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Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo. Alcune considerazioni a partire dal natural-born cyborg

2016, Urbaniana University Journal

The current challenge posed by post-humanist philosophy can be met by a critically aware humanism which is able to call into question again the ontological nature of man and meet the needs of contemporaneity. A concern limited to posthumanism ethical, political and social outcomes as well as an underestimation – influenced by the accompanying ideological propaganda – of its emerging radical approach to man would result into a mistake. Starting from the critical analysis of a stance – we are natural-born cyborgs – developed in the context of posthumanist philosophy, I unveil generally neglected aspects of post-humanism and philosophical issues a critically-aware humanism has to cope with.

UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 61 Giambattista Formica UMANESIMO, POST-UMANESIMO, NUOVO UMANESIMO Alcune considerazioni a partire dal natural-born cyborg 1. La sfida post-umanesimo – 2. Nati cyborg?; 2.1 Che cosa significa “cyborg”; 2.2 La tesi di Clark; 2.3 Radici umaniste – 3. Alcune osservazioni critiche – 4. Segnavia Parole chiave: umanesimo; post-umanesimo; cyborg; mente estesa; naturalismo; costruttivismo «Proporre all’uomo soltanto l’umano è tradire l’uomo [...] perché dalla parte principale di se stesso [...] l’uomo è chiamato a qualcosa di meglio di una vita puramente umana». 1. La sfida post-umanesimo «L’umanesimo è un fenomeno ambiguo». Così concludeva Jacques Maritain in Humanisme intégral (1936) dopo essersi domandato se l’osservazione messa in esergo (e da lui fatta risalire ad Aristotele) fosse umanista o anti-umanista. «La risposta», spiegava, «dipende dalla concezione che si ha dell’uomo»1. Non è un caso dunque che di umanesimi lungo la storia ne siano stati proposti molti, di diverso tipo e il più delle volte incompatibili tra loro, e che alcuni abbiano avuto esiti tutt’altro che umani. Parlare di umanesimo significa sempre impegnarsi con una metafisica, oltre che con un’immagine 1 Anche per le citazioni precedenti (esergo compreso) cf. J. MARITAIN, Umanesimo integrale, a cura di P. VIOTTO, Borla, Roma 2009, 58. È probabile che il passo aristotelico a cui Maritain intendeva far riferimento sia il seguente: «Non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare a cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e fare di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, X, 7, 1177b 31-34, ed. italiana a cura di C. MAZZARELLI, con testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2000). Sono grato a Luca F. Tuninetti per avermi indicato questo passo e per alcuni commenti alla bozza di questo contributo. 3/2016 ANNO LXIX, 61-83 61 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 62 Giambattista Formica della natura, un’antropologia, un’epistemologia e un’etica. Si potrebbe perciò essere tentati di fuggire da un simile impegno, che più che unire dividerebbe, e parlare di umanesimo, magari per costruire un mondo più umano, rifugiandosi in una definizione “minima” che metta d’accordo tutti. Maritain ne individuava una eccellente: Per lasciare aperta ogni discussione, diciamo che l’umanesimo (e tale definizione può essa stessa essere svolta seguendo linee divergenti) tende essenzialmente a rendere l’uomo più veramente umano e a manifestare la sua grandezza originale facendolo partecipe di tutto ciò che può arricchirlo nella natura e nella storia [...]. L’umanesimo chiede, nello stesso tempo, che l’uomo sviluppi le virtualità contenute in lui, le sue forze creatrici e la vita della ragione, e lavori a fare delle forze del mondo fisico strumenti della sua libertà2. Una strategia di questo tipo, però, più che risolvere l’ambiguità che l’umanesimo porta con sé, la accentuerebbe in modo persino più drammatico. Se infatti con questo termine si intende genericamente una posizione che metta (o è chiamata a mettere) l’uomo al centro tanto della riflessione filosofica e culturale, quanto dell’azione politica e sociale così da mostrarne la grandezza, favorire il libero sviluppo delle sue potenzialità e contribuire alla costruzione di un mondo più umano, allora un umanesimo così definito non può che mancare il proprio obiettivo, perché legittimerebbe in egual misura tutte le forme da esso assunte lungo la storia – alcune delle quali con esiti disumani – e persino alcune varianti di quella condizione dell’uomo contemporaneo spesso definita “post-umanista”3. Il post-umanesimo, infatti, finisce anch’esso col prospettare un mondo a misura d’uomo. 2 MARITAIN, Umanesimo integrale, 58. È in questo senso generico che spesso – riferendosi ad un determinato periodo storico – si parla di “umanesimo classico”, “umanesimo medievale”, “umanesimo moderno”, “umanesimo contemporaneo” oppure – restringendo lo sguardo ad un filosofo o ad un particolare movimento culturale – si parla di “umanesimo ciceroniano”, “umanesimo cristiano”, “umanesimo rinascimentale”, “umanesimo illuminista”, “umanesimo marxista”, “umanesimo positivista”, “umanesimo esistenzialista”, “umanesimo personalista” e persino, talvolta, di “umanesimo senza soggetto”. Così inteso, è umanesimo, appunto, tutto e il contrario di tutto. A livello indicativo, per restare sulle sole forme dell’umanesimo contemporaneo, si veda A. PIERETTI (ed.), Le forme dell’umanesimo contemporaneo, Città Nuova, Roma 1974, in part. 7-90. 3 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 62 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 63 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo D’altra parte un umanesimo che oggi abbia davvero la pretesa di mettere l’uomo al centro non può sottovalutare la sfida lanciata dalla filosofia post-umanista ed è chiamato in modo ancora più urgente a riaprire esplicitamente il dossier uomo, tornando a interrogarsi su che cosa egli sia, quale posto occupi in natura e in che cosa stia il suo compimento. Un nuovo umanesimo, in definitiva, non può dare per scontata o lasciare nella generalità la propria concezione dell’uomo e, quand’anche voglia semplicemente rifarsi ad una “tradizionale”, è chiamato a proporla mostrando in quale modo essa risponda alle esigenze della contemporaneità. Solo così potrà essere un umanesimo pensante. L’interesse che oggi si deve nutrire per la filosofia post-umanista, inoltre, non può essere giustificato soltanto dalle preoccupazioni etiche che la condizione “post-umana” genera – sarebbe riduttivo come lo è curare i sintomi di una malattia senza preoccuparsi delle cause – ma deve confrontarsi con la domanda radicale intorno all’uomo che essa suggerisce di riaprire, invitando la riflessione antropologica a dialogare con quella di altre discipline (filosofiche e non). Un tale interesse non è neppure estraneo alla storia della filosofia, nella misura in cui, a causa delle venature “antagoniste” o “futuriste” che non di rado il post-umanesimo presenta, si sente chiamata ad accertarne le pretese, distinguendo quelle teoricamente fondate dalla propaganda ideologica. Lo scopo di questo contributo è duplice: da un lato sottolineare alcuni aspetti del post-umanesimo che solo in rari casi nella letteratura di riferimento ricevono una considerazione adeguata, dall’altro far emergere da un fenomeno tanto controverso, quanto complesso e variegato, alcune istanze filosofiche rilevanti e degne di essere considerate da un umanesimo pensante. Il post-umanesimo, però, come ha scritto un suo interprete autorevole, «non ha un vero e proprio manifesto, sembra più sorgere dal basso attraverso una miriade di frammenti di pensiero», e cercare di mettere insieme questi frammenti per costruirne un’immagine coerente non sarebbe possibile nell’ambito di un singolo contributo4. Per questo concentrerò la mia attenzione su una delle tre linee lungo le quali è possibile leggere il “post-umano” e più in particolare su una tesi avanzata al suo interno, cercando di far emergere in questo modo alcuni aspetti del fenomeno in genere trascurati e alcune istanze filosofiche rilevanti. 