Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

EVOCARE UN TRIONFO. I "Trionfi di Cesare" dalla gloria di Roma alla gloria di Mantova

Indagine sulle fonti letterarie, classiche e umanistiche, del ciclo dei "Trionfi" dipinto da Andrea Mantegna e di come esso si inserisca nel contesto della corte mantovana dei Gonzaga.

EVOCARE UN TRIONFO I Trionfi di Cesare dalla gloria di Roma alla gloria di Mantova STORIA E MODELLI POLITICI DI ROMA ANTICA PROF. LUCA FEZZI ESPOSIZIONE D’ESAME « In questa opera si vede con ordine bellissimo [...] i profumi, gl'incensi, i sacrifizii, i sacerdoti, i tori pel sacrificio coronati e prigioni, le prede fatte da' soldati, l'ordinanza delle squadre, i liofanti, le spoglie, le vittorie e le città e le rocche, in varii carri contrafatte con una infinità di trofei in sull'aste e varie armi per testa e per indosso, acconciature, ornamenti e vasi infiniti. » (Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Andrea Mantegna) «[…] Raccomando a la Excellentia Vostra li Trionfi mej che ‘l se faci fare qualche reparo a le finestre che non si guastino, perché in verità non me ne vergogno d’averli fati, et anco ho speranza di farne degli altri piacendo a Dio et alla Signoria Vostra, alla quale me racomando infinitissime volte […].» (Andrea Mantegna a Francesco II Gonzaga, 31 gennaio 1489) Introduzione: Quattro problemi per nove dipinti La suggestiva cornice della Lower Orangery del palazzo reale di Hampton Court, nella campagna londinese, ospita (a seguito dell’ultimo, difficile restauro, avvenuto negli anni dal 1962 al 1974) uno dei capolavori artistici meno noti dell’Europa occidentale. Si tratta di nove grandi tele, di forma pressoché quadrata, rappresentanti vari episodi di un corteo trionfale romano, con il triumphator che appare solamente nell’ultima tela, assiso sul carro. Nella fattispecie, l’argomento è il Trionfo di Giulio Cesare in Gallia, ma fin dall’epoca della loro realizzazione i dipinti sono noti come Trionfi; tale denominazione risulta sicuramente più corretta per due motivi fondamentali: Trionfi di Cesare in Gallia è il titolo esteso, come appare su una tabella nella seconda tela; si tratta inoltre di un opera unitaria per concezione e contesto ma che raccoglie una vasta gamma di soggetti diversi in nove tele distinte. Andrew Martindale, Andrea Mantegna – I trionfi di Cesare, Rusconi Immagini, Milano, 1980, p. 15. I Trionfi arrivarono ad Hampton Court tra il 1629 e il 1630, acquistati da Carlo I insieme a gran parte della Collezione Gonzaga. Essi rappresentano con ogni probabilità il risultato finale dell’esperienza di tutta una vita di uno degli artisti che, nel Quattrocento, meglio seppero comprendere il mondo classico, un Andrea Mantegna ormai cinquantenne (età allora molto avanzata) e affermato pittore alla corte dei Gonzaga (per i quali lavorò dal 1459-60 circa fino alla morte, avvenuta nel 1506). L’attuale condizione di degrado (fisico e cognitivo) dell’opera deriva, oltre che dalla congiuntura storico-artistica in cui Mantegna dipinse (quando ormai si affacciava la maniera moderna di Leonardo, Michelangelo e Raffaello), anche dalle numerose peripezie subite proprio per la loro fama (almeno sei trasferimenti quando ancora erano a Mantova, e altri dopo l’arrivo in Inghilterra), che hanno portato a un forte degrado della delicata pellicola pittorica (tempera a colla su tela), a cui si è rimediato con restauri improvvidi e pesanti ridipinture. Eppure, essi sono stati celebrati nel tempo senza flessione di gusto. Mantegna è stato riconosciuto come il primo e solo pittore a realizzare la più accurata rappresentazione visiva di un antico trionfo militare romano con una sicurezza eccezionale, con uno stile figurativo di straordinaria potenza e vigore, in grado di conciliare senza sforzo alcuno interesse artistico ed antiquario, e (cosa più incredibile, stante la complessità del soggetto) senza alcun pentimento. Prima di addentrarci nel problema del retroterra umanistico e letterario che ha portato alla concezione e alla realizzazione dell’opera (argomento principale del nostro discorso), è d’obbligo richiamare alcune questioni preliminari. La prima è costituita dagli anni di realizzazione, per i quali disponiamo di pochissimi punti fermi. La prima citazione è dell’estate del 1486, 26 agosto, nella lettera di Silvestro Calandra, segretario, a Francesco II Gonzaga. Egli riferisce della richiesta di visita a Mantova di Ercole d’Este, durante la quale avrebbe visto i Trionfi (più tele già note, dunque) in un ambiente del futuro Palazzo Ducale. Tre anni dopo, abbiamo la lettera da Roma, da noi citata nella prima pagina: indizio eloquente che degli episodi mancano ancora all’appello. Il 23 febbraio 1501 Sigismondo Cantelmo informa il Duca di Ferrara di una rappresentazione teatrale nella quale sei tele dei Trionfi (tutte quelle esistenti o solamente sei?) furono impiegate in un allestimento scenografico teatrale. Infine, nell’aprile 1506 vengono commissionati a Venezia dei semipilastri lignei per intervallare le tele, finalmente disposte l’una accanto all’altra. Siamo dunque verosimilmente alla fine del ciclo, dopo più di vent’anni di lavoro. Paola Tosetti Grandi, I trionfi di Cesare di Andrea Mantegna, Sometti, Mantova, 2008, pp. 19-20. La seconda riguarda la collocazione. L’unico dato certo è che nel 1512 le nove tele furono collocate in un ambiente ignoto nel palazzo di San Sebastiano, fatto edificare da Francesco II tra il 1506 e il 1507. Nel Seicento verranno riportati al Palazzo Ducale, da dove poi prenderanno la strada dell’Inghilterra. Si è molto dibattuto sull’originale collocazione, che la critica più autorevole (Martindale) tende a identificare in un trecentesco corridoio detto “del Passerino” all’interno della Corte (l’ala più antica del futuro Palazzo Ducale), allora raggiungibile dal porto di corte del Castello di San Giorgio (sulla riva del lago di Mezzo) attraverso una Via Coperta di cui parla la lettera del 1486. Per quanto concerne la terza questione, ovvero quale dei tre mecenati del pittore (Ludovico II, Federico I o Francesco II) abbia commissionato un’opera che celebrasse i trionfi romani e, per metafora, i fasti di casa Gonzaga (visto non vi sono richiami espliciti ad alcun Gonzaga in particolare), essa potrà trovare risposta almeno in parte con l’analisi delle fonti letterarie ispiratrici e della particolare sintonia culturale stabilitasi tra pittore e committente. I Trionfi e l’antichità classica: definizioni e fonti Il trionfo era il massimo onore che nell'antica Roma veniva tributato con una cerimonia solenne al generale che avesse conseguito un'importante vittoria. Il primo a ottenerlo fu Romolo, il quale, dopo aver ucciso il re dei Ceninensi, poté celebrarlo percorrendo la via Sacra nel foro romano e salire sul Campidoglio, deponendo nel tempio di Giove Feretrio le spolia opima. Fu però Tarquinio Prisco che, per primo, celebrò un trionfo su un cocchio dorato a quattro cavalli, vestito con una toga ricamata d'oro ed una tunica palmata (con disegni di foglie di palma), vale a dire con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l'autorità