Scuola di Studi Umanistici e della Formazione
Dipartimento SAGAS
Corso di laurea in Storia
Il lancio dell'Operation Cyclone:
l'amministrazione Carter e
l'Afghanistan
Relatore:
Prof. Stefano Luconi
Candidato:
Gabriele Magnolfi
N° matricola 5085160
Correlatrice:
Prof.ssa Monica Galfré
anno accademico 2013-2014
INDICE
Elenco delle abbreviazioni ………………………………………….1
Introduzione …………………………………………………………3
Gli Stati Uniti all'angolo: lo shock del Vietnam, lo scandalo
Watergate e la speranza Carter........................................................10
La tutela dei diritti umani all'opera: Carter e il tentativo di svolta
nella politica estera ..........................................................................25
“The situation is bad and is getting worse”. Dall'ascesa del
comunismo afghano all'invasione sovietica………………………37
“[T]his is Cold War in most classic, extreme form”. Carter di
fronte all'invasione sovietica dell'Afghanistan……………………..55
Conclusioni…………………………………………………………78
Bibliografia…………………………………………………………87
Elenco delle abbreviazioni
ACDA = Arms Control and Disarmament Agency
CC = Comitato Centrale
CIA = Central Intelligence Agency
CUSLAR = Commission on United States-Latin American Relations
DCI = Director of Central Intelligence
FBI = Federal Bureau of Investigation
FSLN = Frente Sandinista de Liberación Nacional
ISI = Inter-Services Intelligence
KGB = Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (servizi segreti russi)
LRA = Lord's Resistance Army
MFN = Most Favored Nation
MPLA = Movement for the Liberation of Angola
NATO = (North Atlantic Treaty Organization)
NFLA = National Front for the Liberation of Angola
NPT = Non-Proliferation Treaty
NSA = National Security Agency
NSC = National Security Council
PCUS = partito comunista dell’Unione Sovietica
PD = Presidential Directive
PDPA = Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan
RDF = Rapid Deployment Force
1
SALT = Strategic Arms Limitation Talks
SCC = Special Coordination Committee
SPLA = People's Liberation Army
UNITA = National Union for the Total Independence of Angola
URSS = Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
ZANU = Zimbabwe African National Union
ZAPU = Zimbabwe African Peoples Union
2
Introduzione
Nel terminare il suo studio sulla politica estera dell'amministrazione di
Jimmy Carter, Scott Kaufman affronta i limiti interni ed esterni affrontati dall'ex
presidente democratico: “every president faces such limits. A successful president,
though, understands those limitations and then finds a way to work within them, if
not take advantage of them. That was not Jimmy Carter”1. Mario del Pero
attribuisce alla politica estera di Carter un ruolo non secondario nella percezione
di “malessere di cui soffriva il paese” al termine degli anni Settanta 2. Raymond
Garthoff, a proposito dell'eredità dell'amministrazione Carter, parla di “a hollow
aspiration to renew détente that coexisted uneasily with a failed policy keyed to
compelling the Soviet Union to withdraw from Afghanistan. The new
administration, however, speedily brushed aside both” 3. Questi sono solo alcuni
dei numerosi giudizi negativi forniti dagli storici sull'operato in politica estera di
Carter. Negli studi che ho consultato per la stesura della mia tesi spesso mi sono
reso conto di come l'approccio di Carter venga molte volte condannato come
debole ed inefficace, soprattutto se paragonato a quello del suo successore Ronald
Reagan.
1
Scott Kaufman, Plans Unraveled. The Foreign Policy of the Carter Administration,
DeKalb, Northern Illinois University Press, 2008, p. 241.
2
Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Roma-Bari,
Laterza, 2011, p. 375.
3
Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation, American-Soviet Relations from
Nixon to Reagan, Washington, D.C, The Brooking Institution, 1985, p. 1008.
3
Le critiche sulla conduzione della politica estera di Carter sono spesso
condivisibili. Ma per quanto riguarda la debolezza delle sue scelte è importante
considerare anche un aspetto che solo dalla fine del Novecento ha iniziato ad
assumere importanza e rilevanza negli studi sull'ex presidente democratico:
l'avvio da parte di Carter di una delle operazioni segrete più costose della storia
statunitense, l'Operation Cyclone. Come vedremo, la mia trattazione sottolineerà
il ruolo di Carter in questa dispendiosa manovra della Central Intelligence Agency
(CIA) finanziata dagli Stati Uniti, finalizzata a contrastare l'invasione sovietica
dell'Afghanistan avvenuta nel 1979. L'incidenza di Carter sull'andamento
dell'Operation Cyclone è rimasta in buona parte sconosciuta fino alla metà degli
anni Novanta, quando salì agli onori della cronaca in seguito alla pubblicazione
delle memorie di Robert Gates, che durante l’amministrazione Carter fu prima
uno dei membri del Consiglio di sicurezza nazionale (guidato da Zbigniew
Brzezinski) e successivamente direttore dell’ufficio per le ricerche strategiche
della CIA. In queste volume Gates ha fatto presente come l'amministrazione
Carter avesse iniziato a dare appoggio ai ribelli afghani ben prima dell'intervento
dell'Armata Rossa4.
Dalla fine del Novecento ad oggi sono stati pubblicati numerosi studi
riguardanti l'Operation Cyclone, in particolare in seguito all’intervento militare
statunitense in Afghanistan del 2001, in risposta agli attentati terroristici dell'11
settembre al World Trade Center ed al Pentagono. La necessità di ricostruire un
antefatto di questi avvenimenti ha spinto la ricerca storica ad approfondire
ulteriormente le relazioni degli Stati Uniti con il piccolo stato afghano. La mole di
4
Robert M. Gates, From the Shadows. The Ultimate Insider’s Story of Five Presidents
and How They Won the Cold War, New York, Simon & Schuster, 2006.
4
documenti desecretati negli ultimi anni, sia negli archivi americani che dell'ex
Unione Sovietica (l'attuale Federazione Russa), ha permesso agli storici una
ricostruzione maggiormente dettagliata e una valutazione più accurata delle
dinamiche dell'invasione dell'Afghanistan e della reazione di Carter con
l'Operation Cyclone.
In questo contesto storiografico si colloca il mio elaborato. In particolare,
l'obbiettivo della mia tesi è quello di dimostrare il contrasto tra i “due volti” di
Carter, illustrando il passaggio da una politica estera incentrata sulla tutela dei
diritti umani nel mondo, al ripristino della priorità di un anticomunismo tipico
dell'epoca del contenimento in seguito all'ingresso dell'Armata Rossa in
Afghanistan. Inoltre, nello specifico, ho voluto sottolineare come l'Operation
Cyclone non sia stata ideata da Reagan e dal suo direttore della CIA, William
Casey, bensì dall'amministrazione democratica di Carter. Casey, che voleva “farla
pagare ai russi in Afghanistan”5, trovò quindi delle solide fondamenta su cui
costruire la vendetta statunitense.
Oltre alla disamina dell'importanza delle iniziative di Carter sulla condotta
e gli esiti dell'Operation Cyclone, è tutt'ora vivo tra gli studiosi un dibattito
sull'impatto della politica a favore della difesa dei diritti umani che fu intrapresa
dall'ex presidente. Soprattutto viene considerato il peso che questo sostegno
potrebbe aver avuto sul crollo dell'Unione Sovietica. Gates non esita a dare peso
al “Jimmy Carter's contribution to the collpase of the Soviet Union and the end of
the Cold War”6. La ricerca storica odierna sta tuttavia concentrando la sua
5
George Crile, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La guerra segreta del
deputato Wilson, il Saggiatore, Milano, 2005, p. 122.
6
Gates, From the Shadows, cit., p. 176.
5
attenzione in maniera crescente sulle cause interne del tramonto sovietico7.
L'impossibilità di trattare nel complesso i “too many projects” 8 di politica
estera affrontati da Carter durante il suo mandato in uno spazio relativamente
ristretto mi ha costretto a selezionare solo quelli che mi sono apparsi più
significativi ed utili allo sviluppo della mia tesi. Durante la mia stesura, oltre agli
studi già esistenti riguardanti la politica estera di Carter e l'Operation Cyclone, ho
consultato una varietà di fonti di diversa provenienza. Si sono dimostrate
importanti le memorie dei protagonisti dell'amministrazione Carter, tra cui quelle
dello stesso ex presidente, di Brzezinski e di Gates 9. Meno significative si sono,
invece, rivelate le memorie del segretario di Stato Cyrus Vance, probabilmente per
il suo minor coinvolgimento nell'Operation Cyclone10. Fondamentali per accedere
ai documenti desecretati, originali o trascritti, sono state soprattutto alcune
raccolte di fonti consultabili online come il sito del materiale archivistico dalla
CIA reso pubblico dalla National Security Agency (NSA), il Digital National
Security Archive della George Washington University.e il Cold War International
History Project del Woodrow Wilson Center di Washington, DC. I discorsi e gli
interventi di Carter sono stati visionati attraverso The American President Project
della University of California at Santa Barbara.
La mia tesi è suddivisa in quattro capitoli. Nel primo capitolo viene fornito
un quadro della situazione statunitense dall'inizio degli anni Settanta fino
all'elezione di Carter. In particolare viene evidenziata la crisi di fiducia che stava
7
8
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 236.
Jimmy Carter, Keeping Faith. Memoirs of a President, New York, Bantam Books, 1982,
p. 143.
9
Carter, Keeping Faith, cit.; Zbigniew Brzezinski, Power and Principle: Memoirs of the
National Security Adviser. 1977-1981, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1983; Gates, From the
Shadows, cit.
10
Cyrus Roberts Vance, Hard choices: Critical Years in America's Foreign Policy, New
York, Simon & Schuster, 1983.
6
attraversando l’opinione pubblica americana, causata in buona parte dalle vicende
del Vietnam e del Watergate. In questo clima l’ex governatore della Georgia si
presentò come un “redentore” estraneo all’establishment di Washington. Nella sua
campagna elettorale Carter promise di riabilitare una politica estera troppo a lungo
subordinata al bisogno di contrastare il comunismo con qualsiasi mezzo e in
qualsiasi punto del mondo, asserendo la necessità di collocare la salvaguardia dei
diritti umani al centro dell’orientamento di Washington in campo internazionale.
Nel secondo capitolo ho illustrato la volontà del presidente Carter di dare
un seguito pratico alle sue dichiarazioni da candidato, mostrando nello specifico il
comportamento statunitense nei confronti delle situazioni presenti in Nicaragua,
Grenada e Rhodesia nel primo triennio della sua amministrazione. Ho affrontato
anche la questione delle relazioni tra Washington e Mosca nel medesimo periodo,
soffermandomi in particolare sulla difficoltà di coniugare un proficuo dialogo
volto al raggiungimento di un nuovo accordo per la limitazione degli armamenti,
nell’ambito delle Strategic Arms Limitation Talks (SALT II), con la critica di
Carter sulle violazioni di diritti umani perpetrata dal Cremlino verso i propri
cittadini.
Nel terzo capitolo ho tracciato una panoramica della situazione in
Afghanistan precedente all'invasione sovietica, in cui ho elencato anche le
peculiarità del piccolo paese. Ho descritto lo sviluppo degli eventi in seguito alla
rivoluzione che portò al potere il Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan
(PDPA) ed il successivo deterioramento delle sue relazioni con Mosca che indusse
infine il Cremlino ad optare per l'intervento. Ho ricostruito altresì come i media
statunitense percepirono la presunta inattività statunitense di fronte al colpo di
7
Stato che aveva insediato i comunisti al governo Kabul, soffermandomi su come
tali impressioni siano smentite nella realtà dalla constatazione che Carter aveva
approvato un programma di aiuti ai ribelli afghani già nell'aprile 1979.
Nell'ultimo capitolo della mia tesi ho affrontato la risposta di Carter
all'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'inizio e lo svolgimento dell'Operation
Cyclone e la Dottrina enunciata dal presidente. Ho illustrato in particolare le cifre
dell'operazione segreta della CIA, il suo andamento nel tempo ed alcuni dei suoi
attori principali. Ho riscontrato le maggiori difficoltà proprio nel reperire dati
precisi ed affidabili riferiti alla conduzione dell'Operation Cyclone nell'ultimo
anno del mandato di Carter. In questo ambito si sono rivelati molto utili gli studi
di George Crile, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La guerra
segreta del deputato Wilson; di Steve Coll, La guerra segreta della CIA.
L'America, l'Afghanistan e Bin Laden dall'invasione sovietica al 10 settembre
2001, e di Peter Dale Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of
America11. In questa parte ho ricostruito anche l’atteggiamento del Cremlino di
fronte all'andamento dell’intervento sovietico e le prime informazioni pervenute a
Mosca sull'appoggio ai ribelli afghani da parte di forze esterne al Paese.
Nelle considerazioni finali ho inserito alcune considerazioni sui caratteri di
continuità e discontinuità della politica di Carter con quella della successiva
amministrazione
Reagan,
passando
poi
ad
analizzare
le
conseguenze
dell'Operation Cyclone nel lungo periodo e la loro influenza sul risentimento
islamico verso Washington sorto nella parte finale del secolo scorso. Ho tracciato
11
Crile, Il nemico del mio nemico, cit.; Steve Coll, La guerra segreta della CIA. L’America, l’Afghanistan e Bin Laden dall’invasione sovietica al 10 settembre 2001,Milano, BUR Storia,
2008; Peter Dale Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of America, Berkeley,
University of California Press, 2007.
8
infine una sintesi sull'impegno di Carter in favore della salvaguardia dei diritti
umani nel mondo in seguito al termine del suo mandato come presidente.
9
Gli Stati Uniti all’angolo:
lo shock del Vietnam, lo scandalo Watergate e la speranza Carter
Nel suo discorso all’università di Notre Dame del 22 maggio 1977 Jimmy
Carter parlò di una “profound moral crisis” e di una “crisis of confidence”
mondiale verso il modello americano, generata dalla guerra del Vietnam1. La
caduta di Saigon del 30 aprile 1975 fu senza dubbio un evento drammatico e
cruciale per l’opinione pubblica statunitense e del mondo occidentale in generale.
La confusionaria evacuazione degli ultimi funzionari americani e delle loro
famiglie dalla capitale sud-vietnamita raffigurò bene l’immagine di un paese in
confusione, un paese che stava faticando a ritrovare un’identità, un paese e,
soprattutto, un popolo stanco. Perché questo non fu l’unico evento cruciale della
prima metà degli anni ’70 che andò ad intaccare la fiducia statunitense, ma solo
l’ultimo e forse il più clamoroso.
Circa tre anni prima, infatti, precisamente la notte del 17 giugno 1972,
ebbe inizio in sordina quello che fu considerato (ed è considerato ancora oggi) uno
dei momenti più oscuri della storia americana. Cinque scassinatori furono arrestati
nel complesso edilizio del Watergate di Washington, colti in flagrante all’interno
di quella che era la sede del comitato nazionale democratico. L’avvenimento fu
riportato l’indomani sul “Washington Post” ma non ebbe immediatamente un
grande impatto sul pubblico, come dimostrò la trionfale rielezione (61% dei voti
1
Jimmy Carter, Address at Commencement Exercises at the University, University of
Notre
Dame,
22
maggio
1977,
in
The
American
Presidency
Project
http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7552, consultato il 18 aprile 2014.
10
popolari) di Richard Nixon, ai danni di un poco convincente candidato
democratico George McGovern. Se la gravità del fatto non fu percepita subito
dagli elettori, preoccupò invece immediatamente il direttore della Central
Intelligence Agency (CIA) Richard Helms, non perché la CIA fosse stata
direttamente coinvolta, ma perché le conseguenze del Watergate non tardarono ad
arrivare a Langley. I successivi tentativi di Helms di tenere lontana l’agenzia dallo
scandalo portarono solamente ad una sostituzione al vertice della CIA decisa da
Nixon, con James Schlesinger che salì al comando, “un suo [del presidente]
uomo”2.
Seguì un periodo molto duro per la CIA che si trovò a fronteggiare
internamente l’ostilità del presidente ed il licenziamento di più di mille e
cinquecento dipendenti da parte del nuovo impopolare Director of Central
Intelligence (DCI), ed esternamente la sete di verità e trasparenza dei cittadini
statunitensi. Spiati per anni (particolarmente durante l’ultima amministrazione)
dall’Agenzia, dalla National Security Agency (NSA) e dal Federal Bureau of
Investigation (FBI), trovarono un alleato in un Congresso deciso a portare a galla
gli scheletri nell’armadio della CIA e a riacquisire forza nella politica nazionale, a
scapito del potere esecutivo.
Le indagini su ciò che era accaduto al Watergate Complex continuarono, e
i tentativi di Nixon di insabbiare l’inchiesta con l’aiuto dell’FBI non ebbero altro
esito se non quello di portare la Camera dei Rappresentanti a formulare una
richiesta di impeachment per il presidente nella primavera del 1974, con le accuse
di abuso di potere ed ostacolo al Congresso.
2
Tim Weiner, CIA, Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, BUR Storia,
Milano, 2010, p. 312.
11
Robert Gates (futuro direttore CIA) entrato a far parte del National
Security Council (NSC), ricorda del suo arrivo alla Casa Bianca l’8 luglio 1974:
“by the time I arrived, Nixon and his Presidency were zombies and the
atmosphere at the White House was funereal” 3. Esattamente un mese dopo il
presidente rassegnò le proprie dimissioni, lasciando la presidenza al vice
presidente Gerald Ford.
La “sindrome del Vietnam” complicò la posizione internazionale degli
Stati Uniti, paralizzandone la politica estera, e galvanizzando l’Unione Sovietica.
Questa situazione si manifestò in maniera eclatante in Angola, dove il processo di
indipendenza dal Portogallo aveva portato allo scontro per il potere tre fazioni
locali: il Movement for the Liberation of Angola (MPLA), guidato da Agostinho
Neto e appoggiato da URSS e Cuba; il National Front for the Liberation of Angola
(NFLA) con a capo Holden Roberto e il supporto di Stati Uniti e Cina; e la
National Union for the Total Independence of Angola (UNITA) di Jonas Savimbi,
che ebbe relazioni con la Repubblica Popolare Cinese ed il Sud Africa.
Nell’ottobre 1974 i sovietici alzarono il loro grado di coinvolgimento, fornendo
armi alla MPLA ed addestrandone poi le truppe in Unione Sovietica nel dicembre
dello stesso anno. Ad inizio del 1975 la CIA decise di non restare a guardare, e
chiese un modesto appoggio per la NFLA alla Casa Bianca, ottenendo dopo
attente valutazioni una cifra iniziale di soli 300.000 dollari (significativa della
paura d’esporsi statunitense è l’attenzione nel concedere una cifra relativamente
bassa). Nel frattempo l’MPLA chiese ed ottenne ulteriori armamenti dai sovietici,
e in maggio iniziarono ad arrivare mercenari e truppe regolari cubane. A questo
punto Kissinger prese la situazione in mano, spingendo fortemente per aiuti più
3
Robert M.Gates, From the Shadows, cit., p. 53.
12
incisivi a NFLA e UNITA, che furono approvati dal presidente Ford in luglio, con
l’invio di armi che partì entro fine mese. Il successivo invio in Angola da parte di
Cuba di circa 4.000 truppe spinse il DCI Colby a richiedere nuovi fondi
(impossibilitato a trovarli nelle casse della CIA) al Congresso. Tale fatto causò
l’irritazione dei componenti di quest’ultimo, riluttanti a rischiare di trascinare gli
Stati Uniti in un altro Vietnam. Il 19 dicembre 1975 fu approvato l’emendamento
del senatore Dick Clark che chiuse la covert operation in Angola4 lasciando così
senza sostegni finanziari l’NFLA e l’UNITA e spingendo il governo amico
sudafricano a ritirare i propri soldati intervenuti contro l’MPLA. Il fallimento in
Angola, con l’MPLA oramai al potere nella primavera del 1976 causò criticismo
verso gli Stati Uniti, che apparvero deboli nell’imporre la loro influenza sui paesi
del Terzo Mondo (debolezza che verrà attaccata sia internamente dalla destra
repubblicana, che esternamente dalla Cina) e danneggiarono le relazioni con il
Sudafrica5. Inoltre un ottimismo senza precedenti prese piede in Unione Sovietica
per il “proprio” successo in Angola6.
Con il paese in uno dei suoi momenti più delicati, il governatore della
Georgia James “Jimmy” Earl Carter Jr. annunciò la sua candidatura alle
presidenziali nel dicembre del 1974. Per la nomination democratica sfidò il più
esperto Henry Jackson, senatore dello Stato di Washington. Esponente dell’ala
neoconservatrice, Jackson aveva tentato di ottenere la candidatura democratica già
alle presidenziali del 1972, ma fu sconfitto da McGovern. I neoconservatori
furono tra i più accesi contestatori della distensione promossa da Kissinger e
4
5
Ivi, pp. 65-68.
Odd Arne Westad, The Global Cold War, New York, Cambridge University Press, 2005,
p. 237.
6
Ivi, p. 241.
13
Nixon, paragonata ad una “new form of appeasement”7, critica che raggiunse il
suo apice nell’opposizione ai trattati Strategic Arms Limitation Talks (SALT):
“This country has not prevailed for two hundred years,” proclamò Jackson nel
1975, “only to have its chief foreign policy spokesman side with the Soviet rulers
against the American commitment to freedom”8. I neoconservatori, guidati da un
rinnovato nazionalismo e da un anti-comunismo tipico degli albori della guerra
fredda, invitarono a diffidare del nemico sovietico. Jackson espresse la
convinzione che la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati sarebbe potuta
dipendere solo da “a margin of advantage in nuclear power for the peace-keepers
over the peace-upsetters”9.
