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Citation: Farci M. (2013). “L’irruzione del corpo in V. Giordano, Immagini
e figure della metropoli, Mimesis, Milano, pp. 127-142. ISBN:
9788857514055.
127
Manolo Farci
CAPITOLO SETTIMO
L’IRRUZIONE DEL CORPO
7.1 La follia del corpo
Sebbene l’epoca contemporanea sia caratterizzata da una irruzione del
discorso della corporeità in tutte le sfere dell’esperienza umana, le radici
della nostra cultura si fondano su una vera e propria rimozione del corpo.
A partire dalla filosofia della Grecia classica, tutta la storia del pensiero
dell’uomo si è contraddistinta per questa progressiva disgiunzione dell’unità imprescindibile di mente e corpo che nelle società arcaiche costituiva la
persona umana. Si potrebbe sostenere, con Franco Rella, che “nessuna filosofia è stata mai in grado di parlare del corpo”.1La traduzione dualistica
del pensiero occidentale che si libera dalla carne si inaugura con le parole
pronunciate da Platone nel Fedone.
Pertanto, nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo
tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo e comunione con
esso. (…) E così, liberati dalla follia del corpo, come è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima,
tutto ciò che è puro: questo io penso è la verità.2
“Un limite, una prigione, un involucro terroso e opaco, questo è il corpo di cui parla Platone nel Fedone, inaugurando la filosofia come l’atto
sacrificale che avrebbe dovuto mettere a morte il corpo stesso, facendo
tacere la fanghiglia barbarica delle passioni che vi sono connesse”.3 L’atto
sacrificale della filosofia trasforma la carne in un disvalore che si oppone,
con l’opacità e la follia della sua materia, all’essenza ideale della verità. La
logica che disgiunge lo spirito dell’uomo dalla sua carne e che influenzerà
tutta la riflessione occidentale sul corpo, inizia da qui. Su questa logica si
1
2
3
F. Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano 2000, p. 15
Platone, Fedone, 66 b-67 a, citato in U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano
1983, p. 41
U. Galimberti, op. cit., p. 9
128
Immagini e figure della metropoli
fonderà anche l’idea cristiana dell’anima. Per i cristiani, il corpo è l’eccesso carnale che supera i limiti della nostra volontà e deve essere per
questo redento dal suo peccato originale. Come scrive Georges Bataille:
“la carne è in noi, quest’eccesso che s’oppone alla legge della decenza. La
carne è il nemico nato da coloro che il divieto cristiano ossessiona”.4 Non
a caso, la redenzione dalla carne si compie grazie alla morte del corpo di
Cristo in croce e alla resurrezione della sua anima immortale. Il corpo non
partecipa alla realtà della vita che si fonda invece sull’immortalità dell’anima. L’anima diventa, dunque, il valore supremo che risolve l’ambiguità
simbolica del corpo in una identità astratta. L’influenza del platonismo si
estende sino alle meditazioni dei Padri della chiesa e si ritrova in molti
testi che attraversano il Medioevo, fino a investire il pensiero laico del Rinascimento. Il dualismo anima-corpo riappare nella letteratura medievale
sull’organismo penitenziale che accentua l’orrore ossessivo verso la carne,
prigione da cui occorre liberarsi: la divinità del corpo non è più Pan capace
di significare la vitale fisicità dell’istinto, della masturbazione, dello stupro
e dell’eccesso che si racchiude nel panico, nell’orrore e nell’incubo, ma
il diavolo dell’iconografia cristiana, colui che “divide”, che separa l’individuo nella sua anima e nel suo corpo riproponendo la medesima opposizione tra il male della carne e il valore dello spirito.5 La potenza di questo
impianto filosofico e religioso tarda a incrinarsi. L’iconografia letteraria del
Rinascimento, che prende come modello l’antichità classica, ci propone un
corpo determinato e compiuto: un corpo chiuso da cui sono state eliminate
tutte le possibili sporgenze e nascoste le sue secrezioni. È il corpo sodo
dell’umanesimo rinascimentale simboleggiato dal David di Michelangelo, incarnazione dell’idea neoplatonica che un organismo umano privo di
difetti sia prova della perfettibilità dell’uomo. A questa figura compiuta si
oppone il corpo carnevalesco che è invece aperto al mondo, che mostra la
sua sudicia corruzione e evidenzia le sue prominenze e i suoi orifizi: bocche spalancate, organi genitali, falli, seni, nasi. Ma “nasi adunchi, bocche
