Aevum Antiquum N.S.16 (2016), pp. 105-129
Fausto Montana
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
Abstract: In the last decades, pioneering studies argued that the debt owed by Vergil
to the Homeric epic is not disjunct from a knowledge of the Hellenistic exegetical
tradition on the part of the Latin poet. In more recent times, the same kind of sophisticated relationship was explored for Horace and the Greek archaic lyrics as well
as for Ovid and Homer. In this paper, after a survey on the spread of the Greek literary culture and scholarship in Rome under Augustus, three study-cases are proposed
of possible Ovid’s reception of mythical traditions in the Metamorphoses under the
influence of the Alexandrian exegesis on Pindar.
1. Non serve spendere molte parole per ricordare, in premessa, cose ben poste
in luce negli studi: che l’autoellenizzazione culturale delle élites romane a partire dalla media età repubblicana riguardò tanto modelli poetici già in gran
parte canonici – Omero, Esiodo, la lirica, il teatro attico – quanto forme e
meccanismi della loro ricezione proprio allora nascenti o già in voga: mediazioni cólte come la glossografia, la critica testuale, l’esegesi mitografica e letteraria, la biografia; e che la visita di Cratete a Roma nel 168 a.C., la diaspora
di grammatikoi aristarchei per effetto della crisi dinastica alessandrina del 145
e infine l’acquisizione romana di Pergamo (e del suo patrimonio librario) nel
133, rappresentano lo spartiacque fra il prima e il dopo dell’arrivo e del radicamento della filologia professionale nella capitale1.
Si sa che esponenti di entrambi i rami più autorevoli della filologia ellenistica si affacciano nell’Urbs. Cratete e più tardi Asclepiade di Mirlea, attivo a Roma in età pompeiana, rappresentano la direttrice che potremmo
definire esegetico-allegorista, incentrata in modo del tutto prevalente sugli
studi omerici. La varia e ricca linfa alessandrina, fatta di studi glossografici,
mitografici, esegetici e critico-testuali, ha il suo tramite di irraggiamento dalla
capitale tolemaica in Dionisio Trace, l’allievo di Aristarco stabilitosi a Rodi;
1
Per le fonti e l’inquadramento storico-culturale di questi aspetti, e di altri menzionati oltre, nello
sviluppo della filologia in età ellenistica, mi permetto di rimandare a Montana 2015. Sulle figure di
eruditi greci citati in queste pagine si possono vedere anche i rispettivi profili raccolti nel Brill’s Lexicon
of Greek Grammarians of Antiquity (<http://referenceworks.brillonline.com/browse/lexicon-of-greekgrammarians-of-antiquity>).
106
FAUSTO MONTANA
questi la infonde in figure poi presenti e attive a Roma e rispondenti a nomi
come Tirannione di Amiso e Lucio Elio Stilone. Tirannione ha i connotati
della figura-chiave: introdotto negli ambienti che contano (sono documentati
suoi contatti con Cesare, Cicerone, Attico), è fra i protagonisti del recupero
degli scritti esoterici del Peripato ritrovati e portati a Roma da Silla. Peripato
e Museo, che il progresso degli studi mostra sempre più intrecciati, mutatis
mutandis, nel modello, nei fini e nei metodi, tornano a incontrarsi al termine
della parabola alessandrina, in un tardivo ma aperto e liberatorio abbraccio
(si dovrà ricordare che, a quanto risulta, i Tolomei non arrivarono a coronare
il sogno di acquisire gli scritti specialistici di Aristotele, cui pure dettero la
caccia). Il propiziatore e supervisore ottimale del felice connubio è Tirannione, un aristarcheo; sfondo dell’epocale evento: Roma. Sceneggiatura migliore
non era pensabile. Ora nessuno poteva più dubitare che Roma fosse la nuova
Alessandria e, per via transitiva e linea ereditaria, la nuova Atene.
Men che meno lo si poteva dubitare dopo Azio e l’acquisizione del regno d’Egitto (dunque di Alessandria, e della sua Biblioteca), quando gli Alessandrini si ritrovarono proiettati nei confini smisurati dell’ormai imminente
Principato2. Risulta naturale incontrare Tirannione implicato in una catena
emblematica di discussione filologica, incardinata su Roma e tesa fra l’età di
Cesare e quella di Tiberio: le comparazioni linguistiche del Latino con il Greco e le riflessioni sul Latino come lingua ellenica, praticate con esiti e fantasie
diversi da Filosseno (un altro Alessandrino), Tirannione appunto, il suo contemporaneo e conterraneo Ipsicrate di Amiso, e ancora Aristodemo di Nisa
(uno dei maestri di Strabone e grammaticus dei figli di Pompeo, ricordato per
l’infortunio di avere detto Omero nativo di Roma) e Didimo Claudio. Nella
città di Augusto operano Aristonico e, se non fisicamente almeno con la fama
e gli scritti, Didimo Calcentero: cioè i due eredi, interpreti e rinnovatori della filologia aristarchea nell’era post-tolemaica. Nell’età di Tiberio, la filologia
aristarchea ebbe voce entro le mura stesse della corte attraverso Seleuco, detto
l’Omerico.
Aristarco e gli aristarchei, si sa, voglion dire Omero ma anche molto di
più. Possiamo spingerci a dire: Omero e tutto il resto, cioè Esiodo, l’intero
canone della lirica e del teatro greco, più ormai a pieno titolo la poesia ellenistica (per tacere della prosa). È questa l’epoca non soltanto di Didimo che
i colleghi chiamano il bibliolathas, ma anche dell’altro prolifico studioso alessandrino, Teone – figlio d’arte, visto che a suo padre Artemidoro è attribuita
la costituzione di un corpus della poesia bucolica. Neppure di Teone consta
2
Si ricordi che, secondo Strabone (XIV 5, 15), μάλιστα δ᾽ ἡ Ῥώμη δύναται διδάσκειν τὸ
πλῆθος τῶν ἐκ τῆσδε τῆς πόλεως (scil. Ταρσοῦ) φιλολόγων· Ταρσέων γὰρ καὶ Ἀλεξανδρέων ἐστὶ
μεστή.
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
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positivamente che abbia vissuto a Roma, ma qui dovette riscuotere interesse
e gradimento presso maestri greci e poeti la sua vasta attività filologica, in
particolare quella più innovativa sulla grande poesia ellenistica (Callimaco,
Teocrito, Apollonio Rodio, il Nicandro dei Theriaca, l’Alessandra di Licofrone). Prima di Teone e di suo padre, anche Asclepiade di Mirlea, come già
ricordato sicuramente attivo a Roma, si era occupato del testo di Teocrito e,
forse, di Arato e Apollonio.