4 Cf. R. MARCHESINI, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, 5-24, in part. 6. 3/2016 ANNO LXIX 63 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 64 Giambattista Formica Si tratta, come dicevo, di un fenomeno tanto controverso, quanto complesso e variegato. Innanzitutto si dovrebbe distinguere la cultura postumanista che ha specie nei nuovi media il suo principale canale di diffusione – ma che è pure presente nell’arte, nella letteratura, nella cinematografia e perfino nell’architettura – dalla filosofia post-umanista che invece continua ad essere proposta mediante “supporti” tradizionali come libri, articoli scientifici, riviste e collane specializzate. Non che i due aspetti non si intreccino. La cultura post-umanista sembra infatti essere una “urbanizzazione” della filosofia post-umanista. Quest’ultima d’altra parte tende a leggere il “post-umano” lungo tre linee distinte che si intrecciano solo in alcuni casi e per alcuni temi (quello del cyborg ne è un esempio). Mi limito a menzionare queste linee e a riportare in nota alcuni riferimenti importanti. 1) La prima linea vede il post-umano fondamentalmente come un fenomeno di emancipazione sociale e contesta il concetto tradizionale di uomo perché nella cultura occidentale avrebbe funzionato come un dispositivo di dominio politico e sociale. Si tratta di una lettura antagonista del fenomeno. 2) La seconda colloca il post-umano dentro visioni futuristiche legate al potenziamento bio-tecnologico e finisce col disegnare scenari da science fiction. Per essa si sarebbe all’alba di una nuova era in cui l’uomo si libererà dai lacci della propria finitezza (morte compresa) e superando – oltre il confine tra naturale e artificiale – la propria condizione giungerà ad abitare un’epoca a tutti gli effetti “post-” umana. 3) Più sobriamente – ma non per questo con tesi meno forti – la terza linea vede il post-umano come la condizione dell’uomo nel nostro tempo e, considerando i cambiamenti degli ultimi due secoli, cerca di sviluppare una riflessione più accurata sul concetto di natura umana5. 5 Per avere un’idea dell’ampia portata del fenomeno post-umanista si veda C. WOLFE, What is Posthumanism?, University of Minnesota Press, Minneapolis, MI – London 2010. Per quanto riguarda la sua filosofia, la letteratura a cui si dovrebbe far riferimento è molto ampia. In merito alla prima linea mi limito a segnalare due lavori particolarmente significativi: D. HARAWAY, A Manifesto for Cyborgs. Science, Technology, and Socialist Feminism in the 1980s, “Socialist Review” XV (1985), 2, 65-107 e R. BRAIDOTTI, The Posthuman, Polity Press, Cambridge 2013. Quanto alla seconda linea, essa è portata avanti principalmente da filosofi, scienziati e uomini d’affari che lavorano in sinergia con il mondo della tecnologia e che quindi hanno tutto l’interesse a prospettare scenari da science fiction. Per uno sguardo approfondito su questa linea rimando all’eccellente raccolta di saggi di L. GRION (ed.), La sfida postumanista. Colloqui sul significato della tecnica, il Mulino, Bologna 2012. Tra i lavori qui più rappresentativi segnalo: M. MINSKY, Will Robots Inherit the Earth?, “Scientific American”, 271 (1994), 4, Special Issue: “Life in the URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 64 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 65 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo È su questa terza linea che mi soffermerò, non solo perché la ritengo più rilevante dal punto di vista filosofico (oltre che meno connotata ideologicamente), ma anche perché contesta due “dogmi” abbastanza diffusi nella storiografia secondo cui da un lato la filosofia post-umanista andrebbe declinata al futuro, dall’altro le sue sarebbero posizioni antitetiche rispetto ad ogni forma di umanesimo6. In particolare, esaminerò una tesi proposta di recente dal filosofo della mente Andy Clark, il quale rivisitando una delle icone più rappresentative del post-umano (e facendola interagire con i risultati delle scienze cognitive degli ultimi decenni) è giunto alla conclusione che la peculiarità dell’essere umano starebbe nell’essere un naturalborn cyborg. Noi saremmo, cioè, per natura e già da sempre cyborg perché in virtù della nostra plasticità biologica ci costituiremmo come esseri umani ibridandoci in una prospettica co-evolutiva con gli artefatti tecnologici e culturali che siamo in grado di produrre. L’aspetto qui rilevante è che, secondo questa lettura, quella “post-umana” è un’epoca in cui già da sempre saremmo e – come cercherò di mostrare – la concezione dell’uomo che essa presenta è tutt’altro che antitetica rispetto ad una “umanista”. Va da sé che si è in presenza di una tesi tutta da capire e che molti aspetti della filosofia post-umanista non possono essere accettati in modo Universe”, 109-113; R. KURZWEIL, The Age of Spiritual Machines. When Computers Exceed Human Intelligence, Viking, New York, NY 1999; N. BOSTROM, A History of Transhumanist Thought, “Journal of Evolution and Technology” XIV (2005), 1, 1-25. In merito alla terza linea, invece, rimando a R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002; A. CLARK, Natural-born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, Oxford – New York, NY 2003; MARCHESINI, Il tramonto dell’uomo. 6 A titolo esemplificativo si veda A. AGUTI – L. ALICI, Presentazione, in IID. (eds.), L’umano tra natura e cultura. Umanesimo in questione, Ave, Roma 2015, 7-15, in part. 9: «Non a caso [...] una delle tesi sostenute dai teorici del post-umano è proprio la progressiva indistinzione nell’essere umano tra “naturale” e “artificiale” in un futuro prossimo». Come anche all’interno della medesima raccolta cf. L. GRION, Naturalismo e postumano, in AGUTI – ALICI (eds.), L’umano tra natura e cultura, 29-36, in part. 29: «Questo, in estrema sintesi, è il credo del movimento post-umanista; un arcipelago variegato di sigle e di autori accumunati dalla fiducia nel valore emancipatorio della tecnica e nella possibilità, grazie ad essa, di poter superare i limiti della condizione umana, per incamminarsi verso una stagione nuova, nella quale la libertà, l’intelligenza e la creatività potranno dispiegarsi illimitatamente». E ibid., 31: «L’uomo è cultura, oltre che natura, e sotto questo secondo profilo, secondo i fautori della prospettiva post-umanista, l’umanesimo esprime il corrispettivo culturale di quanto l’uomo rappresenta sotto il profilo naturalistico: un’indebita fissazione di ciò che, in verità, è mutevole e cangiante». I corsivi nelle citazioni sono miei. 3/2016 ANNO LXIX 65 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 66 Giambattista Formica acritico. Si tratta piuttosto di approfondirli, cercando di individuarne i presupposti teorici, per poi eventualmente criticarli. Tuttavia, anche quando ciò sia stato fatto, continuano ad esserci istanze che un nuovo umanesimo non può ignorare, ma deve considerare nell’esplicitare la propria concezione dell’uomo. 2. Nati cyborg? 