NICCOLÒ SCAFFAI
L’INTERVISTA CON L’AUTORE: IL CASO DI MONTALE
1. L’intervista a poeti e scrittori, evolutasi nell’ambito giornalistico, ha
assunto nel pieno e nel secondo Novecento quasi lo statuto di un genere
letterario autonomo.1 Insieme a testi affini (risposte a questionari, inchieste), rappresenta una porzione quantitativamente non secondaria dell’opera di molti autori contemporanei, che intrattengono per quel tramite relazioni con il pubblico e i critici. La fortuna dell’intervista dipende in gran
parte dal prestigio intellettuale che ne ricavano da un lato la testata promotrice (in base alla notorietà e al credito dell’autore), dall’altro l’intervistato
(in base alla diffusione e all’attendibilità del giornale). Un fenomeno che a
volte compensa, pur con effetti decorativi o caricaturali, il debole riconoscimento di un «mandato sociale».
La frequenza con cui vengono pubblicate sui giornali interviste più o
meno brevi o necessarie sembra avere qualche legame con certi meccanismi
del postmoderno: ad esempio, l’inserimento della voce di un autore di letteratura «alta» in un contesto «basso» o midcult, categorie a cui appartiene,
in Italia, molta parte della stampa, specialmente di quella periodica. In casi
estremi, la testimonianza per così dire in presa diretta non si limita a integrare ma spesso sostituisce la lettura delle opere. O per lo meno è l’intervista, più delle opere letterarie, a determinare l’autorevolezza dell’autore.
La funzione integrativa si apprezza anche sul piano critico-filologico:
l’intervista e in generale la testimonianza d’autore rappresentano molto
spesso un ausilio all’interpretazione dei significati che uno scrittore attribuisce alla propria opera e una chiosa necessaria per l’illuminazione di
contesti e circostanze. Il lavoro del commentatore si giova spesso e volentieri dei pronunciamenti dell’autore, né dev’essere altrimenti. Talvolta può
tuttavia generarsi un conflitto tra le ragioni del testo letterario (vale a dire,
il sistema dei contenuti espliciti, dei significati latenti nella forma, delle
corrispondenze strutturali) e quelle del testo ausiliario. Il paradosso di uno
1
Per un’analisi della forma-intervista in relazione ad alcuni scrittori italiani contemporanei, si
veda VERONICA UJCICH, L’intervista tra giornalismo e letteratura. Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini,
Primo Levi, Roma, Aracne, 2008.
6
LE FORME DEL ROMANZO ITALIANO E LE LETTERATURE OCCIDENTALI
strumento di utilità filologica che non rientra nelle risorse della filologia
testuale si manifesta, in particolare, quando l’autore rivendica la libertà di
dire (o non dire) sulla propria opera «verità» esterne che prescindono dai
dati immanenti e recuperabili nel testo.
2. Nell’ambito della letteratura italiana del Novecento, il caso di Montale
appare particolarmente adatto per esemplificare alcuni fenomeni e problemi appena evocati. La quantità delle interviste, come dimostrano ricerche
in corso,2 è ben più cospicua di quanto non si evinca dal pur notevole mannello che Zampa ha a suo tempo pubblicato nel «Meridiano» del Secondo
mestiere. Are, musica, società (1996).3 La tipologia è variegata, includendo
anche interviste apparse in sedi estravaganti (come quella rilasciata dal poeta a «Playboy», nel febbraio del ’76). Quanto al contenuto delle domande,
la casistica contempla sottogeneri diversi, spesso mescolati nella medesima
intervista: esplicativo (in relazione a luoghi puntuali dell’opera letteraria),
commentativo (su aspetti della società e della cultura non necessariamente
legati alla tematica del Montale poeta), biografico. Ne discende anche una
diversa gradazione nel legame tra opera letteraria e testo dell’intervista: il
grado è più alto nel tipo esplicativo, più basso in quello commentativo. Ciò
soprattutto se si legge l’intervista solo come un «testo secondo» rispetto al
primum letterario: uno statuto separato che il genere in parte possiede, in
parte no. Soprattutto nel caso di Montale, per il quale almeno certe interviste possono entrare in un «sistema» di cui fanno parte le prose narrative,
gli scritti giornalistici e perfino alcuni testi poetici, da Satura in poi. Intervistato da Maria Corti a proposito del suo quarto libro di versi, Montale disse
del resto che dopo aver cominciato «a fare qualche epigramma pubblicato
in coda a corti elzeviri nel giornale, allora è rispruzzato fuori il verso»,4
mettendo fine al lungo silenzio del «dopo Bufera» che impensieriva i suoi
intervistatori negli anni Sessanta.