Anche Carter durante la sua campagna elettorale criticò alcune decisioni di
politica estera delle ultime amministrazioni, non riguardo ai rapporti USA-URSS
come aveva fatto Jackson, ma piuttosto in riferimento alla scarsa attenzione per i
diritti umani delle recenti amministrazioni statunitensi. Troppo spesso esse
avevano stretto alleanze con regimi anticomunisti senza considerare il loro
impegno nel garantire i basilari diritti umani dei loro cittadini. La speranza di
Carter fu quella di riportare gli Stati Uniti ad essere nuovamente l’esempio giusto
per il mondo libero, come si desume dalla sua autobiografia, dove parla del
proprio sogno al momento della candidatura:
That this country set a standard within the community of nations of courage,
compassion, integrity, and dedication to basic human rights.10
7
Mario Del Pero, The Eccentric Realistic. Henry Kissinger and the Shaping of American
Foreign Policy, Ithaca, NY, Cornell University Press, 2010, p. 8.
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 122.
10
Carter, Keeping Faith, cit., p. 143.
14
Da questa speranza si evince molto bene l’idealismo di Carter. Georgiano
di solidi valori morali e profondamente religioso, svolse il servizio militare in
marina dal 1942 al 1953, dove acquisì numerose conoscenze e diventò un
qualificato ingegnere nucleare11. Dopo la morte del padre nel 1953 si dedicò con
successo all’attività di famiglia (coltivazione di arachidi) riportandola al benessere
finanziario. Quindi nel 1962 prese la decisione di entrare in politica, ottenendo un
posto nel senato statale della Georgia. Quattro anni dopo si candidò per la carica
di governatore senza successo, ma tentò nuovamente nel ’70 e raggiunse il suo
obbiettivo.
La decisione di candidarsi per la presidenza venne in un momento ideale
per Carter, quando il suo linguaggio profetico e millenaristico 12, focalizzato
sull’importanza dei valori morali, stridette fortemente con l’indesiderato lascito
della potenza amorale13 di Henry Kissinger e Nixon.
Il richiamo ai diritti umani era già stato portato all’attenzione del pubblico
statunitense dai neoconservatori nell’ambito delle discussioni sul Trade Reform
Act, iniziate nel 1973, mirante ad espandere le prerogative presidenziali sulle
negoziazioni riguardo alle riduzioni di tariffe e alle concessioni commerciali.
Tuttavia l’aspetto che scatenò l’opposizione dei neoconservatori fu lo status di
Most Favored Nation (MFN) che la legge avrebbe garantito all’Unione Sovietica.
Jackson sottolineò il “traditional [American] commitment to individual liberty” 14
un impegno rafforzato ulteriormente dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite, ed un impegno che avrebbe impedito
11
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 12.
Mario Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 368.
13
Ivi, p. 354.
14
Del Pero, The Eccentric Realistic, cit., p. 138.
12
15
l’accesso allo status di nazione favorita a quei paesi ad economia non di mercato
che stavano ostacolando l’emigrazione dei propri cittadini. Jackson godeva
dell’appoggio delle organizzazioni ebraiche statunitensi, e sebbene nella proposta
non fosse stato presente un esplicito rimando alla situazione degli ebrei in URSS,
impossibilitati ad emigrare, appare scontato un riferimento implicito a questo
tema. Con la proposta, che si trasformò nell’emendamento Jackson-Vanik, si
aprirono due dilemmi che sarebbero riapparsi con forza nella futura
amministrazione Carter: da una parte come mantenere un equilibrio tra difesa
degli interessi nazionali e impegno verso i diritti umani; dall’altra come evitare di
irritare la leadership sovietica (che espresse disappunto per l’emendamento) su ciò
che loro considerarono come interferenze nella loro politica interna, ovvero
l’insistenza sui diritti dell’uomo.
Un fattore ulteriore decisamente importante per la candidatura di Carter fu
che si presentò come un estraneo a Washington, “An Outsider in Washington” 15
come non esita a definirsi nella sua autobiografia, dunque solo uno spettatore
lontano dei recenti scandali della politica statunitense. Questa era una “dote” che
il senatore Jackson non possedeva, e che si rivelò fondamentale per la netta
vittoria del governatore della Georgia. Carter accettò la nomination alla
convention democratica del luglio 1976 ribadendo la necessità di una svolta e di
un ritorno negli Stati Uniti della fedeltà ai principi delle origini:
We want to have faith again. We want to be proud again. We just want the truth
again.[…] America's birth opened a new chapter in mankind's history. Ours was
the first nation to dedicate itself clearly to basic moral and philosophical
15
Carter, Keeping Faith, cit., p. 63.
16
principles [...]two hundred years later, we must address ourselves to that role,
both in what we do at home and how we act abroad among people everywhere.16
Il presidente Ford nel frattempo ottenne la nomination repubblicana, dopo
aver combattuto e sconfitto (non senza difficoltà) l’ex governatore della California
Ronald Reagan. Debole e privo di legittimazione elettorale 17 dette un duro colpo
alle proprie speranze di elezione con la decisione di concedere il perdono a Nixon.
Nelle elezioni del 1976, con la ferita del Vietnam sempre aperta, la politica
estera si presentò ovviamente al centro dei dibattiti elettorali. La maggior parte
delle conoscenze del candidato democratico su questo tema furono acquisite nella
sua esperienza come membro della Commissione Trilaterale, fondata da David
Rockefeller nel 1973 e diretta da Zbigniew Brzezinski, con lo scopo di rafforzare
l’interdipendenza mondiale in maniera pacifica sotto l’iniziativa di Stati Uniti,
Canada, dei paesi dell’Europa occidentale e del Giappone. Leggendo i rapporti
della Commissione, Carter plasmò buona parte delle sue idee di politica estera.
Intrecciando l’enfasi sulla moralità con il discorso sui diritti umani,
caposaldo della sua idea di conduzione della politica estera, il futuro presidente
degli Stati Uniti dichiarò di voler uscire dai vincoli della visione Est-Ovest, una
visione che troppo spesso in passato aveva spinto ad abbracciare regimi autoritari,
purché non comunisti. Carter promise un impegno indirizzato a fornire aiuti e
solidarietà a quei paesi le cui politiche sui principali diritti e sulle principali libertà
dell’uomo (definite in base a testi fondamentali come la Dichiarazione universale
16
Jimmy Carter, "Our Nation's Past and Future": Address Accepting the Presidential
Nomination at the Democratic National Convention, New York City, 15 luglio 1976, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=25953, consultato il 28 aprile
2014.
17
Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 367.
17
dei diritti dell’uomo, o come i recenti accordi di Helsinki del 1975) sarebbero
state allineate agli standard statunitensi. L’intento del candidato fu quello di
riabilitare una politica estera statunitense che per troppo tempo era stata
subordinata alla paura dell’espansione del comunismo. Questo atteggiamento
aveva portato troppo spesso a fornire aiuti a paesi con politiche repressive in
materia di diritti civili, contrastando invece personaggi sgraditi a Washington
anche con mezzi poco convenzionali, come avrebbe dimostrato Alleged
Assassination Plots Against Foreign Leaders, il rapporto della Commissione
Church. La commissione guidata da Frank Church, senatore democratico dello
Stato dell’Idaho, fu incaricata in seguito ai recenti sconvolgimenti del sud-est
asiatico e del Watergate, di indagare sulle operazioni della CIA,. Il risultato fu il
rapporto che confermò i tentativi di assassinio di Patrice Lumumba e di Fidel
Castro da parte della CIA, ma non si giunse ad affermare un diretto
coinvolgimento dei presidenti statunitensi o dei loro collaboratori, sebbene
risultasse chiaro che l’Agenzia non avrebbe mai agito di propria iniziativa18. Le
conseguenze di queste investigazioni furono un (ulteriore) duro colpo sia per la
CIA, sia per il governo degli Stati Uniti, che sembrava oramai interessato
esclusivamente a fermare l’avanzata sovietica, a qualsiasi costo e con qualsiasi
mezzo. Carter pensò dunque di poter recuperare la credibilità statunitense in patria
e all’estero, sostituendo al criterio dell’ “anticomunismo”, considerato dai più
oramai sorpassato e dannoso, un enfasi sui diritti umani che avrebbe rispecchiato
gli antichi valori delle origini e che soprattutto avrebbe preso le distanze dai
compromessi e dai “patti col diavolo” tipici del periodo Nixoniano/Kissingeriano.
18
John Ranelagh, The Agency. The Rise & Decline of the CIA, Dunton Green, Sevenoaks,
UK, Sceptre, 1986, pp. 595-596.
18
Per contribuire alla sicurezza globale, Carter sottolineò con forza la
necessità di limitare produzione e trasferimento di armi convenzionali e,
soprattutto, di porre un freno alla proliferazione nucleare. Su questo punto senza
dubbio sarebbe stato necessario continuare ed approfondire la distensione con
l’Unione Sovietica, proseguendo sulla strada che già aveva portato alla firma del
Non-Proliferation Treaty (NPT) nel 1968 e degli accordi SALT nel 1972. Proprio
su questo argomento si nota la nascita di
una delle prime fondamentali
contraddizioni della futura amministrazione Carter: sarebbe stato possibile
approfondire il dialogo con l’URSS, un paese nella quale le violazioni dei diritti
umani erano all’ordine del giorno, e allo stesso tempo perseguire con coerenza
una politica estera volta alla promozione globale delle libertà e dei diritti
dell’uomo? Lo stesso candidato democratico non contribuì a fare chiarezza,
denunciando le violazioni degli accordi di Helsinki da parte sovietica ed
esprimendo allo stesso tempo il suo desiderio di cooperare sempre più con
l’Unione Sovietica sui grandi problemi globali (riduzione degli armamenti
nucleari su tutti)19. Questo suo “doppio messaggio” da una parte creò confusione
tra gli elettori, e dall’altra avrebbe creato problemi alla sua amministrazione sin
dal giorno del suo insediamento20. Quello che senza dubbio Carter lasciò capire
dai suoi discorsi fu che il governo degli Stati Uniti sotto la sua guida non avrebbe
interferito negli affari interni di altri paesi né per mano della CIA né di altre
organizzazioni, tolta l’eccezione di una “ovvia minaccia alla sicurezza degli Stati
Uniti o della sua gente”21. Il futuro presidente sostenne che avrebbe piuttosto
19
Gaddis Smith, Morality, Reason & Power. American Diplomacy in the Carter Years,
New York, Hill and Wang, 1987, pp. 30-31.
20
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 16.
21
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 30.
19
perseguito con coerenza una politica estera guidata dai diritti umani e non da una
visione degli avvenimenti esteri come espressioni dello scontro con l’URSS, come
accaduto con l’intervento nel sud-est asiatico.
Nelle elezioni di novembre Carter sconfisse Ford con un margine risicato,
e nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 1977 ribadì con forza aspetti che già
aveva sottolineato da candidato:
The American dream endures. We must once again have full faith in our country
and in one another. […] Our commitment to human rights must be absolute.[…]
Our Nation can be strong abroad only if it is strong at home.22
Dopo aver annunciato alla nazione l’impegno assoluto della sua
amministrazione per la tutela dei diritti umani, invitò gli altri paesi a fare lo stesso,
con l’intento non di “intimidire”, ma di instaurare corsie preferenziali con quei
paesi più in linea con gli standard statunitensi. In chiusura di discorso lanciò poi la
sua profetica visione di un cammino verso un mondo pacifico, libero da
armamenti nucleari e con sempre meno armamenti convenzionali, un cammino
che sarebbe potuto essere efficace solo se condiviso dal mondo intero (anche se
non specificato nel discorso, fu chiaro l’invito in particolare all’Unione
Sovietica)23.
La particolare situazione in cui si trovarono gli Stati Uniti all’epoca giocò
un ruolo determinante per la vittoria di Carter, che con i suoi propositi portò
speranza al pubblico statunitense dopo gli esiti di una guerra impopolare
22
Jimmy Carter, Inaugural Address, Washington, 20 gennaio 1977, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=6575, consultato il 14 aprile 2014.
23
Ibidem.
20
(Vietnam) dalla quale gli statunitensi uscirono a testa bassa e sconfitti, e ad un
popolo sempre più consapevole dei grossi rischi di una sfrenata corsa agli
armamenti, soprattutto nucleari. In campagna elettorale questo contesto, unito
all’estraneità di Carter a Washington, costituì un vantaggio per Carter, ma una
volta giunto al potere la situazione si capovolse. Da una parte l’inesperienza
sarebbe stata messa alla prova dai processi decisionali, dai giochi di potere interni
alla Casa Bianca e da un Congresso con cui non avrebbe saputo gestire quel gioco
di “give-and-take”24 fondamentale per non paralizzare le future iniziative di
politica estera; mentre dall’altra il trauma del Vietnam avrebbe richiesto un attento
bilanciamento di una politica estera che voleva essere diretta alla salvaguardia dei
diritti umani, ma che asseriva di non voler interferire con gli affari interni degli
altri paesi.
Per fronteggiare queste sfide Carter scelse due importanti protagonisti ad
affiancarlo (oltre ad assegnare il ruolo di vicepresidente al fidato Walter
Mondale): Cyrus Vance nel ruolo di segretario di Stato e Zbigniew Brzezinski
come consigliere per la sicurezza nazionale. I tre protagonisti delle future
decisioni di politica estera furono tutti concordi sulla questione fondamentale di
non ripetere il modello Kissinger25 e, almeno inizialmente, Brzezinski tenne fede
al “patto”. Ma le differenze tra i due principali consiglieri dell’amministrazione
non avrebbero tardato molto a sfociare in contrasto.
“Cy”, anche lui membro della Commissione Trilaterale, aveva avuto un
importante passato e possedeva una grande fama di abile negoziatore. Simile al
suo presidente per molti aspetti, nutriva grande attenzione per qualsiasi dettaglio,
24
25
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 27.
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 43.
21
come l’“ingegnere” Carter26, e soprattutto dimostrò di essere pronto a svincolare
la politica estera statunitense dalla visione bipolare della Guerra Fredda. Il suo
impegno nei confronti dei diritti umani fu convinto e continuo nel corso
dell’amministrazione, ma a differenza di Carter ritenne poco attuabile un impegno
“assoluto”, come il presidente dichiarò nel suo discorso inaugurale, verso di essi.
Probabilmente rittenne incompatibile questa promessa con il futuro dialogo con
l’Unione Sovietica sul tema che a Vance stava più a cuore: il dialogo sul disarmo
nucleare27.
Il nuovo National Security Advisor, la cui nomina preoccupò la leadership
sovietica (la sua linea poco accomodante nei confronti dell’Unione Sovietica fu
presente già nei suoi primi scritti, dove sostenne ad esempio la necessità
statunitense di dialogare da una posizione di forza 28), era per molti aspetti diverso
dal diplomatico segretario di Stato. Figlio di un nobile polacco, pensò che
l’impegno verso i diritti umani sarebbe potuto essere sfruttato “per mettere
l’Unione Sovietica sulla difensiva dal punto di vista ideologico” 29. Rispetto a
Vance si dimostrò meno propenso a slegare alcuni aspetti della politica estera dal
dialogo con i leader sovietici, e usò sempre toni decisi nei loro confronti. Già in
un memorandum del 1976 avvisò il futuro presidente Carter del fatto che la
distensione era intesa dall’URSS come un mezzo per promuovere “the world
revolutionary process”, e che la futura amministrazione avrebbe dovuto chiarire
subito che comportamenti irresponsabili verso l’ordine globale sarebbero stati
considerati incompatibili con il processo di distensione, portando ad esempio
26
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 18.
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 41.
28
Zbigniew Brzezinski and Samuel P. Huntington, Political Power: USA/USSR, New
York, Viking Press, 1964 cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 20.
29
Andrea Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 19451991, Bologna, il Mulino, 2008, p. 424.
27
22
“Angola, the Middle East, and the UN”30.
Mosca intanto cercò di instaurare un dialogo costruttivo con il neo
presidente statunitense su molti temi delicati, mantenendo i toni bassi, cosa che
l’insistenza sui diritti umani del presidente Carter complicò sin dal principio,
come si può notare dalla corrispondenza con il leader sovietico Leonid Brezhnev
nei primi mesi del 1977 in cui sottolinea che “we cannot be indifferent to the fate
of freedom and individual human rights”31. Brezhnev sottolineò la necessità che
qualsiasi rapporto tra i due paesi fosse regolato dal principio fondamentale di
“non-interference into the internal affairs of the other side”32. Appare ovvia la
preoccupazione riguardo al riferimento sui diritti umani, questione ritenuta di
pertinenza della politica interna dalla leadership sovietica. Carter tentò di
tranquillizzare il leader sovietico nella lettera successiva, cercando di inserire il
suo invito della prima lettera in un semplice impegno degli accordi firmati ad
Helsinki da parte sovietica e non in una sorta di interferenza statunitense nella loro
politica interna33. Difficile credere che questa risposta avesse placato
l’apprensione del partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) anche perché la
firma degli accordi stava causando non pochi problemi coi paesi satelliti dove
sempre più voci di protesta iniziarono a levarsi. Praticamente Helsinki si
trasformò nel “manifesto of the [Soviet bloc] dissident and liberal movement […]
30
31
Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 189.
Jimmy Carter a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 26 gennaio 1977 in Woodrow
Wilson
Center,
Cold
War
International
History
Project,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112019, consultato il 2 maggio 2014.
32
Leonid Brezhnev a Jimmy Carter, Mosca, 4 febbraio 1977, in Woodrow Wilson Center,
Cold War International History Project, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112017
consultato il 2 maggio 2014.
33
Jimmy Carter a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 14 febbraio 1977, in Woodrow
Wilson Center, Cold War International History Project, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111269 consultato il 2 maggio 2014.
23
totally beyond the imagination of the Soviet leadership” 34. Fu solo l’inizio dei
rapporti tra l’amministrazione Carter e la leadership sovietica, ma già si notano le
prime fratture e i limiti dei discorsi e delle speranze del presidente.
34
Anatoly Dobrynin, In Confidence: Moscow’s Ambassador to America’s Six Cold War
Presidents (1962-1986), New York, Times Books/Random House, 1995, p. 346, cit. in Peter Dale
Scott, The Road to 9/11. Wealth, Empire, and the Future of America, Berkeley, University of California Press, 2007, p. 55.
24
La tutela dei diritti umani all’opera all’opera:
Carter e il tentativo di svolta nella politica estera
Carter completò le proprie nomine inserendo in ruoli di rilievo altri
membri della Commissione Trilaterale: Harold Brown come segretario della
difesa, W. Michael Blumenthal come segretario del tesoro; e Paul C. Warnke
come direttore della Arms Control and Disarmament Agency (ACDA) e futuro
capo negoziatore per gli accordi SALT II1.
Dal momento in cui mise piede nello studio ovale il neopresidente si
dovette occupare di dare un seguito pratico alle dichiarazioni elettorali e di come
combattere la profonda decadenza morale statunitense e la relativa crisi di fiducia.
Il delicato tema dei diritti umani, nei cui confronti Carter aveva proclamato un
impegno “absolute” 2, era senza dubbio il più scottante, dal momento che l’idealità
dei diritti umani difficilmente si sarebbe potuta coniugare col pragmatismo
richiesto dalle necessità della politica estera. Il presidente tentò sin da subito di
fare chiarezza, procedendo con la nomina di Patricia M. Derian come
coordinatrice ed in seguito assistente segretario di Stato per i diritti umani. In
seguito il sottosegretario di Stato Warren Christopher fu posto a capo
dell’Interagency Group on Human Rights and Foreign Assistance (che a seguito di
questa nomina verrà spesso identificato come “Christopher Group”). Il compito
della Derian e Christopher sarebbe stato proporre al Congresso sanzioni per gli
1
2
Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 38-39.
Jimmy Carter, Inaugural Address, cit.
25
stati che avessero violato i diritti umani, e premiare con un incremento, o nuovi
programmi, di aiuti quei paesi che avessero provveduto a migliorare il rispetto dei
diritti umani dei propri cittadini. Ma oltre a non poter sanzionare, ovviamente,
paesi che non ricevevano alcun aiuto come Cuba o la Cambogia, le proposte di
sanzioni per i paesi violatori di diritti umani trovarono spesso nel dipartimento di
Stato la resistenza dei responsabili regionali e nel caso di critiche verso Unione
Sovietica e Repubblica Popolare Cinese, del presidente in persona. Carter si
mostrò infatti restio a delegare una critica così delicata, critica che peraltro non
verrà
quasi
mai
portata
all’attenzione
dei
cinesi,
data
la
volontà
dell’amministrazione di normalizzare le relazioni tra Stati Uniti e Repubblica
Popolare3. Brzezinski lamentò le pressioni di un Congresso propenso ad una
critica troppo diretta delle violazioni dei diritti umani, e proprio per questo
inefficace e non utile a mettere sulla difensiva in particolare i sovietici 4. L’effetto
di questo atteggiamento sarebbe stato solamente un inutile aumento della tensione
con l’Unione Sovietica e, per usare le parole del National Security Advisor,
“pressure on the Soviets is justified; but it has to be measured in order to be
effective”5 .
