merito per la fine della Guerra Fredda”25. Nel suo discorso Carter parlò della nuova necessità di aumentare le spese militari e di investire per migliorare la capacità delle forze statunitensi di schierarsi rapidamente in aree distanti. Fu ribadito l'appoggio statunitense al Pakistan, necessario per impedire il temuto effetto domino che avrebbe potuto far cadere in mano sovietica buona parte dell'area mediorientale. Secondo il presidente, il mondo occidentale non poteva permettersi di rischiare di perdere l'accesso ad un'area “of great strategic importance: It contains more than twothirds of the world's exportable oil”26. Il progetto per la creazione di una Rapid Deployment Force (RDF) per proteggere gli interessi degli Stati Uniti nel golfo persico era già stato annunciato da Brown nel dicembre 1979, e l'invasione sovietica rimosse la maggior parte delle resistenze all'interno del Congresso27. Rispetto alle valutazioni proposte da Washington, Brezhnev tentò di giustificare le sue azioni motivandole come una risposta ad una richiesta di aiuto 24 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 957. Del Pero, Libertà e Impero, cit., p. 377. 26 Carter, The State of the Union Address Delivered Before a Joint Session of the Congress, cit. 27 Charles A. Kupchan, The Persian Gulf and the West, cit., p. 87. 25 62 afghana28. Carter non credette mai alla lettera del segretario generale del PCUS29: “The Soviets claim, falsely, that they were invited into Afghanistan to help protect that country from some unnamed outside threat”30. Le proposte di Carter ottennero un appoggio piuttosto diffuso tra l'opinione pubblica statunitense31, mentre le reazioni degli alleati all'estero furono più variegate e non sempre concordi. Innanzitutto l'embargo sulle esportazioni di grano verso l'Unione Sovietica per risultare efficace avrebbe dovuto ottenere l'appoggio dei paesi produttori sudamericani. Questa necessità portò l'amministrazione Carter a riconsiderare la propria posizione sui diritti umani nell'America latina. Ad esempio, nei confronti dell'Argentina, grande esportatrice di grano, venne messa da parte la critica riguardante la violazione dei diritti umani da parte del governo di Jorge Rafael Videla, per ottenere il sostegno di Buenos Aires all'embargo. Washington autorizzò un prestito di 79 milioni di dollari al paese sudamericano per convincere l'Argentina. Questa politica tuttavia ottenne scarsi risultati (Videla rifiutò di adeguarsi alle disposizioni di Carter) ed anzi irritò i sostenitori dei diritti umani in patria. La Derian arrivò a minacciare le proprie dimissioni come conseguenza delle decisioni di Washington nei confronti dei governi dittatoriali dell'America del sud32. Il boicottaggio delle Olimpiadi fu un altro parziale fallimento, dal momento che paesi importanti come la Gran Bretagna e la Francia decisero di mandare egualmente i loro atleti a partecipare ai giochi olimpici di Mosca, a 28 CC del CPSU, Reply to an Appeal of President Carter about the Issue of Afghanistan trough the Direct Communications Channel, Mosca, 29 dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113080, consultato il 9 febbraio 2015. 29 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210. 30 Carter, Address to the Nation on the Soviet invasion of Afghanistan, cit. 31 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210. 32 Ivi, p. 212. 63 scapito delle indicazioni di Washington. La decisione dei due alleati statunitensi rifletté i cattivi rapporti di una consistente parte dell'Europa occidentale con Carter. Il presidente si era attirato l'ostilità europea con alcune decisioni impopolari negli anni precedenti, tra queste quella di abbandonare la progettazione della bomba al neutrone. Questa sarebbe dovuta essere schierata nella Germania dell'Ovest, dove incontrò però la resistenza dell'opinione pubblica del paese33. Il cancelliere della Germania dell'Ovest Helmut Schmidt e gli esponenti degli altri paesi NATO furono pressati da Carter per accettare lo sviluppo della bomba. Il 5 aprile 1978 Bonn annunciò pubblicamente il suo appoggio al progetto statunitense, una mossa particolarmente costosa in termini politici per il cancelliere tedesco. Schmidt si alterò non appena venne a conoscenza dell'intenzione di Carter di rinunciare ad andare avanti con lo sviluppo della bomba al neutrone, una decisione che rese inutile il “sacrificio” del cancelliere34. Schmidt arrivò ad affermare “that the United States had unilaterally aborted the plans to produce and deploy neutron weapons”35. Inoltre l'ex ingegnere nucleare Carter denunciò i pericoli riguardanti la produzione e l'utilizzo del plutonio. Anche se adoperato a fini civili il pericoloso elemento avrebbe potuto essere sfruttato per ottenere armamenti non convenzionali, se non adeguatamente controllato. Oltre a rafforzare i controlli in patria tramite una legislazione più severa riguardo al trattamento del plutonio negli Stati Uniti, Carter fece pressioni anche all'estero per impedire il trasferimento di tecnologie nucleari. Vennero lanciati ammonimenti sia alla 33 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 50. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 851-853. 35 Carter, Keeping Faith, cit., pp. 228-229. 34 64 Germania Occidentale sia al Brasile, che stava cercando di importare tecnologia tedesca per la produzione di reattori atomici destinati ad uso energetico. L'affare saltò, ma non per l'interferenza di Carter, che non fece altro che irritare entrambi i paesi36. L'opinione del presidente statunitense ebbe invece successo nell'impedire il trasferimento di impianti nucleari dalla Francia al Pakistan, ma ebbero la loro influenza anche i timori di Parigi riguardo l'uso di questa tecnologia da parte di Zia37. Nelle sue memorie Gates ha attribuito l’incrinatura nei rapporti euroamericani anche all’impatto dell'inflazione statunitense (che dal 6% del 1977 passò al 20% del 1980) sull'economia dei paesi della NATO ed alla relativa sensazione di malessere diffusa in tutto l'Occidente. Gli alleati riconobbero in Carter il principale responsabile della situazione. Non solo Schmidt, ma anche il primo ministro britannico Margaret Thatcher ed il presidente della Repubblica francese Giscard d'Estaig “needed American leadership and did not find what they were looking for in Jimmy Carter”38. Ad aumentare la diffidenza e le perplessità del blocco occidentale contribuì la Dottrina Carter. Le dichiarazioni di Carter e le sue successive azioni rifletterono per Francia, Germania dell'Ovest e Gran Bretagna la debolezza del presidente e la sua voglia di riscatto in previsione delle imminenti elezioni 39. Per i paesi europei la gravità della manovra sovietica era stata esagerata da Washington. Veniva comunque avanzata una condanna delle azioni dell'Armata Rossa, ma i presunti piani del Cremlino per impossessarsi del Golfo Persico lasciarono spazio 36 Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 60. Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 53. 38 Gates, From the Shadows, cit., pp. 172-173. 39 Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 213-214. 37 65 nel vecchio continente ad interpretazioni dominate da una visione geopolitica più attenta, calibrata e realistica40. L'Europa occidentale non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla distensione con l'Unione Sovietica, come invece aveva fatto ed incoraggiava a fare Washington. Schmidt dichiarò: “we will not permit ten years of détente and defense policy to be destroyed”41. Un ulteriore motivo degli alleati per discostarsi dalla linea statunitense risiedé nella decisione di Carter di non consultarli prima di annunciare la reazione all'invasione sovietica dell'Afghanistan. Kaufman riporta dati significativi sull’andamento dei rapporti commerciali tra l'Europa occidentale e Mosca: “While U.S.