Come giornalista di professione, Montale conosceva e praticava le tecniche dell’intervista, arrivando a fare di necessità virtù: la sua opera in prosa,
anche quella definita «d’invenzione», comprende notoriamente diversi brani scritti per specifiche occasioni giornalistiche o che simulano con effetti
2
Si veda, in questi Atti, il contributo di Francesca Castellano, autrice di una tesi di dottorato sulle
interviste montaliane elaborata presso l’Università di Firenze.
3
EUGENIO MONTALE, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Mondadori, 1996. La sezione Monologhi, colloqui, che comprende anche risposte a questionari e vari
pronunciamenti dell’autore sulla propria opera, va da p. 1473 a p. 1735 e copre un arco cronologico
compreso tra l’inizio degli anni Trenta e la fine dei Settanta.
4
Ivi, p. 1699.
L’INTERVISTA CON L’AUTORE: IL CASO DI MONTALE
7
umoristici la forma-intervista. Nel corpus delle prose, ve ne sono alcune in
cui Montale ha il ruolo dell’intervistato, altre in cui è intervistatore. Le prime sono propriamente di fantasia: l’intervista è cioè una messa in scena, un
espediente narrativo. Le seconde, quelle in cui Montale ha il ruolo dell’inviato, sono vere interviste, sebbene ciò non escluda forse il ricorso a trucchi del
mestiere, come nel caso del dialogo con Georges Pompidou in Fuori di casa:
le risposte dell’allora primo ministro francese, fresco curatore di un’Antologia poetica pubblicata da Hachette, rivelano una sospetta somiglianza e
in certi casi una perfetta sovrapponibilità con passi dell’introduzione che lo
stesso Pompidou aveva premesso alla raccolta.5 Quasi come se, in un ruolo
o nell’altro, l’intervista fosse per Montale un esercizio di ambiguità.
3. I testi in cui Montale recita per così dire la parte dell’intervistato possono avere una vera e propria configurazione narrativa (più che l’autore, a
rispondere è allora un personaggio autobiografico) o rientrare nel sottogenere dell’«intervista immaginaria». Farfalla di Dinard offre due esempi del
primo tipo: Le rose gialle (1947) e L’angoscia (1952). In entrambi i racconti,
il narratore è vittima di due intervistatrici, rispettivamente Gerda e Frau
Brentano Löwy. La seconda tempesta il malcapitato di domande sulla politica e la società, ammantate da uno pseudo-impegno à la page che è spesso
oggetto dello scherno montaliano, e finisce per scrivere sul magazine per
cui lavora un pezzo che parla di tutt’altro:
«Eccovi un piccolo questionario. Siete favorevole all’unione degli Stati europei? Unione federale con parziale rinunzia alle singole sovranità oppure semplice
5
Si mettano a confronto, ad esempio, il brano seguente della prosa montaliana e un passo dell’introduzione all’Anthologie dello stesso Pompidou, capitolo La poésie. Montale: «“La poesia si trova
dovunque, non solo nei libri di versi. In un romanzo, in un quadro, in un paesaggio, nel cuore stesso
dell’uomo, è sempre possibile avvertire un’accensione poetica. Tuttavia la poesia scritta è la più difficile
delle arti. Un quadro, una sinfonia possono essere ammirevoli anche se le loro qualità poetiche siano
scarse; ma non c’è nulla di più triste di una poesia non riuscita. Se nelle altre arti la poesia può esser
qualcosa come un surcroît (un pregevolissimo dippiù) nella lirica l’afflato poetico è tutto. La poesia
impoetica ha la tristezza del bambino nato morto.”»; Pompidou: «A vrai dire, les vers ne sont qu’une
des multiples expressions possibles de la poésie. Celle-ci est ou peut se trouver partout. Dans un roman
comme dans un tableau, dans un paysage comme dans les êtres eux-mêmes […]. Mais si la poésie peut
se rencontrer partout, il n’est pas défendu pour autant de la chercher de préférence chez les poètes. Si