Nel febbraio del 1978 il presidente firmò la Presidential Directive (PD) 30,
cercando ancora una volta di definire con più precisione l’impegno statunitense
verso i diritti umani. Ribadendo l’importanza di questo obbiettivo indicò nei
mezzi utili a questo scopo le pressioni diplomatiche nella loro interezza (punto 2);
un incremento di aiuti verso quei paesi che avessero migliorato i loro standard
verso i diritti umani (punto 4) e una considerazione che favorisse i miglioramenti
3
Gaddis Smith, Morality, Reason & Power, cit., pp.51-54.
Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 126.
5
Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 126.
4
26
a lungo termine nella valutazione degli stati stranieri (punto 5). Ma, più delle
dichiarazioni e dei propositi (che ricalcavano in larga misura i discorsi precedenti
del presidente e le precedenti metodologie del “Christopher Group”) a favore dei
diritti umani, colpisce il punto 6, in cui si sostenne che gli Stati Uniti non
avrebbero fornito aiuti a governi colpevoli di serie violazioni dei diritti umani
“other than in exceptional circumstances”6. Senza chiarire specificatamente cosa
potesse o non potesse essere considerata una circostanza eccezionale, il presidente
lasciò ampio spazio di manovra all’amministrazione e venne così a cadere il
proclamato impegno assoluto verso i diritti umani del presidente Carter.
L’America Latina fu il primo banco di prova dell’amministrazione e del
suo impegno a sostegno del rispetto dei diritti umani. Sarebbe potuta diventare un
esempio di cambiamento nell’ottica dell’abbandono del paternalismo statunitense
e nella riduzione della sottolineatura del pericolo sovietico nella regione, cercando
addirittura di aprire un dialogo con la vicina Cuba di Fidel Castro 7. La critica della
minaccia comunista avrebbe lasciato spazio alla promozione di un dialogo nordsud con l’aiuto degli stati sudamericani8. L’approccio dell’amministrazione venne
influenzato dalla Commission on United States-Latin American Relations
(CUSLAR), in particolare da un suo rapporto del 1975 intitolato The Americas in
a Changing World, più noto come “Linowitz Report”. Questo rapporto denunciò
l’inadeguatezza delle politiche adottate nei confronti del Sudamerica dal secondo
dopoguerra e promosse un nuovo atteggiamento scevro dal paternalismo attuato
6
Jimmy Carter, Presidential Directive/NSC-30, Washington, D.C, 17 febbraio 1978
http://www.jimmycarterlibrary.gov/documents/pddirectives/pd30.pdf, consultato il 3 novembre
2014.
7
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 100.
8
Jimmy Carter, Organization of American States Address Before the Permanent Council,
alla Pan American Union, 14 aprile 1977, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7347, consultato il 16 ottobre 2014.
27
fino a quel momento, in particolare evitando il ricorso ad operazioni segrete e ad
aiuti economici volti ad influenzare i governi latino-americani 9. Buona parte
dell’amministrazione Carter avrebbe appoggiato queste idee e avrebbe respinto la
percezione dell’Unione Sovietica come fonte dell’instabilità regionale10.
La situazione in Nicaragua, dove si trovava al potere dal 1967 Anastasio
Somoza Debayle e dove le violazioni dei diritti umani avevano oramai raggiunto
livelli critici, sembrò poter offrire un’opportunità per mostrare l’abilità
dell’amministrazione nell’indurre ad un positivo cambiamento il presidente
nicaraguense. Soprattutto si sarebbe dimostrata la volontà statunitense di superare
la visione da guerra fredda, criticando un presidente di estrema destra apertamente
anti-sovietico e pro-statunitense. La repressione messa in atto da Somoza si
inasprì fortemente nella seconda metà degli anni settanta, a causa della crescita di
seguito di un gruppo radicale ostile al presidente nicaraguense: il Frente
Sandinista de Liberación Nacional (FSLN). Il gruppo richiamava la memoria di
Augusto Sandino, leggendario guerrigliero che resistette alla presenza militare
statunitense degli anni Venti del Novecento, per poi venire ucciso per ordine di
Anastasio Somoza García nel 1934, padre di Anastasio Somoza e iniziatore della
loro dinastia politica. L’assassinio di Pedro Chamorro nel gennaio del 1978, leader
dell’opposizione non radicale al regime, diede il via alle discussioni su come gli
Stati Uniti avrebbero dovuto reagire. Se divisioni interne al Congresso furono
presenti sul modo di procedere, non si avvertirono invece sulla quasi unanime
percezione degli avvenimenti nicaraguensi come del tutto o quasi estranei a
9
Executive Intelligence Review, Linowitz Report On Latin America: Blueprint for confrontation,
4
gennaio
1977
http://www.larouchepub.com/eiw/public/1977/eirv04n0119770104/eirv04n01-19770104_066-linowitz_report_on_latin_america.pdf, consultato il 24 ottobre 2014.
10
Gaddis Smith, The Last Years of the Monroe Doctrine, 1945-1993, s.l., HarperCollinsCanadaLtd, 1994, pp. 153-154.
28
influenze esterne. Ed effettivamente fu letta bene la situazione, dato che Castro
iniziò ad aiutare i sandinisti solo verso la fine della loro lotta e l’Unione Sovietica
evitò un coinvolgimento diretto lasciando l’iniziativa ai cubani11.
L’amministrazione Carter procedette comunque con cautela, perché la
base di supporto dei sandinisti fu sì riconosciuta come interna ma i loro
comandanti furono considerati marxisti-leninisti, che avrebbero dunque visto gli
Stati Uniti come un nemico. L’amministrazione si trovò così tra un dittatore che si
rifiutava di sostenere ed un movimento di guerriglia che non intendeva
appoggiare12, cercando una impraticabile via di mezzo con una soluzione
negoziale tra le parti in conflitto. Se da una parte questa strategia dette l’idea della
ricerca pacifica di un compromesso, dall’altra evidenziò una persistente
preoccupazione riguardo al comunismo a dispetto dei proclami, dato che Carter
non fornì alcun appoggio materiale o verbale ai ribelli e che nel giugno del 1978
chiese ai presidenti di Panama, Messico, Costa Rica, Colombia e Venezuela “how
to constrain Cuban and other communist intrusion in the internal affairs of
Caribbean and Latin America Countries” 13.
Certamente l’impasse creatasi in Nicaragua fu dovuta anche all’ostilità di
non pochi membri del Congresso che si mostrarono ostinatamente favorevoli a
mantenere buoni rapporti con Somoza e decisamente contrari al FSLN, ma un
ruolo decisivo lo ebbero anche le mosse titubanti di Carter. Moderati proclami ed
ancor più moderate e confuse azioni (pressioni diplomatiche per ridurre le
atrocità, aiuti prima negati e poi ristabiliti ecc. 14) costituirono forse l’abbandono
11
Raymond L. Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 682.
Robert A. Pastor, The Carter Administration and Latin America: a Test of Principle,
luglio 1992, http://www.cartercenter.org/documents/1243.pdf, consultato il 10 settembre 2014.
13
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 119-120.
14
Ibidem.
12
29
del paternalismo tanto criticato dal “Linowitz Report”, ma tarparono le ali ad
eventuali politici capaci a cui mancarono mezzi ed assistenza, politici che
avrebbero potuto costituire un’alternativa in Nicaragua. Un atteggiamento, quello
statunitense, di “laissez faire forse esagerato”15. Riguardo alla situazione
nicaraguense Lincoln Bloomfield, docente di relazioni internazionali del
Massachusetts Institute of Technology, nel 1981 scrisse un rapporto finale
sull’amministrazione Carter, in cui sostenne che Washington si sarebbe certo
trovata in una posizione migliore tre anni dopo, se già nel 1978 avesse applicato
in maniera coerente la politica dei diritti umani sospendendo le forniture di armi al
dittatore Somoza16. Dopo il fallimento definitivo dei tentativi di mediazione,
l’incertezza statunitense spinse i sandinisti all’offensiva finale che, nel giugno
1979, portò Somoza a rassegnare le proprie dimissioni e fuggire nel luglio del
1979 (per poi finire assassinato in Paraguay l’anno seguente 17). I sandinisti si
insediarono al governo e gli Stati Uniti si trovarono impegnati in un inutile sforzo
di mantenere buoni rapporti con il Nicaragua.
Sempre in America Latina un caso che catturò l’attenzione ed attirò
numerose critiche da parte di Washington fu il colpo di Stato di Maurice Bishop
del 13 marzo 1979 nell’isola di Grenada e la successiva richiesta di aiuti del
nuovo leader a Castro. L’arrivo nella piccola isola caraibica di armi e consiglieri
cubani aumentò la preoccupazione di Carter che interpellò la CIA ed in particolare
il suo nuovo DCI Stanfield Turner, suggerendo un’azione finalizzata a concentrare
la critica internazionale su Grenada. Il 3 luglio 1979 il presidente statunitense
15
Massimiliano Guderzo, Ordine mondiale e buon vicinato, gli Stati Uniti e l’America latina negli anni di Carter, 1977-1981, Firenze, Edizioni Polistampa, 2012, p. 38.
16
Ivi, pp. 101-102.
17
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 121.
30
autorizzò a procedere ad un’ operazione segreta, mirante a promuovere la
democrazia nell’isola caraibica, e ad appoggiare gli oppositori del governo
marxista. Almeno questo fu l’intento di Carter, ma il Senate Intelligence
Committee, quando passò al vaglio l’autorizzazione presidenziale, espresse una
forte contrarietà, sottolineando il forte contrasto di questa decisione con la
posizione dell’amministrazione sui diritti umani e la non interferenza, affondando
di fatto l’iniziativa sul nascere. Gates fa notare come il tentativo di Carter sia
fallito a causa del fatto che la CIA vedesse la sua credibilità e autorevolezza
ridimensionata dalle investigazioni congressuali subite nel periodo precedente
all’elezione del presidente democratico18. La piccola isola caraibica finì col cadere
nell’orbita cubana, allontanandosi da Washington, andando a costituire un
successo isolato per Cuba nell’area caraibica19.
Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, l’Africa ottenne dal neopresidente
statunitense molta attenzione per due ragioni: la convinzione morale di Carter
dell’iniquità del fatto che in paesi come la Rhodesia fosse al comando una
minoranza bianca poco attenta ai diritti della maggioranza nera africana e l’intento
del presidente di compiacere gli elettori afro-americani20. La Rhodesia, ex colonia
britannica indipendente dal 1965, si era trovata sotto la guida di Ian Smith, un
bianco di stirpe anglosassone, sin dal momento della sua indipendenza, ma negli
ultimi anni si erano verificati episodi di guerriglia volti a rovesciare il governo,
guidati dallo Zimbabwe African Peoples Union (ZAPU) e dallo Zimbabwe
African National Union (ZANU), entrambi appoggiati dall’Unione Sovietica 21.
18
Gates, From the Shadows, cit., p. 143.
Guderzo, Ordine mondiale e buon vicinato, cit., p. 36.
20
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 61.
21
Gates, From the Shadows, cit., p. 76.
19
31
Nonostante la sottolineatura di tale impegno sovietico da parte di Brzezinski e il
suo suggerimento di non delegare eccessivamente alla Gran Bretagna i compiti
della mediazione22, la linea di Vance, più incline ad occupare un ruolo minore
nella trattativa e a sottolineare i fattori interni di apartheid in Rhodesia, finì col
prevalere. La vicenda riguardò da vicino anche il Sud Africa, in cattivi rapporti
con gli Stati Uniti a causa delle pressioni dell’amministrazione Carter sui diritti
umani e della critica del sistema di apartheid. Inoltre era ancora fresca la memoria
del comportamento statunitense durante la recente crisi angolana, che aveva
portato il governo sudafricano, in una scomoda situazione, a ritirare i propri
soldati dall’Angola. Il primo ministro sud africano John Vorster
si mostrò
comunque favorevole ad una soluzione pacifica per la Rhodesia, ma fu
ulteriormente irritato dalle pressioni e dalle domande di Walter Mondale, in visita
a Pretoria, in merito alla concessione del diritto di voto nel Sud Africa alle
persone di colore ed alla concessione dell’indipendenza alla Namibia.
L’intenzione statunitense di pressare Pretoria con sanzioni economiche non ebbe
tuttavia speranza di successo sin dall’inizio dato che, come sottolineò l’assistente
segretario del Tesoro Fred Bergsten: “[T]he U.S. is more vulnerable to South
African economic sanctions than South Africa is to U.S. action”23. Di
conseguenza, l’amministrazione Carter decise di dare priorità esclusivamente al
caso della Rhodesia e ridimensionò la critica per le violazioni dei diritti umani nel
Sud Africa. Nel febbraio del 1978 Ian Smith e Bishop Abel Muzorewa, uno dei
leader di colore, trovarono un accordo, conosciuto come “The Salisbury Plan”,
che avrebbe garantito la maggioranza nera in parlamento e la scelta di un primo
22
23
Brzezinski, Power and Principle, cit., pp. 139-140.
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 64.
32
ministro di colore, ma che avrebbe lasciato ai bianchi il controllo della quasi
totalità dei restanti organi governativi, comprese le forze armate e di polizia. Il
piano fu contestato da Vance e Andrew Young (ambasciatore statunitense presso le
Nazioni Unite) ma Carter, nonostante ritenesse questa soluzione inadeguata, evitò
di condannarla direttamente ed ordinò a Young di non proporre risoluzioni che
rigettassero il “Salisbury Plan”. Il presidente finì con l’irritare non solo buona
parte del Congresso, sia tra i democratici che tra i repubblicani, ma anche gli
oppositori della minoranza bianca all’estero24.
La conduzione della politica estera di Carter nei casi esaminati di Grenada,
Nicaragua e Rhodesia attirò enormi critiche dalla destra repubblicana sulla
debolezza dell’approccio democratico, critiche che nel 1979 si sarebbero sommate
all’ampia opposizione ai trattati SALT II, che culminò nella denuncia del senatore
Jackson di “appeasement” riguardo ai trattati e alla distensione in generale 25. La
discussione su un futuro accordo tra le due superpotenze era del resto iniziata già
nel 1977, con la corrispondenza tra Carter e Brezhnev. Il segretario del PCUS
scrisse al presidente statunitense “We believe that this task is completely
manageable. Because the main parameters of the agreement are, in fact, already
determined on the basis of the agreement which was reached in Vladivostok26.”
Il leader sovietico volle riferirsi al comunicato firmato da lui stesso e da
Ford nel 1974 a Vladivostok, ma Carter mise subito in chiaro la sua volontà di
procedere ad un trattato completamente nuovo, caratterizzato dai tagli agli arsenali
strategici anziché dalle limitazioni alla loro crescita (su cui invece si basava il
24
Ivi, pp. 63-67.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 741.
26
Brezhnev, Brezhnev a Carter, cit.
25
33
comunicato di Vladivostock) che finora avevano favorito i sovietici 27. Sempre
nella stessa lettera, come abbiamo precedentemente visto, Brezhnev sottolineò
l’importanza che gli Stati Uniti non insistessero sulla questione dei diritti umani,
ritenuta di pertinenza della politica interna sovietica, suggerimento respinto
cortesemente da Carter sulla base degli accordi di Helsinki. Il ministro degli esteri
sovietico Andrei Gromyko sottolineò nelle sue memorie il ruolo personale di
Carter “as Washington engaged more and more actively in ideological subversion
against the USSR”, e queste dichiarazioni trovano riscontro nelle parole
dell’allora membro dell’NSC, Robert Gates: “He [Carter] was the first President
during the Cold War to challenge publicly and consistently the legitimacy of
Soviet rule at home” 28. Lo stesso Carter, seppur non disposto ad imputare alla
pressione sui diritti umani i problemi nella trattativa SALT II con i sovietici,
riconosce che l’argomento creò spesso tensioni29. Ma il presidente, appoggiato in
questo da Brzezinski ed in opposizione a Vance, ritenne che non fosse possibile
evitare pressioni sui diritti umani e sulle iniziative sovietiche in tutto il mondo
(specialmente in Africa) per agevolare le trattative coi sovietici, sia per motivi
ideologici, sia per l’ostilità che tale atteggiamento avrebbe provocato nel
Congresso, rendendo la ratificazione dell’eventuale accordo raggiunto assai
problematica30. Ma i dissapori ebbero inizio molto presto in Senato dove, in
relazione alla ratifica della nomina di Paul Warnke come capo negoziatore SALT,
si sviluppò un ampio dibattito in cui i neoconservatori fecero sentire la loro voce,
dichiarando che la “colomba” Warnke avrebbe concesso troppo al Cremlino. La
27
Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 149.
Gromyko cit. in Gates, From the Shadows, cit., p. 90-177.
29
Carter, Keeping Faith, cit., p. 149.
30
Gates, From the Shadows, cit., p. 124.
28
34
nomina passò per 58 voti a favore e 40 contrari, ovvero con meno della
maggioranza dei due terzi che sarebbe stata necessaria per la ratifica di un
eventuale SALT II, un segnale di certo non incoraggiante. La decisione di Carter
di abbandonare i termini di Vladivostok in favore di forti tagli agli arsenali rifletté
in parte anche il desiderio di compiacere Jackson, favorevole a questa iniziativa,
dato che il senatore sarebbe stato, come disse Vance “A major asset in a future
ratification debate if he supported the treaty, and a formidable opponent if he
opposed it”31.
La volontà di Carter di superare una visione della politica estera dominata
dal rapporto con l’Unione Sovietica, e di conseguenza di ridurre il profilo e la
sostanza dei rapporti americano-sovietici, non poté ovviamente applicarsi negli
ambiti delle trattative per la riduzione degli armamenti convenzionali e strategici
dal momento che il presidente dovette dar luogo alle promesse elettorali di
abbandonare il timore dei sovietici ed approfondire un dialogo con loro sui temi
sopra
citati,
anch’essi
parte
del
programma
elettorale 32.
L’intenzione
dell’amministrazione fu quella di procedere rapidamente e con fermezza, e di
invitare Brezhnev a Washington già nel 1977. Vance fu inviato in marzo a Mosca
per proporre il nuovo piano statunitense favorevole ai tagli degli arsenali. Le
intenzioni statunitensi dovettero però scontrarsi con una dirigenza sovietica che
era convinta di consolidare un accordo “90 percent completed”33, ovvero quello di
Vladivostok, e questa inversione di marcia del presidente Carter (volta anche ad
ottenere un accordo frutto non del lavoro di Nixon, Ford e Kissinger, ma della
nuova amministrazione democratica) fu accolta con forte diffidenza al Cremlino,
31
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 39.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 565-566.
33
Ibidem
32
35
come rileviamo dal commento di Georgy Arbatov, consigliere del comitato
centrale del PCUS che in seguito avrebbe osservato:
The [American] proposal were extremely one-sided and in fact amounted to a
suggestion that the negotiations should start again from scratch. This confirmed
the impression in Moscow that Carter was not serious34.
Ma più della “mancanza di serietà” di Carter ciò che più preoccupava i
dirigenti sovietici era l’approccio aggressivo sui diritti umani del presidente, volto
secondo il Cremlino ad incoraggiare il dissenso interno all’Unione Sovietica,
come un memorandum della CIA a Brzezinski illustrò già nel febbraio del 1977 35.
La diffidenza sovietica, rafforzata dalle dichiarazioni di Carter sui diritti umani,
dal suo appoggio a dissidenti sovietici come Andrei Sakharov e dal suo cambio di
rotta riguardo agli obbiettivi del SALT II36, fece naufragare sul nascere la speranza
statunitense di raggiungere velocemente un accordo. In seguito, il fallimento di
tenere un meeting per giungere ad un accordo sul SALT II già nel 1977 si rivelerà
fatale per l’esito degli accordi, dato che le vicende internazionali (e interne
all’amministrazione Carter) che intercorsero nei due anni precedenti alla firma di
metà 1979 intaccarono l’efficacia di un accordo che, se raggiunto nel 1977,
avrebbe avuto più probabilità di rivelarsi fruttuoso37.
34
Georgy Arbatov cit. in Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 566 (corsivo
nell’originale).
35
Gates, From the Shadows, cit., p.88.
36
Carter, Keeping Faith, cit., p. 146.
37
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 575.
36
“The situation is bad and is getting worse”1.
Dall’ascesa del comunismo afghano all’invasione sovietica
L’Afghanistan fu unificato nel tardo Ottocento e ricoprì essenzialmente il
ruolo di Stato cuscinetto tra l’impero russo a nord e l’impero britannico a sud est,
dove il confine con l’India inglese venne tracciato sulle mappe dal segretario degli
esteri nell'India britannica Sir Mortimer Durand nel 1893 con l’omonima linea. La
situazione sarebbe cambiata solo in seguito al secondo conflitto mondiale, con il
processo di decolonizzazione che portò la Gran Bretagna ad uscire dallo scenario
mediorientale. Di conseguenza l’Afghanistan instaurò relazioni sempre più forti
con l’Unione Sovietica, dai cui aiuti economico-militari iniziò a dipendere in
maniera sempre crescente. Un altro episodio fondamentale per la storia dello Stato
afghano fu la creazione del Pakistan nel 1947, ad est della linea Durand. Il nuovo
Stato inglobò parte dell’etnie e delle tribù afghane, e fu contrastato sin dalla sua
nascita dall’Afghanistan, unico paese a votare contro l’ammissione del nuovo
paese alle Nazioni Unite, inutilmente1. L’etnia prevalente in Afghanistan è quella
dei pashtun, un popolo nomade che sin dal XVIII secolo si è sempre distinto nella
fiera difesa della propria indipendenza, resistendo ad ogni tentativo di controllo da
parte di poteri esterni2.