2.1 Che cosa significa “cyborg” Il cyborg è senza dubbio una delle icone più rappresentative della filosofia post-umanista7. Il post-umanesimo “antagonista” lo ha visto come una risorsa efficace per la costruzione di una politica progressista: in virtù della sua natura ibrida il cyborg metterebbe in discussione una serie di dicotomie che nel pensiero occidentale avrebbero funzionato come dispositivi di dominio (uomo/macchina, natura/cultura, artefice/prodotto, maschio/femmina, sé/altro, ecc.). Quello “futurista” lo ha salutato come l’inevitabile destino dell’uomo bio-tecnologicamente potenziato: saremo tutti chiamati ad essere cyborg per uscire dalla condizione di esseri finiti consapevoli della nostra finitezza. Anche chi presenta letture più sobrie del post-umanesimo sarebbe pronto a sostenere che al nostro pianeta è capitata la sorte di essere abitato da cyborg. È inevitabile che la cosa, così posta, susciti (se non irrisione) perlomeno preoccupazione, per quello che è il futuro dell’essere umano, delle nostre società e più in generale del pianeta. Vengono in mente le immagini che per decenni ci hanno accompagnati nella cinematografia, dove con il termine “cyborg” venivano spesso identificati dei robot dai grandi poteri, ma del tutto simili a noi, che finivano col minacciare la nostra presenza sulla terra. Ma che cosa vuol dire “cyborg”? Nell’informatica applicata e nella bioingegneria con questo termine si indica un essere in cui sono presenti sia elementi organici che elementi artificiali. In genere si tratta di esseri viventi (essendo più semplice inserire elementi artificiali negli organismi che parti organiche nelle macchine). Un cyborg è dunque un simbionte: un or- 7 Per i molteplici mondi che gravitano intorno a questa icona può essere ancora utile vedere C.H. GRAY (ed.), The Cyborg Handbook, Routledge, New York, NY – London 1995. URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 66 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 67 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo ganismo che vive in simbiosi con gli artefatti tecnologici. I cyborg vanno inoltre distinti sia dai robot umanoidi, sia dagli androidi: non sono cioè né robot che mostrano funzionalità simili agli esseri umani, né robot che per le loro fattezze risultano indistinguibili da noi8. Per intenderci, un gatto a cui è stato impiantato un chip nel retro del collo – così da poterlo ritrovare in caso di smarrimento – è tecnicamente un cyborg, nello stesso senso in cui lo è un uomo dotato di un impianto cocleare, di un pacemaker o di un arto artificiale. Essere cyborg non inficia, dunque, né il fatto di essere un gatto, né quello di essere un uomo. Si può essere cyborg e restare uomini. Se così stanno le cose, non si vede perché questa figura debba suscitare preoccupazioni. Neppure si vede perché un uomo debba essere considerato un cyborg più di un gatto e quindi perché si debba fare di questa figura una delle icone della “post-” umanità. Le cose però non sono così semplici, da un lato perché, come ci testimoniano i più recenti dibattiti bioetici, la simbiosi uomo/macchina potrebbe essere perseguita – invece che per ripristinare – per modificare o potenziare (senza sapere fino a che punto) le naturali capacità degli essere umani9; dall’altro perché una volta constatata, come di fatto è avvenuto, la peculiarità con cui l’uomo è capace di integrarsi con i propri artefatti – non vi sarebbe nulla di paragonabile nelle altre specie – si è proceduto negli ultimi decenni ad una ridefinizione dell’umano facendo leva anche sul concetto di cyborg. Tra i lavori che possono essere menzionati in tal senso (alcuni per la verità peregrini) spicca per la lucidità dell’analisi la lettura di Clark, che in tempi relativamente recenti ha pubblicato un libro dal titolo molto eloquente: Natural-born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence (2003). 8 Su queste differenze, oltre che per alcuni riferimenti alla cinematografia, si veda A. VATO, Arrivano i cyborg. Dove neuroscienze e bioingegneria si incontrano, Hoepli, Milano 2015, 7-10. 9 Basti pensare che il termine “cyborg” è comparso nel 1960, in un articolo in cui, alla luce delle possibilità aperte dai viaggi nello spazio, si argomentava che per permettere all’uomo di sopravvivere in ambienti extra-terrestri sarebbe stato più logico alterare artificialmente le funzioni fisiologiche del suo corpo piuttosto che cercare di costruire ambienti simili a quelli presenti sulla terra: cf. M.E. CLYNES – N.S. KLINE, Cyborgs and Space, “Astronautics” XIII (1960), September, 26-27 e 74-76. Nell’articolo si definivano cyborg coloro che «deliberatamente incorporano componenti esogeni che ampliano la funzione di controllo dell’autoregolazione dell’organismo al fine di adattarlo ad ambienti nuovi» (cf. ibid., 27 – traduzione mia). 3/2016 ANNO LXIX 67 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 68 Giambattista Formica 2.2 La tesi di Clark Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo lavoro non propone un manifesto di tipo futurista ma, come l’autore spiega fin dall’inizio, una riflessione filosofica sensibile ai risultati provenienti dalle scienze: «il mio obiettivo non è quello di congetturare ciò che presto potremmo diventare, piuttosto è quello di apprezzare di più ciò che già siamo»10. Clark è uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “nuova” scienza cognitiva e in questo contesto ha proposto con David Chalmers alla fine degli anni ’90 un modello di mente noto come “mente estesa”. La nuova scienza cognitiva si distingue da quella “classica” – praticata grosso modo dalla fine degli anni ’40 alla fine degli anni ’70 – per il fatto che tende a considerare i fenomeni mentali oltre che come incorporati (embodied), come immersi (embedded) nell’ambiente fisico e sociale. In linea con questa tendenza il modello di Clark e Chalmers cercava di ridefinire i confini della mente all’interno dei fenomeni naturali. In particolare, partendo da alcune indicazioni sperimentali, essi sostenevano che: 1) l’interazione con l’ambiente guida i nostri processi cognitivi (soprattutto a livello di problem solving); 2) dato che l’ambiente veicola questi processi, essi avvengono in un unico sistema (le nostre menti) che include oltre a noi stessi, anche altre entità ambientali; 3) l’interazione con l’ambiente avrebbe poteri costitutivi sulle nostre menti (non soltanto sui nostri processi cognitivi)11. È stato rilevato come la tesi del natural-born cyborg sia «un’applicazione [...] del modello della mente estesa al problema della natura umana» 12. Nel suo testo, infatti, Clark giunge alla conclusione che noi saremmo per natura e già da sempre cyborg perché ci costituiremmo come esseri umani ibridandoci in una prospettiva co-evolutiva con i nostri artefatti, i quali non sarebbero altro che estensioni della nostra mente. Perché ci sia ibri10 CLARK, Natural-born Cyborgs, 7 (qui e a seguire le traduzioni del testo di Clark sono mie). 11 Sulla storia della scienza cognitiva cf. W. BECHTEL – A. ABRAHAMSEN – G. GRAHAM, The Life of Cognitive Science, in W. BECHTEL – G. GRAHAM (eds.), A Companion to Cognitive Science, Blackwell, Malden, MA 1998, 3-104. Per una ricostruzione più aggiornata (anche se più sintetica) rimando a M. DI FRANCESCO – G. PIREDDA, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, Mondadori, Milano 2012, 43-83. Il modello della mente estesa è stato presentato in A. CLARK – D. CHALMERS, The Extended Mind, “Analysis” LVIII (1998), 1, 7-19. 