Oltre che persone, libri. Fra la seconda metà del II secolo a.C. e l’età
di Augusto, grammatikoi e maestri dovettero fare fronte alla domanda crescente di lettura di testi greci che veniva dai loro patroni, protettori e allievi
romani, molti dei quali in possesso di nutriti curricula formativi maturati nei
centri d’istruzione specializzati del mondo greco. A parte la disponibilità in
situ delle biblioteche di Pergamo e, più tardi, di Alessandria, anche a Roma
e nei dintorni della capitale erano reperibili patrimoni librari greci di buona
qualità testuale. Le informazioni sono state da tempo e ripetutamente censite:
dai cospicui bottini di libri accumulati nelle campagne d’Oriente da Lucio
Emilio Paolo, Silla, Lucullo3, alle biblioteche di soggetti privati come Attico
e Cicerone4, alla costituzione ex novo di cospicue biblioteche pubbliche latine
e greche, anzitutto quella di Asinio Pollione e poi le due volute da Augusto,
quella presso il portico di Ottavia non lontano dal Foro e quella al tempio di
Apollo sul Palatino5. Non disponiamo di dati precisi sulle quantità di libri
greci, tantomeno di cataloghi delle opere raccolte. Si deve tuttavia presumere
che vi si trovasse moltissimo, se Ovidio può affermare nei Tristia, per quanto
in via presumibilmente iperbolica, che al suo tempo nella Biblioteca Palatina
«tutto ciò che gli antichi e i moderni hanno concepito ǀǀ con animo cólto è a
completa diposizione di quanti desiderino leggerlo»6.
L’informazione collima con le notizie che indicano i decenni finali della
Repubblica come una stagione di pieno vigore delle officine librarie romane7.
È risaputo che tabernae librariae qualificate, come quella dei Sosii (editori di
Orazio)8, e l’attivismo editoriale di Tito Pomponio Attico (che Cicerone apo-
Più in particolare: la biblioteca reale di Macedonia dopo la vittoria di Lucio Emilio Paolo a
Pidna su Perseo (168 a.C.); la biblioteca di Apellicone di Teo (con gli scritti di Aristotele e Teofrasto)
portata a Roma da Silla dopo il sacco di Atene (86 a.C.); la biblioteca di Mitridate re del Ponto sconfitto
da Lucullo (66 a.C.). Cfr. Casson 2001, pp. 65-69.
4
Casson 2001, pp. 69-79.
5
Casson 2001, pp. 80-84; alle pp. 88-89, lo studioso osserva come le biblioteche romane, a differenza di quelle greche, fossero concepite come ampie sale di lettura, con gli scaffali dislocati alle pareti
tutto intorno, e come ciò dovesse favorire la frequentazione di scrittori, eruditi e maestri.
6
trist. III 1, 63-64 quaeque viri docto veteres cepere novique ǀǀ pectore, lecturis inspicienda patent.
7
Della vasta bibliografia su riproduzione e commercio librari nel mondo romano si possono
vedere, inter alia, Fedeli 19932; Blanck 2008; Bartocci 2009; White 2009; Caroli 2012; Cerami 2015.
8
Hor. epist. I 20, 1-2; ars 345. Sulla nozione giuridica ed economica di taberna libraria e sulla
3
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FAUSTO MONTANA
strofava come «l’Aristarco dei miei discorsi»)9 giocarono un ruolo propulsivo
nell’acquisizione, riproduzione e diffusione della letteratura greca, plausibilmente a partire da modelli librari di elevata qualità testuale e dunque putativamente nel solco del lavoro ecdotico ed esegetico alessandrino10. Possediamo
a questo proposito un piccolo nucleo di testimonianze che fanno riflettere
sulla vivacità della produzione di libri greci a Roma. Vorrei ricordarne brevemente alcune che, per la loro problematicità, in tempi recenti hanno riscosso
una specifica attenzione.
Il frammento di papiro P. Mil. Vogl. I 19 (MP3 1197; LDAB 242; TM
59147), da Tebtynis, riporta la subscriptio Ἀπολλοδώρ[ου]
| Ἀθηναίου |
̣
γραμματικ[οῦ]
| Ζητήματ[α] | γραμμ
ατικ
[ὰ]
̣ | [ε]ἰ ς̣ τ[ὴν] ξ´ | τῆς Ἰ[λ]ιάδος
̣
̣
̣
| Σωσύου, «Ricerche grammaticali del grammatico Apollodoro di Atene sul
libro XIV dell’Iliade, di Sosia/Sosio». Il genitivo Σωσύου è stato inteso come
Σοσίου, in riferimento all’editore del volumen e dunque all’officina libraria
dei Sosii11. L’editor princeps del papiro, Achille Vogliano, datava il manufatto
al II secolo d.C., mentre di recente Guglielmo Cavallo ha proposto di arretrare la datazione all’età giulio-claudia12. Se queste interpretazioni colgono nel
giusto, ne ricaviamo che nel Fayum della prima età imperiale circolava un’edizione del syngramma sull’Iliade composto molto tempo prima da Apollodoro,
allievo di Aristarco, in una veste editoriale uscita dalla taberna libraria dei
Sosii – probabilmente una copia, nell’ipotesi cronologica di Vogliano; forse
proprio un manufatto prodotto nell’officina romana, in quella di Cavallo.
Galeno e Valerio Arpocrazione testimoniano l’esistenza di copie o edizioni
rispettivamente di opere di Platone e di orazioni di Demostene ed Eschine,
dette Ἀττίκεια o Ἀττικιανά, che per lo più la critica ha riferito all’entourage
di Attico13. Ancora Galeno, nel ritrovato Περὶ ἀλυπίας (13), nell’elenco assai
sommario di libri andati distrutti nell’anno 192 a Roma nell’incendio di biblioteche e depositi librari del Palatino, ricorda che il nucleo più pregiato di quel
patrimonio consisteva sia in «libri rari e non conservati in nessun altro posto»,
sia in libri «mediamente noti ma che sono apprezzati per il rigore testuale»,
terminologia tecnica connessa con l’attività editoriale a Roma a partire dall’età ciceroniana vd. Cerami
2015.
9
Cic. Att. I 14, 3. Sul tema di Attico editore, molto discusso soprattutto in relazione al carattere
eonomico-imprenditoriale di questa attività, vd. e.g. Fedeli 19932, pp. 355-356; Dortmund 2001; Cerami 2015, pp. 22-26.
10
Per esempio, Cicerone chiede ad Attico copie di scritti di Dicearco (Att. XIII 31, 2 e 32, 2) ed
esprime al fratello Quinto il proposito di parlare con Tirannione allo scopo di procacciarsi libri greci
(Quint. III 4, 5). Sul valore dell’epistolario ciceroniano come testimonianza della diffusione della filologia greca a Roma è tornato di recente Jolivet 2010a.
11
Fra gli altri, Erbse 1969-1988, I, p. XL; III, pp. 557-558; Cavallo 2013.
12
Vogliano 1937; Cavallo 2013.
13
E.g. Irigoin 1994, pp. 59-60.