l’art des vers me paraît le plus difficile et donc sans doute le premier de tous, c’est parce que le poète
prend un risque redoutable: délibérément, il fait profession de prétendre à ce que les autres peuvent
n’atteindre que de surcroît. […] Mais rien ne peut empêcher qu’un poème dénué de poésie soit plus
que mort, intolérable. Les sentiments les plus nobles, […] tout cela pour aboutir à cet enfant mort-né,
pleuré de personne, qu’est un poème sans poésie» (si cita da G. Pompidou, Anthologie de la poésie française, nouvelle édition suivie d’un post-scriptum, Paris, Librairie Générale Française-Hachette, 1996,
pp. 7-9). Per altri riscontri, rimando al commento a mia cura delle Prose narrative di Montale (Milano,
Mondadori, 2008, pp. 502-506. Il testo della prosa è citato da quest’edizione, p. 314).
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LE FORME DEL ROMANZO ITALIANO E LE LETTERATURE OCCIDENTALI
covenant difensivo, alleanza che metta in comune un potente esercito? Credete che
l’azione periferica dell’Unesco sia utile? Siete favorevole o contrario all’impiccagione del negro MacGee che si dice abbia violentato una donna americana? Quale
persona indichereste se doveste attribuire un premio della Pace? Credete che i diritti della donna siano sufficientemente tutelati in Italia? Preferite l’esistenzalismo
ateo o quello cristiano? Pensate che la figuratività abbia ancora un senso nel campo
delle arti visive? Siete favorevole o contrario all’eutanasia? Ritenete che una lingua
basica europea sia di impellente necessità? In tale nuovo linguaggio vi pare che un
contributo del tre per cento da parte della lingua italiana sarebbe sufficiente? […]
Avete svolto opera fattiva contro la vivisezione degli animali?»6
Per di più l’articolo è dedicato, con significativa storpiatura, a «Herr
Puntale». L’altra intervistatrice, Gerda, sollecita la memoria del narratore,
nella speranza di ricavarne materia per un «bel racconto italiano»:
«[…] Cerchi in sé la materia di un bel racconto italiano. Non c’è qui, in questa
stanza o nel paesaggio che vediamo dalla finestra, qualcosa che desti in lei un ricordo intenso, recente o lontano, spiacevole o grato? Non mediti, non ci pensi su.
Se c’è, deve rampollare di colpo.»7
Incalzato, il protagonista rivela l’inattendibilità del ricordo («non so se
la baruffa sia in realtà avvenuta») e la sua fallacia («Che? Che cosa? Maledetta memoria!»), limiti che però non scontentano Gerda. Il racconto che
lei pubblicherà «contemporaneamente in venticinque magazines americani» ha anzi, a suo dire, bisogno più di «disordine» che di «ordine» nella
configurazione del ricordo. La collocazione della prosa quasi all’inizio di
Farfalla di Dinard (è il secondo testo dopo Racconto d’uno sconosciuto) sottolinea proprio il valore programmatico che hanno la dinamica del ricordo, la memoria involontaria («Queste rose rosse in boccio m’hanno fatto
pensare ad altre rose, gialle, che non potei portare a casa con me, per non
destare sospetti o gelosie»), più vicina, si direbbe, a Proust (non a caso
indirettamente evocato nel testo: «Le donne sono particolarmente inadatte
alla ricerca del tempo perduto») che non alla fenomenologia dello «scatto» analogico nella stessa lirica montaliana. Ma se l’avvio del racconto ha
qualcosa di proustiano, altrettanto non si può dire del suo svolgimento, in
cui si riconosce piuttosto un conflitto tra l’istanza ordinatrice della memoria volontaria e l’imprevedibile episodicità di quella involontaria. L’attrito
giustifica l’ambiguità nell’evocazione di fatti e personaggi: riferire è anche
ricostruire o addirittura inventare.