del comando. Inizialmente il trionfo poteva essere accordato solo dal Senato romano, che doveva ricevere il resoconto degli scontri, e sapere quanti nemici erano caduti, e quindi l'entità della battaglia finale. Dal 449 a.C. in un periodo di impasse politica, anche l'assemblea del popolo romano riuscì a decretare il trionfo ai consoli, nella fattispecie Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato. Inoltre solo membri della classe senatoriale o del rango consolare potevano riceverlo. L'origine della cerimonia si perde nella notte dei tempi. Probabilmente derivava dagli antichi rituali Etruschi ed inizialmente il trionfo era strettamente legato al significato religioso, assumendo solo successivamente un valore politico: intendeva cioè celebrare la potenza romana. Dopo la riforma di Gaio Mario, invece, divenne un riconoscimento della grandezza del generale trionfatore; portava infatti prestigio al generale ed alla sua famiglia, e gli permetteva di stabilire un rapporto privilegiato con le proprie truppe. Era quindi un modo per accrescere agli occhi di tutti il suo personale potere. Consisteva in un corteo formato dalle truppe vittoriose con alla testa il triumphator, il trionfatore che, partendo da campo Marzio, entrava in Roma attraverso la Porta Triumphalis. Al momento culminante del Trionfo, per tradizione, lo schiavo che teneva l'alloro della vittoria sulla testa del generale gli sussurrava nell'orecchio: Memento mori! Memento te hominem esse! Respice post te! Hominem te esse memento! ("Ricordati che devi morire! Ricordati che sei un uomo! Guardati attorno! Ricordati che sei solo un uomo!"). Erano detti triumphalia ornamenta (o semplicemente triumphalia) le decorazioni, i distintivi, le insegne di un triumphator: la corona aurea, la toga picta (toga dipinta), la tunica palmata (le foglie di palma erano attributo di Giove Capitolino), lo scipio eburneus (bastone d'avorio). Si devono anche aggiungere il currus triumphalis (carro trionfale) scolpito in avorio e la corona laurea (ghirlanda di alloro). Dal III secolo a.C. si ha la documentazione di pitture "trionfali", cioè di dipinti portati nei cortei dei trionfi con le narrazioni di eventi della campagna militare vittoriosa o l'aspetto delle città conquistate. La pittura trionfale ebbe sicuramente influenza nel rilievo storico romano. Un primo esempio di questo genere di pittura lo troviamo quando il consolare Manio Valerio Massimo Messalla volle pubblicizzare le proprie vittorie su Cartaginesi e Siracusani creando una serie di pitture parietali (tabula proelii) nella Curia del Senato romano. Un secondo esempio ci viene raccontato, ancora una volta da Plinio il Vecchio, e riguardava la rappresentazione delle vittorie di Lucio Scipione su Antioco III degli anni 190-188 a.C. (tabulam victoriae suae Asiaticae, questa volta poste sul Campidoglio). Un terzo esempio, tramandatoci da Plutarco riguardava invece la vittoria romana sulle forze macedoniche a Pidna (nel 168 a.C.), dove le rappresentazioni pittoriche furono esibite dal vincitore Lucio Emilio Paolo durante la processione trionfale (pictorem ad triumphum excolendum). Questo genere di pittura venne utilizzato anche durante tutto il periodo imperiale come ci racconta ad esempio la Historia Augusta riguardo alle campagne militari vittoriose di Massimino Trace (235-237). In questa circostanza: « [Massimino] dispose che fossero dipinti dei quadri raffiguranti le fasi in cui era stata condotta la guerra stessa, e che venissero esposti davanti alla Curia, perché fosse la pittura a raccontare le sue res gestae. Ma dopo la sua morte il Senato, ne dispose la loro rimozione e distruzione.» (Historia Augusta - I due Massimini, 12.10-11.) Nessuno di tali esempi antichi era pervenuto ai tempi di Mantegna (per la deperibilità del supporto delle pitture stesse, lo stesso motivo che ha condotto al naufragio della quasi totalità della pittura greco-romana), e l’artista dovette perciò fare ricorso ad altre fonti visuali, classificabili, secondo la misura, in piccole – monete, medaglie o gemme – e grandi, cioè monumenti. Se per le prime poco si può dire, in quanto non possediamo notizie di collezioni quattrocentesche e attestazioni di singoli pezzi prima del 1550 circa (dobbiamo quindi includerle tra le fonti, ma in vacuo), per le seconde sappiamo parecchio su ciò che era visibile nel XV secolo. Martindale, op. cit., pagg. 59-60. Qui Mantegna dovette rivolgersi senza dubbio soprattutto a Roma, affidandosi prima a disegni e stampe e solo a ciclo intrapreso (tra il 1488 e il 1490) recandosi in quella Roma finora solo immaginata nella propria mente antiquaria. Senza dubbio Mantegna fece riferimento agli archi di trionfo di Costantino, Tito e Settimio Severo; alle colonne Traiana e Aureliana, alcuni rilievi del tempio di Marco Aurelio e di Adriano, e degli stipiti con sculture di trofei d’armi, provenienti dalle chiese di Santa Sabina e Sant’Eusebio. Come vedremo, gli spunti estratti da tali monumenti costituiscono uno dei fili principali che compongono la trama dell’opera. Sempre dagli archi di trionfo, il Mantegna derivò gli atteggiamenti di svariate figure, cosicché lo spettatore che osservi i Trionfi viene costantemente sollecitato a ricordare tale background artistico. Tuttavia, l’età e l’esperienza avanzate di Mantegna rende veramente difficile credere che egli sia continuamente ricorso a tale assistenza. Sicuramente potrebbe aver derivato dagli esempi antichi princìpi generali sulla composizione della figura, ma fece senza dubbio appello alla propria creatività per manipolarli. Qualora volessimo ammettere che Mantegna inserì deliberati “citazioni” dall’antico, un solo motivo sarebbe plausibile: giocare con la cultura dello spettatore erudito fino a fargli riconoscere, nell’apparente “anomalia” del personaggio, tale citazione (è il caso del servo di Abramo che si osserva la pianta di un piede esattamente come lo Spinario, nella formella bronzea del Sacrificio di Isacco, opera di Filippo Brunelleschi). In ogni caso, quale che siano le fonti, ciò che contava per Mantegna e per lo spettatore era la creatività nel rielaborarle (ed è ovvio che anche lo spettatore erudito fosse senz’altro troppo preso da tale aspetto per mettersi a indagare su eventuali citazioni); inoltre, solo su poche figure è possibile formulare ipotesi credibili, mentre le altre restano inspiegabili da un punto di vista archeologico e creativo. Uno storico moderno che volesse ricostruire il carattere e l’aspetto di un trionfo romano attingerebbe dunque a fonti varie, anche piuttosto eterogenee. Per quanto concerne le fonti scritte, tutte le principali furono senza dubbio accessibili al Mantegna, che per questo scopo aveva a disposizione la biblioteca dei Gonzaga (di cui non sappiamo nulla riguardo al Quattrocento, ma sulla quale possiamo presumere che fosse fornita dell’occorrente intorno al 1475). Esse influenzarono direttamente l’artista tanto nella rappresentazione generale, quanto nella scelta dei particolari. La fonte più importante, per i numerosissimi riferimenti a trionfi particolari, è l’Ab Urbe condita di Livio; d’altro canto, le descrizioni più complete di trionfi specifici si trovano negli scritti di Appiano Romaikà (tradotta in latino da Decembrio nel 1453, stampata a Venezia nel 1477), libro VIII, trionfo di Scipione Africano a seguito della vittoria di Zama (204 a. C.), Plutarco Vita di Emilio Paolo (tradotta da Bruni, 1470), trionfo di Pidna (168 a. C.)