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
109
e cioè «gli esemplari Callinii, Atticii (Ἀττικιανά), Peducei, nonché quelli di
Aristarco, quali sono i due Omeri, il Platone di Panezio, e molti altri di questo
genere ecc.». Ci si è chiesti, e si discute, se questi perduti Ἀττικιανά, copie di
testi greci particolarmente pregiate per la qualità testuale, fossero esemplari riconducibili all’attività culturale e libraria di Tito Pomponio Attico14, o se invece
la denominazione faccia riferimento al copista Attico, citato da Luciano come
una celebrità del settore insieme al collega Callino15. Comunque stiano esattamente le cose, e a prescindere dall’epoca di realizzazione delle copie menzionate
da Galeno e Arpocrazione, è sensato leggere queste testimonianze nel segno
della continuità con la vivace riproduzione di opere greche da parte di librerie
editrici, sviluppatasi a Roma a partire dalla tarda età repubblicana16.
Possiamo concludere questa panoramica introduttiva rilevando come
l’avvento di Augusto, con il coronamento del ruolo imperiale di Roma nel
Mediterraneo, cadesse in modo fatidico e propizio nel momento in cui la
filologia alessandrina, toccato e superato il suo apice, era in una fase ancora
matura ma già declinante. Eredi ed epigoni militanti da un lato continuavano a sfruttarne le vene ancora attive e ne disseminavano contenuti e metodi;
dall’altro, si dettero a tesaurizzarne i traguardi, indotti plausibilmente da una
domanda culturale rinnovata e crescente sotto lo sguardo e l’ala protettiva del
princeps. Le condizioni erano ottimali per il traghettamento e il rilancio di
quei saperi in una nuova Alessandria e nuova Atene. Patrimoni librari cospicui incamerati come spettacolari bottini di guerra, tabernae librariae e nuove
biblioteche seguirono e sospinsero l’onda. L’élite intellettuale romana si trovò
allora in una condizione ideale e invidiabile: godere di una disponibilità di
opere letterarie greche prima mai vista – e forse mai più eguagliata sulla sponda settentrionale del Mediterraneo – per quantità, qualità testuale, ricchezza
del bagaglio critico ed esegetico.
2. Svariati studi hanno cercato indizi della disponibilità di filologia ellenistica
nelle mani dei poeti dell’età augustea. Fra i più rinomati e autorevoli sono
quelli sull’omeristica alessandrina e la poesia di Virgilio condotti da Schlunk,
E.g. Jouanna 2010, pp. 50-51; Garofalo 2012, p. 12; Vegetti 2013, p. 288.
Luciano, Contro un bibliomane ignorante 2 e 24. Per la discussione e la bibliografia rimando
a Dorandi 2010, p. 166 e Cavallo 2013, pp. 8-11, che è propenso a collocare l’attività dei due librarii
nella Roma della prima età imperiale.
16
Fra le possibili testimonianze della ricezione romana della lirica greca nella prima età imperiale,
Antonietta Porro mi ricorda P. Oxy. LXXIII 4952 (MP3 135.11; LDAB = TM 117831), del III secolo
d.C., frammenti di un hypomnema ai trimetri di Archiloco (Archilochus 4 CLGP: ed. e commento Porro
2011, pp. 173-182). Il fr. 2 conserva la sottoscrizione, che al r. 1, purtroppo lacunoso, riportava il nome dell’autore del commento, ]οϲτομ̣[ . Le ipotesi di restituzione comprendono nomi latini come Π]
οϲτόμ̣[ου o Π]οϲτομ̣[ίου (Guido Bastianini) oppure Π]οϲτομ̣[ιανοῦ (Antonietta Porro, al cui citato
commento ad l. rimando, pp. 180-181).
14
15
110
FAUSTO MONTANA
Schmit-Neuerburg e Jolivet17. Altri si sono rivolti a campionare le influenze
della lirica greca arcaica sulla poesia oraziana, scandagliando le tracce della
mediazione filologica alessandrina18. Jolivet ha anche esplorato possibili influenze dell’omeristica degli Alessandrini su Ovidio19. Nel saggio del 2014, in
un paragrafo introduttivo dedicato a inquadrare le fonti, lo studioso francese
si spinge ad affermare:
Il est ainsi vraisemblable que les commentaires homériques dont disposaient les
lettrés latins de l’époque de Virgile ou d’Ovide ne différaient pas sensiblement,
quant à leur nature, des scholies qui nous sont parvenues. Ils étaient toutefois
sans doute plus complets20.
La questione sembra in effetti un po’ più complessa. Per quanto si è detto,
non è azzardato aspettarsi che i docti della Roma augustea chiedessero ai fornitori librari di procurare loro, fra l’altro, la gran parte degli strumenti prodotti dalla filologia ellenistica, come edizioni, commenti, scritti monografici
su questioni critiche particolari, glossari alfabetici d’autore, onomastici21. Ma,
anzitutto e prioritariamente, ekdoseis: edizioni dei testi contrassegnate dal nome del grammatikos responsabile della diorthosis (l’emendatio testuale) e corredati della semiotica critica che rimandava ad argomentazioni svolte dall’editore in un apposito hypomnema, il commentario scritto su un rotolo separato.
La convenienza assoluta per il maestro greco o il poeta dotto a Roma di accostarsi preferibilmente a edizioni alessandrine appare evidente, se si considera
che il target fondamentale dei grammatikoi ellenistici era stato la costituzione
di un testo univoco a fronte della varietà anarchica e selvaggia degli esemplari
confluiti da ogni dove nella Biblioteca tolemaica. Il caso di Omero è ancora
una volta istruttivo: è noto che i papiri dei poemi provenienti dall’Egitto e
databili a partire dalla metà del II secolo a.C. mostrano una uniformità prima
sconosciuta nel numero dei versi, effetto evidente del lavoro svolto dagli eruditi del Museo intorno al problema nodale dell’ampia fluttuazione del testo22.
17
Schlunk 1967 e 1974; Schmit-Neuerburg 1999; Jolivet 2010b, 2014 e 2016; cui si può aggiungere almeno Lausberg 1983. Come rimarcato da Wilson 1976, p. 716, già Heinze 1903 indagava
marginalmente sulle fonti erudite e antiquarie dell’epos virgiliano.
18
In particolare Cucchiarelli 2004 e 2005 (Alceo); Bitto 2012 (Pindaro), con utile disamina e
bibliografia della tematica generale alle pp. 40-41.
19
Jolivet 2001 (specialmente pp. 225-229), 2014 e 2016. Precedenti a me noti sono von Albrecht
1980 e Lausberg 1982, pp. 117-123 (cfr. Lausberg 1981, pp. 189-190).
20
Jolivet 2014, p. 15.
21
Tralascio l’ambito della critica letteraria e stilistica e dei dibattiti connessi, che toccano più
strettamente la ricezione della tradizione letteraria greca in funzione della composizione di discorsi (per
esempio con Dionigi di Alicarnasso, Cecilio di Calatte, il trattato Sul sublime).