6
E. MONTALE, Prose e racconti, a cura e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e varianti
a cura di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, p. 208.
7
IDEM, Prose narrative cit., p. 18.
L’INTERVISTA CON L’AUTORE: IL CASO DI MONTALE
9
Alla base di questa concezione, di per sé abbastanza comune, c’è però in
Montale la specifica tendenza alla lettura paradossale della realtà (al «surreale senza surrealismo», per riprendere una formula che Contini usa nella
prefazione a Italia magica)8 da cui discendono tanto la tragica «attesa del
miracolo» nella sua prima maniera, quanto l’umoristico rovescio del suo
«secondo tempo» letterario.
4. Se in Montale la prosa precede la poesia nell’elaborazione di un punto
di vista satirico, questo è probabilmente ispirato anche dalla forma-intervista. Forma e ironia sono da mettere in relazione con la tendenza all’autocommento che Montale matura soprattutto intorno alla fine degli anni
Quaranta, quando si trasferisce da Firenze a Milano ed entra professionalmente nel mondo della comunicazione giornalistica. Ovvio il legame tra il
«secondo mestiere» e il genere dell’intervista; meno diretto quello con il
tono umoristico, che non appare però arbitrario se si risale a un’idea novecentesca e specificamente pirandelliana dell’umorismo come «analisi» e
«scomposizione» di atti e moventi.9 Un nodo di questioni che si stringe già
intorno a un’intervista sui generis del 1946, la celebre Intenzioni (Intervista
immaginaria), il principale testo autoesegetico di Montale. L’autore si rivolge a un interlocutore, Marforio, che ha lo stesso nome di una delle statue
«parlanti» di Roma, a cui venivano affissi i testi delle pasquinate:
–…
– Se ho ben compreso la sua domanda, Marforio, lei vorrebbe sapere da qual
momento, e in seguito a quale causa accidentale, di fronte a quale quadro di cavalletto ho potuto esclamare il fatidico: «Anch’io son pittore».10
Nella tradizione satirica legata a quest’usanza, da Aretino a Belli, Marforio è l’interlocutore privilegiato di Pasquino. Da parte di Montale può
non essere solo una coincidenza la scelta del nome di una statua per un
intervistatore muto, che fa da spalla all’oratore principale.
Montale è autore almeno di un’altra autointervista, rilasciata (per così dire)
nel ’71, prossima all’uscita di Satura. Le ultime domande portano il discorso
8
Italia magica. Racconti surreali novecenteschi scelti e presentati da GIANFRANCO CONTINI, Torino,
Einaudi, 1988.
9
«Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui
il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone
l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello
che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.» (LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo [1908], Milano, Garzanti, 1995, pp. 172-173).
10
E. MONTALE, Il secondo mestiere cit., p. 1475.
10
LE FORME DEL ROMANZO ITALIANO E LE LETTERATURE OCCIDENTALI
sul piano metafisico, osservato attraverso il filtro di uno scetticismo ironico che
sa di «operetta morale» e che si nutre degli stessi termini e immagini di Satura:
Lei non crede che la storia ubbidisca a un disegno provvidenziale?
Potrebbe darsi, ma il Disegnatore ci riguarda poco o nulla.
Vorrebb’ella insinuare che il Disegnatore ignora i suoi prodotti?