aperte, mani protese sono la ripresa carnevalesca non più come esaltazione
del corpo nel mondo, ma come oscena infrazione del canone classico”.6 La
libertà trasgressiva del linguaggio carnale, cioè, è solo apparente: se difatti
“il divieto esiste allo scopo di essere violato”,7 allora la trasgressione del
corpo carnevalesco in realtà non fa che confermare quel limite che essa
4
5
6
7
G. Bataille, L’erotismo, ES Editore, Milano 1997, p. 89
V. Giordano, Corpo in A. Abruzzese, Lessico della comunicazione, cit.
F. Rella, Ai confini del corpo, cit., p. 85
G. Bataille, op. cit., p. 62
M. Farci - L’irruzione del corpo
129
sistematicamente oltrepassa nell’indecenza della festa. Il corpo carnevalesco è l’eccesso che conferma la medesima concezione di un organismo
chiuso, distante, negato nella sua verità indicibile che dà forma al nostro
mondo.“Viene da pensare che l’Occidente, percorrendo i sentieri della filosofia prima e della scienza poi, non abbia inseguito altro scopo se non
quello di difendersi dalla multiformità della natura mediante l’uniformità
dell’idea, dall’ambivalenza simbolica dei corpi mediante la loro riduzione
all’equivalenza generale”.8
7.2 Velocità di fuga
È sulla scena della modernità – sul finire del XIX secolo – che il corpo
si presenta come un testo che deve essere riletto e decodificato alla luce del
collasso di quei fondamenti che avevano consentito la sua sopravvivenza
nel retroscena del pensiero. E non a caso questa riflessione può avere inizio
nel momento in cui il “sacro” perde la sua aura e si realizza nei diversi ambiti del quotidiano, nel momento in cui il tempo si affranca dalla necessità
di segnalare la linearità del progresso, quando il linguaggio rompe il suo
patto di solidarietà con le cose e dunque stenta a dirne il significato, quando
viene meno la soluzione consolatoria della dialettica hegeliana e il conflitto
non trova più una sede in cui semplificarsi.9 Friedrich Nietzsche attribuisce ai fanciulli l’affermazione “Corpo io sono e anima”, mentre il sapiente
può dire: “corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro
che una parola per indicare qualcosa del corpo”.10 Il corpo si riappropria
della sua “grande ragione”, chiede di combaciare con l’individuo che lo
abita: “Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano,
un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo”11.
È qui, in quest’azzardato riconoscimento, che viene sfidato il grande interdetto posto dal pensiero filosofico e inaugurato un pensiero critico, secolarizzato, mondano, capace di tenere insieme il mosaico dell’esistente, i
frammenti della soggettività. Capace di accogliere lo strazio e l’ebbrezza
di un corpo che sente, percepisce, invecchia, assiste di volta in volta al
mutamento, o addirittura a quella stessa trasformazione narrata da Franz
Kafka nel suo racconto Metamorfosi, quando Gregor Samsa, una mattina,
8
9
10
11
U. Galimberti, op. cit., p. 72
V. Giordano, Corpo, cit.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 34
Ibid.
130
Immagini e figure della metropoli
“destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso”12.
Questa percezione di qualcosa che si tramuta durante il sonno e che al momento del risveglio ci restituisce un involucro irriconoscibile, suona come
una sorta di profezia, un’anticipazione di quello che accadrà nel connubio
tra il corpo e la tecnologia.
Sarà la tecnologia, infatti, a dotare il corpo di un nuovo linguaggio, ad
attribuirgli una diversa umanità disumana, a consentirgli di comunicare attraverso nuove forme capaci di esprimere il senso di una lesione e di una
nuova intelligenza. A mettere in moto un meccanismo che costringe a guardare ciò che muta e a coglierlo nel momento stesso in cui si trasforma, fino
a liberarlo della sua stessa corporeità.13 Le grandi figure dell’uomo artificiale che nascono nel periodo di massima affermazione della rivoluzione
industriale – dalla Creatura di Frankenstein ai primi Robot messi in scena
da Karel Capek in R.U.R. – non rispecchiano solo il timore del doppio
perfetto, malefico e rovinoso che si ribella al suo creatore, ma con il loro
carattere di ambiguità, a metà tra la macchina e l’essere uomo, segnano
una vera e propria transizione dell’ontologia umana verso l’epoca della
confusione tra organico e inorganico, del corpo che fuoriesce dai confini
della propria pelle assimilandosi alla macchina e la macchina che acquisisce una autonomia e una vita inedite.14 Fantasmi, ombre, doppi iniziano a
popolare l’immaginario collettivo dell’individuo della metropoli, denunciando l’instabilità di un uomo che vede i manufatti tecnologici proiettare
sulla propria esistenza l’ombra rimossa della meccanizzazione della vita.
Frankenstein – scrive Alberto Abruzzese – “è stato l’ibrido essere che più
si confaceva ad investire di sé il fenomeno generale e capillare dell’automatismo nell’ultimo e più selvaggio secolo dell’industrializzazione. Le
macchine di cui le fabbriche, le comunicazioni e l’informazione si compongono invadono, non senza traumi, l’uomo e la natura”.15 La figura di
Frankenstein esprimeva l’angoscia dell’uomo piegato al mito della razionalità tecnoscientifica, un’angoscia che restava però confinata ancora nella
figura della “meraviglia” mostruosa, del freak, approdo di quel percorso
parallelo che magia e tecnica hanno intrecciato fin dall’inizio della loro
storia. Ma il destino dell’ibrido del Novecento non è lo stesso del mostro
partorito da Mary Shelley che muore lontano dalla comunità degli umani,
sperduto nei ghiacciai del Polo Nord. “Dal rito celebrato sui ghiacci emana
12
13
14
15
F. Kafka, La metamorfosi, Rizzoli, Milano 1975, p. 53
V. Giordano, Corpo, cit.
A. Caronia Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 2001
A. Abruzzese, La Grande Scimmia. Mostri vampiri automi mutanti, Napoleone,
Roma 1979, p. 159
M. Farci - L’irruzione del corpo
131
una grande forza riproduttiva: l’automa ha rivelato ciò che contraddistingue il suo conflitto; e nel conflitto stesso scopre la forza di cui s’alimenta”.16
Alla fine del XIX secolo, il conflitto ibridativo fa direttamente irruzione
all’interno delle dinamiche quotidiane dell’immaginario di massa, entra
prepotentemente nella metropoli.