22
West 1967; cfr. Pfeiffer 1968, pp. 109-110 e 215; Nagy 1996, pp. 187-206; Haslam 1997, pp.
64-69 e 84-87; West 1998-2000, I, p. VII.
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
111
Possiamo presumere che voler leggere seriamente o professionalmente Omero
nella Roma augustea comportasse di procurarsi copie dei poemi su cui fosse
apposto il sigillo alessandrino e, come ausilio complementare, i relativi commentari in cui erano registrati i problemi testuali ed esegetici e le connesse
ipotesi e risposte. Leggere Omero con gli occhi, gli interrogativi e le soluzioni
di Aristarco di Samotracia fu reso possibile, a partire dall’età di Augusto, dalle
imponenti sintesi e sistemazioni esegetiche composte da Didimo e da Aristonico23. Se queste sintesi furono realizzate, vuol dire che si aveva nozione,
alta considerazione e curiosità dell’ekdosis e dell’esegesi aristarchea di Omero.
Disponiamo di almeno un esempio della circolazione (e dunque della domanda) di omeristica alla maniera aristarchea nell’Egitto appena pre-romano,
P. Oxy. VIII 1086 (MP3 1173, LDAB 2287, TM 61148), frammento di un
hypomnema a Il. II 751-827 risalente a un’epoca posteriore ad Aristarco e probabilmente un poco anteriore ai due Alessandrini24. Mi spingerei a desumere
che le operazioni di razionalizzazione della filologia omerica complessa e altamente specializzata di Aristarco condotte da Didimo e da Aristonico possano
avere avuto fra i loro moventi proprio la rinnovata domanda di questo tipo
di sapere proveniente non tanto o non più dall’ambiente alessandrino, ma da
cerchie cólte di Roma.
Considerazioni in parte analoghe si possono fare per la lettura dei lirici
greci e del teatro attico. Come orientarsi nella vastissima produzione lirica,
che prima dell’età alessandrina non conosceva e non praticava la poetica del
liber ma si sostanziava di una miriade di componimenti d’occasione tenuti
insieme soltanto dal nome dei rispettivi autori? Le edizioni alessandrine, oltre che per la qualità della cura testuale e per l’esegesi connessa, erano appetibili al lettore cólto della tarda Repubblica e del Principato perché offrivano
un’impagabile mediazione: assicuravano criteri razionali di raccolta, ordinamento e distribuzione dei componimenti in volumina separati di conveniente lunghezza. Per esempio, notoriamente il criterio editoriale era la metrica
per i primi tre libri dell’edizione di Saffo, l’argomento dei canti per Alceo, la
destinazione per gli epinici di Pindaro. E come leggere le opere drammatiche
23
Si discute sul metodo dei due epigoni di Aristarco: se e quanto, cioè, utilizzassero come fonte
delle loro ricostruzioni ekdoseis e hypomnemata aristarchei e altre opere degli allievi di Aristarco (per
esempio Ammonio Alessandrino). Per una recente rassegna e discussione delle posizioni critiche vd.
Schironi 2015.
24
Volumina della prima età imperiale contenenti interventi critico-testuali ed esegetici di marca
cólta e filologica (anche aristarchea) sono il papiro dell’Odissea P. Lond. Lit. 30 (Brit. Lib. inv. 271) + P.
Vindob. inv. G 26746+26754-26760 (MP3 1039, LDAB 1382, TM 60262), del I secolo d.C. (Od. III
267-496 con marginalia), e l’Iliade ‘di Hawara’, P. Bodl. Libr. Ms. Gr. class. a. 1 (P) (MP3 616, LDAB
1695, TM 60571), del II secolo d.C. (frammenti dei versi finali del libro I e di tutto il libro II, con
marginalia e titolo finale del libro II): su entrambi vd. McNamee 2007, rispettivamente pp. 276 ss. e
pp. 269 ss.
112
FAUSTO MONTANA
in assenza del sigillo apposto dai filologi sulla loro autenticità e la loro correttezza testuale? O facendo a meno del layout colometrico restituito per la prima volta da Aristofane di Bisanzio? O, ancora, esulando dalle informazioni
didascaliche su cronologia, allestimenti scenici, esito degli agoni, che fungevano da sussidio erudito preliminare alla lettura del testo? Per il teatro come
per la lirica, le edizioni di Aristofane di Bisanzio dovettero rappresentare il
punto di riferimento essenziale, l’obbligato terminus post quem ecdotico, a
Roma come già nell’Egitto ellenistico. Anche in questo campo, la ricezione
romana delle complesse discussioni e degli articolati risultati della filologia
alessandrina fu favorita dalle raccolte e sistemazioni realizzate in hypomnemata e syngrammata da Didimo, Aristonico e Teone25. Di quest’ultimo è documentata emblematicamente un’edizione degli Ichneutae di Sofocle, spesso
citata per varianti testuali nelle note marginali di un papiro di Ossirinco
contenente frammenti del dramma (IX 1174, fr. 314 Radt). Anche la compilazione di lessici speciali di ambito teatrale da parte di Teone e di Didimo
è confacente a un forte impulso di fruizione e decodifica puntuale dei testi.
Insomma, che queste figure abbiano svolto il ruolo cruciale di facilitatori e
traghettatori, nel frangente storico dell’acquisizione romana dell’Egitto e di
Alessandria, appare innegabile.
Al di là di queste informazioni e inferenze generali, non sappiamo, e
soltanto analisi puntuali possono aiutarci a capire, quali e quante specifiche
edizioni e commenti dei modelli greci fossero note e accessibili ai poeti augustei, direttamente oppure attraverso le mediazioni appena ricordate. Per
farsi un’idea del problema, a titolo di esempio si può rappresentare come un
diagramma la ‘diadoche’ della filologia alessandrina su Pindaro, cioè l’albero
complesso e ramificato, e tuttavia sicuramente difettivo, dell’attività ecdotica
ed esegetica svolta ad Alessandria sulle opere del poeta tebano, con evidenziazione della catena di relazioni maestro-allievo (fig. 1).
L’esempio illustra che una valutazione ponderata del fenomeno richiederebbe di conoscere l’entità del patrimonio filologico effettivamente posseduto dalle biblioteche di Roma, e se esso e quanto di esso fosse accessibile
ai singoli poeti. In mancanza di risposte a questi quesiti, dovremo guardarci da comode semplificazioni e dall’immaginare idealisticamente che tutti
quanti accedessero con la stessa facilità a tutto quanto. Per scendere nel
concreto, non è detto che Virgilio e Ovidio leggessero un’unica e identica
edizione commentata di Omero, né che durante tutte le loro rispettive car25
Didimo commentò la Teogonia di Esiodo, gli Epinici, i Peani e forse gli Inni di Pindaro, gli
Epinici di Bacchilide; fra i tragediografi, si occupò di Sofocle, Euripide, Ione e forse Acheo; fra i commediografi, di Aristofane, Cratino, Menandro e forse Eupoli. Teone lavorò su Alcmane, Stesicoro, Pindaro,
Sofocle (come detto nel testo), Epicarmo, Aristofane. Per dettagli e bibliografia su questa produzione
vd. Montana 2015, pp. 172-180.