., Flavio Giuseppe Guerre Giudaiche (tradotte in latino da T. Rufino, 1475), trionfo di Vespasiano e Tito (72 d. C.), oltre ad annotazioni più sparse presenti in Svetonio (sui trionfi di Cesare, all’interno delle Vitae), Cicerone, Plinio il Vecchio, e in tutta la letteratura romana Gli stessi Commentarii, Oratio in Pisonem, Bellum Catilinae, Pharsalia, Naturalis Historia, Noctes Atticae, … tutte disponibili nella biblioteca dei Gonzaga e anche nella biblioteca personale di Mantegna (cfr. Tosetti, op. cit., pag. 50). Nel procedere del lavoro, vedremo come soprattutto Plutarco, combinato con Appiano e Svetonio, fornisca una descrizione pressoché completa di quanto Mantegna ha raffigurato su tela (cfr. appendice I). Eppure, la prima sorpresa che riservano i dipinti è la scelta dell’argomento: se all’epoca era disponibile abbondante materiale letterario su determinati trionfi (nel caso di Plutarco, una descrizione fatta con dovizia di particolari), perché raffigurare il trionfo decretato a Cesare OB GALLIAM DEVICT<AM> (come ricorda la tabella nella seconda tela)? Perché fare soggetto di un’esercitazione archeologico-artistica la più accurata possibile un trionfo di cui si sapeva poco e che dunque prometteva ancora meno? La spiegazione va rintracciata nell’interesse umanistico e nel fascino ininterrotto di Giulio Cesare, così come all’epoca veniva evocato dai testi di Svetonio, dalle opinioni contrastanti di Sallustio e Lucano, dall’ipnotica immediatezza dei Commentarii stessi, ovvero una personalità straordinariamente complessa, di grandezza ancora maggiore, abbattuta e annullata con la sua morte alle Idi di marzo. Una personalità all’epoca dibattuta, sospesa tra la figura positiva del salvatore del popolo romano e quella di ambizioso dittatore uccisore della repubblica (tale contraddizione fu messa in luce anche da Petrarca nella sua Vita di Cesare, che come vedremo costituisce una delle fonti umanistiche dell’opera). V’era però una qualità su cui tutti erano d’accordo: Cesare era senza dubbio il miglior generale di tutti i tempi, e non fu quindi difficile lodare tale sua dote. Questo ci fornisce anche la chiave per comprendere il pretesto immediato (per fare un paragone storiografico) della commissione, e cioè una glorificazione particolareggiata del valore militare. Non si sa nulla delle circostanze di tale commissione, ma è probabile avesse a che fare con le mire militari dei Gonzaga. Comunque sia, il risultato finale è piuttosto strano: il trionfo gallico di Cesare è in realtà, per quanto riguarda le fonti letterarie, derivato da trionfi altrui (in primis Emilio Paolo). I Trionfi e la corte dei Gonzaga: fonti umanistiche e cultura antiquaria Dopo aver analizzato le fonti “remote” e dopo aver chiarito il “pretesto” della commissione, rimangono da analizzare le fonti “immediate” dei Trionfi. Ricostruirne il retroterra umanistico significa delineare compiutamente il binomio artista-committente, in quanto è impossibile non vedere in quest’ultimo l’umanista che condivida e sostanzi la complessità dell’idea dell’opera, suggerita da Mantegna al suo signore per promuovere le proprie abilità a rappresentare l’antichità in pittura. Secondo Martindale, la stessa necessità che aveva spinto il pittore a cercare l’ “assistenza” delle fonti antiche sarebbe stata tale anche per il ricorso agli eruditi a lui contemporanei, anche se è più plausibile pensare a un dialogo paritario pittore-umanista. Tale consulenza non sarebbe stata possibile prima degli anni sessanta del Quattrocento, quando erano stati composti i tre trattati che costituirono poi le fonti per il Mantegna: il De re militari di Roberto Valturio, la Roma triumphans di Biondo Flavio e il De dignitatibus romanorum thiumpho et rebus bellicis di Giovanni Marcanova (purtroppo perduto). Vanno osservati subito quattro fatti non casuali: i due trattati pervenutici furono ricopiati da Felice Feliciano, amico di Andrea Mantegna; almeno due dei tre autori furono in contatto con Mantegna: Marcanova durante gli anni padovani, Biondo Flavio (già in relazione con la corte) alla Dieta di Mantova nel 1459; Valturio e Biondo ricoprirono entrambi cariche pontificie (segretario ai Brevi di Eugenio IV il primo, segretario pontificio il secondo); infine, i loro trattati furono impressi nel 1472 rispettivamente a Mantova e Verona. La Dieta, iniziata il 27 maggio 1459, vide la presenza anche dello stesso Mantegna (benché il completamento del trittico di San Zeno lo ostacolasse fino a luglio dal trasferirsi definitivamente), nonché di Leon Battista Alberti (anche se riguardo alla sua presenza mancano prove documentate. Biondo Flavio (Forlì, 1392-Roma, 1463), considerato il fondatore dell’antiquaria moderna, era venuto a conoscenza, attraverso gli entusiastici resoconti dei cronisti, dei fastosi cortei per le cerimonie ufficiali dei signori della penisola (in particolar modo di quello di quello di Alfonso d’Aragona a Napoli, il 26 febbraio 1443, per il suo ingresso in città), ma anche attraverso i suoi spostamenti al seguito di Eugenio IV (sempre nel 1443 soggiornò a Firenze, città sede di parecchi artigiani specializzati in scenografie per cortei). Egli compose la Roma triumphans tra il 1457 e la Dieta del 1459 a Mantova, di cui aveva già cantato le lodi in un suo precedente lavoro, l’Italia illustrata (per le quali fece uso anche delle notizie inviategli da Roberto Valturio); ciò fa quindi supporre, come detto, relazioni ben più che sporadiche con i Gonzaga. L’opera, dedicata al suo ultimo “datore di lavoro”, Pio II (convocatore della Dieta), ha come obiettivo la preparazione del clima culturale utile alla crociata contro i Turchi, e ciò rende necessario la digressione a chiusura del libro X sui trionfi militari romani, vagheggiante un ideale passaggio di testimone dalla Roma triumphans all’ecclesia triumphans, a coronamento della vittoria militare sull’infedele. Per Biondo questo non si trattò del primo impegno come oratore politico riguardo al pericolo turco, avendo già pronunciato orazioni simili, nonché un trattatello, lo stesso anno della caduta di Costantinopoli (1453); la sua esperienza anche come segretario conciliare (1438) e come diplomatico spiega la fiducia accordatagli da papa Piccolomini in questo delicato frangente. La tanto auspicata crociata non avrà luogo, ma la Dieta rappresentò un importante momento di confronto culturale. Possiamo affermare che da quest’occasione mancata scaturì una nuova occasione che porterà alla realizzazione dei Trionfi. La fama della Roma triumphans si diffuse rapidamente, anche a stampa. Particolarmente impaziente di possederne una copia risulta fosse Ludovico II Gonzaga, se è vero che pagò in anticipo il Biondo (come emerge da una lettera del 26 dicembre 1460) per farsela realizzare. La copia arrivò, ma