-Soviet trade fell by 60 percent in 1980, West Germany and France increased their commerce with the Soviet Union by 65 and 100 percent, respectively”42. Anche Londra aumentò gli scambi di mercato con Mosca. Appare dunque evidente come le restrizioni statunitensi furono aggirate in maniera relativamente agile dal Cremlino. In conclusione nel vecchio continente non fu vista la necessità di correre il rischio di subire rappresaglie sovietiche per accontentare un alleato ed un leader che non godeva di grossa fiducia e con cui le relazioni non furono mai ottimali. La reazione statunitense fu senza dubbio influenzata anche dalla perdita dell'Iran, alleato fondamentale per Washington nel Medio Oriente, di poco precedente all'intervento sovietico in Afghanistan. Quest'ultimo Stato vide quindi la sua importanza strategica aumentare notevolmente. Una crescita dell’ influenza dell'URSS nel paese afghano non sarebbe probabilmente stata considerata 40 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 979. Ivi, pp. 977-978. 42 Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 214. 41 66 altrettanto critica nel 197843. In un documento statunitense dell'11 gennaio sono presenti interessanti considerazioni sull'impatto dell'invasione sulla politica estera dell'Unione Sovietica. In questa valutazione fornita dall'Office of Political Analysis venne subito evidenziata la possibilità da parte del Cremlino di aggirare l'embargo americano su determinati prodotti, affidandosi ad altri paesi che non si fossero allineati alla posizione di Carter. Era temuta inoltre la possibilità dello sviluppo di una politica sovietica più spregiudicata in Medio Oriente e nei Caraibi, a causa della scomparsa dei limiti imposti dalla distensione, oramai collassata. Per lo stesso motivo vennero previsti cambiamenti di rotta anche nella politica interna di Mosca. Sarebbe probabilmente diminuita l'emigrazione di ebrei, aumentata invece negli anni precedenti (e così avvenne44), e sarebbe cresciuta la repressione del dissenso45. A Washington venne negato il carattere difensivo dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, ma le mosse di Mosca in realtà rifletterono più la fragilità e la paura del Cremlino piuttosto che una sorta di nuovo slancio imperialistico. L’Unione Sovietica aveva effettivamente cercato di evitare un intervento diretto fino al momento in cui la situazione non si era mostrata definitivamente compromessa, in quanto Mosca temeva le ripercussioni internazionali e le difficoltà che avrebbe trovato in territorio nemico46. 43 Andrew Hartman, 'The Red Template: US Policy in Soviet Occupied Afghanistan', giugno 2002, in Third World Quarterly, http://www.tandfonline.com/page/openaccess/openselect, consultato il 10 gennaio 2015. 44 Carter, Keeping Faith, cit., p. 149. 45 Office of Political Analysis, The Invasion of Afghanistan: Implications for Soviet Foreign Policy, 11 gennaio 1980, in NSA Archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01-00%20Invasion%20of %20Afghanistan%20-%20Implications%20for%20SFP.pdf, consultato il 13 gennaio 2015. 46 Del Pero, Libertà e Impero, cit., pp. 376-377. 67 Il 1979 fu un anno cruciale per l'avvenire della guerra fredda ma anche per quello di Carter. Oltre all'invasione sovietica dell'Afghanistan dovette fronteggiare l'avvenimento che probabilmente gli costò più di tutti in termini di apprezzamento tra l'elettorato: la crisi degli ostaggi in Iran. Il 4 novembre di quell'anno circa 3.000 studenti islamici presero in ostaggio 52 membri dell'ambasciata statunitense a Teheran. Quest'avvenimento fu la risposta all'ospitalità di Washington per l'esiliato Shah Pahlavi, che versava in gravi condizioni di salute. Fu l'inizio di un incubo che nessuno si sarebbe aspettato. Secondo la ricostruzione di Carter, “None of us dreamed that we would wait more than fourteen months before our prayers were answered and our people were finally home”47. La crisi degli ostaggi tormentò il presidente fino alla fine del suo mandato, ma non solo, modificò anche l'atteggiamento statunitense in politica estera. Il popolo americano percepì un forte senso di impotenza che nell'immaginario collettivo rifletté la crisi del gigante americano, e questa valutazione influì in maniera decisa ad intaccare le speranze di rielezione di Carter. I cittadini statunitensi iniziarono a desiderare che il loro Paese mostrasse forza e determinazione. La risposta di Carter all'invasione sovietica in Afghanistan fu in parte la volontà del presidente di rispondere a queste esigenze 48. La politica estera percepita dall'opinione pubblica statunitense come debole iniziò quindi a virare verso un deciso conservatorismo49. Nell'aprile del 1980 il presidente decise di dare prova del rinnovato vigore della sua amministrazione procedendo all'organizzazione di una missione per la liberazione degli ostaggi in Iran. Vance si oppose all'idea e fece notare i rischi che avrebbe corso lo staff statunitense 47 Carter, Keeping Faith, cit., pp. 457-458. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 967. 49 Hartman, The Red Template, cit. 48 68 prigioniero in caso di un fallimento, ma Carter si fece convincere da Brzezinski che, come al solito, propose la linea più dura. L'operazione fu un fallimento totale. Non fu neppure conclusa (praticamente nemmeno iniziata) a causa di alcuni guasti agli elicotteri che avrebbero dovuto partecipare all'azione, con uno di questi che addirittura si scontrò con uno dei C-130 statunitensi. Ci furono otto morti tra i soldati, e la zona fu abbandonata in fretta lasciando quattro elicotteri in mano nemica50. I risvolti della vicenda affossarono ulteriormente le speranze di rielezione di Carter che avrebbe pagato l'aver agito “boldly and failed”51. Vance rassegnò le sue dimissioni in seguito al rifiuto del presidente di seguire le sue indicazioni ed al suo posto fu nominato il senatore del Maine Edmund Muskie. Inoltre il fallimento della missione di salvataggio impartì un duro colpo alla fiducia verso Carter, sia da parte degli elettori che all'interno del Congresso. La popolazione statunitense in aggiunta stava affrontando una crisi economica ed una crescente inflazione dovuta all'aumento del costo del petrolio in seguito alla rivoluzione iraniana 52. Il tutto accentuò una sensazione di malessere negli Stati Uniti la cui responsabilità fu attribuita a Carter e alla sua amministrazione.53 Uno dei pochi motivi di soddisfazione per Washington veniva da circa una decina di migliaia di km di distanza: la resistenza afghana combatteva meglio del previsto, anche grazie agli aiuti dell'Operation Cyclone54. Gromyko, Andropov, Ustinov e Ponomarev già alla fine di gennaio del 1980 iniziarono a rendersi conto di quanto stava accadendo in Afghanistan e del tentativo statunitense di cogliere 50 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 207. Gates, From the Shadows, cit., p. 155. 52 Carter, Keeping Faith, cit., p. 526. 53 Ivi, pp. 172-173. 54 Graziosi, L'URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 468. 