12 Cf. DI FRANCESCO – PIREDDA, La mente estesa, 117. URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 68 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 69 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo dazione non sarebbe necessario, secondo lui, accogliere nel proprio corpo tecnologie invasive (impianti cocleari, pacemaker, arti artificiali), ma basterebbe vivere come da sempre l’uomo ha fatto interagendo con i propri prodotti tecnologici e culturali. Già questo determinerebbe la nostra natura di simbionti: Elettronicamente il mio corpo è vergine. Non incorporo né chip al silicio, né impianti retinici o cocleari, non porto nemmeno gli occhiali (anche se indosso indumenti); eppure lentamente sto diventando sempre di più un cyborg. La stessa cosa sta succedendo a voi. [...]. Forse lo siamo già. Noi diventeremo cyborg non nel senso banale di combinare carne e metallo, ma in quello più profondo di essere simbionti umano-tecnologici: sistemi che pensano e ragionano e le cui menti e i cui io sono distribuiti tra cervello biologico e componenti non biologiche [nonbiological circuitry]13. Non inganni l’apparente declinazione al futuro di questo passaggio. Qualche riga più avanti Clark precisa che la simbiosi biologico/artificiale è per l’uomo un aspetto così costitutivo della sua natura da risultare vecchia almeno quanto l’uso del linguaggio. Anzi, parlare, contare, dipingere, scrivere, coltivare, ecc., sarebbero tutte espressioni della nostra natura di cyborg e l’intera storia del genere umano dovrebbe esser vista come la storia di questa icona. Caratteristico dell’intelligenza umana sarebbe, infatti, la capacità di entrare in relazioni complesse con i propri artefatti e di servirsi di sussidi non biologici per svolgere al meglio i compiti che le sono assegnati dall’evoluzione, primo tra tutti quello di garantire la presenza dell’uomo sulla terra14. Non è questa – si badi – una semplice variazione su di un tema abbastanza noto e più volte rivisitato nella storia della filosofia, da Platone ad Arnold Gehlen: l’uomo è un essere biologicamente carente, specie se paragonato agli altri animali, ma grazie alla tecnica (paradossalmente l’unica sua vera risorsa naturale) sarebbe in grado di sopravvivere in un mondo altrimenti ostile15. Non lo è perché, come il filosofo non tarda a precisare, 13 CLARK, Natural-born Cyborgs, 3. Cf. ibid., 3-5. 15 Sull’ampia presenza di questo tema nella storia della filosofia cf. MARCHESINI, Posthuman, 9-42. 14 3/2016 ANNO LXIX 69 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 70 Giambattista Formica qui si farebbe un passo in più, dato che i nostri artefatti tecnologici e culturali non sarebbero appena «aiuti o appoggi esterni», bensì «parti profondamente integrate» in quel sistema di problem solving che è la nostra intelligenza16. In definitiva, saremmo per natura e già da sempre cyborg perché la sola interazione con questi artefatti ci renderebbe cognitivamente simbionti. Questo – l’interazione è anche ibridazione – è un aspetto della tesi di Clark piuttosto forte e tutt’altro che scontato perché, essendone una diretta conseguenza, richiede che si accetti il modello della mente estesa. Si sospenda per un attimo il giudizio sulla validità dell’uguaglianza interazione/ibridazione. Ci ritornerò più avanti per criticarla. Ora mi preme completare la presentazione della tesi del natural-born cyborg sottolineando un altro aspetto importante. Interagendo con i nostri artefatti, infatti, noi ci costituiremmo come esseri umani e ciò avverrebbe all’interno di una prospettiva co-evolutiva. Per comprendere adeguatamente questo aspetto è fondamentale, anche qui, esplicitarne i presupposti. Alla base del discorso di Clark vi è senza dubbio un’opzione naturalistica. In modo del tutto simile agli altri animali l’uomo sarebbe fatto per risolvere problemi di ordine adattivo ma, a differenza di questi, li risolverebbe interagendo – e quindi secondo lui ibridandosi – con gli artefatti (tecnologici e culturali) che è capace di produrre. Qui starebbe la peculiarità della nostra attività cognitiva e ciò che ci renderebbe cyborg in un senso essenziale17. Il fondamento di questa peculiarità sarebbe di tipo biologico, nel senso che risiederebbe nella struttura fisica del nostro cervello. Infatti, questa si distinguerebbe da quella degli altri animali per una plasticità senza paragoni: «È la presenza di un’insolita plasticità [corticale]», scrive Clark, «che rende gli uomini (più dei cani, dei gatti o degli elefanti) natural-born cyborg, poiché Madre Natura li ha preparati a includere sempre di più elementi e strutture esterni come parti e porzioni delle loro menti»18. La plasticità biologica dei nostri cervelli ci renderebbe sistemi cognitivi incompleti e, nel contempo, ci porterebbe a risolvere i problemi adattivi che siamo chiamati ad affrontare interagendo (e ibridandoci) con i nostri stessi prodotti. Il nostro sarebbe dunque un cervello da cyborg. 16 Cf. CLARK, Natural-born Cyborgs, 5-6. La stessa cosa per Clark non si può dire, ad esempio, di un gatto: cf. ibid., 6, 2224, 28. 18 Ibid., 31. 17 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 70 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 71 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo Che sia una nostra peculiarità lo si vedrebbe da due caratteristiche della simbiosi uomo-artefatto pressoché assenti in quella animale-artefatto. Infatti, se si considera l’interazione sia con le tecnologie invasive, sia con quelle non invasive, nel nostro caso, anche quando è richiesto un certo periodo di apprendimento, queste interazioni 1) si presentano come estremamente fluide (nel senso di altamente integrate) al punto da poter essere considerate quasi naturali e 2) finiscono con l’avere un impatto fortemente trasformativo sulle nostre esistenze19. Non è necessario spendere molte parole su queste due caratteristiche – né lo sarebbe richiamare il livello di integrazione raggiunto oggi da molte tecnologie invasive con il corpo (ma più in generale con le vite) di molti pazienti affetti da deficienze di diversa natura –, basta guardare al modo con cui ciascuno di noi si rapporta quotidianamente ad artefatti come case, posate, penne, libri, lampade, automobili, personal computer, telefoni cellulari (per non parlare del web). È evidente inoltre come questi, insieme a tanti altri artefatti, abbiano trasformato progressivamente tanto le nostre società, quanto le nostre vite. Tuttavia, il discorso di Clark qui si fa più radicale. Per convincerci di quanto l’interazione con i prodotti della tecnologia e della cultura sia in grado di trasformare le nostre vite, egli analizza una serie di esperimenti, condotti nell’ambito della scienza cognitiva, che sembrano convergere su di un punto. L’interazione con questi prodotti – oltre a trasformare la struttura fisica del nostro cervello (cosa peraltro nota negli studi di paleantropologia) e di conseguenza la nostra stessa attività cognitiva – sarebbe in grado di modificare tanto la percezione che abbiamo del nostro corpo e dello spazio più in generale, quanto il senso che abbiamo di noi stessi, il nostro cosiddetto “sé narrativo”, ad esempio i nostri desideri, la coscienza delle nostre capacità e quindi i nostri stessi progetti. Non è questo il luogo per entrare nella descrizione di questi esperimenti; personalmente ritengo questa la parte più convincente del discorso di Clark20. Ciononostante, una cosa è dire – per le ragioni che tra breve preciserò – che l’interazione con i prodotti della tecnologia e della cultura è in grado di trasformare in modo significativo le nostre vite, di incidere persino su alcuni degli aspetti più profondi della nostra esistenza, un’altra è affermare – sposando un costruttivismo radicale – che noi «siamo i nostri migliori artefat19 20 Cf. ibid., 6-7 e in part. 22-24. Cf. ibid., 59-62 e 89-142. 