MONDOFOTO
Ranibandh (India) 1995-97. Piccolo album etnografico
Foto e testi di Pier Giorgio Solinas
Università degli Studi di Siena
DOI: 10.23814/ethn.13.17.sol
Pier Giorgio Solinas
INTRODUZIONE
Da anni conservo nel mio studio, nel mio computer, molte centinaia di foto, foto indiane,
foto di campo che affiancano le tante pagine di appunti, memorie e resoconti, tutti
inediti, che raccontano le mie esperienze di ricerca in India. Molte di queste immagini
sono nate come diapositive, su pellicola, a colori e in bianco e nero, che via via ho fatto
sviluppare e stampare in diversi formati. Non sono foto professionali, naturalmente;
perlopiù sono state fatte per cogliere sul momento quello che accadeva, ciò che vedevo.
Quelle che ho scelto per Ethnorêma risalgono a più di venti anni fa, tra il 1995 e il 1997.
In quel periodo conducevo frequenti campagne di ricerca nelle campagne del Bengala
Occidentale (in realtà molto più a lungo, dal principio degli anni Novanta fino al 20042005) quasi sempre intorno al piccolo centro di Ranibandh – Police Station e Block
Development – nel Distretto di Bankura.
Mi occupavo soprattutto di adivasi, i “tribali” di etnia Santal che popolavano
quell’area, come buona parte dei distretti di Purulia, Mednipur e Bankura. Due o tre
villaggi soprattutto, Garra, Dolui Basa, Raja Kata erano all’epoca i luoghi principali
delle mie inchieste. Le immagini che scorrono in questo piccolo inserto provengono
appunto da lì.
Con il termine adivasi, bisogna spiegare, si usa designare in generale i gruppi etnici
non hindu, che si suppone abitassero gli spazi del subcontinente prima della
colonizzazione arya e del dominio della società di casta. Santal in questo caso,
anticamente detti Kerwar, di lingua Munda e di religione animista: termine certo frusto,
ma difficile da sostituire. In realtà il complesso religioso e rituale al quale tuttora i Santal
restano fedeli si basa su motivi simbolici molto peculiari, e su pratiche rituali che
prevedono insieme il culto degli antenati e quello di un pantheon ben definito di entità
supreme, ultraterrene e provvide, di cui il bosco sacro, il jaher, rappresenta la dimora
sacra, il santuario riservato e segreto. Divinità senza volto, alle quali ci si rivolge con
una preghiera silenziosa, con l’offerta di sacrifici cruenti, soprattutto capre, maiali, polli,
ma cui non di rado si offrono vittime più grandi, come il bufalo e perfino, con grande
sdegno dei vicini hindu, bovini.
I rituali di protezione e di culto per le divinità del territorio, i Bonga, sono compito
specifico del Naeke che spesso si apparta al limite degli spazi coltivati, fra le stoppie
dei campi di riso, per offrire sacrifici e rivolgere alle divinità dei confini preghiere e
scongiuri. Il riso, la coltura dominante in tutta la regione, sia fra i “tribali” che fra gli
hindu di casta inferiore (Mahato, Tanti, Saddar, Hari, etc) è insieme alimento di base,
mezzo di scambio e salario per il lavoro dei braccianti e delle braccianti.
Ancora all’epoca in cui io svolgevo le mie ricerche, buoi, bufali e uomini erano le
fonti di energia e i mezzi di lavoro dominanti per il trasporto, l’aratura, la mietitura, la
trebbiatura: nessun trattore, nessuna trebbiatrice, poche pompe a motore e nessuna
elettricità, così come nessuna farmacia, nessun dispensario di medicinali, nessun
acquedotto, nessuna latrina…
Il pukur, il bacino artificiale che serve da riserva d’acqua è il luogo in cui ci si lava,
si fa il bucato, mentre per l’acqua potabile ci si serve dei pozzi.
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Sulle rive dei fiumi e dei laghetti che le piogge monsoniche alimentano regolarmente
si abbeverano gli animali, si strigliano i bufali, si fa il bucato. Sulle sponde del pukur,
o, più spesso, d’un fiume vicino, si usa bruciare i corpi dei defunti, pratica questa che
sembra aver rimpiazzato il costume più antico dell’inumazione. Qui si affaccia il mondo
dei morti, o meglio, qui si indirizzano i rituali di commiato ai morti, dopo la cremazione.