Nel corso del Novecento, difatti, si verificano due importanti mutamenti
nel rapporto tra uomo e ambiente tecnologico. Anzitutto nascono le moderne tecnologie dell’informazione e si sviluppano le prime macchine mentali,
ossia i primi sistemi di elaborazione e di trasmissione dei dati. “Comunicazione, elaborazione e acquisizione di informazioni sono i processi fondamentali del lavorare della nostra mente. Si è così passati dalle tecnologie
del corpo, a quelle della mente”.17 La dicotomia corpo-mente raggiunge
qui il suo massimo livello di contrapposizione dialettica. I sistemi informatici e i linguaggi digitali alimentano la concezione di una mente disincorporata che, finalmente libera dai limiti del proprio corpo, può realizzare il
suo più totale dominio sull’ambiente esterno, fino a arrivare a ricostruire la
realtà in una sintesi artificiale perfetta. Risuonano in queste utopie gli studi
di Cartesio e dei materialisti del Settecento che prospettavano una liberazione della mente dalla limitatezza del suo sostrato materiale. Con acuta
preveggenza, già Marshall McLuhan aveva considerato come l’elemento
più caratteristico dell’attuale era elettrica sia la “traduzione delle nostre
vite nella forma spirituale dell’informazione”18 e, proprio perché l’informazione fugge via, è il medium puro per eccellenza in quanto privo di
contenuto, può aprirsi a qualsiasi potenzialità di mutamento. Così come gli
strumenti elettronici negli anni Sessanta, i sistemi informatici e i linguaggi
digitali che si diffondono tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta non fanno
altro che attribuire alla concezione di una mente disincorporata così come
era stata già prospettata dalla scienza della cibernetica di Norbert Wiener
e degli studi di Alan Turing sull’intelligenza artificiale, ulteriori fantasie di
trascendenza, tutte incentrate sulla liberazione dai vincoli non solo fisici,
ma anche culturali, evoluzionistici, sociali della realtà materiale.
Di queste riflessioni si alimenteranno le spinte più visionarie della
cybercultura, che trasformeranno le valutazioni delle scienze informatiche nell’utopia libertaria di una vera e propria volontà di fuga rispetto ad
alcuni elementi limitanti del proprio passato, primo fra tutti la dimensione
16
17
18
Ivi, pp. 157-158
F. Antinucci, Il corpo della mente in P. G. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994, p. 17
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 2002, p. 72
132
Immagini e figure della metropoli
corruttibile della propria corporeità.19 Non a caso, nel Neuromante di William Gibson20 – romanzo archetipico del movimento cyberpunk – il corpo
è meat, carne pesante e limitata rispetto all’immaterialità del self, che naviga onnipotente negli spazi virtuali della rete. Nel futuro di Gibson non
esiste più un organismo biologico “originale”: il corpo è modificato con
microchip, display e ram direttamente inserite sotto pelle apposta per interfacciarsi al sim/stim (simulated stimulation), un sistema di trasmissione a
distanza di dati, informazioni, stimolazioni corporali che consente all’utente di accedere al cyberspazio, lo “spazio di interconnessione dell’attività
mentale di infiniti agenti di senso dotati di strumenti per la trasmissione e
la ricezione di segni”.21 Alla lucentezza dell’universo virtuale e informatico
si contrappone la realtà materiale quotidiana dello Sprawl, simbolo di una
metropoli ormai degradata, inospitale, pericolosa. Nella visione distopica
del cyberpunk – che influenzerà l’immaginario delle città descritte in film
come 1997: Fuga da New York (John Carpenter 1981), Blade Runner (Ridley Scott 1982) o Matrix (Andy e Larry Wachowski 1999) – il dualismo
corpo e mente è trasferito nella dimensione urbana.
Ma la fuga dal corpo non può essere derubricata come la mera rivendicazione estetica di un movimento letterario della fantascienza né relegata alle ardite speculazioni degli scienziati transumanisti.22 È l’attuale
emersione di una cultura della connettività perenne – alimentata dalla
diffusione di strumenti di comunicazione mobile come smartphone e di
media sociali come Facebook, MySpace o Flickr – a ridefinire alcuni tratti
caratteristici della nostra esperienza corporea, come emotività, intimità,
empatia e introspezione. Significativo, in tal senso, è il grido di allarme
lanciato da Sherry Turkle:23 nelle aziende, tra amici o all’interno dei dipartimenti accademici la gente ammette di buon grado che preferisce mandare un messaggio vocale o una email piuttosto che parlarsi faccia a faccia.
Gli adolescenti stanno perdendo la capacità di stare da soli e riflettere
sulle proprie emozioni in privato; al contrario, hanno bisogno di essere
connessi per sentirsi se stessi, affidando i propri pensieri o sentimenti ai
loro avatar immateriali. Le nuove tecnologie ci permettono di ridurre il
contatto umano, di diluirne la natura e l’entità. Quando un giovane manda
19
20
21
22
23
M. Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano 1997
W. Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano 2003
F. Bifo Berardi, Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia nello scenario
di fine millennio, Costa & Nolan, Genova 1994, p. 16
R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo, Milano 2008
S. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e
sempre meno dagli altri, Codice Edizioni, Torino 2012
M. Farci - L’irruzione del corpo
133
in media più di tremila SMS al mese, passa ore navigando su Facebook o
dichiara di dormire con il proprio cellulare – trasformando la tecnologia in
una specie di arto fantasma – necessariamente sta perdendo qualcosa che
attiene principalmente al suo vissuto corporeo. La sua esperienza è, a tutti
gli effetti, una volontà di fuga.