51 69 un'opportunità per mettere in crisi l'Unione Sovietica: The USA, its allies, and the PRC have set themselves the goal of using to the maximum extent the events in Afghanistan to intensify the atmosphere of antiSovietism and to justify long-term foreign policy acts which are hostile to the Soviet Union and directed at changing the balance of power in their favor. Providing increasing assistance to the Afghan counter-revolution55. Nel documento venne fatto chiaro riferimento all'appoggio di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese a Zia, utile ad usare il Pakistan come base e come tramite per arrivare ai ribelli afghani. Molti comandanti della resistenza iniziarono dunque a fare riferimento ai gruppi più vicini al Pakistan, tra i quali il principale fu l'Hezb-i-Islami comandato da Gulbuddin Hekmatyar. I ribelli islamici di Hekmatyar avevano la loro base proprio a Peshawar in Pakistan, un vantaggio che permise loro l'accesso diretto ai rifornimenti statunitensi56. Il capo dell'Hezb-i-Islami ottenne una grande parte degli aiuti esteri grazie al fatto che Islamabad non avrebbe avuto alcun interesse a finanziare gruppi che avessero avuto come tratto distintivo la loro appartenenza etnica. Zia desiderò evitare una vittoria di gruppi nazionalisti afghani e incanalò quindi i dollari e le armi procurate dagli Stati Uniti verso i fondamentalisti islamici. L'ISI provvide a sostenere proprio i più radicali tra questi, tra cui appunto quello di Hekmatyar, che si occupava anche di traffici di droga. Inoltre l'Hezb-i-Islami non aveva una base popolare in Afghanistan ed era dunque molto 55 Gromyko, Andropov, Ustinov, Ponomarev, CPSU CC Politburo Decision, with Report, Mosca, 28 January 1980, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111585, consultato il 1 gennaio 2015. 56 Westad, The Global Cold War, cit., p. 326. 70 più legato al Pakistan, e dipendente da esso, di altri gruppi di resistenza afghana57. Tra febbraio e marzo Brzezinski intraprese una serie di viaggi per conferire col presidente Zia, con cui parlò di un eventuale allargamento dell'Operation Cyclone. In seguito si incontrò con i sauditi che riconfermarono il loro impegno nel teatro afghano. Il supporto statunitense ai mujaheddin fu accresciuto decisamente nel luglio 1980, quando furono aumentate la quantità e le tipologie di armamenti messi a disposizione dei ribelli58. Da parte sovietica, secondo una comunicazione di Andropov al CC del Politburo del 7 febbraio, la situazione a Kabul appariva in via di stabilizzazione. Ustinov constatò che, anche se il contesto adesso sembrava più favorevole, sarebbe comunque servito almeno un altro anno per mettere in sicurezza il Paese. Brezhnev addirittura si schierò a favore di un incremento delle truppe in Afghanistan59. Ma contrariamente alle osservazioni del capo del KGB, a Kabul le preoccupazioni aumentarono, dato che proprio in febbraio le attività dei mujaheddin salirono d'intensità. In Afganistan gran parte della nazione rispose infatti alla chiamata alla jihad, la guerra santa60. La CIA intraprese una campagna di propaganda a favore dei “combattenti della libertà” (come furono ribattezzati i mujaheddin da Carter 61) che finanziò in patria e all'estero articoli, pubblicazioni accademiche e tutto ciò che avesse esaltato i valori dei coraggiosi ribelli afghani massacrati dallo strapotere sovietico. I soldati dell'Armata rossa affrontarono invece direttamente la realtà di un popolo 57 Scott, The Road to 9/11, cit., pp. 120-121. Gates, From the Shadows, cit., pp. 148-149. 59 CC del Politburo, Transcript (Excerpt), on Andropov's Conversations with Afghan Leaders, Mosca, 7 febbraio 1980, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111587, consultato il 3 gennaio 2015. 60 Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 25. 61 Ibidem. 58 71 fortemente devoto alla propria indipendenza e tra i soldati iniziarono a circolare storie che dipingevano i mujaheddin come feroci combattenti spietati62. Con la resistenza afghana tutt'altro che prossima al termine, la decisione di un ritiro delle truppe a quel punto apparve prematura al Politburo. Inoltre la paura di apparire deboli e cedere alle intimidazioni statunitensi fece la sua parte. In ogni caso gli ordini da Mosca si fecero categorici, era il momento di “[b]egin active operations for destruction of the formations of the armed opposition together with the DRA [Democratic Republic of Afghanistan] Army”63. L'obbiettivo passò dalla stabilizzazione della situazione interna afghana alla distruzione dei rivali del PDPA. I due scopi erano in parte connessi, ma si verificò qui un passo in avanti nell'ambito dell'invasione sovietica. Ad aprile a Mosca prevaleva ancora l'ottimismo verso gli esiti dell'occupazione. Vennero sì sottolineati i problemi di Kabul riguardanti sia le riforme interne e l'ancora scarsa unità ed importanza del partito, sia la resistenza della popolazione e dei gruppi armati islamisti. Ma era ancora certa un'idea di avanzamento sicuro verso un governo afghano finalmente saldo al comando e scevro da pericoli, anche grazie all'azione militare sovietica che stava infliggendo grosse perdite alle “counterrevolutionary forces”64. I “combattenti della libertà” afghani stavano affrontando una lotta disperata, e gli aiuti segreti che stavano ricevendo dall'estero consistevano per lo più in armi obsolete fornite a guerriglieri impreparati. Nei primi mesi dell'Operation Cyclone alla CIA nessuno aveva mai pensato ad una sconfitta dei 62 Ibidem. Alexander Lyakhovsky, The Tragedy and Valor of Afghan, GPI Iskon, Moscow, 1995, pp. 176-177. 64 CC del Politburo, Decision on Afghanistan, with report by Gromyko, Andropov, Ustinov, and Zagladin, Mosca, 7 aprile 1980, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111590, consultato il 15 gennaio 2015. 63 72 sovietici in Afghanistan, l'obbiettivo era causare problemi all'Armata Rossa, ma non veniva considerata realistica la possibilità di fermarla. L'operazione dell'Agenzia venne attuata soprattutto per ottemperare alcuni scopi, gli aiuti avrebbero dovuto: allarmare i sovietici scoraggiandoli da ulteriori azioni nel Golfo Persico; dimostrare la fermezza di Washington nel contrastare le azioni militari del Cremlino con ogni mezzo e avrebbero poi fatto ben figurare gli Stati Uniti di fronte al mondo islamico65. Ma l'Unione Sovietica ribadì la legittimità del suo intervento sulla base della solidarietà ai rivoluzionari afghani e rigettò le accuse pervenute dagli Stati Uniti. Gromyko ricevette pieno appoggio quando dichiarò che Mosca non doveva scuse a nessuno, ma che anzi “should ask for pardon who organized and stand behind the aggression against Afghanistan, who concocted the criminal plans in relation to that country”66. In una nota dell'intelligence sovietica venne puntato il dito contro Washington, accusata di addestrare alla guerriglia i mujaheddin e di aver approvato in aprile un aiuto di 15.000.000 di dollari “officially legalizing interference in the internal affairs of a sovereign member state of the UN [United Nations]”67. Tra marzo e giugno, proseguiva il documento, erano state allocate armi presso i ribelli afghani per un valore di 4.500.000 dollari. L'inizio dell'estate del 1980 vide l'entrata in scena di un personaggio eccentrico che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell'appoggio ai “combattenti della libertà” afghani: il deputato del Texas Charlie Wilson 68. Wilson rimase 65 Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 24. Gromyko, Minutes of the Meeting of the CPSU, CC Plenum on the Situation in Afghanistan, Mosca, 23 giugno 1980, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111594, consultato il 15 gennaio 2015. 