1
Taraki, Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei
Kosygin and Afghan prime minister Nur Mohammed Taraki, 17 marzo 1979, in Wilson Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113262, consultato il 15/12/2014.
1
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 981.
2
Giorgio Vercellin, Iran e Afghanistan. Questioni nazionali religiose e strategiche in una
delle zone più calde del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 21.
37
Il Regno dell’Afganistan terminò con l’abdicazione dell’ultimo re
Mohammed Zahir Shah in seguito ad un colpo di stato organizzato da suo cugino
Mohammed Daoud Khan, che diventò il primo presidente della Repubblica
dell’Afghanistan. Nella salita al potere Daoud fu aiutato da membri del Partito
comunista formatosi nel 1965: il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan
(PDPA). I membri che appoggiarono Daoud appartenevano alla fazione
denominata Parcham (“bandiera”), che presentava una prevalenza della
componente etnica tagika. L’altro gruppo che venne a formarsi durante la
scissione del Partito nel 1967 fu quello dei Khalq (“Le masse”), che vedeva tra i
suoi membri una maggioranza dell’elemento tribale Pashtun. Il segretario generale
del PDPA Nur Mohammad Taraki era a capo della fazione Khalq, mentre Babrak
Karmal comandava il gruppo Parcham. Daoud tentò in seguito di modernizzare
uno dei paesi più poveri al mondo, con un tentativo che portò a pochi vantaggi e
molto risentimento da parte della popolazione, che vedeva sacrificate le
prerogative locali a favore delle necessità dello sviluppo e della centralizzazione
del potere3.
In riconoscenza per l'appoggio ricevuto durante il colpo di Stato Daoud
nominò diversi membri dei Parcham nel suo gabinetto ed in altri posti di rilievo
(causando l’ironia dei Khalq che definirono il Partito di Karmal “The Royal
Communist Party”4), ma solo inizialmente, dato che già dal 1974 procedette a
rimuovere e sostituire i membri Parcham. Sul versante internazionale Daoud
avviò un dialogo con paesi come la Repubblica Popolare Cinese, Iran e Pakistan,
diminuendo il legame afghano con l’Unione Sovietica. L’Afghanistan rimase
3
4
Westad, The Global Cold War, cit., p. 299.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 893.
38
comunque fortemente dipendente dai sovietici per quanto concerneva gli aspetti
economico-militari, ma Daoud continuò nella sua opera d’allargamento delle
relazioni, e nella primavera del 1978 visitò India, Pakistan, Egitto, Libia, Turchia,
Yugoslavia, Arabia Saudita e Kuwait. Le relazioni con l’Unione Sovietica
iniziarono a farsi più complicate5.
Il 25 aprile 1978 Daoud prese una decisione che si sarebbe rivelata fatale
per il suo futuro politico: ordinò l’arresto di molti esponenti del PDPA scatenando
la reazione dei Khalq che due giorni dopo con un colpo di Stato rovesciarono il
regime di Daoud e salirono al potere, guidati da Taraki e dal suo braccio destro
Hazifullah Amin. L’Unione Sovietica apprese la notizia con cauto ottimismo.
L’ambasciatore sovietico a Kabul Aleksandr Puzanov riassunse così la situazione
in una lettera al ministro degli esteri Gromyko:
Conclusions: The situation in the country "overall is stabilizing more and more,"
the government is controlling all its regions and is taking measures "to cut
off...the demonstrations of the domestic reaction."The most important factor for
the further strengthening of the new power will be the achievement of unity in
the leadership of the PDPA and the government6.
Effettivamente le due fazioni dello stesso Partito, Khalq e Parcham,
finivano spesso col sembrare due partiti separati piuttosto che un unico Partito, e i
tentativi da ambo i lati di accaparrarsi separatamente più aiuti sovietici possibili
5
Ivi, p. 894.
Aleksandr Puzanov, Political letter from USSR ambassador to Afghanistan A. Puzanov
to soviet foreign ministry, ‘about the domestic political situazion in the DRA’ (notes), Kabul, 31
maggio 1978, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113255, consultato il 3 gennaio 2015.
6
39
continuarono anche dopo la rivoluzione d’aprile7. I Khalq che avevano guidato la
rivoluzione non persero tempo e procedettero rapidamente nel tentativo di
neutralizzare i Parcham. Accusati di essere controrivoluzionari furono in buona
parte imprigionati, o allontanati, come Karmal che fu esiliato in Cecoslovacchia 8.
Taraki, per quanto riguarda il versante estero, denunciò nella sua visita in Unione
Sovietica l’azione di forze provenienti dal Pakistan intenzionate a danneggiare
l’Afghanistan. Le differenze principali tra la dirigenza afghana e quella pakistana
si constatavano sulle diverse attitudini nei confronti delle tribù dei Pashtun (in
Pakistan era loro concesso un regime di semiautonomia 9) e dei Beludzuns.
Sconsigliando reazioni, il PCUS raccomandò al dirigente del PDPA di procedere
al dialogo sottolineando l’importanza per il suo governo di incoraggiare la
partecipazione piuttosto che il contrasto10.
Da parte statunitense il colpo di stato comunista in Afghanistan fu accolto
con reazioni contrastanti tra il dipartimento di Stato e l’NSC. Vance propose di
non interrompere le relazioni con la neonata Repubblica Democratica
dell’Afghanistan. Anzi, suggerì di continuare a fornire gli aiuti economici a Kabul
che gli Stati Uniti fornirono già prima del colpo di stato, nel tentativo di
mantenere buone relazioni col neonato governo. Questa linea era indirizzata ad un
tentativo di riduzione dell’influenza sovietica a cui anche Brzezinski puntava,
differendo però nei mezzi. Il consigliere per la sicurezza nazionale propose infatti
un’interruzione dei contatti con Kabul e la realizzazione di operazioni segrete
7
Westad, The Global Cold War, cit., pp. 302-303.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p.893
9
Vercellin, Iran e Afghanistan, cit., p. 22.
10
Nur Mohamed Taraki, Information about the visit of the Afghan party and State delegation, headed by prime minister of the democratic republic of Afghanistan Nur Mohamed Taraki to
the
USSR,
Afghanistan,
4
dicembre
1978,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112458, consultato il 9 ottobre 2015.
8
40
miranti a destabilizzare il nuovo governo comunista. Carter optò per la linea del
Dipartimento di Stato e procedette ad inviare un nuovo ambasciatore in
Afghanistan, Adolph
Dubs11.
Il
“New York
Times”
sottolineò
come
l’amministrazione Carter fosse rimasta “unruffled” di fronte al colpo di stato
comunista a Kabul, ed evidenziò lo stridente contrasto con la vecchia politica
estera statunitense dove non più di “A decade ago, a Communist gain anywhere
would have been felt as a distinct loss for Washington”12.
Nell’autunno del 1978 l’evento più importante che influì in particolar
modo sulle vicende afghane ma anche sul più ampio scenario globale fu il dilagare
delle proteste in Iran. La rivolta che esplose in quei giorni fu la risposta alla
cosiddetta “rivoluzione bianca” dello shah iraniano Mohammad Reza Pahlavi, che
consistette in un tentativo di accelerata modernizzazione del paese. Il progetto,
con alcune similitudini con il tentativo di Daoud in Afghanistan (ma allo stesso
tempo tenendo presente le importanti differenze tra i due paesi), fallì in buona
parte nei suoi obbiettivi e suscitò l’ostilità di ampie frange della popolazione
iraniana. In particolare la critica allo Shah, fondamentale alleato storico
statunitense nella regione, venne mossa con successo da un rappresentante del
clero islamico sciita: l’ayatollah Ruollah Khomeini. Allontanato dall'Iran proprio
dallo Shah Pahlavi nel 1963, Khomeini riuscì egualmente a far sentire la propria
voce dal suo esilio a Parigi sino in Iran, dove questa diventò espressione del
malcontento della popolazione. La protesta andava a colpire la laicizzazione dello
Stato promossa dallo Shah ed i costumi occidentali che ne derivarono, considerati
11
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 162.
A Communist Coup in Afghanistan, “New York Times”, 5 maggio 1978, http://timesmachine.nytimes.com/timesmachine/1978/05/05/112780160.html?pageNumber=32, consultato il 14
gennaio 2015.
12
41
immorali dal clero sciita. Stimolata ulteriormente dal peggioramento delle
condizioni economiche e dalla violenta repressione del regime, la rivoluzione finì
per travolgere il governo di Pahlavi, che abbandonò il paese lasciando così spazio
al trionfante rientro di Khomeini ed al suo progetto di plasmare una repubblica
islamica13. L’Unione Sovietica accolse favorevolmente questo cambiamento che
per essa significava una sconfitta per gli Stati Uniti, e venne auspicata una futura
guida del Tudeh (il Partito comunista iraniano) che fino ad allora aveva sostenuto
Khomeini. Ma l’ayatollah si comportò in maniera non prevista dai vertici
sovietici: iniziò a colpire la stampa secolare e liberale, licenziò insegnanti laici e
finì col colpire anche il Tudeh14.
Al modello statunitense e a quello sovietico se ne stava aggiungendo un
terzo che si distaccava dalle logiche della guerra fredda in maniera netta e decisa:
il modello del fondamentalismo islamico, che avrebbe esercitato una forza
d’attrazione decisamente più importante di quanto le superpotenze mondiali si
aspettassero all’epoca. “Non capimmo chi era Khomeini né ci rendemmo conto
del sostegno di cui godeva il suo movimento” avrebbe ammesso in seguito il
direttore della CIA Turner15 . Il fondamentalismo islamico non era tuttavia una
novità neppure in Afghanistan, dove già nel 1975 era iniziata l’insurrezione
armata di un gruppo chiamato Hezb-i-Islami, finanziata da Pakistan e Libia, un
evento importante in chiave futura16. È innegabile però l’importanza della svolta
verificatasi in Iran che causò causò una crescita di fiducia tra le sacche afghane di
resistenza islamica. Inoltre, in un paese con la percentuale di popolazione
13
Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino,
Einaudi, 2009 p. 273.
14
Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 455.
15
Turner cit. in Weiner, CIA, cit., p. 355.
16
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p.893
42
musulmana al 90%, le vicende iraniane ampliarono potenzialmente la capacità
attrattiva dei mujaheddin (i combattenti musulmani afghani) ed il pericolo per il
PDPA.
L’Unione Sovietica nel 1979 si trovava dunque con la prospettiva
(smentita dagli eventi in seguito) di acquisire un nuovo importante alleato
mediorientale, l’Iran, e con il PDPA al comando in Afghanistan. Tutto questo
diede ai sovietici l’impressione di una svolta internazionale a loro favorevole. Ma
i problemi che furono presto lampanti con Khomeini, si presentarono ancor più
rapidamente nella neonata Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDA). La
popolazione afghana, come ho già sottolineato parlando dei Pashtun, si era sempre
mostrata fortemente indipendente, tanto da guadagnarsi in passato l’appellativo di
“unruly” dai britannici17. Se la caduta di Daoud non dispiacque particolarmente
agli afghani a causa dei suoi continui tentativi di accentramento, neppure la
Repubblica Popolare seppe ingraziarsi la popolazione. Continuarono infatti i
tentativi di centralizzazione e proseguirono con altri gesti decisamente avventati,
come la sostituzione della tradizionale bandiera islamica verde, nera e rossa con
una bandiera rossa simile a quella adottata dalle repubbliche sovietiche
centroasiatiche, una scelta che irritò non solo i fondamentalisti islamici ma anche
la fede religiosa del paese nel suo complesso. Le decisioni della dirigenza del
PDPA andarono ad urtare contro la tradizione ed in particolar modo contro le
prerogative culturali del paese, irritando i mujaheddin che oramai avevano un
modello importante di cambiamento proprio al loro fianco: la repubblica islamica
dell’Iran. La religione continuava senza dubbio a costituire un polo attrattivo più
efficace dell’ideologia comunista. Tenendo conto del fatto che l’85% della
17
Ivi, p. 899.
43
popolazione risiedeva in aree rurali, il PDPA varò vari programmi di riforma
agraria, che furono tuttavia osteggiati dalle élite locali18.
La resistenza armata dei fondamentalisti islamici come abbiamo visto era
iniziata già sotto il governo di Daoud, ma la lotta aumentò decisamente di
intensità e proporzione a partire dall’estate 1978 per poi dilagare nell’inverno
seguente in buona parte dell’Afghanistan. Il conflitto fu accompagnato da una
sempre crescente diserzione nell’esercito afghano, schierato oramai in buona parte
contro i nuovi dirigenti filosovietici19.
Il PDPA faticava ad esercitare la propria autorità e il 14 febbraio 1979
accadde un fatto che avrebbe focalizzato l’attenzione degli Stati Uniti sulla
situazione afghana: l’omicidio dell’ambasciatore Dubs. L’assassinio fu opera di
ribelli islamici mal contrastati dalla polizia afghana 20, “a tragic event”, affermò
Brzezinski, “which involved either Soviet ineptitude or collusion” 21. Da questo
avvenimento in poi il consigliere per la sicurezza nazionale iniziò ad aumentare le
pressioni su Carter per intervenire a favore dei ribelli islamici, finanziandoli ed
aiutandoli a rovesciare il regime comunista di Kabul22.
Questa serie di disordini toccò il suo apice nel marzo 1979 presso la città
di Herat dove un’intera divisione di fanteria dell’esercito afghano disertò a favore
dei ribelli contro cui stava combattendo, lasciandoli liberi di procedere
ferocemente a togliere la vita a molti consiglieri sovietici insieme alle loro
famiglie. Taraki rivelò tutta la sua preoccupazione in una conversazione telefonica
con Kosygin del 17 marzo:
18
Westad, The Global Cold War, cit., p. 308.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 900.
20
Weiner, CIA, cit., p. 350.
21
Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 413.
22
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 163.
19
44
the situation is bad and is getting worse [...] Iran and Pakistan are working
against us, according to the same plan. Hence, if you now launch a decisive
attack on Herat, it will be possible to save the revolution. 23
Il primo ministro rispose titubante alle richieste del leader del PDPA, in
particolare sulla possibilità di lanciare un attacco sovietico sulla città di Herat, che
avrebbe esposto l’URSS ad una forte pressione internazionale. L’Unione Sovietica
si trovava difatti vicina alla conclusione delle discussioni sul trattato SALT II con
gli Stati Uniti, ed un intervento in Afghanistan avrebbe probabilmente affossato la
speranza di raggiungere un accordo. È interessante notare come anche Gromyko,
in una riunione del Politburo avvenuta il giorno stesso della conversazione con
Taraki, evidenziò la responsabilità di forze esterne aggiungendo ad Iran e Pakistan
“[the] participation of [...] China, the United States of America” 24. La questione è
utile soprattutto a sottolineare la necessità sovietica d’identificare un nemico
esterno, il cui intervento incisivo appare dubbio e rimane in ogni caso
indimostrabile per tutti i paesi sopracitati, per nascondere le colpe reali del
PDPA25. Gromyko proseguì ribadendo l’importanza della questione afghana:
“under no circumstances may we lose Afghanistan”, posizione a cui fece eco
quella del capo del Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (KGB, i servizi segreti
russi) Jurij Vladimirovic Andropov: “We must finalize the political statement,
bearing in mind that we will be labeled as an aggressor, but that in spite of that,
23
Taraki, Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei
Kosygin and Afghan prime minister Nur Mohammed Taraki, cit.
24
Politburo, Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, 17 marzo 1979,
in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113260, consultato il
17/12/2014.
25
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 901-902.
45
under no circumstances can we lose Afghanistan”26. Per quanto sia i vertici
afghani che quelli sovietici tentassero di attribuire la responsabilità degli eventi di
Herat all’intervento di forze straniere, nell’Unione Sovietica erano tuttavia ben
presenti le mancanze del PDPA, la nocività delle continue dispute tra Khalq e
Parcham, e lo scarso appoggio che il Partito di Taraki nutriva tra la popolazione. Il
leader del Partito afghano insistette invano sulla necessità di un invio di truppe
sovietiche, ma i vertici del PCUS continuarono ancora in aprile a rifiutarsi di
prendere in considerazione seriamente questa ipotesi, suggerendo invece un
allargamento della base politica del PDPA ed un uso meno indiscriminato della
repressione nel paese27.
L’ambasciata sovietica a Kabul provò a convincere i Khalq al comando ad
includere membri dei Parcham e addirittura del vecchio regime per ampliare il
proprio consenso, ma questa proposta non fu accolta. Amin si giustificò con
Puzanov sostenendo la necessità di rimanere all’erta perché il PDPA si trovava
circondato da nemici. Gli sforzi dell’ambasciatore sovietico a Kabul si
concentrarono allora sul contrastare il pericoloso Amin, l’ambizioso vice di
Taraki, cercando di farlo allontanare dalla leadership del Partito. Verso la fine
dell’estate del 1979 Amin stava pianificando le esecuzioni di personaggi influenti
che avevano partecipato alla rivoluzione d’aprile e di membri stessi del PDPA,
quando un preoccupato Puzanov fece sentire la sua voce presso Taraki chiedendo
nuovamente di ridurre la repressione, in modo particolare verso i membri del
Partito28. Molte voci si stavano levando contro Amin, non solo da parte sovietica,
26
Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, cit.
Politburo, Memo on protocol #149 of the Politburo,”Our future policy in connection
with the situation in Afghanistan”, Mosca, 1 aprile 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/110060, consultato il 26/12/2014.
28
Westad, The Global Cold War, cit., p. 311.
27
46
ma anche all’interno dell’Afghanistan, dove a metà luglio iniziarono a circolare
volantini che dipingevano Amin come “‘criminal’, supported by a ‘fascist band of
gangsters’, and even a secret ‘CIA agent’”29.
Nel frattempo Brzezinski e Mondale convinsero Carter a compiere il primo
timido passo statunitense a favore dei ribelli islamici in Afghanistan 30. Con un
intervento presidenziale firmato in aprile Carter autorizzò la CIA a spendere circa
500.000 dollari in attività di propaganda, oltre a rifornire di apparati radio,
equipaggiamenti medici e denaro contante i mujaheddin afghani 31. La rilevanza di
tale aiuto appare particolarmente simbolica per due motivi: questo provvedimento
andò a scontrarsi con quello che il “New York Times” aveva descritto come un
atteggiamento “unruffled” dell’amministrazione Carter, che qui dimostrò invece la
sua propensione ad entrare nelle vicende afghane. Inoltre possiamo notare come le
decisioni del presidente iniziarono sempre più a rispecchiare la linea “dura” di
Brzezinski, piuttosto che la linea di Vance, il cui principale obbiettivo era quello
di minimizzare le tensioni con l’URSS.
La guerra civile afghana continuava e le preoccupazioni di Mosca
crescevano insieme ad essa. Il Cremlino decise allora di agire con più forza ed
organizzò una missione militare, arrivata a Kabul il 17 agosto e capeggiata dal
vice ministro della Difesa Ivan Pavloskii, con lo scopo di riorganizzare l’esercito
afghano. I toni iniziarono a farsi decisamente duri, dato che la missione di
Pavloskii fu accompagnata dalla minaccia di ritirare l’assistenza militare sovietica
nel caso in cui Taraki non si fosse mostrato collaborativo. Il leader del PDPA
comprese la situazione e comunicò al Politburo di voler procedere all’attuazione
29
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 902.
Weiner, CIA, cit., p. 351.
31
Coll, La guerra segreta della CIA, p. 67.
30
47
di una serie di misure di emergenza, che includevano la rimozione di Amin, il
rilascio di prigionieri politici e la creazione di un governo di coalizione. Taraki
accettò definitivamente le proposte che la dirigenza sovietica aveva avanzato fin
dalla rivoluzione di aprile in un incontro con la dirigenza sovietica a Mosca, in
cambio della promessa personale di Brezhnev e Gromyko di nuovi aiuti militari.
Ma appena tornato a Kabul Taraki fece marcia indietro coi suoi propositi,
timoroso della reazione di Amin. I vertici sovietici avevano esaurito la pazienza, e
con un messaggio di Gromyko fu ordinato a Puzanov, Pavloskii ed ai capi delle
missioni militari a Kabul di organizzare un meeting immediato con Taraki ed
Amin la sera del 13 settembre. Giunto all’incontro, Puzanov iniziò ad elencare i
problemi del PDPA, concentrandosi sulle inaccettabili ambizioni personali di
alcuni personaggi all’interno del Partito (con tutta probabilità riferendosi ad
Amin). Taraki ed Amin tuttavia si mostrarono d’accordo e dichiararono la
presunta unità del Partito. In realtà Taraki non si fidava assolutamente del suo
vice, e la mattina del 14 settembre Amin fu invitato ad un nuovo incontro presso
la residenza del presidente afghano, ma fu bersagliato dagli spari delle guardie
presidenziali non appena si avvicinò alla dimora di Taraki, uscendone però illeso.
Amin fece allora appello alle unità militari ancora fedeli a lui, che circondarono il
palazzo di Taraki ed arrestarono il leader afghano, lasciando così spazio alla presa
di potere di Amin. Il nuovo presidente provvide prontamente ad organizzare una
serie di purghe che non avrebbero risparmiato neanche l’ex capo del PDPA, la cui
esecuzione avvenne il 9 ottobre32.