7.3 La rivolta della carne
Il XX secolo è testimone di un altro fenomeno nuovo rispetto al passato:
la tecnologia, dopo aver compiuto il suo lungo cammino di esteriorizzazione nel mondo, comincia a implodere nella carne, a invadere e colonizzare
il corpo con una serie di dispositivi che aprono la strada alle future ricerche
in campo robotico e biotecnologico. Il corpo nella sua totalità fisica diventa
un oggetto di ricostruzione continua, di progettazione funzionale. Artefatti,
dispositivi, macchine, protesi, oggetti tecnologici definiscono una forma
di interazione con il nostro organismo sempre più intima e coinvolgente.
Gli oggetti lo liberano da incombenze faticose, espandono le sue capacità
sensoriali e comunicative, lo connettono operativamente all’habitat quotidiano dove esso si trova a vivere. Grazie ai progressi in campo medico e
biologico, si prospetta la possibilità di poter modellare il corpo come fosse
un abito da indossare – una cosa che sente24 – oppure potenziarlo sensorialmente con l’impianto di organi artificiali o sofisticate nanotecnologie. Il
corpo potrà diventare un meccanismo di controllo e progettazione sempre
più distante da qualsiasi modello di evoluzione biologica: in futuro si potrà
addirittura “concepire e compiere la gestazione della vita al di fuori del
corpo, decidere di terminarla in mancanza di determinati requisiti biologici, fisici, culturali, fino a giungere alle possibilità di manipolazione della
genetica e delle biotecnologie”.25
Affrancato dai limiti che lo fondano, il corpo pare cedere all’eccesso della sua carne, riscoprire – proprio nell’epoca dell’alta tecnologia –
quella dimensione materiale della nuda vita, che sinora era stata costretta
all’esercizio della biopolitica, spogliata dei diritti che le competono, della
cittadinanza che le spetterebbe. La modernità – spiega lucidamente Michel
Foucault – ha inaugurato l’esercizio del potere come disciplina dei corpi.
Mentre le punizioni medievali dovevano rendere visibile la propria atrocità
24
25
M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1994
P. G. Capucci, Il trionfo del corpo in Id. (a cura di), Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994, p. 26
134
Immagini e figure della metropoli
e riprodurla attraverso l’applicazione della pena direttamente sul corpo del
condannato – come egregiamente mostrato da Kafka nel famoso racconto
Nella colonia penale – la pratica punitiva del XIX secolo, invece, cercherà
di fare in modo che il potere non si insozzi più con l’orrore dell’atrocità.
Nell’epoca moderna, il potere si umanizza, dunque, ma per un principio
di calcolo: ora non si castiga più la carne, ma si agisce per riformare lo
spirito: “non si punisce per cancellare un delitto, ma per trasformare un
colpevole”.26 Da qui prende avvio un nuovo regime disciplinare che non è
più impegnato a esibire la propria potenza attraverso la sottomissione e la
violenza sui soggetti, ma a organizzare, parcellizzare, costruire un campo
di relazioni e di forze dove il corpo possa essere codificato strumentalmente in base al posto, alla cella, al ruolo che gli viene assegnato. È il principio
della suddivisione cellulare: distribuire gli organismi in uno spazio dove
si possa isolarli e reperirli, pianificando questa distribuzione su un apparato di produzione che funziona secondo esigenze proprie. Questo principio
articolerà tutte le istituzioni che hanno caratterizzato la nostra modernità:
fabbriche, scuole, carceri e ospedali sono guidati dalla logica di uno spazio
che funziona come un perfetto meccanismo creato non solo per apprendere,
curare o punire, ma soprattutto per sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare, dividere per ranghi, ottimizzare le prestazioni, distribuire secondo una
logica operativa che osserva, regola, ispeziona. “Le istituzioni disciplinari
hanno finito col secernere un apparato di controllo che ha funzionato come
microscopio della condotta (…). L’apparato disciplinare perfetto avrebbe
permesso, con un solo sguardo, di vedere tutto, in permanenza”.27
Il potere non ostenta più la sua forza e il suo vigore, non si manifesta
in altro modo che con lo sguardo. La biopolitica si esercita rendendosi
invisibile e imponendo a coloro che sottomette un principio di visibilità
obbligatoria Nel famoso sistema carcerario del Panopticon – usato da Foucault come metafora di una funzione generalizzata destinata a diffondersi
nell’intero corpo sociale – sono i soggetti a dover essere visti. E il fatto
di essere costantemente visto assicura la presa del potere sugli individui,
rende i loro corpi docili e facilmente leggibili. Ma questo principio della
trasparenza assoluta, dell’esame infinito e dell’oggettivazione costrittiva
non si limita solo a controllare la disciplina anatomo-politica del corpo, ma
si estende sino alla meccanica del vivente che serve da supporto a processi
biologici come la sessualità, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la
durata della vita, la longevità. “La vecchia potenza della morte in cui si
26
27
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit., p. 139
Ivi, p. 190
M. Farci - L’irruzione del corpo
135
simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita”.28
L’unica via di fuga rimasta di fronte a questo biopotere assoluto è esercitare l’eccesso irriducibile della propria carne. Quell’eccesso materiale
che ritroviamo nelle pagine dei narratori moderni che hanno affrontato il
discorso della malattia, del dolore e della morte, sino a lambire l’esperienza dell’estremo: ai corpi trasparenti che abitano il sanatorio de La montagna incantata di Thomas Mann (1875-1955), si affiancano quelli squartati,
aperti, lesi (descritti nella letteratura contemporanea da Ellis, James Ellroy,
Dennis Cooper, Tim Willocks), le fotografie dei frammenti del corpo di
Liz Taylor appese alle pareti della stanza di Vaughan in Crash di J. G.