67 KGB, Intelligence Note Concerning Actions by the US in Aiding the Afghan Rebel Fighters, 1 settembre 1980, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111792, consultato il 15 gennaio 2015. 68 Galster, Afghanistan: Lessons from the Last War, cit. 66 73 colpito da un servizio del giornalista della CBS Dan Rather che aveva mostrato il coraggio dei ribelli nell'affrontare il nemico sovietico, di gran lunga meglio equipaggiato ed addestrato. Il deputato texano era stato recentemente nominato membro della potente sottocommissione stanziamenti per la Difesa ed utilizzò la sua posizione per disporre il raddoppio dei fondi della CIA destinati ai mujaheddin, che passarono così all’incirca dai cinque ai dieci milioni di dollari69. Questa disposizione non produsse immediati effetti decisivi sulla guerra in Afghanistan, ma è notevole se pensiamo alla facilità con cui fu concesso ad un semplice deputato di sollecitare un incremento fondi per la CIA, una prerogativa generalmente assegnato del presidente. La svolta afghana sottolineò particolarmente il contrasto tra i propositi preelettorali di Carter nel 1976 e le sue azioni guidate dalle proprie “apocalyptic perceptions”70 riguardanti l'intervento sovietico. Nella sua reazione e nell'enunciazione della Dottrina Carter violò molti dei suoi capisaldi. Innanzitutto la sua antica intenzione di evitare interferenze nella politica interna di altri paesi si fece del tutto incompatibile con la realtà dell'Operation Cyclone, che vide le sue basi essere poste ben prima dell'invasione sovietica. Secondo, la sua volontà di trascendere la visione bipolare tipica della guerra fredda fu del tutto abbandonata in questa occasione: un conflitto riguardante l'Unione Sovietica ed il piccolo Stato afghano fu trasformato in un attentato agli interessi statunitensi ed occidentali. Infine, ci fu anche una grossa violazione dell'impegno dell’amministrazione a tutelare i diritti umani. Se non possiamo incolpare Carter di avere indirizzato gli aiuti a gruppi di insorti fondamentalisti coinvolti in attività illecite come l'Hezb-i69 70 Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 28. Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 222. 74 Islami, possiamo attribuirgli certamente una miopia nella sua autorizzazione a consegnare in mano pakistana la quasi totalità degli aspetti pratici dell'Operation Cyclone. Senza contare la decisione di abbandonare le critiche riguardo alle politiche interne del dittatore Zia e riguardo alla volontà di nuclearizzazione del Pakistan (dimenticando così anche le promesse riguardanti la non proliferazione nucleare). La Dottrina Carter non fu un segnale lanciato solo al Cremlino, ma anche agli elettori statunitensi. Con il primo mandato del presidente oramai vicino al termine, Carter colse l'occasione dell'intervento sovietico in Afghanistan per fornire una prova di forza agli occhi dei propri cittadini. Il presidente quindi tentò di rimuovere “l'aura di titubanza” che aveva circondato l'amministrazione democratica71. Ma Carter, con la sua Dottrina, si trovò ad affrontare una situazione difficile: per offrire all'elettorato statunitense un'alternativa a Reagan avrebbe dovuto proseguire con la difesa della distensione, ma il suo discorso del 23 gennaio era andato in tutt'altra direzione. Inoltre, avendo ingigantito l'intervento sovietico e non essendo riuscito in seguito ad ottenere un ritiro delle truppe dell'Armata Rossa, finì col perdere ulteriore credito tra la popolazione statunitense (che pure aveva ben reagito inizialmente alla formulazione della Dottrina Carter)72. Anche nelle memorie di Carter sono presenti considerazioni sull'influenza dell'invasione sovietica nella sua campagna per la rielezione, ma nell'evidenziarle si limita a discutere delle difficoltà poste dalla situazione internazionale agli impegni elettorali: “In the midst of all international crises, the intrusion of the political campaign seemed almost unreal, but there was no way to 71 72 Romero, Storia della guerra fredda, cit., p. 279. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 1006-1007. 75 avoid it […] I was not actively campaigning”73. La dura reazione dell'amministrazione alle azioni di Mosca in Afghanistan rinnegò per di più buona parte delle decisioni e delle dichiarazioni del primo biennio di Carter. Allo stesso tempo questo cambiamento non portò ad un ritiro delle forze sovietiche e rifletté per l'ennesima volta la “apparent vacillation” del presidente74. Gli indici di gradimento popolare per il presidente democratico mostrano chiaramente come i consensi toccarono il loro picco nel periodo immediatamente seguente alla proclamazione della Dottrina. Ma mostrano altresì come questo credito iniziò a calare rapidamente, per venire poi definitivamente affossato dal fallito tentativo per la liberazione degli ostaggi in Iran 75. La priorità della politica statunitense era cambiata dalla difesa dei diritti umani al ritorno di vecchie logiche tipiche del contenimento, ma nessuno dei due atteggiamenti riuscì a convincere buona parte dell'opinione pubblica. La fine dell'anno era oramai vicina e con essa il possibile termine del mandato di Carter. Il 4 novembre 1980 fu l'anniversario dell'inizio della crisi degli ostaggi in Iran, lo stesso giorno in cui si svolsero le elezioni presidenziali. Una coincidenza non felice per Carter, col pubblico statunitense che veniva bombardato mediaticamente dalle immagini del personale americano intrappolato a Teheran da un anno. “When the public began to realize that the latest events in Iran would not lead to the hostages' freedom, a wave of disillusionment swept the country”76. Ma vi erano altre fonti di “disillusionment” tra gli elettori statunitensi. La potenza statunitense appariva al popolo americano sempre più in declino, e 73 Carter, Keeping Faith, cit., pp. 473-476. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 1006. 75 Roper Center, Job Performance Ratings for President Carter, http://www.ropercenter.uconn.edu/CFIDE/roper/presidential/webroot/presidential_rating_detail.cfm?allRate=True&presidentName=Carter, consultato il 7 febbraio 2015. 76 Carter, Keeping Faith, cit., p. 567. 74 76 neanche il cambiamento della priorità della politica estera di Carter del 1979 servì a cambiare l'immagine di decadenza del gigante statunitense. Il passaggio dalla priorità dei diritti umani ad un nuovo anticomunismo e ad una rinnovata volontà di aumentare le spese militari in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan, non riuscì se non inizialmente e per breve periodo nell'intento di restituire agli Stati Uniti la propria immagine di forza presso gli elettori. Né rimosse l'aura di debolezza e inconsistenza che avrebbe continuato a circondare Carter77. Anche le interminabili trattative per giungere ad un accordo SALT II furono presentate dalla critica come una sconfitta dell'amministrazione democratica, dal momento che gli ambiziosi traguardi di riduzione degli armamenti non convenzionali posti inizialmente del presidente non furono infine raggiunti. Carter non riuscì inoltre a gestire i contrasti tra Brzezinski e Vance, finendo con l'oscillare tra le posizioni dei due in maniera disordinata. Questo atteggiamento finì col causare confusione sia all'interno dei confini statunitensi che al di fuori di essi78. La sensazione di malessere generata dall'amministrazione democratica trovò riflesso nei risultati delle elezioni presidenziali: fu netta la vittoria di Reagan con il 50,7% dei voti popolari, contro il 41% di Carter. I repubblicani conquistarono la maggioranza anche al Senato e, pur restando in minoranza, aumentarono la loro rappresentanza alla Camera di 33 seggi. Nelle sue memorie Carter sottolinea come il fallimento delle trattative per il rilascio degli ostaggi abbia contribuito in maniera decisiva la sua sconfitta 79. Ma fu l'intera gestione della politica estera da parte di Carter ad avere un impatto importante sulle elezioni, e determinò il desiderio della popolazione statunitense 77 Smith, Morality, Reason, and Power, cit., pp. 242-243. Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 240. 79 Carter, Keeping Faith, cit., p. 570. 78 77 di un riscatto degli Stati Uniti in ambito internazionale sulla base di “moralità, potenza e missione”, offerta dall'ex governatore californiano80. 80 Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 378. 78 Conclusioni La figura del presidente Carter ha ricevuto valutazioni contrastanti dal termine del suo mandato ad oggi. Nella prima parte degli anni Ottanta all'interno del Partito Democratico era ancora viva la necessità di distaccarsi dalla figura dall'ex presidente georgiano. Walter Mondale, quando decise di candidarsi contro Reagan alle presidenziali del 1984, addirittura non ne chiese l'appoggio alla propria candidatura per la Casa Bianca1. Tra i democratici ci fu il desiderio di prendere le distanze da un ex presidente che era stato bocciato dall'opinione pubblica statunitense. Questa aveva generalmente stigmatizzato la politica estera del primo biennio di Carter come “naïve” ed aveva ritenuto la svolta del 1979 poco credibile 2. Le accuse di debolezza indirizzate a Carter sono apparse ingiustificate a Gates, che ha sottolineato la forza dell'ex presidente nel dialogare col Cremlino premendo sul tema dei diritti umani. Per Gates i sovietici “far more than Americans or Europeans […] saw Carter as a committed ideological foe as well as geopolitical adversary” ed evidenzia “that relations between the Soviet Union and the United States were more consistently sour and antagonistic during the Carter administration”3 . Ma quali vantaggi avrebbe potuto trarre dal timore sovietico, un presidente che prima di essere eletto aveva annunciato il desiderio di voler 1 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 234. Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 247. 3 Gates, From the Shadows, cit., pp. 178-179. 2 79 sviluppare ulteriormente il dialogo con Mosca? L'aver causato diffidenza e paura tra i dirigenti del PCUS sembra da questo punto di vista più un demerito che un merito di Carter, come invece Gates sembrerebbe voler fare apparire (il sottocapitolo in cui sono presenti le riflessioni riportate sopra è intitolato “Reevaluating Carter”). Gates giunge infine ad una considerazione: “I think the Kremlin later came to see great continuity between Carter's approach to them and that of his successor, Ronald Reagan”4. Può apparire improbabile stabilire una continuità tra un presidente democratico imputato di aver condotto una politica estera ingenua, inconcludente quando non addirittura controproducente, con quella di un presidente repubblicano che descrisse apertamente l'Unione Sovietica “l'impero del male” e riprese la corsa al riarmo con Mosca, aumentando il bilancio militare statunitense del 50% tra il 1980 ed il 1985 5. Ma, in effetti, osservando l'ultimo periodo di Carter possiamo notare che fu la sua Dottrina a segnare la fine della distensione, con i suoi toni duri di critica verso il Cremlino. Sempre nella Dottrina annunciò inoltre la necessità di aumentare le spese per la Difesa, anticipando quanto sarebbe stato poi sviluppato da Reagan sotto la sua amministrazione. Il democratico Carter, che avrebbe voluto distanziarsi dalla politica estera perseguita da Washington fino al momento della sua elezione, si trovò paradossalmente ad essere il prosecutore della distensione promossa dal governo repubblicano di Nixon e Kissinger (per quanto riguarda i primi tre anni di Carter) e l'anticipatore dell'indirizzo seguito da Reagan (con le sue decisioni in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan)6. 4 Ivi, p. 179. Del Pero, Libertà e impero, cit., pp. 300-285. 6 Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 967. 5 80 Per la mia tesi è fondamentale sottolineare soprattutto l'ampliamento entusiastico da parte di Reagan dell'Operation Cyclone, iniziata sotto Carter. Come ha sostenuto Odd Arne Westad, “[t]he Reagan approach was in many ways a continuation of the policies and methods developed by […] Brzezinski” 7. Secondo il giornalista Peter Bergen, gli aiuti statunitensi ai mujaheddin durante l'ultimo anno di Carter ammontarono ad una cifra compresa tra i venti ed i trenta milioni di dollari8. Gli Stati Uniti continuarono ad armare i ribelli afghani fino al 1989 ed usarono il modello stabilito dalla CIA nel 1980 fino al 1983. In altre parole, proseguirono a evitare l'aiuto diretto ai mujaheddin, agendo tramite il Pakistan, che si sarebbe impegnato a smerciare le armi ai ribelli 9. Quello che cambiò nel passaggio dall'amministrazione Carter a quella Reagan fu l'entità degli aiuti stabiliti dai bilanci annuali ad uso dell'Operation Cyclone gestita dall'Agenzia ed approvati dal Congresso, che sotto la presidenza repubblicana aumentarono dai trenta milioni di dollari del 1981 a quasi duecento milioni nel 1984 (per arrivare ad un costo finale totale dell'operazione di oltre 3 miliardi di dollari)10. Ma il modo di agire stabilito nell'ultimo anno dell'amministrazione Carter rimase pressoché invariato11. Solo negli ultimi anni, ed in seguito alle affermazioni delle memorie di Gates e dell'intervista di Brzezinski a “Le Nouvel Observateur”, rispettivamente del 1996 e del 1998, la storiografia ha iniziato a studiare con attenzione il ruolo e le responsabilità di Carter nell'ambito dell'Operation Cyclone. Gli attentati dell'11 settembre 2001 al World Trade Center ed al Pentagono rivendicati dal gruppo 7 Westad, The Global Cold War, cit., p. 331. Peter Bergen, Holy War Inc., New York, Simon & Schuster, 2001, p. 68. 9 Westad, Global Cold War, cit., p. 352. 10 Hartman, The Red Template, cit., p. 476. 11 Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 90. 8 81 terroristico di al-Qaeda e la successiva “guerra al terrore” promossa dall'amministrazione di George W. Bush hanno contribuito a incentivare la ricerca storica sui temi relativi all'Afghanistan ed in particolare sul finanziamento segreto statunitense ai mujaheddin. Al-Qaeda era stato infatti uno dei movimenti appoggiati dalla CIA durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan 12. Chiunque abbia cercato e cerca di capire le ragioni dell'odio islamico verso gli Stati Uniti si è trovato ad analizzare gli aiuti dispensati dall'Agenzia ai ribelli afghani tra il 1980 ed il 1989, identificando spesso queste motivazioni nell'abbandono statunitense dell'Afghanistan alla propria sorte in seguito al ritiro dell'Armata Rossa. Quello che rimase in seguito alla guerra finanziata dalla CIA fu un “paese distrutto, e gli Stati Uniti si lava[ro]no le mani di ogni responsabilità” 13. Lentamente l'Operation Cyclone ha iniziato a significare il primo passo erroneo di Carter in un “lack of forward thinking” statunitense, continuato ed ampliato poi da Reagan14. La jihad che la CIA aveva utilizzato per contrastare i sovietici si era volta contro gli Stati Uniti. “Nell'attività clandestina”, ha sostenuto l'ex agente della CIA John McMahon, “si deve sempre pensare al finale di partita prima di cominciarla. E noi non sempre lo facciamo”15. Per quanto concerne il confronto tra le politiche di Carter e di Reagan è opportuno evidenziare però anche i caratteri di discontinuità. Ottimo ad esemplificare le differenze tra i due è il diverso atteggiamento nei confronti di Nicaragua e Grenada. L'ex presidente democratico aveva tentato di mantenere il principio di non interferenza negli affari interni di altri paesi riguardo alla 12 Scott, The Road to 9/11, cit., p. 16. Crile, Il nemico del mio nemico, cit., pp. 480-493. 