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
113
riere poetiche abbiano avuto accesso a una sola edizione o a un solo commento, né dunque, in generale, che vi fosse una koine uniforme e statica
della ricezione cólta dei poeti greci.
III a/1
Zenodoto
III a/2
Aristofane di Bisanzio
II a/1
Aristarco di Samotracia, Callistrato
II a/2
Ammonio, Apollodoro, Cheride
I a/2
Teone, Didimo, Aristonico
fig. 1. La linea unita (——) indica il rapporto maestro-allievo, quella tratteggiata
(------) l’influenza indiretta.
Pertanto, dobbiamo tenere conto del fatto che alla fine dell’età ellenistica circolava una quantità di materiale filologico estremamente più ricca di quella
selezionata e amalgamata negli scolii medievali, che costituiscono la nostra
fonte privilegiata e spesso esclusiva di quel genere di produzione. Inoltre, a
parte l’aspetto quantitativo, ciò che differenziava la ‘biblioteca’ filologica dei
poeti augustei dai nostri scolii era un aspetto non esteriore né accessorio: la
circolazione separata e indipendente di una varietà di strumenti filologici;
e, accanto a questi, rielaborazioni e miscellanee, nelle quali erano raccolte
dossografie erudite sui singoli problemi critici (così dovevano apparire molti scritti compilativi di Didimo). La possibilità di stabilire confronti fra tesi
e scuole diverse e di muoversi e indagare a piacimento nei filoni del patrimonio esegetico doveva consentire ai singoli poeti di configurare percorsi di
informazione e formazione anche molto personali e differenti tra loro. A confronto, il genere della compilazione scoliastica, con cui possiamo e dobbiamo misurarci, rappresenta un canale univoco e obbligato per la fruizione di
parole e concetti selezionati, filtrati, riassunti, combinati, amalgamati insieme
e ordinati da altri. Se consideriamo la cosa da questo punto di vista, quando
tentiamo di reperire indizi dell’influenza della filologia ellenistica sui poeti
latini negli scolii a Omero o ad altri autori greci, dobbiamo essere consapevoli
che, ogniqualvolta riusciamo a individuare un nesso preciso, siamo stati baciati dalla buona sorte.
114
FAUSTO MONTANA
3. Per tutto ciò, non fa meraviglia che gli scolii omerici detengano la preponderanza negli studi moderni come terreno d’indagine dell’influenza della
filologia ellenistica sui poeti latini di età augustea (cfr. sopra, all’inizio del
§ 2). Le diverse classi conservate di scolii ai poemi di Omero, pur nella complessità della situazione tradizionale che le caratterizza e con cui dobbiamo
fare i conti, offrono una quantità di appigli ampiamente superiore a qualsiasi
altro settore dell’erudizione antica grazie alla loro varietà d’impostazione culturale e alla loro ricchezza d’informazione26. Questo è un buon motivo per
osare un approccio esplorativo in direzioni diverse e per avventurarsi in terreni limitrofi a quelli fin qui prevalentemente praticati dalla critica. Nei tre casi
che propongo in forma di zetemata mitografici27, si dà la fondata possibilità
di un rapporto fra passi delle Metamorfosi ovidiane e momenti dell’esegesi
ellenistica a Pindaro28. I primi due casi (3.1 e 3.2) concernono la relazione fra
scelte narrative di Ovidio e posizioni critiche di esegeti alessandrini di scuola
aristarchea esplicitamente citati negli scolii pindarici di tradizione medievale.
Il terzo caso (3.3) riguarda il rapporto fra un passo del poema ovidiano e una
spiegazione riferita in un frammento di hypomnema alle Pitiche di pedigree
alessandrino (Teone) trasmesso da un papiro.
3.1. Lo strangolamento dei serpenti inviati da Giunone da parte di Ercole bambino è da considerare una delle fatiche dell’eroe?
Nel racconto della lotta fra Ercole e Acheloo, nel libro IX delle Metamorfosi, Ovidio si procura la maniera di incastonare un riferimento analettico
all’episodio dello strangolamento dei serpenti da parte dell’eroe infante. Nel
disperato tentativo di sfuggire alla presa di Ercole, Acheloo si trasforma in un
serpente (vv. 62-69):
Inferior virtute meas devertor ad artes
elaborque viro longum formatus in anguem.
Qui postquam flexos sinuavi corpus in orbes
cumque fero movi linguam stridore bisulcam,
65
26
Per una descrizione delle classi di scolii all’Iliade e dei problemi tradizionali ed ecdotici connessi
vd. Montanari-Montana-Muratore-Pagani 2017, pp. 1-5; Montana, in stampa. Per la tradizione degli
scoli all’Odissea: Pontani 2005.
27
Prendo questo efficace espediente espositivo, che simula la strutturazione della riflessione peripatetica e alessandrina sulle opere poetiche in forma di problemata o zetemata, dagli studi di J.-Ch.
Jolivet riportati nella bibliografia.
28
La mediazione alessandrina del rapporto fra Ovidio e Pindaro è un terreno inesplorato. La
ricezione virgiliana di Pindaro attende altrettanto di essere indagata: Horsfall 1991, p. 48; Fiorentini
2007, p. 128 con la n. 8. Un fondamentale progresso sul rapporto di Orazio con Pindaro attraverso la
tradizione esegetica ellenistica (Lyrik als Philologie) è segnato dallo studio sistematico, già ricordato, di
Bitto 2012.
115
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
risit et inludens nostras Tirynthius artes
«Cunarum labor est angues superare mearum»
dixit, «et ut vincas alios, Acheloe, dracones,
pars quota Lernaeae serpens eris unus echidnae?».
Avendo forze inferiori, ricorro alle mie arti
e mi sottraggo, mutandomi in un lungo serpente.
Ma quando curvai il mio corpo in volute sinuose,
e mossi la lingua bifida con sinistro stridore,
rise l’eroe tirinzio, e disse, beffando i miei stratagemmi:
«Sconfiggere i serpenti è una fatica che facevo in culla
e anche ammesso che tu vinca gli altri, Acheloo,
che cosa sarà un serpente rispetto all’idra di Lerna?»29.
65
L’ironico understatement del personaggio, definito da Bömer «Ovids ‘unepischer’ Humor»30, si esprime al v. 66 nel contrasto ossimorico fra labor e il genitivo di specificazione cunarum... mearum. Credo che nella traduzione di labor
sia essenziale rendere la speciale accezione di ‘fatica’, in greco πόνος o ἆθλος,
per mantenere l’effetto retorico da cui scaturisce lo humour. L’espressione, fuor
d’ironia, significa evidentemente che strangolare serpenti non è stato un vero
labor, come invece – con esempio preso dalle effettive future fatiche dell’eroe
adulto, per via analogica e con supplemento d’ironia – sconfiggere l’idra di
Lerna, il mostro policefalo dalle teste anguiformi e inestinguibili.