Agli spiriti dei defunti, destinati a diventare bonga, antenati disincarnati, custodi della
morale ordinaria, si offrono sacrifici in diverse occasioni, nel corso dell’anno. Il nuovo
genero, subito dopo le nozze, offrirà una pecora agli antenati della famiglia della sposa,
assistito dal suocero e dai suoi parenti di lignaggio (bos, gustì). Così pure, un’offerta di
ringraziamento è dovuta all’altare dell’ojhia (guaritore o sciamano) quando un malato
che ha ricevuto il beneficio della guarigione scioglierà la promessa fatta al momento
della richiesta di aiuto. Molti guaritori, aspiranti guaritori, o semplicemente persone
comuni che sostengono di possedere poteri e capacità di questo genere, offrono il loro
servizio a chi ne ha bisogno.
L’ojhia, il naeke, il sacerdote dei confini ed altre figure minori di operatori magicoreligiosi si occupano degli affari dell’aldilà, degli antenati, delle aggressioni malefiche,
delle divinità della foresta e di quelle domestiche. Le funzioni laiche e politiche sono
competenza esclusiva del manjhi, il capo del villaggio e dei suoi consiglieri e assistenti.
I Santal hanno un senso molto forte della loro identità, una lingua ricca e densa di
sfumature, una morale austera e un profondo senso della dignità personale e
dell’autorità. Da molti anni si battono per ottenere dallo stato una completa autonomia
politica e culturale. Insieme ad altri gruppi non hindu e alle caste più discriminate, hanno
dato vita ad un loro stato, il Jharkhand, nel quale la cultura degli adivasi è riconosciuta
e valorizzata. In realtà, il loro territorio, se pure esiste, non esclude, anzi è infiltrato ed
infiltra spazi e genti che sono considerati “stranieri” (deko): perlopiù bengalesi, sia
hindu che islamici, e molte diverse caste, come pure ex-adivasi induizzati.
La rassegna visiva che propongo dà un’idea molto sommaria della vita sociale e
rituale nella dimensione quotidiana, domestica e pubblica. Le poche righe di commento
che accompagnano le immagini possono aiutare, spero, ad ambientare le occasioni, gli
eventi, che qui appaiono immobilizzati in un presente perduto, che nondimeno resta per
me prezioso.
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Il villaggio. Dolui Basa, Garra, agglomerati di qualche decina di case ciascuno a maggioranza di popolazione adivasi.
Da qui provengono quasi tutte le immagini di questa selezione. Circondati da campi di riso, orti, aie, guardano verso la
foresta, non lontana. Si raggiungono per viottoli e piste terrose, o sabbiose, perlopiù in bicicletta (rarissimi i mezzi a
motore che si spingono fino a qui).
Il villaggio ha un suo pukur (un bacino d’acqua piovana che serve da riserva per la stagione secca), un boschetto sacro,
un altare centrale, dentro o accanto alla casa del capo, il pozzo, la fucina del fabbro (karmakar) e raramente una minuscola
bottega. Ogni villaggio è diviso in tre o quattro frazioni, generalmente occupate da un lignaggio prevalente.
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La corte, in terra battuta impastata con sterco di vacca e paglia, è come una camera all’aria aperta che fa da fulcro
vitale per la famiglia. Qui si mangia, ci si lava, si stende il riso a seccare al sole, si mantengono polii e piccioni,
si celebrano le cerimonie più importanti, si ricevono gli ospiti.
Intorno si affacciano la stalla, le camere, il deposito del riso, gli attrezzi da lavoro. La vita della famiglia ruota
intorno alla cucina, agli animali, all’altare. I muri, il pavimento, lo zoccolo che sorregge i pali delle strette logge
intorno alla corte sono fatti di fango. Spetta alle donne impastare, lisciare le pareti, decorarle.
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Il letto di corda, i cesti, la paglia ingombrano lo spazio della corte. I materiali dei pochi arredi domestici e degli
attrezzi sono quelli che si trovano nella foresta e sui campi: legno, fibre vegetali, terracotta… Il metallo non compare
se non negli utensili manuali: falci, zappe, vomeri, coltelli e lame da cucina. I carri, trainati dai buoi o dai bufali
conservano in gran parte le ruote di legno, e di legno sono fatti gli aratri, i gioghi. I mobili si riducono a pochissimi
elementi: il letto dove si dorme, di notte e nel pomeriggio, e dove si fanno sedere i visitatori e gli ospiti.