3/2016 ANNO LXIX 71 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 72 Giambattista Formica ti» dato che (a partire dalla nostra biologia) ci costituiremmo interagendo, ibridandoci e soprattutto evolvendoci con questi prodotti21. Prima di guardare in modo più critico alla posizione di Clark, giova riassumerla, così da ricapitolare i molti aspetti fin qui evidenziati. Lo farò citando uno dei suoi passaggi conclusivi: Il cervello umano è il grande camaleonte della natura. Spinto e mosso da una plasticità originaria è fatto per fondersi profondamente con il tessuto di simboli, cultura e tecnologia che lo circonda. Il pensiero e la ragione dell’uomo emergono da un intreccio in cui cervelli e corpi biologici, agendo in concerto con sussidi e strumenti non biologici, costruiscono e ricostruiscono in una successione senza fine ambienti che portano la loro firma e da cui essi traggono benefici. In ciascuno di questi ambienti i nostri cervelli e i nostri corpi si uniscono a nuovi strumenti producendo nuovi sistemi estesi di pensiero. [...]. Il pensiero umano è biologicamente e tecnologicamente fatto per esplorare spazi cognitivi che saranno sempre oltre le possibilità degli animali non cyborg. [...]. Una volta la parola “cyborg” evocava immagini di impianti e fili di metallo ma, come abbiamo visto, il ricorso a queste tecnologie invasive è qui inessenziale. [...]. Ciò che più conta è quell’intreccio continuo e ossessivo di reti biotecnologiche: quel traffico costante che con doppio senso di marcia si sviluppa tra manufatti umidi [i nostri cervelli] e strumenti, veicoli e sussidi tecnologici. Il meglio queste risorse non lo esprimono quando sono impiantate in chi le impiega ma quando diventano aspetti dei [nostri] processi cognitivi. Essi hanno il potere di trasformare il senso che abbiamo di noi stessi, della nostra localizzazione fisica, della corporeità e delle capacità della nostra mente. Esse incidono su chi, cosa e dove siamo22. 2.3 Radici umaniste Non sarà sfuggita la metafora del camaleonte all’inizio di questo passaggio. È interessante che – oltre a ricorrere in altre parti del testo – compaia all’inizio di una «Conclusione» il cui sottotitolo recita: «Post-Human, 21 22 Cf. ibid., 192. Ibid., 197-198. URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 72 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 73 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo Moi?». Clark non risponde esplicitamente a questa domanda e, sebbene si appropri di un’icona tipica del post-umanesimo, non sembra vedere il proprio lavoro in contraddizione con gli ideali dell’umanesimo, almeno di quello che nel ‘400 dette il via al Rinascimento e che utilizzò la metafora del camaleonte per caratterizzare la natura umana. Tutto ciò lascia intendere che è possibile leggere la concezione dell’uomo presente in alcune varianti della filosofia post-umanista – senza dubbio è così per il discorso di Clark – come un’evoluzione della concezione dell’uomo affermatesi con l’umanesimo agli inizi della Modernità. Alla fine del suo discorso, infatti, dopo aver considerato i pericoli di una società tecnologizzata capace di incidere su chi, cosa e dove siamo (perdita del controllo delle proprie vite, violazioni della privacy, sempre maggiore isolamento, incremento delle ineguaglianze, ecc.)23, Clark conclude: «C’è chi vede in tutto ciò un disgustoso futuro “post-umano”. [...]. E in effetti c’è da stare attenti. [...]. Tuttavia, se ho ragione – se è tipico della natura umana annettere, sfruttare e incorporare cose non biologiche [...] – allora la questione non è se stiamo andando in questa direzione, bensì in quale modo attivamente scolpiamo e diamo forma a tutto ciò. Vedendoci per ciò che realmente siamo si incrementano le possibilità che le nostre future simbiosi biotecnologiche siano per il bene»24. Si tratta di un modo tipicamente umanista di considerare il rapporto tra l’uomo e la tecnica: la tecnica sarebbe di per sé “a-simbolica”, cioè incapace di produrre significato, dato che ci insegnerebbe come fare un’infinità di cose, senza però insegnarci quali fare, e spetterebbe invece all’uomo, ad un uomo artefice di sé e del proprio destino, il compito di disegnarne gli scopi, decidendo quale direzione imprimerle, vale a dire se indirizzarla verso il bene oppure verso il male25. Tuttavia, non è soltanto per questo modo di concepire il rapporto tra l’uomo e la tecnica che il discorso di Clark – pur restando post-umanista – affonda le sue radici nell’umanesimo rinascimentale; né perché giunge a disegnare la figura di un uomo/cyborg che oltre a essere signore di sé, lo 23 Cf. ibid., 167-195. Ibid., 198. 25 Cf. E. PULCINI, Dall’homo faber all’homo creator: scenari del post-umano, in I. SANNA (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005, 13-26, in part. 16-17. 24 3/2016 ANNO LXIX 73 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 74 Giambattista Formica resterebbe anche della storia; bensì, soprattutto perché con quell’umanesimo condivide un’idea fondamentale: l’idea che la natura umana sia segnata da un’originaria indeterminatezza grazie alla quale essa può andare incontro a molteplici metamorfosi di cui da ultimo l’uomo stesso può esserne l’artefice. È l’idea articolata in quel documento paradigmatico dell’antropologia umanista del ‘400 rappresentato dall’Oratio (1486) di Pico della Mirandola sulla dignità dell’uomo e che in effetti sembra giustificare l’impiego di Clark della metafora del camaleonte. Mi limito a citarne un passaggio fondamentale, oltre che molto noto: Già il Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare [...]. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, [...] pensò da ultimo di produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. [...]. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui che nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. [...]. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”. [...] Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?26 È chiaro che il discorso di Pico della Mirandola deve essere collocato da un punto di vista metafisico, epistemologico e dell’immagine della na- 26 GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA, De hominis dignitate, a cura di E. GARIN, con testo latino a fronte, Edizioni della Normale, Pisa 2012, 4-7. URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 74 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 75 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo tura dentro un quadro concettuale – lasciando stare il quadro storico – profondamente diverso rispetto a quello in cui si deve collocare il discorso di Clark27. Tuttavia, dovrebbe essere chiaro altresì che i due discorsi condividono una concezione dell’uomo che è la medesima almeno nelle linee essenziali: la natura umana sarebbe all’origine indefinita e spoglia, perciò l’uomo può essere artefice di se stesso, può attribuirsi una natura che sarà sempre cangiante. Essendo questa la sua condizione, potrà degenerare o rigenerarsi, dirigersi verso il bene oppure verso il male, secondo i fini che deciderà di darsi. Si è visto come quest’idea si declini nel discorso di Clark: l’estrema plasticità biologica dei nostri cervelli ci renderebbe sistemi cognitivi incompleti, per questo 1) risolviamo i problemi adattivi che siamo chiamati ad affrontare interagendo (e ibridandoci) con i nostri artefatti e soprattutto 2) con essi ci co-evolviamo diventando noi stessi i nostri migliori artefatti. Se giungeremo ad abitare un tempo “post” umano – dove “post-umano” qui chiaramente significa “disumano” – dipenderà da quale direzione decideremo di imprimere all’evoluzione tecnologica, vale a dire alla nostra stessa evoluzione. Il discorso di Clark sembra dunque confermare un aspetto che un interprete autorevole del post-umano non ha mancato di sottolineare, scrivendo