meno ornata, come dono al figlio Francesco, futuro cardinale; Biondo suggerì quindi al marchese di trarne una nuova copia, trascritta e miniata dagli amanuensi al servizio della corte, che verrà ultimata molti anni dopo, intorno al 1470. Andrew Martindale attribuiva a Biondo Flavio la consapevolezza di essere stato il primo ad aver trattato il tema del trionfo romano, con un’accuratezza pari a quella di un pittore; lo stesso autore ne era soddisfattissimo (oltre che consapevole del proprio delicato compito diplomatico) tanto da proclamare orgogliosamente di aver dipinto in scrittura. Mantegna ne colse così la sfida per il proprio ingegno, proprio a causa della grandezza del tema (come visto, anche politico-militare) per casa Gonzaga, e la fonte principale fu proprio Biondo Flavio. Nel liber decimus del trattato si spiega che per gli antichi Romani suscitare il giubilo del trionfo aveva lo scopo ben preciso di ottenere l’unione del popolo e dell’esercito, nonché delle diverse genti conquistate; un rituale che si svolgeva in forma di triduo. Questo spiega senza dubbio l’organizzazione generale a tre a tre delle tele (I-III; IV-VI; VII-IX), collegate direttamente con quelle di un medesimo gruppo (ad esempio il toro tra la II e la III tela), ma debolmente o per nulla con quelle del gruppo successivo o precedente (ad esempio tra la VI e la VII); il tutto a partire dalla IX, con Cesare sul carro, procedendo verso sinistra. L’altro grande risultato dello studioso fu la ricostruzione del percorso del corteo, anche se per sommi capi. Il trionfatore era atteso fuori dalle porte dell’Urbe, per poi entrarvi in coda al corteo, lungo strade parate a festa, tra due ali di folla acclamante. Si partiva dalla porta triumphalis, per poi toccare Campo Marzio, il Circo Flaminio e salire al Velabro, attraversava il Foro lungo la Via Sacra, passava accanto al Circo Massimo e saliva infine al Campidoglio. Alla conclusione avveniva il sacrificio seguito dal banchetto. Eppure, Mantegna ancora una volta rifugge dalla caratterizzazione precisa dei monumenti sullo sfondo delle tele: esse non presentano alcun rapporto archeologico con il reale percorso, ma un rapporto puramente romantico: il gruppo centrale di tele (IV-VI) cerca di rievocare Roma con una serie di particolari familiari (ispirati al Colosseo, alla basilica di Massenzio, al teatro di Marcello, alle colonne celebrative) ma in rovina; di contro, la tela VII, nonché il disegno dei Senatori (di cui parleremo in seguito) propongono il corteo in una strada romana, sullo sfondo di mura solide e per nulla in rovina. Infine, Biondo presenta la scansione del corteo, diviso in tre giorni di sfilata: nel primo le pitture trionfali, le opere d’arte e le armi depredate, le macchine militari e teatrali, elmi e corazze sulle picche, trombettieri e soldati acclamanti, i tori sacrificali e il trionfatore sul carro; nel secondo il bottino dei preziosi, dei gioielli e degli oggetti di lusso, in numero mirabolante; infine, nel terzo, i nemici prigionieri, la loro corte e i soldati protagonisti della cattura. Tuttavia, appare chiaro come le fonti di Mantegna per quanto riguarda l’ordine e lo sviluppo del proprio corteo trionfale siano quelle antiche, che, come detto, forniscono un racconto incredibilmente vicino a quello delle tele; infatti, benché le fonti si avvicendino liberamente all’interno dei dipinti, ciascun partecipante, sia esso trombettiere, portatore di bottino, animale o prigioniero, appare nella corretta posizione, a fronte del testo da cui derivano (come mostrato nell’Appendice I). Qui siamo di fronte a uno dei più riusciti connubi arte-erudizione. Di fianco a Biondo Flavio, la critica ha sovente sottolineato l’importanza per Mantegna del trattato De re militari di Roberto Valturio (Rimini, 1405-1475), avente per argomento soprattutto l’arte della guerra e le macchine belliche, con la descrizione dei trionfi romani in chiusura dell’opera (libro XII). L’opera fu composta nel decennio 1446-1456, quanto il Valturio ritornò da Roma a Rimini come consigliere culturale di Sigismondo Pandolfo Malatesta, cugino di secondo grado di Ludovico II, militare di professione. Per l’opera, ricca di argomenti, minuziosa nella biografia e nella terminologia, doviziosa di immagini di macchine militari (una mole di lavoro considerevole, dunque) autore e dedicatario avevano pianificato un programma di utilizzazione scopertamente apologetico, mediante la realizzazione immediata di copie manoscritte e miniate da destinare ai regnanti d’Europa, come testimone dell’eccellenza del signore di Rimini. Alla Dieta di Mantova fu quindi uno dei pochi a parlare seriamente di un attacco militare al Turco, trovando l’appoggio di Pio II (verrà poi nominato capitano dell’incompiuta crociata). Anche se non vi sono testimonianze della presenza di Valturio a Mantova né di una presentazione ai Gonzaga del trattato, l’occasione era troppo ghiotta perché Sigismondo si lasciasse sfuggire l’occasione di esibire, in un’occasione come quella (fatta anche di discorsi sulla forza militare degli italiani), il “suo” capolavoro sull’arte della guerra, fonte autorevole per le sue affermazioni. Il libro per i Gonzaga alla fine ci sarà, ma non come anteprima, bensì come dono al cardinale Francesco (l’esistenza di un incunabolo de machinis bellicis nella biblioteca di costui è documentata solamente da Chambers). Dal 1462 al 1470 il libro fu riprodotto a Rimini, ma dopo il 1470 la trascrizione migrò in area veneta, fino alla riproduzione a stampa nel 1472, avvenuta a Verona, ad opera di Giovanni di Nicolò. La notizia della presenza nella biblioteca di Francesco non trova riscontro al momento nelle biblioteche mantovane, ma è indizio che anche questo trattato dovette approdare alla corte di Ludovico II. Da ex docente di retorica e poesia qual’era stato (1427-1437), Valturio è sostenuto dall’esigenza di esaustività filologica ed etimologica. Non è un caso che il libro XII incominci (cfr. Appendice I) con la definizione dell’etimologia della parola trionfo, per poi proseguire con le origini, la definizione, pure etimologica, dei trofei, le insegne e gli ornamenti, per concludere con le modalità di svolgimento. Si tratta evidentemente di un punto di vista diverso rispetto a quello di Biondo Flavio, il quale, storico e “archeologo”, è più attento all’ordine e alla topografia del corteo, aspetti che Valturio avverte di meno. Si potrebbe spiegare in questo modo il problema della particolarità del costume di Cesare, forse il punto dove Mantegna raggiunge la più grande indipendenza dalle proprie fonti (peraltro, sulla toga palmata e sugli attributi le fonti antiche sono a tratti discordi). La figura non obbedisce ad alcuna rappresentazione precedente, e nemmeno agli attributi elencati da Valturio, se non per la corona laurea. Il ramo di alloro nella mano sinistra è invece sostituito da un ramo di palma, “migrato” dalla figura della Vittoria; ciò si spiega in relazione al significato che sempre Valturio identifica (come già Plutarco) la palma come simbolo di forza in grado di adattarsi alle situazioni (piegandosi) senza mai subirle (spezzandosi). Mantegna ne ha fatto dunque simbolo della virtù maggiore di Cesare. Per il resto, i passi più significativi del libro XII trovano riscontri importanti nelle tele, oltre che stringenti analogie con l’opera di Biondo: gli addobbi delle strade, le sfilate di opere d’arte, cimeli e impressionanti macchine da guerra e teatrali, costruite per lo stupore degli spettatori (la fonte qui è Tito Livio, ma ancora una volta Mantegna non le trasferisce nei particolari su tela, escluso l’Aries), i buoi sacrificali inghirlandati e con le corna d’oro, i vittimari adolescenti. Tale analogia si spiega con il ricorso di entrambi a Plutarco e Appiano. Il difetto principale dell’opera di Valturio fu il non aver dato l’ordine del corteo, che si può ricavare solo dai testi originali. Se si aggiunge che una delle sue fonti principali, Flavio Giuseppe, sembra avere scarsa influenza su Mantegna, anche l’importanza dell’influenza determinante di Valturio diminuisce sensibilmente. Come emerge dalle precedenti considerazioni, le principali fonti classiche di cui Mantegna fece uso nel dare vita al proprio trionfo romano sono autori greci (e principalmente Plutarco). Ma quasi tutte le opere di Mantegna, escluse ovviamente quelle religiose, sono ispirate a soggetti letterari e poetici greci. Eugenio Battisti, 1965 (cfr. Tosetti Grandi, op. cit., pag. 91) Tale interesse raggiunse il suo culmine proprio negli anni di Ludovico II, entro il decennio 1470-1480 (opera-simbolo può essere considerata l’incisione con la Zuffa degli dei marini, scena presa dall’opera di Luciano, che ispirò anche il celeberrimo oculo della Camera degli Sposi). Di matrice greca furono anche i primi pensieri riguardo ai Trionfi, naturale sequel celebrativo del valore politico-militare dei Gonzaga, laddove la Camera celebrava il momento più importante della loro storia (la creazione a Cardinale di Francesco, figlio del marchese). Queste riflessioni vengono a porsi nel contesto dei Trionfi attraverso un piccolo Poseidone d’oro che svetta sul coperchio di un anfora nella tela III, citazione dell’antica Gemma Felix, dell’inizio del I secolo d. C., acquistata nel 1472 proprio da Francesco Gonzaga e poi fatta studiare all’artista durante la sua visita al Cardinale ai bagni di Porretta (estate 1472). Questo amore per le fonti greche deriva dal loro approdo come sistema culturale (non sporadico) tra gli umanisti italiani, avvenuta nel 1396 con l’arrivo a Firenze di Manuele Crisolora (Costantinopoli, 1350 ca-Costanza, 1415), e poi diffusosi dal 1429 a Ferrara (presso gli estensi) e dal 1423 presso i Gonzaga ad opera degli allievi Guarino Guarini e Vittorino da Feltre, che introdussero la conoscenza di opere come quelle di Luciano o le Vite parallele di Plutarco; tali scuole di corte apparvero subito grandi avanguardie pedagogiche, al pari del gusto antiquario che in pittura andava sostituendo il classico al gotico. Mantegna era venuto in contatto con tale gusto a Padova, studiando i capolavori di Donatello, ma anche dal contatto con altri umanisti allievi di Crisolora, come Pier Paolo Vergerio, e con Nofri Strozzi, figlio del celebre Palla Strozzi, esule da Firenze, consigliere dell’Università padovana, promotore dell’arrivo di Crisolora nella città toscana e in relazione anche con Giovanni Marcanova. Fu forse per tali relazioni culturali che Ludovico II chiese e ottenne che si trasferisse alla sua corte. Benché Crisolora fosse considerato dai suoi allievi e contemporanei come “l’artefice primo del ritorno delle lettere greche” (Guarini), il suo nome è stato a lungo dimenticato dalla critica, come i suoi contributi, che vanno ben al di là della storia dell’umanesimo (Ronchey: “Il Rinascimento fiorì dalle ossa dei Bizantini”), essendo giunti ad influenzare anche la storia dell’arte. Tra le poche opere dell’umanista, spicca per interesse l’Elogio delle due città (meglio noto come Confronto tra l’antica e la nuova Roma), scritto a Roma nel 1411 e dedicato all’imperatore Manuele II Paleologo, per conto del quale era in Italia come diplomatico, con delicati compiti in funzione antiturca, oltre che con l’obiettivo di favorire in tale ottica la riconciliazione delle due chiese al concilio di Costanza. L’opera da lui incompiuta (per la sua morte, proprio a Costanza) fu proseguita dall’allievo Guarini (al quale aveva fatto dono del suo Elogio) al concilio del 1438, ma senza alcun successo (la riconciliazione fu solo provvisoria); cinque anni dopo la caduta di Costantinopoli, toccò a Pio II tentare un’ultima volta la riconquista, con il progetto di una crociata. Ludovico II mostrò particolare interesse alla questione, in quanto voleva far apparire la propria corte come “erede ideale di Bisanzio e della sua corte imperiale”. Ecco quindi il ruolo di Biondo Flavio, e l’utilizzo dell’Elogio in chiave propagandistica, esattamente come la Roma triumphans. Dopo la caduta di Bisanzio, forse per richiesta dello stesso Guarini, il veronese Francesco Aleardi tradusse in latino l’opera (1454) per il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, destinandone una copia anche a un certo Onofrio, che Francesca Niutta ritiene sia Onofrio Strozzi, figlio di Palla. Mantegna poté dunque conoscere l’opera forse quando ancora era a Padova, se non (come afferma l’altra ipotesi) attraverso il contatto a Mantova con i figli di Guarini. Anche in questo caso, non avendo notizie precise sulle circostanze dell’arrivo dell’opera a Mantova (forse attraverso Francesco Filelfo, marito della nipote di Crisolora e presente con il duca di Milano alla Dieta del 1459, oppure prima della stessa versione latina, tramite Vittorino da Feltre), la critica (a parte Martindale) ha sostanzialmente ignorato l’opera, che colpisce per la vitalità dell’immaginazione nella rievocazione delle vestigia di Roma come preludio alla grandezza della “seconda Roma” Costantinopoli: il passato pulsa di attualità e viene trasfigurato dall’operazione estetica possibile solo all’artista e non allo storico, allo scrittore come al pittore. Scorrendo alcuni passi emblematici dell’Elogio (cfr. Appendice I) spicca la visione di Crisolora, precorritrice dell’idea delle vestigia di Roma evocatrici del passato più delle pagine degli storici, capaci di trasmettere ancora i sentimenti contrastanti di vincitori e vinti, della guerra e del trionfo. Basta osservare la tela VII, con i Prigionieri, o l’incisione per la mai realizzata scena dei cosiddetti Senatori (nella realtà gli aiutanti e i segretari dietro al carro di Cesare, nonché i primi ranghi dell’esercito, il “terzo tempo” della sfilata trionfale), per cogliere in Mantegna la stessa resa visionaria; il solo modo di dipingere le vestigia è farle rivivere. In particolar modo, il guardare dei vincitori “dall’alto, dalle case”, da una distanza fisica e morale, è trasferito alla lettera nelle tele e nell’incisione, e addirittura capovolto nei prigionieri già dietro le sbarre che osservano la sfilata dei compagni di sventura. Chiudendo il nostro percorso attraverso le fonti umanistiche dei Trionfi, non possiamo non ricordare l’ammirazione e la memoria dell’opera di Francesco Petrarca alla corte