Se lo fa avrà le sue buone ragioni. A ben rivederla.11
Peraltro Montale venne interpellato davvero su temi analoghi, ancora
nel 1971, nell’ambito dell’inchiesta sulle Grandi domande della fede curata
da Silvio Bertoldi su «Oggi»; anche in questo caso, l’argomento sollecita il
confronto con Satura e in genere con le opere del tardo Montale, nonché
– per il tema metafisico – con alcune prose di Farfalla di Dinard, come Sul
limite e Clizia a Foggia:
Lei tenta mai di dare una risposta al problema del suo personale aldilà?
La mia risposta è che l’aldilà non mi fa paura. Non mi aspetto nulla che possa nuocermi. L’aldilà… come sarà fatto, in forma ectoplastica? Sarà senza ricordi
della esistenza terrena, anche se alcuni buddisti credono nella reincarnazione in
questo mondo? Mi pare assurdo. La scomparsa dell’uomo con la morte è la sua
uscita dal tempo e dallo spazio. È possibile concepire qualcosa fuori dal tempo e
dallo spazio, eppure che esista? Non so dare una risposta.12
L’avvicinamento tra i diversi generi di scrittura è forse conseguenza
dell’affinità che Montale percepisce in quegli anni tra letteratura e giornalismo: «È sempre scrivere, è muoversi in un ambiente contiguo», confessa
nel ’71 in un’intervista a Raffaello Baldini.13 È significativo, come conferma e
contrario, che ancora nel 1955, cioè nella stagione del terzo e non ancora del
quarto libro, Montale la pensasse diversamente. Intervistato da Enrico Roda,
dichiarava infatti: «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione
sta all’amore. In qualche caso i due fatti possono coincidere.»14 In effetti,
nel ventennio che va dalla metà degli anni Quaranta alla metà dei Sessanta,
l’atteggiamento dell’autore rispetto ai rapporti col pubblico e con il medium
giornalistico sembra diverso da quello che matura tra la seconda metà degli
anni Sessanta e i primi Settanta, cioè nella stagione di Satura. Nel 1955 si sente ancora una certa diffidenza («Quale domanda si sente rivolgere più sovente
quando è lei l’intervistato? Ho subìto pochissime aggressioni del genere»),15
che un decennio dopo lascia il posto a una generale condiscendenza.
11
12
13
14
15
Ivi, p. 1502.
Ivi, p. 1573.
Ivi, p. 1704.
Ivi, p. 1597.
Ibidem.
L’INTERVISTA CON L’AUTORE: IL CASO DI MONTALE
11
5. L’autoreferenzialità delle interviste immaginarie sottende un’idea
dell’intervista tout court – anche di quella vera, dunque – come «incontro
tra sconosciuti». Nel finale della prosa su Pompidou, il narratore-inviato
pensa appunto
alla stranezza di simili incontri tra sconosciuti che restano reciprocamente tali
anche dopo avere sfiorato alcuni degli argomenti che più dovrebbero, almeno per
un istante, metterli in comunicazione. Forse l’uomo si rivela più nelle piccole cose
che nelle grandi. E io troppo tardi mi sono ricordato che il presidente ama i fiori
e il giardinaggio; e ho dimenticato di dirgli che anch’io amo gli animali, gli alberi
e la natura.16
Come se gli obblighi giornalistici costringessero gli interlocutori a omologare domande e risposte su argomenti che rimangono estrinseci rispetto alle
ragioni dell’individuo e a quelle dell’ispirazione: «anche se tutto fosse spiegato» scrive Montale a Silvio Guarnieri rispondendo al dilemmatico questionario epistolare che il critico gli sottoponeva, «tu resteresti a mani vuote».17
Nel rispondere a Guarnieri Montale è stato notoriamente laconico, ma
non del tutto fraudolento. Ancora più efficace del vero e proprio depistaggio è infatti la costruzione, forse anche involontaria, di un mito, come
si osserva nel caso dell’identità di Clizia/Irma Brandeis. Nel rispondere a
Giansiro Ferrata, che lo intervista nel 1961, Montale parla del contesto