che il post-umanesimo è «una matrice di pensiero che non si pone in antitesi all’umanismo ma come rivisitazione di questo», dato che di alcuni suoi aspetti «si propone come continuatore» mentre altri li rigetta in quanto «non più pertinenti al milieu culturale che si è venuto a configurare soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo»28. Ciò che giustifica la presenza del prefisso “post-” nel termine “post-umanesimo”, infatti, non sembra il rifiuto del concetto umanista di antropo-poiesi; piuttosto l’ampliamento che di questo concetto viene compiuto nel momento in cui ai processi poietici antropo-centrati, su cui l’umanesimo ha tanto insi27 Sia per il quadro concettuale che per quello storico del discorso di Pico della Mirandola rinvio ad alcuni studi che ritengo particolarmente utili: E. GARIN, La ‘dignitas hominis’ e la letteratura patristica, “La Rinascita” I (1938), 4, 102-146; H. DE LUBAC, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 19942; M. CILIBERTO, Italia laica. La costruzione delle libertà dei moderni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012, 3-66; G. BUSI – R. EBGI, Giovanni Pico della Mirandola. Mito, Magia, Qabbalah, Einaudi, Torino 2014, in part. VII-XLIX e 284-293; M. PELLEGRINO, Umanesimo. Il lato incompiuto della modernità, Morcelliana, Brescia 2015. 28 Cf. R. MARCHESINI, Alla fonte di Epimeteo, “Aut Aut” 361 (2014), Gennaio-Marzo, 34-51, in part. 36. 3/2016 ANNO LXIX 75 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 76 Giambattista Formica stito, il post-umanesimo ne affianca altri centrati nelle alterità non-umane, che in modo sistemico concorrono alla costituzione dell’essere umano: Il post-umanesimo è [...] un pensiero che gronda di alterità giacché [...] considera le alterità non umane co-fattoriali nella realizzazione della dimensione umana. Nella visione post-umanista si considera la dimensione umana come una struttura identitaria che si costruisce e si percepisce attraverso la relazione con le alterità non umane cosicché queste ultime vanno considerate a tutti gli effetti delle entità referenziali. L’alterità è un referente in grado di mettersi in relazione e di prendere parte al processo identitario, nella doppia scansione di formazione e percezione dell’identità, attraverso l’apporto referenziale ossia un vero e proprio contributo evolutivo. Nella visione post-umanista, pertanto, l’umano non è più l’emanazione o l’espressione dell’uomo bensì il risultato dell’ibridazione dell’uomo con le alterità non umane; ciò significa che l’umano esorbita le caratteristiche dell’uomo o, in altri termini, che non è possibile spiegare la dimensione umana nei suoi predicati facendo una ricognizione semplicemente sull’uomo, vale a dire pretendendo di estrarre le qualità dell’umano dai caratteri dell’uomo29. 3. Alcune osservazioni critiche Senza dubbio ci sono altri aspetti del discorso di Clark che andrebbero considerati. Qui mi sono limitato a presentare il nocciolo della sua tesi. Dovrebbe esser chiaro che essa si sviluppa attorno a tre cardini: 1) un’opzione di base apertamente naturalistica; 2) la (presunta) validità dell’ipotesi della mente estesa; 3) la possibilità di leggere in termini “costruttivisti” molti aspetti dell’esistenza. Vorrei ora fare alcune brevi considerazioni attorno a questi tre cardini e spiegare perché ritengo inaccettabile la tesi del natural-born cyborg. In primo luogo va precisato che cosa significhi muoversi all’interno di una cornice naturalistica. Chi fa una scelta di questo tipo nell’indagare i fenomeni presenti in natura compie senza dubbio una scelta di tipo pro29 ID., Il tramonto dell’uomo, 33-34. A questo testo rimando per un’ampia spiegazione tanto dei tratti comuni quanto delle differenze tra la prospettiva umanista e quella post-umanista. URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 76 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 77 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo spettico, nella misura in cui approccia ciò che in natura vi è attraverso i metodi di scienze (le cosiddette “scienze positive”) che hanno uno statuto del tutto particolare. Di conseguenza, di questi fenomeni si condanna a rilevare esclusivamente ciò che i metodi di queste scienze gli consentiranno di rilevare. Tutto ciò ha due implicazioni importanti. Da un lato chi si muove all’interno di una cornice naturalistica, proprio perché giunge ad acquisire un sapere “prospettico”, non deve mai dimenticarsene, per non ingigantire verità che in realtà sono metodologicamente delimitate; dall’altro chi è incline a diffidare delle posizioni (anche filosofiche) maturate dentro questa cornice non può rifiutarle semplicemente imputando loro un presunto vizio di principio (il naturalismo), perché dimenticherebbe che dentro questa cornice tali posizioni possono essere legittimate. Ora, la lettura di Clark commette costantemente una “fallacia” naturalistica – mi sia consentito esprimermi così – nella misura in cui, rifiutando di riconoscere la particolarità della prospettiva assunta, finisce con l’ingigantire verità metodologicamente delimitate e con l’ignorare aspetti che se adeguatamente considerati indebolirebbero la sua tesi. È il limite dell’impostazione generale del suo discorso che per esempio risulterebbe meno persuasivo se si ridimensionasse l’assunto, tutt’altro che pacifico, secondo cui l’uomo sarebbe un animale come tutti gli altri perché chiamato ad affrontare (non diversamente da questi) problemi di ordine adattivo e la sua specificità starebbe piuttosto nel modo in cui egli si dispone a risolverli30. Non intendo mettere in questione l’insistenza di Clark sulla plasticità biologica dei nostri cervelli (e dentro certi limiti dei nostri corpi), né intendo contestare l’idea secondo cui i nostri sarebbero sistemi cognitivi incompleti, che quindi hanno bisogno di interagire, anche per ragioni di ordine adattivo, con artefatti tecnologici e culturali31. Anzi, penso che que30 Il fatto che egli non solo non problematizzi, ma nemmeno espliciti, la pre-comprensione del termine “natura” che fa da sfondo alla sua tesi è un altro esempio emblematico di questa fallacia. È chiaro infatti che per lui natura è – sia in senso estensivo che in senso intensivo – qualcosa che può essere conosciuto adeguatamente soltanto con i metodi delle scienze positive. 31 Riguardo alla nostra plasticità biologica ho trovato persuasive le considerazioni di un biologo certamente distante dalla prospettiva post-umanista. Cf. C. CIROTTO, Il postumano e la biologia, in SANNA (ed.), La sfida del post-umano, 83-89, in part. 86-89: «La vita, in tutte le sue forme, [...] ha come caratteristica fondamentale la plasticità, la capacità cioè di modificare i propri equilibri interni in modo da rispondere, nel modo più efficace e per sé più redditizio, alle innumerevoli sfide che l’ambiente esterno ed interno 3/2016 ANNO LXIX 77 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 78 Giambattista Formica sti siano alcuni dei risultati più interessanti raggiunti dalle scienze cognitive negli ultimi decenni – proprio grazie alla loro impostazione naturalistica – e di cui ogni discorso aggiornato sull’uomo non possa oggi non tener conto. Anche grazie a questi risultati è stato possibile perfezionare le tecnologie invasive comunemente impiegate in campo biomedico e quelle non invasive di cui ogni giorno ci serviamo nelle nostre normali attività. Tuttavia, ed è questo il punto che vorrei sottolineare, né la plasticità biologica dei nostri cervelli (e dentro certi limiti dei nostri corpi), né l’incompletezza dei nostri sistemi cognitivi, bastano a giustificare la tesi secondo cui noi saremmo nati cyborg. La nostra plasticità biologica tutt’al più giustificherebbe – senza mettere in discussione il nostro essere uomini – la possibilità che abbiamo di diventare cyborg in quel senso innocuo (almeno dal punto di vista concettuale) che l’informatica applicata o la bio-ingegneria attribuiscono alla parola “cyborg”. Mentre l’incompletezza dei nostri sistemi cognitivi avrebbe senz’altro bisogno che si assuma come valida l’ipotesi della mente estesa per giustificare la tesi del natural-born cyborg. È quest’ipotesi, infatti, che permette a Clark di considerare gli artefatti tecnologici e culturali non appena come aiuti o appoggi esterni, bensì come parti integranti delle nostre menti, e di leggere l’interazione con essi come un processo di ibridazione. È perché le nostre menti sono estese – nel senso che gli artefatti con cui interagiamo sono loro parti – che noi, secondo il filosofo della mente, saremmo già da sempre simbionti umano-tecnologici. L’ipotesi della mente estesa è però problematica. E lo è perché per esser valida necessità di un’assunzione “metafisica” molto forte e tutt’altro continuamente le presenta. [...]