Ballard. O ancora la body art degli anni Sessanta con le carni straziate
dagli artisti dell’Azionismo Viennese, la denuncia scritta con il sangue di
Franko B o Ron Athey, i soggetti sessualmente ambigui rappresentati nella
fotografie di Robert Mupplethorpe o i poetici cadaveri di Andres Serrano:
forme espressive accumunate dalla volontà di restituire all’istintività della
carne l’assoluta libertà di riformulare le coordinate di quelle variabili come
piacere, dolore, sesso e morte, su cui tende ad esercitarsi il biopotere contemporaneo.
Un ritorno all’istintività dei corpi che, paradossalmente, pare venir rilanciato grazie alla vocazione psicosomatica delle reti, alla loro capacità
di accrescere il bisogno di relazione, connessione e contatto, all’interno di
spazi fisici anonimi e senza storia, veri e propri non luoghi in quanto liberi
da quelle marche disciplinari di confine e di contenuto con cui la società tende a territorializzare l’esperienza e vincolarla all’egemonia dei suoi
fondamenti più tradizionali. Nella rete, il concetto di non-luogo funziona
come un arricchimento, perché offre al mondo dei sensi e degli affetti la
possibilità di raccontarsi senza la mediazione interessata dei linguaggi di
massa e dei regimi sapienziali delle istituzioni moderne. La natura reticolare e decentrata dei territori digitali sancisce la supremazia del mondo delle
relazioni rispetto ai fatti sociali, favorisce una geografia del sentire in cui
la persona ha l’opportunità di sperimentarsi al di là di se stesso e contro se
stesso,29 di pensarsi concretamente in modo astratto grazie alle potenzialità della tecnica e alla familiarità con l’immaginario tecnologico. Mentre
le griglie del moderno misurano gli individui “in verità”, la struttura aperta
delle reti ancora il soggetto alla contingenza del mondo, lo rende sensibile
alla virtualità, a fare di questa uno strumento personale di osservazione del
28
29
M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2003, p. 124
A. Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano 2011
136
Immagini e figure della metropoli
reale: nel virtuale, ogni singolo aspetto della vita è percepito ed agito come
possibile altrimenti.30 I linguaggi della virtualità offrono l’opportunità di
risemantizzare il corpo nella sua immaterialità, liberarlo magari dalla gabbia del genere, dalla costrizione di portare il segno della differenza sessuale, della storica opposizione uomo/donna.
Nell’originale manifesto di Donna Haraway, ad esempio, il cyborg è
una figurazione in grado di pensare l’essere umano e il suo corpo oltre le
dicotomie separative e i confini di genere che l’hanno definito31. Il Manifesto cyborg ci invita a riconsiderare il posto della tecnologia all’interno
della teoria critica. Viviamo, difatti, in un mondo intimamente ridefinito
dagli sviluppi della scienza e della tecnica: la cultura dell’high-tech ha la
capacità di infrangere ogni categoria unitaria che struttura il nostro pensiero e accelerare cambiamenti radicali nel tessuto sociale e nelle condizioni
di esistenza dell’uomo. Tuttavia, una vasta schiera di studiosi critici del
Novecento hanno costruito il loro pensiero attorno ad una forte demonizzazione della tecnica, riconducendo le molteplici prospettive che essa ha
dispiegato nel corso di questo ultimo secolo ad un’essenza unitaria, definibile una volta per tutte come disumanizzante.32 Secondo Haraway, invece,
le principali teorie critiche – dagli studi femministi alle analisi di stampo
socialista – devono accettare il fatto che la tecnologia non è esclusivamente
un modus operandi legato alle forme di dominio e potere, ma un terreno di
contestazione e ridefinizione dei discorsi sociali consolidati. La biopolitica
e la disciplina dei corpi descritti da Foucault appartengono alla moderna
archeologia della fabbrica: accogliere la metafora del corpo come macchina cibernetica, pensarlo non “in termini di proprietà essenziali, ma in
termini di progettazione, di proprietà di confini, tassi di flusso, logica dei
sistemi”,33 consente di elaborare una nuova forma di soggettività denaturalizzata e multipla, capace di decostruire le dicotomie concettuali su cui si
è fondato il pensiero moderno. Per questo, la metafora del cyborg diventa
centrale nella riflessione della studiosa: grazie ad esso, è possibile immaginare le tradizionali identità sociali secondo un modello che non faccia
più affidamento ad alcuna teoria di stampo essenzialistico, ma vada oltre
le dicotomie concettuali su cui, tradizionalmente, si è fondata ogni retorica
30
31
32
33
G. Boccia Artieri, Stati di connessione. Pubblici, cittadini e consumatori nella
(Social) Network Society, Franco Angeli, Milano 2012
D. J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo,
cit.