Gli avvenimenti non presero la direzione desiderata da Mosca, ma il
Politburo non drammatizzò immediatamente l'accaduto e decise di dare
32
Westad, The Global Cold War, cit., pp. 311-313.
48
un’opportunità ad Amin, anche se le parole di Brezhnev non sembrarono
comunque troppo ottimiste per il futuro:
Amin will be pushed toward this by the current situation and by the difficulties
which the Afghan government will face for a long time to come. [...] [our] job
will be difficult and delicate.33
Fu dunque accettato un leader che fino a pochi giorni prima Mosca
avrebbe voluto eliminare dalla guida del PDPA. Ma il nuovo corso e la timida
fiducia concesse non sembrarono portare benefici, dato che già alla fine di
novembre Gromyko, Andropov, il ministro della difesa Dmitrij Fedorovic Ustinov
ed il membro del Politburo Boris Nikolayevich Ponomarev compilarono un
rapporto decisamente negativo su Amin e sulla situazione in Afghanistan. Il
documento, indirizzato al comitato centrale (CC) del PCUS, denunciava una
repressione che invece d’attenuarsi come da richiesta sovietica si era rafforzata
con le purghe di Amin, che aggravarono ulteriormente la divisione in seno al
PDPA. Un altro motivo di grave preoccupazione fu la convinzione che gli Stati
Uniti avrebbero potuto approfittare della situazione portando Amin ad avvicinarsi
a Washington34. Effettivamente il leader mostrò più volte l’intenzione di
migliorare le relazioni con gli Stati Uniti. L’incontro col presidente pakistano
Muhammad Zia ul-Haq, che avrebbe dovuto avere luogo il 30 dicembre, sarebbe
potuto essere un primo passo verso Washington e dunque un alleggerimento della
33
Brezhnev, Excerpt from transcript, CPSU CC Politburo meeting, Mosca, 20 settembre
1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111568, consultato il 3
gennaio 2015.
34
Gromyko, Andropov, Ustinov, Ponomarev, Report on the situation in Afghanistan to
CPSU
CC,
Mosca,
29
novembre
1979,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111576, consultato il 3 gennaio 2015.
49
dipendenza dall’Unione Sovietica. I sospetti sovietici si accrebbero quando, in
novembre, Amin rifiutò un invito a visitare Mosca. Per quanto riguarda le prove
concrete è però difficile andare oltre alla dichiarazione di un semplice interesse
del leader del PDPA ad un incremento dei rapporti con l’occidente, che non
implicasse necessariamente un abbandono dell’URSS35.
In ogni caso la già scarsa fiducia in Amin iniziò a crollare nel novembre
1979, ma già precedentemente nel mese di ottobre il KGB aveva instaurato
contatti con gli ex dirigenti del PDPA esiliati in Cecoslovacchia e Bulgaria,
arrivando a contattare il più importante tra questi: Babrak Karmal. Nello stesso
periodo l’ipotesi di una qualche azione militare non sembrò più così remota, in
particolare nella mente di Ustinov, che mise in piedi i preparativi per un’eventuale
missione. Un’invasione non era stata ancora presa seriamente in considerazione,
ma i contatti di Amin con alcuni ufficiali statunitensi monitorati dal KGB
allertarono le alte sfere sovietiche. La criticità della situazione aveva oramai
raggiunto livelli di guardia, e la richiesta di Amin a fine novembre di procedere
alla sostituzione dell’ambasciatore Puzanov fu una sorta di scintilla, che convinse
Ustinov ed anche Andropov della necessità di un operazione militare e soprattutto
della rimozione di Amin. In passato l’URSS si era mostrata riluttante ad un
intervento a causa della delicata situazione internazionale ed in buona parte per
non compromettere le trattative per il SALT II. Ma adesso l’accordo era stato
firmato e l’opposizione interna statunitense rendeva difficile l’ipotesi di una
ratificazione del Senato. Inoltre i nuovi missili a medio raggio che la NATO
(North Atlantic Treaty Organization) aveva intenzione di schierare in Europa
irritarono non poco l’Unione Sovietica. Il tutto contribuì a limitare la
35
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 910.
50
preoccupazione sovietica per l’eventuale reazione occidentale ad un intervento in
Afghanistan36.
Il 29 novembre, data del rapporto fortemente critico della situazione
afghana al Comitato Centrale firmato da Andropov, Ustinov, Ponomarev e
Gromyko coincise con l’invio nella città di Bagram, al nordovest di Kabul, di due
battaglioni della 105esima divisione aerotrasportati, che portarono il totale degli
uomini sovietici in terra afghana a 2.50037.
Andropov tentò di fare pressioni a favore dell’intervento direttamente su
Brezhnev, elencando in un memorandum per il leader sovietico le ragioni della
necessità di un mutamento in Afghanistan. Amin aveva distrutto con le sue azioni
il PDPA, l’esercito ed il governo, scrisse Andropov, ed aggiunse le sue
considerazioni sul concreto pericolo di un possibile cambio di bandiera del leader
afghano a favore degli Stati Uniti. Urgeva un cambiamento, ed il capo del KGB
informò Brezhnev dei contatti avvenuti con Karmal ed anche con Asadullah
Sarwari, uno dei Khalq esiliati ostili ad Amin. Andropov concluse informando
Brezhnev dell’esistenza di un piano organizzato dagli oppositori dell’attuale
leader del PDPA, “In these conditions, Babrak and Sarwari [...] have raised the
question of possible assistance, in case of need, including military” 38. L’intenzione
era di usufruire dei due battaglioni stazionati vicino a Kabul per liberarsi di Amin,
schierando però in via preventiva alcune divisioni militari al confine con
l’Afghanistan, per evitare impreviste complicazioni. Il documento di Andropov
ebbe lo scopo di portare Brezhnev dalla propria (e di Ustinov) parte, per aggirare
36
Westad, The Global Cold War, cit., pp. 316-318.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 911.
38
Andropov, Personal memorandum to Brezhnev, Mosca, 1 dicembre 1979, in Wilson
Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113254, consultato il 10/1/2015.
37
51
le resistenze di personaggi importanti del Politburo come Gromyko 39. Oramai la
preparazione dell’invasione era alle porte e l’8 dicembre si tenne un altro meeting
tra Brezhnev, Andropov, Ustinov, Gromyko ed il capo del dipartimento
internazionale Michail Suslov, in cui venne discussa in maniera concreta la
possibilità di un'azione militare in Afghanistan. Andropov ed Ustinov, favorevoli
all’invasione, insistettero sul pericolo di un intervento statunitense, puntando il
dito contro il presunto tentativo della CIA di costituire un “new Great Ottoman
Empire”40. Nell’immaginario del capo del KGB l'agenzia segreta statunitense
avrebbe potuto tentare di riunire le popolazioni turche delle repubbliche
meridionali dell'URSS (Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan) in un nuovo
impero ottomano ostile all'Unione Sovietica ed alleato all'occidente. La NATO
avrebbe potuto stabilire una base in Afghanistan e porre in serio pericolo le scarse
difese aeree meridionali sovietiche, con il possibile aiuto del Pakistan 41. Due
giorni dopo Ustinov informò il capo di Stato maggiore sovietico Nikolai Orgakov
della decisione preliminare riguardante l’introduzione di truppe sovietiche in
territorio afghano in un numero tra le 75.000 e le 80.000 unità. Orgakov ritenne
che l’entità di quest’ultime fosse decisamente insufficiente a modificare la
situazione in Afghanistan ed a sedare la guerra civile. Fu allora immediatamente
convocato dal cosiddetto “small politburo” (Andropov, Gromyko ed Ustinov). In
questa sede Orgakov dichiarò le sue preoccupazioni su quanto stava per avvenire:
“We will reestablish the entire eastern Islamic system [islamizm] against us […]
and we will lose politically in the entire world”, ma fu freddato da Andropov:
39
Westad, The Global Cold War, cit., p. 319.
Alexander Lyakhovskiy, Account of the decision of the CC CPSU decision to send
troops to Afghanistan, dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/115531, consultato il 7/1/2015.
41
Coll, La guerra segreta della CIA, cit., pp. 70-71.
40
52
“Stick to military affairs! We, the Party, and Leonid Il'ich will handle policy” 42.
L’ultimo passo fu compiuto il 12 dicembre, quando venne contattato il generale
del KGB Nikolay Ivanov stanziato a Kabul, per una sua valutazione sulla
situazione in Afghanistan43. I preparativi iniziarono immediatamente.
Insieme e parallelamente all’invasione il KGB iniziò a dedicarsi
all’organizzazione dell’“operazione Agat” che avrebbe permesso la sostituzione al
potere di Amin con Karmal44. La direttiva n° 312/12/001 del 24 dicembre 1979,
firmata da Ogarkov ed Ustinov, dette il via alle operazioni:
The decision has been made to introduce several contingents of Soviet troops
deployed in southern regions of the country to the territory of the Democratic
Republic of Afghanistan in order to given international aid to the friendly Afghan
people and also to create favorable conditions to interdict possible anti-Afghan
actions from neighboring countries45.
Il resto della 105esima divisione (due battaglioni erano già stati spostati a
Bagram dal 29 novembre al 5 dicembre) atterrò all’aeroporto di Kabul tra il 24 ed
il 26 dicembre46. L’operazione principale partì alle 15:00 del giorno di Natale,
seguendo due direttive: via aerea con le truppe aerotrasportate dirette a Kabul e
Shindad; mentre via terra le divisioni stazionate ai bordi iniziarono a muoversi
verso l’interno dell’Afghanistan. Il 27 dicembre prese invece il via l’“operazione
Agat”, con 700 unità speciali del KGB che riuscirono nell’assalto al palazzo di
42
CC del PCUS, Summary of a meeting on Afghanistan, 10 dicembre 1979, in Wilson
Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111780, consultato il 9 gennaio 2015.
43
Alexander Lyakhovskiy, Account of the decision of the CC CPSU decision to send
troops to Afghanistan, cit.
44
Westad, The Global Cold War, cit., p. 321.
45
Ustinov, Orgakov, directive n° 312/12/001 of 24 december 1979, Mosca, in Wilson
Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111784, consultato il 10 gennaio 2015.
46
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 911.
53
Amin e giustiziarono il presidente insieme a buona parte dei suoi sostenitori e
familiari. A Karmal, arrivato a Kabul, non restò che proclamarsi Primo Ministro e
Segretario Generale del PDPA47.
47
Westad, The Global Cold War, cit., p. 321.
54
“[T]his is Cold War in the most classic, extreme form”1.
Carter di fronte all'invasione sovietica dell'Afghanistan
L'invasione sovietica dell'Afghanistan fu accolta con sorpresa dalla CIA,
ma non furono i movimenti delle truppe sovietiche a sfuggire all'attenzione
statunitense. Quello che gli analisti dell'Agenzia non riuscirono a comprendere
furono le ragioni dell’iniziativa sovietica. Un rapporto della CIA a Carter, redatto
pochi giorni prima, il 19 dicembre 1979, affermò che “further augmentation [of
the Soviet forces near the border of Afghanistan] is likely soon, and […]
preparations for a much more substantial reinforcement may also be under way”,
ma ipotizzò anche che tali forze fossero probabilmente indirizzate a “hold other
key points, engage insurgents in selected provinces, or free Afghan Army units for
operations elsewhere”. La conclusione a cui giunse il documento fu che “to
conduct extensive anti-insurgent operations on a countrywide scale would require
mobilization of much larger numbers of regular ground forces” 1. Solo due giorni
dopo gli esperti dell'Agenzia constatarono che l'intervento era praticamente già in
corso. Gates avrebbe sostenuto che “CIA's Soviet analysts just couldn't believe
that the Soviets actually would invade […] it would be foolish […] to do so”2.
1
George Kennan cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210.
Douglas MacEachin, Predicting the Soviet Invasion of Afghanistan: The Intelligence
Community's Record, in CIA, https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csipublications/books-and-monographs/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record.html, consultato il 29/12/2014.
2
Gates, From the Shadows, cit., p. 134.
1
55
Il 26 dicembre Brzezinski inviò a Carter un promemoria in cui rifletteva
sugli avvenimenti dei giorni precedenti. Il National Security Advisor espresse la
sua idea del rischio di un effetto domino, ovvero che la caduta dell'Afghanistan
avrebbe potuto portare anche ad un passaggio del Pakistan nella sfera d'influenza
sovietica. Questo sviluppo avrebbe significato per gli Stati Uniti un'inaccettabile
perdita dell'accesso all'oceano Indiano. La situazione era delicata e Brzezinski
iniziò a valutare l'ipotesi di trasformare l'Afghanistan in un “Soviet Vietnam”. Il
problema erano, però, le modalità per giungere a tale esito. I guerriglieri
anticomunisti erano disorganizzati e mal equipaggiati. Sarebbe stato, dunque,
necessario non solo continuare a finanziarli, ma anche armarli con il tramite del
Pakistan.
Il presidente Zia ul-Haq era stato però annoverato dagli Stati Uniti tra i
leader violatori dei diritti umani della propria popolazione ed era stata perciò
vietata la vendita di armi statunitensi al governo di Islamabad. Inoltre il Pakistan
si era dimostrato intenzionato ad acquisire un proprio arsenale nucleare,
scontrandosi con la politica di non proliferazione dell'amministrazione Carter 3.
Brzezinski fu tra i primi a proporre e sostenere la necessità di riallacciare un
dialogo proficuo con Zia per ottenere il suo appoggio. Washington ci avrebbe
provato con una proposta di forniture di armamenti ad Islamabad. Dopo il rifiuto
di Zia dell'offerta statunitense di 400 milioni di dollari in aiuti militari, definiti
“peanuts”, l'NSC Advisor partì con Christopher per incontrare il presidente
pakistano allo scopo di convincerlo ad accettare le condizioni dell'assistenza
statunitense4. Una stretta relazione di Washington con Zia avrebbe comportato
3
4
Smith, Morality, Reason & Power, cit., pp. 231-232.
Ivi, p. 232.
56
l'ignorare in buona parte le precedenti considerazioni sui diritti umani. Vance,
però, non si oppose alle decisioni di Carter e Brzezinski. Ma evitò pure di offrire
un appoggio diretto alle proposte dei due. Brzezinski nelle sue memorie fa notare
come, riguardo al suo viaggio con Christopher in Pakistan, “Vance did not
object”, lasciando trapelare però la mancanza di un sostegno convinto del
segretario di Stato alla strategia del consigliere per la sicurezza nazionale 5. Il
viaggio ad Islamabad non riuscì comunque nell'intento di persuadere Zia ad
accettare il denaro statunitense perché il leader pakistano continuò a ritenere la
somma insufficiente.
Carter ottenne comunque la collaborazione di Zia per aiutare i ribelli
afghani. Accettò poi i suggerimenti del suo consigliere per la sicurezza nazionale
ed aumentò il livello di coinvolgimento statunitense in Afghanistan il 29
dicembre, quando diede istruzione alla CIA di allargare l'aiuto ai mujaheddin
includendo l'invio di materiale bellico6. Il presidente autorizzò l'Agenzia a fornire
ai ribelli armamenti, ma non direttamente, bensì con il tramite del Pakistan e
l'appoggio del suo presidente7. L'aiuto comprendeva fucili Lee Enfield a
ripetizione manuale, in uso nell'esercito britannico fino agli anni Cinquanta e
migliaia di lanciarazzi RPG-7 arrivati dall'Egitto e dalla Repubblica Popolare
Cinese8. Da questi due paesi giunsero nel Pakistan, già nel 1980, anche fucili
d'assalto automatici AK-47 e missili anticarro SA-7 destinati all'arsenale dei
ribelli. Queste armi di produzione sovietica sarebbero potute essere scambiate
facilmente dai soldati dell'Armata Rossa per scorte rubate dai ribelli, inducendoli
5
Brzezinski, Power and Principle, cit., p. 448.
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 209.
7
George Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 24.
8
Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 81.
6
57
così a escludere l'ipotesi di una loro provenienza estera 9. La CIA fornì ai
mujaheddin anche esplosivi al plastico C-4 per i sabotaggi, e con essi la
consulenza di esperti per insegnarne l'utilizzo 10. Dal punto di vista pratico l'InterServices Intelligence (ISI), i servizi segreti pakistani, si sarebbe occupata di
portare gli aiuti statunitensi direttamente ai ribelli. L'Arabia Saudita si sarebbe
impegnata a co-finanziare le operazioni in misura eguale a quella statunitense.
Carter assegnò la decisione sull'allocazione degli aiuti al governo pakistano ed ai
suoi servizi segreti, che sarebbero stati liberi di scegliere quali gruppi di insorti
finanziare11. Stava entrando nel vivo “[la] più grande e fortunata” operazione
segreta della storia statunitense: l'Operation Cyclone12. Gli Stati Uniti avrebbero
poi provveduto ad un'attività di propaganda mirante a denunciare i sovietici come
violatori della pace e a sostenere l'indipendenza dei paesi islamici13.
Il consigliere per la sicurezza nazionale comunicò a Vance le decisioni
concordate col presidente: ripristinare le vendite militari ad Islamabad e
l'intenzione di posticipare le discussioni sulla nuclearizzazione del Pakistan a crisi
afghana risolta14. L'invasione dell'Afghanistan e la necessità della fondamentale
intermediazione
di
Zia
cambiarono
le
carte
in
tavola:
l’impegno
dell’amministrazione Carter a tutelare i diritti umani fu sacrificato, sul vecchio
altare della guerra fredda, a favore dell'urgenza di affrontare con decisione la
9
Steve Galster, Afghanistan: Lessons from the Last War. The Making of US Policy, 19731990, 9 ottobre 2001, in NSA Archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB57/essay.html, consultato il 3 gennaio 2015.
10
Hartman, The Red Template, cit.
11
Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 81.
12
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 14.
13
Brzezinski, Reflections on Soviet Intervention in Afghanistan, Washington, 26 dicembre
1979, in NSA archive, http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1979-1226%20Brzezinski%20to%20Carter%20on%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014.
14
Brzezinski, Presidential Decision on Pakistan, Afghanistan and India, Washington, 2
gennaio
1980,
in
NSA
Archive,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01-02%20Presidential
%20Decisions%20on%20Pakistan%20-%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014.
58
minaccia sovietica. Washington con questo non si dimostrò favorevole ed anzi
riaffermò la sua opposizione al tentativo pakistano di acquisire un armamento non
convenzionale, ma l’amministrazione Carter preferì evitare il discorso piuttosto
che continuare con la denuncia aperta di Islamabad in questo momento di
necessità15.
Gates, nelle sue memorie del 1996, ha menzionato per la prima volta
l'esistenza di un programma statunitense di aiuti ai ribelli afghani addirittura
antecedente all'invasione sovietica dell'Afghanistan. Gates ha fatto notare che,
contrariamente all'idea che gli Stati Uniti avessero agito con colpevole ritardo nel
teatro afghano, “Carter and Brzezinski […] initiated work on covert response nine
months before, and implemented a covert finding to help the insurgents resist the
soviets almost six months before the massive Soviet move”16. Secondo questa
ricostruzione, la possibilità di fornire assistenza ai mujaheddin fu valutata dallo
Special Coordination Committee (SCC) del consiglio di sicurezza nazionale a
partire da un meeting del 6 aprile 1979. Il via all'operazione fu infine approvato
con una direttiva di Carter firmata il 3 luglio17.
In un'intervista del 1998 Brzezinski ha confermato l'importanza di questa
iniziativa tra le cause della decisione del Cremlino di inviare l'Armata Rossa nel
Paese. In tale occasione, l'ex consigliere della sicurezza nazionale ha parlato della
caduta dell'Unione Sovietica nella “Afghan trap” come di un passo decisivo verso
il collasso dell'impero comunista18. Nelle sue memorie Brzezinski non ha invece
trattato direttamente dell'aiuto ai mujaheddin deciso a partire dal 6 aprile. Ha
15
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 234.
Gates, From the Shadows, cit., p. 149.
17
Ivi, pp. 145-146.
18
Brzezinski, Interview with “Le Nouvel Observateur”, 15-21 gennaio 1998, in University of Arizona, http://dgibbs.faculty.arizona.edu/brzezinski_interview, consultato il 13 dicembre
2014.
16
59
esposto piuttosto la linea proposta da lui e Brown riguardante l'urgenza di
esprimere aperta preoccupazione sulle interferenze di Mosca in Afghanistan,
avversata senza successo da Vance e Christopher ed accettata da Carter. In
retrospettiva inoltre la sottolineatura della spinta di Brzezinski tramite l'SCC “to
be more sympathetic to those Afghans who were determined to preserve their
country's independence” appare un chiaro riferimento al meeting dello Special
Coordination Committee del 6 aprile19. Carter, nelle sue memorie, si è limitato a
scrivere dell'invio di armi di produzione sovietica ai mujaheddin in seguito
all'invasione sovietica “and […] giving them [Afghan rebels] what encouragement
we could”20.