. La vita ha conquistato in tal modo tutti gli habitat del pianeta [...]. Né tale meravigliosa capacità di adattamento si esprime solo a livello delle specie, delle popolazioni o delle grandi comunità supra-individuali né lungo gli sconfinati tempi dell’evoluzione, ma anche entro i confini estremamente limitati della vita di ogni singolo individuo. [...]. Non sono necessarie analisi particolarmente approfondite per rendersi conto che la plasticità di ogni individuo si basa soprattutto su sistemi strutturati a rete. [...]. Sono le strutture a rete che permettono agli organismi viventi e alle loro comunità di essere plastici, di rimodellare cioè la loro struttura biologica in conformità agli stimoli che provengono dall’ambiente e di utilizzare tali rimodellamenti per fornire risposte coerenti. [...]. La rete che ci interessa più da vicino, quella che riveste per noi un’importanza particolare, è ovviamente la rete neurale in quanto substrato biologico del comportamento tipico dell’uomo, quello che siamo soliti chiamare “culturale”. [...]. Le configurazioni della rete possono [...] essere influenzate “dall’alto”, da quella che siamo soliti chiamare evoluzione culturale». URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 78 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 79 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo che ovvia (il funzionalismo). In un’ottica funzionalista, infatti, due cose che svolgono cognitivamente la stessa funzione devono essere considerate come la stessa cosa. Si consideri il seguente esempio. Immaginiamo di voler andare, in macchina, ad un pub non molto lontano da casa, in cui siamo stati una volta sola e di cui al momento non ricordiamo l’esatta collocazione, sebbene ne ricordiamo il nome. Immaginiamo di scavare nei nostri ricordi e, dopo un po’, di associare il nome del pub al nome della via. Dato che si tratta di una via che conosciamo bene, entriamo in macchina e ci indirizziamo verso il pub per passare un’allegra serata con gli amici. È evidente in questo caso che l’esatta collocazione del pub era depositata nella nostra memoria anche se non era una credenza immediatamente disponibile. Tecnicamente credenze di questo tipo si chiamano “credenze disposizionali”. Immaginiamo ora di trovarci nella medesima situazione ma di essere troppo stanchi per scavare nei nostri ricordi. Prendiamo quindi il tablet e cerchiamo nelle pagine bianche. Dopo un po’, avremo associato il nome del pub al nome della via. Dato che si tratta di una via che conosciamo bene, entriamo in macchina e ci indirizziamo verso il pub per passare un’allegra serata con gli amici. È evidente in questo caso che l’esatta collocazione del pub non era una credenza immediatamente disponibile e che l’abbiamo trovata depositata nelle pagine bianche32. Certamente nei due casi la nostra memoria e le pagine bianche hanno svolto la stessa funzione cognitiva, tuttavia nessuno di noi le considererebbe come la stessa cosa. Per considerarle come la stessa cosa – e quindi per ritenere le pagine bianche parti integranti della nostra mente (alla stregua della nostra memoria) – abbiamo bisogno di essere funzionalisti nel senso sopra indicato. Tuttavia, è proprio della bontà di quest’assunzione, tutt’altro che ovvia, che i teorici della mente estesa dovrebbero convincerci. L’ipotesi della mente estesa è problematica, in definitiva, perché si basa su di un’assunzione molto forte e altamente contro-intuitiva che andrebbe giustificata soprattutto nelle sue pretese ontologiche. Vengo così al terzo cardine del discorso di Clark: noi siamo i nostri migliori artefatti poiché, grazie ad una plasticità biologica originaria, ci co32 L’esempio rivisita, allo scopo di criticare il modello della mente estesa, l’esperimento mentale di Inga e Otto proposto da Clark e Chalmers nel loro articolo al fine di supportarlo: cf. CLARK – CHALMERS, The Extended Mind, 12-16. Un’analisi puntuale di questo esperimento si trova in DI FRANCESCO – PIREDDA, La mente estesa, 97-106. 3/2016 ANNO LXIX 79 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 80 Giambattista Formica stituiremmo come esseri umani evolvendoci con i nostri prodotti tecnologici e culturali. Mi permetto di non parlare più di ibridazione perché, dopo la critica rivolta al modello della mente estesa, considero quantomeno forzata l’uguaglianza interazione/ibridazione. Ho già spiegato d’altra parte in che senso per Clark ci costituiremmo come esseri umani evolvendoci con i nostri artefatti. Chiaramente essi sono nostri prodotti e grazie ad essi siamo in grado di trasformate l’ambiente in cui viviamo. Lo testimonia l’intera storia del genere umano. Non c’è dubbio, poi, che le nostre società e gli stessi rapporti sociali si evolvano insieme alla nostra capacità tecnica. Clark però ci dice qualcosa in più. Ci dice che in questo modo è la nostra stessa esistenza ad evolversi, non appena perché l’evoluzione tecnologica e culturale continua progressivamente a trasformare le nostre vite (certamente anche questo), bensì perché essa, più profondamente, continua a incidere su molti aspetti del nostro esser uomini: sulla struttura fisica del nostro cervello, sulla nostra attività cognitiva, sulla percezione del nostro corpo, e più in generale dello spazio, sul nostro stesso sé, cioè su desideri, progetti e stima delle nostre capacità. Ma davvero tutto ciò basta per concludere che siamo i nostri migliori artefatti? Mi sembra ragionevole rispondere di no. È vero che tanti nostri desideri sono culturalmente costruiti; ma noi nasciamo esseri desideranti. Certamente la realizzazione dei nostri progetti, così come la fiducia nelle nostre capacità, dipendono anche dai mezzi che abbiamo a disposizione; tuttavia, né veniamo al mondo sprovvisti di tutto (la stessa capacità tecnica ne è un esempio), né possiamo smettere di essere esseri progettanti33. È senza dubbio complesso il modo in cui il nostro sé narrativo si costruisce; ma l’ave- 33 È interessante che all’interno del post-umanesimo non sia mancato chi ha criticato il “mito” dell’incompletezza dell’essere umano, condiviso tanto dall’antropologia “umanista” quanto da gran parte di quella “post-umanista”. Cf. MARCHESINI, Post-human, 14: «L’uomo è un vero e proprio miracolo biologico, [...] quindi non ha nulla da invidiare agli altri esseri viventi, possedendo un potenziale cognitivo di partenza – nell’apprendimento e nell’euristica – che non ha pari nel mondo animale, un corredo di pattern innati tra i più complessi e articolati, un organismo che sia da un