di Mantova (che lo ospitò più volte; Francesco Gonzaga possedeva nella sua biblioteca tutte le opere); ricordiamo inoltre che l’amico di Mantegna, Felice Feliciano, “antiquario” dagli interessi poliedrici al quale si devono le copie delle opere di Biondo e Valturio, iniziò nel 1476 una stampa della traduzione in volgare del De viris illustribus di Petrarca, di cui fa parte anche la Vita di Giulio Cesare. Si potrebbe allora avanzare una proposta per la lettura dell’iscrizione della tela II, che riporta le circostanze del decreto senatoriale del trionfo: IMP[ERATORI] IVLIO CESARI OB GALLIAM DEVICT[AM] MILITARI POTENCIA TRIVMPHVS DECRETVS INVIDIA SPRETA SVPERATAQ[UE], ovvero: AL GENERALE GIULIO CESARE PER LA GALLIA SCONFITTA GRAZIE ALLA POTENZA MILITARE IL TRIONFO E’ STATO DECRETATO DISPREZZATA E VINTA L’INVIDIA. Abbiamo qui un’interessante duplicità di significato. Il primo esalta l’individualismo del generale: Cesare celebra il suo trionfo in dispregio dell’invidia dei senatori, tanto clamorosa è la sua vittoria, interpretazione consona a Petrarca, sottolineata anche dall’immortale VENI. VIDI. VICI ancora oggi leggibile nella tela IX. Il secondo sottolinea l’arte di governo e di mediazione del vincitore: Cesare celebra il trionfo perché i senatori, con sano realismo politico, glielo hanno concesso, superando l’invidia e riconoscendolo salvatore di Roma e risolutore delle discordie intestine. Commenta Petrarca riguardo al terrore che si diffuse in città (con fuga dei pompeiani) dopo il passaggio del Rubicone (capitolo XX): «[…] E c’è davvero da stupirsi che in animi così meschini albergasse tanta arrogante superbia: quella cioè di screditare meriti, onori e gloria di un uomo di cui non potevano poi sopportare il cospetto e la vicinanza, fino al punto di abbandonare, sbigottiti dalla costernazione per il solo suo nome, la loro patria, e una patria come Roma. Ma da un lato , erano feriti dall’invidia, dall’altro erano terrorizzati dalla fama del suo nome, fama che era tanto cresciuta da far sì che proprio lui, Cesare, il più clemente degli uomini, divenisse la persona più temuta […]» Il vizio dell’invidia era particolarmente diffuso nelle corti, minando le relazioni che vi intercorrevano. L’invidia perseguita costantemente il valore e la gloria: è questa la comune convinzione di Mantegna e Petrarca, nonché di Dante, pensando a Pier della Vigna, che tenne ambo le chiavi del cor di Federigo e si suicidò per l’invidia dei cortigiani (Inferno XIII, 58-72). Epilogo: tre umanisti, tre committenti Abbiamo visto come solo una solida cultura umanistica, aggiornata dal confronto con il committente e gli intellettuali di corte, poté consentire ad Andrea Mantegna di dispiegare la complessità del racconto dei trionfi romani. In conclusione di questo lavoro, è doveroso tirare le somme anche sulla questione della committenza, così come è stata chiarita dal precedente discorso. Come hanno dimostrato le prove che le opere di Biondo e Valturio furono note ai Gonzaga, il marchese Ludovico II era un fine umanista, nonché accanito collezionista di libri, soprattutto greci, e addirittura traduttore per diletto (abbiamo una traduzione del 1425, fatta all’età di tredici anni, nonché un suo intervento per correggere un refuso nella trascrizione dei Trionfi di Petrarca del 1470). Tutti e tre i Gonzaga, Ludovico, Francesco e Federico (padre, figlio e nipote) possono essere visti come committenti, benché le doti del padre eccellano su quelle degli altri. Francesco II è l’unico coinvolto nei documenti sui Trionfi (lettere in primis), ma ciò non basta per vedere in lui il committente dell’opera. Fu un uomo di grande valore militare (come dimostrò la vittoria di Fornovo sui francesi, nel 1495, per la quale Mantegna dipinse la Madonna della Vittoria), ma questo non sostiene da solo la complessità culturale dei Trionfi. Al contrario, Ludovico II, uomo di sterminata cultura, anche per il contesto storico, può essere ritenuto il responsabile del progetto del ciclo. Il concilio del 1459 fu per Mantova l’occasione di essere la nuova Roma, la risorta Costantinopoli, per Ludovico l’occasione di essere ottimo principe; per Pio II di trionfare sugli infedeli (come scrive Biondo Flavio chiudendo la Roma trionfante). L’evento sancì il riconoscimento dell’indiscussa solidità politica di casa Gonzaga, poté determinare la ragion d’essere storica dei Trionfi di Cesare (che venivano a inserirsi nella discussione umanistica della giustificazione del potere secondo la tradizione classica romana), e costituì la prima occasione dell’idea, dell’intuizione di Mantegna, condivisa con Ludovico ed estesa agli intellettuali che soggiornavano a Mantova. Forse per la realizzazione dell’opera si dovette attendere che le casse dei Gonzaga fossero rimpinguate dopo le spese pazze per permettere l’adunata conciliare. A questo si aggiunsero, quando il budget richiesto per la realizzazione fu disponibile, una serie di lutti che funestarono l’artista dal 1478 (a cominciare dalla morte de figlio primogenito) Alessandro Luzio, Roberto Paribeni (a cura di), Il trionfo di Cesare di Andrea Mantegna, Bardi Editore, 2009 (ed. orig. Roma, Reale Accademia d’Italia, 1940), pagg. 5-6., per poi coinvolgere i Gonzaga (nel 1478 la morte di Ludovico, nel 1479 la morte di Barbara di Baviera, moglie di Federico, quindi nel 1481 quella della vecchia marchesa Barbara di Brandeburgo, moglie di Ludovico, e infine, nell’ottobre 1483 e nel luglio 1484, i figli, prima il Cardinale Francesco e poi lo stesso Federico, in carica da appena sei anni). Perciò l’opera non fu approntata prima del 1486, e si protrasse come visto per più di vent’anni, forse senza neanche venire ultimata (come farebbe pensare un’area poco rifinita nella tela VII, la mancanza di una continuity completa tra i paesaggi delle tele e l’esistenza di copie di una decima scena, i Senatori, che fa supporre che Mantegna abbia pensato di estendere l’opera oltre la metà reale del corteo, con il carro); stante l’enorme mole dell’esclusivo tema, d’altronde, un’opera completa di tutto il corredo trionfale era impossibile, e l’artista dovette senza dubbio operare una selezione. Anche le strategie esecutive (insolite per un pittore dal modus operandi rapido e sicuro come era Mantegna), fatte di innumerevoli disegni preparatori (da cui vennero poi tratte molte incisioni che sparsero la fama del ciclo in tutta Europa) finirono così per complicare l’opera, e paradossalmente una delle cause fu l’essere nata su tela, la cui conservazione era giudicata meno problematica di un affresco, ma che, proprio a causa della possibilità di spostamento, finì per determinarne il continuo spostamento tra Corte, Castello, palazzo di San Sebastiano e di nuovo il Palazzo Ducale, fino all’Inghilterra quando la fortuna dei Gonzaga declinò. L’intera conduzione del ciclo, dall’elaborazione filologica all’esecuzione, avvenne quindi sotto tre diverse generazioni. Federico II potè entrare nell’impresa come erede in un’opera in fieri, sentendosi orgoglioso del suo compimento e quindi partecipe della gloria del casato espressa da Mantegna. Tutti e tre dovettero quindi