Questa classificazione dell’episodio come una fatica solo ‘per scherzo’ a
fronte delle ‘vere’ fatiche dell’eroe sembra avere il suo retroterra in una discussione ellenistica. Nello sch. Pind. N. 1, 49c leggiamo una sviluppata dossografia, che include vari pareri – fra cui quelli di tre filologi alessandrini appartenenti a generazioni diverse, Aristarco, il suo allievo Cheride e Didimo – su
quale sia il nesso recondito fra Cromio, il laudandus della prima Nemea, e
l’exemplum mitico, in essa narrato, di Eracle bambino che strangola i serpenti
inviati da Era (N. 1, 49 ss.). Tralasciamo alcune delle spiegazioni tramandate,
che esulano dal nostro tema, e concentriamoci sulle interpretazioni proposte da Cheride e da Didimo. Secondo Cheride (fr. 20 Berndt), l’equivalenza
consiste nel fatto che Cromio ha beneficiato della riconoscenza di Ierone per
i suoi molti servigi, e ha così potuto conseguire la vittoria atletica, allo stesso
modo in cui Eracle ottenne l’immortalità e le nozze con Ebe come premio
delle sue fatiche. Questa esegesi è seguita nello scolio dalla confutazione anonima (III, p. 20, 3-7 Drachmann):
29
Trad. di G. Paduano in Paduano-Perutelli-Galasso 2000, p. 385 (ma al v. 67 ho sostituito «una
fatica» a «un lavoro» del traduttore).
30
Bömer 1977 (libri VIII-IX), p. 293.
116
FAUSTO MONTANA
πρὸς τοῦτον δὲ ἔνεστιν εἰπεῖν· τί δήποτε ὁ Πίνδαρος ἰδίως τὸν ἔπαινον τὴν
τοῦ Ἡρακλέους παρέλαβε συμφορὰν εἰς ἐπίδειξιν τῆς φιλοπονίας; μᾶλλον
γὰρ ἔδει κοινότερον πάντας τοὺς ἄθλους εἰς ὑπόμνησιν ἀγαγεῖν, ὅτι καθήρας
γῆν καὶ θάλασσαν ἀπεθεώθη.
A costui si può obiettare così: perché mai Pindaro usò proprio la disavventura
capitata a Eracle come elogio per esemplificare il suo amore per le imprese?
Sarebbe stato meglio allora che avesse ricordato collettivamente tutte le fatiche,
per cui dopo avere bonificato terra e mare fu divinizzato.
Secondo il commentatore anonimo, pertanto, la disavventura dei serpenti
inviati da Era non può valere come antonomastica delle successive imprese
dell’eroe adulto.
Poco oltre, il compilatore dello scolio riferisce per ultima la spiegazione
svolta da Didimo (fr. 40 Braswell)31, alla quale sembra accordare la propria
preferenza (III, p. 20, 13-19 Drachmann = rr. 27-33 Braswell):
βέλτιον δέ φησιν ὁ Δίδυμος ἐκεῖνο λέγειν, ὅτι ὃ περὶ τῆς Αἴτνης ἔφη, τοῦτο
καὶ νῦν βούλεται δηλοῦν ὁ Πίνδαρος (P. 1, 33-34)· “ναυσιφορήτοις δ’
ἀνδράσι πρώτη χάρις ἐς πλόον ἐρχομένοις πομπαῖον ἐλθεῖν οὖρον”. τοιοῦτο
λέγοι ἄν τι καὶ ἐπὶ τοῦ Χρομίου· ἐπεὶ νῦν ἦρκται ἀγωνίζεσθαι καὶ ἀρξάμενος
εὐθὺς ἐνίκησεν, ἐλπίς ἐστιν αὐτὸν καὶ τῶν ἄλλων τεύξεσθαι στεφάνων.
Meglio spiega Didimo che (il poeta) dice ciò perché, quel che ha detto riguardo
all’Etna, Pindaro vuole mostrarlo anche qui32 (P. 1, 33-34): “il primo bene per
degli uomini di mare che si imbarcano per un viaggio è il sopraggiungere di un
vento favorevole”. Si potrebbe affermare una cosa simile anche per Cromio: dal
momento che ha appena iniziato a gareggiare e subito all’esordio ha vinto, è
lecito sperare che egli conseguirà anche le altre vittorie.
Il Calcentero, dunque, riconosceva all’episodio di Eracle e dei serpenti valore esemplare in relazione alla vittoria atletica di Cromio, perché esso rappresenta paradigmaticamente il caso dell’esordiente vittorioso, la cui vittoria
assume i connotati dell’auspicio di una carriera futura di successi; e citava
i vv. 33-34 della prima Pitica come espressione topica del tema pindarico
del carattere augurale del successo conseguito all’esordio. È facile presumere
che Didimo stabilisse il nesso con l’elogio di Etna svolto da Pindaro nella
Pitica I avendo in mente che Cromio, il laudandus della Nemea I, ricevette
Testo critico, traduzione inglese e brevi note di commento in Braswell 2013, pp. 199-203.
L’espressione è particolarmente involuta. Braswell 2013, p. 202, traduce: «Didymos however
says that it is better to explain that he was speaking of Aitna, and Pindar wishes to make it clear [when
he says] ...».
31
32
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
117
da Ierone l’incarico di governare la città. Didimo proseguiva (III, pp. 20,
19-21, 6 Drachmann = rr. 33-40 Braswell) argomentando la pertinenza a
questo tema pindarico anche del nesso Eracle-Cromio instaurato nella Nemea sulla base del fatto che nella vulgata mitografica proprio dallo strangolamento dei serpenti l’indovino Tiresia presagisce le future prove eroiche di
Eracle (τοὺς ἐσομένους αὐτῷ ἄθλους)33:
πρὸς τί οὖν τὸ περὶ Ἡρακλέους ὑπόδειγμα; ὅτι καὶ ὁ Ἡρακλῆς βρέφος ἔτι
ὢν μεταχειρισάμενος τοὺς δράκοντας, καὶ τοὺς αὖθις ἄθλους κατεπράξατο·
καὶ ὥσπερ τούτου περὶ τὸν Ἡρακλέα γεγενημένου ὁ Ἀμφιτρύων Θηβαῖον
ὄντα τὸν Τειρεσίαν προανέκρινε περὶ τοῦ παιδός, ὁ δὲ προεμαντεύσατο
τοὺς ἐσομένους αὐτῷ ἄθλους, οὕτως αὐτὸς ὁ Πίνδαρος ἀπὸ τῆς πρώτης τοῦ
Χρομίου νίκης προμαντεύεται, ὅτι καὶ τῶν λοιπῶν στεφάνων τεύξεται.