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La trebbiatura del riso: la sgranatrice a pedali è l’unica macchina agricola (se così si può chiamare), che tuttavia
non ha rimpiazzato il vecchio sistema di battitura a mano, che si fa a forza di braccia, percuotendo i mannelli
di paddy su una grossa lastra inclinata.
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Il salario. Le braccianti, a turno, ricevono la loro paga settimanale, in riso, nel cortile della casa del padrone.
Un inserviente misura la quantità di paddy che spetta alla lavorante e la versa, pai dopo pai, (il pai è una misura
standard, di un litro circa) nel sacco che conterrà la retribuzione del lavoro prestato.
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Il saluto: all’arrivo dell’ospite si intona un canto di accoglienza in versi. I Santal seguono un’etichetta molto
formale nelle visite, nell’ospitalità, nel saluto, così come negli inviti da mandare ai parenti in occasione di una
festa, di un matrimonio, di una cerimonia di conferimento del nome al nuovo nato.
Una benedizione con sacrificio. Un contadino di casta Mahato (non adivasi quindi) si accinge a sacrificare
qualche pulcino per benedire la sua stalla, gli animali e gli attrezzi (gli aratri).
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Offerte e sacrifici per guarigione ricevuta. Un uomo ha ottenuto una grazia, è guarito da una malattia che lo
tormentava. Aveva promesso il sacrificio di offrire un gallo rosso allo spirito protettore del guaritore. Ora scioglie il
voto: a casa del suo benefattore offre il sacrificio, insieme a una bottiglia di mohua e ad altri oggetti. Il vino, distillato
dai fiori seccati della pianta di mohua) ha un ruolo fondamentale nella religione Santal.
Al sacerdote Santal, il Naeke, sono riservate le funzioni rituali più importanti, per l’intera comunità. È lui che provvede
alla cura del santuario silvestre, il Jaher, che inaugura la principale festa dell’anno, Sohrae porob, come pure la festa del
bestiame, la festa del Karam porob, ed altre occasioni solenni. È lui che compie i sacrifici necessari alla protezione dei
confini, che presiede ai matrimoni, al conferimento del nome al nuovo nato, assiste alle funzioni funerarie.
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Durgas, manjii e naeke di Dolui Basa. Personaggio centrale nella vita e nella storia recente del villaggio:
l’unione delle due cariche, quella religiosa (sacerdote, naeke) e quella civile (manji, capo villaggio) non è
frequente nella cultura adivasi. Durgas ha dovuto far fronte all’ostilità di una fazione avversa che lo ha costretto
a lasciare una delle due cariche, per ragioni di integrità rituale.
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L’Ojha, lo sciamano, è lo specialista dell’invisibile, sia esso benefico o malefico. Le sue cure prevedono molti
diversi metodi di intervento sulle forze occulte che minacciano la vita e la salute dei suoi assistiti. Oltre che
guaritore e veggente, è la guida del culto iniziatico del dasae porob, che periodicamente prevede pellegrinaggi
iniziatici nel circondario del villaggio e sedute di transe.
Il rituale funerario prevede che, tre giorni dopo la morte e la cremazione, i parenti del defunto si rechino sulla riva
del fiume per indirizzare all’anima del morto un’offerta votiva, simbolicamente deposta su una foglia galleggiante
che viene spinta dal naeke verso il largo. In precedenza una piccola reliquia, un frammento del cranio (jan baha),
raccolto dalle ceneri della cremazione, è stata affidata devotamente all’acqua del fiume.
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Il ritorno al nutrimento ordinario. Riuniti nel cortile della casa in lutto, i parenti del defunto (in questo caso
una defunta, la vecchia Budì Besra) vengono riammessi simbolicamente al cibo dopo il primo periodo di
digiuno.
Raj Kumar Hansdak’, il figlio (allora poco più che un bambino) del manjii di Garra, il capovillaggio.
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Chadi Kuttham. Qualche giorno dopo la celebrazione del matrimonio il nuovo sposo offre in sacrificio una pecora
all’altare degli antenati del suocero. La vittima viene immolata dal nuovo genero, assistito dal suocero e dai parenti;
il sangue viene raccolto in un recipiente che viene deposto alla base dell’altare come bevanda per gli antenati.
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