riconoscersi nel valore estetico della classicità che man mano prendeva forma nelle nove tele; tutti e tre (con diverso coinvolgimento) dovettero avvertire che la maestosa impresa del loro pittore di corte li avrebbe posti per sempre come eredi della grandezza politica e culturale di Roma, responsabili della fama e della tradizione militare della famiglia Gonzaga, nel panorama delle signorie italiane. «We are not impotent, we pale stones: not all of our power is gone…» «Non siamo impotenti, noi pallide pietre: non tutto il nostro potere si è dissolto…» (Edgar Allan Poe) Bibliografia Andrew Martindale, Andrea Mantegna – I trionfi di Cesare, Rusconi Immagini, Milano, 1980. Paola Tosetti Grandi, I trionfi di Cesare di Andrea Mantegna, Sometti, Mantova, 2008. Alessandro Luzio, Roberto Paribeni (a cura di), Il trionfo di Cesare di Andrea Mantegna, Bardi Editore, 2009 (ed. orig. Roma, Reale Accademia d’Italia, 1940). In prima pagina: Pieter Paul Rubens, Trionfo romano, 1630 circa. Londra, National Gallery Appendice I – Le principali fonti scritte sul trionfo Quelle greche così come apparse nelle rispettive traduzioni latine (cfr. supra, pag. 4, note 4-5). MANTEGNA PLUTARCO, Vite parallele, Emilio Paolo APPIANO, Romaikà, libro VIII SVETONIO, Vitae Caesarum, Caesar TELA I Trombettieri Emblemi e insegne TELA II Colossi su carri Modellino di città Piastre con iscrizione Figure emblematiche TELA III Trofei di armi catturate Portatori di bottino e monete TELA IV Portatori di bottino in cui sono corone Buoi bianchi TELA V Trombettieri Buoi bianchi Elefanti con candelabra TELA VI Portatori di bottino e monete Trofei preziosi d’armi TELA VII Prigionieri Buffoni TELA VIII Musici Signifer e soldati con insegne TELA IX Cesare sul carro INCISIONE I Senatori Prima enim dies vix signis tabulisque et colossis transmittendis suffecit quae vehiculis ducentis quinquaginta portabantur Secunda die pulcherrima et ornatissima Macedonum arma multis curribus delata fuerunt splendentia aere et ferro absterso atque ita disposita ut casu maxime cecidisse viderentur. Geleae, scuta, thoraces, ocreae et Crethenses Peltae; et Traicia Gerra Pharetrae, et equorum frena, ac enses nudi per haec iacentes et Sarissae infixae; ita ut nec victorum quidem absque metu aspectus. Post hos armorum currus tria virorum milia sequebantur: qui numismata ferebant argentea vasis trecentis quinquaginta. Vas erat quodlibet trium talentorum. Quattuor viri singula vasa portabant. Alii crateras argenteas et Phialas calicesque ornatissimos et ingentes certo ordine deferebant Tertia die prima luce tibicines [scil. tubicines] non mire nec suave sed bellicum sonantes primi ibant. Post eos centum ei viginti boves auratis cornibus ducebantur; victis ornati et sertis; ducebant eos adolescentes succincti ad immolandum; et pueri aureas et argenteas patinas sacrificii gratia deferebant Post eos sequebantur qui aurea numismata gerebant in vasis trium talentorum: et supra de argenteis numismatibus dictus est: numerus vasorum fuit tria et octoginta. His succedebant qui auream Phialam decem talentorum quem Emilius ex lapillis effecerat. Item qui Antigonea et Seleutia et Therida et Persei vasa aurea portabant. Post haec Persei currus et arma et diadema super armis positum Deinde, post modico intervallo, nati regii ducebantur: et cum ipsis alumnorum et magistrorum et pedagogorum lacrimans turba: qui et ipsi manus tendebant ad cives: et pueros eadem facere et praecari docebant: Erant masculi duo et una femina non satis infortunium propter suam aetatem diligentes…Ipse autem Perseus post filios et ministros ibat fusca veste amictus: et crepidas more patrio habens: propter magnitudinem malorum ad omnia trepidus ac mente turbatus. Post eum ibat amicorum et familiarum mesta turba miserabiliter ispum intuentes lacrimantesque… Post eum deferebantur aureae coronae quibus Emilium virtutis gratia grecae donaverant civitates. Erat numerus coronarum quater centum Deinde Emilius ipse sequebatur ornatissimo curru invectus. Vir et circa huiusmodi honorem spectaculo dignus purupuram auro contextam indutus; et lauri ramum dextera gerens ferebat [scil. ferebant] et laurum milites currum Emilii secoundum legions cohortes et manipulos subsequentes partim carmina patria salibus permixta et risu; partim Emilii laudes cantantes Sertis redimiti omnes, praecintibus tubis currus spoliis refertos deducebant. Ferebantur et lignae turres captarum urbium simulacra praeferentes. Scripturae deinde et imagines earum quas gessisent Aurum deinceps et argentium partim rudibus massis partim notis aut huiusmodi impressum figuris Coronae preterea quas virtutis gratia urbes aut socii aut exercitus urbi parentes militibus dedissent Candidi subinde boves et elephanti illos sequebantur Post hoc Carthaginensium ac Numidarum principes bello capti, Imperatorem lictores praeibant purpureis amictis vestibus: tum cithadoreum ac tibiarum turba ad Etruscae similitudinem pompae. Hi succincti coronisque aureis redimiti suo quique ordine canentes psallentesque prodibant…Horum in medio quispiam talari veste fimbriis ac armillis auro splendentibus amictus gestus varios edebat: hostibusque devictis insultans risus undique ciebat Post thuris et odorum copia imperatorem circumsteterat: quem curru deaurato multifariamque notis refulgenti candidi vehebant equi auream capite gestantem coronam lapillis ornatam gemmisque. Hic vestem succinctus purpuream patrio more aureis intextam syderibus altera manu eburneum sceptrum: altera laurum praeferebat: quem Romani victoriae insignae profitentur Vehebantur et cu meo pueri virginesque: et ad habenas hinc inde cognati iuvenes: demum qui exercitum secuti fuerant scriptores: ministri: scutiferive: postremo exercitus in turmas aciesque divisus currum sequebatur. Milites quoque lauro redimiti laurum manu ferentes, quibus meritorum insignia adiuncta aderant quae primores hos quidem laudibus ferrent: hos salibus insectarentur non nullos infamia notarent Ascenditque Capitolium ad lumina quadraginta elephantis dextra sinistraque lychnuchos gestantibus Pontico triumpho inter pompae fercula trium verborum praetulit titulum VENI. VIDI. VICI. De re militari, liber XII (traduzione in volgare di Paolo Ramusio) «DE LI TRIVPHI COME FACTI SIANO ET DONDE IL SVO NOME HABIA LA DERIVATIONE. […] Il nome de esso triumpho è deriuato da questa dictione greca quale significa in latino exultatione. […] [Svetonio] Tranquillo excellentissimo in ogni cosa confirma questa dictione essere nominata da la inclinazione et origine latina perché quello il quale con il triumpho intraua ne la citade era honorato dal iudicio di tre parte: perché prima lo exercito era solito iudicare il triumpho quale doueua essere contribuito al capitano et da poi succedeva il giudizio dil senato: in ultimo il populo similmente il suo judicio p[ro]feriua: et maxime se faceua questo iudicio tripartito quando il dictatore ouero il consule ouero il pretore haueua fatto cose digne dil triumpho. Di la quale sententia et optima declaratione il testimonio di [Tito] Livio dicendo. […] (c. 285v) DE LI TROPHEI DONDE HABIANO IL SUO NOME ET IN QUALE COSA SIANO DIFFERENCIATI