M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Roma 2000
D. J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, cit.,
p. 57
M. Farci - L’irruzione del corpo
137
antagonista – come struttura e sovrastruttura, ideale e materiale, maschio
e femmina, naturale e culturale. Un movimento di oltrepassamento che si
spinge sino alle frontiere del discorso sul postumano.34
7.4 Incarnazioni postumane
Sebbene sia oramai diffuso da un paio di decenni, sia nell’ambito della
cultura popolare che all’interno del pensiero accademico, il concetto di
postumano è ancora sottostimato e poco compreso. Molte delle teorie più
radicali del nuovo millennio hanno assunto il termine in chiave previsionale, intendendolo letteralmente come ciò che viene “dopo l’umano”: da un
lato, l’idea del postumano è stata impiegata per tratteggiare un panorama
futuro dal carattere distopico dove la manipolazione delle tecnologie avrà
raggiunto un tale livello di complessità da determinare la fine dell’uomo
così come lo conosciamo;35 dall’altro lato, il concetto è stato concepito alla
stregua di una utopia tecnofila di redenzione e innalzamento delle nostre
facoltà: l’inaugurazione di un’epoca dove l’essere umano sarà capace di
dissolversi nella macchina, scartando l’essenza mortale del corpo e sviluppando una nuova forma di esistenza transumana capace di salvaguardare le
nostre menti per l’eternità.36 Entrambe queste posizioni, però, si fondano
sull’equivoco di collegare la riflessione postumana all’imminente fatalismo racchiuso nel suffisso “post”: “’post’, con la sua doppia connotazione
di sostituzione dell’uomo e rinascita dopo di esso, lascia intendere che i
giorni dell’’umano’ possono essere numerati”.37
In realtà, se sfrondassimo il concetto da ogni possibile esasperazione
futurologica, comprenderemmo meglio come il postumano sia, a tutti gli
effetti, una filosofia della corporeità. Se la cybercultura aspirava a liberarsi
dal corpo per riaffermare il primato della mente, il postumano vuole fuoriuscire da una cornice di pensiero antropocentrico, proprio per restituire
34
35
36
37
R. Marchesini, op. cit.
Cfr. R. A. Brooks, Flesh and Machines. How Robot Will Changes Us, Pantheon
Books, New York 2002; F. Fukuyama L’ uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della
rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002
Cfr. M. Minsky, La società della mente, Adelphi, Milano1989; H. Moravec, Mind
Children. The Future of Robot and Human Intelligence, Harvard University Press,
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cit.; R. Kurzweil, op. cit.
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138
Immagini e figure della metropoli
all’esperienza della carne la capacità di ridefinire quelle variabili come natura e cultura, mente e corpo, organico e inorganico che la nostra società
tende a leggere esclusivamente a partire da un punto di vista umanistico. La
filosofia dell’umanesimo valuta la rilevanza di ogni fenomeno sociale solamente a partire dal punto di vista delle sue relazioni con l’uomo: l’uomo
è l’origine, la sorgente del significato, dell’azione e della storia. Il pensiero
postumano, al contrario, si propone di abbandonare la concezione dell’uomo come universo isolato, totalmente impermeabile alla contaminazione
esterna. E per condurre il suo attacco ad ogni tradizione di pensiero antropocentrica, si affida ad una composita galassia di riferimenti culturali che
vanno dall’antropologia della tecnica alla filosofia, dalla teoria legale agli
studi culturali, sino ad arrivare alle teorie più innovative nei settori delle
scienze cognitive. Si tratta, a ben vedere, di una riflessione non molto dissimile dalla critica alla visione cartesiana dell’uomo che ha coinvolto nel
corso del XIX secolo pensatori come Darwin, Nietzsche o Freud, che hanno denunciato la mistificazione ideologica iscritta nel concetto moderno di
umanesimo, un termine dietro cui si annidano diversi nuclei teorici: la credenza nel progresso, il dominio tecnologico sulla natura, la separazione del
regno umano da quello animale, l’approccio terapeutico al comportamento
umano e il metodo secolarizzato dell’indagine scientifica.
Il nucleo centrale che accomuna ogni riflessione sul postumano è la necessità di assumere l’esperienza corporea come fulcro di un discorso che
rifletta sui cambiamenti culturali prodotti dall’intreccio di tecnologie sempre più sofisticate che incidono sulle forme con cui concepiamo le nostre
identità. Si pensi, per fare solo un esempio, al modo in cui le tecnologie
della vita concorrono al formarsi di una sorta di “immenso corpo ibrido e
mondializzato”38 che sta producendo una diversa reincarnazione e reinvenzione del discorso sulla corporeità. Nell’ambito della ricerca sul fenomeno del traffico internazione di organi – probabilmente il massimo esempio di sistema biopolitico globale – Nancy Scheper-Hughes dimostra come
la medicina riproduttiva, la chirurgia dei trapianti, la bioetica e la biotecnologia siano complici dell’attuale processo di mercificazione del corpo,
che sta contribuendo a delineare una vera e propria “etica delle parti” in
cui l’organismo divisibile e il suo proprietario rispondono alle richieste di
mercato, diventando veri e propri oggetti di scambi economici.