Perché, allora, l’esempio relativo a Eracle? Perché anche Eracle, che strangolò
i serpenti quando ancora era un neonato, realizzò poi le fatiche; e come, dopo
che a Eracle era capitato questo, Anfitrione consultò sul futuro di suo figlio Tiresia, che era Tebano, e questi profetizzò le fatiche che l’eroe avrebbe compiuto,
così anche Pindaro, sulla base della prima vittoria di Cromio, profetizza che
egli conseguirà pure le restanti vittorie.
L’articolazione dello scolio, che mostra una buona connessione e organicità
nella concatenazione delle opinioni e delle relative confutazioni, suggerisce
che il materiale rispecchi una compilazione di pareri realizzata in uno dei
commentari a Pindaro di età tardo-ellenistica. La menzione di Didimo in
terza persona fa escludere che si tratti del suo commento e può far pensare, ad
esempio, al suo contemporaneo Aristonico.
La discussione ellenistica sul valore per così dire propedeutico e figurale
della prima impresa di Ercole in rapporto alle sue future fatiche trova corrispondenza nell’ossimoro ovidiano del cunarum labor... mearum (met. IX 67)
e nel confronto prolettico con l’uccisione dell’idra. Lo strangolamento dei
serpenti non è stato una ‘vera’ fatica – se proprio si vuole, è stato una fatica
da neonati. Si può (si potrà) legittimamente parlare di labor, in materia di
rettili, se la bestia in questione è (quando sarà) l’idra di Lerna. La soluzione narrativa di Ovidio include un’interpretazione della posizione e del ruolo
dell’episodio dei serpenti nella carriera eroica di Ercole e nel catalogo delle sue
prestazioni; e sembra implicare una riflessione, e forse proprio la discussione
tardo-alessandrina, sul carattere (non più che) figurale, profetico e augurale
dell’impresa.
33
Come rispecchiato per esempio nell’idillio XXIV di Teocrito, vv. 64-87.
118
FAUSTO MONTANA
3.2. Chi è il padre di Orfeo?
La critica ha rilevato come nelle Metamorfosi siano rispecchiate due diverse
versioni mitiche riguardo all’identità del padre di Orfeo. La tradizione prevalente voleva Orfeo figlio di Eagro. Questa linea conta una lunga serie di testimoni poetici e mitografici34 e sembra presupposta in met. II 219, nel contesto
della descrizione dei devastanti incendi prodotti dal folle viaggio di Fetonte
con i cavalli del Sole: qui il monte trace Emo è definito «non ancora Eagrio»,
nondum Oeagrius Hemus, forse nel senso che Orfeo ancora non vi si era ritirato (cfr. met. X 77) dopo avere perso per la seconda volta Euridice35. L’adesione
a questa tradizione è ad ogni modo esplicita nell’Ibis, dove al v. 482 Ovidio
qualifica Euridice come Oeagri Calliopesque nurus36.
In altri passi delle Metamorfosi, invece, è espressamente affermata la paternità apollinea di Orfeo37. In X 67 il cantore, rivolgendosi a Giacinto, parla
di Apollo come meus... genitor; poco più avanti, in X 89, il mitico poeta è definito dis genitus vates; e al principio del libro XI, nell’imminenza del racconto
della tragica morte di Orfeo, questi è qualificato come vates Apollineus (v. 8
vatis Apollinei). La tradizione della paternità divina del poeta affiora negli
Amores (III 9, 21), quando si nega la provvidenza degli dèi riguardo alla morte
propria e dei propri cari domandando quid pater Ismario, quid mater profuit
Orpheo...?. Il locus classicus di riferimento è la quarta Pitica di Pindaro. Qui,
nel catalogo di quanti risposero all’appello di Giasone per imbarcarsi sulla
nave Argo, si afferma che (vv. 176-177; Orph. T 899 (I) Bernabé):
ἐξ Ἀπόλλωνος δὲ φορμιγκτὰς ἀοιδᾶν πατήρ
ἔμολεν, εὐαίνητος Ὀρφεύς.
da Apollo venne il cantore padre degli aedi,
Orfeo molto lodato.
Bernabé 2005, p. 404, e Orph. TT 502, 890-894 e 900 Bernabé, fra cui: Pind. fr. 128c, 11-12
Snell-Maehler, dal libro dei threnoi (vd. infra nel testo); Bacchyl. fr. 29d, 8-11 Maehler (passo d’interpretazione discussa, vd. ad Orph. T 900 Bernabé); Plat. Symp. 179d; Ap. Rh. I 23-27; Hermes. fr. 7, 1
Powell = fr. 3, 1 Lightfoot; Diod. Sic. IV 25, 2; Prop. II 30, 25; Conon. 45.
35
L. Galasso in Paduano-Perutelli-Galasso 2000, p. 818, intende piuttosto «che non era ancora
Eagrio, in quanto il padre di Orfeo, Eagro, non vi era ancora nato». Il confronto più vicino è con Verg.
G. IV 524 Oeagrius Hebrus.
36
Vd. i commenti e le fonti antiche in Bömer 1980 (libri X-XI), p. 40; Reed 2013, p. 206.
37
Per questa tradizione vd. Bernabé 2005, p. 406, e Orph. TT 895-898 Bernabé. Secondo una
testimonianza di Erodoro di Eraclea (FGrHist 31 F 42 = fr. 42 Fowler = Orph. TT 868 e 1010 Bernabé),
esitettero due personaggi di nome Orfeo, il figlio di Eagro e l’Argonauta, il secondo vissuto undici
generazioni prima di Omero e di Esiodo: probabilmente il dato non attesta una duplice tradizione
mitologica, ma risponde a un’esigenza mitografica di razionalizzazione della cronologia mitica (Fowler
2000-2013, II, pp. 212-213).
34
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
119
Il passo della Pitica, caratterizzato da una certa ambiguità forse voluta (Orfeo
venne da Apollo: cioè nacque dal dio o fu da lui mandato?), coabita nella produzione di Pindaro con l’affermazione della paternità di Eagro, asserita nel
frammento di threnos 128c, 11-12 Snell-Maehler (= Orph. T 899 Bernabé:
υἱὸν Οἰάγρου <δὲ> | Ὀρφέα χρυσάορα).
Credo importante mettere in evidenza come il punto di contatto e di attrito delle due varianti mitiche sia da identificare con ogni probabilità proprio
nell’interpretazione antica del passo della Pitica pindarica, più precisamente
in un frangente dell’esegesi di età tardo-ellenistica. L’indeterminatezza dell’espressione usata da Pindaro nell’epinicio («da Apollo venne Orfeo»), unita alla
tradizione concorrente, e forse più antica, che indicava in Eagro il padre del
cantore mitico, comportò la formazione di due opposti partiti esegetici, di cui
dà conto il lungo scolio antico al passo, che è utile riportare per intero (sch.
Pind. P. 4, 313a = Orph. T 899 (II)+895+896 (III) Bernabé).