14 Hartman, The Red Template, cit., pp. 475, 477. 15 McMahon cit. in Weiner, CIA, cit., p. 369. 13 82 situazione nicaraguense, mentre per Grenada aveva tentato di promuovere una modesta operazione segreta, ma cedette subito alle proteste del Senate Intelligence Committee e cancellò il progetto senza insistere. Reagan fu di tutt'altro parere. Dichiarò che “se i sovietici vincessero in America centrale noi perderemmo […] dappertutto” ma non intervenne direttamente in Nicaragua con la forza militare, memore del ricordo non più fresco ma pur sempre attuale del Vietnam 16. Washington agì allora tramite aiuti segreti ai guerriglieri dei Contras, che dall'Honduras attaccavano il regime sandinista. Fu l'inizio di una guerra che avrebbe provocato centinaia di migliaia di vittime. Reagan agì con ancora più decisione nella piccola isola caraibica di Grenada, dove le considerazioni sugli effetti negativi di un intervento militare furono senza dubbio ridotte, date le dimensioni limitate dell'iniziativa. I marines invasero Grenada il 25 ottobre 1983 e rovesciarono il governo filocubano dell'isola. “Era la prima volta che le forze armate americane tornavano in azione dal Vietnam”17. Proprio a metà degli anni Ottanta la reputazione di Carter iniziò a risollevarsi. Nel 1982 l'ex presidente aveva fondato il Carter Center, un'organizzazione non governativa senza scopo di lucro che si impegnava, e si impegna ancora oggi, nella lotta alle malattie e nella promozione dei diritti umani in patria e all'estero. Le sue dichiarazioni a favore della pace in Medio Oriente e in America Centrale contribuirono ad aumentare la buona reputazione del presidente negli Stati Uniti e nel mondo. Carter tornò ad avere una voce anche nel Partito Democratico, dato che il senatore del Delaware Joseph Biden gli chiese l'appoggio per la sua nomination alle presidenziali del 198818. 16 Romero, Storia della guerra fredda, cit., p. 296. Ibidem. 18 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 234. 17 83 Carter nel 1994 fece parte di una missione diplomatica ad Haiti insieme al senatore democratico della Georgia Sam Nunn ed all'ex capo di Stato maggiore Colin Powell. L'obbiettivo della delegazione fu quello di ottenere il ritiro pacifico della giunta militare che nel 1991 aveva deposto con un golpe l'allora presidente eletto Jean-Bertrand Aristide, ed evitare così un intervento armato statunitense che era già in procinto di essere effettuato. L'esito delle trattative fu positivo e l'operazione Uphold Democracy, che avrebbe dovuto procedere con l'invasione di Haiti, trasformò il suo obbiettivo. Si occupò dunque esclusivamente di monitorare la transizione nel paese dalla giunta militare al ritorno di Aristide, assicurandosi che questa avvenisse in maniera pacifica. È da segnalare però che l'accordo fu siglato solo in seguito ad una dimostrazione di forza di Washington, che diede prova di essere realmente pronta ad effettuare un'invasione facendo partire dalla base in Nord Carolina l'ottantaduesima divisione aviotrasportata19. Ma in seguito alla firma del patto di non aggressione tra militari haitiani e statunitensi, Carter stupì tutti dichiarando di essersi vergognato della politica di Washington nei confronti del leader haitiano Raoul Cédras. Affermò che l'etichetta di dittatore assegnata dal presidente Bill Clinton a Cédras era infondata, ed accusò lo stesso Clinton di averlo costretto ad abbandonare Port au Prince “mentre avrei dovuto restarvi perché nessuno dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato dialoga con loro nell'ora del bisogno”20. Tra gli eventi promossi dal Carter Center ci fu anche la negoziazione dell'accordo di Nairobi dell'8 dicembre 1999 tra Uganda e Sudan, 19 Frye Gaillard, Prophet From Plains. Jimmy Carter and his Legacy, Athens, University of Georgia Press, 2007, edizione Kindle, posizione da 919 a 923. 20 Ennio Carretto, Haiti, giallo sul ritorno di Aristide, “Corriere della Sera”, 21 settembre 1994, http://archiviostorico.corriere.it/1994/settembre/21/Haiti_giallo_sul_ritorno_Aristide_co_0_940 92114395.shtml, consultato il 12 febbraio 2015. 84 a cui partecipò direttamente l'ex presidente. L'oggetto principale della disputa tra i due paesi era stato l'assistenza a gruppi di ribelli, che entrambi gli Stati vennero accusati dalla controparte di rifornire. Il governo del Sudan venne criticato per un presunto appoggio al Lord's Resistance Army (LRA), che agiva nel nord dell'Uganda utilizzando spesso anche bambini soldato rapiti in precedenza sul luogo. Invece, il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni fu accusato di rinforzare militarmente il Sudan People's Liberation Army (SPLA) per destabilizzare il governo di Khartum. L'accordo raggiunto anche con il contributo di Carter fu stipulato sulla base del reciproco rispetto della sovranità dei due paesi, che si sarebbero impegnati a mettere fine al loro precedente sostegno ai gruppi di ribelli che agivano tra i due paesi. 21 A segnare l'apice della “seconda carriera” di Carter giunse il conseguimento del premio Nobel per la pace del 2002 “for his decades of untiring effort to find peaceful solutions to international conflicts, to advance democracy and human rights, and to promote economic and social development”22. Carter ha tuttavia attirato anche critiche riguardo ad alcune sue recenti idee sulla politica estera statunitense e sui problemi globali, come avvenuto nelle controversie che hanno seguito l'uscita del suo libro Palestine: Peace Not Apartheid nel 200623. Il volume ha ricevuto alcuni giudizi positivi, ma ha suscitato l’ostilità di molti esponenti della comunità ebraica che definirono Carter antisemita. Il giornalista Jeffrey Goldberg del “Washington Post” affermò che “God, unlike Carter, does not manufacture sins to hang around the necks of Jews 21 Jimmy Carter, Beyond the White House: Waging Peace, Fighting Disease, Building Hope, New York, Simon & Schuster, 2007, edizione Kindle, posizione da 765 a 813. 22 Jimmy Carter – Facts, Nobelprize.org, Nobel Media AB, 2014 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2002/carter-facts.html, consultato il 6 febbraio 2015. 23 Jimmy Carter, Palestine: Peace Not Apartheid, New York, Simon & Schuster, 2006. 