Le dichiarazioni di Brzezinski a “Le Nouvel Observateur”, però, non
sembrano trovare riscontro nell’atteggiamento di Washington tra la fine del 1979 e
l’inizio del 1980. La reazione a caldo dell'amministrazione Carter fu quella di
esprimere con forza la sua preoccupazione per gli sviluppi in Afghanistan. Fu del
tutto assente qualsiasi sorta di entusiasmo derivante dalla constatazione che
Mosca fosse caduta nella presunta trappola alla quale avrebbe fatto riferimento
Brzezinski alcuni anni più tardi. A Washington era piuttosto presente il timore di
una mossa sovietica che avrebbe finito col colpire l'intero golfo Persico. Nessuna
soddisfazione pervase l'amministrazione Stati Uniti, anzi, l'atmosfera era dominata
da una “momentary hysteria”21.
Il presidente annunciò la sua valutazione e le sue reazioni nel discorso alla
nazione del 4 gennaio 1980:
19
Brzezinski, Power & Principle, cit., pp. 426-427.
Carter, Keeping Faith, cit., p. 475.
21
Senatore Frank Church in Charles A. Kupchan, The Persian Gulf and the West. The Dilemmas of Security, Allen & Unwin. Winchester, MA, 1987, p. 77.
20
60
This invasion is […] a callous violation of international law and the United
Nations Charter […] because of the Soviet aggression, I have asked the United
States Senate to defer further consideration of the SALT II treaty so that the
Congress and I can assess Soviet actions and intentions […] The Soviets must
understand our deep concern22.
Comunicò inoltre la volontà di interrompere le esportazioni di grano e
tecnologia avanzata verso l'Unione Sovietica, insieme alla decisione di boicottare
le Olimpiadi che si sarebbero tenute a Mosca quell'estate.
Nel successivo discorso sullo stato dell'Unione del 23 gennaio Carter
avvisò che le “implications of the Soviet invasion of Afghanistan […] could pose
the most serious threat to the peace since the Second World War”. Aggiunse poi
una netta dichiarazione di forza
Let our position be absolutely clear: An attempt by any outside force to gain
control of the Persian Gulf region will be regarded as an assault on the vital
interests of the United States of America, and such an assault will be repelled by
any means necessary, including military force23.
L'atteggiamento statunitense nei confronti dell'invasione sovietica
dell'Afghanistan qui espresso dal presidente sarebbe divenuto noto come
“Dottrina Carter”. Suona particolarmente stridente il contrasto tra la visione
22
Jimmy Carter, Address to the Nation on the Soviet Invasion of Afghanistan, Washington,
4 gennaio 1980, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?
pid=32911, consultato il 21 novembre 2014.
23
Jimmy Carter, The State of the Union Address Delivered Before a Joint Session of the
Congress, Washington, 23 gennaio 1980, in The American Presidency Project, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=33079, consultato il 21 novembre 2014.
61
retrospettiva espressa da Brzezinski nel 1998 e “the president's personal passion”
a seguito dell'invasione sovietica24. Risulta difficile pensare all'effettiva esistenza
di un piano statunitense per far cadere Mosca nella “Afghan trap”. Appare molto
più credibile un'impreparazione di Washington di fronte agli eventi del Natale del
1979. Come ha sostenuto Mario Del Pero, la dichiarazione espressa da Brzezinski
nel 1998 quindi “appare assai discutibile, e il suo scopo sembra essere quello di
attribuire all'amministrazione Carter parte del merito per la fine della Guerra
Fredda”25.
Nel suo discorso Carter parlò della nuova necessità di aumentare le spese
militari e di investire per migliorare la capacità delle forze statunitensi di
schierarsi rapidamente in aree distanti. Fu ribadito l'appoggio statunitense al
Pakistan, necessario per impedire il temuto effetto domino che avrebbe potuto far
cadere in mano sovietica buona parte dell'area mediorientale. Secondo il
presidente, il mondo occidentale non poteva permettersi di rischiare di perdere
l'accesso ad un'area “of great strategic importance: It contains more than twothirds of the world's exportable oil”26. Il progetto per la creazione di una Rapid
Deployment Force (RDF) per proteggere gli interessi degli Stati Uniti nel golfo
persico era già stato annunciato da Brown nel dicembre 1979, e l'invasione
sovietica rimosse la maggior parte delle resistenze all'interno del Congresso27.
Rispetto alle valutazioni proposte da Washington, Brezhnev tentò di
giustificare le sue azioni motivandole come una risposta ad una richiesta di aiuto
24
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 957.
Del Pero, Libertà e Impero, cit., p. 377.
26
Carter, The State of the Union Address Delivered Before a Joint Session of the
Congress, cit.
27
Charles A. Kupchan, The Persian Gulf and the West, cit., p. 87.
25
62
afghana28. Carter non credette mai alla lettera del segretario generale del PCUS29:
“The Soviets claim, falsely, that they were invited into Afghanistan to help protect
that country from some unnamed outside threat”30.
Le proposte di Carter ottennero un appoggio piuttosto diffuso tra l'opinione
pubblica statunitense31, mentre le reazioni degli alleati all'estero furono più
variegate e non sempre concordi. Innanzitutto l'embargo sulle esportazioni di
grano verso l'Unione Sovietica per risultare efficace avrebbe dovuto ottenere
l'appoggio
dei
paesi
produttori
sudamericani.
Questa
necessità
portò
l'amministrazione Carter a riconsiderare la propria posizione sui diritti umani
nell'America latina. Ad esempio, nei confronti dell'Argentina, grande esportatrice
di grano, venne messa da parte la critica riguardante la violazione dei diritti umani
da parte del governo di Jorge Rafael Videla, per ottenere il sostegno di Buenos
Aires all'embargo. Washington autorizzò un prestito di 79 milioni di dollari al
paese sudamericano per convincere l'Argentina. Questa politica tuttavia ottenne
scarsi risultati (Videla rifiutò di adeguarsi alle disposizioni di Carter) ed anzi irritò
i sostenitori dei diritti umani in patria. La Derian arrivò a minacciare le proprie
dimissioni come conseguenza delle decisioni di Washington nei confronti dei
governi dittatoriali dell'America del sud32.
Il boicottaggio delle Olimpiadi fu un altro parziale fallimento, dal
momento che paesi importanti come la Gran Bretagna e la Francia decisero di
mandare egualmente i loro atleti a partecipare ai giochi olimpici di Mosca, a
28
CC del CPSU, Reply to an Appeal of President Carter about the Issue of Afghanistan
trough the Direct Communications Channel, Mosca, 29 dicembre 1979, in Wilson Center, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113080, consultato il 9 febbraio 2015.
29
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210.
30
Carter, Address to the Nation on the Soviet invasion of Afghanistan, cit.
31
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 210.
32
Ivi, p. 212.
63
scapito delle indicazioni di Washington. La decisione dei due alleati statunitensi
rifletté i cattivi rapporti di una consistente parte dell'Europa occidentale con
Carter.
Il presidente si era attirato l'ostilità europea con alcune decisioni
impopolari negli anni precedenti, tra queste quella di abbandonare la
progettazione della bomba al neutrone. Questa sarebbe dovuta essere schierata
nella Germania dell'Ovest, dove incontrò però la resistenza dell'opinione pubblica
del paese33. Il cancelliere della Germania dell'Ovest Helmut Schmidt e gli
esponenti degli altri paesi NATO furono pressati da Carter per accettare lo
sviluppo della bomba. Il 5 aprile 1978 Bonn annunciò pubblicamente il suo
appoggio al progetto statunitense, una mossa particolarmente costosa in termini
politici per il cancelliere tedesco. Schmidt si alterò non appena venne a
conoscenza dell'intenzione di Carter di rinunciare ad andare avanti con lo sviluppo
della bomba al neutrone, una decisione che rese inutile il “sacrificio” del
cancelliere34. Schmidt arrivò ad affermare “that the United States had unilaterally
aborted the plans to produce and deploy neutron weapons”35.
Inoltre l'ex ingegnere nucleare Carter denunciò i pericoli riguardanti la
produzione e l'utilizzo del plutonio. Anche se adoperato a fini civili il pericoloso
elemento avrebbe potuto essere sfruttato per ottenere armamenti non
convenzionali, se non adeguatamente controllato. Oltre a rafforzare i controlli in
patria tramite una legislazione più severa riguardo al trattamento del plutonio
negli Stati Uniti, Carter fece pressioni anche all'estero per impedire il
trasferimento di tecnologie nucleari. Vennero lanciati ammonimenti sia alla
33
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 50.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 851-853.
35
Carter, Keeping Faith, cit., pp. 228-229.
34
64
Germania Occidentale sia al Brasile, che stava cercando di importare tecnologia
tedesca per la produzione di reattori atomici destinati ad uso energetico. L'affare
saltò, ma non per l'interferenza di Carter, che non fece altro che irritare entrambi i
paesi36. L'opinione del presidente statunitense ebbe invece successo nell'impedire
il trasferimento di impianti nucleari dalla Francia al Pakistan, ma ebbero la loro
influenza anche i timori di Parigi riguardo l'uso di questa tecnologia da parte di
Zia37.
Nelle sue memorie Gates ha attribuito l’incrinatura nei rapporti euroamericani anche all’impatto dell'inflazione statunitense (che dal 6% del 1977
passò al 20% del 1980) sull'economia dei paesi della NATO ed alla relativa
sensazione di malessere diffusa in tutto l'Occidente. Gli alleati riconobbero in
Carter il principale responsabile della situazione. Non solo Schmidt, ma anche il
primo ministro britannico Margaret Thatcher ed il presidente della Repubblica
francese Giscard d'Estaig “needed American leadership and did not find what they
were looking for in Jimmy Carter”38.
Ad aumentare la diffidenza e le perplessità del blocco occidentale
contribuì la Dottrina Carter. Le dichiarazioni di Carter e le sue successive azioni
rifletterono per Francia, Germania dell'Ovest e Gran Bretagna la debolezza del
presidente e la sua voglia di riscatto in previsione delle imminenti elezioni 39. Per i
paesi europei la gravità della manovra sovietica era stata esagerata da Washington.
Veniva comunque avanzata una condanna delle azioni dell'Armata Rossa, ma i
presunti piani del Cremlino per impossessarsi del Golfo Persico lasciarono spazio
36
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 60.
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 53.
38
Gates, From the Shadows, cit., pp. 172-173.
39
Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 213-214.
37
65
nel vecchio continente ad interpretazioni dominate da una visione geopolitica più
attenta, calibrata e realistica40. L'Europa occidentale non aveva alcuna intenzione
di rinunciare alla distensione con l'Unione Sovietica, come invece aveva fatto ed
incoraggiava a fare Washington. Schmidt dichiarò: “we will not permit ten years
of détente and defense policy to be destroyed”41. Un ulteriore motivo degli alleati
per discostarsi dalla linea statunitense risiedé nella decisione di Carter di non
consultarli
prima
di
annunciare
la
reazione
all'invasione
sovietica
dell'Afghanistan.
Kaufman riporta dati significativi sull’andamento dei rapporti commerciali
tra l'Europa occidentale e Mosca: “While U.S.-Soviet trade fell by 60 percent in
1980, West Germany and France increased their commerce with the Soviet Union
by 65 and 100 percent, respectively”42. Anche Londra aumentò gli scambi di
mercato con Mosca. Appare dunque evidente come le restrizioni statunitensi
furono aggirate in maniera relativamente agile dal Cremlino. In conclusione nel
vecchio continente non fu vista la necessità di correre il rischio di subire
rappresaglie sovietiche per accontentare un alleato ed un leader che non godeva di
grossa fiducia e con cui le relazioni non furono mai ottimali.
La reazione statunitense fu senza dubbio influenzata anche dalla perdita
dell'Iran, alleato fondamentale per Washington nel Medio Oriente, di poco
precedente all'intervento sovietico in Afghanistan. Quest'ultimo Stato vide quindi
la sua importanza strategica aumentare notevolmente. Una crescita dell’ influenza
dell'URSS nel paese afghano non sarebbe probabilmente stata considerata
40
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 979.
Ivi, pp. 977-978.
42
Kaufman, Plans Unraveled, cit., pp. 214.
41
66
altrettanto critica nel 197843.
In un documento statunitense dell'11 gennaio sono presenti interessanti
considerazioni sull'impatto dell'invasione sulla politica estera dell'Unione
Sovietica. In questa valutazione fornita dall'Office of Political Analysis venne
subito evidenziata la possibilità da parte del Cremlino di aggirare l'embargo
americano su determinati prodotti, affidandosi ad altri paesi che non si fossero
allineati alla posizione di Carter. Era temuta inoltre la possibilità dello sviluppo di
una politica sovietica più spregiudicata in Medio Oriente e nei Caraibi, a causa
della scomparsa dei limiti imposti dalla distensione, oramai collassata. Per lo
stesso motivo vennero previsti cambiamenti di rotta anche nella politica interna di
Mosca. Sarebbe probabilmente diminuita l'emigrazione di ebrei, aumentata invece
negli anni precedenti (e così avvenne44), e sarebbe cresciuta la repressione del
dissenso45.
A Washington venne negato il carattere difensivo dell'invasione sovietica
dell'Afghanistan, ma le mosse di Mosca in realtà rifletterono più la fragilità e la
paura del Cremlino piuttosto che una sorta di nuovo slancio imperialistico.
L’Unione Sovietica aveva effettivamente cercato di evitare un intervento diretto
fino al momento in cui la situazione non si era mostrata definitivamente
compromessa, in quanto Mosca temeva le ripercussioni internazionali e le
difficoltà che avrebbe trovato in territorio nemico46.
43
Andrew Hartman, 'The Red Template: US Policy in Soviet Occupied Afghanistan', giugno 2002, in Third World Quarterly, http://www.tandfonline.com/page/openaccess/openselect,
consultato il 10 gennaio 2015.
44
Carter, Keeping Faith, cit., p. 149.
45
Office of Political Analysis, The Invasion of Afghanistan: Implications for Soviet Foreign
Policy,
11
gennaio
1980,
in
NSA
Archive,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01-00%20Invasion%20of
%20Afghanistan%20-%20Implications%20for%20SFP.pdf, consultato il 13 gennaio 2015.
46
Del Pero, Libertà e Impero, cit., pp. 376-377.
67
Il 1979 fu un anno cruciale per l'avvenire della guerra fredda ma anche per
quello di Carter. Oltre all'invasione sovietica dell'Afghanistan dovette fronteggiare
l'avvenimento che probabilmente gli costò più di tutti in termini di apprezzamento
tra l'elettorato: la crisi degli ostaggi in Iran. Il 4 novembre di quell'anno circa
3.000 studenti islamici presero in ostaggio 52 membri dell'ambasciata statunitense
a Teheran. Quest'avvenimento fu la risposta all'ospitalità di Washington per
l'esiliato Shah Pahlavi, che versava in gravi condizioni di salute. Fu l'inizio di un
incubo che nessuno si sarebbe aspettato. Secondo la ricostruzione di Carter,
“None of us dreamed that we would wait more than fourteen months before our
prayers were answered and our people were finally home”47. La crisi degli ostaggi
tormentò il presidente fino alla fine del suo mandato, ma non solo, modificò anche
l'atteggiamento statunitense in politica estera. Il popolo americano percepì un
forte senso di impotenza che nell'immaginario collettivo rifletté la crisi del gigante
americano, e questa valutazione influì in maniera decisa ad intaccare le speranze
di rielezione di Carter.
I cittadini statunitensi iniziarono a desiderare che il loro Paese mostrasse
forza e determinazione. La risposta di Carter all'invasione sovietica in Afghanistan
fu in parte la volontà del presidente di rispondere a queste esigenze 48. La politica
estera percepita dall'opinione pubblica statunitense come debole iniziò quindi a
virare verso un deciso conservatorismo49. Nell'aprile del 1980 il presidente decise
di dare prova del rinnovato vigore della sua amministrazione procedendo
all'organizzazione di una missione per la liberazione degli ostaggi in Iran. Vance si
oppose all'idea e fece notare i rischi che avrebbe corso lo staff statunitense
47
Carter, Keeping Faith, cit., pp. 457-458.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 967.
49
Hartman, The Red Template, cit.
48
68
prigioniero in caso di un fallimento, ma Carter si fece convincere da Brzezinski
che, come al solito, propose la linea più dura. L'operazione fu un fallimento totale.
Non fu neppure conclusa (praticamente nemmeno iniziata) a causa di alcuni guasti
agli elicotteri che avrebbero dovuto partecipare all'azione, con uno di questi che
addirittura si scontrò con uno dei C-130 statunitensi. Ci furono otto morti tra i
soldati, e la zona fu abbandonata in fretta lasciando quattro elicotteri in mano
nemica50.
I risvolti della vicenda affossarono ulteriormente le speranze di rielezione
di Carter che avrebbe pagato l'aver agito “boldly and failed”51. Vance rassegnò le
sue dimissioni in seguito al rifiuto del presidente di seguire le sue indicazioni ed al
suo posto fu nominato il senatore del Maine Edmund Muskie. Inoltre il fallimento
della missione di salvataggio impartì un duro colpo alla fiducia verso Carter, sia
da parte degli elettori che all'interno del Congresso. La popolazione statunitense in
aggiunta stava
affrontando una crisi economica ed una crescente inflazione
dovuta all'aumento del costo del petrolio in seguito alla rivoluzione iraniana 52. Il
tutto accentuò una sensazione di malessere negli Stati Uniti la cui responsabilità
fu attribuita a Carter e alla sua amministrazione.53
Uno dei pochi motivi di soddisfazione per Washington veniva da circa una
decina di migliaia di km di distanza: la resistenza afghana combatteva meglio del
previsto, anche grazie agli aiuti dell'Operation Cyclone54. Gromyko, Andropov,
Ustinov e Ponomarev già alla fine di gennaio del 1980 iniziarono a rendersi conto
di quanto stava accadendo in Afghanistan e del tentativo statunitense di cogliere
50
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 207.
Gates, From the Shadows, cit., p. 155.
52
Carter, Keeping Faith, cit., p. 526.
53
Ivi, pp. 172-173.
54
Graziosi, L'URSS dal trionfo al degrado, cit., p. 468.
51
69
un'opportunità per mettere in crisi l'Unione Sovietica:
The USA, its allies, and the PRC have set themselves the goal of using to the
maximum extent the events in Afghanistan to intensify the atmosphere of antiSovietism and to justify long-term foreign policy acts which are hostile to the
Soviet Union and directed at changing the balance of power in their favor.
Providing increasing assistance to the Afghan counter-revolution55.
Nel documento venne fatto chiaro riferimento all'appoggio di Stati Uniti e
Repubblica Popolare Cinese a Zia, utile ad usare il Pakistan come base e come
tramite per arrivare ai ribelli afghani.
Molti comandanti della resistenza iniziarono dunque a fare riferimento ai
gruppi più vicini al Pakistan, tra i quali il principale fu l'Hezb-i-Islami comandato
da Gulbuddin Hekmatyar. I ribelli islamici di Hekmatyar avevano la loro base
proprio a Peshawar in Pakistan, un vantaggio che permise loro l'accesso diretto ai
rifornimenti statunitensi56. Il capo dell'Hezb-i-Islami ottenne una grande parte
degli aiuti esteri grazie al fatto che Islamabad non avrebbe avuto alcun interesse a
finanziare gruppi che avessero avuto come tratto distintivo la loro appartenenza
etnica. Zia desiderò evitare una vittoria di gruppi nazionalisti afghani e incanalò
quindi i dollari e le armi procurate dagli Stati Uniti verso i fondamentalisti
islamici. L'ISI provvide a sostenere proprio i più radicali tra questi, tra cui
appunto quello di Hekmatyar, che si occupava anche di traffici di droga. Inoltre
l'Hezb-i-Islami non aveva una base popolare in Afghanistan ed era dunque molto
55
Gromyko, Andropov, Ustinov, Ponomarev, CPSU CC Politburo Decision, with Report,
Mosca,
28
January
1980,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111585, consultato il 1 gennaio 2015.
56
Westad, The Global Cold War, cit., p. 326.
70
più legato al Pakistan, e dipendente da esso, di altri gruppi di resistenza afghana57.
Tra febbraio e marzo Brzezinski intraprese una serie di viaggi per conferire
col presidente Zia, con cui parlò di un eventuale allargamento dell'Operation
Cyclone. In seguito si incontrò con i sauditi che riconfermarono il loro impegno
nel teatro afghano. Il supporto statunitense ai mujaheddin fu accresciuto
decisamente nel luglio 1980, quando furono aumentate la quantità e le tipologie di
armamenti messi a disposizione dei ribelli58.
Da parte sovietica, secondo una comunicazione di Andropov al CC del
Politburo del 7 febbraio, la situazione a Kabul appariva in via di stabilizzazione.
Ustinov constatò che, anche se il contesto adesso sembrava più favorevole,
sarebbe comunque servito almeno un altro anno per mettere in sicurezza il Paese.
Brezhnev addirittura si schierò a favore di un incremento delle truppe in
Afghanistan59. Ma contrariamente alle osservazioni del capo del KGB, a Kabul le
preoccupazioni aumentarono, dato che proprio in febbraio le attività dei
mujaheddin salirono d'intensità. In Afganistan gran parte della nazione rispose
infatti alla chiamata alla jihad, la guerra santa60.
La CIA intraprese una campagna di propaganda a favore dei “combattenti
della libertà” (come furono ribattezzati i mujaheddin da Carter 61) che finanziò in
patria e all'estero articoli, pubblicazioni accademiche e tutto ciò che avesse
esaltato i valori dei coraggiosi ribelli afghani massacrati dallo strapotere sovietico.