cui allude la poesia La primavera hitleriana e dice che lì «c’è anche Clizia
che parte (Clizia era un’ebrea che partì per l’America)».18 Ora, quella che
implicitamente viene fatta passare per una fuga dall’Europa nazista verso la
salvezza fu in realtà, più che altro, la prevista conclusione di un soggiorno
o, al limite, una ritirata dovuta a questioni private: oggi lo capiamo meglio
grazie alle lettere di Irma a Montale e alla pubblicazione di una raccolta di
suoi passi diaristici e epistolari.19
Di rado l’autore deve essersi negato, come conferma la quantità di interviste rilasciate, né ha evitato di rispondere anche alle domande meno
necessarie. Per esempio, nel corso di un’intervista sulla lettura concessa
nel 1972 a Giulio Villa-Santa, redattore della Radio della Svizzera italiana,
a Montale viene chiesto se «il leggere lentamente» sia una «regola generale» o se «il leggere piacevole e il leggere critico siano due cose diverse».
16
E. MONTALE, Prose narrative cit., p. 318.
IDEM, Il secondo mestiere cit., p. 1516.
18
Ivi, p. 1617.
19
IDEM, Lettere a Clizia, a cura di Rosanna Bettarini, Gloria Manghetti, Franco Zabagli, Milano,
Mondadori, 2006; Irma Brandeis (1905-1990). Profilo di una musa di Montale. Passi diaristici ed epistolari scelti e introdotti da JEAN COOK, a cura e con un saggio di Marco Sonzogni, Balerna, Edizioni Ulivo,
2008.
17
12
LE FORME DEL ROMANZO ITALIANO E LE LETTERATURE OCCIDENTALI
Montale risponde anche a domande come queste, di poco momento, ora
barcamenandosi con frasi di circostanza («In molti casi sì, sono due cose
diverse; in molti altri, non sempre»), ora aggirando l’interlocutore per dare
giudizi sulla società letteraria del suo tempo.20
L’atteggiamento dell’autore nei confronti del genere intervista non si
può quindi definire reticente o, peggio, sprezzante. Le cifre sono piuttosto
la sfiducia nella comunicazione come possibilità di conoscenza tra soggetti
diversi e il dubbio riguardo al successo della funzione referenziale. Atteggiamenti che vanno di pari passo con lo scetticismo nei confronti delle
«verità», mistiche, politiche o scientifiche: tema centrale ed esplicito nella
poesia (da Satura in poi) e nella prosa, non a caso punteggiata da interviste
malriuscite, narratori sconosciuti, nomi travisati, lettere recapitate a distanza di anni, incerti messaggi dall’aldilà.
A tale disposizione psicologica e conoscitiva corrisponde un particolare atteggiamento stilistico, segnato dalla scarsa propensione mimetica. Il
Montale intervistatore di rado riporta le parole dell’interlocutore, preferendo le citazioni o l’assunzione della voce altrui nell’indiretto libero. Così
accade ad esempio per Braque, in La complice Marietta:
Braque ha parlato a lungo: di sé, della Normandia in cui vive sei mesi all’anno,
dell’Italia che conosce fino a Napoli. Si ricorda di Modigliani, al tempo in cui il
giovane livornese riceveva dal suo protettore cinque franchi al giorno e una bottiglia di rum. […] Marinetti gli è sempre sembrato pazzo; dei futuristi gli sembrava
interessante Balla. Medardo Rosso? Bell’ingegno ma sale caractère. A Parigi nessuno se ne ricorda più.21
L’atteggiamento qualifica anche lo stile del Montale intervistato, in cui
si nota la ripetizione di parte della domanda all’interno della risposta, con
un effetto lievemente parodico e deresponsabilizzante accentuato dalle virgolette. Un tic che peraltro è già presente nelle risposte a un’inchiesta del
1931, Della poesia d’oggi, curata da Lorenzo Gigli: «Esiste una nuova poesia
che si ispira alla civiltà meccanica del nostro tempo? La nuova poesia è fisiologicamente toccata dalla “civiltà meccanica del nostro tempo”, ma supera,