85 when no sins have actually been committed”24. L'anno successivo, in un articolo dell'“Arkansas Democrat-Gazette”, l’ex presidente dichiarò che “as far as the adverse impact on the nation around the world, [the George W. Bush] administration has been the worst in history”25. L'accusa non passò inosservata a Washington, che tramite il portavoce della Casa Bianca Tony Fratto rispose irritata alle parole dell'ex presidente: “I think it's sad that President Carter's reckless personal criticism is out there […] he is proving to be increasingly irrelevant with these kinds of comments”26. Carter continua ancora oggi a salire spesso agli onori della cronaca, a volte in maniera non lusinghiera come nel caso della recente dichiarazione del senatore dell'Arizona John McCain alla Phoenix Radio Station, che ha usato Carter come termine di paragone negativo per criticare la presidenza di Barack Obama 27. Più positivo il parere del giornalista del “The Washington Post” Stephen Rademaker, che riguardo all'annessione della Crimea da parte del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha sostenuto che “President Obama should be more like Jimmy Carter”, riferendosi alla reazione energica dell'ex presidente georgiano all'invasione sovietica dell'Afghanistan28. I giudizi sul mandato Carter sono tutt'ora contrastanti, come dimostrano i 24 Goldberg cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 235. Jennifer Hoar, Carter: Bush Admin. Is “Worst in History”, Associated Press, 19 maggio 2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/carter-bush-admin-is-worst-in-history, consultato il 6 febbraio 2015. 26 Jennifer Hoar, White House Call Carter “Irrilevant”, Associated Press, 20 maggio 2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/white-house-calls-carter-irrelevant , consultato il 6 febbraio 2015. 27 Peter Beinart, The Cost of Disowing Carter, “National Journal”, 31 gennaio 2015 http://www.nationaljournal.com/magazine/the-cost-of-disowning-jimmy-carter-20150130, consultato il 6 febbraio 2015. 28 Stephen Rademaker, On Ukraine: President Obama Should be More Like Jimmy Carter, “Washington Post”, 8 ottobre 2014, http://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2014/10/08/on-ukraine-president-obamashould-be-more-like-jimmy-carter, consultato il 6 febbraio 2015. 25 86 risultati di un sondaggio della Quinnipiac University sui migliori presidenti e sui peggiori. Il georgiano è presente sia nell'una che nell'altra “top five” delle classifiche29. In un'intervista del 16 gennaio 2015 alla domanda del corrispondente di ABC News George Stephanopoulos “When historians write the paragraph on Jimmy Carter, 100 years from now, what do you want to be at the top of the list?”, Carter ha risposto “I'd say, maybe peace and human rights” 30. Ma “maybe”, vista anche la crescita dello Stato Islamico (riconosciuto dall' Organizzazione delle Nazioni Unite come un'organizzazione terroristica) e l'alta risonanza mediatica di cui gode, è più probabile vedere approfondito uno studio sul ruolo di Carter e della CIA nell' aver “risvegliato [...] un'intera generazione di giovani militanti musulmani”31. 29 Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 235. Scott Withlock, ABC's George Stephanopoulos Fawns Over “Heroic” Jimmy Carter: Still “Going Strong”, in MRC NewsBusters, 16 gennaio 2015 http://newsbusters.org/blogs/scottwhitlock/2015/01/16/abcs-george-stephanopoulos-fawns-over-heroic-jimmy-carter-still, consultato il 6 febbraio 2015 31 Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 494. 30 87 Bibliografia Fonti I.1 Memorie dei protagonisti dell'amministrazione Carter  Brzezinski, Zbigniew, Power and Principle: Memoirs of the National Security Adviser. 1977-1981, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1983.  Carter, Jimmy, Keeping Faith. Memoirs of a President, New York, Bantam Books, 1982.  Carter, Jimmy, Beyond the White House: Waging Peace, Fighting Disease, Building Hope, New York, Simon & Schuster, edizione Kindle, 2007.  Gates, Robert M., From the Shadows. The Ultimate Insider’s Story of Five Presidents and How They Won the Cold War, New York, Simon & Schuster, 2006.  Vance, Cyrus Roberts, Hard Choices: Four Critical Years in Managing America's Foreign Policy, New York, Simon & Schuster, 1983. 88 I.2 Fonti disponibili su Internet I.2.a Discorsi di Carter in The American Presidency Project  Carter, Jimmy, "Our Nation's Past and Future": Address Accepting the Presidential Nomination at the Democratic National Convention, New York City, 15 luglio 1976, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/? pid=25953, consultato il 28 aprile 2014.  Carter, Jimmy, Inaugural Address, Washington, 20 gennaio 1977, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/? pid=6575, consultato il 14 aprile 2014.  Carter, Jimmy, Organization of American States Address Before the Permanent Council, alla Pan American Union, 14 aprile 1977 http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7347, consultato il 16 ottobre 2014.  Carter, Jimmy, Address at Commencement Exercises at the University, University of Notre Dame, 22 maggio 1977, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7552, consultato il 18 aprile 2014. 89  Carter, Jimmy, Address to the Nation on the Soviet Invasion of Afghanistan, Washington, 4 gennaio 1980, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=32911, consultato il 21 novembre 2014.  Carter Jimmy, The State of the Union Address Delivered Before a Joint Session of the Congress, Washington, 23 gennaio 1980, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=33079, consultato il 21 novembre 2014. I.2.b Archivio del Cold War International History Project del Woodrow Wilson Center.  Andropov, Jurij, Personal memorandum to Brezhnev, Mosca, 1 dicembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113254, consultato il 10 gennaio 2015.  Brezhnev, Leonid a Jimmy Carter, Mosca, 4 febbraio 1977, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112017 consultato il 2 maggio 2014.  Brezhnev, Leonid, Excerpt from transcript, CPSU CC Politburo meeting, Mosca, 20 settembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111568, consultato il 3 gennaio 2015.  Carter, Jimmy a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 26 gennaio 1977 http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112019, consultato il 2 maggio 2014. 90  Carter, Jimmy a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 14 febbraio 1977, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111269 consultato il 2 maggio 2014.  CPSU, CC, Summary of a meeting on Afghanistan, 10 dicembre 1979, consultato il 9 gennaio 2015.  CPSU, CC, Reply to an Appeal of President Carter about the Issue of Afghanistan trough the Direct Communications Channel, Mosca, 29 dicembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111780, consultato il 9 febbraio 2015.  Gromyko, Andrej, Jurij Andropov, Dmitrij Ustinov e Boris Ponomarev, Report on the situation in Afghanistan to CPSU CC, Mosca, 29 novembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111576, consultato il 3 gennaio 2015.  Gromyko, Andrej, Jurij Andropov, Dimitrij Ustinov e Boris Ponomarev, CPSU CC Politburo Decision, with Report, Mosca, 28 January 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111585, consultato il 1 gennaio 2015.  Gromyko, Andrej, Minutes of the Meeting of the CPSU, CC Plenum on the Situation in Afghanistan, Mosca, 23 giugno 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111594, consultato il 15 gennaio 2015. 91  KGB, Intelligence Note Concerning Actions by the US in Aiding the Afghan Rebel Fighters, 1 settembre 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111792, consultato il 15 gennaio 2015.  Lyakhovskiy Alexander, Account of the decision of the CC CPSU decision to send troops to Afghanistan, dicembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/115531, consultato il 7/1/2015.  Politburo, Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, 17 marzo 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113260, consultato il 17/12/2014.  Politburo, Memo on protocol #149 of the Politburo,”Our future policy in connection with the situation in Afghanistan”, Mosca, 1 aprile 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/110060, consultato il 26/12/2014.  