A un certo livello, dunque, la mercificazione del corpo è un discorso
nuovo, collegato all’incredibile espansione di possibilità che ha avuto luogo grazie ai recenti sviluppi della biomedicina, della chirurgia dei trapianti,
38
P. Levy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997
M. Farci - L’irruzione del corpo
139
della medicina genetica sperimentale, della biotecnologia e della scienza
del genoma, congiuntamente alla diffusione del capitalismo globale e alla
conseguente rapidità con cui pazienti, tecnologie, capitali, corpi e organi
possono ora circolare attraverso il globo. Ma a un altro livello, la mercificazione del corpo si situa in continuità con discorsi precedenti sul desiderio,
il bisogno e la scarsità di corpi umani e parti del corpo per l’edificazione
religiosa, la guarigione, la dissezione, l’intrattenimento, lo sport e la sperimentazione medica.39
L’antropologa statunitense descrive il mercato degli organi come un sottotesto della storia della globalizzazione del tardo XX secolo, un prodotto
della ristrutturazione neoliberista della nuova economia mondiale, che ha
condotto ad un veloce impoverimento dei valori tradizionali modernisti e
umanisti e all’emersione di una inedita mescolanza di elementi premoderni e postmoderni. Il business internazionale deregolato e multimiliardario
intorno ai tessuti e alle parti del corpo – che si avvale spesso dell’ingenuità
del donatore che tende a considerarlo come un gesto simbolico e quasi
magico per salvare miracolosamente altre vite umane – rappresenta una
miscela di altruismo e commercio, di scienza, magia e stregoneria, di dono,
baratto e furto, di volontariato e coercizione. La chirurgia del trapianto ha,
dunque, riconcettualizzato la relazione fra “sé” e “altro”, fra individuo e
società. Nelle pratiche di mercificazione legate al commercio degli organi
si delinea, dunque, il tratto di una nuova biopolitica che non si rivolge più
ai corpi e alla loro immunità identitaria, ma guarda alla carne come materia inorganica, “selvaggia”: una realtà vitale che non ha mai avuto una configurazione politica, ma è sempre stata estranea a qualsiasi tipo di organizzazione unitaria perché naturalmente plurale.40 Alle differenze dei corpi si
sostituisce l’equivalenza della carne: “a “risorgere”, oggi, potrebbe essere
non già il corpo abitato dallo spirito, ma la carne in quanto tale – un essere
insieme singolare e comune, generico e specifico, indifferenziato e differente, che non solo è privo di spirito, ma non ha più neanche un corpo”.41
Ridotto a non significare altro che la propria essenza incarnata, insomma,
il corpo perderebbe quella esteriorità, molteplicità, apertura che lo situa nel
mondo reale e si aprirebbe ad nuova forma di biopolitica della trasmutazione: ciò che, nell’esperienza della protesi, del trapianto o dell’impianto,
penetra nell’organismo umano non è più il divino, ma l’organo di un altro
39
40
41
N. Sheper-Hughes; L. Wacquant, Corpi in vendita. Interi e a pezzi, Ombre Corte,
Verona 2004, p. 10
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002
Ivi, p. 183
Immagini e figure della metropoli
140
uomo; o anche qualcosa di non vivente, che “divinamente” gli consente
di vivere e di migliorare la qualità della sua vita.42 Sotto l’impatto delle
tecnologie avanzate, emerge una cruciale confluenza di interessi biopolitici
sui corpi e nuove modalità di incarnazione postumana. “Ciò che ritorna ora
è l’”altro” del corpo vivente nella sua definizione umanistica: l’altra faccia
di bios, vale a dire zoe, la vitalità generatrice del non- o del pre-umano
o ancora della vita animale”.43 Zoe: la vitalità irrazionale della vita che
continua indifferente al controllo razionale, la parte che rimane esterna ed
irriducibile ad ogni visione umanistica del soggetto.
7.5 Il corpo oltre l’uomo
Questa riflessione ci aiuta a capire meglio perché i paradigmi epistemologici dell’umanesimo tradizionale non bastano più a comprendere la realtà
attuale in cui siamo immersi. Come già aveva annunciato Michel Foucault,
dobbiamo iniziare a immaginarci oltre il vuoto dell’uomo scomparso,44 non
solo perché nel futuro saremo sempre più simili a cyborg tecnologicamente implementati e geneticamente modificati,45 ma soprattutto perché potremo abitare le nostre estensioni tecnologiche solamente se impareremo
ad accogliere concetti come ibridazione, apertura all’alterità, promiscuità
ontologica, esperienze che, del resto, già fanno implicitamente parte della
cultura del consumo tecnologico in cui siamo quotidianamente immersi.46
Allo stesso tempo, le trasformazioni sociali e culturali determinate dai progressi della scienza e dell’alta tecnologia stanno già frantumando fino alle
loro fondamenta le eredità passate del pensiero umanista. Come abbiamo
visto, il nuovo regime di potere bios/zoe che emerge grazie alle tecnologie
della manipolazione della vita trasforma il corpo in un’entità materiale,
situata all’intersezione tra biologico, genetico, sociale, culturale e infiniti
altri livelli di codici informativi. Iniziamo a comprendere che “la distinzione tra biotecnologie e ingegneria genetica da una parte, e tecnologie
dell’informazione e della comunicazione dall’altra, è insostenibile”,47 dal
42
43
44
45
46
47
Ivi, p. 184
R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, Luca Sossella Editore, Roma 2008,