DA LI TRIUMPHI Ca. I […] Era dicto triumphante il quale secondo la legie triumphale facta molta cede [massacro] de inimici menaua la pompa martia et terrifica così quello se dimandaua tropheo quando li inimici erano sta[ti] messi in fuga. […] (c. 286r) LE INSEGNIE ET ORNAMENTI DE LI TRIUMPHATORI Ca. IIII […] Anchora li triumphatori in quello altissimo carro erano aduisati da uno quale li staseua de drieto che douesero aricordare loro essere homini et diceua drieto posito: o imperatore guardate de drieto et aricordate che tu sei ho[mo] […] che a quelli era opportuno et necessario admonirli di la sua conditione cioè che erano homeni per questa rasone la corona li e sustenuta di drieto sopra il capo et in lo digito gli era posto uno anello di ferro per anotare così la fortuna dil triumphante […] era concesso a quelli che triumphaueno uerstirse la uesta solenne cioè la toga palmata la quale a niuno altro era libertade de portare […] il quale ornamento se deueua acquistare cum la virtude. […] (c. 289r) Dice Plutarco: Me piace la palma essere signo di la uictoria acquistata in qualche pugna et concertazione: perché questo ligno è ingenuo cioè nobile et non se lassa uincere ad alcuna grauecia et da questa rasone è sta[to] referito gli rami di la palma essere sta[ti] portati in li triumphi da li imperatori. La consuetudine de tenire in mane il ramo di lauro et ornare il capo con la corona laurea […] non nacque […] perché intra li nimici armati dimonstra fusse signo de quiete […] perché perpetuamente seruì il suo vigore: ne etiam perché sia pacifera […] ni anco perché fusse in consuetudine reponerla in lo gremio di Ioue optimo et maximo. […] Perché sola de le altre arbore non è mai fulminata per queste cause io credo dicta arbore essere hauuta in magno honore in li triumphi. […]» (c. 289v) Confronto tra l’antica e la nuova Roma (traduzione di Guido Cortassa) §7 «[…] A Roma fanno mostra di sé […] §9 monumenti dedicati a spese pubbliche a quegli antichi personaggi illustri che con la loro opera arrecarono qualche beneficio alla città, trofei ed archi, eletti a ricordo di quei trionfi con le loro sfilate solenni, scolpiti con le immagini stesse delle guerre, dei prigionieri, del bottino, degli assedi. §10 E ancora, è possibile vedervi scolpiti le vittime sacrificali, i sacrifici, gli altari, i doni votivi, le battaglie navali, gli scontri dei fanti e dei cavalieri e si può dire ogni genere di battaglie, di macchine da guerra e di armi, e i sovrani sottomessi, siano essi Medi o Persiani o Iberi o Celti o Assiri, ciascuno con la propria veste, i popoli resi schiavi, i generali che su di essi celebrano il trionfo, i carri da guerra, le quadrighe, gli aurighi, i pretoriani, i centurioni che li seguivano e le spoglie che li precedevano. E tutto questo è possibile cogliere nelle rappresentazioni come se si trattasse di realtà viva, così come risulta perfettamente comprensibile ogni singolo particolare grazie alle iscrizioni che vi sono incise, al punto che si può vedere con chiarezza quali armi e quali vesti erano in uso nei tempi antichi, quali segni distintivi delle cariche, com’erano gli schieramenti, le battaglie, gli assedi, gli accampamenti, quali erano i costumi e le vesti, durante le spedizioni militari come in pace […] tutto secondo i diversi usi dei vari popoli. Per averne illustrati alcuni, si ritiene che Erodoto e altri storici ci abbiano reso un utile servizio, ma in queste opere è possibile vedere tutto, come se si vivesse davvero in quei tempi e tra i diversi popoli, tanto che sono una sorta di storiografia che tutto definisce in modo semplice, anzi, non un opera storica, ma vorrei dire quasi la visione diretta e la presenza effettiva di tutta la vita che a quei tempi si svolgeva in ogni luogo. §11 Veramente l’arte di tali imitazioni contende ed entra in competizione con la realtà, al punto che si ha l’impressione di vedere un uomo o un cavallo o una città o un esercito intero, o una corazza o una spada o un’armatura completa, uomini catturati o in fuga, che ridono, piangono, che appaiono sconvolti o in preda all’ira e su tutte queste scene si leggono lettere maiuscole che dicono: Il senato e il popolo romano a Giulio Cesare – per esempio – o a Tito, o a Vespasiano, per la loro virtù e il loro valore, per aver sconfitto questo o quell’altro o protetto la patria o respinto i barbari”, o menzionano qualche altro motivo di lode di questo genere. […] §59 Se, contemplando queste cose, si pensa alla supremazia di Roma, alla sua potenza, al valore di quegli uomini, alle loro imprese e all’impegno che vi hanno profuso, e poi si considera che fine ha fatto tutto ciò, tanto che non solo essi, ma anche la loro potenza, la loro supremazia e le loro stesse città sono quasi morte – perché muoiono, come dice qualcuno da qualche parte, anche le città -, quale valore si potrà mai attribuire alle opere degli uomini? Come sarà ancora possibile esaltarsi nella buona sorte o abbattersi nella sfortuna? Di che cosa si potrà andare orgogliosi? Quale delle cose umane potrà, insomma, meritare ancora il nostro apprezzamento? §60 Spesso, percorrendo questi viali trionfali, penso ai potenti o ai principi che vi furono condotti e agli altri prigionieri, Armeni, Persiani o altri che si erano ribellati. Penso ai generali che celebrarono il trionfo su di essi, all’esultanza che avevano in cuore e allo stato d’animo degli sconfitti. Penso alla folla della città che li circondava e si riversava su di essi, a quelli che li guardavano dall’alto, dalle case, alla sinfonia degli strumenti, al clamore, alle acclamazioni, agli applausi, al piacere dei vincitori per il successo conseguito in un paese pur così lontano e al dolore dei vinti e dei loro parenti in patria per la sconfitta e per una tal pompa, alla differenza che divideva i loro destini, infelicissimo e miserabile quello degli sconfitti ai loro occhi come a quelli degli altri, felice e fortunato quello dei trionfatori […]». Appendice II – Apparato iconografico essenziale Per un esauriente apparato iconografico, nonché per un catalogo completo dei dipinti, si rimanda a Martindale, op. cit., pagg. 121-189 e da pag. 199. Tela I: Buccinatori, trombettieri e portatori di insegne, vessilli e rappresentazioni di città vinte Tela II: Statue colossali su carri, portatori di idoli, tabelle, trofei e macchine belliche. Tela III: Portatori di trofei militari, armi, vasellame d’argento con monete. Tela IV: Portatori di vasellame con monete, vaso d’alabastro, vittimari, tori sacrificali e trombettieri. Tela V: Trombettieri, vittimari, toro sacrificale, conduttori di elefanti, portatori di bracieri. Tela VI: Portatori di monete, vasellame e gioielli, trofei militari con scudi, corazze, elmi e corone. Tela VII: Prigionieri, buffoni, soldati e spettatori. Tela VIII: Musici, portatori di insegne e busti femminili con corone urbiche. Tela IX: Giulio Cesare sul carro trionfale. Incisione da un disegno preparatorio per la Tela X: I Senatori [Segretari, scrittori e soldati con scudi] Vienna, Graphische Sammlung Albertina. ALESSANDRO BIELLA S. G. S. S., CLASSE DI SCIENZE MORALI – ANNO I A. A. 2013-14 30