Politburo, CC, Transcript (Excerpt), on Andropov's Conversations with Afghan Leaders, Mosca, 7 febbraio 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111587, consultato il 3 gennaio 2015.  Puzanov, Aleksandr, Political letter from USSR ambassador to Afghanistan A. Puzanov to soviet foreign ministry, ‘about the domestic political situazion in the DRA’ (notes), Kabul, 31 maggio 1978, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113255, consultato il 3 gennaio 2015.  Taraki Nur Mohamed, Information about the visit of the Afghan party and State delegation, headed by prime minister of the democratic republic of 92 Afghanistan Nur Mohamed Taraki to the USSR, Afghanistan, 4 dicembre 1978, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112458, consultato il 9 ottobre 2015.  Taraki, Nur Mohamed e Andrej Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei Kosygin and Afghan prime minister Nur Mohammed Taraki, 17 marzo 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113262, consultato il 15/12/2014.  Ustinov, Dimitrij, e Nikolai Orgakov, directive n° 312/12/001 of 24 december 1979, Mosca, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111784, consultato il 10 gennaio 2015. I.2.c Archivio della National Security Agency (NSA)  Brzezinski, Zbigniew, Reflections on Soviet Intervention in Afghanistan, Washington, 26 dicembre 1979, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1979-1226%20Brzezinski%20to%20Carter%20on%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014.  Brzezinski, Zbigniew, Presidential Decision on Pakistan, Afghanistan and India, Washington, 2 gennaio 1980, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01- 93 02%20Presidential%20Decisions%20on%20Pakistan%20%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014.  Galster, Steve, Afghanistan: Lessons from the Last War. The Making of US Policy, 1973-1990, 9 ottobre 2001, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB57/essay.html, consultato il 3 gennaio 2015.  Office of Political Analysis, The Invasion of Afghanistan: Implications for Soviet Foreign Policy, 11 gennaio 1980, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-0100%20Invasion%20of%20Afghanistan%20-%20Implications%20for %20SFP.pdf, consultato il 13 gennaio 2015. I.2.d Pubblicistica coeva  A Communist Coup in Afghanistan, “New York Times”, 5 maggio 1978, http://timesmachine.nytimes.com/timesmachine/1978/05/05/112780160.ht ml?pageNumber=32, consultato il 14 gennaio 2015.  Beinart, Peter, The Cost of Disowing Carter, “National Journal”, 31 gennaio 2015 http://www.nationaljournal.com/magazine/the-cost-of- disowning-jimmy-carter-20150130, consultato il 6 febbraio 2015.  Brzezinski, Zbigniew, Interview with “Le Nouvel Observateur”, 15-21 gennaio 1998, in University of Arizona, 94 http://dgibbs.faculty.arizona.edu/brzezinski_interview, consultato il 13 dicembre 2014.  Carretto, Ennio, Haiti, giallo sul ritorno di Aristide, “Corriere della Sera”, 21 settembre 1994, http://archiviostorico.corriere.it/1994/settembre/21/Haiti_giallo_sul_ritorno_Aristide_co_0_94092114395.shtml, consultato il 12 febbraio 2015.  Hoar, Jennifer Carter: Bush Admin. Is “Worst in History”, Associated Press, 19 maggio 2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/carter-bush-admin-is-worst-in-history, consultato il 6 febbraio 2015.  Hoar, Jennifer, White House Call Carter “Irrilevant”, Associated Press, 20 maggio 2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/white-housecalls-carter-irrelevant, consultato il 6 febbraio 2015.  Rademaker, Stephen, On Ukraine: President Obama Should be More Like Jimmy Carter, “Washington Post”, 8 ottobre 2014, http://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2014/10/08/onukraine-president-obama-should-be-more-like-jimmy-carter, consultato il 6 febbraio 2015.  Withlock, Scott, ABC's George Stephanopoulos Fawns Over “Heroic” Jimmy Carter: Still “Going Strong”, in MRC NewsBusters, 16 gennaio 2015 http://newsbusters.org/blogs/scott-whitlock/2015/01/16/abcs-georgestephanopoulos-fawns-over-heroic-jimmy-carter-still, consultato il febbraio 2015 95 6 I.2.e Altre fonti disponibili su Internet  Carter Jimmy – Facts, Nobelprize.org, Nobel Media AB, 2014 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2002/carter-facts.html, consultato il 6 febbraio 2015.  MacEachin, Douglas, Predicting the Soviet Invasion of Afghanistan: The Intelligence Community's Record, in CIA, https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-andmonographs/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistanthe-intelligence-communitys-record.html, consultato il 29/12/2014  Roper Center, Job Performance Ratings for President Carter, http://www.ropercenter.uconn.edu/CFIDE/roper/presidential/webroot/presidential_rating_detail.cfm?allRate=True&presidentName=Carter, consultato il 7 febbraio 2015. 96 Studi  Bergen, Peter, Holy War Inc., New York, Simon & Schuster, 2001.  Coll, Steve, La guerra segreta della CIA. L’America, l’Afghanistan e Bin Laden dall’invasione sovietica al 10 settembre 2001,Milano, BUR Storia, 2008.  Crile, George, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La guerra segreta del deputato Wilson, Milano, il Saggiatore, 2005.  Del Pero, Mario, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Roma-Bari, Laterza, 2011  Del Pero, Mario, The Eccentric Realistic. Henry Kissinger and the Shaping of American Foreign Policy, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2010.  Gaillard, Frye, Prophet From Plains. Jimmy Carter and his Legacy, Athens, University of Georgia Press, edizione Kindle, 2007.  Garthoff, Raymond L., Détente and Confrontation, American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington, D.C, The Brooking Institution, 1985.  Graziosi, Andrea, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Bologna, il Mulino, 2008. 97  Guderzo, Massimiliano, Ordine mondiale e buon vicinato, gli Stati Uniti e l’America latina negli anni di Carter, 1977-1981, Firenze, Edizioni Polistampa, 2012.  Hartman, Andrew, 'The Red Template’: US Policy in Soviet Occupied Afghanistan, “ Third World Quarterly”, XXIII, 3, 2002, pp. 467-489.  Kaufman, Scott, Plans Unraveled. The Foreign Policy of the Carter Administration, DeKalb, Northern Illinois University Press, 2008.  Kupchan, Charles A., The Persian Gulf and the West. The Dilemmas of Security, Winchester, Allen & Unwin., MA, 1987.  Lyakhovsky, Alexander, The Tragedy and Valor of Afghan, Mosca, GPI Iskon, 1995.  Pastor, Robert A., The Carter Administration and Latin America: A Test of Principle, in John D. Martz (a cura di), United States Policy in Latin America. A Quarter Century of Crisis and Challenge, 1961-1986, Lincoln, University of Nebraska Press, 1988, pp. 61-97.  Ranelagh, John, The Agency. The Rise & Decline of the CIA, Dunton Green, Sevenoaks, UK, Sceptre, 1986.  Romero, Federico, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009.  Smith, Gaddis, Morality, Reason & Power. American Diplomacy in the Carter Years, New York, Hill and Wang, 1987. 98  Smith, Gaddis, The Last Years of the Monroe Doctrine, 1945-1993, s.l., HarperCollinsCanadaLtd, 1994.  Vercellin, Giorgio, Iran e Afghanistan. Questioni nazionali religiose e strategiche in una delle zone più calde del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1986.  Weiner, Tim, CIA, Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, Milano, BUR Storia, 2010.  Westad, Odd Arne, The Global Cold War, New York, Cambridge University Press, 2005. 99