p. 49
M. Foucault, Le parole e le cose, cit.
S. Rodotà, La vita e le regole, Feltrinelli, Milano 2006
M. Farci, Lo sguardo tecnologico. Il postumano e la cultura dei consumi, Franco
Angeli, Milano 2012
R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, cit., p. 41
M. Farci - L’irruzione del corpo
141
momento che il concorso di questi due fattori sta determinando una radicale revisione della politica della corporeità. “Non vi è dubbio che ciò che
– con qualche nostalgia – continuiamo a chiamare “noi e il nostro corpo”
altro non è se non un astratto costrutto tecnologico pienamente immerso
nell’industria chimica della psicofarmacologia avanzata, della bioscienza e
dei media elettronici”.48
Gli organismi biologici e informativi del futuro formano un nuovo soggetto composito, non unitario, snaturato dalla mediazione tecnologica e
quindi postumanista. La crisi dell’antropocentrismo cede il passo a una
nuova forma di materialismo organico o corporeo che pone le fondamenta
per un sistema di valori etici al centro del quale torna la vita. Grazie alla
potenza generativa della zoe, l’etica viene trasposta nell’egalitarismo biocentrato che considera gli “altri” – macchine o animali – come partner paritari di uno scambio morale, potenti mediatori di affettività e desiderio.49
Abbracciare un punto di vista postumano, dunque, vuol dire abbandonare quell’atteggiamento separativo e di opposizione gerarchica tra uomo e
mondo, su cui si è fondata l’autarchia illusoria del soggetto moderno cartesiano che ha squalificato il corpo e la sua apertura simbolica all’ambiente.
Se “la difficoltà dell’uomo contemporaneo sta nell’incapacità non tanto di
vivere nel corpo quanto di lasciar vivere il corpo”,50 attualmente è proprio
sul terreno dell’esperienza corporea che si gioca la maggiore battaglia sul
significato di natura umana e la necessità di ripensare questo concetto a
partire da una differente modo di intendere il suo rapporto con l’intervento
dell’alterità tecnologica. È il corpo che raccoglie la sfida della postumanità
a ripensare l’uomo come una antropogenesi sempre in corso e mai conclusa. Il corpo: la zona d’eccezione del nostro pensiero occidentale, preso
nella morsa dei codici culturali che lo hanno di volta in volta definito nella
sua trasparenza, e il vuoto di senso, l’oltre di ogni significato che ne hanno
fatto uno spazio di opaca ambiguità, irriducibile nella sua insanabile dissimmetria, per un pensiero ancora attardato nelle maglie della soggettività
umanistica. Nell’anomala dimensione dell’oltrepassamento postumano, al
corpo si attribuisce il compito di figurare l’inimmaginabile che giace al di
là di ogni dialettica umana, laddove solo la carne sa ricucire le logiche oppositive dei dualismi antropologici che hanno informato il nostro pensiero
occidentale sin dal monito platonico lanciato nel Fedone.
48
49
50
R. Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire, Feltrinelli, Milano 2002, p. 30
R. Braidotti, Trasposizioni. Sull’etica nomade, cit.
R. Marchesini, op. cit., p. 223
Immagini e figure della metropoli
142
7.6 Ai limiti del nostro immaginario
L’immaginario della nostra tarda modernità è un racconto che si muove
nel confine tra crollo e cambiamento, lungo quella labile linea che facilmente può condurre l’uomo alla sua deriva disumana. Viviamo un tempo
penultimo – scrive Marco Belpoliti in Crolli51 – un tempo che pur indicando continuamente la sua fine, pur preannunciandone l’apocalisse, non
smette di rinviare ad un altro tempo, un tempo successivo. “L’apocalisse
contiene un altro aspetto: l’attesa spasmodica della fine e insieme quella
del cambiamento totale, della palingenesi”.52 Siamo in uno stato di transizione, abbiamo davvero varcato una soglia che ha trasformato la nostra
condizione, ma non abbiamo ancora pensieri e immagini che ci guidino tra
i sentieri di questo avvenire postumano. Ci vengono in aiuto i frammenti
di quel superbo affresco che i narratori della modernità avevano efficacemente dipinto attorno al disagio di un soggetto sempre più incapace di
governare il presente e le contraddizioni che lo lacerano: la grande ragione
del corpo evocata da Nietzsche, le pagine di Kafka sulla metamorfosi, il Je
est un autre di Rimbaud, le riflessioni di Foucault sulle istituzioni chiuse,
l’animalità di Bataille, il sex appeal dell’inorganico di Benjamin. Ma, al
di là di questi riferimenti, non abbiamo mappe certe e lo schermo appare
ancora opaco: abbiamo bisogno di considerare un nuovo modo di articolare il nostro rapporto con il mondo a partire dai dati sensibili della nostra
esperienza corporea.
Oggi siamo oltre Platone e oltre il sogno illuminista. Non soltanto il
corpo ha perso ogni intransitività: è diventato manipolabile, decostruibile
ricostruibile come le macchine d’organi che forse stava nel fondo delle
allucinazioni cartesiane. Ma anche l’animalità viene a far parte di questo processo: cessa di essere scandalo metafisico e diventa una funzione
dell’umano”.53
51
52
53
M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino 2005
Ivi, p 130
F. Rella, Pensare per figure. Freud, Platone, Kafka, il postumano, cit., p. 162
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