quando lo supera, il suo ambiente.»22 Sul piano retorico, agisce inoltre una
forma di recusatio, come in Parliamo dell’ermetismo (1940): «non mi sento
[…] molto qualificato a parlarvi di un supposto ermetismo italiano».23
20
21
22
23
E. MONTALE, L’arte di leggere. Una conversazione svizzera, Novara, Interlinea, 1998.
IDEM, Prose narrative cit., p. 292.
IDEM, Il secondo mestiere cit., p. 1530.
Ivi, p. 1531.
L’INTERVISTA CON L’AUTORE: IL CASO DI MONTALE
13
6. La testimonianza diretta dell’autore ha un rilievo nella critica su Montale. Paradigmatica è, al riguardo, la contrapposizione tra due modelli, incarnati rispettivamente da Silvio Guarnieri e da Gianfranco Contini: il primo,
fautore della testimonianza, sollecitata fino a suscitare in Montale una certa
insofferenza; il secondo, lettore discreto ma esercitatissimo del testo poetico,
cui era intrinsecamente familiare la difficoltà che derivava a Montale dalla confidenza con la propria materia. Senza voler suscitare una quaestio fin
troppo vexata – il «giusto mezzo» tra il capire troppo e il non capire affatto,
di cui parla lo stesso Montale – è da sottolineare in chiusura uno dei problemi che riguardano l’intervista come strumento critico. Un problema affine
all’autoschediasmo, cioè l’affermazione non documentata da prove esterne
ma tratta dal testo stesso che si deve spiegare. Il rischio è alto quando è in
gioco il côté biografico, com’è evidente nelle ricostruzioni di Nascimbeni;24
in generale, l’appartenenza di molte interviste a un sistema che, come si diceva all’inizio, include anche testi d’invenzione, invita talvolta a interpretarle
più «come espressione di una personalità che come documento oggettivo
su determinati fatti.»25 Finché Montale ha mantenuto una sorta di distanza – autentica o affettata – rispetto alle «aggressioni» degli intervistatori, il
rischio è stato forse più basso; è cresciuto insieme alla disinvoltura che l’autore ha acquistato nella gestione del suo ruolo pubblico. Infatti Montale ha
cominciato a ripetere, nelle interviste di taglio biografico, sempre le stesse informazioni, spesso anche con le medesime parole; informazioni che in molti
casi riguardano le sue prime letture, la formazione musicale, i soggiorni nelle
diverse città: tutti dati forniti anche nelle prose narrative autobiografiche
(talvolta con qualche discrepanza). Il corto circuito tra narrazione e documento è stato favorito da questo processo di entropia, in cui Montale non
ha lasciato però intervenire, se non molto sporadicamente, gli elementi utili
alla decifrazione, al trasferimento del movente privato dal piano simbolico
a quello letterale. Per Montale «l’uomo si rivela più nelle piccole cose che
nelle grandi», come si legge nella prosa su Georges Pompidou, nelle passioni
inesplicabili più che nei fatti contingenti. Sono appunto quei fatti, molto
spesso gli stessi, che l’autore ha messo in luce nel suo rapporto con il pubblico; ha lasciato ai lettori specializzati, filologi e critici, il compito di documentare e interpretare gli altri elementi, quelli su cui più volentieri ha sorvolato
consegnandoli magari alle lettere scritte non a caso per un solo destinatario.
niccolo.scaffai@istruzione.it
24
25
GIULIO NASCIMBENI, Eugenio Montale, Milano, Longanesi, 1975 (19691).
V. UJCICH, L’intervista tra giornalismo e letteratura cit., p. 49.