I soldati dell'Armata rossa affrontarono invece direttamente la realtà di un popolo
57
Scott, The Road to 9/11, cit., pp. 120-121.
Gates, From the Shadows, cit., pp. 148-149.
59
CC del Politburo, Transcript (Excerpt), on Andropov's Conversations with Afghan Leaders,
Mosca,
7
febbraio
1980,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111587, consultato il 3 gennaio 2015.
60
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 25.
61
Ibidem.
58
71
fortemente devoto alla propria indipendenza e tra i soldati iniziarono a circolare
storie che dipingevano i mujaheddin come feroci combattenti spietati62.
Con la resistenza afghana tutt'altro che prossima al termine, la decisione di
un ritiro delle truppe a quel punto apparve prematura al Politburo. Inoltre la paura
di apparire deboli e cedere alle intimidazioni statunitensi fece la sua parte. In ogni
caso gli ordini da Mosca si fecero categorici, era il momento di “[b]egin active
operations for destruction of the formations of the armed opposition together with
the DRA [Democratic Republic of Afghanistan] Army”63. L'obbiettivo passò dalla
stabilizzazione della situazione interna afghana alla distruzione dei rivali del
PDPA. I due scopi erano in parte connessi, ma si verificò qui un passo in avanti
nell'ambito dell'invasione sovietica. Ad aprile a Mosca prevaleva ancora
l'ottimismo verso gli esiti dell'occupazione. Vennero sì sottolineati i problemi di
Kabul riguardanti sia le riforme interne e l'ancora scarsa unità ed importanza del
partito, sia la resistenza della popolazione e dei gruppi armati islamisti. Ma era
ancora certa un'idea di avanzamento sicuro verso un governo afghano finalmente
saldo al comando e scevro da pericoli, anche grazie all'azione militare sovietica
che stava infliggendo grosse perdite alle “counterrevolutionary forces”64.
I “combattenti della libertà” afghani stavano affrontando una lotta
disperata, e gli aiuti segreti che stavano ricevendo dall'estero consistevano per lo
più in armi obsolete fornite a guerriglieri impreparati. Nei primi mesi
dell'Operation Cyclone alla CIA nessuno aveva mai pensato ad una sconfitta dei
62
Ibidem.
Alexander Lyakhovsky, The Tragedy and Valor of Afghan, GPI Iskon, Moscow, 1995,
pp. 176-177.
64
CC del Politburo, Decision on Afghanistan, with report by Gromyko, Andropov, Ustinov,
and
Zagladin,
Mosca,
7
aprile
1980,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111590, consultato il 15 gennaio 2015.
63
72
sovietici in Afghanistan, l'obbiettivo era causare problemi all'Armata Rossa, ma
non veniva considerata realistica la possibilità di fermarla. L'operazione
dell'Agenzia venne attuata soprattutto per ottemperare alcuni scopi, gli aiuti
avrebbero dovuto: allarmare i sovietici scoraggiandoli da ulteriori azioni nel Golfo
Persico; dimostrare la fermezza di Washington nel contrastare le azioni militari
del Cremlino con ogni mezzo e avrebbero poi fatto ben figurare gli Stati Uniti di
fronte al mondo islamico65.
Ma l'Unione Sovietica ribadì la legittimità del suo intervento sulla base
della solidarietà ai rivoluzionari afghani e rigettò le accuse pervenute dagli Stati
Uniti. Gromyko ricevette pieno appoggio quando dichiarò che Mosca non doveva
scuse a nessuno, ma che anzi “should ask for pardon who organized and stand
behind the aggression against Afghanistan, who concocted the criminal plans in
relation to that country”66. In una nota dell'intelligence sovietica venne puntato il
dito contro Washington, accusata di addestrare alla guerriglia i mujaheddin e di
aver approvato in aprile un aiuto di 15.000.000 di dollari “officially legalizing
interference in the internal affairs of a sovereign member state of the UN [United
Nations]”67. Tra marzo e giugno, proseguiva il documento, erano state allocate
armi presso i ribelli afghani per un valore di 4.500.000 dollari.
L'inizio dell'estate del 1980 vide l'entrata in scena di un personaggio
eccentrico che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell'appoggio ai “combattenti
della libertà” afghani: il deputato del Texas Charlie Wilson 68. Wilson rimase
65
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 24.
Gromyko, Minutes of the Meeting of the CPSU, CC Plenum on the Situation in Afghanistan,
Mosca,
23
giugno
1980,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111594, consultato il 15 gennaio 2015.
67
KGB, Intelligence Note Concerning Actions by the US in Aiding the Afghan Rebel
Fighters,
1
settembre
1980,
in
Wilson
Center,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111792, consultato il 15 gennaio 2015.
68
Galster, Afghanistan: Lessons from the Last War, cit.
66
73
colpito da un servizio del giornalista della CBS Dan Rather che aveva mostrato il
coraggio dei ribelli nell'affrontare il nemico sovietico, di gran lunga meglio
equipaggiato ed addestrato. Il deputato texano era stato recentemente nominato
membro della potente sottocommissione stanziamenti per la Difesa ed utilizzò la
sua posizione per disporre il raddoppio dei fondi della CIA destinati ai
mujaheddin, che passarono così all’incirca dai cinque ai dieci milioni di dollari69.
Questa disposizione non produsse immediati effetti decisivi sulla guerra in
Afghanistan, ma è notevole se pensiamo alla facilità con cui fu concesso ad un
semplice deputato di sollecitare un incremento fondi per la CIA, una prerogativa
generalmente assegnato del presidente.
La svolta afghana sottolineò particolarmente il contrasto tra i propositi preelettorali di Carter nel 1976 e le sue azioni guidate dalle proprie “apocalyptic
perceptions”70
riguardanti
l'intervento
sovietico.
Nella
sua
reazione
e
nell'enunciazione della Dottrina Carter violò molti dei suoi capisaldi. Innanzitutto
la sua antica intenzione di evitare interferenze nella politica interna di altri paesi si
fece del tutto incompatibile con la realtà dell'Operation Cyclone, che vide le sue
basi essere poste ben prima dell'invasione sovietica. Secondo, la sua volontà di
trascendere la visione bipolare tipica della guerra fredda fu del tutto abbandonata
in questa occasione: un conflitto riguardante l'Unione Sovietica ed il piccolo Stato
afghano fu trasformato in un attentato agli interessi statunitensi ed occidentali.
Infine, ci fu anche una grossa violazione dell'impegno dell’amministrazione a
tutelare i diritti umani. Se non possiamo incolpare Carter di avere indirizzato gli
aiuti a gruppi di insorti fondamentalisti coinvolti in attività illecite come l'Hezb-i69
70
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 28.
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 222.
74
Islami, possiamo attribuirgli certamente una miopia nella sua autorizzazione a
consegnare in mano pakistana la quasi totalità degli aspetti pratici dell'Operation
Cyclone. Senza contare la decisione di abbandonare le critiche riguardo alle
politiche interne del dittatore Zia e riguardo alla volontà di nuclearizzazione del
Pakistan (dimenticando così anche le promesse riguardanti la non proliferazione
nucleare).
La Dottrina Carter non fu un segnale lanciato solo al Cremlino, ma anche
agli elettori statunitensi. Con il primo mandato del presidente oramai vicino al
termine, Carter colse l'occasione dell'intervento sovietico in Afghanistan per
fornire una prova di forza agli occhi dei propri cittadini. Il presidente quindi tentò
di rimuovere “l'aura di titubanza” che aveva circondato l'amministrazione
democratica71. Ma Carter, con la sua Dottrina, si trovò ad affrontare una situazione
difficile: per offrire all'elettorato statunitense un'alternativa a Reagan avrebbe
dovuto proseguire con la difesa della distensione, ma il suo discorso del 23
gennaio era andato in tutt'altra direzione. Inoltre, avendo ingigantito l'intervento
sovietico e non essendo riuscito in seguito ad ottenere un ritiro delle truppe
dell'Armata Rossa, finì col perdere ulteriore credito tra la popolazione statunitense
(che pure aveva ben reagito inizialmente alla formulazione della Dottrina
Carter)72. Anche nelle memorie di Carter sono presenti considerazioni
sull'influenza dell'invasione sovietica nella sua campagna per la rielezione, ma
nell'evidenziarle si limita a discutere delle difficoltà poste dalla situazione
internazionale agli impegni elettorali: “In the midst of all international crises, the
intrusion of the political campaign seemed almost unreal, but there was no way to
71
72
Romero, Storia della guerra fredda, cit., p. 279.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., pp. 1006-1007.
75
avoid it […] I was not actively campaigning”73.
La dura reazione dell'amministrazione alle azioni di Mosca in Afghanistan
rinnegò per di più buona parte delle decisioni e delle dichiarazioni del primo
biennio di Carter. Allo stesso tempo questo cambiamento non portò ad un ritiro
delle forze sovietiche e rifletté per l'ennesima volta la “apparent vacillation” del
presidente74. Gli indici di gradimento popolare per il presidente democratico
mostrano chiaramente come i consensi toccarono il loro picco nel periodo
immediatamente seguente alla proclamazione della Dottrina. Ma mostrano altresì
come questo credito iniziò a calare rapidamente, per venire poi definitivamente
affossato dal fallito tentativo per la liberazione degli ostaggi in Iran 75. La priorità
della politica statunitense era cambiata dalla difesa dei diritti umani al ritorno di
vecchie logiche tipiche del contenimento, ma nessuno dei due atteggiamenti riuscì
a convincere buona parte dell'opinione pubblica.
La fine dell'anno era oramai vicina e con essa il possibile termine del
mandato di Carter. Il 4 novembre 1980 fu l'anniversario dell'inizio della crisi degli
ostaggi in Iran, lo stesso giorno in cui si svolsero le elezioni presidenziali. Una
coincidenza non felice per Carter, col pubblico statunitense che veniva
bombardato mediaticamente dalle immagini del personale americano intrappolato
a Teheran da un anno. “When the public began to realize that the latest events in
Iran would not lead to the hostages' freedom, a wave of disillusionment swept the
country”76. Ma vi erano altre fonti di “disillusionment” tra gli elettori statunitensi.
La potenza statunitense appariva al popolo americano sempre più in declino, e
73
Carter, Keeping Faith, cit., pp. 473-476.
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 1006.
75
Roper Center, Job Performance Ratings for President Carter, http://www.ropercenter.uconn.edu/CFIDE/roper/presidential/webroot/presidential_rating_detail.cfm?allRate=True&presidentName=Carter, consultato il 7 febbraio 2015.
76
Carter, Keeping Faith, cit., p. 567.
74
76
neanche il cambiamento della priorità della politica estera di Carter del 1979 servì
a cambiare l'immagine di decadenza del gigante statunitense. Il passaggio dalla
priorità dei diritti umani ad un nuovo anticomunismo e ad una rinnovata volontà
di aumentare le spese militari in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan,
non riuscì se non inizialmente e per breve periodo nell'intento di restituire agli
Stati Uniti la propria immagine di forza presso gli elettori. Né rimosse l'aura di
debolezza e inconsistenza che avrebbe continuato a circondare Carter77. Anche le
interminabili trattative per giungere ad un accordo SALT II furono presentate
dalla critica come una sconfitta dell'amministrazione democratica, dal momento
che gli ambiziosi traguardi di riduzione degli armamenti non convenzionali posti
inizialmente del presidente non furono infine raggiunti. Carter non riuscì inoltre a
gestire i contrasti tra Brzezinski e Vance, finendo con l'oscillare tra le posizioni
dei due in maniera disordinata. Questo atteggiamento finì col causare confusione
sia all'interno dei confini statunitensi che al di fuori di essi78.
La sensazione di malessere generata dall'amministrazione democratica
trovò riflesso nei risultati delle elezioni presidenziali: fu netta la vittoria di Reagan
con il 50,7% dei voti popolari, contro il 41% di Carter. I repubblicani
conquistarono la maggioranza anche al Senato e, pur restando in minoranza,
aumentarono la loro rappresentanza alla Camera di 33 seggi.
Nelle sue memorie Carter sottolinea come il fallimento delle trattative per
il rilascio degli ostaggi abbia contribuito in maniera decisiva la sua sconfitta 79. Ma
fu l'intera gestione della politica estera da parte di Carter ad avere un impatto
importante sulle elezioni, e determinò il desiderio della popolazione statunitense
77
Smith, Morality, Reason, and Power, cit., pp. 242-243.
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 240.
79
Carter, Keeping Faith, cit., p. 570.
78
77
di un riscatto degli Stati Uniti in ambito internazionale sulla base di “moralità,
potenza e missione”, offerta dall'ex governatore californiano80.
80
Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 378.
78
Conclusioni
La figura del presidente Carter ha ricevuto valutazioni contrastanti dal
termine del suo mandato ad oggi. Nella prima parte degli anni Ottanta all'interno
del Partito Democratico era ancora viva la necessità di distaccarsi dalla figura
dall'ex presidente georgiano. Walter Mondale, quando decise di candidarsi contro
Reagan alle presidenziali del 1984, addirittura non ne chiese l'appoggio alla
propria candidatura per la Casa Bianca1.
Tra i democratici ci fu il desiderio di prendere le distanze da un ex
presidente che era stato bocciato dall'opinione pubblica statunitense. Questa aveva
generalmente stigmatizzato la politica estera del primo biennio di Carter come
“naïve” ed aveva ritenuto la svolta del 1979 poco credibile 2. Le accuse di
debolezza indirizzate a Carter sono apparse ingiustificate a Gates, che ha
sottolineato la forza dell'ex presidente nel dialogare col Cremlino premendo sul
tema dei diritti umani. Per Gates i sovietici “far more than Americans or
Europeans […] saw Carter as a committed ideological foe as well as geopolitical
adversary” ed evidenzia “that relations between the Soviet Union and the United
States were more consistently sour and antagonistic during the Carter
administration”3 . Ma quali vantaggi avrebbe potuto trarre dal timore sovietico, un
presidente che prima di essere eletto aveva annunciato il desiderio di voler
1
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 234.
Smith, Morality, Reason & Power, cit., p. 247.
3
Gates, From the Shadows, cit., pp. 178-179.
2
79
sviluppare ulteriormente il dialogo con Mosca? L'aver causato diffidenza e paura
tra i dirigenti del PCUS sembra da questo punto di vista più un demerito che un
merito di Carter, come invece Gates sembrerebbe voler fare apparire (il
sottocapitolo in cui sono presenti le riflessioni riportate sopra è intitolato
“Reevaluating Carter”). Gates giunge infine ad una considerazione: “I think the
Kremlin later came to see great continuity between Carter's approach to them and
that of his successor, Ronald Reagan”4.
Può apparire improbabile stabilire una continuità tra un presidente
democratico imputato di aver condotto una politica estera ingenua, inconcludente
quando non addirittura controproducente, con quella di un presidente
repubblicano che descrisse apertamente l'Unione Sovietica “l'impero del male” e
riprese la corsa al riarmo con Mosca, aumentando il bilancio militare statunitense
del 50% tra il 1980 ed il 1985 5. Ma, in effetti, osservando l'ultimo periodo di
Carter possiamo notare che fu la sua Dottrina a segnare la fine della distensione,
con i suoi toni duri di critica verso il Cremlino. Sempre nella Dottrina annunciò
inoltre la necessità di aumentare le spese per la Difesa, anticipando quanto sarebbe
stato poi sviluppato da Reagan sotto la sua amministrazione. Il democratico
Carter, che avrebbe voluto distanziarsi dalla politica estera perseguita da
Washington fino al momento della sua elezione, si trovò paradossalmente ad
essere il prosecutore della distensione promossa dal governo repubblicano di
Nixon e Kissinger (per quanto riguarda i primi tre anni di Carter) e l'anticipatore
dell'indirizzo seguito da Reagan (con le sue decisioni in seguito all'invasione
sovietica dell'Afghanistan)6.
4
Ivi, p. 179.
Del Pero, Libertà e impero, cit., pp. 300-285.
6
Garthoff, Détente and Confrontation, cit., p. 967.
5
80
Per la mia tesi è fondamentale sottolineare soprattutto l'ampliamento
entusiastico da parte di Reagan dell'Operation Cyclone, iniziata sotto Carter.
Come ha sostenuto Odd Arne Westad, “[t]he Reagan approach was in many ways
a continuation of the policies and methods developed by […] Brzezinski” 7.
Secondo il giornalista Peter Bergen, gli aiuti statunitensi ai mujaheddin durante
l'ultimo anno di Carter ammontarono ad una cifra compresa tra i venti ed i trenta
milioni di dollari8. Gli Stati Uniti continuarono ad armare i ribelli afghani fino al
1989 ed usarono il modello stabilito dalla CIA nel 1980 fino al 1983. In altre
parole, proseguirono a evitare l'aiuto diretto ai mujaheddin, agendo tramite il
Pakistan, che si sarebbe impegnato a smerciare le armi ai ribelli 9. Quello che
cambiò nel passaggio dall'amministrazione Carter a quella Reagan fu l'entità degli
aiuti stabiliti dai bilanci annuali ad uso dell'Operation Cyclone gestita
dall'Agenzia ed approvati dal Congresso, che sotto la presidenza repubblicana
aumentarono dai trenta milioni di dollari del 1981 a quasi duecento milioni nel
1984 (per arrivare ad un costo finale totale dell'operazione di oltre 3 miliardi di
dollari)10. Ma il modo di agire stabilito nell'ultimo anno dell'amministrazione
Carter rimase pressoché invariato11.
Solo negli ultimi anni, ed in seguito alle affermazioni delle memorie di
Gates e dell'intervista di Brzezinski a “Le Nouvel Observateur”, rispettivamente
del 1996 e del 1998, la storiografia ha iniziato a studiare con attenzione il ruolo e
le responsabilità di Carter nell'ambito dell'Operation Cyclone. Gli attentati dell'11
settembre 2001 al World Trade Center ed al Pentagono rivendicati dal gruppo
7
Westad, The Global Cold War, cit., p. 331.
Peter Bergen, Holy War Inc., New York, Simon & Schuster, 2001, p. 68.
9
Westad, Global Cold War, cit., p. 352.
10
Hartman, The Red Template, cit., p. 476.
11
Coll, La guerra segreta della CIA, cit., p. 90.
8
81
terroristico di al-Qaeda e la successiva “guerra al terrore” promossa
dall'amministrazione di
George W. Bush hanno contribuito a incentivare la
ricerca storica sui temi relativi all'Afghanistan ed in particolare sul finanziamento
segreto statunitense ai mujaheddin. Al-Qaeda era stato infatti uno dei movimenti
appoggiati dalla CIA durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan 12. Chiunque
abbia cercato e cerca di capire le ragioni dell'odio islamico verso gli Stati Uniti si
è trovato ad analizzare gli aiuti dispensati dall'Agenzia ai ribelli afghani tra il
1980 ed il 1989, identificando spesso queste motivazioni nell'abbandono
statunitense dell'Afghanistan alla propria sorte in seguito al ritiro dell'Armata
Rossa. Quello che rimase in seguito alla guerra finanziata dalla CIA fu un “paese
distrutto, e gli Stati Uniti si lava[ro]no le mani di ogni responsabilità” 13.
Lentamente l'Operation Cyclone ha iniziato a significare il primo passo erroneo di
Carter in un “lack of forward thinking” statunitense, continuato ed ampliato poi
da Reagan14. La jihad che la CIA aveva utilizzato per contrastare i sovietici si era
volta contro gli Stati Uniti. “Nell'attività clandestina”, ha sostenuto l'ex agente
della CIA John McMahon, “si deve sempre pensare al finale di partita prima di
cominciarla. E noi non sempre lo facciamo”15.
Per quanto concerne il confronto tra le politiche di Carter e di Reagan è
opportuno evidenziare però anche i caratteri di discontinuità. Ottimo ad
esemplificare le differenze tra i due è il diverso atteggiamento nei confronti di
Nicaragua e Grenada. L'ex presidente democratico aveva tentato di mantenere il
principio di non interferenza negli affari interni di altri paesi riguardo alla
12
Scott, The Road to 9/11, cit., p. 16.
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., pp. 480-493.
14
Hartman, The Red Template, cit., pp. 475, 477.
15
McMahon cit. in Weiner, CIA, cit., p. 369.
13
82
situazione nicaraguense, mentre per Grenada aveva tentato di promuovere una
modesta operazione segreta, ma cedette subito alle proteste del Senate Intelligence
Committee e cancellò il progetto senza insistere. Reagan fu di tutt'altro parere.
Dichiarò che “se i sovietici vincessero in America centrale noi perderemmo […]
dappertutto” ma non intervenne direttamente in Nicaragua con la forza militare,
memore del ricordo non più fresco ma pur sempre attuale del Vietnam 16.
Washington agì allora tramite aiuti segreti ai guerriglieri dei Contras, che
dall'Honduras attaccavano il regime sandinista. Fu l'inizio di una guerra che
avrebbe provocato centinaia di migliaia di vittime. Reagan agì con ancora più
decisione nella piccola isola caraibica di Grenada, dove le considerazioni sugli
effetti negativi di un intervento militare furono senza dubbio ridotte, date le
dimensioni limitate dell'iniziativa. I marines invasero Grenada il 25 ottobre 1983 e
rovesciarono il governo filocubano dell'isola. “Era la prima volta che le forze
armate americane tornavano in azione dal Vietnam”17.