punto di vista performativo sia dal punto di vista della lunghezza della vita è senza dubbio competitivo rispetto agli altri animali. Ed è proprio questa eccellenza biologica che permette all’uomo di realizzare quel complesso epigenetico che chiamiamo cultura. Il virtuosismo umano si evidenzia infatti nella vasta virtualità di partenza, ossia in un range molto ampio di potenzialità che possono essere attualizzate in un modo piuttosto che in un altro attraverso specifiche ibridazioni con l’alterità». URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 80 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 81 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo re un sé è costitutivo dell’essere umano34. Può cambiare la percezione che abbiamo del nostro corpo, così come dello spazio più in generale, allo stesso modo in cui può evolversi la struttura del nostro cervello o la nostra attività cognitiva; eppure siamo una sola cosa col nostro corpo, né possiamo smettere di essere in qualche luogo. Tantomeno la nostra attività cognitiva può slegarsi da quell’organo per gran parte ancora sconosciuto che è il nostro cervello. Siamo fatti così: l’essere creature desideranti e progettanti, l’avere un sé, l’essere spazio e tempo, l’avere un corpo (mistero almeno quanto l’avere uno spirito), fanno parte dell’intima struttura del nostro essere. È attorno a queste e a molte altre strutture che ruota tutto ciò che di noi può essere costruito. Da sempre l’uomo ha avvertito queste strutture come proprie e si è interrogato sul loro significato: la storia della filosofia, ma più in generale della cultura, ne danno testimonianza continua. Così tocca fare anche a noi oggi, accettando l’invito che proviene dal post-umanesimo e tornando a interrogarci, ancora una volta, intorno a chi noi siamo. Non è un caso che questo livello di radicalità manchi nel discorso di Clark. Che il nostro essere sia fatto in un certo modo, che ci siano strutture che da sempre gli appartengono, è qualcosa che un’indagine condotta all’interno di una cornice naturalistica non può rilevare, semplicemente perché il rilevarle richiede una prospettiva diversa, richiede che si guardi non solo a come le cose si comportano, bensì a ciò che esse intimamente sono. Che questo livello di radicalità manchi nel discorso di Clark è dunque conseguenza dell’opzione naturalistica da lui fatta fin dall’inizio e mai riconosciuta nella sua prospetticità. Questa scelta certamente non gliela si può imputare, soprattutto se grazie ad essa egli rileva aspetti del rapporto tra uomo, cultura e tecnica che ci danno da pensare; d’altra parte, però, affermare che noi siamo i nostri migliori artefatti significa superare i confini di un’indagine impostata in senso naturalistico e nel contempo dimenticarsi della natura metodologicamente delimitata del sapere così acquisito. Senza dubbio è questa la sua più grave fallacia naturalistica. 34 Per un’idea dei soli fattori biologici, psicologici e culturali che possono essere rilevati a partire da un’impostazione naturalistica e che giocherebbero un ruolo nella costruzione del nostro sé narrativo rinvio a M. MARRAFFA – A. PATERNOSTER, Sentirsi esistere. Inconscio, coscienza, autocoscienza, Laterza, Roma – Bari 2013. 3/2016 ANNO LXIX 81 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 82 Giambattista Formica 4. Segnavia Se da un lato l’indagine condotta sui presupposti teorici alla base della tesi del natural-born cyborg ha finito con l’evidenziarne i limiti, dall’altro ha permesso di rilevare 1) alcuni aspetti del “post-umano” che solo in rari casi nella letteratura sul tema ricevono una considerazione adeguata e 2) alcune istanze della filosofia post-umanista che oggi un umanesimo criticamente consapevole non può ignorare. Quanto al primo punto, è risultato evidente che è possibile svincolare il fenomeno da letture “antagoniste” e “futuriste” fortemente connotate in senso ideologico, poiché vi è una linea della filosofia post-umanista che rifiutando di declinarsi al futuro sviluppa una riflessione sulla natura umana a partire dalla condizione dell’uomo a noi contemporaneo. Non sempre poi il post-umanesimo può esser visto in antitesi rispetto all’umanesimo, perché di quest’ultimo talvolta finisce col rivisitarne le tesi. Già questo basterebbe per non sottovalutare la sfida oggi rappresentata dalla filosofia post-umanista. Tuttavia, ci sono anche alcune istanze che il post-umano solleva e che ogni nuovo umanesimo, nella misura in cui è chiamato ad esplicitare la propria concezione dell’uomo, non può non considerare. La tesi del natural-born cyborg ha permesso di rilevarne due, condivise però da molto post-umanesimo contemporaneo: 1) la nostra plasticità biologica sottolineata da diverse scienze positive e – intimamente legata a questa – 2) la possibilità di leggere costruttivisticamente molti aspetti della nostra esistenza. Il fatto che si tratti di istanze che spesso si presentano dentro la cornice del naturalismo riduzionista o dentro quella del costruttivismo radicale (o come sempre più spesso avviene dentro entrambe queste cornici) rende ancora più urgente la necessità di un umanesimo pensante che, uscendo da una generalità rassicurante, nel dialogo multidisciplinare torni a rendere oggetto d’indagine l’essere dell’uomo. Che cosa l’uomo sia, quale posto occupi in natura e in che cosa stia il suo compimento sono questioni che continueranno a interpellarci sempre e sono, forse, l’indicazione discreta che dalla parte più nobile di noi siamo chiamati a qualcosa di meglio di una vita puramente umana. Giambattista Formica Docente della Pontificia Università Urbaniana (g.formica@urbaniana.edu) URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 82 3/2016 ANNO LXIX UUJ_3_2016_UUJ_1_2013.qxd 15/12/16 10:12 Pagina 83 Umanesimo, post-umanesimo, nuovo umanesimo ABSTRACT UMANESIMO, POST-UMANESIMO, NUOVO UMANESIMO Alcune considerazioni a partire dal natural-born cyborg La sfida oggi rappresentata dalla filosofia post-umanista richiede un umanesimo criticamente consapevole che torni a interrogarsi sull’essere dell’uomo e che sia in grado di rispondere alle esigenze della contemporaneità. Sarebbe un errore preoccuparsi soltanto delle conseguenze etiche, politiche e sociali del post-umano e sottovalutare, in ragione della propaganda ideologica che spesso lo accompagna, la domanda radicale intorno all’uomo che esso suggerisce di riaprire. In questo contributo esamino criticamente una tesi avanzata nell’ambito della filosofia post-umanista, quella secondo cui noi saremmo nati cyborg, per far emergere aspetti del post-umano in genere trascurati e istanze filosofiche degne di essere considerate da un umanesimo criticamente consapevole. HUMANISM, POST-HUMANISM, NEW HUMANISM Some Remarks Starting from the Concept of Natural-born Cyborg The current challenge posed by post-humanist philosophy can be met by a critically-aware humanism which is able to call into question again the ontological nature of man and meet the needs of contemporaneity. A concern limited to posthumanism ethical, political and social outcomes as well as an underestimation – influenced by the accompanying ideological propaganda – of its emerging radical approach to man would result into a mistake. Starting from the critical analysis of a stance – we are natural-born cyborgs – developed in the context of posthumanist philosophy, I unveil generally neglected aspects of post-humanism and philosophical issues a critically-aware humanism has to cope with. Keywords: humanism; post-humanism; cyborg; extended mind; naturalism; constructivism 3/2016 ANNO LXIX 83 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL