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Angelo Campodonico Integritas. Metafisica ed etica in San Tommaso "Bonum ...ex integra causa"(ST. I-II, 19, 6). A Rolando Indice Introduzione Abbreviazioni 1) Tommaso e il suo tempo 2) Il metodo della riflessione 3) L'apprensione dell'ente 4) I trascendentali 5) La struttura dell'ente concreto 6) L'ascesa a Dio 7) I nomi di Dio 8) La comunicazione intratrinitaria 9) La creazione 10) Il valore del creato 11) L'ordinamento del cosmo 12) Etica e politica Conclusioni: Tommaso d'Aquino e il nostro tempo Bibliografia Introduzione Questo saggio si propone di presentare quegli aspetti fondamentali del pensiero di Tommaso d'Aquino che rendono la sua opera storicamente significativa e ancora oggi interessante alla luce della critica più recente. Si tratta, quindi, non di una presentazione esauriente della produzione di Tommaso, attenta all'evoluzione del suo pensiero - sarebbe stato necessario un volume assai più ampio, né mancano oggi opere in tale senso - ma del tentativo di offrire una chiave di lettura del pensiero tommasiano nel suo complesso e di suggerire i motivi della sua permanente attualità. Vi sono alcune ragioni che rendono il pensiero di Tommaso di primo acchito inattuale, perché estraneo alla sensibilità dell'uomo contemporaneo. Innanzi tutto Tommaso, come tutti i pensatori medioevali, è essenzialmente un uomo che si riconosce parte di una consolidata tradizione di vita e di ricerca che a partire dalla filosofia antica e, per altro verso, dalla Bibbia attraverso la patristica e la scolastica è pervenuta fino a lui. E oggi, anche quando, come talora accade, si possa essere insoddisfatti nei confronti dei limiti di una cultura che ha le sue radici nel rifiuto illuminista del valore del passato, non si è per lo più abituati a pensarsi parte di una tradizione unitaria, all'interno della quale come intellettuali si riflette. Inoltre Tommaso è un filosofo ma anche e, soprattutto, un teologo cristiano. E oggi non si è in genere abituati a pensare ad un filosofo che sia anche teologo. Per di più è accaduto che egli sia stato additato dalla Chiesa cattolica come maestro del pensiero teologico e filosofico. E in un mondo secolarizzato questa non costituisce una buona credenziale. Inoltre ciò può aver favorito una destoricizzazione del suo pensiero che, assolutizzandolo, lo ha reso meno interessante soprattutto agli occhi della cultura accademica. Ma ormai non mi paiono queste la ragione di una difficoltà perdurante di accostarsi a Tommaso. Non vi sono più in genere aprioristiche chiusure. Egli è soltanto poco conosciuto nel mondo culturale e universitario. Di qui l'opportunità di presentare il suo pensiero. Tuttavia, se ci si accosta ai testi di Tommaso, emerge probabilmente ad una prima lettura un'altra serie di difficoltà: può sembrare che il suo pensiero dica troppo poco o troppo all'uomo contemporaneo. Dice troppo poco la sua filosofia soprattutto al filosofo di matrice esistenzialista ed ermeneutica, perché nell'epoca del nichilismo l'uomo esige innanzi tutto una risposta alla domanda di senso della vita. Prima di impegnarsi con la verità ha bisogno di essere incoraggiato a pensare che ha senso occuparsi della verità. Nell'epoca di Tommaso questa risposta era data dall'esperienza della fede cristiana che impregnava intimamente di sé tutta la cultura. In questo senso la patristica, maggiormente impegnata, date le circostanze storiche, a esplicitare un'esperienza di fede viva per comunicarla all'uomo del proprio tempo, appare più vicina della scolastica alla sensibilità dell'uomo contemporaneo. Rispetto al linguaggio della patristica rivolto a comunicare la fede, il linguaggio formale della scolastica può essere percepito come ormai troppo lontano. Tommaso, come gli scolastici in genere, rischia di apparire troppo freddo. In effetti non era così. Tommaso è anche un mistico. Chi lo conosce profondamente se ne accorge. Ma egli non sente il bisogno di esprimere più di tanto questo aspetto della sua personalità soprattutto quando fa teologia e filosofia. V'è una freddezza che nasce dall'aridità, ve ne un'altra che coincide con un forma di autocontrollo, di spassionata adesione alla realtà e che richiede, invece, paradossalmente, per essere attuata una pienezza di vita. Che Tommaso non si esprima come forse vorremmo non deve stupire: l'epoca non gli richiedeva questo. Un pensatore non può riflettere su tutta la sua esperienza. Egli pone a tema sempre e soltanto alcuni aspetti di questa. Inoltre chi possiede una ricca vita interiore, come Tommaso, è profondamente consapevole del divario che sussiste fra l'esperienza che vive e la sua possibilità di essere comunicata. D'altro lato è anche vero che Tommaso dice troppo all'uomo contemporaneo e, in particolare, al filosofo di indirizzo analitico. Infatti la sua attenzione al rigore del discorso non gli impedisce di affermare una profonda fiducia nell'intelligibilità della realtà. Egli è convinto che vi sia una intenzionalità conoscitiva che trascende le barriere del linguaggio. Egli è persuaso - ad esempio che l'esistenza di Dio sia una verità dimostrabile, benché di fatto non sia accessibile a tutti. Questa fiducia si fonda su quella stessa profonda vita interiore che non emerge spesso alla superficie in modo prepotente. Perché leggere Tommaso allora? Non soltanto per un interesse storico, ma certo anche per questo. Tommaso costituisce, in certa misura, una sintesi irripetibile del pensiero a lui precedente: del pensiero greco pagano aristotelico e platonico, della patristica latina e greca e della scolastica precedente, del pensiero musulmano ed ebraico. Egli presenta una concezione equilibrata, in cui s'incontrano, insieme, attenzione alla ricchezza dell'esperienza del reale e rigore argomentativo e che la scolastica successiva e l'epoca moderna in genere non hanno per lo più sviluppato, scadendo in un formalismo sempre più spinto, contro il quale si è reagito. Sotto il profilo speculativo Tommaso come Aristotele offre una prospettiva completa e tendenzialmente obiettiva sulla realtà nei suoi diversi aspetti. Per questo la sua meditazione è particolarmente utile allo studente che si affaccia alla filosofia e all'uomo che intende acquisire una mentalità filosofica. Rispetto ad Aristotele egli presenta il vantaggio che la sua prosa è in genere più piana e facile. Inoltre il fatto che egli risenta oltre che del pensiero dello stesso Stagirita anche della filosofia platonica e della tradizione ebraico-cristiana rende la sua sintesi particolarmente interessante per la sua completezza e per la sua maggiore prossimità alla cultura moderna. Rispetto a Kant e a Hegel il suo interesse è dovuto al fatto che egli è portatore di una prospettiva sull'essere e sulla morale non influenzata ancora dalla kantiana "rivoluzione copernicana", esito a sua volta degli empirismi e del fenomenismo provocati dalla "nuova scienza". In un momento storico in cui, dopo Husserl e Heidegger, siamo più disposti a scorgere gli effetti limitanti che l'impatto della scienza ha esercitato sulla filosofia, conoscere Tommaso può rappresentare un utile contrappeso onde fare più criticamente i conti con quella rivoluzione antropocentrica che ha avuto in Kant uno dei suoi maggiori rappresentanti e contro cui si è reagito in epoca contemporanea. Infine per il credente o per chi intenda fare i conti con la tradizione cristiana Tommaso teologo, filosofo ed esegeta offre tuttora una sintesi ineguagliata. In un'epoca come la nostra, ancora influenzata del razionalismo moderno (anche e forse, soprattutto, quando ad esso si reagisce) e alla ricerca di nuove sintesi, Tommaso insegna ad aprirsi senza pregiudizi alla realtà, cogliendo quanto di bene e di intelligibilità essa può offrire. L'interesse del suo pensiero etico e metafisico è dato fondamentalmente dalla sua proposta di un umanesimo integrale e di una prospettiva integrale sull'essere ottenuti grazie a una notevole capacità di sintesi. Da questa accentuazione dell'integritas e cioè della perfezione dell'essere e del bene, considerati nella realtà e nell'uomo alla luce di tutti i fattori che ordinatamente li costituiscono, il titolo del saggio. Il fatto che l'Aquinate tenga contemporaneamente conto di diversi aspetti, può apparire una forma di ecclettismo compromissorio, se non si è capaci di volta in volta di cogliere l'effettivo punto di sintesi. Ma ciò richiede una penetrazione del suo pensiero favorita da una prolungata e attenta consuetudine con i testi. E ad introdurre alla lettura delle opere di Tommaso mira proprio questo volume. Infine alcune annotazioni sulle finalità della presente opera e sui criteri espositivi che si sono adottati. Essendo Tommaso, come tutti i pensatori della sua epoca, fondamentalmente un uomo di fede e un teologo, non è possibile esporre il suo pensiero filosofico senza fare cenno al metodo della sua riflessione teologica e ai principali contenuti della sua teologia. Perciò, pur rivolgendo la nostra attenzione prevalentemente agli elementi filosofici del suo pensiero (che egli ha sviluppato più di quanto abbia fatto la teologia prima di lui e che sono quelli che maggiormente possono interessare tutti), non trascureremo nell'esposizione lo sfondo teologico che dà senso e unità all'insieme della sua opera. Sarebbe assurdo, infatti, nella prospettiva dell'Aquinate, non tener conto dell'incremento anche sotto il profilo meramente conoscitivo apportato dalla rivelazione di Dio stesso. Il fatto che che un contenuto di pensiero non sia considerato esito della ricerca umana non toglie nulla (anzi!) all'interesse che esso riveste per l'uomo. Trascurare la spiritualità e la teologia dell'Aquinate significherebbe, quindi, impedirsi di cogliere la specificità del suo filosofare: egli è filosofo proprio in quanto teologo. Ed è grande filosofo proprio in quanto grande teologo. In un'epoca come la nostra particolarmente attenta alle precomprensioni che sottendono l'attività interpretativa che contraddistingue ogni riflessione filosofica in quanto tale, trascurare questo aspetto sarebbe a maggior ragione imperdonabile. In tale prospettiva questo volume intende essere un'introduzione al pensiero di Tommaso nel suo complesso. L'ordine dell'esposizione del suo pensiero, adottato paradigmaticamente da Tommaso nella Somma teologica , è, come noto, il seguente: natura della teologia, esistenza e attributi di Dio, la creazione, il mondo, l'uomo, l'etica, la cristologia. Pur rispettandolo in linea di massima, non mi atterrò sempre a questo ordine eminentemente teologico al fine di facilitare la comprensione delle principali categorie tommasiane. In particolare: l'esposizione della dottrina della conoscenza umana che, nella prospettiva di Tommaso, estranea all'accentuazione tipicamente moderna dei problemi della critica gnoseologica, rientra nell'antropologia, è stata anticipata onde facilitare, per contrasto, la comprensione della conoscenza divina e della vita trinitaria. Per quanto riguarda i contenuti del pensiero di Tommaso ci si è attenuti preferibilmente alle opere più mature e significative, sottolineando in nota quando sia stata rilevata dalla critica un'evoluzione importante del suo pensiero. Inoltre si è cercato di segnalare pure in nota i luoghi principali delle opere dell'Aquinate in cui un certo tema è presente al fine di facilitare il lavoro di ricerca. Alla fine del volume saranno elencati in ordine alfabetico i saggi critici citati in nota con la sola indicazione dell'autore e della data di pubblicazione (nel caso di opere tradotte in italiano si fa riferimento in linea di massima all'edizione italiana). Data la vastità della bibliografia su Tommaso e, quindi, data la difficoltà di orientarsi in proposito, si è preferito attenersi per ogni paragrafo a quei saggi che sono parsi fondamentali per la chiarificazione delle principali problematiche attinenti il suo pensiero. Per ogni tema si potrà così venire a conoscenza degli studi critici giudicati più fondamentali e aggiornati. Chi volesse approfondire ulteriormente le sue conoscenze bibliografiche potrà consultare i volumi annuali della Rassegna di letteratura tomista. Infine sento il dovere di ricordare, in particolare, alcune persone senza il cui contributo questo volume non sarebbe mai stato pubblicato: innnanzi tutto il Prof. Luca Obertello, condirettore di questa collana, che ha seguito con competenza e amichevole attenzione tutto il mio lavoro scientifico fino alla stesura di questo volume, Padre Georges Cottier o.p. e il Prof. Francesco Botturi che hanno suscitato in me l'interesse allo studio di Tommaso, il Dott. Luca Tuninetti che ha letto con scrupolosa attenzione il dattiloscritto. A tutti loro e a molti altri colleghi e amici, che qui non posso menzionare, va il mio affettuoso ringraziamento. Elenco delle opere di Tommaso e relative abbreviazioni: NB: per quanto riguarda le opere di Tommaso si fa riferimento all'edizione leonina là dove questa è disponibile o ad altre edizioni critiche. Negli altri casi il riferimento è all'edizione Marietti. Per quanto riguarda la traduzione ci si è serviti delle principali traduzioni italiane (indicate in bibliografia) alle quale ci si attiene con una certa libertà. Scriptum super libros Sententiarum magistri Petri Lombardi De ente et essentia Quaestiones disputatae de veritate Contra impugnantes Dei cultum et religionem Expositio in librum Boethii De hebdomadibus Summa contra Gentiles Expositio super librum Boethii de Trinitate Expositio super Dyonisium De divinis nominibus In Expositio in Job "ad litteram" Quaestiones disputatae de potentia Dei Quaestio disputata de anima Quaestiones quodlibetales XII In Sent. De ente De ver. Contra impugnantes In De hebd. CG. In De trin. Div. nom. In Iob. De pot. De anima Quodlibet. Summa theologiae ST. Quaestio disputata de spiritualibus creaturis De spir . creat. Quaestio disputata de malo De malo Contra doctrinam retrahentium a religione Contra retrahentes Compendium theologiae ad fratrem Reginaldum socium suum Comp. theol. Sententia super De anima In De anima Glossa super Evangelia (Catena aurea) Catena aurea Sententia super Metaphysicam In Met. De substantiis separatis seu de angelorum natura ad fratrem Reginaldum socium suum subst. sep. De unitate intellectus contra Averroistas De unitate int. De aeternitate mundi De aeternitate Lectura super Johannem. Reportatio In Joann. Sententia super Physicam In Phys. Sententia super Peri Hermeneias In Peri Herm. Expositio et lectura super Epistolam ad Romanos In Rom. Expositio super librum De causis In De causis In symbolum apostolorum In symb. Sententia super Posteriora Analytica In Post. Analyt. Sententia libri Ethicorum In Eth. Sententia libri Politicorum In Polit. Sententia de caelo et mundo In De caelo De regno (o de regimine principum) ad regem Cypri De regno De 1) Tommaso e il suo tempo L'opera teologica e filosofica di Tommaso d'Aquino si situa in un'epoca in cui il pensiero medioevale e scolastico aveva raggiunto ormai la sua maturità. Benché il suo pensiero sia stato percepito dai contemporanei come profondamente innovatore, esso risente di una secolare tradizione che, pur attraverso un percorso non sempre lineare, dai filosofi greci ad Agostino, Boezio e Dionigi o attraverso il pensiero arabo ed ebraico è pervenuta fino al secolo XIII. In questa tradizione ha un'importanza fondamentale quel filone di pensiero che è stato chiamato "platonismo cristiano" che si rifà, in particolare, all'autorità di Agostino. È significativo rilevare che l'autore cristiano più citato da Tommaso è appunto il vescovo d'Ippona. Il "platonismo cristiano" ha però le sue radici anche nella patristica greca (da Clemente Alessandrino ai Cappadoci) e, in particolare, se si considera l'influsso su Tommaso, in Dionigi e in Giovanni Damasceno. Il filone platonizzante del pensiero medioevale aveva più volte registrato delle "rinascite" nei secoli precedenti il XIII, con Anselmo d'Aosta, con i Vittorini e con la scuola di Chartres. Inoltre attraverso il mondo islamico erano pervenute in Occidente opere che possiamo ugualmente collocare nel filone platonizzante. Fra di esse occorre menzionare, in particolare, il Liber De Causis, scritto arabo attribuito ad Aristotele che, come si accorse per primo lo stesso Aquinate, si rifaceva invece alla Elementatio theologica di Proclo (trattato che fu tradotto negli ultimi anni della vita di Tommaso dal confratello Guglielmo di Moerbecke). Queste opere permettevano una conoscenza quasi di prima mano del neoplatonismo. È importante notare che Alberto Magno, maestro dell'Aquinate a Colonia, aveva risentito fortemente di questa variegata tradizione filosofica. Accanto alle opere citate possiamo collocare nel filone platonizzante anche gli scritti originali di pensatori musulmani quali Ibn sina (Avicenna) ed ebrei quali Ibn Gebirol (Avicebron) e Mosè Maimonide, che erano ben noti a Tommaso. In effetti il cosidetto "agostinismo" del secolo XIII con cui egli dovette fare i conti era ampiamente mescolato a fonti arabe ed ebraiche. Un secondo filone del pensiero medioevale - che possiamo definire in senso lato "aristotelico" e la cui presenza nella riflessione di Tommaso è rilevante - può annoverare come suoi rappresentanti, oltre a Boezio, influenzato pure dal neoplatonismo, i "dialettici" del XI e XII secolo. Questi iniziatori del metodo scolastico avevano operato la prima "riscoperta" del pensiero dello Stagirita dopo l'anno mille: la riscoperta della sua logica. L'applicazione del nuovo impianto logico alla riflessione teologica aveva determinato una peculiare lettura della Bibbia diversa da quella monastica, la raccolta di sententiae ovvero di commenti dei Padri della Chiesa ordinati in base ai temi, la pratica della quaestio come discussione orale, la stesura di quaestiones e, infine, di raccolte o somme (summae) di questioni. Tra queste Summae ha particolarmente influenzato Tommaso quella del francescano Alessandro di Hales (Summa halensis). Ma la seconda e decisiva riscoperta di Aristotele da parte del pensiero medioevale avviene proprio nel secolo XIII, grazie all'introduzione delle opere logiche non ancora conosciute e di quelle "fisiche" e metafisiche dello Stagirita, che fino ad allora erano rimaste quasi completamente ignorate in Occidente. Queste opere erano state commentate nel XIII secolo da un arabo di Spagna: Ibn Rushd (Averroè). Tommaso verrà a conoscenza del pensiero di Aristotele e dei commenti alle sue opere, grazie a maestri quali Pietro d'Irlanda, già durante gli studi giovanili compiuti presso lo "Studium" di Napoli. Inoltre lo stesso maestro Alberto Magno lo educa ad una lettura del testo aristotelico in grado di "lasciar parlare" la lettera dello Stagirita senza sovrapporre eccessivi commenti . Il pensiero di Tommaso si colloca, quindi, esattamente nel punto d'incontro della tradizione medioevale (che in certa misura aveva già attuato una sintesi all'insegna del cristianesimo fra platonismo ed aristotelismo) con la novità rappresentata dal corpus aristotelico. La filosofia dello Stagirita, specie nella sua interpretazione averroista, era percepita dalla cultura del XIII secolo come una visione completa e "scientifica" della realtà, per alcuni fondamentali aspetti eterodossa, con cui occorreva inevitabilmente fare i conti. Alcuni (gli "aristotelici radicali") che facevano capo nell'Università di Parigi alle Facoltà delle arti finirono per accettarla "in toto", ponendo una distinzione insormontabile fra la filosofia e la teologia, fra l'interpretazione della realtà accessibile alla sola ragione e quella che fà riferimento alla fede rivelata. Essi propugnavano, di fatto, una sorta di "pluralismo epistemologico", rinunciando al tradizionale ideale medioevale della "sapientia christiana". La maggior parte dei pensatori dell'epoca furono portati, invece, a rifiutare l'aristotelismo, richiamandosi all'autorità di Agostino, oppure a cercare d'inglobarlo entro una sintesi superiore. Giova precisare che tutti i grandi teologi del periodo, da Alberto Magno a Tommaso fino agli stessi Bonaventura e Duns Scoto, pur tenuto conto delle notevoli differenze che li dividono, rientrano in quest'ultima categoria. Perciò la netta distinzione all'interno del pensiero del XIII secolo di un filone "agostinista" e di un filone "aristotelizzante", del quale farebbero parte Tommaso e la Scuola domenicana, appare forzata e alquanto tarda. Come era d'uso fra gli autori della Scolastica che si rifacevano ad una tradizione di pensiero considerata autorevole, Tommaso ha commentato numerose opere (dai libri della Bibbia agli scritti di filosofi pagani) . Il commento scolastico cercava, suddividendo il testo, di cogliere innanzi tutto il senso letterale, applicando le regole della grammatica, per poi identificare sulla base di quello altri sensi. Nel caso della Bibbia si trattava tradizionalmente del senso spirituale, all'interno del quale si poteva distinguere fra diversi significati: allegorico, morale e anagogico. Fra le opere di Tommaso un particolare genere di scritto è rappresentato dalla Catena aurea sui quattro evangeli in cui sono ordinati in base allo svolgimento dei racconti evangelici i commenti ai vari passi da parte di Padri latini e greci. Come in questo caso, anche per quanto riguarda i commenti alle opere dei filosofi, occorre precisare che, nonostante le limitate conoscenze filologiche del periodo, Tommaso era allora all'avanguardia. Egli cercava di accedere, quando possibile, alle versioni più fedeli dei testi e di confrontarle fra di loro, giovandosi anche dell'aiuto di traduttori quali il confratello Guglielmo di Moerbecke. Un altro genere di opere è dato dalle quaestiones disputatae. Gli scritti dei pensatori di questo periodo conservano un legame vivo con l'insegnamento della teologia e della filosofia come aveva luogo nelle discussioni intorno a svariati problemi (quaestiones) che si svolgevano nelle scuole e nelle Università e alle quali partecipavano docenti e studenti. Dal momento che il commento non si prestava sempre a trattare quei problemi che il maestro e i discepoli potevano porsi, sorse la quaestio, cioè lo sviluppo più ampio di un soggetto preciso che debordava il commento diretto. La disputatio rappresenta "uno stadio ancora ulteriore in questo distacco progressivo nei riguardi del testo, e si tratta di un processo naturale, dovuto alla maturità dello spirito scientifico medioevale e ad una maggiore padronanza del metodo dialettico". Le quaestiones disputatae costituiscono l'espressione più significativa sotto il profilo metodologico e insieme contenutistico della riflessione teologica e filosofica di questo periodo. Esse rappresentano una modalità regolare d'insegnamento , di apprendimento e di ricerca. In esse un determinato problema viene discusso e sviscerato per quanto possibile in tutti i suoi molteplici aspetti. La lingua delle quaestiones era il latino, in quanto idioma degli intellettuali e dell'università europea medioevale. Si può affermare con certezza che il problema in questione (quaestio) era proposto e articolato dal maestro (magister). Nella discussione che seguiva, alle posizioni in favore o contro una determinata tesi sostenute in forza di argomenti di ragione o di autorità, (rappresentate dall' opponens e dal respondens) riassunte dal baccelliere (baccalaureus) e alle quali egli rispondeva, succedeva la soluzione (determinatio) del maestro con la risposta alle diverse obiezioni. Il maestro poteva accettare le soluzioni proposte in precedenza dal baccelliere. In alcune occasioni dell'anno (durante l'Avvento e la Quaresima) anche gli studenti potevano proporre alla discussione delle questioni. Si trattava delle Quaestiones quodlibetales. Le quaestiones potevano poi essere scritte e modificate dal maestro (in questo caso si parla di ordinatio). In particolare la genesi dialogica dell'opera di Tommaso si manifesta soprattutto nell'attenzione rispettosa per la concezione dell'interlocutore, in quanto partecipe dell'unica verità che tutti sovrasta. Si deve discutere, infatti, per meglio comprendere la verità e non per affermare a tutti i costi la propria posizione. Mentre le quaestiones riguardavano gli esperti, le Summae erano rivolte in genere ai principianti. Se la struttura della quaestio evidenzia chiaramente la modalità dialogica di procedere propria del discorso orale, anche le stesse Summae della Scolastica non sono da intendersi come dei Trattati in senso moderno, ma piuttosto, come dice il nome, come delle "somme" di quaestiones ordinate secondo un determinato criterio. A motivo anche del suo legame con la pratica orale il pensiero medioevale non possiede quella preoccupazione sistematica e deduttiva che sarà prerogativa, invece, del razionalismo della modernità. La struttura del saggio la ritroviamo, invece, nei trattati o opuscoli, che sono opere brevi che servono per lo più a rispondere a problematiche la cui soluzione è considerata particolarmente urgente. Infine una considerazione sulla peculiare scrittura di Tommaso che ci è pervenuta in diversi manoscritti. Essa rivela lo sforzo del pensiero di correggersi e di perfezionarsi continuamente, la strenua lotta con la precarietà degli strumenti espressivi. Tommaso, come è stato notato, "non ha nulla del sistematico irrigidito, egli è piuttosto un genio in movimento, in atto di perpetua scoperta". La moderazione e l'equilibrio che lo hanno reso famoso dovevano essere, perciò, esito di una faticosa conquista. 2) Il metodo della riflessione Nell'opera di Tommaso d'Aquino, come in genere negli scritti di quel periodo, le discipline che oggi denominiamo filosofia e teologia si ritrovano in intima correlazione. In particolare: salvo l'eccezione costituita da alcuni Commenti ed Opuscoli di carattere strettamente filosofico, le opere di Tommaso possiedono una finalità ed un impianto eminentemente teologici (contengono cioè essenzialmente un'articolata riflessione razionale su alcune verità rivelate alle quali si presta un'adesione di fede). E a prescindere dalla fede e dalla carità, cioè dalla santità del teologo, non è possibile, secondo l'Aquinate, teologia autentica: "Colui la cui volontà è sollecitata (in virtù della carità) a credere, ama la verità che crede, ad essa ripensa e accoglie i motivi che può trovare a suo favore". A differenza dell'evidenza intellettuale, che si fonda soltanto sui primi principi dell'intelletto, per Tommaso la fede costituisce un'adesione al contenuto dell'annuncio cristiano che è certamente un atto dell'intelletto, ma non essendo questo contenuto evidente, tale adesione richiede pure per essere salda la mozione della volontà sorretta dalla grazia divina. Soltanto nella visione beatifica la conoscenza di Dio acquieterà pienamente l'intelligenza. Tuttavia la fede è pur sempre un "riflettere prestando assenso", cioè conoscenza, adesione al vero, "una certa qual partecipazione in noi della divina verità", la quale anticipa l'eterna visione di Dio. In questa prospettiva fede e ragione non si contraddicono, come avverrà spesso nella modernità, perché la fede è un dono gratuito e immediato che la ragione accoglie e "rimugina" in se stessa. Da questo punto di vista la ragione umana (ratio) può essere considerata come il soggetto della fede. La fede poi trova il suo necessario compimento nella carità, intesa come "una certa qual amicizia dell'uomo con Dio" e possibile in forza della sua Grazia. La carità costituisce, così, per Tommaso la "forma" e il fine di tutte le virtù e dell'intera esistenza umana. Essa unifica la vita dell'uomo e diventa al suo culmine esperienza mistica di unione con Dio. In particolare la carità permette la maturazione della virtù della sapienza (sapientia) come dono, vertice della perfezione umana in questo mondo, la quale secondo il suo primo biografo era continuamente invocata da Tommaso nella preghiera. Grazie alla "sapienza come dono", l'uomo è in grado di partecipare della stessa conoscenza divina e di giudicare in base ad essa. Qui emerge la radicale dimensione "sapienziale", biblica e agostiniana, insita nel pensiero di Tommaso, che sottende il suo "intellettualismo" scolastico e che è stata troppo spesso trascurata nelle presentazioni della sua figura. È tale sottofondo di esperienza a svolgere una funzione regolativa, incoraggiando da un lato la ricerca intellettuale, ma impedendo dall'altro l'eccessivo intellettualismo, in particolare la tendenza a non selezionare le domande, che emergerà prepotentemente nella successiva scolastica. Se la carità è il principio della sapienza, essa stimola pure a diffondere e a comunicare la sapienza agli altri uomini: "...di suo la vita contemplativa è superiore a quella attiva occupata in attività materiali. Ma la vita attiva con la quale uno, predicando e insegnando, comunica agli altri le verità contemplate è più perfetta della vita in cui si contempla soltanto, perché essa presuppone la sovrabbondanza della contemplazione. Ecco perché Cristo scelse questo genere di vita". In conformità con la massima della spiritualità originaria dell'ordine domenicano ("contemplata aliis tradere"), la prima forma di carità è per Tommaso la carità intellettuale: la parola di Dio che viene meditata e rimuginata nel silenzio vuole essere comunicata ad altri. Come è stato osservato "Nonostante un pesante lavoro di insegnante e di autore, Tommaso non è mai venuto meno ai suoi doveri di carità intellettuale ed è là uno degli elementi della su santità. Per chi cercasse i mezzi che ha potuto mettere in opera per giungervi, il segreto non si trova in ascetismi o in devozioni particolari, esterne alla sua esistenza d'intellettuale, ma piuttosto nel concreto del suo esercizio". La spiritualità cristiana di Tommaso può definirsi come una spiritualità "eucaristica", poiché si contraddistingue per la consapevolezza della sempre rinnovata "presenza reale" di Gesù Cristo nella storia. Dal momento che Cristo coincide con la Verità in cui il mondo è stato creato (non a caso Tommaso paragona Cristo ad un libro in cui è racchiusa tutta la conoscenza) , non occorre cercare altrove la sapienza: l'unione con Lui attraverso la fede permette di possedere implicitamente la chiave dell'intelligibilità del reale, la certezza della sua intrinseca luminosità. Di qui nasce il desiderio di esplicitare e approfondire sempre di più la ragionevolezza o la verità di cui che già si crede per fede, ma che ancora non acquieta pienamente la ragione. L'intelligenza della fede costituisce così, in questa vita ("in via"), una sorta di anticipazione ed insieme di "caparra" della visione di Dio che si avrà soltanto nell'altra e beata vita ("in patria"). In questa prospettiva si comprende come la fede per Tommaso non solo non sia estranea alla conoscenza e alla ricerca intellettuale e filosofica, ma permetta di vivificarle e di trasformarle intimamente, come l'acqua nel miracolo di Cana è stata interamente mutata in vino. Lo sforzo di comprensione teologica "ha perciò il compito di considerare tutto alla luce di Dio, sia perché si tratta di Dio stesso, sia perché tutto è preordinato a Dio come origine e fine. È chiaro che Dio è il soggetto dela Sacra dottrina". Nella sacra doctrina tutto viene considerato alla luce di Dio sia dal punto di vista speculativo, sia dal punto di vista pratico. Come è stato osservato, "quanto sia vertiginoso questo programma lo si nota da un piccolo dettaglio: Tommaso intende la sacra doctrina al tempo stesso come parola rivelatrice di Dio e come sforzo umano di comprensione. La parola rivelante di Dio diventa sapienza dell'uomo, che questi deve ora cercare di capire più da vicino con grande passione". Se Cristo costituisce il polo su cui s'incentra la spiritualità di Tommaso, Egli lo è in quanto Mediatore che rivela il mistero del Padre, la sua carità fontale e la vita trinitaria di Dio a partire dalla quale soltanto acquistano senso , come si cercherà di mostrare, la creazione e la vicenda umana. In questa prospettiva si può affermare sinteticamente che le missioni divine ad extra si spiegano secondo l'ordine delle processioni delle persone divine ad intra. Non deve stupire, perciò, che il disegno della teologia di Tommaso sia ritmato dalla logica dell'exitus-reditus ovvero dell'uscita del mondo dal Dio-Trinità e del suo ritorno a Lui. Tale disegno, prima che influenzato dalla metafisica circolare del platonismo, è schiettamente cristiano: Dio è l'Alfa e l'Omega della creazione. In questa concezione l'universo delle creature appare animato da un dinamismo di fondo che può permettere d'integrare senza problemi il divenire storico all'interno della considerazione teologica. Tommaso è il teologo della creazione per eccellenza: a prescindere dall'orizzonte ermeneutico costituito dal mistero della creazione non si spiega, ad esempio, il ruolo che la dimensione sacramentale assume nella sua spiritualità. Ma nella tematizzazione della creazione risiede anche la radice della sua grandezza in quanto filosofo. In realtà quanto prima osservato sul carattere essenzialmente "teologico" delle principali opere di Tommaso non toglie che in esse si possa agevolmente distinguere, assai più che in quelle di altri pensatori contemporanei e sulla base di una differenza di metodo riconosciuta esplicitamente dallo stesso Aquinate, la presenza oltre che di verità che oggi diremmo di carattere esclusivamente "teologico" (in senso stretto), cioè che si possono conoscere soltanto grazie alla Rivelazione (ambito del "rivelato"), anche di verità "filosofiche" che, seppur di fatto rivelate, sono raggiungibili di diritto anche per mezzo della sola ragione naturale (ambito del "rivelabile"). A motivo della fragilità della condizione umana è opportuno, secondo Tommaso, che pure alcune fondamentali verità raggiungibili dalla ragione naturale, quali l'esistenza di Dio, siano state rivelate all'uomo. Mentre la filosofia procede dalla considerazione delle creature per ascendere a Dio, la teologia si fonda invece sulla conoscenza di Dio che si consegue attraverso la sua rivelazione per chiarificare, per quanto è possibile, il Mistero divino e per leggere il mondo a partire da esso. Benché neppure la teologia permetta di attingere la conoscenza dell'essenza divina (essa prende spunto pur sempre dagli effetti di Dio), tuttavia essa costituisce per Tommaso la sapienza o scienza per eccellenza. Essa è scienza, come lo sono la musica e la prospettiva, in quanto i suoi principi sono conosciuti alla luce di una scienza superiore: quella di Dio e dei beati. Inoltre, poiché si fonda sulla rivelazione divina, essa supera in dignità le altre scienze: "La scienza sacra supera le altre scienze speculative. Quanto alla certezza, perché mentre le altre scienze la derivano dal lume naturale della ragione umana che può errare, essa la trae dal lume della scienza di Dio che non può ingannarsi. Parimenti le supera per la dignità della materia, perché essa si occupa prevalentemente di cose che per la loro sublimità trascendono la ragione; le altre viceversa trattano di cose accessibili alla ragione" . In questa prospettiva la teologia ricorre ad argomentazioni squisitamente filosofiche per provare quelle verità di fede che possono tuttavia essere raggiunte anche per mezzo della sola ragione naturale e che costituiscono, perciò, dei veri e propri preamboli della fede (l'esistenza di Dio, la sua unità ecc.). Inoltre onde trattare di misteri quali la vita intima di Dio la teologia ricorre talora ad ipotesi interpretative di derivazione filosofica che siano coerenti in linea di principio con il contenuto della Rivelazione. Così pure essa ricorre alla filosofia per rispondere agli attacchi contro la fede, mostrando la loro inconsistenza o la loro falsità, dal momento che non vi può essere contraddizione, nella prospettiva di Tommaso, tra una verità di fede ed un'autentica verità naturale. Come è stato felicemente notato, secondo l'Aquinate, "una teologia cristiana fatta bene dovrebbe dire più e migliori cose intorno a temi riguardanti la filosofia di quanto i filosofi stessi possano dire. Se una teologia cristiana non può fare questo, Tommaso non la giudicherebbe una teologia ben fatta". Compito della filosofia, come precisa Tommaso, non è tanto conoscere che cosa gli uomini abbiano pensato riguardo ad un determinato problema, ma, piuttosto, comprendere come le cose stiano effettivamente. In questa prospettiva la filosofia non può mai ridursi ad essere prevalentemente storia della filosofia. Per quanto riguarda il metodo, a differenza di Descartes Tommaso non pensa che qualcuno possa progredire in filosofia se non per mezzo della tradizione. "Questo sentimento coincide in parte con il profondo sentimento dell'occidente latino del suo debito nei confronti degli antichi, con i quali pensava di essere in un rapporto di continuità. Ma, ancor di più, esso è, in Tommaso, un segno dell'umana fragilità della ragione". Tuttavia l'autorità in filosofia svolge un ruolo assai diverso rispetto a quello che svolge in teologia: "per il credente l'autorità della Rivelazione nella Scrittura e nella tradizione è definitiva...ci si può differenziare per quanto concerne la sua interpretazione, ma il credente non può dubitare del fatto che la rivelazione è il fondamento di ciò che è manifesto alla fede...In filosofia, invece, l'autorità delle tradizioni non è definitiva, ma originaria e pedagogica. Si viene a sapere molto del mondo attraverso le tradizioni". I discorsi delle tradizioni sono per Tommaso come per Aristotele opinioni comuni, che devono essere esaminate dialetticamente per giungere ai primi principi della dimostrazione. Il procedimento filosofico tende ai principi "primi" della realtà, non ulteriormente riducibili, attraverso l'analisi (resolutio) che passa dal complesso agli elementi semplici che lo costituiscono e lo causano . Come è stato osservato, "nella costruzione di qualsiasi scienza dimostrativa, noi argomentiamo sia a partire da ciò che consideriamo, spesso correttamente, delle verità subordinate, per giungere ai primi principi (Commento all'Etica I, XII) sia dai primi principi per arrivare alle verità subordinate (Commento al De trinitate VI, 1, ad 3). E in questo tentativo di arrivare a comprendere quali siano le premesse che asseriscono ciò che è vero in sé, così da svolgere il ruolo di primi principi, approfondiamo continuamente la nostra comprensione di questi primi principi e correggiamo gli errori in cui tutti tendiamo a cadere". Benché, secondo Tommaso, i primi principi costituiscano le evidenze (per se nota) su cui si basa ogni conoscenza, essi non sono pienamente conosciuti all'inizio cosicché tutti i casi specifici possano essere dedotti da loro. Il metodo filosofico non coincide con l'esercizio della deduzione a partire da certe premesse. Al contrario, la conoscenza dei primi principi è approfondita continuamente attraverso i casi concreti, cioè attraverso la loro applicazione per via dialettica nel tentativo di rispondere agli interrogativi della ricerca. Sul piano filosofico-metafisico l'applicazione del metodo risolutivo permette di pervenire ai primi principi dell'ente e, per via di causalità e di analogia, ad affermare l'esistenza di Dio e di alcuni suoi attributi. Prerogativa del metodo teologico è, invece, la sintesi (compositio), dal semplice al complesso, dai principi alle conseguenze, da Dio al mondo. A ben vedere, non soltanto sul piano strettamente teologico, ma anche su quello che oggi definiremmo filosofico ha luogo nella riflessione tommasiana - ma solo entro limiti bene determinati - una compositio a partire dal Principio primo della realtà. La prospettiva delle sostanze esclusivamente spirituali e di Dio stesso raggiunta attraverso l'analogia per mezzo di affermazioni e di successive negazioni - permette, infatti, una rinnovata considerazione della struttura del mondo. Si genera così una sorta di circolo ermeneutico che arricchisce la conoscenza della realtà. Tommaso rivela una sorprendente capacità di concepire diverse prospettive conoscitive sul reale . Questa capacità si fonda sia sulla sua convinzione realistica dell'intrinseca autonomia e intelligibilità dell'essere sia sulla sua concezione partecipativa della realtà e della gerarchia delle intelligenze che chiariremo più avanti. L'ordinamento delle discipline filosofiche si snoda, secondo Tommaso, dalla fisica alla psicologia alla metafisica. La metafisica è la prima fra tutte le scienze, benché sia l'ultima ad essere da noi conosciuta. A partire dalla fisica si risale dagli effetti alle prime cause per mezzo delle dimostrazioni quia . Quindi, avendo raggiunto le prime cause in metafisica, noi dimostriamo a partire da quelle (propter quid ) i loro effetti. Non v'è, in questo caso, circolo vizioso poichè i principi del processo ascendente e di quello discendente sono fra di loro distinti da un punto di vista pedagogico. In realtà tutta la gerarchia delle scienze, considerata nel suo complesso, assume un significato pedagogico. Infine gli oggetti propri del metafisico si fondano su principi che egli non è in grado di conoscere in quanto metafisico. A questo punto, una volta che si ammetta la Rivelazione, si apre lo spazio della teologia. Come già per Aristotele, elemento fondamentale del pensiero filosofico di Tommaso è la distinzione fra "intelligibilità" e "luminosità" di una realtà in sé stessa e "intelligibilità" e "luminosità" "per altri". Egli nota, infatti, procedendo oltre l'intuizione stessa dello Stagirita, che benché certe realtà superiori non possano essere da noi adeguatamente comprese, come il sole non può essere visto dalla nottola, tuttavia, per la loro intrinseca intelligibilità, esse possono essere conosciute da intelletti superiori, come il sole può essere visto dall'aquila. Il primato dell'essere, la serena fiducia nella sua costitutiva intelligibilità (che è l'opposto della pretesa razionalistica di comprenderlo esaustivamente con il pensiero umano) donano al discorso di Tommaso quel particolare stile che richiama per certi aspetti l'aurorale apertura al mondo che ritroviamo nei quasi contemporanei affreschi di Giotto. Benché questo non appaia sempre evidente a motivo del formalismo del modo di procedere scolastico, in Tommaso sia la teologia che la filosofia con la loro esigenza di rigore concettuale si sviluppano a partire da un'esperienza originaria dell'essere nella sua pienezza e varietà. Il pensiero procede attraverso continui giudizi e riflessioni che esplicitano quanto è implicito nell'esperienza. Tale esperienza è, sempre e innanzi tutto, percezione non dei propri stati d'animo soggettivi o delle proprie "idee" (come entro una prospettiva fenomenistica), ma dell'essere (ens) che si manifesta al pensiero. E` l' ens la causa della nostra conoscenza di esso. Questo realismo dona al pensiero di Tommaso un'inconfondibile accentuazione rivelativa, lontana da ogni astratto formalismo che pretenda di dettar legge all'essere e che si manifesta, invece, nel continuo tentativo di adattare il concetto alla realtà. Così si spiega quel peculiare e frequente uso del quodammodo nelle definizioni che riflette una ricerca instancabile e mai pienamente soddisfatta di formule che siano le più fedeli possibile all'essere . Come è stato giustamente notato, nel discorso di Tommaso "la chiarezza delle parole non cela il mistero delle cose". Se approfondiamo la natura del realismo tommasiano, esso implica che tutto l'uomo (quindi la tendenza -appetitus , la dimensione affettiva e non soltanto la sua ragione) sia accordato con la realtà tutta intera. V'è una adesione apriorica, un consenso all'essere e, in ultima analisi, a Dio che precede ogni sentimento di attrazione o di repulsione nei confronti della realtà . Senza tale previo consenso sul piano radicale dell'esperienza non si spiega la peculiarità del realismo di Tommaso. Giova notare, infine, che il realismo conoscitivo e il rigore formale del metodo, oltre a rispondere ad esigenze della ragione filosofica, sono pure richiesti dalla concezione del cristianesimo e della teologia propria di Tommaso. L'adesione di fede, infatti, non riguarda mai le parole, ma la realtà, cioè i contenuti che le parole esprimono. In questa prospettiva pure il rigore logico dell'argomentazione caratteristico del metodo scolastico, riflesso della esigenza di verità, di adeguazione al reale propria della ragione umana, è per Tommaso essenziale anche sul piano apologetico. L'eresia, infatti, può derivare da un cattivo uso delle parole, ed una verità di fede , se male argomentata sul piano filosofico e teologico, può provocare l'irrisione degli infedeli. Questa sottolineatura distingue nettamente l'atteggiamento di Tommaso rispetto a quello di tanti teologi "ortodossi" anche suoi contemporanei che non badavano a ricorrere anche ad argomenti deboli sotto il profilo razionale, purché avallassero determinate verità di fede. 3) L'apprensione dell'ente Qualsiasi conoscenza umana è sempre conoscenza dell'essere in quanto "qualcosa che è", ossia ente o essente (ens). Noi facciamo uso della parola ente che deriva direttamente da quella latina. E` importante però cogliere il significato che questa parola ha nel pensiero dell'Aquinate, indipendentemente da quello che essa può assumere nell'uso corrente. Afferma Tommaso: "Essendo l'ente ciò che per primo viene concepito dall'intelletto, qualsiasi cosa che si presenta all'intelletto deve essere intesa come ente e di conseguenza come uno, vero, bene". Decisivo è comprendere che con ente s'intende sempre "ciò che è", "ciò che esiste" a prescindere dalla nostra conoscenza di esso, ciò che, come vedremo, esercita l'"atto d'essere". E' stato giustamente notato che "a volte si pensa che la nozione di ente sia il risultato di un'elaborazione filosofica, teorica e astratta: una specie di modello nel quale si pretende poi di inquadrare la realtà delle cose. Invero è tutto il contrario: `ente è quello che è'...In altre parole al di fuori dell'ente non c'è niente: tutto quello che è, è ente. Dunque un ente sono io; ente è il lettore di queste pagine, ente è questo libro ecc. Poi verrà l'idea astratta di ente, applicabile sia a me, come al lettore, come al libro, come a qualsiasi cosa che esista, che sia". Una volta appreso l'"ente", ad un'ulteriore riflessione emerge che questo lo si coglie sempre grazie alla sua energia esistentiva in necessaria opposizione al nulla (che è un mero ente di ragione). Non a caso Tommaso afferma che all'apprensione dell'ente segue immediatamente quella del non essere. Insieme all'affermazione della realtà dell'ente l'intelletto coglie, mediante un giudizio ben preciso, che non è possibile che qualcosa sia e non sia nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto (principio di non contraddizione). Sull'attualità dell'ente e sulla radicale esclusione del non essere (quindi su base ontologica e non meramente logica) si fonda il principio di non contraddizione. In sintesi: sembra che per cogliere il significato ente in quanto tale, occorre, insieme, una percezione della sua energia esistentiva (aspetto non concettualizzabile adeguatamente perché connesso, come si vedrà, all'atto d'essere) e, in forza di questa, del suo opporsi al non essere (aspetto concettualizzabile perché connesso all'essenza). Senza cogliere la dimensione esistentiva (cha fa essere), l'ente si riduce al piano della sua determinazione (con il conseguente rischio dell'essenzialismo), ma senza affermare la sua opposizione al non essere, l' ens non emerge in quanto determinato (quel dato ente con quella particolare determinazione-ens). Questo avviene perché si coglie sempre l'ente come composizione di essenza + atto d'essere, mai l' atto d'essere da solo. Per cogliere l'ente nella sua concretezza e analogicità (determinate dalle dimensioni della molteplicità e del divenire) occorre riflettere sull'integralità del processo conoscitivo che permette tale apprensione. Una riflessione parziale, che non tematizzi in particolare il momento del giudizio, fermandosi al piano dell'astrazione del concetto, finisce per porre uno iato incolmabile fra l'idea dell'ente e l'ente in quanto tale. L'ente è considerato da Tommaso un trascendentale, cioè una nozione comprensiva di tutto ciò che esiste, in quanto "trascende" e comprende tutte le categorie e determinazioni in cui la realtà si articola. Non appena si coglie un singolo ente in quanto tale, si apre immediatamente la dimensione trascendentale. Essendo come tutti i trascendentali una nozione prima, l'ente non può essere definito in senso stretto, cioè con qualcosa di previo, ma può essere determinato soltanto in modo indiretto per mezzo delle sue implicazioni. Nulla sfugge alla dimensione dell'ente, il quale non è neppure un genere, poiché a differenza del genere comprende tutte le possibili specificazioni in cui si manifesta (le quali sono pur sempre ente). In quanto si attua secondo molteplici forme o determinazioni, pur restando sempre se stesso, l'ente si rivela come analogo, sfuggendo sia all'univocità (che si ha quando ad un nome corrisponde un unico significato) che all'equivocità (che ha luogo quando ad un nome corrispondono più significati diversi). In particolare: Tommaso distingue due tipi di analogia: quella di proporzionalità (proporzione fra due rapporti) che deriva dalla geometria e che ritroviamo essenzialmente nelle Quaestiones de veritate e quella di attribuzione (di derivazione aristotelica) ricorrente nella maggior parte delle sue opere. In quest'ultimo caso da un attributo o analogato principale si ricavano gli altri analogati. Si distingue poi fra attribuzione estrinseca (è il caso del nome dell'aggettivo sano attribuito innanzi tutto al corpo e, di conseguenza, anche al colorito (effetto) e alla medicina (causa)) o di attribuzione intrinseca (è il caso dell'essere attribuito in primis alla sostanza, che è l'ente per eccellenza, e di conseguenza anche agli attributi o accidenti della sostanza). L'analogia di attribuzione intrinseca o di rapporto è quella che vale soprattutto per l'essere. L'analogia dell'essere svolge un ruolo essenziale nella metafisica di Tommaso. Come è stato notato: "Il fondamento della dottrina tommasiana dell'analogia è la nozione secondo cui un termine può essere veramente predicato di molte cose diverse secondo un ordine di priorità e di posteriorità, cioè secondo una gerarchia. La gerarchia richiede che le predicazioni siano ordinate ad un caso o ente centrale. L'ordinamento è fondato quando il linguaggio che si adotta per esprimere l'analogia è esso stesso costruito fra i più bassi livelli della gerarchia - come nel caso del linguaggio umano applicato a Dio. Quindi l'ordinamento degli analogati inferiori verso quelli più elevati s'incrocia con l'ordinamento sotto il profilo linguistico di tutte le istanze al fine inferiore e sensibile. Gli ordinamenti incrociati determinano la dialettica fra origine sensibile e fine metafisico. Tale dialettica regola l'uso di ogni termine in metafisica. Essa non può trovare soluzione, ma la si può rendere fruttuosa precisamente come un'intenzione nei riguardi del fine, nei riguardi della sfera del metafisico. La gerarchia dei casi intelligibili, implicita in ogni analogia metafisica, suggerisce la possibilità intenzionale che lo Pseudo Donigi formula teologicamente. Si tratta della possibilità di considerare la gerarchia dinamicamente come una pedagogia. La stessa possibilità è esplicitamente presente nella gerarchia delle scienze". Una volta definiti alcuni caratteri fondamentali impliciti nella nozione di essere, consideriamo come si perviene alla conoscenza dell'ente. Nel pensiero di Tommaso la dimensione dell'analisi introspettiva svolge un ruolo fondamentale che permette - tra l'altro - di formulare la sua concezione della conoscenza. In questa prospettiva, se si distinguono attraverso un'apposita riflessione diversi momenti all'interno di un processo conoscitivo che costituisce complessivamente un tutto, emerge che l'ente è colto per mezzo della sensibilità, dell'astrazione (o prima operazione dell'intelletto) e, nel modo più consapevole, per mezzo del giudizio (seconda operazione dell'intelletto). Nel caso dell'uomo, che è composto anche di corpo, la conoscenza ha sempre origine dalla sensibilità : l'oggetto proprio della conoscenza umana è l'ente materiale percepito nella sua particolare determinazione attraverso i sensi (quidditas rei sensibilis) . Nonostante la tendenza costitutiva dell'intelletto, grazie proprio alla sua capacità di astrarre la nozione di ente, a trascendere il mondo naturale, l'ente corporeo e mutevole costituisce, quindi, per Tommaso come già per Aristotele, l'oggetto adeguato della conoscenza umana. Ogni conoscenza ha inizio dai sensi in base al principio secondo cui "nulla è nell'intelletto che non sia prima stato nel senso". Ciò significa che per Tommaso la sensibilità non costituisce soltanto l'occasione affinché le specie intelligibili siano ricevute dall'intelletto umano come nella concezione platonizzante di Avicenna, ma la dimensione stessa da cui si ricavano (per astrazione) le specie intelligibili. Che sia così emerge sia dalla constatazione che altrimenti da qualsiasi percezione sensibile si potrebbe ottenere la scienza di ogni cosa sia dall'esperienza che l'intelletto umano utilizza le immagini delle cose sensibili non soltanto per acquisire la scienza, ma anche per fare uso della scienza già acquisita. La sensibilità, articolata in sensi esterni e sensi interni, non è come spesso ritiene il pensiero filosofico della modernità, una facoltà puramente passiva. Alla modificazione dell'organo di senso (aspetto fisiologico) fa seguito un mutamento spirituale della potenza sensitiva (aspetto conoscitivo) per mezzo di cui la forma (species) sensibile, immagine (similitudo) della cosa, si manifesta nella sensazione che è l'atto comune del sensibile e del senziente. La sensibilità possiede, così, una sua intenzionalità che fonda il realismo della conoscenza. L'intelletto attivo, infatti, astrae dal phantasma (che è il prodotto ultimo dell'attività sensitiva, in particolare dei sensi interni e della cogitativa) la species intelligibilis o similitudine intelligibile dell'oggetto, la quale "pone in atto" l'intelletto passivo, che a sua volta elabora il concetto universale (conceptio intellectus, verbum mentis, verbum interius). Si tratta della prima operazione dell'intelletto. Nella riflessione dell'intelligenza sui dati dei sensi (reditio ad phantasmata) il concetto è connesso all'immagine sensibile da cui è tratto onde poter conoscere l'individuo o, meglio, l'universale come sussistente nell'individuale. È significativo della particolare condizione della ragione umana il fatto che, per cogliere attraverso l'astrazione i significati universali, l'uomo debba necessariamente ricorrere ad esempi concreti, presenti o memorizzati, che rivelino la presenza dell'universale nell'individuale. Associando fra di loro i concetti nel giudizio (seconda operazione dell'intelletto), questo si pronuncia su come stanno effettivamente le cose in realtà. Sulla base del giudizio è possibile attuare un nuovo atto di astrazione e così via. Occorre distinguere, quindi, quando si legge il testo di Tommaso, fra un primo livello di astrazione che permette di cogliere, pur confusamente, un qualcosa, e una dimensione più elaborata dell'astrazione, esito di ricerca, che permette di determinare e approfondire le prime e più vaghe nozioni. In altri termini: l'astrazione non coincide con l'apprensione automatica della determinazione o quidditas. In tutto questo processo la continuità esistente fra la realtà conosciuta, la species sensibilis e il verbum (somiglianza - similitudo della cosa) garantisce il realismo della conoscenza. Frutto dell'astrazione come pure del giudizio è il concetto (verbum) che solo permette all'uomo la comprensione di qualcosa. Grazie al verbum, infatti, l'intelletto passa dall'identità intenzionale inconscia con il suo oggetto al confronto con esso in quanto concepito (conceptus). Sotto l'influsso della teologia trinitaria di Agostino, il verbum svolge nella dottrina della conoscenza di Tommaso un ruolo assai maggiore che in Aristotele. Mentre la dimensione del concetto (verbum interius) è esito di un processo naturale che accomuna tutti gli uomini e permette la comprensione fra di loro al di là delle differenze linguistiche, la sua espressione verbale o parola (verbum exterius) ha un'origine convenzionale. Di qui la diversità dei linguaggi umani. Consideriamo ora più approfonditamente alcune fondamentali caratteristiche del processo conoscitivo secondo Tommaso. Già la sensibilità, come a maggior ragione i livelli superiori della conoscenza umana, richiede un certo grado di immaterialità. Perché il senso possa entrare in funzione è richiesta una modificazione spirituale in base a cui l'intenzione della forma sensibile (intentio formae sensibilis) si produce all'interno dell'organo di senso. Questa modificazione consiste nel possedere intenzionalmente le forme delle cose che si conoscono. Intenzionalmente, cioè secondo una modificazione che non interessa il soggetto conoscente tranne che per orientarlo verso ciò che non è lui, preservando l'alterità sotto il profilo ontologico, nonostante l'identificazione sul piano intenzionale. La dimensione intenzionale della conoscenza trova poi la sua esaltazione nell'attività conoscitiva propria dell'intelletto aperto all'universale. La continuità del processo conoscitivo, dalla sensibilità ai livelli più elevati di immaterialità prerogativa dell'intelletto, si evidenzia particolarmente nella funzione svolta dalla cogitativa o ratio particularis, facoltà che, pur rientrando nella sfera sensibile, partecipa già di quella intellettuale spirituale, svolgendo una decisiva funzione di mediazione fra le due. La cogitativa, infatti, per mezzo di un moto affettivo coglie il significato individuale dei singoli enti e dispone, così, ad apprendere i concetti o significati universali. Ogni conoscenza richiede poi che, innanzi tutto noi siamo modificati dalle cose che conosciamo, che sia prodotta in noi dalle cose una modificazione che è condizione soggettiva del conoscere, la species . Essa è ciò per mezzo di cui si conosce, non ciò che si conosce (medium quo, non medium quod) come sarebbe invece in una prospettiva di tipo fenomenistico. L'intelletto astrae l'essenza specifica della cosa naturale dalla materia sensibile individuale, ma non dalla materia comune. Ad esempio: esso astrae l'essenza specifica di quest'uomo, lasciando da parte la sua carne e le sue ossa, che non appartengono alla sua essenza specifica, ma sono le parti dell'individuo secondo Aristotele. Ma la specie uomo "non può essere astratta ad opera dell'intelletto dalla carne e dalle ossa". Ciò significa che soltanto l'intelletto è in grado di trarre dal sensibile ciò per cui esso può essere intelligibile. In opposizione ad ogni platonismo l'universale come tale non sussiste mai nella realtà. Il processo astrattivo coglie effettivamente le singole determinazioni degli enti (quidditas rei sensibilis) a partire dai loro accidenti, permettendo così di distinguerle; esso, tuttavia, non è in grado, secondo Tommaso, di comprendere in modo esauriente le essenze e, in particolare, le essenze sostanziali, cioè il fondamento ontologico delle singole determinazioni naturali ("non si può comprendere l'essenza neppure di una sola mosca"). Occorre precisare che nella prospettiva tommasiana l'astrazione deve essere pensata non soltanto e non soprattutto come un limite dell'intelligenza umana, che non è in grado di intuire le essenze, ma come un segno della sua grandezza. A differenza degli altri animali soltanto l'uomo è in grado di far emergere i significati universali che sono nella realtà e che permettono la conoscenza di essa e la comunicazione con i propri simili. Nel giudizio poi, in quanto intellezione riflessa, si acquista piena consapevolezza dell'esistenza di un ente, già colto dalla sensibilità e dall'astrazione (intellezione diretta), esplicitando quanto è già implicitamente presente in quest'ultima. Ciò avviene "dividendo" e "componendo" soggetto e predicato che nella realtà coincidono in un unico ente concreto. Perciò il giudizio è, per Tommaso, il luogo dove emerge consapevolmente la verità quale adeguazione dell'intelletto e della cosa (adaequatio rei et intellectus) e in cui, a causa della sua complessità, è pure maggiormente possibile l'errore. Nello stesso atto del giudizio e, più in generale, nel rapporto conoscitivo, affettivo e pratico con la realtà la persona acquista consapevolezza della sua esistenza, benché non possa mai - neppure lei - conoscere in modo esauriente la sua essenza. È segno della finitudine dell'uomo il fatto che (a differenza di quanto avviene nelle "sostanze separate" e soprattutto in Dio, per il quale conoscersi e conoscere coincidono) la conoscenza di sé stesso, benché diventi "abituale", si acquisisca solo agendo e rapportandosi ad altro da sé. Infatti, dal momento che l'intelletto umano passa continuamente dalla potenza all'atto (e soltanto ciò che è in atto è intelligibile), esso non può conoscere se stesso se non è in atto d'intellezione, cioè se non è unito ad una specie intelligibile. L'uomo prima conosce l'oggetto, quindi, riflettendo, il suo atto conoscitivo e infine, l'intelletto stesso che conosce. Egli, quindi, si conosce non immediatamente, ma riflettendo sui suoi atti. Il fatto che l'uomo conosca l'esistenza della sua anima in quanto singolo individuo non implica che egli abbia una conoscenza dell' essenza della sua anima. L'anima comprende la sua propria natura ragionando a partire dalle nature delle altre cose. Riflettendo sulla dimensione universale delle nature conosciute, la mente inferisce che ciò che è conosciuto è immateriale. Dall'immaterialità dell'intelligibile essa inferisce ulteriormente la sua propria immaterialità e sussistenza. Tale percorso circolare è richiesto dalla debolezza della mente umana. La conoscenza mediata della propria essenza permette poi di pensare per analogia anche le sostanze esclusivamente spirituali e Dio stesso. Ritornando all'esposizione del processo della conoscenza umana, più giudizi fra di loro connessi, costituiscono il ragionamento (discursus), che è la condizione che rende possibile ogni scienza. Il ragionamento permette di raggiungere mediatamente e faticosamente verità che non sono immediatamente evidenti e di conoscere, così, sempre meglio le determinazioni della realtà. Secondo Tommaso il ragionamento sta all'intellezione nello stesso rapporto che il movimento al riposo, che l'acquisizione al possesso. Ogni dinamismo, infatti, ha un principio e un fine tra i quali v'è il movimento. Nel processo conoscitivo l' intellectus (momento intuitivo da intus-legere ) corrisponde al principio e al fine, la ratio (momento discorsivo) al movimento. Si parte da una conoscenza universale, necessaria, immediata dell'ente, possibile grazie all'atto d'essere che lo attua (intellectus entis et primorum principiorum che diventa habitus principiorum), frutto di astrazione dai dati sensibili, che è pure una conoscenza imperfetta, implicita, confusa, potenziale, coincidente con il livello proprio dell'esperienza. Essa esige di essere esplicitata, chiarita, distinta, attuata dal momento che, se l'intuizione dell'essere in quanto contrapposto al nulla è chiara, tuttavia le essenze non si manifestano immediatamente allo spirito: di qui il ruolo della mediazione del giudizio e del ragionamento che chiarificano ed esplicitano ciò che nell'esperienza dell'ente è implicito e semplice. Per chiarire quella zona d'ombra che sempre accompagna l'intuizione umana dell'ente, l'intelletto da intuente si fa discorrente (ratio). È costretto, infatti, a ritornare in sé stesso, a confrontare le cose, a mettere a fuoco i singoli particolari, a correre da un particolare all'altro (dis-currere). Soltanto i primissimi giudizi, connessi all'apprensione dell'ente, sono principi universali e necessari, immediatamente conosciuti da ogni uomo (innanzi tutto l'aristotelico principio di non contraddizione sul piano speculativo e l'imperativo di fare il bene e di evitare il male sul piano pratico). I primi principi non sono come le idee un risultato dell'esperienza: essi sono presenti in germe, a mo' di "semi del sapere", ancor prima di qualsiasi esperienza, ma la mente ne prende coscienza soltanto attraverso l'impatto con l'esperienza sensitiva. Che i primi principi siano immediatamente evidenti (per se nota) non significa che si sia sempre in grado di enunciarli esplicitamente. Al'interno dell'unica facoltà razionale, a differenza dell' intellectus (momento della necessità, dell'universalità, dell'atemporalità), la ratio come discursus rappresenta il momento discorsivo della mediazione, della temporalità, della storicità, della cultura. Sul piano della volontà, mentre l' intellectus corrisponde al momento della necessaria appetizione del bene, fondamento del libero arbitrio, la ratio corrisponde al momento della deliberazione, contraddistinta pure dal discurrere. Nell'attività della ratio giocano pure un ruolo decisivo la volontà libera, la verità pratica, la capacità di formarsi e di esercitare degli abiti-virtù intellettuali (quali la scienza), soprattutto per ciò che concerne la vita pratica (cfr. la saggezza pratica o prudentia ) come pure degli abiti-virtù morali. Occorre voler ricercare, acquisire le disposizioni morali ed intellettuali per poterlo fare. La speranza anima il finalismo della ratio. L' intellectus come è il principio della ratio, causa di tutto il conoscere successivo, così pure ne è il fine. In particolare la ratio perviene nuovamente all'intellectus attraverso l'analisi metafisica e logica (resolutio ) dal complesso al semplice, rispettivamente verso i primi principi metafisici, cause prime dell'ente, e verso i primi principi logico-ontologici che garantiscono la correttezza del ragionamento. I principi primi o prime evidenze sono all'inizio della conoscenza, ma non alla maniera di un punto di partenza che si possa lasciare e da cui ci si possa allontanare nella misura in cui si procede. Essi sostengono tutto l'edificio del sapere grazie alla forza della loro luce in atto: "Immediatezza e mediatezza non si oppongono per esclusione, ma piuttosto per inclusione, e precisamente l'immediatezza dei principi si oppone come virtualità includente, alle conclusioni in essa incluse. L'immediatezza include la mediatezza". Il processo conoscitivo costituisce, in questa prospettiva, una continua esplicitazione dell'implicito attraverso successive riflessioni. Nel complesso per Tommaso la conoscenza consiste in un processo di adeguazione del pensiero alla realtà e di questa al pensiero che non ha nulla di passivo, ma la cui finalità, a differenza di quanto sostiene il soggettivismo moderno, è di divenire intenzionalmente altro da sé. Scostandosi da una concezione della conoscenza intesa soprattutto come relazione e confronto fra enti diversi, per Tommaso come già per Aristotele nell'atto conoscitivo conoscente e conosciuto diventano intenzionalmente una sola cosa, pur restando ontologicamente se stessi. Sotto un primo punto di vista (reale e psicologico) la conoscenza è identità, atto, perfezionamento dell'uomo. Sotto una seconda prospettiva la conoscenza va considerata come riferimento intenzionale a qualcosa che è altro dal soggetto. La forma ricevuta dal conoscente è una similitudine della cosa, una species intenzionale che gli manifesta la cosa (repraesentativa rei) e per mezzo di cui la cosa è presente secondo il suo essere "oggettivo" o intenzionale. Sotto il punto di vista ontologico il processo conoscitivo è possibile perché l'anima dell'uomo, a differenza delle realtà materiali che sono in potenza ad un numero finito di forme, è spirituale, e, quindi, è prerogativa della sua forma essere capace di innumerevoli forme, cioè "essere in certo qual modo tutte le cose". Nell'uomo la conoscenza è, tuttavia, inficiata dal fatto che la sua ragione non è sempre in atto rispetto al conoscere, ma deve essere continuamente attuata grazie all'incontro con la realtà attraverso i sensi e, quindi, grazie all'opera dell'intelletto attivo che astrae dai dati sensibili i concetti universali. Di qui la necessità per conoscere di molteplici e sempre più perfetti atti d'intellezione e la centralità della dimensione temporale nella conoscenza umana. Come è stato giustamente sottolineato, per comprendere quale è lo spirito della conoscenza umana secondo Tommaso è fondamentale porre l'accento sulla priorità rispetto alla dimensione concettuale, dell'atto di conoscenza intellettuale (intelligere), il quale tende continuamente ad unificare la molteplicità dei dati conoscitivi e a considerare la realtà da una prospettiva sempre più radicale e più ampia. Infine, come già in Agostino, la conoscenza della verità è possibile secondo Tommaso, che pure rifiuta l'ipostatizzazione platonica, in ultima analisi grazie alla partecipazione del mondo e della mente umana all'Intelletto e alla Verità che è Dio. Una certa quale somiglianza (similitudo) sotto il profilo ontologico fra gli enti permette il rapporto fra di loro e, quindi, anche il rapporto conoscitivo. 4) I trascendentali Se l'ente è ciò che , più o meno confusamente, è colto sempre in ogni atto conoscitivo dell'uomo, v'è un particolare genere di riflessione che ha come oggetto "l'ente in quanto ente" e cioè la realtà nella sua dimensione radicale e fondante, quella dell'essere. Per Tommaso come già per Aristotele, si tratta della riflessione metafisica. Essa è possibile poichè la conoscenza umana, pur prendendo le mosse dalla sensibilità, non si arresta alla sfera del fenomeno e della storicità, ma si apre alla dimensione trascendentale, intelligibile e sovratemporale dell'essere. La Scolastica posteriore ha distinto tre livelli di astrazione formale, corrispondenti a tre diverse scienze, il terzo dei quali è costituito dal piano della riflessione metafisica. A differenza dell'astrazione totale (che conduce dalle cose individuali ai concetti universali), l'astrazione formale è un procedimento che porta a concepire una determinazione (forma) indipendentemente da ciò che è determinato (subiectum). Ma mentre il termine "astrazione" può valere per i primi due livelli (riguardanti la fisica e la matematica) e, in particolare, per il secondo di questi, non sembra invece indicato se si vuole identificare la specificità propria del piano della riflessione metafisica. Benché Tommaso adotti talora il suddetto termine anche a questo proposito, in quest'ultimo caso anziché di astrazione che implicherebbe una "purificazione" della realtà conosciuta da ogni determinazione fino a giungere ad un essere inteso hegelianamente come "il genere più vasto e più nudo", cioè ad un essere senza essenze e, perciò, a sua volta, "essenzializzato", si tratta piuttosto di un diverso processo. Esso è stato definito separatio oppure astrazione intensiva . In realtà raggiungere con la riflessione il piano dell'essere non significa per Tommaso eliminare qualcosa della ricchezza del reale, che sarebbe pur sempre dell'essere, ma considerare la realtà nella sua ricchezza di determinazioni "dal punto di vista dell'essere", non tenendo conto di altre possibili e meno radicali prospettive. Il proprium di questa operazione sta nel fatto di cogliere l'essere negli enti come ciò che per sua natura non può essere astratto, ciò che è immanente a tutte le sue determinazioni, senza, tuttavia, confondersi con alcuna di esse . Come osserva il De Finance: "L'essere non è a prescindere dagli enti, né è uno dei loro ingredienti. Non bisogna opporlo come il noumeno ai fenomeni, poiché il fenomeno stesso è ancora dell'essere". Oggetto della metafisica sono in questa prospettiva tutte le realtà effettivamente esistenti ed oggetto anche delle altre scienze, ma solo in quanto "sono accomunate dal fatto di essere". La concretezza del suo oggetto distingue la metafisica dalla logica che considera invece solo le intentiones, cioè la sfera concettuale, frutto della funzione astrattiva del pensiero. Più in particolare la metafisica considera quei principi che sono per natura "separati" dalla materia e quelli che non dicono relazione necessaria alla materia, pur essendo presenti anche nelle sostanze materiali. Si tratta in pratica di "Dio, angeli, sostanza, qualità, ente, potenza, atto, uno e molti ed altri oggetti simili". Sotto altra prospettiva la metafisica riguarda le cause supreme del reale, cioè le sostanze separate e quei principi che sono "comuni a tutti gli enti". Qui vale la legge di derivazione aristotelica secondo cui ciò che prima conosciamo è ciò che è in sé meno conoscibile (gli accidenti, le sostanze materiali) mentre i principi primi del reale quali l'atto d'essere e Dio, che a causa della loro attualità sono in se stessi più adeguati alla spiritualità dell'atto conoscitivo, si conoscono in ultimo ed in maniera insoddisfacente. E ciò avviene perché l'uomo, in quanto ente insieme spirituale e corporeo, ha bisogno della sensibilità per conoscere. A partire dal primo e fondamentale trascendentale (l'ens) Tommaso deduce gli altri trascendentali (trascendentia); essi sono già tutti compresi nell'ente, ma non sono ancora esplicitati nella nozione di ens. Perciò i trascendentali si possono definire come distinzioni di ragione fondate sulla realtà (cum fundamento in re). Così Tommaso tratta dell'uno (unum) come unità in se stesso del singolo ente (da non confondersi con l'unità in senso quantitativo-matematico) e come unità della totalità dell'essere, e della cosa (res) come determinazione, essenza di un singolo ente, la quale si colloca sullo stesso piano dell'uno, dal momento che è all'origine della differenziazione dei singoli enti fra di loro. A differenza dei platonici Tommaso afferma il primato dell'ente rispetto all'uno. L'unità non aggiunge nulla di reale all'ente, ma soltanto la negazione della divisione. Per ricavare il trascendentale "uno", Tommaso ricorre significativamente alla negazione come negazione totius generis (del nulla in quanto contrapposto al singolo ente), la quale coincide con l'aristotelico principio di non contraddizione che afferma che ogni ente non può essere altro da sé nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto. Tale principio consiste in un giudizio che si fonda, a sua volta, sulla nozione di ente ottenuta inizialmente per astrazione. Esso è legge della realtà e, quindi, del pensiero. A partire da esso si deduce la molteplicità degli enti. Fa seguito nel discorso di Tommaso la tematizzazione di alcuni trascendentali che emergono alla conoscenza soltanto quando si relaziona un ente ad un altro. Si tratta, in particolare, dell' aliquid come aliud quid (ogni ente, in quanto uno, è diverso dagli altri enti - di qui si origina la molteplicità), e, soprattutto, quando uno degli enti fra i quali ha luogo il rapporto è un ente dotato di capacità di appetizione e di conoscenza intellettuale quale l'anima umana, dei trascendentali "vero" (verum) e "bene" (bonum). Essendo l'anima dell'uomo "in certo qual modo tutte le cose", essa è in grado di conoscere ed amare l'ente. Riflettendo sulla propria attività intellettuale, emerge che la conoscenza svela il trascendentale "vero" (la dimensione intelligibile della realtà, la quale trova il suo fondamento metafisico ultimo nell'atto creativo ed insieme conoscitivo di Dio), mentre la tendenza (appetitus-amor) , insita in tutti gli enti, svela il trascendentale "bene" (la positività ontologica o "valore" insito nelle cose). Anche la bontà delle cose trova poi il suo fondamento metafisico ultimo nell'amore di Dio nei loro riguardi. Secondo la ricorrente definizione di Tommaso "il bene è ciò a cui ogni cosa tende". Ma, come egli stesso precisa, essa " non va presa nel senso che qualunque bene sia da tutti desiderato, ma nel senso che tutto ciò che è desiderato ha ragione di bene". Nota sempre Tommaso a proposito del bene che "nella misura in cui una cosa è in atto è buona, perché in quella misura possiede perfezione ed entità e il bene consiste essenzialmente in questo" e precisa nello stesso passo che "ogni ente tende all'essere e appunto in ciò consiste il bene, nell'essere ciò a cui si tende". Si ricava da queste affermazioni che il bene di ogni ente si fonda radicalmente sulla sua naturale tendenza a perseverare nel suo essere (autoconservazione - bonum est conservativum) e a perfezionarlo (bonum est perfectivum), per quanto è possibile, tendendo ad essere sempre più sé stesso e relazionandosi ad altro da sé e, in ultima analisi, a Dio. La dimensione del finalismo e del bene (fine e bene sono coincidenti) è, così, strutturalmente insita in ogni ente in quanto esiste: "il bene e l'essere s'identificano realmente, ma il bene esprime il concetto di appetibile, non espresso dall'ente". È inconcepibile che l'ente tenda naturalmente al non essere. Si può, quindi, legittimamente definire il bene come l'armonia (convenientia) dell'essere con se stesso (sia che si tratti di uno stesso ente o di diversi enti), in cui emerge la dimensione coesiva e, perciò, anche dinamica dell'ontologia di Tommaso, in forza della somiglianza (similitudo) che accomuna l'ente in quanto tale. Come si è notato, il bene viene originariamente svelato all'uomo quando l'ente, grazie alla sua perfezione, suscita la tendenza verso di esso. In questa prospettiva se l'ente costituisce il primo principio (la prima evidenza) dell'intelletto teoretico, il bene è il primo principio dell'intelletto pratico (in quanto finalizzato all'agire). Come per Aristotele anche per Tommaso, mentre la conoscenza raggiunge il suo oggetto in modo mediato e, perciò, il vero è in primo luogo nella mente, la tendenza (appetitus) si dirige al suo oggetto immediatamente e perciò il bene è innanzi tutto nelle cose. Fra intelletto e volontà si stabilisce, così, una sorta di circolo. Tuttavia Tommaso precisa che anche l'amore di ciò che è bene è in certo qual modo in colui che ama come "un certo quale segno lasciato dalla volontà nell'oggetto voluto o come una certa qual unione di entrambi". Da un primo punto di vista e, in linea di principio, l'intelletto e il vero sono superiori alla volontà e al bene . Infatti, a differenza di quanto avviene nel caso dell' appetitus, nella conoscenza l'oggetto è posseduto restando in sé stessi. Inoltre non si può desiderare se non ciò che già, almeno in certa misura, si conosce. Il vero costituisce, quindi, la causa formale del movimento della volontà, in quanto lo determina. Dal punto di vista dell'esercizio la volontà ha, invece, la preminenza: il vero è il bene dell'intelletto e per intendere occorre volere. E' importante sottolineare però che, in questa vita, v'è almeno un caso - fondamentale - in cui l'amore, proprio in quanto tende immediatamente alle cose stesse, è superiore alla conoscenza. Dio, nella sua trascendenza, può essere amato più di quanto possa essere conosciuto. Nella visio beatifica, invece, la conoscenza riacquista la preminenza, ma in sinergia con l'amore. Infine, come abbiamo già osservato, la carità, in cui la dimensione affettiva svolge un ruolo centrale, rappresenta per Tommaso la virtù più elevata e determinante. In sintesi si deve osservare che entro quel sottile e mirabile gioco di distinzioni e di equilibri che è la dottrina tommasiana del rapporto intellettovolontà , la conoscenza appare tutta compenetrata di amore del suo oggetto e l'amore è tutto informato di una conoscenza almeno implicita. Sempre più nelle opere della maturità il ruolo della volontà e dell'amore trasfigura l'intellettualismo aristotelizzante. Riprendendo il tema dei trascendentali, occorre notare che il bello (pulchrum), che non a caso Tommaso non considera esplicitamente un trascendentale, rappresenta in un certo senso la prima e l'ultima parola sull'essere, in quanto esprime lo splendore, la luce della verità che si manifesta nell'armonia di enti e di prospettive trascendentali che s'intersecano e si completano e, perciò, affascina attirando a sé. È significativo il fatto che vi sia in Tommaso una perfetta corrispondenza, nell'ordine, fra i tre trascendentali fondamentali (l'uno, il bene, il vero) e i segni caratteristici della bellezza, e cioè l'integrità (integritas), la proporzione (consonantia ) e lo splendore (claritas). È opportuno sottolineare, infine, che, sebbene il pensiero filosofico di Tommaso sia stato definito spesso (e correttamente) come una "filosofia dell'essere" in opposizione ad ogni soggettivismo immanentistico, questa definizione non va intesa in senso astratto e riduttivo. La realtà in tutta la sua densità si rivela all'uomo pure attraverso gli altri trascendentali e, in particolare, attraverso il bene. E' significativo che la necessaria apertura-tendenza dell'uomo al bene trascendentale (bonum commune) fondi per Tommaso la dimensione decisiva della libertà. Si può scegliere fra diversi beni finiti, perché si è per natura necessariamente ancorati ad un bene infinito. Così pure si possono amare liberamente gli altri uomini, perché necessariamente si ama sé stessi, il proprio compimento. In questa prospettiva non è difficile ammettere che anche la dimensione morale e interpersonale riveli l'ente nella sua attualità e pienezza. 5) La struttura dell'ente concreto Passando a considerare il piano categoriale, cioè le diverse articolazioni dell'ente, come già per Aristotele anche per Tommaso "l'ente si dice in molti modi". La sostanza in quanto, a differenza dell'accidente, non inerisce ad altro, ma sussiste autonomamente, costituisce l'ente per eccellenza, quindi la categoria fondamentale. Gli accidenti, che ineriscono alla sostanza, si dicono "ente" solo in riferimento ad essa, cioè per analogia. La classificazione degli accidenti è in Tommaso la stessa adottata dallo Stagirita. Fra gli accidenti svolge un ruolo importante, data la presenza delle tematiche creazionistica e trinitaria ignote al mondo greco, la relazione che, pur avendo secondo Tommaso "fra tutti i predicamenti la più debole consistenza ontologica", è tuttavia reale. Come nell'ontologia aristotelica, ogni ente di cui noi possiamo avere diretta esperienza appare costituito da due principi primi che, in quanto tali, non possono essere propriamente definiti e che permettono di spiegare la molteplicità e il divenire senza rinnegare il principio di non contraddizione: si tratta dell'atto (actus) e della potenza (potentia). L'atto significa la dimensione di compiutezza di un dato ente, la potenza (passiva) la sua dimensione di incompiutezza, il suo dover ancora "attuarsi". La singola sostanza materiale è composta da un principio di indeterminazione o materia prima, che si pone sul piano della potenza passiva (la quale è suscettibile di infinite forme o determinazioni), e da un principio di determinazione (forma sostanziale) che si colloca sul piano dell'atto, quale compimento di un ente concreto. In generale ogni opposizione tra ciò che viene determinato e una sua determinazione viene indicata da Tommaso come opposizione di un sostrato (subiectum) e di una forma. La sostanza funge, a sua volta, da sostrato e da materia rispetto alle forme accidentali che la determinano. Mentre la forma è conosciuta in modo diretto in quanto è in atto, la materia lo è soltanto in modo indiretto, in quanto è in potenza. L'unità (sinolo) di materia e forma costituisce l'essenza (essentia) delle sostanze materiali, la quale è da noi conosciuta come quidditas (in quanto risponde alla domanda quid est?, "che cos'è ?"). A differenza dell'aristotelismo ecclettico neoplatonizzante che si rifaceva ad Avicebron, Avicenna ed Alfarabi, abbastanza diffuso nel periodo, Tommaso ammette con Aristotele la presenza di una sola forma in ogni sostanza. Se, infatti, vi fossero più forme sostanziali non sarebbe garantita l'unità del composto. L'individuazione degli enti materiali, cioè la loro distinzione come individui all'interno di una specie, è data dalla materia, in quanto dotata di dimensioni (quantitate signata). Nelle sostanze materiali, quindi, l'essenza non coincide pienamente con il supposito (suppositum), cioè con la sostanza individuale. L'essenza di un ente quando viene considerata come il principio dell'attività di quell'ente viene chiamata natura. Tommaso ammette anche l'esistenza di forme "pure", prive cioè di materia. Esse sono le sostanze spirituali, "separate" dalla materia, in cui l'individuazione è determinata soltanto dalla forma. In questo caso ad ogni individuo corrisponde una peculiare forma o essenza e, quindi, una diversa specie. In base alla forma ("atto primo") delle sostanze variano le rispettive modalità di azione ("atto secondo") che tendono al loro perfezionamento. Nota Tommaso che diverso è l'ordine di priorità dal punto di vista etimologico: "Come appare dal modo di pensare comune, il nome di atto fu dapprima attribuito all'azione: quasi tutti infatti intendono atto in questo senso. In un secondo tempo questa parola fu estesa di qui al significato di forma, in quanto la forma è principio e fine dell'azione". Dal momento che svolge la funzione di fine, l'azione del singolo ente è, in quanto tale, più perfetta della sua forma. In particolare: si è già detto della struttura dinamica dell'ente, trattando del trascendentalebonum. In base alla natura dei diversi soggetti dell'agire si possono distinguere due diverse modalità di azione. L'una, comune a tutti gli enti materiali, provoca un mutamento all'esterno (azione transitiva). Essa presuppone, quindi, la nozione di causa efficiente. L'altra, prerogativa delle sostanze spirituali, avviene invece essenzialmente all'interno del soggetto e tende al perfezionamento di questo (ad esempio, il conoscere, il volere, l'amare). In questo caso si tratta di un' azione immanente (in quanto permane all'interno del soggetto). La prassi umana presenta il pregio di unire intimamente entrambi i tipi di azione. Come Aristotele, Tommaso distingue, per quanto riguarda gli effetti delle azioni, fra mutamento sostanziale (che provoca un cambiamento di sostanza) e mutamento accidentale (che si limita a cambiare gli accidenti, restando identica la sostanza). Entrambi i mutamenti consistono nell' "attuare", cioè fare emergere, una determinazione che si trovava nel sostrato come potenzialità passiva. E' importante notare che una volta che un ente ha raggiunto una determinata forma sostanziale, questa "non ammette gradi diversi di compiutezza". In quanto principio di determinazione la forma sostanziale è sempre compiuta e può soltanto ammettere un perfezionamento sul piano degli accidenti. Nella spiegazione dell'origine dell'azione Tommaso ricorre alle quattro cause aristoteliche: materiale, efficiente, finale e formale. Esse descrivono in modo esauriente ogni trasformazione che ha luogo in natura. Fra di esse svolgono un ruolo fondamentale le ultime due: la forma, infatti, è il fine di ogni mutamento. Nell'analisi del divenire e dell'azione Tommaso distingue nettamente potenza passiva e potenza attiva. Il fine della prima è la forma (atto primo), il fine della seconda è l'azione (atto secondo). La tendenza ad acquisire una forma è il movimento proprio della natura di una data sostanza. In altri termini, come per Aristotele, se il movimento procede da un principio che è dentro il soggetto in cui il movimento si produce tale principio è detto natura, ma se procede da un principio che è in un altro soggetto esso è causa efficiente; nella misura in cui il movimento procede in modo accidentale (per accidens) da un principio che è dentro il soggetto in cui il movimento si produce, il principio è ancora una causa efficiente. Il ciclo ontologico di tutti gli enti sostanziali consiste in primo luogo nell'acquisire le rispettive formalità; in secondo luogo, nel possederle in quanto perfezioni immanenti e, in terzo luogo, nel diffonderle ad altri : "Le cose naturali non solo hanno un'inclinazione naturale rispetto al loro bene proprio, per acquistarlo quando ancora non lo hanno o per riposare in esso quando già lo posseggono, ma anche per diffondere il loro bene proprio negli altri, nella misura in cui sia loro possibile". Potenza passiva e potenza attiva si ritrovano contemporaneamente in uno stesso ente sostanziale, a seconda delle diverse prospettive in base a cui lo esaminiamo. Così, ad esempio, la potenza attiva o capacità che permette di muovere il braccio suppone l'attuazione di una disposizione o potenza passiva. Nella misura in cui cresce la perfezione ontologica delle diverse sostanze, esse diventano maggiormente capaci di potenza attiva, cioè di comunicare al di fuori di sé le proprie perfezioni: "Quando qualcosa ha un potere più elevato e si colloca su un piano più elevato di bontà, esso cerca e promuove il bene tra gli enti più lontani da sé. Gli enti imperfetti tendono solo al bene individuale; gli enti perfetti tendono al bene della specie e i più perfetti ancora a quello del genere. Dio che è perfettissimo in bontà tende al bene della totalità dell'ente. Non senza ragione alcuni hanno detto che il bene è di per sé diffusivo, giacchè quanto maggiore è la bontà di qualcosa, tanto più lontano essa si diffonde" . Soltanto in Dio, che è privo di potenza passiva, la potenza attiva si identifica con la sua essenza. Egli, infatti, non ha bisogno, come gli enti finiti, di molteplici "potenze" o facoltà onde agire. Nella sua semplicità Dio agisce con tutto se stesso. Si deve rilevare, perciò, che nel mondo, in quanto creato e finito, la dimensione della potenza passiva svolge un ruolo primario e fondante che non è adeguatamente valorizzato dal pensiero moderno, il quale, soprattutto con l'idealismo, tende ad assolutizzare la potenza attiva. La dimensione della potenza passiva permette di comprendere, in particolare, l'essenza dell'uomo, il quale per natura è chiamato al perfezionamento di sé secondo tutte le dimensioni che lo costituiscono e, in questa misura, a trasformare il mondo e a comunicare con gli altri uomini. Poiché l'uomo, a causa della sua libertà, non è necessitato ad attuare il suo perfezionamento, egli deve rafforzare la propria tendenza "naturale" attraverso delle disposizioni (habitus) buone, frutto di esercizio, che sono le virtù. Procedendo in profondità nell'esame della struttura ontologica dell'ente sostanziale, emerge che, come ormai riconosciuto dai più importanti critici, l'originalità fondamentale della metafisica di Tommaso consiste nel fatto di ammettere oltre all'essenza (costituita a sua volta, a seconda delle sostanze, di materia e forma oppure di sola forma) un altro principio che è fondamento dell'esistenza stessa dell'ente: si tratta dell'atto d'essere (denominato actus essendi o, più frequentemente e più semplicemente, ipsum esse od esse). Considerato in una prospettiva storica, l'affermazione di questo principio appare come il frutto di una secolare elaborazione, in cui svolgono un ruolo importante il filone platonico (in particolare con le nozioni di esse separatum e di partecipazione) e quello aristotelico (con la coppia atto-potenza), ma ripensati alla luce del creazionismo cristiano. In particolare: l'influsso di Boezio, di Dionigi, del Liber de causis e, in minor misura, di Avicenna è fondamentale per la genesi di questa nozione la quale si perfeziona e si precisa gradualmente nel corso dell'evoluzione del pensiero di Tommaso. Benché la nozione di atto d'essere degli enti sia di per sé formulabile a prescindere da una precisa nozione di Dio, essa si chiarifica per contrasto alla luce della concezione di Dio quale Essere sussistente (Esse subsistens), nella cui eccelsa semplicità atto d'essere ed essenza coincidono. In quanto costituisce il principio dell'esistenza di ogni ente (dimensione esistentiva) - ciò che di più intimo e, perciò, di più comune v'è in ogni ente - l'atto d'essere è pure la perfezione somma, "attualità di ogni atto" e, perciò, "perfezione di tutte le perfezioni" (dimensione perfettiva comprendente le determinazioni), perché senza di esso nulla, neppure le determinazioni e perfezioni più elevate quali quelle spirituali, sarebbe. Perciò Tommaso, ricorrendo ai noti principi aristotelici, afferma che l'ente e l'essenza sono in potenza rispetto all'atto d'essere. Per essere, infatti, essi esigono di essere attuati dall'atto d'essere, il quale invece non è in potenza rispetto ad alcunché. Nulla, infatti, ad esso è estraneo se non il non-essere. Se da un lato l' esse attua ogni più piccolo ente ed è, quindi, somma perfezione comune a tutta la realtà, dall'altro nella misura in cui, grazie all'essenza, può esercitare la sua energia in modo più compiuto in quanto somma attualità e perfezione, intensifica le perfezioni trascendentali e comprende in sé via via le altre perfezioni degli enti (quali il vivere, il conoscere e il volere). Esse non sono aggiunte all'atto d'essere dall'esterno, ma sono comprese da quello, che ha il primato su di esse in quanto dà loro l'esistenza. L'atto d'essere, quindi, si dà nelle cose secondo gradi di maggiore o minore intensità, dalle realtà più imperfette fino a Dio. È importante evidenziare, infine, che per la sua radicalità, la nozione di esse propria dell'Aquinate non è riducibile aristotelicamente al mero piano della forma, perché ciò significherebbe non coglierne la peculiare dimensione esistentiva e ammettere la presenza di più forme in un composto (ciò che egli espressamente rifiuta). Per poter affermare che v'è un atto che attua una forma (che quindi la forma non è più l'atto primo, ma che è in potenza rispetto all'esse) Tommaso è, così, costretto a modificare profondamente l'impianto dell'ontologia aristotelica. Ciò che contraddistingue tutte le creature, in quanto tali, non è più la loro forma, ma il fatto di partecipare dell'atto d'essere. La diversità delle forme si limita a determinare la diversità esistente fra le creature, ma non dà ragione della loro dipendenza nell'essere. L'esse poi non è neppure riducibile al piano degli accidenti, come avviene ad esempio in Avicenna, proprio perché è un atto, e neppure a quello dell'existentia come mero fatto di esserci, che contraddistingue l'ontologia di buona parte della Scolastica posteriore. Inoltre l'atto d'essere di Tommaso non è univoco come l'essere -ipostasi del tardo neoplatonismo pagano e di Dionigi (del quale pure risente), ma analogo. Esso, insieme all'essenza che attua, fonda la molteplicità degli enti. È probabile che la concezione dell'ente e pure dell'atto d'essere degli enti come uno e, insieme, molteplice sia determinata, in Tommaso, oltre che dalla volontà di dar ragione della concretezza e diversità degli enti (l'aristotelico "l'ente si dice in molti modi"), dalla preoccupazione teologica di salvaguardare la distinzione fra le persone divine della Trinità. Se il Principio dell'essere del mondo è in se stesso uno e, insieme, al suo interno molteplice, a maggio ragione anche l'essere del mondo dovrà essere contraddistinto da unità e molteplicità. Secondo Tommaso l'atto d'essere si comunica agli enti attraverso la forma sostanziale (principio di determinazione di una data sostanza) che esso attua. In quanto "atto di tutti gli atti" e "forma di tutte le forme", l' esse si colloca nei riguardi della sostanza in certo qual modo in una posizione originale tra la causalità efficiente e quella formale. Essendo l'atto ultimo e fondante di tutto l'ente, l'esse è il principio che dà all'ente la sua unità . Esso è pure principio di permanenza e di stabilità: "La capacità naturale che è conferita alle cose naturali all'atto della loro creazione è in esse come una forma che ha l'essere (esse) fisso e stabile nella natura". Benché vi sia su questo punto una serrata discussione fra gli studiosi, sembra che si possa affermare che una prima consapevolezza dell'atto d'essere, il quale fonda in ultima analisi ogni conoscenza della realtà, si manifesti per Tommaso quando si riflette sull'atto del giudizio. Si evidenzia, così, una dimensione dotata di tale costitutiva radicalità, da non essere riducibile al piano della mera determinazione colta attraverso il processo astrattivo e che, a differenza di quest'ultima, benchè intelligibile, non appare pienamente concettualizzabile; l' esse non è propriamente conosciuto, poiché non è compreso nell'essenza: "Non possiamo dire che cosa sia l' ipsum esse". L'esse si compone nel singolo ente con il principio di determinazione, l'essenza (di qui la tradizionale tesi tomista della composizione "reale" di essenza ed atto d'essere in ogni realtà finita). L'essenza o quiddità può essere considerata come un principio di autodeterminazione dell'atto d'essere, nel senso che non gli è esteriore e che, pur opponendovisi, è posta da esso. E' però importante sottolineare che il suo ruolo non è soltanto limitativo e negativo. Piuttosto esso è tale solo in quanto è pure e innanzi tutto positivo, determinando i caratteri di una data perfezione nella gerarchia degli enti. In favore della composizione o distinzione reale di essenza ed atto d'essere negli enti Tommaso adduce diversi argomenti. Un primo argomento che riprenderemo come via a Dio si fonda sull'esigenza di dare ragione della molteplicità degli enti. Poiché l'essere è comune a i diversi enti, esso non può derivare da ognuno di loro, ma da una causa comune. Ciò che rende diverso ogni ente è l'essenza: di qui la composizione, in ogni ente finito, di essenza e di atto d'essere. Un secondo argomento, connesso al precedente, afferma che, se una perfezione (l'atto d'essere) fosse sussistente (cioè non in composizione con un altro principio) sarebbe unica. Poiché consta, invece, la molteplicità, l'atto d'essere deve essere partecipato e limitato negli enti. Si potrebbe affermare sinteticamente che la nozione di atto d'essere e quella di composizione di essenza e di atto d'essere si elaborano tematicamente attraverso la percezione dell'apparire e, soprattutto, dello scomparire degli enti come pure della loro diversità e molteplicità, aventi diverse determinazioni, ma accomunati dal fatto di essere. Si tratta di un'analisi (resolutio) dal complesso al semplice, ai principi dell'ente. La nozione di atto d'essere emerge così attraverso una sorta d'intuizione che, in realtà, suppone la mediazione del ragionamento. Sarebbe fraintendere Tommaso il pensare l'essenza dell'ente concreto come un universale platonico al quale si unisce l'atto d'essere che le dà concretezza. Nell'ente concreto l'essenza e l'atto d'essere sono sempre essenza ed atto d'essere di quel dato ente individuale. Fra di essi vi è come un reciproco adattarsi (coaptatio) che fonda l'unità e l'individualità di ogni sostanza concreta. In sintesi: benché sia giusto riconoscere un primato dell'atto d'essere in quanto principio d'esistenza senza di cui nessuna determinazione essenziale potrebbe esistere ed essere conosciuta, tuttavia nell'ente finito esse ed essentia sono entrambi principi cooriginari ed imprescindibili. L'ente finito non è concepibile nella sua intima struttura senza ricorrere ad entrambe le polarità. Invero, se si accentuasse il polo rappresentato dall'essenza fino a far scomparire l' esse, si avrebbe qualcosa di pensabile, ma della cui effettiva esistenza si potrebbe dubitare, se, invece, si accentuasse l' esse fino a far scomparire l'essenza, si avrebbe come una tensione senza soggetto, qualcosa di impensabile. E' significativo il fatto che Tommaso, onde precisare il rapporto che intercorre nell'ente tra i due fondamentali principi, essenza ed atto d'essere, si avvalga di termini di confronto tratti dalla dimensione intellettuale e spirituale che è quella più perfetta. Egli afferma, infatti, che "in certo qual modo ciò che è inteso si rapporta all'atto di conoscere intellettualmente come l'essenza all'atto d'essere", che "come l'essere segue alla forma, così l'atto di conoscere segue alla specie intelligibile" e che "il conoscere...sta all'intelletto in atto come l'essere sta all'ente in atto". Invero non è casuale che coloro che negano o sottovalutano una delle due distinzioni, o quella di essenza ed atto d'essere o quella di concetto e di atto di conoscere, finiscano per rifiutare anche l'altra. Chi, come Sigieri di Brabante, nega la priorità dell'atto d'intendere rispetto al concetto è condotto pure a negare la priorità dell'atto d'essere rispetto all'essenza. Concettualismo in gnoseologia ed essenzialismo in metafisica vanno di pari passo. Tra piano dell'essenza e piano dell'atto d'essere, considerati in sé stessi, si manifesta, a ben vedere, una sproporzione e una tensione: se si prescinde dalla singola determinazione, l'atto d'essere, data la sua perfezione, appare in quanto tale "in-finito", cioè "non finito", perché non determinato. E' la determinazione, l'essenza a limitarlo, a costringerlo in una forma circoscritta che esclude altre possibili determinazioni dell'essere. Di qui, dal fatto di non essere l'essere in tutta la sua attualità e pienezza di perfezione, deriva la radicale contingenza e creaturalità di ogni ente, in cui l'atto d'essere appare partecipato e insieme limitato dall'essenza (in quanto "potenza" ad essere). Significativamente anche le sostanze spirituali separate, pur prive della potenza passiva propria della materia, hanno, in quanto finite, l'essenza in potenza rispetto all' esse . E' importante rilevare come da una stessa negazione (prerogativa del giudizio che costituisce il principio di non contraddizione) emerga alla riflessione metafisica sia l'unicità in sé stessi, pur nella comune partecipazione all'atto d'essere, dei singoli enti (la quale fonda le differenze e la loro molteplicità), sia la radicale e costitutiva differenza-tensione (distantia), interna ad ogni ente, di essenza ed atto d'essere. Infatti ogni ente partecipa diversamente, in base alla sua particolare determinazione, dell'atto d'essere che tutti accomuna. Ogni ente ha l'atto d'essere, non è l'atto d'essere. Se, invece, il legame tra essenza ed atto d'essere fosse necessario, se un ente coincidesse con il suo atto d'essere, non potrebbe che esistere solo quell'ente. Se riconsideriamo nella prospettiva dei principi metafisici ora esaminati le tematiche dell'individuazione e del dinamismo degli enti, cui abbiamo in precedenza accennato, esse acquistano una nuova luce. Mentre, come ha notato il Gilson, nella prospettiva dell'Aquinate l'atto d'essere attua e compie ogni individuo concreto, "lo scotismo è divenuto una metafisica dell'individualità proprio per la difficoltà di spiegare l'individuo a partire dalla nozione scotista di essere" . Così pure la tendenza al perfezionamento e all'azione, insita negli enti finiti, può essere considerata come un segno della sproporzione fra atto d'essere, in quanto tale infinito, ed essenza o determinazione finita. Non essendo tutto l'ente nella sua pienezza e varietà, ma avendo pur sempre in sé stessa, grazie alla partecipazione all'atto d'essere, una dimensione e un presentimento di infinitudine, la sostanza finita tende, per quanto le è possibile, a sopperire attraverso l'azione e la comunicazione con le altre sostanze alla sua strutturale carenza ontologica. Così nell'uomo il naturale desiderio di felicità (beatitudo), che muove l'azione e la ricerca, è segno della sua strutturale condizione creaturale e, insieme, della sua destinazione all'Eterno. 6) L'ascesa a Dio Tommaso accetta in buona parte la concezione aristotelica della struttura dell'ente concreto e, quindi, il primato accordato alla sostanza quale momento unificante. Tuttavia sul piano trascendentale il creazionismo cristiano lo conduce a far propria, inverandola, l'urgenza platonica di un principio trascendente di unificazione. Gli enti del mondo si rivelano contingenti a motivo, soprattutto, del divenire e della molteplicità che li contraddistinguono. La dimensione che permette questa apertura al trascendente è radicalmente quella dell'atto d'essere partecipato, la quale trascende e comprende tutte le determinazioni e differenze degli enti. Infatti, se l'ente finito non coincide con il suo atto d'essere, donde riceve esso l'esistenza? Secondo Tommaso, da un Essere che per la sua semplicità non può essere determinato da alcunché, ma in cui l'atto d'essere coincide con l'essenza. Questo Essere è l'Assoluto, quello che la religione chiama Dio. A differenza di quanto affermava Averroè e accadrà spesso nella scolastica successiva, per Tommaso come già per Avicenna, Dio non costituisce oggetto della metafisica (il cui oggetto è invece l'essere in quanto essere), ma può essere studiato dal metafisico solo indirettamente come la Causa o il Principio di ciò che rientra nell'essere. A motivo della debolezza della ragione umana di fronte all'assoluto, la conoscenza di Dio alla quale può accedere la filosofia è una conoscenza indiretta che si può guadagnare a partire dall'esperienza del finito. L'uomo fa esperienza della realtà del mondo, ma poiché questa si manifesta come contingente attraverso numerosi segni, essa rimanda al di là di sé stessa, quasi una linea di fuga che spalanca oltre l'orizzonte mondano. Così pure a differenza di Alessandro di Hales e di Bonaventura (e, secondo l'Aquinate, anche di Anselmo ), per i quali v'è un'esperienza immediata, benché oscura di Dio, Tommaso esclude che l'esistenza di Dio sia immediatamente evidente a noi (per se nota quoad nos). Essa è sì evidente di per sé stessa (per se nota quoad se) dal momento che Dio possiede l'essere per essenza. Ma noi non abbiamo la nozione di Dio se non dopo averne dimostrato l'esistenza a partire dal mondo. Il fatto che questo processo per cui risaliamo dal mondo a Dio sia per lo più spontaneo può farci pensare erroneamente che l'esistenza di Dio sia a noi immediatamente evidente. L'Aquinate, quindi, esclude il carattere immediato della conoscenza di Dio per l'uomo in coerenza con l'impianto aristotelico della sua dottrina della conoscenza. Prima di esporre le principali vie a Dio di Tommaso, occorre premettere alcune precisazioni. In primo luogo, trattandosi dell'opera di un uomo di fede e di un teologo che vive in un'epoca in cui l'esistenza di Dio non è messa in discussione, le vie non assumono quella centralità che acquisteranno poi le dimostrazioni dell'esistenza di Dio in epoca moderna dopo Cartesio. Esse si collocano all'interno di un contesto di riflessione teologica e non vanno, perciò, artificiosamente separate da esso. In secondo luogo occorre notare che il termine via implica che nell'ascesa tutto l'uomo, quindi anche il suo desiderio e la sua affettività sono implicati. Il desiderio umano è sorretto da una logica: esso segue intimamente l'apertura della ragione e le sue inferenze. Ciò significa anche che il termine via non implica in alcun modo carenza di rigore nella dimostrazione. A questo proposito è significativo quanto Tommaso afferma nella parte della Summa theologiae dedicata alla trattazione della morale: "La felicità ultima e perfetta non può consistere che nella visione dell'essenza divina. Per averne la dimostrazione s'impongono due considerazioni. La prima, che l'uomo non è perfettamente felice fino a che gli rimane qualcosa da desiderare e da cercare. La seconda, che la perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del proprio oggetto. Ora l'intelletto...ha per oggetto la quiddità o essenza delle cose. Perciò la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l'essenza di una cosa. Cosicché se un intelletto viene a conoscere l'essenza di un effetto, da cui non è in grado di conoscere l'essenza o quiddità della causa, non si dirà che l'intelletto può raggiungere senz'altro la causa, sebbene possa conoscere l'esistenza mediante gli effetti. Perciò rimane nell'uomo il desiderio di conoscere la quiddità della causa, quando nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che gli essi hanno una causa. Si tratta di un desiderio dovuto a meraviglia, come dice Aristotele, che stimola la ricerca. ...Ora, dal momento che che l'intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l'esistenza di Dio; la perfezione conseguita non è tale da raggiungere davvero la causa prima, ma gli rimane ancora il desiderio naturale d'indagarne la natura. Quindi non è perfettamente felice. Ma alla perfetta felicità si richiede che l'intelletto raggiunga l'essenza stessa della causa prima. E allora avrà la sua perfezione nel possesso oggettivo di Dio, nel quale soltanto si trova la felicità dell'uomo". Presupposto delle vie di Tommaso è l'intelligibilità (o non contraddittorietà) della realtà del mondo. Del reale si debbono poter conoscere alcune caratteristiche fondamentali che constano nell'esperienza e che sono segni di contingenza. Di qui, ricorrendo al principio di non contraddizione ed escludendo la possibilità di una serie infinita di cause contingenti, si può risalire all'esistenza di un Principio primo che dia ragione della contingenza degli enti. Le vie poi permettono di affermare a partire dal mondo che Dio è, non di conoscere l'essenza divina identica con il suo esse. Infine le "cinque vie" della Summa theologiae si concludono, affermando che si è raggiunto "ciò che tutti chiamano Dio". Ciò significa che Tommaso è consapevole che la nozione di Dio prerogativa della religione è ben più ricca di quelle di Motore immobile, Causa prima, Essere necessario, Essere perfettissimo, Intelligenza finalizzatrice alle quali pervengono le vie. Esse raggiungono, infatti, un Essere che per la sua assolutezza e perfezione non può non coincidere con il Dio della religione cristiana, ma la cui nozione è assai più povera. Consideriamo, quindi, in primo luogo le famose cinque "vie" della Somma teologica. In esse Tommaso ha cercato di essenzializzare e di rigorizzare delle argomentazioni presenti nella precedente tradizione filosofica anche greca, musulmana ed ebraica. Le prime tre vie, in particolare, prendono spunto dall'esperienza del divenire. La seconda e la terza sono casi particolari della prima (che Tommaso giudica la più evidente - manifestior). Prima via : "La prima e piu manifesta via è quella del divenire. E certo, infatti, e consta ai sensi, che alcune cose mutano in questo mondo. Ora tutto ciò che muta o diviene è mutato da altri...Se, dunque, ciò da cui deriva il mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch'esso sia mutato da un terzo, e questo terzo da un quarto. Ma in questo caso non si può procedere all'infinito...dunque è necessario arrivare ad una prima ragione del mutamento, che non muti affatto; e questa è ciò che tutti gli uomini intendono per Dio". La prima via parte dall'esperienza del divenire (sia corporeo che spirituale). Ora tutto ciò che muta è mosso da altro. Per giustificare questo asserto si spiega che muovere qualcosa significa condurlo dalla potenza all'atto. Ma qualcosa non può essere condotto dalla potenza all'atto eccetto che da un ente che è in atto. In effetti nulla può essere in atto e in potenza nel medesimo tempo e sotto il medesimo rispetto o muovere sé stesso. Si tratta dell'applicazione del principio di non contraddizione (o dell'intelligibilità del reale) all'ente in divenire - deve esistere ciò senza di cui un ente sarebbe contraddittorio. Ma nella serie dei motori non si può procedere all'infinito, né è possibile una circolarità. Altrimenti il mutamento da cui si è preso l'avvio resterebbe senza spiegazione. Ci deve essere, perciò, un primo motore, una prima causa del mutamento affatto immutabile. Questo altro essere, se deve spiegare i divenienti (non un solo diveniente, ma tutti i divenienti), non può appartenere all'ordine dei divenienti: non può essere soltanto un essere relativamente indiveniente. Esso deve essere l'Indiveniente. Occorre precisare che la via in questione vale soltanto per la cause dell'essere (causae essendi), che sono ragion d'essere dei loro effetti, non per le cause del divenire (cause fiendi). E` infatti possibile, secondo Tommaso, che si possa procedere all'infinito ad esempio nella serie delle generazioni animali e umane (cause del divenire), non nella serie delle cause dell'essere che sono quelle che agiscono sull'effetto in modo concomitante. Esemplificando, per comprendere che cosa s'intenda per cause dell'essere, un vivente è sostenuto in vita da certe condizioni biologiche (struttura e funzione dei suoi organi) le quali a loro volta sussistono finché vi sono determinati processi chimici, i quali a loro volta sono condizionati da processi fisico-meccanici. In questa serie non si potrebbe togliere un anello senza che tutta la serie cada, ed ogni anello è condizionato da quello che lo precede, sì che, se non si arrivasse ad una prima causa, nessuna delle seguenti potrebbe sussistere. Può soccorrere - ma solo entro certi limiti - l'esempio di un lampadario appeso al soffitto con una catena: se non fossero attaccati al soffitto i diversi anelli della catena, essi non potrebbero reggerlo. Seconda via : "La seconda via parte dalla considerazione della causa efficiente. Vediamo infatti nelle cose che cadono sotto i sensi un ordine di cause efficienti; tuttavia non si vede, nè è possibile, che una cosa sia causa efficiente di sé stessa, poiché se così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di se stessa, il che è impossibile. Ma non è possibile che nelle cause efficienti si proceda all'infinito...Dunque è necessario porre una prima causa efficiente, che tutti chiamiamo Dio". Anzichè genericamente dal divenire questa via prende spunto dalla causalità efficiente ( e precisamente da un ordine tra le cause efficienti), da cui dipende non solo il divenire, ma l'essere delle cose. Dal momento che può non sembrare a tutti immediatamente evidente la presenza di un ordine di cause efficienti, si è proposto di partire dal cominciare ad essere, dall'inizio di certe cose: una pianta, un animale, io stesso, non siamo stati sempre: prima non c'eravamo ed ora ci siamo. Ma ciò che comincia ad essere non può cominciare da sé, poiché dovrebbe cominciare da un sé che ancora non esiste, ossia dal nulla e il nulla, appunto perché non è, non può far nulla, né generare nulla, altrimenti sarebbe e non sarebbe insieme; dunque ciò che comincia deve trarre l'essere da un altro, e questo altro è la sua causa efficiente. Anche nella seconda via vale il principio dell'improcedibilità all'infinito cui si è fatto ricorso nella prima via, trattandosi anche in questo caso di causae essendi e non di causae fiendi. La seconda via dimostra l'esistenza di una Causa prima, non causata. Terza via (si preferisce in questo caso l'analogo testo della Summa contra gentiles, perché più semplice):"Vediamo nel mondo alcune cose che possono essere e non essere, ossia le cose generabili e corruttibili. Ora tutto ciò che può essere e non essere ha una causa; poichè, siccome per sé sta in uguale rapporto all'essere e al non essere, se gli è attribuito l'essere, è necessario che ciò sia in virtù di una causa. Ma nelle cause non si può procedere all'infinito....dunque è necessario porre qualcosa che esista indefettibilmente. Ma ogni ente indefettibile o ha fuori di sé la causa della sua indefettibilità, oppure non l'ha fuori di sé, ma è indefettibile per sé stesso, ossia è necessariamente. Ora non si può procedere all'infinito nelle serie degli enti indefettibili che hanno fuori di sé la causa della loro indefettibilità. Dunque bisogna porre un primo ente indefettibile che è indefettibile per sé stesso, ossia rigorosamente necessario. E questo è Dio". Il fatto da cui si parte è l'esistenza di cose generabili e corruttibili, che possono cioè venir meno (questo è il significato di defettibile). Si tratta delle cose materiali. Dal momento che occorre supporre che vi siano sempre stati degli enti (altrimenti non vi sarebbe nulla ora), è evidente che la totalità del reale non può essere consistita , da tutta l'eternità, solamente di cose defettibili. La terza via conduce, quindi, ad affermare l'esistenza di un essere che per sua natura deve esistere, cioè di un Essere necessario.Quarta via :La quarta via parte dalla gradazione che si trova nelle cose. C'è, infatti, nelle cose il più e il meno buono, il più e il meno vero, nobile, e così di altre tali perfezioni. Ma il più e il meno si predicano di diversi soggetti in quanto diversamente si avvicinano ad alcunchè che sia al massimo grado; come il più caldo è ciò che si avvicina di più al caldo in sommo grado. Esiste dunque un ente verissimo, ottimo, nobilissimo e quindi sommamente ente, poiché ciò che è sommamente vero è sommamente ente,...ma ciò che è in sommo grado in un dato genere è causa di tutti gli enti di quel genere, come il fuoco, che è sommamente caldo, è causa di tutti i calori...Dunque esiste un ente che è causa dell'essere, della bontà e di ogni perfezione di tutti gli altri enti, e questo noi chiamiamo Dio". La quarta via è la più platonica delle cinque, anche se il suo punto di partenza si ritrova pure in Aristotele. Il fatto da cui parte la quarta via è l'esistenza di una gradazione, di un più e un meno nelle perfezioni. Si parte da una gradazione reale, dal fatto che le cose sono più o meno perfette, quindi il punto di arrivo, la massima perfezione che è ragion d'essere di quel più e di quel meno, deve essere reale, non può essere semplicemente l'idea di perfettissimo. Del resto anche coloro che negano che vi sia in realtà una gerarchia di perfezioni, cioè degli enti più perfetti di altri (ad es. l'uomo è più perfetto dell'animale), non tengono fede di fatto a questa loro tesi. Ogni giudizio di valore, infatti, suppone l'affermazione di una gerarchia di valori. Le perfezioni che si debbono considerare sono soltanto le perfezioni trascendentali, convertibili con l'essere (verità, bontà, bellezza), oppure quelle superiori spirituali (conoscere, volere). Il principio che si applica è il seguente: se una cosa possiede una perfezione in grado maggiore o minore di un'altra, la ragione sufficiente di tale perfezione non è la natura stessa della cosa. Infatti, ciò che costituisce la natura di un ente, non può appartenergli più o meno, ma deve appartenergli totalmente (Es. non si è più o meno uomo). Le cose invece sono alcune più, altre meno vere (intelligibili); dunque queste perfezioni non costituiscono la loro natura. Ora affermare che una perfezione non costituisce la natura delle cose alle quali appartiene equivale a dire che tali cose più o meno perfette partecipano di quella perfezione, ossia l'hanno da un altro. Non hanno quella perfezione per loro natura, eppure l'hanno; dunque l'hanno da un altro. Ma se quest'altro non è la perfezione, ossia non è quella perfezione per sua propria natura, anch'esso ne partecipa; e siccome anche qui, per la ragione vista nelle prime tre vie, non si può andare all'infinito, bisogna arrivare a qualche cosa che sia per sé quelle perfezione. E questo deve avere, o meglio deve essere quella perfezione in sommo grado. Come è stato notato, la quarta via si potrebbe riassumere con queste parole: c'è del bene a questo mondo; non si capirebbe perché non ci sia tutto il bene, se questo mondo fosse l'assoluto; non si capirebbe perché ci fosse del bene, se non ci fosse, da qualche parte, un bene assoluto. Quinta via: "La quinta via parte dal governo delle cose. Vediamo, infatti, che alcuni enti privi di conoscenza, ossia i corpi della natura, operano per un fine; il che risulta da questo: che sempre o il più delle volte operano in modo tale da conseguire ciò che per essi è il meglio. Da ciò è manifesto che non a caso, ma perché vi sono orientati, pervengono al fine. Ma gli enti privi di conoscenza non tendono ad un fine se non vi siano diretti da qualcuno che ha conoscenza ed intelligenza, come la freccia è diretta dall'arciere. Dunque vi è un ente intelligente dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, e questo noi diciamo Dio". Nella quinta via non si parte da un finalismo universale, che non è immediatamente evidente, ma dal finalismo di certi enti privi di conoscenza (in particolare dai corpi viventi animali e vegetali). La finalità dalla quale si parte è una finalità intrinseca ad ogni ente considerato, è l'orientamento di tutte le attività di un ente al bene dell'ente stesso che opera: per es. di tutte le attività che si svolgono nell'ambito di un vivente alla conservazione, alla difesa del vivente stesso. Il finalismo è inferito indirettamente dalla perfezione e dalla costanza dell'operazione (es. la respirazione in un organismo avviene continuamente). Occorre precisare che di per sé la presenza del finalismo non esclude per nulla che si possa dare anche una spiegazione dei fenomeni ricorrendo a determinate cause efficienti. È stato poi notato che a rigore la quinta via per sé dimostra solo l'esistenza di un Ordinatore, non di un Creatore e che essa non escluderebbe neppure che vi siano più ordinatori. Occorrerà dimostrare che l'Ordinatore è uno ed è pure Creatore. Ciò costituisce un compito indubbiamente più facile all'interno di un universo quale è quello tommasiano, in cui il dinamismo finalistico è insito nei singoli enti e non costituisce un'aggiunta estrinseca rispetto ad essi. Appare significativo, in questa prospettiva, che a partire dal finalismo Tommaso inferisca talora la libertà del Primo principio. Alla base della necessità delle nature ci deve essere la libertà. Accanto alle più famose "cinque vie" Tommaso propone anche altre argomentazioni al fine di provare l'esistenza di Dio che talvolta risultano essere più originali, perché più intrinsecamente connesse con i principi ontologici che sono caratteristici della sua metafisica. Dovendo scegliere fra diverse formulazioni, ci riferiamo, in particolare, a quelle vie, espressione di un pensiero ormai maturo, che si ritrovano nella terza Quaestio de potentia Dei . In essa, rifacendosi deliberatamente alla precedente tradizione filosofica, per dimostrare che tutto nel mondo non possiede in sé stesso il fondamento della sua esistenza, ma deve essere stato creato dall'Assoluto trascendente, Tommaso ricorre a tre significativi e complementari argomenti che si ritrovano pure in altre opere e che qui sono felicemente accomunati. Essi non sono considerati esplicitamente "vie" a Dio come quelle famose della Summa theologiae , ma, come vedremo, coincidono con alcune di quelle che in quell'opera Tommaso definisce "vie". Il primo e più radicale argomento, cui già si è parzialmente accennato e la cui paternità Tommaso attribuisce a Platone, è il seguente: dal momento che l'atto d'essere è una perfezione comune a molteplici enti fra di loro diversi, esso non può derivare da quegli stessi enti, ma da un'unica causa superiore. In altri termini la totalità dell'essere non può coincidere con la somma degli enti limitati perché il fondamento della loro unità (l'atto d'essere che li accomuna) non può venire da essi. Attraverso la negazione del contraddittorio è possibile dimostrare che la via citata presuppone che l'ente trascendentale non è equivoco, né univoco, ma analogo: "Ad esso deve dunque corrispondere un Essere sussistente ipostaticamente distinto dagli enti, ché se gli corrispondesse solamente una natura essendi che fosse una sola idealmente e fosse immanente agli enti, sarebbe univoco e se non gli corrispondesse nulla sarebbe equivoco". Viene così confermata la concezione analogica dell'ente propria di Tommaso. L'argomento citato che, in quanto si basa sulla perfezione radicale dell'atto d'essere e sulla composizione di essenza ed atto d'essere, riflette a nostro parere la struttura profonda della metafisica tommasiana, costituisce in certo senso una riformulazione della "seconda" e della "quarta via" della Summa theologiae. A questa ultima "via" si avvicina in modo esplicito, nonostante il cenno finale all'aristotelico Motore immobile, il secondo argomento. Esso, la cui paternità viene attribuita allo Stagirita nonostante il suo chiaro impianto platonico, si basa sull'affermazione che quando una perfezione come l'essere è diversamente partecipata da più enti è necessario che sia attribuita ad essi da quell'Essere in cui la si ritrova in tutta la sua purezza. Infine il terzo argomento, che si rifà ad Avicenna, fa riferimento alla necessità che all'origine degli enti (che, in quanto defettibili, si rivelano essere composti) vi sia un Essere che sia Atto puro, privo di composizione, da cui devono derivare tutti gli enti finiti. La prima "via" delle Quaestiones de potentia Dei può definirsi "dialettica dell'uno e del molteplice", la seconda "dialettica del più e del meno", la terza "dialettica del semplice e del composto". Per mezzo di questi tre diversi ma complementari percorsi si perviene a Dio inteso rispettivamente come Essere, causa dell'essere, quale Principio perfettissimo e quale Somma semplicità. Al termine di queste "vie" Tommaso argomenta, polemizzando soprattutto contro il dualismo manicheo, riproposto ai suoi tempi dai catari, per contrastare i quali era sorto lo stesso ordine domenicano, che il primo principio della realtà deve essere unico. L'essere, essendo comune a tutti gli enti, deve emanare da un unico principio. In particolare, il male, in quanto privazione di atto e di esistenza, non può fungere da causa agente e non può costituire, perciò, un secondo principio metafisico . Le "vie" appena citate riflettono bene, nel loro insieme, la struttura dell'ascesa a Dio che sorregge intimamente la metafisica di Tommaso. Esse manifestano, infatti, la complementarità degli itinerari a partire da due diversi segni di contingenza: dall'esperienza della perfezione limitata e della molteplicità ("quarta via" della Summa theologiae, corrispondente alle prime due delle Quaestiones de potentia Dei) e di quello a partire dalla strutturale composizione degli enti, quale si manifesta nell'esperienza del loro divenire e, in particolare, della loro defettibilità (le prime tre vie e, in particolare, la terza della Summa, corrispondente alla terza delle Quaestiones de potentia Dei ). Entrambe i generi di "vie" prendono spunto, significativamente, dalle due dimensioni costitutive e reciprocamente implicantesi dell'atto d'essere, "attualità di ogni atto" e "perfezione di ogni perfezione", cardine perciò della metafisica di Tommaso. La prima accentuazione, infatti, si fonda prevalentemente sul carattere "perfettivo" dell'atto d'essere, la seconda prevalentemente su quello "esistentivo". Su entrambe queste accentuazioni si fonderà, come vedremo, pure la concezione tommasiana della partecipazione che regola il rapporto fra il mondo e Dio: sulla prima la partecipazione cosiddetta "per gerarchia formale", sulla seconda la partecipazione cosiddetta "per composizione". 7) I nomi di Dio Una volta asserita attraverso le "vie" l'esistenza di un Primo principio "che tutti chiamano Dio", che cosa possiamo affermare di Lui? Come conciliare l'esigenza di affermare la piena trascendenza di Dio e, insieme, il desiderio di parlare di Lui, dal momento che Egli è la causa di tutto? Ogni via, come si è notato, conduce anche all'affermazione di un particolare nome divino. Da questi nomi se ne possono dedurre degli altri. Innanzi tutto questi nomi di Dio implicano tutti la sua semplicità. Che Dio sia semplice, trattandosi del Primo principio della realtà, non può essere messo in discussione. Altrimenti, come bene evidenzia Tommaso, sarebbe necessario ammettere l'esistenza in Lui di componenti che lo precedono, quindi anche di potenza passiva, e ricorrere ad un ulteriore Principio che dia ragione della composizione. La semplicità, che presuppone la negazione della composizione in quanto prerogativa del finito, appare come la condizione in base a cui dovranno pensarsi tutti gli altri nomi, poiché presiede alla distinzione Creatore-creatura. A motivo della sua sovrana semplicità, di Dio non si può conoscere l'essenza, ma, seppur in forma limitata, si può affermare qualcosa di vero su di Lui a partire dai suoi effetti. In altri termini, come si è già accennato, di Dio si può conoscere l'essere nel senso che si può sapere che è, non conoscere la sua essenza, identica con il suo esse . Nella Summa theologiae Tommaso ricorre alla via remotionis per affermare la semplicità divina (negando in Lui ogni forma di composizione), quindi alla via causalitatis dagli effetti alla causa (cogliendo le implicazioni del fatto che Egli è la causa di tutte le cose) per affermare la sua perfezione, infinità e presenza in ogni ente e, infine, alla via eminentiae (sottolineando che Egli è al di là di ogni mutamento) per affermare la sua immutabilità, eternità ed unità. Innanzi tutto, quando si tratta di Dio in teologia, occorre escludere quegli attributi propri delle creature (quale, ad esempio, esercitare atti corporei) che, apparentemente significano perfezione e potenza, ma che in realtà indicano limite ed impotenza. Osserva Tommaso che "quando si tratta di Dio e quando si tratta in generale degli enti incorporei non bisogna farsi trasportare dall'immaginazione". Essendo, infatti, l'immaginazione una conseguenza della sensazione, essa non può trascendere la dimensione della quantità che è il sostrato delle qualità sensibili. I nomi di sostanze o qualità corporee, quando sono attribuiti a Dio, come avviene nella Bibbia, hanno sì un valore, ma soltanto metaforico. Essi vengono applicati a Dio "per la somiglianza dell'effetto". All'Assoluto, invece, in quanto causa del mondo, si possono attribuire in positivo propriamente soltanto nomi di perfezioni trascendentali (quali Bene, Verità) e di perfezioni spirituali (quali Intelligente, Libero), le quali si manifestano nella loro purezza come intrascendibili. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di Dio non è esente da difficoltà. I limiti della nostra conoscenza di Dio sono dati dal fatto che ciò che in Lui, Causa prima, è in somma unità e semplicità, nelle creature, suoi effetti, da cui la nostra conoscenza prende avvio, lo si ritrova invece in una modalità frammentaria e dispersa, come l'immagine riflessa in uno specchio assume una diversa fisionomia rispetto all'originale . Invero noi conosciamo tutte le perfezioni e innanzi tutto lo stesso atto d'essere che attua ogni ente soltanto in quanto limitate e partecipate. Nel mondo, infatti, esse, se sono infinite, non sono mai sussistenti, se invece sono partecipate da un ente concreto, cioè composto, sono sempre necessariamente finite. Perciò quando si tratta degli attributi di Dio, occorre necessariamente distinguere tra ciò che viene espresso - il significato (ratio nominis) ed i modi di esprimerlo (modus significandi). La perfezione creata differisce infinitamente dalla perfezione increata come dal suo modo d'essere, cioè "quantum ad esse". Il suo significato (la ratio nominis), tuttavia, non è totalmente differente. V'è stato qualche mutamento, ma non una totale corruzione cosicché, ad esempio, noi abbiamo una ratio completamente diversa per il nome della sapienza quando è detto di Dio e quando è detto delle creature. A Dio le perfezioni devono essere attribuite secondo tutta la loro ampiezza originaria e non nella misura in cui sono partecipate dalle creature e da noi conosciute. Si tratta, quindi, di far uso della predicazione analogica che si distingue da quella univoca come da quella equivoca e che rimanda dagli effetti alla Causa che infinitamente li sopravanza. In Dio, sempre a motivo della sua semplicità, tutti gli attributi (in particolare le perfezioni trascendentali e quelle spirituali) coincidono. Ciò non significa, tuttavia, che questi attributi siano sinonimi. Ciascuno, invece, dice qualcosa di vero e insieme di peculiare intorno alla sua essenza. È perfettamente comprensibile, infatti, che per il limite insito nella nostra ragione immersa nella molteplicità, non si possa conoscere una realtà semplicissima se non ricorrendo a molteplici nomi che permettono di approssimarsi alla sua essenza, senza tuttavia mai comprenderla. A causa di queste limitazioni della nostra conoscenza, anche per Tommaso come per Dionigi le diverse perfezioni che ritroviamo negli enti possono essere riferite a Dio, ma debbono essere successivamente negate e, quindi, affermate su un piano più elevato (per eminentiam). Tuttavia è importante evidenziare che la negazione suppone sempre per Tommaso una previa affermazione riguardo a Dio e che la negazione stessa delimita il senso del nome. Perciò la teologia negativa non ha a che fare con il Nulla nel senso attribuito a questa parola da buona parte del pensiero contemporaneo. Inoltre il fatto che si attribuiscano a Dio delle perfezioni, seppur in una misura da noi non determinabile - le perfezioni, infatti, sono originariamente in Dio e solo per partecipazione nelle creature che conosciamo per prime - non toglie che pur sempre esse si riferiscano a Dio e non si tratti semplicemente di attributi "considerati non in riferimento alla Sua essenza, ma in riferimento alle cose che sono create" o aventi un significato meramente negativo come voleva Mosé Maimonide. Per Tommaso la soluzione radicale di Maimonide non è proponibile. Contro il primo modello quello della somiglianza degli effetti - egli obietta che ciò finirebbe per porre nomi come infuocato sullo stesso piano di sapiente, poiché gli effetti di Dio assomigliano talvolta al fuoco. Di più: si renderebbe così la predicazione significante riguardo a Dio dipendente dall'esistenza dei suoi effetti. Tommaso rifiuta pure il secondo modello obiettando che ogni nome comporta una qualche negazione, essendo diverso dagli altri nomi. Inoltre, come già notato, egli mostra contro Maimonide, rifacendosi a Dionigi, che ogni atto di negazione suppone una previa affermazione. Come è stato sottolineato: "Il pericolo presente in una dottrina indeterminata della rimozione è che il negativo distruggerà ogni contenuto positivo e priverà così il linguaggio di senso. Questo è il rischio che Tommaso sottolinea in Maimonide. L'alternativa a Maimonide è una rimozione che è connessa ad una certa intenzionalità positiva. La predicazione dionisiana per sopraeminenza rappresenta il tentativo di proiettare un'intenzione attraverso un momento negativo, attraverso la rimozione. L'intenzione punta a ciò che sarebbe significato dai predicati veri se il loro modo di significazione potesse essere corretto. Ma ciò non può avvenire nella condizione della vita presente. Il progetto di correzione resta, quindi, soltanto un desiderio, ma un desiderio incorporato adesso in ciò che è negato, il prolungamento dell'intenzionalità del linguaggio riguardo a Dio. L'intenzionalità non è soddisfatta dal passaggio in teologia. Essa è piuttosto arricchita e resa esplicita. Il linguaggio teologico costituisce un'espressione più schietta del desiderio di unione con Dio poichè esso per mezzo della grazia è un desiderio reso più efficace". Tommaso, quindi, deduce i nomi divini, mostrando come in Dio non vi sia quella finitudine e composizione di diversi principi che è, invece, caratteristica strutturale degli enti finiti. Si comprende, in questa prospettiva, perché l'attributo di Dio privilegiato da Tommaso sia quello di Essere. L'essere, infatti, è ciò che, in quanto tale, si mostra meno limitato e determinato; perciò, come già notava Giovanni Damasceno, esso può essere riferito con minori rischi a Dio. Egli, infatti, essendo perfettissimo, non è inquadrabile in alcun genere. Non essendovi in Lui partecipazione, i suoi attributi devono necessariamente coincidere con la sua essenza. In questa prospettiva Tommaso si colloca manifestamente nel filone della tradizione agostiniana che interpreta il passo dell'Esodo, in cui Dio denomina Sé stesso "Io sono Colui che sono", come l'attribuzione a Dio del carattere di Essere perfettissimo e immutabile. Ma egli rielabora questa nozione alla luce della sua originale concezione dell'atto d'essere. Essendo l'atto d'essere puro, Dio è pienezza di attualità esistentiva e di perfezione, dal momento che ogni possibile perfezione e determinazione è compresa nell'esse ut actus, inteso nella sua purezza e semplicità ovvero non partecipato e limitato da particolari determinazioni. Ispirandosi a Dionigi, Tommaso ricorre sovente al paragone della bianchezza. Se questa fosse sussistente, comprenderebbe in sé stessa tutte le possibili tonalità di bianco che si ritrovano disperse nei diversi enti. Ma ciò vale, in realtà, secondo Tommaso, soltanto per la perfezione radicale che è l'atto d'essere. Mentre all'ente creato (ens commune) si può aggiungere in linea di principio qualsiasi determinazione o perfezione, all'essere di Dio, pienezza di essere, per sua natura nulla può essere aggiunto. Egli precontiene in Sé stesso in modo sintetico ogni possibile perfezione. Occorre precisare che, sebbene il nome più proprio di Dio sia quello di Atto d'essere sussistente (Ipsum esse subsistens, Esse purum, Esse separatum), dal momento che nella sua semplicità atto d'essere ed essenza coincidono, è anche possibile e legittimo ricorrere, come fa Tommaso, ad attributi quali Essenza divina ed Idea divina. Essere atto d'essere puro non significa, infatti, fare a meno della dimensione dell'essenza, ma al contrario possedere virtualmente tutte le perfezioni nell'ordine dell'essenza, ma senza le imperfezioni proprie delle essenze create: "Tutte le perfezioni proprie delle cose sono delle somiglianze dell'Essere divino". In questo Tommaso si differenzia da Avicenna, per il quale la semplicità di Dio significa che Egli è puro essere senza essenza. Date queste premesse, l'esemplarismo è pienamente compreso nella metafisica dell'actus essendi. La realtà del mondo trova il suo paradigma sintetico nella semplicità dell'Essenza divina identica con il suo esse. La concezione tommasiana di Dio come Atto d'essere sussistente risente certamente di tutta la tradizione neoplatonica e, in particolare, della nozione di ens separatum che è la prima ipostasi nei sistemi plotiniano e procliano. Da quella tradizione o almeno dal suo filone dominante essa, tuttavia, si differenzia perché l'attributo principale del Primo principio diventa l'essere o meglio l'actus essendi e non più l'uno o il bene. In realtà Plotino, Proclo, ma anche il cristiano Dionigi non osavano chiamare l'assoluto "Essere". Per loro, proprio per il fatto che è all'origine dell'essere, l'Assoluto è l'Uno, il Bene, ciò che per definizione è al di là dell'essere. Essi non erano sufficientemente consapevoli del valore determinante rappresentato dalla perfezione massima, perché decisiva, quella che Tommaso chiama l' esse. Perciò attribuire a Dio il nome di Essere avrebbe significato, per loro, diminuire l'Assoluto e abbassarlo alla stregua degli enti finiti. Commentando il Liber de causis, che segna già una notevole novità rispetto al platonismo pagano, Tommaso afferma, infatti, che, mentre i neoplatonici sostengono che "la Causa prima oltrepassa l'ente, in quanto l'essenza della bontà e dell'unità che è la Causa prima supera lo stesso essere separato", invece nella sua prospettiva "la Causa prima è sopra l'ente, poiché è l'Esse infinito". Nell'attuale temperie culturale, contraddistinta da una diffusa critica della tradizione metafisica occidentale, è opportuno precisare che denominare Dio Essere non significa entificarlo, ridurlo. L'Essere di Tommaso, in quanto atto d'essere puro, non è meno trascendente e ineffabile dell'Uno neoplatonico; è solo meno vago. Esso è infinito come il "ciò di cui non si può pensare il maggiore" di Anselmo. Il nome di Esse subsistens comprende e invera altri nomi di Dio che corrono maggiormente il rischio dell'essenzialismo, cioè di una mera riduzione dell'Infinito ai nostri concetti. Se Dio è l'Atto d'essere puro, tutto l'universo non può non derivare da Lui in ciò che ha di più comune, di più perfetto e di più intimo, l'atto d'essere. Soltanto se Dio è l' Essere per eccellenza è veramente pensabile la creazione. La nozione di Dio come Atto d'essere susssistente salva, così, la sua trascendenza e, insieme, la sua immanenza rispetto al mondo. A partire dal fondamentale attributo di Dio quale Esse subsistens si possono ricavare gli altri attributi quali la sua unicità, la sua semplicità, la sua bontà o perfezione senza limite e la sua infinità (nel senso di privazione), il che significa che Dio non è "finito", cioè definito e delimitato da alcuna determinazione. A differenza di quanto avviene nella teologia di Duns Scoto, che si muove su di un piano "essenzialistico", qui l'infinità di Dio è già implicita nel suo essere Esse purum e non deve, quindi, essere "aggiunta" all'essenza divina onde distinguerla dal mondo. Il fatto che Dio sia Atto puro implica poi nella prospettiva aristotelica, fatta propria dall'Aquinate, che Egli sia immutabile, immateriale ed eterno. Tommaso condivide la definizione boeziana dell'eternità di Dio come "possesso simultaneo e perfetto di una vita senza fine". Nell'Assoluto l'eternità si risolve, per così dire, in un eterno presente. Significativa per le sue implicazioni sul piano della creazione e della vita trinitaria è, in particolare, la deduzione degli attributi "spirituali" o, se si preferisce, "personali" dell'Assoluto. Nella visione di Tommaso non soltanto non vi è contraddizione tra la dimensione dell'atto d'essere e quella spirituale-intellettuale, ma l'una rimanda all'altra. Ciò vale a maggior ragione in Dio a motivo della sua semplicità. In particolare nelle Quaestiones de potentia Dei l'approfondimento del tema dell'atto d'essere e di Dio come Essere sussistente va significativamente di pari passo con la riflessione teologica su Dio quale sommo Intelligere che genera il Verbo. Invero come già aveva notato Aristotele, in quanto Atto puro, privo di materia, Dio non può essere che spirituale. Per la sua semplicità, in Dio il puro esse coincide con il puro atto di conoscere (intelligere) e con il puro atto di volere (velle). Onde giustificare la presenza, in Lui, dell'intelligenza e della volontà, Tommaso ricorre anche ad altri argomenti di derivazione più accentuatamente platonica, che si rifanno alla gerarchia delle perfezioni. Nel Compendium theologiae, ad esempio, egli afferma: "tutte le perfezioni sono una sola cosa in Dio....Ciò è evidente se consideriamo le potenze conoscitive; la potenza superiore con una sola e identica forza conosce tutto ciò che le forze inferiori raggiungono con mezzi diversi, dato che tutto ciò che la vista, l'udito e gli altri sensi percepiscono, l'intelletto giudica con un'unica e semplice energia. Qualcosa di simile avviene nelle scienze, poiché, anche se i gradi inferiori del sapere sono tanti quanti i diversi generi delle cose corrispondenti ai loro oggetti, esiste una scienza superiore che li contiene tutti e questa è la metafisica...allo stesso modo le perfezioni che nelle cose inferiori seguono la molteplicità insita nella diversità delle cose stesse, si unificano in Dio, il quale è situato al vertice di tutti gli enti". Come si nota nella Summa theologiae "nessun intelletto creato può presentarsi come l'atto di tutto l'ente universale, perché bisognerebbe che fosse un ente infinito. Quindi ogni intelletto creato, in forza della sua essenza, non è l'atto di tutti gli intelligibili, ma sta ad essi come la potenza sta all'atto ". L'essere e l'intellezione non possono, perciò, essere identici se non in Colui in cui l'atto d'essere, essendo infinito, precontiene in se stesso ogni ente reale o possibile. Anche per questo soltanto Dio non è in potenza nel suo atto d'intellezione e la sua conoscenza non include alcuna recettività. In sintesi: ciò che distingue, secondo Tommaso, Dio dalla creatura dal punto di vista dell'intelligenza è che 1) in Dio l'intelligenza è identica all'essenza: l'intelligenza si trova per essenza in Dio e non per accidente; 2) l'intelligenza di Dio, che è la sua stessa essenza, è identica all'atto di conoscere: non v'è distinzione fra il potere di conoscere e l'atto di conoscere o intellezione. Dunque l'intellezione è l'essenza di Dio; 3) di conseguenza l'intellezione non è altro che l'essere di Dio; non v'è distinzione fra l'essere divino e la sua operazione, essere e conoscere non fanno che una sola cosa in Dio; il conoscere divino è puro atto di conoscenza; 4) in Dio, quindi, intelletto e intelligibile sono identici: Dio pensa Sé stesso. Queste caratteristiche si fondano tutte sulla semplicità di Dio che impedisce di ammettere in Lui alcuna composizione di potenza ed atto. In quanto pienezza d'essere e di perfezione, Dio non può non conoscere in Sé stesso non soltanto tutta la realtà che da Lui è causata nell'essere, ma anche tutto il mondo dei possibili. In Dio la conoscenza non ha quell'aspetto di imperfezione e di dipendenza che essa possiede nelle creature e che è connesso all'intenzionalità del pensiero: "...come ciò che noi possiamo conoscere può esistere senza che ci sia la nostra conoscenza...così la scienza di Dio può esserci senza che esista ciò che essa conosce". Così pure, essendo Egli Atto puro, nella conoscenza divina non v'è mai un aspetto di potenzialità che deve essere successivamente attuato come, invece, accade in noi. In particolare: come sul piano dell'essere ogni cosa è in Dio come nella sua causa e di Lui partecipa intimamente, essendo da Lui creata e tenuta nell'essere, così sul piano della conoscenza, ogni cosa è da Dio conosciuta nella sua semplice idea, coincidente con la sua essenza. In virtù della distinzione fra l'oggetto conosciuto e la forma intelligibile la molteplicità degli oggetti conosciuti non si oppone, quindi, alla semplicità divina : "Nell'intelletto divino non ci sono però diverse realtà nelle quali Dio conosca, perché Egli conosce soltanto con quell'unica realtà che è la sua essenza. Ma vi sono in Lui molte realtà nel senso che sono da Lui conosciute. Come infatti noi sappiamo che la creatura può imitare Dio in molti modi, così anche Dio lo sa e di conseguenza conosce le diverse relazioni della creatura a Dio". In questo modo si comprende che Dio può conoscere ogni singolo ente e non soltanto le essenze di ogni specie, come aveva sostenuto, tra gli altri, Avicenna. La partecipazione cosiddetta "per gerarchia formale", di derivazione platonica, riflette la struttura della conoscenza che Dio ha della creazione. Infine come l'Assoluto è intelligenza somma, così pure è volontà e libertà somme . Volendo Sé stesso, Dio vuole in Sé stesso la realtà da Lui creata. La libertà di Dio si manifesta pienamente nella creazione del mondo. 8) La comunicazione intratrinitaria Tommaso precisa che dal momento che Dio è Atto d'essere puro, somma attualità del tutto priva di potenza passiva, Egli è in sommo grado potenza attiva. Nella sua semplicità l'essenza coincide con la potenza e questa con l'azione, identica con il suo agire (agere). Benché, in questo caso, il termine potenza non aggiunga nulla che non sia già compreso nell'essenza, tuttavia dal punto di vista della nostra conoscenza ha senso ricorrere al termine potenza quando si tratta di Dio, poiché "è l'essenza stessa che per il fatto di essere principio dell'azione si presenta come potenza". Grazie alla sua semplicità e perfezione, a differenza degli enti finiti, Dio non deve ricorrere a molteplici "potenze" o facoltà per agire. La tematica prettamente teologica della vita intratrinitaria fa parte a pieno diritto della trattazione della potenza divina. Prima ancora della creazione, la generazione del Verbo e la spirazione dello Spirito Santo rientrano nell'attività di Dio, Atto puro e Somma potenza attiva. L'idea di onnipotenza, intesa come generica capacità della natura divina di agire comunicandosi, viene liberata dal limitante riferimento alla creazione. Ciò è possibile sotto il profilo concettuale, perché per Tommaso le categorie di "potenza attiva" e di "principio" non si riducono a quelle di causa o di potenza attiva in senso aristotelico, intese come "principio di trasformazione in altro in quanto altro" . Come in Avicenna esse non implicano necessariamente un effetto "altro" da sé e neppure inferiore a sé . In effetti nota Tommaso nella Summa contra gentiles che "in base alla diversità delle nature si ha nelle cose una diversa modalità di emanazione: e quanto più qualche natura è elevata, tanto più ciò che da lei emana è intimo ad essa" . Data questa prospettiva metafisica si comprende come in Dio, Essere sommo, la comunicazione della sua potenza possa avvenire all'interno dell'essenza stessa. A differenza di quanto accade nelle creature, la categoria di potenza attiva non implica neppure, in Lui, un azione distinta dalla potenza che, come tale, sia più perfetta della potenza stessa. Nell'Assoluto, infatti, la potenza attiva coincide con l'azione . Secondo la dogmatica cristiana l'unica essenza di Dio si distingue in tre Persone in forza di una distinzione reale. La fondazione da parte di Tommaso della categoria di "relazione sussistente", cioè di una relazione che sussiste in modo autonomo, permette di "individuare" in modo convincente le singole persone nell'unica essenza divina. Al di fuori della relazione di "spirazione attiva" (del Padre e del Figlio nei confronti dello Spirito), ogni specifica relazione all'interno della Trinità rivela la presenza di una determinata Persona. Le tre persone sono sussistenti perché identiche in re con l'unica essenza, ma tale sussistenza in ratione è distinguibile perché si fonda sulla personalizzazione dell'essenza stessa. In questo modo la necessaria unità, richiesta dal monoteismo biblico, non rende evanescente il distinguersi personale in Dio. A partire da queste premesse è possibile conciliare nella comunicazione intratrinitaria l'azione dell'unica essenza con l'intervento delle singole Persone (dimensione "nozionale"). Secondo Tommaso nella generazione del Verbo agisce un duplice principio: un principium quo o mezzo condizione dell'azione, di carattere operativo, l'essenza, che viene assunto e liberamente determinato dal principium quod o soggetto dell'azione, il Padre. Grazie a Questi, l'unica operatività divina acquista una sua singolare specificazione, in questo caso la generazione. La potentia generandi rappresenta, così, l'agire personale di un particolare soggetto individuale in forza di un principio operativo essenziale. Tommaso accoglie poi da Agostino il nocciolo della sua dottrina trinitaria "psicologica", in base a cui la produzione del concetto o verbo mentale, che contraddistingue il conoscere umano, presenta un'analogia privilegiata con la generazione del Verbo. Ma, a differenza di quanto avviene in Dio, "innanzi tutto il nostro verbo è diverso dall'essenza dell'intelletto....l'Intelletto divino, invece, che è per sua essenza in una condizione intellettuale perfettamente attuata, non può ricevere una forma intelligibile che non sia la sua essenza. D'altra parte la natura stessa di Dio è la sua intellettualità e perciò la comunicazione che avviene nella maniera intelligibile è anche comunicazione di natura, sicchè si può parlare di generazione". Una volta affermata la semplicità dell'Assoluto, in cui essenza ed atto d'essere coincidono, si deduce che nella conoscenza divina il concetto coincide con il conoscere e questo con l'essenza stessa di Dio per cui equivale all'atto di generare . La generazione del Verbo si distingue, così, dall'altra forma di comunicazione, la creazione, perché si mantiene al di fuori di ogni composizione e divisione, avvenendo dall'eternità in modo immediato all'interno dell'unica e semplice essenza divina, e perché ha luogo necessariamente (il che non significa per costrizione ). Come nota Tommaso, "la differenza tra la volontà e la natura sta nel fatto che ogni natura è determinata, sia perché l'effetto prodotto in virtù della natura è solo un determinato effetto, sia perché è determinato il fatto stesso di produrlo o non produrlo. La volontà, invece, non è determinata da nessuno di questi due punti di vista". Perciò, a differenza delle creature il Verbo non può essere e non essere, cioè essere sottoposto alla contingenza. Segno di questa necessità della generazione è il fatto che il Verbo, a differenza delle creature che sono inferiori alla loro Causa e perciò molteplici, è unico e uguale al Padre. In Lui, come nello Spirito, l'avere l'essere da un altro non è segno di carenza ontologica . Infine, benché anche il Figlio e lo Spirito conoscano, soltanto alla Persona del Padre conviene di concepire e di generare . Rispetto alla generazione del Verbo la spirazione della terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, si distingue per il fatto che per essa non vale la similitudine con la generazione del concetto nella mente. L'amore fra Padre e Figlio (l'amore di Dio nei riguardi di Sé stesso), relazione che descrive la specificità della Terza persona, presuppone la generazione del Verbo. Mentre nel caso della generazione del Figlio è la modalità stessa della processione che fa sì che Egli proceda somigliando nella specie a quella di chi lo genera, nel caso della spirazione dello Spirito Santo questa somiglianza di specie lo Spirito Santo "non l'ha per la modalità della processione, ma piuttosto per ciò che è proprio della natura divina, perché in Dio non può esserci qualcosa che non sia Dio e quindi lo stesso amore divino è Dio, in quanto appunto è divino, non in quanto è amore". Nella prospettiva di Tommaso l'amore è, in Dio, una perfezione pura, capace di generare non solo un'operazione, ma un termine preciso come l'attività intellettuale genera il verbo. Per l'Aquinate, come per tutta la tradizione teologica cristiana che si rifà al messaggio di Paolo e di Giovanni e che reinterpreta il pensiero platonico, il mondo è stato creato dal Dio Trinità nel Figlio, Verbo di Dio, generato dal Padre. La peculiarità dell'intervento delle singole persone della Trinità si manifesta nel Padre come potenza in grado di creare, nel Verbo come immagine della realtà creata, nello Spirito come l'Amore che costituisce il fine della creazione. Alle tre persone della Trinità corrispondono, così, rispettivamente la causalità efficiente, esemplare e finale. Nella prospettiva trinitaria la nozione di Creatore si rivela, quindi, più ricca di quella di "Causa prima". Come è stato giustamente sottolineato, la riduzione dell'azione creatrice alla sola Essenza divina, escludendo le Persone, come avverrà a partire dalla Seconda scolastica e dalla cosiddetta "teologia manualistica", costituisce una deformazione dell'autentico pensiero di Tommaso. Invero nella sua prospettiva l'originalità dell'atto creatore non sta nel fatto dell'esclusione delle Persone, ma piuttosto nel fatto che le tre Persone agiscono in comune. Vi è, perciò, come si può apprezzare, tra generazione del Verbo e creazione del mondo un nesso strettissimo che, tuttavia, salvaguarda la specificità di ciascuna modalità di comunicazione. In Dio conoscenza di Sé come generazione necessaria e conoscenza di altro da Sé come creazione libera sono non soltanto compossibili, ma si implicano a vicenda nel modo in cui coesistono e si implicano all'interno della conoscenza umana apprensione necessaria dei primi principi dell'intelletto speculativo e pratico (rispettivamente ente e bene) e capacità contingente di raggiungere le conclusioni o scelta libera dei mezzi onde raggiungere il fine. Così la creazione presuppone necessariamente, in Dio, la generazione. La stessa Potenza divina sta a fondamento della generazione necessaria come della creazione libera. Tuttavia, come nell'uomo la conoscenza necessaria dei primi principi dell'intelletto non implica un analogo possesso delle conseguenze degli stessi, così in Dio non è necessario che dal naturale procedere del Verbo discenda quello delle creature. Secondo Tommaso può aiutarci a comprendere ciò, ancora una volta, l'analogia con il nostro intelletto il quale è condotto a credere in forza della mozione della volontà libera e ad intuire i primi principi ad opera della necessità della natura . E' significativo come Tommaso, quando tratta di tematiche teologiche e metafisiche, faccia volentieri riferimento ad analogie desunte dalla vita intima dello spirito umano. In sintesi: l'Aquinate riesce a salvaguardare la specificità delle due comunicazioni in questione, generazione e creazione, ed insieme il loro nesso. Così, se da un lato, per quel che riguarda la Trinità, si evita l'equivoco ariano che considera il Figlio come inferiore al Padre, dall'altro il fatto che la comunicazione di Dio non si riduca alla creazione del mondo, ma sia eternamente preceduta dalla processione intratrinitaria, impedisce radicalmente di pensare la creazione come una emanazione necessaria e il mondo come un'appendice di Dio. L'Assoluto non ha bisogno del mondo per attuarsi, magari per superare una sua solitudine ontologica. In altri termini, il fatto che in Dio vi sia relazione, anzi che Dio stesso sia relazione permette di pensare adeguatamente la relazione fra il mondo e il suo Creatore. Inoltre che, in Dio, sostanza e relazione coincidano implica che l'Atto d'essere sussistente non è immutabile nel senso della staticità (ciò che sarebbe proprio invece di una concezione ontica di Dio). Questa concezione, a ben vedere, è già suggerita dalla stessa nozione di atto d'essere sussistente. Occorre pensare, insieme, in Dio, la nozione di vita e quella di immutabilità. Il dinamismo, infatti, non è necessariamente connesso alla potenza passiva, quindi al decremento o incremento nell'essere. Infine tale concezione dell'Essere supremo sollecita pure a riflettere intorno all'unità e alla molteplicità dell'essere, in quanto tale, e, in particolare, intorno al rapporto di analogia e di complementarità che unisce gli enti del mondo. 9) La creazione L'atto, in quanto per sua natura positività e potenza attiva, tende per quanto è possibile a comunicarsi, a diffondere la sua somiglianza. Inoltre, come afferma il Liber de causis, " quanto più un soggetto è semplice, tanto più la sua capacità è meno limitata e di conseguenza si sviluppa di più la sua causalità". In particolare: una realtà finita può esercitare la sua azione anche su un ente assai lontano, può perfino produrre da una data cosa il suo contrario , non può tuttavia comunicare l'essere. Essendo Atto d'essere sussistente, pienezza d'essere non delimitata in alcun modo, Dio è "potenza infinita" e, perciò, è l'unica realtà in grado di creare dal nulla. Infatti "ente e non-ente distano infinitamente. Ma fare qualcosa da una distanza infinita richiede una capacità infinita". Come precisa Tommaso, Dio è pura attualità sia se lo si considera in Sé stesso, poiché non ha in Sé alcuna potenza passiva, sia se Lo si considera in rapporto agli altri enti, poiché Egli possiede in modo sintetico tutte le perfezioni di tutti gli enti finiti che sono in atto, ma la cui essenza non coincide con l'atto d'essere. Un atto limitato da una potenza è in grado solamente di attuare una potenzialità passiva, cioè di modificare qualcosa che già preesiste. Deve esserci, perciò, in questo caso, come sostrato dell'azione una materia preesistente. Soltanto l'Atto d'essere puro, che s'identifica con il suo agire, non richiede potenza passiva per comunicarsi. Perciò Esso è in grado di creare dal nulla. Dal momento che la perfezione di un'azione la si misura in base al suo termine, nulla ha più valore dell'atto creativo perché, grazie ad esso, dal non essere scaturisce tutto l'essere. Soccorre significativamente, anche nel caso della creazione, pur nella sua unicità, una certa analogia con l'attività intellettuale umana: "...come la conoscenza dei principi, che è il principio della deduzione, non parte da una premessa a partire dalla quale viene dedotta, così la creazione, che è il principio di ogni movimento, non deriva da qualcosa". Un altro paragone del teologo Tommaso suggerisce un'analogia con l'altra decisiva modalità di comunicazione "ad extra" da parte di Dio: "L'infusione della grazia viene a rassomigliare all'atto creativo in quanto la grazia non ha una causa nel sostrato, né una causa efficiente, né una materia nella quale essa sia in potenza in maniera tale da poter essere portata in atto grazie ad una causa agente naturale, come avviene per le altre forme naturali". Come la comunicazione della grazia, anche la creazione è un atto totalmente originario e gratuito, perché, non presupponendo la creatura, da questa non può essere richiesto in alcun modo; anzi esso è condizione di ogni altra modalità di rapporto fra Dio e mondo: "L'azione della divina giustizia presuppone sempre l'azione della misericordia e su di essa si fonda. Infatti niente è dovuto ad una creatura se non in ragione di qualche perfezione che in essa preesiste o che si considera come anteriore; e se a sua volta tale perfezione è dovuta alla creatura, ciò è in forza di un'altra cosa antecedente. E siccome non si può procedere all'infinito, bisogna arrivare ad una qualche causa che dipenda unicamente dalla bontà divina che è l'ultimo fine". Nel complesso Tommaso fornisce una fondamentale e originalissima giustificazione di carattere filosofico della possibilità della creazione da parte dell'Assoluto. Essa può imporsi perché, come è stato notato, grazie all'influsso della tradizione religiosa giudaico-cristiana, il pensiero filosofico è finalmente in grado di pensare radicalmente l'essere e il nulla, il nulla grazie all'essere e viceversa. Essendo il potere creativo strettamente connesso al carattere di Dio in quanto Atto d'essere sussistente, quindi Potenza infinita, esso non può essere comunicato quale capacità propria ad alcuna creatura , come invece volevano Avicenna, Algazel e l'autore del Liber de causis. Per analoghe ragioni, l'Assoluto non è costretto a ricorrere a mediazioni (ipostasi) alla maniera neoplatonica. Egli non potrebbe neppure ricorrere al servizio di alcuna creatura per creare, come affermava Pietro Lombardo e come sembrava ammettere in gioventù lo stesso Tommaso. In sintesi la creatura, essendo irrimediabilmente contraddistinta da una dimensione di potenza passiva in quanto riceve l'essere, per ragioni intrinseche alla sua natura non può in alcun caso creare. Dio soltanto è in grado di creare il mondo immediatamente (immediate) al modo che la luce (secondo quanto pensava la fisica dell'epoca) si propaga in modo istantaneo. Tuttavia il fatto che Dio sia in grado di creare e che anzi l'atto e il bene siano per loro natura comunicativi, non significa che Egli abbia creato per necessità. L'effetto non è la perfezione della potenza attiva come la forma lo è di quella passiva. Così pure il nome di Dio non è innanzi tutto quello di causa che comprometterebbe la sua aseità. Soprattutto, se il mondo derivasse in maniera necessitante, l'Assoluto sarebbe dipendente da ciò che crea e, perciò, non sarebbe più tale (absolutus). Tommaso afferma che Dio non agisce, come le creature, a causa di un suo bisogno di compimento, perché tende ad un fine (ex appetitu finis), ma per pura gratuità, cioè per amore del fine che è Egli stesso (ex amore finis). Come si precisa nella Summa theologiae: "Dal fatto che alla volontà di Dio basta la sua bontà non ne segue che non voglia altro; ma che altro non voglia se non a motivo della sua bontà". In altri termini: Dio crea perché vuole e ama ciò che crea. La creazione, dunque, benché libera, non è arbitraria. E non v'è, neppure, in questa prospettiva, contraddizione tra processione necessaria del Figlio e creazione libera del mondo, perché "il Figlio nel suo procedere (dal Padre) non è disposto in vista di un fine, ma è (Lui stesso) il fine di tutto". V'è dissimetria e in certo senso complementarità, in Dio, tra la necessaria conoscenza delle idee e la libera produzione delle creature. Nella terza quaestio de potentia Dei Tommaso adduce quattro fondamentali ragioni a favore della libertà di Dio nel creare il mondo: perché la necessaria tendenza degli enti verso un bene-fine, in quanto inscritta nella loro natura, non può derivare da loro stessi, ma esige quale suo principio una causa prima intelligente e libera (altrimenti si andrebbe all'infinito) , perché negli enti finiti "ci sono molti gradi di disuguaglianza e non si può dire che la capacità divina sia limitata ad uno solo di essi, dato che è infinita", perché l'effetto deve preesistere nella Causa spirituale e deve, quindi, procedere da Lei per via di volontà, infine perché l'azione divina deve essere di tipo immanente . Dal momento che, come si è dimostrato, Dio è intelligente e libero, Egli è in grado dall'eternità di comunicare l'essere soltanto se lo vuole e quando lo vuole. Nella potenza infinita di Dio ci può essere qualcosa che Egli non vuole. Perciò Egli non può essere detto "onnivolente". Per Tommaso la molteplicità delle creature in sé stessa non è un male, non è l'esito di una "degradazione" o"caduta" rispetto all'Assoluto, come era invece per alcuni filoni di pensiero con cui egli polemizza; anzi, essa è il segno della positività della creazione. A Dio infinito si può partecipare da parte degli enti finiti in infiniti modi. Soltanto Cristo, Figlio di Dio, infatti, imita perfettamente il Padre. V'è, perciò, lo spazio per una pluralità di creature che partecipano di diverse formalità, le quali assai meglio di una sola creatura finita possono imitare la Perfezione divina e la sua bellezza: "...la molteplicità e la diversità delle creature non deriva dall'unico Primo perché lo impone la materia o perché la potenza del Creatore ha dei limiti o ancora a causa della bontà o di ciò cui la bontà obbliga, ma perché così ha stabilito la sapienza di Dio, affinché nella diversità delle creature si realizzasse la perfezione dell'universo". Ciò non toglie che un segno dell'unità divina lo si riscontri nell'unità dell' "universo" nel suo complesso. La molteplicità delle creature, come si è notato, costituisce per Tommaso una prova della spiritualità e della libertà di Dio, del fatto cioè che Egli nella creazione non è necessitato in alcun modo. In questa prospettiva si comprende la polemica dell'Aquinate contro il "mediatismo" di Avicenna e dell'autore del Liber de causis. In base al principio secondo cui "da uno solo non può derivare se non uno solo", per spiegare l'origine della pluralità degli enti del mondo costoro dovevano ricorrere ad una catena di molteplici ipostasi. Tommaso ribatte che, qualora si ammettano la potenza e la spiritualità di Dio, la cui essenza è identica con il suo essere, si può benissimo conciliare la molteplicità degli enti creati con il carattere immediato della creazione. A differenza di Avicenna, per il quale il Principio non può creare la varietà degli enti perché è semplice, per l'Aquinate, invece, proprio perché semplice Dio è in grado di creare ogni cosa immediatamente. La condizione per poter donare l'essere, infatti, è di possederlo per essenza. Nella terza Quaestio de potentia Dei Tommaso compie un'attenta disamina, a partire dalla prospettiva di ognuna delle quattro cause aristoteliche, delle ragioni per cui il Dio spirituale non è costretto a creare un solo ente da cui poi derivino altri. Tommaso si pone, quindi, il problema che diverrà classico in seguito, se ciò che è impossibile alla natura, così come è stata creata, sia invece possibile alla potentia absoluta del Creatore. L'Aquinate ricorre all'espressione potentia absoluta quando considera il potere di Dio a prescindere dalla sua sapienza con la quale ha pensato la creazione, benché in realtà esso non sia mai senza la sapienza. Qualora invece si consideri la potenza di Dio senza prescindere dalla sapienza con cui ha dato ordine a questo mondo Tommaso addotta l'espressione potentia ordinata . Si può applicare a Dio questa distinzione, in quanto Egli è dotato di libertà. Diverso rispetto al problema della potentia absoluta è il caso dei miracoli che costituiscono, invece, soltanto un'eccezione all'interno della potentia ordinata con cui Dio regge il mondo. Tommaso ammette che Dio, se lo avesse voluto, avrebbe potuto trascendere qualsiasi limite presente in natura, creare cioè un mondo assai diverso dal nostro, senza tuttavia compromettere la sua giustizia e sapienza, dal momento che la bontà divina, che è il fine della sua volontà, "come si esprime con le cose ora esistenti e con questo ordine della realtà, così può esprimersi con altre creature e con un diverso ordine di esse" . Si comprende, in questa prospettiva, come per Tommaso sia limitativo della potenza infinita e della libertà divine affermare, come farà Leibniz, che Dio ha creato il migliore dei mondi possibili. Secondo l'Aquinate si può soltanto sostenere che "questo universo è il migliore di quelli che esistono e che sia il migliore gli viene dalla somma bontà di Dio. Ciò nondimeno la bontà di Dio non è legata a questo universo in maniera tale che non avrebbe potuto fare un universo diverso, più o meno buono". In altri termini, se è difficile ammettere che Dio possa perfezionare l'ordinamento che ha stabilito per questo universo, dati gli enti che lo costituiscono, non si può invece escludere che Egli possa creare un altro e migliore universo. Del resto tale è la sovrana libertà di Dio per Tommaso che, anche nell'ambito di questo universo, non è concesso all'uomo comprendere perché Dio abbia dato al mondo quella determinata conformazione che lo contraddistingue. Osserva sinteticamente l'Aquinate che "dato che la ragione di una determinata disposizione dell'universo non può essere cercata neppure nella potenza di Dio, che è infinita, né nella bontà di Dio, che non ha bisogno delle cose, la ragione di quella disposizione dell'universo deve essere cercata nella semplice volontà di chi l'ha prodotto". Benché nello stesso articolo XVII della terza Quaestio de pot.entia Dei Tommaso sembri attenuare la sottolineatura volontaristica dell'affermazione, osservando, ad esempio, che "la natura del cielo non è indifferente rispetto a una qualsiasi quantità e vi è in essa la possibilità soltanto di questa quantità" , è pur sempre da accentuare, molto più di quanto sia stato fatto in genere dalla critica, il ruolo svolto, nella creazione, dall'imperscrutabile Volontà divina. Invero nella prospettiva della potentia absoluta a Potenza divina non ha in sé stessa alcun limite (né dal punto vista della quantità degli effetti, né da quello dell'intensità dell'azione), né v'è alcun ostacolo che possa resistere alla sua potenza. In sintesi, secondo l'Aquinate, nell'ambito della sua potentia absoluta Dio può compiere tutto ciò che non è in sé impossibile. Ciò significa che l'Assoluto non avrebbe mai potuto creare un altro Dio eguale a Sé, poiché ciò che è creato è, in quanto tale, sempre in potenza, né in alcun caso avrebbe potuto trasgredire al principio di non contraddizione. Ogni potenza attiva, infatti, è diretta all'essere. In quanto Sommo Essere, positività piena, Dio non può mai, a meno di contraddire Sé stesso, far sì che l'affermazione e la negazione siano vere nello stesso tempo. In questo caso è preferibile affermare che ciò "non può essere fatto" perché "manca il possibile". Tuttavia Tommaso non pretende alla maniera razionalistica di affermare in modo definitivo che cosa sia contraddittorio. Più che da una prospettiva logica o fisica, la sua posizione è da leggersi nel contesto della sua metafisica. Egli vuole sottolineare, soprattutto, che l'intelligenza e la causalità divina si estendono soltanto a tutto ciò cui non ripugna l'essere. Nella visione di Tommaso, a differenza di quello che talora si penserà in seguito, ciò non costituisce una limitazione della potenza di Dio. La cosa è comprensibile se si rammenta il carattere peculiare che ha per l'Aquinate l'attribuzione a Dio dell'essere (esse), che è il primo nome dell'Assoluto. Se approfondiamo la posizione di Tommaso al riguardo, inserendola nel contesto globale della sua metafisica, sembra che essa sia in grado di evitare due opposti scogli contro cui s'imbatte il pensiero su Dio: da un lato il rischio di pensare l'Assoluto come sottoposto alla ferrea legge del principio di non contraddizione - quindi non più come Assoluto - dall'altro quello di concepire questo principio come frutto di una sua scelta arbitraria - con la conseguente svalutazione della ragione umana. A ben vedere, è propria dello spirito di Tommaso, della sua radicata percezione del primato dell'esse e della trascendenza di Dio, l'affermazione secondo la quale, di Dio non si può dire che Egli è perché non può non essere, ma che non può non essere, perché Egli è. In effetti, in quanto "Ego sum", Sommo Essere e Sommo spirito, Dio affermando Sé stesso, la sua Libertà, afferma pure saldamente la positività dell'essere, la valenza ontologica del principio di non contraddizione, quindi il valore di ciò che crea o che potrebbe creare. Se esaminiamo la creazione nella sua interezza, precisa Tommaso che essa "può essere intesa in senso passivo e in senso attivo. Se la intendiamo in senso attivo essa indica l'azione di Dio, che è la sua essenza, insieme alla relazione con la creatura, la quale però non è una relazione reale, ma soltanto concettuale. Se invece la intendiamo in senso passivo, dato che la creazione, a rigore... non è un mutamento, non si può dire che sia qualcosa che appartiene al genere dell'azione subita, ma appartiene al genere della relazione". Qualora la si consideri dal punto di vista della realtà creata, la creazione è, quindi, "nient'altro che una certa qual relazione con Dio insieme alla novità dell' essere". Tuttavia non si può mai ridurre la creazione ad una mera relazione (ordo unius ad alterum), come vorrebbe una tendenza desostanzializzante ricorrente nella storia della metafisica. La relazione, infatti, è concreata insieme alla creatura. Con il suo caratteristico equilibrio Tommaso nota che da un primo punto di vista, in quanto accidente della creatura, la relazione è posteriore alla realtà creata, ma "se la si considera per la sua propria natura, nel modo in cui essa è prodotta dall'azione della causa agente, allora è in un certo senso precedente al sostrato, siccome l'azione stessa di Dio ne è la causa immediata". Qui l'Aquinate raggiunge un significativo punto di sintesi tra primato "platonico" della relazione e sostanzialismo aristotelico. A differenza di quanto sostengono sia gli "aristotelici radicali", per i quali il mondo non richiede la creazione, sia dei teologi "conservatori" quali Giovanni Peckham per cui si può dimostrare che è avvenuta la creazione del mondo nel tempo, Tommaso afferma che non vi sono, da un punto di vista puramente filosofico, ragioni cogenti in favore dell'una o dell'altra posizione. Per averle, infatti, bisognerebbe conoscere l'imperscrutabile Essenza divina che causa il mondo nell'essere. Dio, quindi, avrebbe potuto anche creare un mondo eterni come afferma Aristotele. Non è, infatti, contraddittorio che qualcosa sia sempre e che, insieme, derivi da altro la propria esistenza. Il mondo, in ogni caso, non sarebbe eterno come lo è Dio, in base alla definizione di eternità formulata da Boezio, perché la sua durata non sarebbe tutta simultanea, perché non possederebbe simultaneamente tutto il suo essere e perché dipenderebbe da un Altro. Benché l'eternità del mondo non sia dimostrabile con argomenti incontrovertibili, essa tuttavia non è, quindi, contraria alla ragione, ma soltanto alla Rivelazione . Afferma a proposito Tommaso : "È da tener ben fermo che il mondo non è sempre esistito, come insegna la fede cattolica. Questo non può essere confutato in modo efficace da nessuna dimostrazione di filosofia naturale". Si possono soltanto addurre delle ragioni di opportunità in favore della creazione del mondo nel tempo. Essa evidenzierebbe ancor di più il fatto che il Creatore non ha bisogno del mondo ed il carattere di dipendenza nei riguardi di Dio che contraddistingue le creature in quanto tali. Complessivamente emerge in questo caso il rispetto che nutre Tommaso insieme per la fede cristiana e per la ragione umana. Non gioverebbe alla causa della fede affermare come filosofiche verità che, invece, secondo lui non si possono dimostrare. Infine, come pensare la creazione in rapporto al tempo? Una volta ammesso il dato rivelato, come conciliare l'immutabilità di Dio con la creazione nel tempo? Per gli "aristotelici radicali" e già per Averroè il mondo doveva essere senza inizio né fine, perché creato dall'eternità da Dio immutabile, il cui volere, quindi, non può mutare. Ad essi Tommaso risponde che si può benissimo ammettere che in base alla sua immutabile volontà Dio abbia voluto dall'eternità che il mondo fosse creato in quel determinato tempo. Ancora in questo caso emerge che non si può comprendere la creazione se non si afferra pienamente il carattere spirituale dell'Assoluto. Tommaso si chiede anche perché sia così difficile pensare la creazione in rapporto al tempo. A ben vedere è l'immaginazione ad ingannarci, facendoci supporre l'esistenza di un tempo prima e dopo la creazione. Il tempo, invece, sorge soltanto con la creazione stessa. La risposta di Tommaso a questo proposito ricorda analoghe osservazioni kantiane sui limiti strutturali della conoscenza umana quando prende in esame i grandi problemi metafisici. Tuttavia occorre pure rilevare che, non coltivando questa pur ambivalente capacità dell' immaginazione, il pensiero pre - cristiano era stato incapace di pensare radicalmente l'essere e il nulla e, quindi, la creazione. In questa prospettiva assai significativa è la minuziosa e penetrante analisi linguistica dell'espressione "dal nulla" (ex nihilo), riferita alla creazione . 10) Il valore del creato. Una volta delineata la concezione della creazione, come pensare la relazione che unisce il mondo al suo Creatore? A differenza di Aristotele Tommaso è un convinto sostenitore della nozione metafisica di partecipazione, che però interpreta, come si vedrà, in modo originale rispetto ai platonici. In sintesi, la partecipazione metafisica consiste nel fatto che nell'ente finito l'atto d'essere e con esso l'essenza che è da esso compresa, "partecipano" dell'Atto d'essere puro, pienezza d'essere che li causa e li conserva nell'essere. Come è stato notato, nel pensiero di Tommaso la dottrina della partecipazione, di derivazione platonica, si armonizza con la nozione di causalità nell'essere (creazione) originariamente di derivazione biblica. Egli ricorre al tema platonicodionisiano , presente pure in certa misura nello stesso Aristotele, della partecipazione "per gerarchia formale", in base a cui ogni ente finito possiede in modo parziale la perfezione che è in pienezza nell'Assoluto, ma ne rinnova il significato nella prospettiva creazionistica "dinamica" della comunicazione dell'atto d'essere da parte dell'Essere sussistente, grazie alla nozione aristotelica di causalità efficiente. L'Atto d'essere puro, pienezza e perfezione di realtà, costituisce, così, la fonte dinamica dell'atto d'essere partecipato che fonda insieme l'esistenza dell'ente finito e la sua perfezione relativa nella gerarchia degli enti. Si armonizzano, così, intimamente partecipazione "per gerarchia formale" e causalità dinamica o partecipazione "per composizione" (di esse ed essentia). Questa concezione sintetica è formulata sovente da Tommaso quando afferma: "Tutto quello che è per partecipazione è causato da quello che è per essenza". A ben vedere la composizione di essenza ed atto d'essere nella creatura e la loro coincidenza in Dio (partecipazione "per composizione") è prevalentemente segno della trascendenza dell'Assoluto rispetto al mondo. Non si può confondere l'Assoluto con l'essere da Lui creato. La partecipazione "per gerarchia formale" sottolinea, invece, soprattutto l'immanenza del mondo in Dio. La sintesi delle due diverse modalità di partecipazione e delle connesse accentuazioni di causalità efficiente e di causalità esemplare, di comunicazione dell'essere e di relazione conoscitivointenzionale è bene espressa in un passo delle Quaestiones de potentia Dei, in cui si tratta della somiglianza fra mondo e Dio: "Benché tra Dio e la creatura non ci possa essere somiglianza di genere o di specie, può tuttavia esserci una certa somiglianza analogica, come tra potenza e atto e tra sostanza e accidente. E questo si dice in un senso, in quanto le cose create imitano a modo loro l'idea della mente divina, come i manufatti la forma che è nella mente dell'artigiano, e in un altro senso, in quanto le cose create assomigliano in un certo qual modo alla stessa Natura divina, nel senso che siccome Dio è il Primo Ente le altre cose sono enti, siccome è il Bene sono buone e così via". Sulla base della concezione della partecipazione metafisica ora esposta si comprende come si possa intendere sul piano logico la relazione fra il mondo e Dio. Essa è descritta specialmente dal rapporto cosiddetto di "analogia di attribuzione intrinseca". Si dice che c'è un'analogia di questo tipo quando l'effetto dipende dalla Causa e l'essere si dice in primo luogo di Dio in quanto Causa e, in secondo luogo, del mondo in quanto effetto. Tommaso sottolinea la sproporzione esistente fra Dio e mondo, rilevando che la relazione dal mondo a Dio è una relazione reale. Il mondo dipende effettivamente nel suo essere da Dio - tra mondo e Dio esistono infinite relazioni - mentre quella da Dio al mondo è soltanto una relazione "di ragione", da attribuirsi cioè ai limiti insiti nella nostra conoscenza. Dio, infatti, non dipende in alcun modo dal mondo. Il suo essere non è arricchito dalla creazione. L'azione di Dio, infatti, è tutt'uno con la sua essenza. In questa prospettiva, come è stato osservato, ha pure spazio, ma ad un livello subordinato rispetto all'analogia di attribuzione intrinseca, la cosiddetta "analogia di proporzionalità" (di ascendenza aristotelica), in base a cui sul piano della creatura l' ens sta all'atto d'essere come, in Dio, l'atto d'essere coincide con l'essenza. Mentre la prima e fondamentale forma di analogia corrisponde alla partecipazione "per gerarchia formale", la seconda corrisponde a quella "per composizione". Nella prospettiva di Tommaso, da un lato, il mondo è, per natura, radicalmente diverso dall'Assoluto e non aggiunge nulla a Dio; dall'altro il mondo è "in Dio", non soltanto perché è nella sua idea secondo la logica dell'esemplarismo, ma perché dipende totalmente nel suo essere da Dio. Benché il mondo esista realmente e abbia una sua relativa autonomia, l'Assoluto è la fonte permanente del suo essere, cioè di tutto ciò che esso è. Creazione e conservazione del mondo nell'essere coincidono. Sebbene non tutte le sostanze siano per natura defettibili (come sarebbe in una prospettiva di contingentismo assoluto quale quella dei teologi mussulmani detti Mutakallimun), senza l'azione continua di Dio il mondo cadrebbe nel nulla. Essendo la sorgente del suo essere, Dio in uno stesso semplicissimo atto lo conosce e lo ama radicalmente. Di qui il fondamento radicale del bene o valore del mondo. Il particolare rapporto esistente fra il mondo e Dio si spiega se si comprende sia la radicale differenza di natura che c'è tra l'atto d'essere limitato e partecipato, proprio della creatura, e l'Atto d'essere sussistente, sia la somiglianza (similitudo) che intercorre tra di loro. Per chiarire il rapporto Dio-mondo Tommaso ricorre spesso alla tradizionale immagine di derivazione platonica dell'anima che, in quanto spirituale, contiene in sé stessa il corpo . Ma è il tema dell'atto d'essere - sussistente in Dio e intimamente partecipato dalle creature - a fondare sia la radicale assolutezza di Dio sia la totale immanenza del mondo in Dio, da Lui "tenuto" nell'essere. Poste queste premesse di carattere metafisico, si può comprendere, innanzi tutto, come il mondo conservi una sua relativa autonomia. In primo luogo, in quanto voluto dall'immutabile volontà dell'Assoluto, esso non può cadere nel nulla. In secondo luogo la causalità trascendentale di Dio (Causa prima), origine prima dell'essere e del divenire che è nel mondo , collocandosi sul piano radicale dell' esse ("l'effetto più comune, primo e più intimo di tutti gli altri effetti"), non elimina l'autonomia e l'efficienza delle cause seconde, cioè delle cause mondane. Istituendo una significativa analogia fra ordine della causalità efficiente ed ordine della causalità esemplare, l'Aquinate osserva che "come la capacità divina ovvero la prima causa agente non esclude l'azione della capacità naturale, così neppure la prima causa esemplare che è Dio esclude la derivazione delle forme da altre forme inferiori, che producono forme simili a sé". Non a caso Tommaso critica, sulla scorta di Aristotele, ogni forma di "anassagorismo" che, non distinguendo potenza e atto, sostiene che ciò che viene generato deve necessariamente preesistere in atto. Sarebbe, infatti, assurdo e indegno di Dio che Egli avesse creato il mondo bell'e fatto immediatamente e che lo avesse provvisto di cause che non operano realmente. Secondo la nota espressione di Tommaso, "sottrarre qualcosa alla perfezione delle creature significa sottrarre qualcosa alla perfezione della divina virtù". È invece la stessa azione creatrice, intima e discreta al tempo stesso, a fondare l'autonoma azione delle cause seconde. L'azione divina, infatti, è discreta come "un'intenzione, che ha un essere in un certo senso incompleto, nel modo in cui i colori sono nell'aria e la capacità tecnica nello strumento dell'artigiano", mentre "la capacità naturale che è conferita alle cose naturali all'atto della loro creazione è in esse come una forma che ha l'essere fisso e stabile nella natura". Mentre la causalità di Dio si pone sul piano trascendentale dell'essere, la causalità delle creature è capace di comunicare la propria forma ad una realtà preesistente solo nella misura in cui già ha ricevuto con la creazione l'essere da Dio: "Nessuna cosa dà l'essere, se non in quanto vi è in essa una partecipazione della capacità divina". Afferma, infatti, Tommaso, riecheggiando il Liber de causis, che "dare l'essere in quanto tale è necessariamente effetto della sola prima causa per capacità propria e qualsiasi altra causa dia l'essere può farlo in quanto è presente in essa la capacità e l'attività della prima causa e non per capacità propria". In sintesi: secondo Tommaso Dio è la causa prima dell'attività di ogni singola creatura, poiché fornisce ad essa la capacità di agire, provvede a conservare in essa tale capacità, l'applica all'atto e vi coopera nel momento dell'azione. Se consideriamo inoltre che in Dio l'essenza coincide con la sua stessa potenza e che Egli è presente in ogni creatura non come costituente la sua essenza, ma come il principio che la mantiene nell'essere, ne consegue che Egli interviene in tutto ciò che accade senza sostituirsi all'attività della natura e della stessa volontà. Quest'ultimo aspetto, soprattutto, ha un rilievo fondamentale nell'ambito dell'antropologia e della morale. Venendo meno ogni prospettiva di tipo "occasionalistico", alla maniera di al-Ghazzalî, e di "anassagorismo" alla maniera di Ibn-Gebirol, per Tommaso la natura creata può essere oggetto di scienza, cioè di conoscenza attraverso le cause (per causas), come era per Aristotele. La dimensione della creaturalità non contraddice, così, quella della natura. Tuttavia Dio mostra di essere Causa prima non solo per il carattere provvidenziale dell'ordinamento che ha impresso alla realtà (provvidenza ordinaria), ma anche perché, in alcune circostanze, è in grado di non tenere conto della legge naturale da Lui stabilita. Egli può compiere così i miracoli che sono eventi che esulano dalle possibilità della natura e pure dalle capacità di comprensione del nostro intelletto, benché non possa mai venir meno alla giustizia, in particolare per ciò che concerne il rapporto che la creatura intellettuale deve avere nei suoi riguardi. Nel miracolo si manifesta in modo particolarmente evidente un carattere fondamentale dell'onnipotenza divina: la sua natura spirituale. Infatti soltanto lo spirito, in quanto dotato di intelligenza, volontà e libertà, è in grado di intervenire "discretamente" anche sull'infimo livello degli enti. La causa materiale - osserva Tommaso - se è di notevole entità, deve produrre necessariamente un effetto di notevole entità. Solo lo spirito, in quanto possiede un'interiorità, è in grado di contenere e dosare la sua azione volontariamente. La potenza e la perfezione del Creatore non emerge, perciò, soltanto dalla grandezza dei suoi effetti, ma anche dalla loro piccolezza, in sintesi dal carattere spirituale e libero della sua attività. La capacità che Dio ha di compiere miracoli costituisce quindi un'importante verifica secondo Tommaso del fatto che Dio è veramente Dio ovvero l'Assoluto onnipotente e personale. Non a caso il teologo Tommaso scorge all'opera una particolarissima causalità nei sacramenti della fede cristiana, attraverso i quali si comunica la grazia santificante e che permettono al credente di partecipare alla stessa vita divina. Per esprimere sinteticamente la modalità della dipendenza dal mondo da Dio Tommaso ricorre spesso nelle sue opere alla formula tradizionale per essentiam, praesentiam et potentiam . Ciò significa che Dio è presente come la causa è presente nel suo effetto, che, quindi, Egli conosce intimamente ciò che crea - anche l'infimo individuo - e che il mondo non costituisce alcun ostacolo al suo potere. Occorre sempre considerare insieme queste caratteristiche dell'azione divina. Date queste premesse come concepire la conoscenza che Dio nella sua eternità ha degli enti del mondo soggetti alla dimensione temporale? Tommaso risponde in questo modo: come l'Essere divino, essendo radicalmente trascendente rispetto alle creature, le "comprende" in se stesso, analogamente nel suo "eterno presente" Egli è in grado di conoscere in modo, per così dire, simultaneo tutti gli avvenimenti passati e futuri che si svolgono in diversi momenti del tempo. Può aiutare a comprendere un paragone che l'Aquinate ricava nella sostanza da Boezio: come un signore dall'alto di una rocca è in grado di osservare contemporaneamente diverse persone che nella pianura sottostante si trovano più o meno vicine rispetto a lui, così dall'alto del suo eterno presente Dio è in grado di contemplare simultaneamente fatti che accadono in diversi momenti del tempo. La concezione creazionistica di Tommaso, che presuppone un Dio personale, datore dell'essere, fonda radicalmente il valore (bonum) sotto il profilo ontologico della realtà creata anche nei suoi aspetti infimi e caduchi. Ciò non toglie che la presenza del male nel mondo sembri costituire per l'Aquinate la più diffusa e consistente obiezione all'esistenza di Dio. Ma ad essa egli risponde con nettezza che "se c'è il male c'è Dio". Soltanto ammettendo l'esistenza della prospettiva originaria del bene, anzi del Bene assoluto, è possibile giudicare qualcosa come male. Occorre notare che per Tommaso talora ciò che viene definito comunemente male non si rivela in realtà tale ad una considerazione globale dell'universo. Come per il neoplatonismo e per Dionigi, anche per l'Aquinate l'armonia e la perfezione dell'insieme del mondo, costituito da una molteplicità di enti, esigono la presenza di un qualche male. Il cosidetto male è spesso condizione per un bene maggiore; ciò vale soprattutto nell'ambito delle creature non dotate di spirito. In ogni caso, sul piano metafisico il male costituisce sempre per Tommaso, come già per Agostino, una privazione di bene. Innanzi tutto il male, anche il male morale, presuppone sempre un bene ontologico senza di cui non potrebbe aver luogo. E il bene ontologico a far risaltare la forza di quella privazione che è il male. Inoltre il male non è una pura negazione: esso esiste, è reale, ma solo in quanto "mancanza di qualcosa che una creatura ha o deve avere". Invero una cosa "non può essere perfetta senza il concorso di tutti i fattori che portano a compimento, per così dire, la sua perfezione". La perfezione - sottolinea però Tommaso - deve esser "dovuta", cioè essere coerente con l' essenza dell'ente in questione. Del resto non avrebbe senso pretendere per la creatura una perfezione che non gli sia dovuta, cioè che non gli sia concessa con la creazione. L'ultima parola sul creato è, infatti, la gratuità divina: "Ciò che è dato a qualcuno per sua generosità può essere dato in misura maggiore o minore secondo l'arbitrio di chi lo dà e a seconda di quanto richiede la sua sapienza". Diversamente dalla prospettiva neoplatonica, che scorge il male soprattutto nei gradi più bassi del cosmo, man mano che ci si avvicina alla corporeità, è tipico di Tommaso evidenziare nelle sue opere più mature il fatto che l'intensità possibile di male cresce nelle creature superiori, dotate di libertà . Nell'uomo poi non è il corpo in quanto tale ad essere un male, ma la corruzione di esso. E nell'atto peccaminoso "quanto vi è in esso di entità e di azione viene riportato a Dio quale sua causa prima; quanto invece vi è di deformità viene ricondotto quale sua causa al libero arbitrio". Di per sé, quindi, nessuna tendenza naturale dell'uomo può essere considerata male o tendente al male. Il male morale ha la sua origine nel disordine della volontà che non subordina i fini particolari ai fini superiori, rispettando in concreto la gerarchia ontologica dei beni. Secondo la concezione integrale e realistica della morale propria di Tommaso, come ogni cosa, un'azione non è veramente buona quando non tiene presente anche uno solo dei fattori e delle circostanze in gioco. Infine, se la filosofia può, entro certi limiti, conoscere la natura del male, essa per Tommaso non può spiegarne radicalmente la genesi, né fornire ad esso la risposta risolutiva, che si trova invece nella Rivelazione cristiana. Soltanto in quest'ultima prospettiva, che contempla la vera vita al di là della morte, può avere senso - ad esempio - che Dio permetta che il male e la sofferenza infieriscano sugli innocenti e sui giusti. La causalità creatrice di Dio fonda radicalmente, a ben vedere, pure il dinamismo finalistico delle realtà finite, le quali, essendo contraddistinte da una sproporzione e quindi una tensione fra essenza ed atto d'essere, tendono all'azione secondo i limiti fissati dalla loro natura, cioè al loro completamento (complementum), al perfezionamento dell'universo e, in ultima analisi, a Dio, Datore dell'essere, Causa esemplare e Fine ultimo della creazione. Grazie alla "scoperta" della radicale dimensione dell'atto d'essere, anche nella concezione del cosmo di Tommaso trovano un loro punto sintetico di equilibrio l'esigenza aristotelica di sostanzialità e di concretezza e l'istanza platonica di relazione e di completamento. 11) L'ordinamento del cosmo Secondo Tommaso il mondo costituisce un tutto dotato di ordine (cosmo), in cui ogni genere di enti, per la varietà e contrarietà fra di loro delle rispettive determinazioni, contribuisce alla perfezione dell'insieme. L'unità dell' "uni-verso" emerge dalla constatazione che tutti gli enti sono simili per il fatto di appartenere ad una stessa specie, ad uno stesso genere o, almeno, per il fatto di essere. Il cosmo è ordinato gerarchicamente in base alle diverse modalità di essere (modus essendi) delle sostanze, determinate a loro volta dalla partecipazione delle diverse essenze all'atto d'essere. Più si sale nella gerarchia cosmica, avendo la dimensione dell'atto preminenza sulla potenza passiva (in quanto s'intensifica la partecipazione delle essenze all'atto d'essere), più cresce l'unità degli enti in sé stessi e la loro perfezione. Mentre all'estremo inferiore del cosmo gli enti sono semplicissimi, data la loro povertà di funzioni, all'estremo superiore della scala gerarchica essi appaiono semplici in grado elevato, cioè estremamente unificati, pur nella ricchezza e complessità di attività che sono in grado di svolgere. Secondo la legge della contiguità dei gradi, formulata da Dionigi, il livello superiore di ogni "grado" della gerarchia cosmica è contiguo a quello inferiore del "grado" che immediatamente lo supera . L'ordine dell'universo non è da intendersi, secondo Tommaso, in modo statico, ma dinamico. Come è stato osservato: "La struttura interna dell'universo può considerarsi come un armonioso ordo ordinum, nel quale alcuni sistemi vengono inclusi in altri più universali, fino ad abbracciare il cosmo intero: 'Un ordine è contenuto in un altro come una causa è contenuta in un'altra' (Summa theologiae I, 105, 6). Ogni sistema di ordine si svolge nel proprio ambito di causalità, con una propria causalità, ma è connesso con causalità e fini più alti, che lo sublimano a regioni superiori dell'essere partecipato". Ascendendo nell'ordinamento dell'universo, agli enti materiali inanimati e animati (dotati questi ultimi di anima vegetativa o sensitiva), soggetti a mutamento, a generazione e a corruzione poiché in essi la materia è in potenza a molteplici forme, succede l'uomo, dotato di un'anima spirituale che costituisce la "forma" del corpo. Al di là del nostro mondo "sublunare" vi sono gli astri che , secondo la fisica aristotelica, pur essendo composti di materia, sono incorruttibili poichè non sono in potenza ad altre forme. Ancora al di sopra vi sono, infine, gli angeli (denominati anche "forme pure" o "sostanze separate"), enti puramente spirituali. A differenza di quanto avviene nell'uomo, per Tommaso come già per Agostino, gli angeli conoscono la realtà direttamente nell'essenza di Dio, attraverso una modalità intuitiva (intellectus), senza dover ricorrere all'astrazione (che richiede il continuo passaggio dalla potenza all'atto) e al ragionamento discorsivo (ratio). Gli angeli, infatti, ricevono immediatamente da Dio tutte le specie intelligibili che sono loro innate e attuali . L'uomo, invece, conosce soltanto i primi principi immediatamente e deve dipendere nella conoscenza dall'esperienza sensibile. In base alla perfezione degli enti animati nella scala gerarchica muta la loro capacità di aprirsi al mondo: "...i generi delle potenze dell'anima si distinguono secondo gli oggetti. Quanto più una potenza è elevata tanto più universale ne è l'oggetto...Ora l'oggetto dell'attività dell'anima possiamo considerarlo in triplice ordine. Vi è una potenza dell'anima, il cui oggetto non è che il corpo stesso unito all'anima. E le potenze di questo genere si chiamano facoltà vegetative : infatti le potenze vegetative non agiscono che nel corpo, cui è unita l'anima. Vi è un altro genere di facoltà che abbraccia un oggetto più universale, cioè ogni corpo sensibile, e non solo il corpo unito all'anima. V'è pure un terzo genere di potenze dell'anima che abbraccia un oggetto ancora più universale, cioè non il solo ente sensibile, ma l'ente universalmente preso. È perciò evidente che questi due ultimi generi di potenze hanno un'operazione che non riguarda soltanto ciò che è unito all'anima, ma anche il mondo esterno". Parallelamente allo sviluppo dell'apertura al mondo si nota una crescita dell'ordine della concentrazione negli oggetti delle diverse facoltà delle creature ed essa si ritrova al massimo grado in quella che si è denominata la semplicità di Dio. C'è una semplicità che è pienezza e non vacuità: la concentrazione graduale degli oggetti delle facoltà delle creature manifesta un'elevazione nell'ordine della potenza che richiama la modalità secondo cui l'essenza divina ingloba la molteplicità nella sua semplicità. Nelle sostanze spirituali, le quali grazie all'intelletto e all'autocoscienza, possiedono una capacità di sussistere autonomamente in sé stesse e "un'affinità con tutte le cose maggiore delle altre nature", anche la conoscenza e l'amore variano - platonicamente - a seconda della situazione ontologica dell'oggetto conosciuto rispetto alla creatura che lo conosce. Se l'oggetto del conoscere è ontologicamente inferiore rispetto al conoscente, sarà conosciuto in modo più adeguato rispetto a quando esso è superiore e viceversa ; inversamente deve accadere per l'amore. Così si ama di più ciò che ci sovrasta e di meno ciò che ci è inferiore. Tommaso precisa significativamente che come la natura delle sostanze spirituali è radicalmente diversa rispetto a quella divina, altrettanto lo è la loro conoscenza. Solo Dio, infatti, conosce gli altri enti nella sua essenza. La conoscenza delle creature, anche degli stessi angeli, è sempre in potenza e deve essere informata da species intelligibili. In paragone all'Intelletto divino tale conoscenza, infatti, appare limitata, "mista a tenebre". Benché ontologicamente inferiore alle creature angeliche, nell'ordine cosmico l'uomo occupa un posto centrale, in quanto svolge secondo Tommaso un'essenziale funzione di mediazione fra il mondo dei corpi e quello dello spirito, fra la natura e Dio. La coscienza dell'importanza di tale funzione è rafforzata, sul piano strettamente teologico, dalla fede nell'Incarnazione di Dio . Secondo la vigorosa espressione di Tommaso, "la persona significa ciò che di più nobile vi è in tutto l'universo, cioè il sussistente di natura razionale". Il compito di mediazione caratteristico dell'uomo emerge dalla sua stessa intima costituzione. Invero nella persona umana, unica fra le creature materiali, la stessa forma-anima che dà unità e vita al composto, in quanto è spirituale, trascende questa stessa funzione; perciò essa è in grado di sussistere anche senza il corpo. Che l'anima umana sia spirituale emerge dal fatto che l'attività intellettuale capace di astrarre l'universale, in quanto tale, non ha bisogno del corpo . D'altra parte, per salvaguardare l'unità dell'uomo, occorre pure affermare che esiste in lui una sola anima, cioè una sola forma o principio di determinazione. Anzichè distinzione di molteplici forme-anime come volevano molti pensatori medioevali - si ha nell'uomo, all'interno dell'unica anima, distinzione di potenze (motive secundum locum, vegetative, sensitive, intellettuali, appetitive) . Le potenze dell'anima sono da intendersi come "intermediari tra la sostanza e l'accidente, in quanto proprietà naturali dell'anima". V'è poi nella persona umana, in forza della sua intima unità, una partecipazione (partecipatio) delle potenze inferiori a quelle superiori, del corpo all'anima, della sensibilità all'intelletto e una ridondanza (redundantia) di ogni facoltà sulle altre. Il corpo è così intimamente unito all'anima dell'uomo che l'individualità di questa è da attribuirsi alla sua unione con un determinato corpo, che lo stesso temperamento è intimamente connesso con la corporeità e che la conoscenza intellettuale deve ricorrere ai dati dei sensi. Contro gli averroisti, i quali, onde salvare l'universalità della conoscenza, affermavano che ad intendere era un intelletto separato, comune a tutti gli uomini, l'Aquinate, rifacendosi all'esperienza interiore di ognuno, ribadisce che è sempre quest'uomo individuale, unità di anima e di corpo, che intende. In tal modo Tommaso riesce a salvaguardare sia l'irriducibile specificità dell'attività intellettuale, fondamento pure del libero arbitrio, e in genere della dignità della persona, sia, aristotelicamente, il suo nesso intimo con la sensibilità e la corporeità in genere. In questo modo si giustifica pure sul piano filosofico la fede cristiana nella resurrezione dei corpi. Pur potendo la sua anima sopravvivere anche senza il corpo, l'uomo è più fedelmente immagine di Dio quando è unito al corpo. Solo così egli può essere pienamente felice. In questa prospettiva Tommaso cerca di mostrare come si possano conciliare generazione dei corpi da parte dei genitori e infusione dell'anima spirituale da parte di Dio creatore: "...il Creatore dà l'essere all'anima nel corpo e il genitore predispone il corpo affinché sia partecipe di questo essere attraverso l'anima ad esso unita". In armonia con la sua metafisica, rispettosa del ruolo delle cause seconde, l'intervento creatore di Dio che infonde immediatamente l'anima spirituale, benché non possa essere sostituito dall'azione di nessun altro essere, è preparato dallo sviluppo naturale dell'embrione e dalla preliminare "informazione" da parte delle anime vegetativa e sensitiva. Infine l'anima spirituale, una volta infusa, comprende in se stessa anche le funzioni inferiori. Come si è già notato, nella prospettiva di Tommaso occorre leggere ogni tendenza insita negli enti creati come un'attrazione esercitata da Dio stesso, cosicché ogni creatura desiderando il proprio bene, desidera di fatto sempre Dio (anche quando lo ignora) : è in quanto imitazione della bontà divina che un bene finito attira la creatura. Dio è, infatti, il bene per essenza mentre gli enti sono beni per partecipazione a Dio: (Gli enti) "proprio per il fatto che tendono alla loro perfezione, tendono al bene: poiché ogni ente è buono nella misura in cui è perfetto. E per il fatto che tende ad essere buono, quest'ente tende ad una somiglianza con Dio: poiché ogni cosa ha una somiglianza con Dio in quanto è un bene. Ma questo o quel bene particolare deve la sua appetibilità al fatto che è una somiglianza della prima e suprema bontà. Tende perciò al proprio bene, perché tende ad una somiglianza con Dio, non già viceversa. Perciò è evidente che tutti gli enti cercano come loro ultimo fine una somiglianza con Dio, e non già viceversa. Perciò è evidente che tutti gli enti cercano come loro ultimo fine una somiglianza con Dio". All'interno dell'armonia cosmica la tendenza verso il suo Creatore, insita implicitamente in ogni ente, contraddistingue specialmente la creatura spirituale e, in particolare l'uomo, in cui può diventare cosciente, libera e, quindi, più immediata: "Se quindi la bontà, la bellezza e la dolcezza delle creature attira l' animo degli uomini, la bontà fontale di Dio stesso, paragonata ai rigagnoli del bene che si riscontrano con diligenza nelle singole creature, attirerà totalmente a Sé gli animi infiammati degli uomini". Si apre qui lo spazio della vita pratica, della morale e della religione, che costituiscono per l'Aquinate la dimensione propriamente umana e la possibilità di un reale "perfezionamento nell'essere" attraverso l'acquisizione di habitus e di virtù che aiutano l'uomo ad indirizzarsi verso il suo fine. Pur collocandosi su un diverso piano, la morale presuppone e, insieme, completa la metafisica dell'essere. La persona, infatti, in cui l'ente diventa capace grazie all'autocoscienza di ritorno (reditio ) su di sé, è in grado di tendere liberamente a Dio come al suo fine, attuando così, quale "sintesi delle creature" il ritorno (reditus) dell'universo al Principio dal quale è scaturito . Tale ritorno coincide con l'attuazione del progetto di Dio sul mondo. CAPITOLO XII L'ETICA Passiamo, quindi, a trattare dell'etica, alla quale Tommaso dedica progressivamente maggiore spazio nelle sue opere. Essa presenta una tale ricchezza di contenuti, di nessi e di esemplificazioni che difficilmente può essere condensata in poche pagine. Scopo di questo capitolo è quello di fornire le linee essenziali del discorso morale di Tommaso, sperando che possa sucitare l'interesse a leggere direttamente i suoi scritti. Come per Aristotele anche per l'Aquinate l'unica ragione (intellectus) dell'uomo diventa per estensione pratica quando è indirizzata all'azione . La ragione pratica poi è guida dell'azione o in quanto è indirizzata alla produzione di oggetti (poiesis-ars) o in quanto stabilisce i criteri dell'agire (praxis-agere). La morale concerne quest'ultimo aspetto. V'è un primato della morale sull'arte poiché la produzione di oggetti non è fine a se stessa, ma l'agire morale lo è. Come per Aristotele, anche per Tommaso la filosofia morale si articola in etica, economica e politica. L'etica, in quanto disciplina teologica e filosofica, riflette sull'azione morale la quale è modellata dalle virtù. Dal momento che l'uomo non è capace di un'intuizione della propria essenza, la conoscenza di se stessi e della dimensione propriamente morale dell'agire si acquisisce essenzialmente riflettendo sui propri atti. L'esperienza morale, quindi, precede e fonda la riflessione etica, in quanto in essa è già in atto la ragione pratica indirizzata all'agire. A differenza di Aristotele, Tommaso distingue esplicitamente fra atti dell'uomo (le azioni non eticamente rilevanti) e atti umani in cui è in gioco la libertà e, quindi, la responsabilità morale. Soltanto quest'ultimo genere di azioni è oggetto della riflessione etica. Ma in che cosa consiste questo genere di azioni? Si può affermare sinteticamente che nella concezione realistica dell'Aquinate la dimensione dell'etico consiste nell'appello che la realtà considerata nel suo complesso e nella prospettiva del bene rivolge alla persona umana nel suo complesso. Benché nella prospettiva di Tommaso teologo cristiano la vita morale dell'uomo trovi il suo pieno e risolutivo compimento grazie alla Rivelazione, tuttavia si può legittimamente distinguere nella sua opera una dimensione filosofica. dell'etica. In effetti la Rivelazione cristiana costituisce un effettivo completamento della natura umana, se questa ritrova già in se stessa un'anticipazione di tale compimento in base all'adagio gratia supponit naturam . In armonia con il caratteristico equilibrio tommasiano che trova il suo fondamento nell'analogia dell'essere, possiamo distinguere anche nello specifico campo dell'etica due movimenti che si intersecano e si completano: da un lato un movimento "dal basso verso l'alto" (dall'uomo verso il bene e verso Dio sia pure confusamente intravisto), dall'altro un movimento che a partire dalla prospettiva di Dio, svelata dalla Rivelazione cristiana, interpreta in modo risolutivo il senso dell'agire umano. Nella prima sezione della seconda parte della Summa theologiae (una delle trattazioni più originali e riuscite dell'Aquinate), si trova l'esposizione più chiara e completa della sua etica. Nella prospettiva finalistica assunta da Tommaso, "il bene è ciò a cui ogni cosa tende". Anche al male si tende sempre in nome del bene. Come per Aristotele, anche per Tommaso è analitico che ogni tendenza ed ogni movimento suppongano, in quanto tali, l'esistenza di un bene-fine verso cui sono indirizzati e da cui sono attratti. In particolare: l'uomo tende sempre al suo compimento, ad un bene per sé. Tale bene da attuare (bonum est faciendum) costituisce il fine dell'uomo considerato nella sua interezza e la dimensione propriamente morale. Il bene, poi, al quale tendiamo non è innanzi tutto il piacere. In effetti il nostro tendere non è appagato perché godiamo, ma godiamo perché il nostro tendere è appagato. Il piacere accompagna l'attuazione delle nostre facoltà. Anche se l'uomo, quando agisce, di fatto tende sempre ad un certo bene concreto che lo compia in qualche misura, ad una riflessione sulle ragioni del proprio agire complessivo il bene effettivo può chiamarsi felicità (beatitudo). In effetti se ci chiediamo perché facciamo una certa azione, occorrerà sempre giungere ad un fine-bene ultimo per amore del quale siamo mossi ad agire e che unifica i nostri fini-beni particolari. Altrimenti non agiremmo. Questo fine è il bonum commune o bonum universale che fa sì che ogni cosa sia desiderata nella prospettiva del bene (sub communi ratione boni) e che coincide con la felicità (beatitudo). La felicità costituisce l'appagamento della volontà, in quanto appetito razionale, tendenza aperta all'universale grazie all'influsso determinante della ragione. Ma non si può mai scindere il desiderio di felicità dalla tendenza naturale al bene, al compimento della nostra natura ovvero a sviluppare le nostre disposizioni. Sono esse, infatti, che determinano concretamente che cosa volere. Se voler essere felici, infatti, fosse in concreto il nostro unico motivo di azione, non potremmo mai essere felici perché non sapremmo mai in che cosa consiste il bene attraverso cui possiamo diventare felici. Si può parlare, quindi, a proposito della riflessione dell'Aquinate sulla morale di etica della perfezione. La volontà è sempre un tendere guidato dalla ragione (anche quando la ragione è usata male dal punto di vista etico) . Ora è evidente che l'uomo sia spesso deluso dai beni in cui di fatto ripone la propria speranza di felicità (ricchezza, onori, scienza ecc). Essi sono, infatti, limitati e defettibili e per loro natura rimandano, in ultima analisi, ad un Fine ultimo al di sopra di sé. Esiste cioè una logica del desiderio, in quanto questo è implicitamente guidato dalla ragione. Si tratta, quindi, per Tommaso come già per Aristotele di identificare un bene adeguato all'ampiezza dell'apertura della ragione e della volontà (bonum universale). Tale bene non può essere, in ultima analisi, che la contemplazione di Dio, perché soltanto Egli è la pienezza dell'essere. Questo bene coincidente con la felicità (beatitudo) non è pienamente raggiungibile in questa vita (come già significativamente notava il pagano Aristotele), ma soltanto nella vita eterna per opera della grazia divina. Quindi esiste nell'uomo un desiderio naturale di vedere Dio (desiderium naturale videndi Dei), di cui la rivelazione cristiana rende pienamente consapevoli e che permette di esaudire. Come rileva Tommaso: "Col termine beatitudine si suole indicare l'ultima perfezione della creatura ragionevole o intellettuale: e appunto per questo la beatitudine è naturalmente desiderata, perché ogni cosa desidera la sua ultima perfezione. Ora, per le creature ragionevoli o intellettuali l'ultima perfezione può essere di due specie. La prima è quella che la creatura può conseguire con le sue capacità naturali. Anche tale perfezione si può chiamare, in un certo senso, beatitudine o felicità. Infatti Aristotele dice che la suprema felicità dell'uomo consiste nella più alta contemplazione dell'oggetto più nobile dell'intelligenza, cioè di Dio. Ma al di sopra di questa felicità ce n'è un'altra, che attendiamo nella vita futura, mediante la quale "vedremo Dio così come egli è". Tale cognizione...supera le possibilità naturali di ogni intelletto creato". È soltanto la Rivelazione cristiana e non la filosofia a permetterci di conoscere che l'aspirazione umana alla beatitudo (nella seconda e più perfetta accezione) può essere colmata, seppur in un'altra vita (in patria). D'altro lato, come nota con solido realismo Tommaso, è segno di maggior nobiltà poter raggiungere un fine superiore grazie all'aiuto di un altro anziché raggiungere un fine inferiore basandosi soltanto sulle proprie forze. Né deve meravigliare il fatto che il desiderio naturale e necessario della felicità sia aperto ad un compimento possibile in forza della gratuità divina, dal momento che l'uomo non possiede la scaturigine di se stesso e del suo desiderio. Come si è notato Tommaso precisa che soltanto l'intelletto nella sua dimensione propriamente contemplativa (teoretica) è in grado di farci entrare in possesso del nostro fine ultimo, perché la volontà è una facoltà del desiderio o della gioia che presuppone sia la mancanza sia il possesso . Soltanto in seconda battuta la volontà umana partecipa dell'unione che si attua grazie all'intelletto. Tale unione con Dio richiede l'intervento di una luce soprannaturale divina, che non è però la stessa luce increata dell'Intelletto divino. La visione beatifica (visio beatifica), che comporta pure una rinnovata visione del mondo "in Dio", non coincide, quindi, con una comprensione dell'Essenza divina. Il ritorno dell'uomo a Dio non si compie in un' unione che abolisca la trascendenza. Una volta stabilito il fine ultimo dell'uomo rimane aperto, tuttavia, tutto lo spazio della moralità in senso proprio. L'uomo è chiamato, per quanto sta a lui, a raggiungere liberamente il suo fine. Come è possibile un agire umano coerente con il suo fine ultimo? Se, come notato, Tommaso distingue fra una beatitudine imperfetta che si può raggiungere in forza della volontà e delle virtù naturali e una beatitudine perfetta la quale richiede l'intervento della Grazia divina ed è pienamente raggiungibile soltanto in un'altra vita con la visione beatifica, esse non si escludono a vicenda, ma la prima trova il suo pieno compimento nella seconda come le virtù etiche naturali trovano il loro pieno compimento nelle virtù teologali. Tommaso chiarisce innanzi tutto i presupposti antropologici della morale. Nell'uomo dotato di libertà, grazie all'apertura della ragione e della volontà al bene, la vita morale e le virtù ad essa connesse consistono in una regolazione delle passioni (che sono quegli atti che l'uomo ha in comune con gli animali, ma che in lui sono integrati nell'attività spirituale). Nell'etica dell'Aquinate l'istanza d'integrità richiede che anima e corpo, ragione e affettività, ragione e volontà siano armonizzati fra di loro. Come egli osserva con realismo, l'uomo "non può vivere senza diletto, e in mancanza di diletti spirituali egli passa a quelli carnali". A differenza di quanto avviene nell'etica stoica, le passioni, se regolate, svolgono una funzione fondamentale nella vita morale, incentivandola e infondendole una tonalità propriamente umana. Tommaso, quindi, propone una sottile e dettagliata analisi dell'agire al quale per lo più non si presta adeguata attenzione. Nell'analisi degli atti umani egli distingue fra ordine dell'intenzione (del fine) e ordine dell'esecuzione (dell'azione). Ciò che è primo nell'ordine dell'intenzione è ultimo nell'ordine dell'esecuzione dell'azione e viceversa. Così il fine che ora muove la volontà è ciò che sarà raggiunto per ultimo soltanto alla fine del processo decisionale che conduce alla scelta dei mezzi convenienti e all'attuazione dell'azione. Tommaso distingue poi i seguenti momenti nell'ordine dell'intenzione: volizione (volitio), fruizione (fruitio), intenzione (intentio). Il bene voluto e di cui ci si compiace deve essere raggiunto e, quindi, si deve tendere ad esso. Alla volizione del fine segue il compiacimento nel fine perseguito, il quale si traduce nell'intenzione di raggiungerlo. Per raggiungere il fine perseguito occorre scegliere i mezzi adatti allo scopo. Siamo nell'ordine dell'esecuzione dell'azione. Nell'ordine dell'esecuzione Tommaso distingue i seguenti momenti: elezione (electio), consiglio (consilium), consenso (consensus), uso (usus). Si tratta di scegliere (electio) attraverso la deliberazione (consilium) i mezzi adatti ad attuare un determinato fine (qui è centrale il ruolo della saggezza pratica (prudentia), consentendo (consensus) ad essi onde farne uso (usus) . Ciò che l'Aquinate chiama consenso precede la scelta dei mezzi quando v'è una pluralità di mezzi adatti allo scopo, mentre coincide con la scelta di un mezzo quando questo s'impone come l'unico conveniente. La ragione poi comanda (imperium) l'attuazione del fine attraverso il mezzo adeguato e ciò comporta l'uso di potenze diverse dal volere, in particolare del corpo. Nella prospettiva globale del fine da attuare il momento del concreto consenso , cioè dell'adesione della volontà ad un dato mezzo appare fondamentale. Nel suo complesso l'elaborazione dell'azione da parte del soggetto umano può essere rappresentata, secondo Tommaso, come un processo di concentrazione del dinamismo operativo mirante al particolare mediante un movimento dialettico di conoscenza e di appetizione. In questo movimento l'influsso dell'intelletto è descritto da Tommaso come quello di una causa formale , la quale non è sufficiente a mettere in moto la volontà, giacché l'intelletto ha solo la funzione di presentare l'oggetto. Perciò il primo movimento della volontà non può venire dall'intelletto, ma è autonomo nel suo ordine, benché abbia Dio come principio trascendente. Una volta precisati i diversi momenti dell'azione umana, la trattazione dell'etica in senso contemporaneo riguarda soprattutto le questioni 18-21 della Summa theologiae I-II concernenti la bontà e malizia degli atti umani. Da un punto di vista ontologico qualsiasi azione come qualsiasi ente possiede una sua intrinseca positività. Di qui il fascino esercitato sugli uomini anche dalle azioni immorali, ma efficaci o esteticamente belle. Ma un'azione umana è morale quando è integra ovvero tiene conto adeguatamente di tutti gli aspetti che concorrono a renderla rispondente alla finalità vera dell'uomo, ordinandoli e gerarchizzandoli debitamente. Questi aspetti sono il fine dell'agire (ovvero l'intenzione riflessa rivolta al bene (bonum honestum) - ciò che è primo dal punto di vista dell'ordo intentionis), l'oggetto (o materia) ovvero ciò che si intende attuare, compiendo una data azione (da non confondersi con un determinato ente o cosa - si tratta piuttosto della prospettiva su un'ente: ad es. non sottrarre la roba altrui) e le particolari circostanze dell'azione. Le circostanze possono far parte integrante dell'oggetto dell'azione, qualificandolo. Ad esempio: rubare in un luogo sacro rende l'azione di rubare, già di per sé immorale, assai più riprovevole. Nella prospettiva di Tommaso, attenta alla concretezza, il fatto di aver compiuto effettivamente l'azione non è indifferente, poiché perfeziona la mera intenzione di compierla. Come afferma Aristotele, si diventa virtuosi, compiendo effettivamente le azioni buone. Se poi non si tiene conto anche di uno solo dei fattori indicati affinché l'azione sia integra, essa non obbedisce ai criteri della moralità. È sufficiente, infatti, che sia assente un fattore perché l'azione non sia moralmente buona. Così non basta che un'azione si attenga astrattamente ai precetti della legge naturale. Per essere morale l'agire deve rispettare, quindi, l'integrità (integritas) dell'approccio. Un uomo esercita la moralità quando attua in sé stesso la verità pratica ovvero quando nel suo agire vi è accordo fra la tendenza della volontà verso il bene da un lato e la saggezza pratica (prudentia) virtù dianoetica, ma determinante per il suo influsso sull'etica dall'altro. La prudenza stabilisce i mezzi adeguati per raggiungere in concreto il bene desiderato. La capacità della volontà di tendere al bene dipende strettamente dalla misura in cui sono sviluppate nell'uomo le virtù etiche che sono le disposizioni (habitus) buone che moderano le passioni, le quali si radicano nella facoltà appetitiva dell'anima umana. Secondo Tommaso virtù etica "è la forma che è impressa dalla ragione nella tendenza dell'uomo come un sigillo". Tali virtù non sono innate (come, ad esempio, è innato esercitare l'atto di vedere), ma sono espressione della ragione quale criterio dell'agire e sono pure frutto di esercizio. È possibile, infatti, anche non perfezionare le capacità umane o assecondare tendenze contro natura (vizi). Le virtù naturali sono stabilite dalla ragione, quelle infuse che perfezionano le virtù naturali sono esito della grazia. Tra le virtù naturali, quale espressione particolare della giustizia, si annovera la virtù di religione, la quale in certo senso apre alla dimensione delle virtù infuse. In questa prospettiva l'etica di Tommaso, come già quella aristotelica, può chiamarsi etica della virtù , perché l'attuazione dell'uomo sotto il profilo morale dipende essenzialmente dal perfezionamento integrale (cioè gerarchicamente ordinato) delle potenzialità umane. Se tale perfezionamento non coincide, in questa vita, con la pienezza del compimento e della felicità, esso tuttavia prepara e anticipa la salvezza e felicità piene. In base alla distinzione presente nella I-II della Summa theologiae, dal punto di vista dei principi interiori degli atti umani la morale consiste nel seguire la ragione e nel coltivare le virtù , dal punto di vista dei principi esteriori dell'agire la morale consiste, invece, nell'obbedire alla legge naturale, la quale manifesta i criteri universali che implicitamente regolano l'agire morale dell'uomo. Nella prospettiva teologica di Tommaso, tali criteri sono stati fissati nella natura umana da Dio. Ma l'uomo, a differenza degli animali, è partecipe della provvidenza di Dio stesso . Come si cercherà di mostrare, prospettiva delle virtù e prospettiva della legge si completano a vicenda. Esse rappresentano due diverse, ma complementari prospettive su quell'unico fenomeno che è costituito dall'agire morale dell'uomo. La legge naturale consiste, secondo Tommaso, in una certa quale partecipazione (partecipatio) della ragione umana alla legge eterna (lex aeterna). La sua trattazione si colloca fra quella della legge eterna (ovvero del progetto divino sul mondo, coincidente con la sua provvidenza e a noi in somma parte ignoto) e quella della legge umana (lex humana) che può diventare legge civile , la quale regola la vita degli stati, e infine quella della legge religiosa (lex vetus) dell'Antico testamento e della legge nuova (lex nova) del Nuovo patto o legge della libertà inaugurata da Gesù. Secondo Tommaso, la legge umana deve tendenzialmente conformarsi alla legge naturale, ma può aggiungere ad essa anche un altro genere di normativa. Se però una legge umana contraddice la legge naturale non è più legge. Tuttavia, benché come Aristotele anche Tommaso pensi che scopo del governo civile sia promuovere la virtù, egli mostra in concreto grande flessibilità. Alcuni vizi possono essere tollerati dalla legislazione civile al fine di non ostacolare altri beni o di evitare mali peggiori . Significativamente la legge naturale che è data soltanto all'uomo fra le creature del mondo è nella ragione. Essa contiene, infatti, i principi supremi della ragione pratica. La ragione, in quanto guida l'agire umano, è in grado di stabilire dei principi fondamentali che debbono guidare tale agire. Questi principi coincidono con la legge naturale e e con i criteri-base della vita virtuosa. All'inizio dell'etica non sta, quindi, una realtà prefabbricata che regoli l'uomo dal di fuori, ma l'uomo nell'apertura del suo "poter essere" che è necessario portare a compimento. Con la trattazione della legge naturale l'Aquinate inserisce una tematica profondamente innovativa di derivazione stoica e cristiana all'interno di un contesto improntato in buona parte all'etica aristotelica. Grazie alla legge naturale, per comprendere i fondamentali principi della morale non occorre essere virtuosi. Anche il bambino (che non ha ancora potuto esercitare la virtù) o il malvagio (che non l'ha voluta coltivare) sono in grado di capire che cosa è bene e che cosa è male in generale. Tommaso fonda, così, l'oggettività e universalità della norma morale. Su di esse si radica il dovere di seguire i dettami della propria coscienza. Ma come si rende evidente all'uomo la legge naturale? La ragione pratica svela i principi della legge naturale, interpretando le tendenze che sono insite nella natura umana. Mentre sul piano della ragione (intellectus) teoretica che intuisce i primi principi (le prime evidenze) all'apprensione dell'ente corrisponde il principio di non contraddizione secondo cui l'affermazione e la negazione sono incompatibili, sul piano dell' habitus dei primi principi dell'intelletto pratico (synderesis) alla naturale tendenza dell'uomo verso il bene segue il giudizio secondo cui occorre perseguire il bene ed evitare il male (primo principio della ragion pratica). A questo livello si è già sul piano della ragion pratica che tende al bene, ma non ancora sul piano della morale. Il primo principio della ragion (intellectus) pratica resterebbe puramente formale e non investirebbe ancora il piano propriamente etico della coscienza (conscientia) se non si potesse declinare ulteriormente. Tuttavia, osserva Tommaso che su tale primo principio ovvero sulla formalità del bene (forma boni) "sono fondati tutti gli altri precetti della legge naturale; cosicché tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono alla legge di natura, in quanto la ragion pratica le conosce naturalmente come beni umani" . Scendendo su un piano più concreto, è possibile identificare alcune tendenze naturali fondamentali che la volontà, in quanto aperta grazie alla ragione al bene universale, è in grado di abbracciare: esse sono, in ordine crescente di perfezione, la tendenza all'autoconservazione dell'uomo come essere vivente (ciò che lo accomuna ad ogni altra cosa in natura), la tendenza all'unione con l'altro sesso, alla propagazione della vita, all'allevamento dei figli (aspetti che lo accomunano agli altri animali), infine la tendenza a sviluppare la propria ragione e, quindi, a conoscere, a dialogare e a vivere insieme nella società (ciò che invece è tipico dell'uomo in quanto dotato di ragione). In particolare: la società politica è possibile grazie al peculiare linguaggio umano che permette di interpretare e di comunicare i bisogni, identificando motivi di aggregazione pacifica fra gli uomini intorno al bene comune (bonum commune). Benché quelle esposte siano tutte tendenze (inclinationes) della natura umana, esse acquistano una valenza morale grazie alla ragione che, in quanto aperta all'essere e al bene, è in grado di interpretarle dalla prospettiva integra del bene perfetto, legittimandole, gerarchizzandole e rendendole, così, normative. Così occorre perseguire la propria tendenza all'autoconservazione e alla procreazione, ma secondo una modalità che non sia nociva rispetto al bene universale che ci è svelato dalla ragione. In questa prospettiva la nostra e l'altrui persona, in quanto aperte alla dimensione trascendentale dell'essere e del bene, possiedono una dignità che non permette mai di considerarle meramente come mezzi. In termini contemporanei si potrebbe affermare che l'etica di Tommaso possiede un fondamento ontologico, ma non è un'etica naturalistica, dal momento che le tendenze naturali sono vagliate e promulgate dalla ragione. I primi principi della legge naturale appena esposti possono essere conosciuti da tutti gli uomini purché dotati dell'uso della ragione. Essi possono, tuttavia, rimanere parzialmente inapplicati quando la dimensione passionale incide gravemente sulla ragione. Resta tuttavia aperto il problema di come esplicitare e calare nel concreto delle scelte della vita tali principi che altrimenti rischiano di rimanere astratti. Da questo punto di vista appare significativo che nello svolgimento dell'etica tommasiana acquisti sempre più peso l'iniziativa umana (quindi anche il ruolo della volontà e della virtù quale principio interno degli atti buoni) la quale permette di scoprire la legge in concreto, anziché la dimensione della mera adeguazione ad una legge astrattamente intesa. Come è stato osservato, "il complemento dell'habitus virtuoso si trova così a mediare tra la natura specifica dell'uomo, la sua natura individuale e la singolarità delle sue azioni. Rispetto alla natura specifica che fornisce solo i principi generali delle virtù (principi della ragion pratica e inclinazione al bonum in communi), la virtù introduce determinazioni più specifiche verso le diverse forme che il bene umano assume in ragione della diversità della materia. In questo senso le virtù costituiscono il perfetto sviluppo della natura umana. Rispetto alla natura individuale le virtù forniscono un'integrazione che colma le lacune introdotte dall'individuazione, inclinando la natura non solo verso l'una o l'altra forma di bene umano, ma verso tutte, e rendendo le inclinazioni adattabili alla diversità delle circostanze secondo il giudizio della ragione". Infine senza l'adeguato sviluppo delle virtù morali non è possibile esercitare la virtù dianoetica della prudenza, la quale permette di commisurare la legge morale al caso particolare per mezzo del sillogismo pratico. Ma come si diventa virtuosi? Come si possono imparare le virtù? Il terzo precetto della legge naturale, evidente ad ogni uomo in quanto dotato di ragione, rende sensibili di fronte all'autorevolezza sotto il profilo morale dell'altro uomo, pure lui dotato di ragione. Nell'opera di acquisizione e di perfezionamento degli habitus virtuosi per Tommaso come per Aristotele gioca un ruolo fondamentale la testimonianza altrui, la quale manifesta che una virtù è connaturale a quella data persona. Prima ancora di essere conosciute sul piano del sapere concettuale, le virtù, infatti, sono esercitate per connaturalità. o per inclinationem . L'habitus virtuoso, infatti, viene a creare una connaturalità o una presenza del suo oggetto che si radica fino a creare una specie di natura o connatura di esso in colui che lo possiede. Osserva Tommaso che se è vero che per quanto concerne i principi universali dell'operare l'uomo conosce mediante l'abito naturale dell' intellectus principiorum, che occorre perseguire il bene e sfuggire il male, tuttavia "questo non basta per una buona deduzione intorno ai singolari. Poiché codesti principi universali, conosciuti attraverso l'intelletto o la scienza, vengono compromessi nel caso particolare da qualche passione: così a chi è dominato dalla concupiscenza sembra cosa buona quello che desidera, sebbene sia contraria al principio universale della ragione. Perciò, come uno viene predisposto a comportarsi bene rispetto ai principi universali dall'abito naturale dell'intelletto, o da quello di una scienza; così per essere ben disposto rispetto ai principi particolari dell'agire, e cioè ai fini, è necessario l'acquisto di alcuni abiti, in forza dei quali diviene come connaturale per lui giudicare rettamente del fine. E questo è il compito delle virtù morali: infatti il virtuoso giudica rettamente della virtuosità del fine, poichè, come si esprime Aristotele, 'quale ciascuno è, tale è il fine che a lui si presenta' (Etica nicomachea III). Dunque per avere la retta ragione nelle azioni da compiere, vale a dire la prudenza, si richiede che uno possieda le virtù morali". La testimonianza del bene incentiva poi l'amore di amicizia (amor amicitiae). Tale è la forza unitiva dell'amicizia in nome del bene che gli amici sono, sotto un certo profilo, una sola cosa. L'amicizia fra gli uomini è, per Tommaso, segno di quella carità come "amicizia con Dio" e degli uomini fra loro in nome di Dio che costituisce la virtù somma che l'uomo può raggiungere. Il compimento pieno della persona è possibile, infatti, grazie alle virtù teologali (fede, speranza, carità) frutto della grazia divina, che compiono le virtù naturali, dei corrispettivi "doni dello spirito santo" e soprattutto della carità , la quale è forma di tutte le virtù e incide sull'intera vita morale dell'uomo, rinnovandola dall'interno e facendola partecipare alla stessa vita trinitaria di Dio. Così ogni bene concreto che l'uomo raggiunge con il suo agire diventa segno di una maggiore perfezione che s'invera nella perfetta beatitudine di Dio. Come è stato osservato, se si considera la morale dalla prospettiva più radicale, secondo Tommaso "solamente la natura dell'uomo considerata teologicamente, ossia la visione dell'uomo sotto il profilo della concreta vocazione alla comunione con quel Dio che viene incontro all'uomo, permette di dedurre indicazioni etiche concrete". Significativamente la Summa theologiae si conclude con la terza parte dedicata a Cristo mediatore. Soltanto attraverso la mediazione di Cristo, Dio e uomo, Verità e Via è possibile, secondo Tommaso, attuare pienamente quel movimento di ritorno a Dio, "fine di ogni nostro desiderio e di ogni nostra azione", che costituisce il senso ultimo della morale umana. Se il compimento definitivo dell'uomo e, quindi, la gioia piena possono aver luogo soltanto nell'altra vita con la visione di Dio, Tommaso è convinto che sia possibile a colui che segue tutto il percorso indicato raggiungere uno stato di serenità e di letizia già in questa vita. Riprova di ciò è il fatto che egli consideri l'accidia (acedia) , intimamente connessa alla tristezza (tristitia) in quanto direttamente contraria alla virtù della carità, un peccato mortale e uno dei vizi capitali. Sarebbe assurdo e indegno di Dio, infatti, pensare che la grazia divina non giovi all'uomo, rendendolo più umanamente lieto. CONCLUSIONI: Tommaso d'Aquino e il nostro tempo Benché il pensiero di Tommaso d'Aquino risenta di molteplici influssi che la critica di questo secolo ha contribuito ad evidenziare, esso costituisce nel suo complesso una sintesi originale nel suo tempo. Se l'immagine di un Tommaso naturalmente aristotelico, ancora in voga nei primi anni del Novecento (di qui l'espressione consolidata di filosofia aristotelico-tomista) appare oggi improponibile, altrettanto improponibile appare, a ben vedere, la più recente e accreditata immagine di un Tommaso platonico, benché egli risenta profondamente di entrambi i filoni di pensiero. V'è nel pensiero dell'Aquinate qualcosa di irriducibile a queste interpretazioni come si è cercato di mostrare nel corso dell'esposizione. In particolare: sul piano metafisico l'atto d'essere di Tommaso si distingue per il suo carattere analogico (in quanto aristotelicamente atto di ogni ente concreto e individuale) e, quindi, particolarmente dinamico , dall'essere univoco dei platonici, pur essendo inconcepibile la sua genesi senza il loro apporto. Inoltre contraddistingue la metafisica di Tommaso l'originale e ricorrente ricorso all'atto d'essere nella prospettiva dei diversi trascendentali: l'atto d'essere fonda in concreto l'unità, la bontà, l'intelligibilità delle creature e, in Dio, in cui coincide con la sua essenza, la sua semplicità e tutti gli altri nomi. Così pure, su altro piano, l'etica di Tommaso si discosta radicalmente da quella di Aristotele, alla quale pure per tanti aspetti si avvicina. Basti pensare, ad esempio, all'originale trattazione della legge naturale. Ma se risultano improponibili dal punto di vista storiografico certi facili appiattimenti, altrettanto discutibili possono apparire certi confronti in voga fra i tomisti nel nostro secolo. Non che i confronti non debbano essere fatti. Tuttavia non si può pretendere che il pensiero di Tommaso risponda in modo meccanico alle nostre domande di uomini della fine del ventesimo secolo. Occorre in ogni caso calibrare maggiormente le differenze. Così, soltanto per fare un esempio significativo, la "scoperta" dell'atto d'essere ad opera del filone neotomista può forse apparirci oggi eccessivamente influenzata dal clima esistenzialistico degli anni trenta, tanto da sottovalutare talora troppo il ruolo della determinazione essenziale nell'ente finito e quello della stessa essenza divina che coincide con l'esse di Dio. Resta vero, in ogni caso, che un grande classico del pensiero, quale Tommaso è indubbiamente, ha sempre qualcosa di significativo da dire in ogni tempo. Perciò è legittimo e doveroso chiederci alla fine di questo volume che cosa suggerisca la sua riflessione all'uomo di oggi che consideri la filosofia, secondo il suggerimento dello stesso Aquinate, non innanzi tutto come storia delle idee ma come approccio speculativo ai problemi fondamentali della realtà e dell'esistenza umana. In questa prospettiva, dal momento che il clima culturale della nostra epoca appare dominato da quell'atteggiamento di fronte alla vita che si chiama nichilismo, è legittimo chiedersi se il pensiero di Tommaso offra qualche suggerimento che permetta di interpretare questo fenomeno. Invero, mentre nella sua concezione la contemplazione del bene infinito non cessa mai di unificare e di allietare l'uomo, permettendogli di gerarchizzare gli altri beni e di risignificare la sua vita, invece l'accumulo di beni finiti non è in grado di saziarlo, determinando una corsa senza fine e, in ultima analisi, il non senso. Alla radice del nichilismo ci sarebbe, quindi, in questa prospettiva, una non adeguata presa di coscienza da parte dell'uomo, sul piano morale e metafisico, dell'intero dell'essere e, in esso, della gerarchia dei beni . Lo specifico del pensiero dell'Aquinate, infatti, non è tanto costituito in prima istanza da un particolare elemento o da una particolare accentuazione, anche perché egli valorizza ampiamente molteplici filoni della tradizione. Ciò che contraddistingue, invece, il metodo di Tommaso è la sua capacità di aprirsi alla totalità dell'essere e dell'uomo, alla quale questi è naturalmente aperto grazie alla ragione, gerarchizzando i diversi elementi e assimilando organicamente, a tal fine, dati provenienti da diverse tradizioni filosofiche. In altri termini: Tommaso ricerca ciò che all'interno della totalità in generale o di un particolare considerato come totalità è più semplice ovvero più capace di unificare una complessità di elementi, pur preservando, insieme, la loro diversità e autonomia. Qualora non emerga tale dimensione sintetica, evidentemente il pensiero di Tommaso rischia di scadere in un equivoco concordismo. In particolare: come sul piano pratico-morale quello che possiamo chiamare principio d'integrità, assumendo la globalità dell'umano alla luce dell'ideale di bene-perfezione, ordina gerarchicamente le diverse tendenze-finalità onde unificare e compiere l'uomo, così sul piano teoretico lo stesso principio si apre alla totalità dell'essere e la interpreta, ordinandola, alla luce di quell'aspetto dell'esperienza - l'atto d'essere - che giudica più sintetico ovvero più radicale e pervasivo. Fra le due dimensioni, pratica e teoretica, si attua, pur nella distinzione dei piani, un significativo rapporto. L'uomo moralmente integro, il quale sviluppa armoniosamente le sue facoltà, preservando la distinzione nell'unità, tende, infatti, ad accordarsi con l'essere nell'integrità delle sue dimensioni, in particolare con quelle trascendentali, svolgendone le virtualità. Vi è, quindi, accordo (convenientia) fra libertà e verità. Senza libertà non è possibile cogliere la verità e la bontà dell'essere, ma senza apertura della ragione all'essere, la libertà non sarebbe possibile. L'integrità poi, (nelle due accezioni pratica e teoretica) si dimostra come dotata di armonia, perciò esteticamente bella. In sintesi: apertura integra all'uomo e all'essere significa, concretamente, valorizzazione di unità e di diversità-molteplicità, di dimensione trascendentale e di dimensione categoriale, delle diverse prospettive trascendentali attraverso le quali l'essere ci si manifesta, quindi anche di ragione teoretica (rivolta all'essere) e, insieme, di ragion pratica (rivolta al bene), di psichicità e di corporeità, di esperienza e di riflessione, di attenzione all'esperienza nei suoi aspetti "fenomenologici" e di rigore argomentativo. Il fatto che il principio in questione implichi il riconoscimento di una gerarchia di esperienze e di valori corrispettivi comporta che esso si opponga allo sviluppo indiscriminato di tutte le possibilità dell'uomo. Se così fosse, l'esito inevitabile sarebbe il "politeismo dei valori", la dilacerazione dell'unità della persona, la perdita del senso della vita, quindi ancora una volta il nichilismo: proprio ciò che occorre esorcizzare. Ma il principio d'integrità significa nello stesso tempo e in base a quanto si è appena osservato principio di realtà: la gerarchia, infatti, si adegua all'ordine stesso dell'essere coincidente a sua volta con l'ordine del bene. L'apertura della ragione all'essere nella sua dimensione trascendentale e categoriale rende possibile il manifestarsi di tale gerarchia. Ciò suppone una nozione di esperienza assai più ricca di quella propria dei diversi empirismi, perché in grado di cogliere delle totalità prima delle singole parti che le compongono. In questa prospettiva appare fondamentale evidenziare quando la realtà intenzionata confuta, di fatto, il pensiero sulla realtà, la stessa riflessione filosofica. Occorre sottolineare, infatti, che l'approccio conoscitivo alla realtà, a motivo della finitezza e corporeità dell'uomo, del suo carattere potenziale, non è privo di difficoltà. Si tratta, per così dire, di sorprendere l'implicito nella sua concreta intenzionalità. L'uomo si conosce e conosce la realtà (i due aspetti sono strettamente correlati) non attraverso una sorta d'intuizione, ma riflettendo sull'implicitezza dei propri atti conoscitivi e appetitivi . Ciò esige una particolare docilità nei confronti di ogni indicazione che l'esperienza del mondo e delle altre persone suggerisce. Un approccio integro alla realtà richiede, quindi, per Tommaso un'attenzione, insieme, all'implicito e all'esplicito, cioè all'esperienza informata già di ragione e alla dimensione della riflessione. L'esplicito, tuttavia, non riuscirà mai a coincidere con l'implicito (pensare il contrario è il rischio del razionalismo e dell'essenzialismo). La riflessione serve, innanzitutto, a far emergere attraverso l'analisi (resolutio) quelle evidenze prime del pensiero e dell'agire che sottendono ogni nostra esperienza e di cui progressivamente prendiamo coscienza. Queste evidenze prime, fra di loro coincidenti, sono, come notato, in primo luogo, l'ente (ens) primo principio della ragione teoretica e il bene (bonum), primo principio della ragion pratica. Infine il principio d'integrità e quello di realtà implicano nella pratica intellettuale di Tommaso quello che si potrebbe chiamare principio di carità: si tratta di aprirsi alla realtà, ma soprattutto alla realtà dell'altro, accordando ad esso un'iniziale fiducia e imparando sia da una tradizione di pensiero di cui si fa parte sia dalle obiezioni degli avversari, cercando di contemplarle nelle risposte e di integrarle dialetticamente entro una sintesi superiore. Il metodo della quaestio , come è concretamente praticato da Tommaso, riflette bene questo spirito. Passando dalla riflessione sul metodo ai contenuti del pensiero dell'Aquinate, emerge implicitamente da quanto finora osservato che, se il problema della nostra epoca che il nichilismo solleva, è il problema del senso o del fine-bene della vita, o meglio della legittimità stessa della domanda di senso, si tratta di sorprendere l'affermazione del bene e del senso all'interno dell'esperienza di chi si professa nichilista. Appare opportuno, quindi, partire dal postulato di senso implicito nell'agire umano, ovvero dalla morale, anziché dalla metafisica. La prospettiva di Tommaso a rigore non lo vieta. Altro, infatti, è il problema dell'inizio di una filosofia, altro quello della sua fondazione. Non solo: come vi è una metafisicità della morale, così pure vi sono delle precondizioni di carattere morale alla base del realismo metafisico di Tommaso che per ragioni storiche egli non ha adeguatamente tematizzato, ma che oggi è più urgente fare oggetto di riflessione. Per questo motivo ho scelto in questo capitolo conclusivo di anteporre l'etica alla metafisica, pur consapevole del primato di quest'ultima nell'esposizione che Tommaso compie del suo pensiero. In generale, una metafisica dell'essere sembra oggi riproponibile prima e più che sul piano conoscitivo, sul piano del rapporto affettivo ed etico con la realtà. In opposizione sia all'assolutizzazione del teoretico o del pratico sia alla netta divaricazione di pratico e teoretico, è possibile mostrare che anche la dimensione della ragion pratica e del desiderio apre all'essere. Anzi: sembra assai probabile che nell'epoca del nichilismo sia possibile ricuperare la dimensione ontologica e metafisica principalmente attraverso la riflessione sull'esperienza del bene e del senso possibile grazie al rapporto con l'altro . Se l'essere si manifesta come bene, occorre distinguere, ma non divaricare la dimensione teoretica e quella pratica della ragione. Nella prospettiva dell'etica di Tommaso si tratta di riflettere sull'uomo come tendenza al bene e alla perfezione. L'uomo, quando agisce, vuole sempre qualcosa come bene; egli non tende mai al nulla. Egli vuole il bene, il bene per lui, ciò che possa compierlo. Anche al male si tende in nome del bene, di ciò che pur sempre appare come bene, anche se fosse soltanto un bene parziale. Il finalismo contraddistingue la prospettiva ontologica e antropologica dell'Aquinate. Ma poiché l'uomo è contraddistinto dall'apertura della ragione a tutto l'essere e, quindi, anche della volontà al bene nella sua trascendentalità - apertura che informa anche le altre tendenze - il problema morale consiste nell'individuare quel bene che è adeguato all'apertura della sua ragione e del suo desiderio. In questo modo la ragione informa alla radice il desiderio di felicità, introducendo il tema del valore morale, di ciò che merita di essere perseguito in quanto adeguato alla natura dell'uomo. La netta distinzione, presente nell'etica aristotelica e tommasiana, dell' agire morale rispetto al fare si oppone alla tentazione moderna di ridurre la morale e la politica ad una mera "tecnica delle passioni". Rispetto all'etica di Aristotele e, soprattutto, rispetto all'etica di Kant la riflessione morale di Tommaso appare fenomenologicamente assai più ricca. In particolare: si ritrova in essa una dettagliata analisi dell'agire umano che è in grado di interessare la filosofia analitica contemporanea. Il fatto di partire dal bene e dall'esigenza di felicità, cioè dalle istanze dell'io, e non kantianamente dalla norma o dall'"egli" risponde poi ad un'esigenza di concretezza e di prossimità all'esperienza oggi assai sentita rispetto alle astrattezze dell'utilitarismo, del neocontrattualismo e dell'etica della comunicazione, come pure all'esaltazione unilaterale dell'"opzione fondamentale". Ma all'etica di Aristotele, alla quale per tanti aspetti si avvicina, la riflessione morale di Tommaso aggiunge un'importante integrazione con il tema della legge naturale, possibile grazie al peculiare linguaggio umano, il quale permette di rispondere all'istanza di oggettività (o intersoggettività) che è assai viva in un mondo sempre più privo di quadri di riferimento comuni. In particolare: come è stato recentemente sottolineato, l'etica cristiana di Tommaso è un'etica su fondamento ontologico, ma non un'etica naturalistica. E ciò non soltanto perché in essa non si deduce mai alla maniera razionalistica ed essenzialistica la norma morale da un'idea astratta di natura umana, ma piuttosto si prende atto della presenza nell'uomo di tendenze naturali premorali già orientate a determinati fini; ma anche perché, trattandosi nel caso dell'uomo di una natura razionale, è la ragione pratica a stabilire, in ultima analisi, ciò che è bene e ciò che è male, interpretando, gerarchizzando e rendendo normative le tendenze della natura. In effetti la legge naturale non è per Tommaso qualcosa che giace di fronte alla ragione, in quanto piuttosto è il principio stesso della ragione pratica, cioè della ragione quando è diretta a guidare l'azione. L'etica di Tommaso valorizza giustamente le tendenze naturali (inclinationes) e i valori corrispondenti, che sono incommensurabili, inestirpabili e, come tali inconfutabili, ma gerarchizzandole e rendendole eticamente normative alla luce dell'idea di perfezione che è prerogativa della ragione. L'unico criterio di ordine coerente con la nozione di bene, che è fondamentale e primordiale per la ragion pratica, è il criterio della perfezione che può essere espressa anche come integrità (integritas). Il concetto di perfezione-integrità, infatti, esplicita una nota presente nel concetto di bene. Come è stato notato, "l'idea di perfezione non contraddice affatto alla incommensurabilità dei beni umani... Infatti l'ordine che essa introduce tra i beni umani non è un ordine di mezzi relativi a fini , dove la bontà dei mezzi è derivata dalla bontà dei fini. Nell'ordine di perfezione ogni bene mantiene il suo specifico valore, irriducibile a quello degli altri beni e incommensurabile con esso nella sua specificità; ma riceve una nuova dignità dalla sua ordinabilità a un bene più eccellente e più nobile, perché più perfetto. L'ordine tra i beni non significa che si può trascurare il meno eccellente per il più eccellente; ma che i beni più eccellenti devono essere coltivati nella loro specificità proprio perché solo così essi fanno possibile l'accesso ai beni più eccellenti: in ciò sta la loro dignità e la ragione ultima della loro inviolabilità". Così, benché vi sia una gerarchia di perfezioni in base a cui quelle più elevate sono assiologicamente superiori, occorre pure sottolineare che i beni inferiori sono imprescindibili e anche più resistenti rispetto agli altri. Questo tema presenta importanti conseguenze sul piano antropologico. Se il tema della legge naturale è fondamentale nell'etica di Tommaso, tuttavia, come è stato notato, esso rimarrebbe pur sempre senza applicazione sul terreno delle scelte senza la sua etica delle virtù quali disposizioni dell'uomo misurate dalla ragione nella sua apertura all'universale, la quale permette di calare nel concreto dell'hic et nunc le norme generali. Anche qui emerge prepotentemente il tema dell'integritas. Così l'uomo non può essere pienamente morale senza che la sua vita corporea e affettiva sia accordata con la ragione, una virtù non è tale senza le altre, un atto non è morale qualora non si tenga conto, insieme, del fine, dell'oggetto e delle circostanze. In sintesi: grazie alla sua attenzione alle virtù etiche e alla saggezza pratica (prudentia ) da un lato e alla dimensione trascendentale della ragione evidente nel tema legge naturale dall'altro, l'etica di Tommaso sembra contemperare due esigenze entrambe vivacemente presenti nella riflessione contemporanea sulla morale: da un lato l'esigenza di partire dall'io, dalla sua esigenza di felicità, dalla coltivazione delle disposizioni virtuose e dell'attenzione ai paradigmi autorevoli che permettono all'uomo di fare il bene in concreto (istanza presente nell' "etica delle virtù" e nel neocomunitarismo), dall'altro l'esigenza di universalità in un'epoca in cui si rischia l'incomunicabilità fra le diverse prospettive morali (istanza presente oggi nell'etica della comunicazione di Apel e di Habermas e nel neocontrattualismo di Rawls). Infine, a motivo della contingenza dell'essere e dell'uomo, la morale si apre per intima logica al religioso. Sul piano metafisico il bonum honestum cui l'uomo tende in quanto soggetto di moralità esige quale suo fondamento un Bene infinito sussistente. Ciò significa anche apertura ad una possibile e concreta rivelazione. L'uomo, infatti, ad una considerazione realistica, non è già integro, ma tende naturalmente alla perfezione. Si comprende a questo punto quali spazio e legittimità assumano nel pensiero dell'Aquinate la vita di fede e la riflessione strettamente teologica. Se la morale culmina nella riflessione etica e religiosa, essa apre pure necessariamente alla dimensione metafisica. Il bene, infatti, manifesta l'essere con cui coincide. Senza l'appello dell'essere la tendenza che fonda la dimensione morale non sarebbe possibile. L'esperienza dell'essere esige, quindi, di essere tematizzata. In particolare: il tema della legge naturale indica significativamente che alla ragion pratica nel suo concreto esercizio si manifesta una gerarchia in atto dell'essere in senso crescente: essere, vivere, intendere. Ciascuna dimensione possiede un suo valore e una sua incommensurabilità con le altre dimensioni che non elimina però una loro gerarchizzazione nella prospettiva unificante del bene-perfezione. Sul piano categoriale la gerarchia dell'essere ha il suo vertice nella dimensione personale aperta al trascendentale, in cui le diverse dimensioni sono comprese. Sul piano trascendentale essa si fonda, a ben vedere, sull'atto d'essere, senza del quale nessuna tendenza sarebbe e avrebbe valore. Sembra possibile, così, instituire un significativo confronto tra piano della ragion pratica - ma si potrebbe dire dell'esperienza - e piano della ragione speculativa: come sul piano della sinderesi e della ragion pratica si rende implicitamente evidente la gerarchia delle tendenze (essere, vivere, intendere) accomunate dal bene-perfezione, così sul piano teoretico della ragione riflettente si rende esplicitamente evidente l'atto d'essere che attua e compie i diversi livelli dell'essere. Ciò che emerge dalla riflessione metafisica è già presente implicitamente all'istanza morale che anima l'agire umano. Come sul piano della morale l'ideale di bene e di perfezione non contraddice l'incommensurabilità fra i beni umani, così sul piano metafisico l'atto d'essere non elimina la diversità fra le dimensioni che attua, pur conservando su di esse il primato. Così pure, come sul piano della ragione teoretica l'atto d'essere comprende e trascende le essenze, così sul piano della ragion pratica la saggezza attua e insieme supera il dettato ancora astratto della legge naturale. La domanda di senso e di salvezza sollecita a prendere avvio nella riflessione filosofica dalla problematica morale e religiosa. A loro volta la morale e la riflessione etica come pure la dimensione religiosa e la connessa riflessione teologica aprono alla metafisica già implicitamente presente sul piano prediscorsivo dell'esperienza. Il desiderio di senso possiede una sua logica che è quella stessa dell'apertura della ragione che lo informa intimamente. L'istanza ontologica e metafisica (non soltanto nell'accezione ermeneutica di apertura alla totalità del senso, ma anche nel senso del rigore fondativo) resta fondamentale in una prospettiva che intenda rispettare l'istanza d'integrità che è prerogativa della ragione. Ma di fronte al problema costituito dalla riproposizione della metafisica, occorre oggi fare i conti con diverse obiezioni che sollecitano a elaborare quella che è possibile definire come un'"etica della ragione", la quale sia in grado di rispondere all'interrogativo sullo spazio della metafisica all'interno dell'esperienza umana In particolare: per Heidegger e per molti seguaci del suo pensiero che risentono dell'influsso di Nietzsche la metafisica costituisce un sapere ontico e violento. Tuttavia si può mostrare che l'obiezione heideggeriana, benché stimolante, non è insormontabile. E ciò, in primo luogo, poiché la filosofia che tratta dell'essere e di Dio non ha sempre inteso rispondere alla domanda di salvezza e costituire così il fondamento adeguato su cui l'uomo poggia la propria sicurezza (questo non è vero in genere per la metafisica del Medioevo e, in particolare per quella di Tommaso) . Anche per questa ragione non è corretto accusare in toto la metafisica occidentale di essere all'origine della violenza insita nel dominio tecnocratico e, quindi, del nichilismo contemporaneo. Ciò può valere, se mai, soltanto per quelle metafisiche che abbiano preteso annullare (razionalismo) o assorbire in se stesse (gnosticismo-ideologie totalitarie) la dimensione dell'esperienza in genere e dell'esperienza religiosa in particolare, su cui tradizionalmente l'uomo poggiava la propria certezza esistenziale. È violenta ogni filosofia dell'inizio assoluto , nella quale "in primis" l'uomo ripone la sua speranza. Al contrario, in linea di principio, si deve pensare lo spazio della metafisica come disciplina filosofica all'interno di un'esperienza umana integra, analogicamente articolata su diversi livelli, fra i quali l'esperienza religiosa (intesa in senso lato) svolge un ruolo sintetico. In questo contesto la metafisica non si sviluppa in primo luogo per rispondere ad un'urgenza di assicurazione, ma come risposta all'esigenza teoretica di comprendere la bellezza dell'esperienza dell'essere nella sua intrinseca intelligibilità. Invero una dimensione estetica e ludica accompagna sempre l'autentico atteggiamento metafisico. In questa prospettiva l'esigenza di trascendere l'esperienza, che contraddistingue classicamente la teologia filosofica, nasce naturalmente dalla percezione del carattere contingente del mondo: provare Dio non è altro che provare la contingenza del mondo che è suggerita da numerosi segni. Rilevanti critiche alla possibilità della metafisica sono state rivolte pure sul piano epistemologico. La metafisica costituisce nella prospettiva di Tommaso la sapienza filosofica superiore perché il suo oggetto è il più comprensivo. Essa è possibile perché l'intenzionalità conoscitiva non si ferma alla dimensione del linguaggio, ma raggiunge l'essere. A differenza dell'empirismo logico che influenza tuttora la filosofia contemporanea, il realismo metafisico rifiuta di ridurre la conoscenza al concetto, per situarla invece nel rapporto intenzionale fra il soggetto che conosce e l'oggetto che è conosciuto. Il logo semantico non si riduce al logo apofantico che afferma o nega l'esistenza di qualcosa in realtà. In particolare: per quanto concerne alcuni caratteri trascendentali e generali della realtà del mondo (molteplicità, divenire) l'evidenza fenomenologica non si riduce ad un puro e totale interpretare. Alla base dell'interpretazione, infatti, v'è sempre un previo consenso all'essere e ai trascendentali con esso convertibili che rende possibile il confronto fra diversi schemi culturali. La metafisica poi, in quanto ha come suo oggetto l'essere che si manifesta all'uomo attraverso il vero, il bene, il bello richiede una riflessione che tenga adeguatamente conto di tutte le dimensioni trascendentali, attraverso cui l'essere ci si manifesta. In metafisica, in base ai principi di integrità e di realtà, si tratta di riconoscere un primato a ciò che è e, soprattutto, a quel principio che, nella sua semplicità, fonda l'essere e il bene degli enti - di qui il ruolo unificante e, insieme, aperto alla diversità delle determinazioni- essenze dell'atto d'essere nella metafisica tommasiana. Se proviamo a rileggere l'atto d'essere di Tommaso da una prospettiva attenta alla riflessione filosofica contemporanea, si può rilevare che, da un lato, in quanto principio di esistenza, esso permette di salvare la comunanza nell'essere e, insieme, la concretezza e l'individualità degli enti senza misconoscere l'irriducibilità della dimensione delle essenze (istanza della fenomenologia) e senza fermarsi al piano dell'ontico, ma spalancando dall'intimo degli stessi enti concreti il piano dell' ontologico. In quanto perfezione somma l'atto d'essere può permettere di comprendere pure la dimensione di memoria del passato, di anticipazione del futuro, quindi non di mera presenza, che contraddistingue in particolare l'atto d'essere dell'uomo. Si rispetta così l'istanza di Heidegger, ma senza rischiare l'univocismo del suo Sein . D'altro lato, in quanto principio di senso, l'atto d'essere permette di fondare l'intelligibilità e luminosità dell'ente. Esso è in grado di contemperare, così, l'esigenza di realismo e di concretezza (difesa dell'unicità dell'individuo), fatta propria nel pensiero del Novecento da Lévinas e, in genere, dal pensiero dialogico, con l'apertura all'orizzonte di senso dell'essere presente nell'atteggiamento fenomenologico di Husserl e di Heidegger. L'essere, uno nel suo complesso e nei singoli enti, contempla pure la diversità e la molteplicità. Oggi siamo particolarmente sensibili ad una prospettiva sull'essere che non sia totalizzante, lasciando spazio alla diversità. L'atto d'essere di Tommaso si adatta per così dire ai molteplici enti. Di qui l'importanza del trascendentale aliquid o diversum.. Che l'essere sia uno e insieme diverso implica che l'atto d'essere, pur conservando il primato, non può oscurare la dimensione dell'essenza. L'essenza non costituisce soltanto un limite nei confronti dell'atto d'essere. Se si appiattisce l'atto d'essere sull'essenza si finisce per ridurre l'essere alla sua determinazione e, in ultima analisi, alla ragione umana (è il rischio rappresentato dall' essenzialismo). Se, inversamente, si perde di vista l'ordine delle essenze e la sua gerarchia, l'essere smarrisce la sua ricchezza di senso, diventa vuoto, scadendo ancora nell'univocità e nell'essenzialismo. Anche a proposito di Dio si deve parlare, seppur analogicamente, di essenza identica con il suo atto d'essere. Se l'istanza realistica e antiessenzialistica presente nella metafisica dell'Aquinate appare fondamentale, soprattutto dopo la vicenda del razionalismo moderno, si tratta - credo - di approfondirla maggiormente anche nel senso dell'attenzione all'unicità degli avvenimenti e delle persone, cioè alla storia. Nella prospettiva di un filosofare attento all'ideale dell'integrità non sembra possibile poter scindere, in metafisica, la sensibilità ermeneutica dall'argomentazione rigorosa. Su questo conviene una lunga tradizione di filosofare cristiano che ha in Tommaso il suo maggiore rappresentante. Ciò è fondamentale soprattutto per le sorti della teologia filosofica. Infatti il piano del senso è decisivo se si vuole sottolineare l'importanza che il problema di Dio assume per l'uomo. Ma pensare Dio come fondamento di senso (secondo la via della ragion pratica o del desiderio) rimanda pur sempre al problema della sua effettiva esistenza. Il problema del significato del termine Dio rimanda al problema del suo riferimento. E ciò significa, in filosofia, fare i conti inevitabilmente con la tematica della metafisica come sapere rigoroso. Quanto finora osservato presenta delle significative implicazioni sul piano teologico, antropologico ed etico. Consideriamo qualche aspetto. Nella prospettiva di Tommaso Dio si manifesta come la sintesi dell'essere che nella sua positività ineffabile sfugge ad ogni approccio di tipo ontico. Ma, dal momento che la dimensione dell'intellettualità e della libertà costituiscono perfezioni intrascendibili, occorrerà pensare Dio a partire dalle due esperienze fondamentali dell'atto d'essere (massima perfezione sul piano trascendentale) e della persona finita (massima perfezione sul piano categoriale, in quanto costitutivamente aperta al trascendentale). Se si comprende adeguatamente la nozione di Atto d'essere sussistente nella sua infinità, si comprende pure la radicale trascendenza di Dio eterno rispetto al mondo soggetto alla temporalità e, proprio per questo, l'immanenza di questo in Lui. Rispettando anche sul piano metafisico il principio: "bonum ex integra causa", la causalità prima di Dio che dona l'essere non esclude la causalità seconda delle creature e, in particolare, delle persone umane. Ciò impedisce di pensare Dio quale concorrente dell'uomo, come spesso è accaduto lungo la storia del pensiero con gravi conseguenze per entrambi. Che nella prospettiva dell'Aquinate la realtà del mondo sia interamente composta anzitutto di soggetti (attuati in forza dell'atto d'essere), che solo in seconda battuta possono essere oggettivati, e che nell'essere siano presenti delle dimensioni trascendentali quali il bene che nel rapporto conoscitivo e pratico dell'uomo con la realtà circostante vengono manifestate ed esaltate, impedisce di concepire il rapporto uomo-realtà esclusivamente nei termini antropocentrici dell'oggettivazione e del possesso. Ciò può permettere di impostare il rapporto uomo-natura e la connessa problematica ecologica in termini più accettabili alla sensibilità contemporanea di quelli propri del soggettivismo moderno. D'altra parte, in base a quanto rilevato, si rende pure evidente una gerarchia nell'essere che impedisce l'appiattimento delle varie dimensioni, in particolare di quella che è prerogativa dell'uomo, sulla sfera animale. La realtà tutta del mondo, infatti, riceve l'essere e rimanda al di là di sé stessa, ma non lo riceve tutta secondo le stesse modalità. Ciò presenta significative implicazioni per quanto concerne l'odierna problematica bioetica. Sul piano antropologico Tommaso d'Aquino propone in nome del principio d'integrità una concezione unitaria dell'uomo in cui l'unica anima forma sussistente del corpo garantisce l'unità del composto umano e, insieme, lo trascende. Questa concezione debitamente riformulata potrebbe permettere di fondare e d'integrare da un lato le acquisizioni delle recenti scoperte scientifiche che insistono sullo stretto nesso fisico-psichico e che rendono non più proponibile un'antropologia di tipo platonico-cartesiano e dall'altro l'accentuazione della trascendenza dell'altro presente nel filone del pensiero dialogico. In conclusione: il pensiero di Tommaso suggerisce uno stile di pensiero ricco di freschezza, perché legato alla realtà e al linguaggio comune, che - se assimilato e personalizzato - può utilmente dialogare con istanze presenti nell'uomo e nella riflessione filosofica di questo ultimo scorcio del secolo ventesimo. Ripensare la filosofia di Tommaso - e ciò significa anche, inevitabilmente, criticare alcune sue formulazioni - potrebbe permettere di attuare una sintesi in continua evoluzione, priva, perciò, delle rigidità del sistema, capace di integrare molteplici istanze oggi presenti in diversi filoni di pensiero, in particolare l'istanza di apertura e di profondità propria del filone ermeneutico e quella di rigore, prerogativa del filone analitico. BIBLIOGRAFIA I) Principali traduzioni italiane delle opere di Tommaso Scritti politici, a c. di A. Passerin d'Entreves, Zanichelli, Bologna 1946, nuova ed. Massimo, Milano 1987. 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Metafisica ed etica in San Tommaso Quarta di copertina L'esposizione sintetica della filosofia e teologia del più grande pensatore del Medioevo tiene conto della critica più recente e delle istanze della contemporaneità nella prospettiva del fondamentale ideale dell'integritas: è bene sotto il profilo metafisico, etico ed estetico l'intero dell'essere, del singolo ente e dell'uomo alla luce del principio più semplice e insieme più comprensivo, che ordina e valorizza organicamente le varie dimensioni che li costituiscono. Angelo Campodonico (Rosario, Argentina 1949), è professore associato di Storia della filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova. Studioso di Tommaso e di Agostino, socio della Pontificia accademia di San Tommaso, particolarmente attento ai "problemi di confine" fra etica, filosofia della religione e metafisica, ha pubblicato - tra l'altro - Metafisica e antropologia in Thomas Hobbes, Milano 1982, Alla scoperta dell'essere. Saggio sul pensiero di Tommaso d'Aquino, Milano 1986, Salvezza e verità. Saggio su Agostino, Genova 1989, Etica della ragione, Genova 1995 e ha curato presso questa stessa collana l'edizione delle Quaestiones disputatae de potentia Dei di Tommaso d'Aquino (3 voll., 1991-1995). Cronologia della vita di Tommaso d'Aquino 1224/25 Nascita di Tommaso a Roccasecca (tra Roma e Napoli - non lontano dal'odierna Cassino) da Landolfo d'Aquino, di nobile famiglia di lontana origine normanna, e da Teodora. 1230-1239 Oblato all'abbazia benedittina di Montecassino. 1239-1244 Studi a Napoli nell'Università (fondata nel 1224 da Federico II). 1244 (aprile) Entra nell'ordine dei domenicani (fondato da Domenico Guzmán nel 1215). 1244-45 Detenzione forzata a Roccasecca da parte della sua famiglia, che si oppone alla sua intenzione di entrare nell'ordine domenicano. 1245 (aprile) A Tommaso è concesso di tornare presso i domenicani. 1245-48 Studia a Parigi con Alberto Magno. 1248-1252 Studente ed assistente di Alberto a Colonia. Super Isaiam. 1252- 1256 Primo insegnamento a Parigi come baccalaureus sententiarius (commenta i Quattuor libri Sententiarum di Pietro Lombardo): Scriptum super Sententiis; De ente et essentia; De principiis naturae. 1256 (primavera) Tommaso diventa maestro di teologia. 1256-59 Maestro (magister) reggente a Parigi: Quaestiones disputatae de veritate, QuodlibetalesVII-XI; Super Boetium De Trinitate. Imperversando la polemica contro l'ingresso dei nuovi ordini in Università da parte dei maestri secolari capeggiati da Guglielmo di St. Amour scrive nel 1257 l'opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. 1259 (autunno) Ritorno in Italia. 1259-61 Napoli? Summa contra gentiles (inizio). 1261-65 Lettore conventuale ad Orvieto: Summa contra gentiles (fine); Super Iob; Catena aurea (Matteo). Contra errores Graecorum ecc. 1265-68 Maestro Reggente a Roma: Summa theologiae Prima Pars; Catena aurea (Marco, Luca, Giovanni); Quaestiones disputatae de potentia Dei, Sentencia libri De anima, Compendium theologiae ecc. 1268-1272 Secondo insegnamento a Parigi: Seconda parte della Summa theologiae; In Ioannem; Quaestio disputata de malo, De unitate intellectus contra averroistas; De aeternitate mundi; Commento ad Aristotele; Quodlibetales I-VI e XII ecc. 1269 (giugno) Capitolo generale a Parigi (De secreto). 1270 (10 dicembre) Condanna episcopale del'aristotelismo radicale. 1272-73 Maestro-reggente a Napoli: Terza parte della Summa theologiae (qq. I-90); In Ad Romanos (?); Super Psalmos 1-54 (?). 1274 (7 marzo) Morte nell'abbazia cistercense di Fossanova (a sud di Roma) mentre si dirigeva al Concilio di Lione. 1277 (7 marzo) Condanna da parte di Etienne Tempier vescovo di Parigi di 219 proposizioni eterodosse; un procedimento è aperto contro la dottrina di S. Tommaso. 1277 (18 marzo) Condanna ad Oxford da parte di R. Kildwarby, arcivescovo domenicano di Canterbury, di proposizioni di ispirazione tomista. 1284 (29 ottobre) Giovanni Peckam, arcivescovo francescano di Canterbury conferma la condanna dei suoi predecessori. 1323 (18 luglio) Canonizzazione di Tommaso d'Aquino ad Avignone da parte di Giovanni XXII. 1567 (15 aprile) Tommaso è proclamato Dottore della Chiesa da papa Pio V.