Proprio a metà degli anni Ottanta la reputazione di Carter iniziò a
risollevarsi. Nel 1982 l'ex presidente aveva fondato il Carter Center,
un'organizzazione non governativa senza scopo di lucro che si impegnava, e si
impegna ancora oggi, nella lotta alle malattie e nella promozione dei diritti umani
in patria e all'estero. Le sue dichiarazioni a favore della pace in Medio Oriente e in
America Centrale contribuirono ad aumentare la buona reputazione del presidente
negli Stati Uniti e nel mondo. Carter tornò ad avere una voce anche nel Partito
Democratico, dato che il senatore del Delaware Joseph Biden gli chiese l'appoggio
per la sua nomination alle presidenziali del 198818.
16
Romero, Storia della guerra fredda, cit., p. 296.
Ibidem.
18
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 234.
17
83
Carter nel 1994 fece parte di una missione diplomatica ad Haiti insieme al
senatore democratico della Georgia Sam Nunn ed all'ex capo di Stato maggiore
Colin Powell. L'obbiettivo della delegazione fu quello di ottenere il ritiro pacifico
della giunta militare che nel 1991 aveva deposto con un golpe l'allora presidente
eletto Jean-Bertrand Aristide, ed evitare così un intervento armato statunitense che
era già in procinto di essere effettuato. L'esito delle trattative fu positivo e
l'operazione Uphold Democracy, che avrebbe dovuto procedere con l'invasione di
Haiti, trasformò il suo obbiettivo. Si occupò dunque esclusivamente di monitorare
la transizione nel paese dalla giunta militare al ritorno di Aristide, assicurandosi
che questa avvenisse in maniera pacifica. È da segnalare però che l'accordo fu
siglato solo in seguito ad una dimostrazione di forza di Washington, che diede
prova di essere realmente pronta ad effettuare un'invasione facendo partire dalla
base in Nord Carolina l'ottantaduesima divisione aviotrasportata19. Ma in seguito
alla firma del patto di non aggressione tra militari haitiani e statunitensi, Carter
stupì tutti dichiarando di essersi vergognato della politica di Washington nei
confronti del leader haitiano Raoul Cédras. Affermò che l'etichetta di dittatore
assegnata dal presidente Bill Clinton a Cédras era infondata, ed accusò lo stesso
Clinton di averlo costretto ad abbandonare Port au Prince “mentre avrei dovuto
restarvi perché nessuno dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato dialoga con
loro nell'ora del bisogno”20. Tra gli eventi promossi dal Carter Center ci fu anche
la negoziazione dell'accordo di Nairobi dell'8 dicembre 1999 tra Uganda e Sudan,
19
Frye Gaillard, Prophet From Plains. Jimmy Carter and his Legacy, Athens, University of
Georgia Press, 2007, edizione Kindle, posizione da 919 a 923.
20
Ennio Carretto, Haiti, giallo sul ritorno di Aristide, “Corriere della Sera”, 21 settembre
1994,
http://archiviostorico.corriere.it/1994/settembre/21/Haiti_giallo_sul_ritorno_Aristide_co_0_940
92114395.shtml, consultato il 12 febbraio 2015.
84
a cui partecipò direttamente l'ex presidente. L'oggetto principale della disputa tra i
due paesi era stato l'assistenza a gruppi di ribelli, che entrambi gli Stati vennero
accusati dalla controparte di rifornire. Il governo del Sudan venne criticato per un
presunto appoggio al Lord's Resistance Army (LRA), che agiva nel nord
dell'Uganda utilizzando spesso anche bambini soldato rapiti in precedenza sul
luogo. Invece, il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni fu accusato di
rinforzare militarmente il Sudan People's Liberation Army (SPLA) per
destabilizzare il governo di Khartum. L'accordo raggiunto anche con il contributo
di Carter fu stipulato sulla base del reciproco rispetto della sovranità dei due paesi,
che si sarebbero impegnati a mettere fine al loro precedente sostegno ai gruppi di
ribelli che agivano tra i due paesi. 21 A segnare l'apice della “seconda carriera” di
Carter giunse il conseguimento del premio Nobel per la pace del 2002 “for his
decades of untiring effort to find peaceful solutions to international conflicts, to
advance democracy and human rights, and to promote economic and social
development”22.
Carter ha tuttavia attirato anche critiche riguardo ad alcune sue recenti idee
sulla politica estera statunitense e sui problemi globali, come avvenuto nelle
controversie che hanno seguito l'uscita del suo libro Palestine: Peace Not
Apartheid nel 200623. Il volume ha ricevuto alcuni giudizi positivi, ma ha suscitato
l’ostilità di molti esponenti della comunità ebraica che definirono Carter
antisemita. Il giornalista Jeffrey Goldberg del “Washington Post” affermò che
“God, unlike Carter, does not manufacture sins to hang around the necks of Jews
21
Jimmy Carter, Beyond the White House: Waging Peace, Fighting Disease, Building
Hope, New York, Simon & Schuster, 2007, edizione Kindle, posizione da 765 a 813.
22
Jimmy Carter – Facts, Nobelprize.org, Nobel Media AB, 2014
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2002/carter-facts.html, consultato il 6
febbraio 2015.
23
Jimmy Carter, Palestine: Peace Not Apartheid, New York, Simon & Schuster, 2006.
85
when no sins have actually been committed”24. L'anno successivo, in un articolo
dell'“Arkansas Democrat-Gazette”, l’ex presidente dichiarò che “as far as the
adverse impact on the nation around the world, [the George W. Bush]
administration has been the worst in history”25. L'accusa non passò inosservata a
Washington, che tramite il portavoce della Casa Bianca Tony Fratto rispose irritata
alle parole dell'ex presidente: “I think it's sad that President Carter's reckless
personal criticism is out there […] he is proving to be increasingly irrelevant with
these kinds of comments”26.
Carter continua ancora oggi a salire spesso agli onori della cronaca, a volte
in maniera non lusinghiera come nel caso della recente dichiarazione del senatore
dell'Arizona John McCain alla Phoenix Radio Station, che ha usato Carter come
termine di paragone negativo per criticare la presidenza di Barack Obama 27. Più
positivo il parere del giornalista del “The Washington Post” Stephen Rademaker,
che riguardo all'annessione della Crimea da parte del presidente della Federazione
Russa Vladimir Putin ha sostenuto che “President Obama should be more like
Jimmy Carter”, riferendosi alla reazione energica dell'ex presidente georgiano
all'invasione sovietica dell'Afghanistan28.
I giudizi sul mandato Carter sono tutt'ora contrastanti, come dimostrano i
24
Goldberg cit. in Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 235.
Jennifer Hoar, Carter: Bush Admin. Is “Worst in History”, Associated Press, 19 maggio
2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/carter-bush-admin-is-worst-in-history,
consultato il 6 febbraio 2015.
26
Jennifer Hoar, White House Call Carter “Irrilevant”, Associated Press, 20 maggio
2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/white-house-calls-carter-irrelevant ,
consultato il 6 febbraio 2015.
27
Peter Beinart, The Cost of Disowing Carter, “National Journal”, 31 gennaio 2015
http://www.nationaljournal.com/magazine/the-cost-of-disowning-jimmy-carter-20150130,
consultato il 6 febbraio 2015.
28
Stephen Rademaker, On Ukraine: President Obama Should be More Like Jimmy
Carter,
“Washington
Post”,
8
ottobre
2014,
http://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2014/10/08/on-ukraine-president-obamashould-be-more-like-jimmy-carter, consultato il 6 febbraio 2015.
25
86
risultati di un sondaggio della Quinnipiac University sui migliori presidenti e sui
peggiori. Il georgiano è presente sia nell'una che nell'altra “top five” delle
classifiche29.
In un'intervista del 16 gennaio 2015 alla domanda del corrispondente di
ABC News George Stephanopoulos “When historians write the paragraph on
Jimmy Carter, 100 years from now, what do you want to be at the top of the list?”,
Carter ha risposto “I'd say, maybe peace and human rights” 30. Ma “maybe”, vista
anche la crescita dello Stato Islamico (riconosciuto dall' Organizzazione delle
Nazioni Unite come un'organizzazione terroristica) e l'alta risonanza mediatica di
cui gode, è più probabile vedere approfondito uno studio sul ruolo di Carter e
della CIA nell' aver “risvegliato [...] un'intera generazione di giovani militanti
musulmani”31.
29
Kaufman, Plans Unraveled, cit., p. 235.
Scott Withlock, ABC's George Stephanopoulos Fawns Over “Heroic” Jimmy Carter:
Still “Going Strong”, in MRC NewsBusters, 16 gennaio 2015 http://newsbusters.org/blogs/scottwhitlock/2015/01/16/abcs-george-stephanopoulos-fawns-over-heroic-jimmy-carter-still, consultato
il 6 febbraio 2015
31
Crile, Il nemico del mio nemico, cit., p. 494.
30
87
Bibliografia
Fonti
I.1 Memorie dei protagonisti dell'amministrazione Carter
Brzezinski, Zbigniew, Power and Principle: Memoirs of the National Security Adviser. 1977-1981, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1983.
Carter, Jimmy, Keeping Faith. Memoirs of a President, New York, Bantam
Books, 1982.
Carter, Jimmy, Beyond the White House: Waging Peace, Fighting Disease,
Building Hope, New York, Simon & Schuster, edizione Kindle, 2007.
Gates, Robert M., From the Shadows. The Ultimate Insider’s Story of
Five Presidents and How They Won the Cold War, New York, Simon &
Schuster, 2006.
Vance, Cyrus Roberts, Hard Choices: Four Critical Years in Managing
America's Foreign Policy, New York, Simon & Schuster, 1983.
88
I.2 Fonti disponibili su Internet
I.2.a Discorsi di Carter in The American Presidency Project
Carter, Jimmy, "Our Nation's Past and Future": Address Accepting the
Presidential Nomination at the Democratic National Convention, New
York
City,
15
luglio
1976,
http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?
pid=25953, consultato il 28 aprile 2014.
Carter, Jimmy, Inaugural Address, Washington, 20 gennaio 1977, in The
American
Presidency
Project,
http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?
pid=6575, consultato il 14 aprile 2014.
Carter, Jimmy, Organization of American States Address Before the Permanent
Council,
alla
Pan
American
Union,
14
aprile
1977
http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7347, consultato il 16 ottobre
2014.
Carter, Jimmy, Address at Commencement Exercises at the University,
University of Notre Dame, 22 maggio 1977, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=7552, consultato il 18 aprile 2014.
89
Carter, Jimmy, Address to the Nation on the Soviet Invasion of
Afghanistan, Washington, 4 gennaio 1980, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=32911, consultato il 21 novembre 2014.
Carter Jimmy, The State of the Union Address Delivered Before a Joint
Session of the Congress, Washington, 23 gennaio 1980, http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=33079, consultato il 21 novembre 2014.
I.2.b Archivio del Cold War International History Project del Woodrow
Wilson Center.
Andropov, Jurij, Personal memorandum to Brezhnev, Mosca, 1 dicembre
1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113254, consultato
il 10 gennaio 2015.
Brezhnev, Leonid a Jimmy Carter, Mosca, 4 febbraio 1977, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112017 consultato il 2 maggio 2014.
Brezhnev, Leonid, Excerpt from transcript, CPSU CC Politburo meeting,
Mosca, 20 settembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111568, consultato il 3 gennaio 2015.
Carter, Jimmy a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 26 gennaio 1977
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112019, consultato il 2
maggio 2014.
90
Carter, Jimmy a Leonid Brezhnev, Washington, DC, 14 febbraio 1977,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111269 consultato il 2
maggio 2014.
CPSU, CC, Summary of a meeting on Afghanistan, 10 dicembre 1979,
consultato il 9 gennaio 2015.
CPSU, CC, Reply to an Appeal of President Carter about the Issue of
Afghanistan trough the Direct Communications Channel, Mosca, 29
dicembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111780,
consultato il 9 febbraio 2015.
Gromyko, Andrej, Jurij Andropov, Dmitrij Ustinov e Boris Ponomarev,
Report on the situation in Afghanistan to CPSU CC, Mosca, 29 novembre
1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111576, consultato
il 3 gennaio 2015.
Gromyko, Andrej, Jurij Andropov, Dimitrij Ustinov e Boris Ponomarev,
CPSU CC Politburo Decision, with Report, Mosca, 28 January 1980,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111585, consultato il 1
gennaio 2015.
Gromyko, Andrej, Minutes of the Meeting of the CPSU, CC Plenum on the
Situation in Afghanistan, Mosca, 23 giugno 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111594, consultato il 15 gennaio
2015.
91
KGB, Intelligence Note Concerning Actions by the US in Aiding the
Afghan Rebel Fighters, 1 settembre 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111792, consultato il 15 gennaio 2015.
Lyakhovskiy Alexander, Account of the decision of the CC CPSU decision
to send troops to Afghanistan, dicembre 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/115531, consultato il 7/1/2015.
Politburo, Transcript of CPSU CC Politburo discussion on Afghanistan, 17
marzo 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113260, consultato il 17/12/2014.
Politburo, Memo on protocol #149 of the Politburo,”Our future policy in
connection with the situation in Afghanistan”, Mosca, 1 aprile 1979,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/110060,
consultato
il
26/12/2014.
Politburo, CC, Transcript (Excerpt), on Andropov's Conversations with
Afghan Leaders, Mosca, 7 febbraio 1980, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111587, consultato il 3 gennaio 2015.
Puzanov, Aleksandr, Political letter from USSR ambassador to
Afghanistan A. Puzanov to soviet foreign ministry, ‘about the domestic political situazion in the DRA’ (notes), Kabul, 31 maggio 1978, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113255, consultato il 3 gennaio 2015.
Taraki Nur Mohamed, Information about the visit of the Afghan party and
State delegation, headed by prime minister of the democratic republic of
92
Afghanistan Nur Mohamed Taraki to the USSR, Afghanistan, 4 dicembre
1978, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/112458, consultato
il 9 ottobre 2015.
Taraki, Nur Mohamed e Andrej Kosygin, Transcript of telephone conversation between Soviet premier Alexei Kosygin and Afghan prime minister
Nur Mohammed Taraki, 17 marzo 1979, http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/113262, consultato il 15/12/2014.
Ustinov, Dimitrij, e Nikolai Orgakov, directive n° 312/12/001 of 24 december
1979,
Mosca,
http://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/111784, consultato il 10
gennaio 2015.
I.2.c Archivio della National Security Agency (NSA)
Brzezinski, Zbigniew, Reflections on Soviet Intervention in Afghanistan,
Washington,
26
dicembre
1979,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1979-1226%20Brzezinski%20to%20Carter%20on%20Afghanistan.pdf, consultato
il 19 dicembre 2014.
Brzezinski, Zbigniew, Presidential Decision on Pakistan, Afghanistan and
India,
Washington,
2
gennaio
1980,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-01-
93
02%20Presidential%20Decisions%20on%20Pakistan%20%20Afghanistan.pdf, consultato il 19 dicembre 2014.
Galster, Steve, Afghanistan: Lessons from the Last War. The Making of US
Policy,
1973-1990,
9
ottobre
2001,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB57/essay.html, consultato il 3 gennaio 2015.
Office of Political Analysis, The Invasion of Afghanistan: Implications for
Soviet
Foreign
Policy,
11
gennaio
1980,
http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB396/docs/1980-0100%20Invasion%20of%20Afghanistan%20-%20Implications%20for
%20SFP.pdf, consultato il 13 gennaio 2015.
I.2.d Pubblicistica coeva
A Communist Coup in Afghanistan, “New York Times”, 5 maggio 1978,
http://timesmachine.nytimes.com/timesmachine/1978/05/05/112780160.ht
ml?pageNumber=32, consultato il 14 gennaio 2015.
Beinart, Peter, The Cost of Disowing Carter, “National Journal”, 31
gennaio
2015
http://www.nationaljournal.com/magazine/the-cost-of-
disowning-jimmy-carter-20150130, consultato il 6 febbraio 2015.
Brzezinski, Zbigniew, Interview with “Le Nouvel Observateur”, 15-21
gennaio
1998,
in
University
of
Arizona,
94
http://dgibbs.faculty.arizona.edu/brzezinski_interview, consultato il 13
dicembre 2014.
Carretto, Ennio, Haiti, giallo sul ritorno di Aristide, “Corriere della Sera”,
21
settembre
1994,
http://archiviostorico.corriere.it/1994/settembre/21/Haiti_giallo_sul_ritorno_Aristide_co_0_94092114395.shtml, consultato il 12 febbraio 2015.
Hoar, Jennifer Carter: Bush Admin. Is “Worst in History”, Associated
Press,
19
maggio
2007,
in
CBS
News,
http://www.cbsnews.com/news/carter-bush-admin-is-worst-in-history, consultato il 6 febbraio 2015.
Hoar, Jennifer, White House Call Carter “Irrilevant”, Associated Press, 20
maggio 2007, in CBS News, http://www.cbsnews.com/news/white-housecalls-carter-irrelevant, consultato il 6 febbraio 2015.
Rademaker, Stephen, On Ukraine: President Obama Should be More Like
Jimmy
Carter,
“Washington
Post”,
8
ottobre
2014,
http://www.washingtonpost.com/posteverything/wp/2014/10/08/onukraine-president-obama-should-be-more-like-jimmy-carter, consultato il
6 febbraio 2015.
Withlock, Scott, ABC's George Stephanopoulos Fawns Over “Heroic”
Jimmy Carter: Still “Going Strong”, in MRC NewsBusters, 16 gennaio
2015 http://newsbusters.org/blogs/scott-whitlock/2015/01/16/abcs-georgestephanopoulos-fawns-over-heroic-jimmy-carter-still,
consultato
il
febbraio 2015
95
6
I.2.e Altre fonti disponibili su Internet
Carter Jimmy – Facts, Nobelprize.org, Nobel Media AB, 2014
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2002/carter-facts.html, consultato il 6 febbraio 2015.
MacEachin, Douglas, Predicting the Soviet Invasion of Afghanistan: The
Intelligence Community's Record, in CIA, https://www.cia.gov/library/center-for-the-study-of-intelligence/csi-publications/books-andmonographs/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistan-the-intelligence-communitys-record/predicting-the-soviet-invasion-of-afghanistanthe-intelligence-communitys-record.html, consultato il 29/12/2014
Roper
Center,
Job
Performance
Ratings
for
President
Carter,
http://www.ropercenter.uconn.edu/CFIDE/roper/presidential/webroot/presidential_rating_detail.cfm?allRate=True&presidentName=Carter, consultato il 7 febbraio 2015.
96
Studi
Bergen, Peter, Holy War Inc., New York, Simon & Schuster, 2001.
Coll, Steve, La guerra segreta della CIA. L’America, l’Afghanistan e Bin
Laden dall’invasione sovietica al 10 settembre 2001,Milano, BUR Storia,
2008.
Crile, George, Il nemico del mio nemico. Afghanistan 1979-1989. La
guerra segreta del deputato Wilson, Milano, il Saggiatore, 2005.
Del Pero, Mario, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011,
Roma-Bari, Laterza, 2011
Del Pero, Mario, The Eccentric Realistic. Henry Kissinger and the Shaping of American Foreign Policy, Ithaca, NY, Cornell University Press,
2010.
Gaillard, Frye, Prophet From Plains. Jimmy Carter and his Legacy,
Athens, University of Georgia Press, edizione Kindle, 2007.
Garthoff, Raymond L., Détente and Confrontation, American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, Washington, D.C, The Brooking Institution,
1985.
Graziosi, Andrea, L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Bologna, il Mulino, 2008.
97
Guderzo, Massimiliano, Ordine mondiale e buon vicinato, gli Stati Uniti e
l’America latina negli anni di Carter, 1977-1981, Firenze, Edizioni Polistampa, 2012.
Hartman, Andrew, 'The Red Template’: US Policy in Soviet Occupied
Afghanistan, “ Third World Quarterly”, XXIII, 3, 2002, pp. 467-489.
Kaufman, Scott, Plans Unraveled. The Foreign Policy of the Carter Administration, DeKalb, Northern Illinois University Press, 2008.
Kupchan, Charles A., The Persian Gulf and the West. The Dilemmas of Security, Winchester, Allen & Unwin., MA, 1987.
Lyakhovsky, Alexander, The Tragedy and Valor of Afghan, Mosca, GPI
Iskon, 1995.
Pastor, Robert A., The Carter Administration and Latin America: A Test of
Principle, in John D. Martz (a cura di), United States Policy in Latin
America. A Quarter Century of Crisis and Challenge, 1961-1986, Lincoln,
University of Nebraska Press, 1988, pp. 61-97.
Ranelagh, John, The Agency. The Rise & Decline of the CIA, Dunton
Green, Sevenoaks, UK, Sceptre, 1986.
Romero, Federico, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per
l’Europa, Torino, Einaudi, 2009.
Smith, Gaddis, Morality, Reason & Power. American Diplomacy in the
Carter Years, New York, Hill and Wang, 1987.
98
Smith, Gaddis, The Last Years of the Monroe Doctrine, 1945-1993, s.l.,
HarperCollinsCanadaLtd, 1994.
Vercellin, Giorgio, Iran e Afghanistan. Questioni nazionali religiose e
strategiche in una delle zone più calde del mondo, Roma, Editori Riuniti,
1986.
Weiner, Tim, CIA, Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del
mondo, Milano, BUR Storia, 2010.
Westad, Odd Arne, The Global Cold War, New York, Cambridge University Press, 2005.
99