ἐ ξ Ἀ π ό λ λ ω ν ο ς δ ὲ φ ο ρ μ ι κ τ ά ς : Ἀπόλλωνος τὸν Ὀρφέα φησὶν
εἶναι, ὃν καὶ αὐτὸς ὁ Πίνδαρος (fr. 128c, 11 Snell-Maehler) καὶ ἄλλοι
Οἰάγρου λέγουσιν. Ἀμμώνιος δὲ σύμφωνον τὴν ἱστορίαν θέλων εἶναι, οὕτως
ἀποδίδωσιν· ἐξ Ἀπόλλωνος φορμικτάς: ὁ δὲ ἀπὸ τοῦ Ἀπόλλωνος μουσικός·
ἐκ γάρ τοι Μουσέων καὶ ἑκηβόλου Ἀπόλλωνος
ἄνδρες ἀοιδοὶ ἔασιν ἐπὶ χθονὶ καὶ κιθαρισταί (Hes. Theog. 94-95).
ὥσπερ οὖν ἐκ Διὸς λέγουσιν εἶναι τοὺς βασιλεῖς, οὐχ ὅτι γόνος εἰσὶ τοῦ Διός,
ἀλλ’ ὅτι τὸ βασιλεύειν ἐκ Διὸς ἔχουσιν, οὕτως ἐξ Ἀπόλλωνος φορμικτὴν
αὐτὸν εἶπεν· ἡγεμὼν γὰρ ὁ θεὸς τῆς κιθαρῳδίας. BDEGQ
ὁ μέντοι Χαῖρις (fr. 17 Berndt) οὐκ ἀπιθάνως τούτους φησὶν ὠνομάσθαι
τοὺς ἐκ θεῶν γεγονότας, οἷον Διοσκούρους καὶ Ἡρακλέα· οὕτω δὴ καὶ
Ὀρφέα, διὰ τὸ Ἀπόλλωνος εἶναι υἱὸν γόνῳ. παρατίθεται δὲ καὶ χρησμόν
τινα, ὅν φησι Μέναιχμον ἀναγράφειν ἐν τῷ Πυθικῷ (FGrHist 131 F 2). ἔχει
δὲ οὕτως·
Πιέρες αἰνοπαθεῖς, στυγνὴν ἀποτίσετε λώβην
Ὀρφέ’ ἀποκτείναντες Ἀπόλλωνος φίλον υἱόν.
καὶ Ἀσκληπιάδης (FGrHist 12 F 6a = 21 fr. 7 Bagordo) ἐν ἕκτῳ
Τραγῳδουμένων ἱστορεῖ Ἀπόλλωνος καὶ Καλλιόπης Ὑμέναιον, Ἰάλεμον,
Ὀρφέα. BEGQ
La prima parte dello scolio riporta il tentativo dell’Alessandrino Ammonio
(l’allievo di Aristarco) di armonizzare l’espressione pindarica con la tradizione
della paternità di Eagro (σύμφωνον τὴν ἱστορίαν θέλων εἶναι). La spiegazione ha l’aria di essere una citazione letterale da un hypomnema dell’Alessandrino, in quanto è introdotta dalla ripetizione del lemma pindarico (ἐξ
Ἀπόλλωνος φορμικτάς). Il grammatico intendeva ἐξ Ἀπόλλωνος in senso
metaforico e portava a sostegno il celebre passo della Teogonia esiodea (9495). Come infatti – argomentava Ammonio – non è che i re siano tutti figli
120
FAUSTO MONTANA
di Zeus (cfr. Hes. Theog. 96)38, così Apollo non è genitore di tutti i poeti,
ma ha una speciale tutela su di essi, conferisce loro le sue prerogative e ne
ispira il canto: «il dio è infatti signore della citarodia» (ἡγεμὼν γὰρ ὁ θεὸς
τῆς κιθαρῳδίας)39. Questa politica esegetica della conciliazione delle due tradizioni, che intende in senso letterale la paternità di Eagro e in senso metaforico-simbolico quella di Apollo, trova un’eco e una sintesi nella Biblioteca
pseudo-apollodorea (I 3, 2), dove Orfeo è qualificato «figlio di Calliope ed
Eagro, ma di nome (figlio) di Apollo» (κατ᾽ ἐπίκλησιν δὲ Ἀπόλλωνος) –
dunque con l’accreditamento della paternità umana come vera e di quella divina come putativa: una scelta curiosa, «when from a mythographer we might
expect just the reverse»40.
La seconda parte dello scolio alla Pitica riferisce un’opinione di segno
opposto e la attribuisce a Cheride, contemporaneo di Ammonio e suo condiscepolo alla scuola di Aristarco. Cheride osservava che l’elenco degli Argonauti fornito da Pindaro nella pericope della Pitica che racchiude il v. 313 non
per caso include figli di dèi (ἐκ θεῶν γεγονότας), come i Dioscuri ed Eracle,
nati da Zeus; «allo stesso modo», concludeva Cheride, la lista comprende «anche Orfeo, in quanto figlio naturale di Apollo» (οὕτω δὲ καὶ Ὀρφέα, διὰ τὸ
Ἀπόλλωνος εἶναι υἱὸν γόνῳ). Per inciso, a sostegno della tesi di Cheride
potremmo dilatare l’argomento interno al passo pindarico, notando come subito prima di Orfeo siano menzionati anche due figli di Poseidone (Eufemo e
Periclimeno) e, subito dopo, due figli di Hermes (Echione ed Erito); sembra
anzi probabile che l’argomentazione originale di Cheride includesse anche
questa facile constatazione. Ancora secondo la testimonianza dello scolio, il
grammatico si era debitamente documentato e produceva (παρατίθεται) a
sostegno della propria interpretazione un responso delfico in cui Orfeo è definito Ἀπόλλωνος φίλον υἱόν, ricavandolo dalla collezione di oracoli realizzata
nel IV secolo a.C. dall’antiquario Menecmo di Sicione (FGrHist 131 F 2;
Delph. or. 376 Parke-Wormell = L88 Fontenrose). Lo scolio si chiude riportando a suffragio della tesi la testimonianza del mitografo Asclepiade di Tragilo, l’allievo di Isocrate, che nel sesto libro dei Tragodoumena indicava Imeneo,
Ialemo e Orfeo come figli di Apollo e Calliope (FGrHist 12 F 6a = BNJ 12 F
L’interpretazione presuppone passi che invece esprimono l’effettiva discendenza, come per
esempio Il. XXI 189 ὃ δ᾽ ἄρ᾽ Αἰακὸς ἐκ Διὸς ἦεν.
39
Questa testimonianza scoliastica mi pare confermare l’identificazione con Ammonio Alessandrino dell’esegeta di questo nome che interpretava in senso traslato pure Pind. O. 1, 76 ἔγχος Οἰνομάου
(sch. Pind. O. 1, 122c Ἀμμώνιος ἔγχος Οἰνομάου τὸ ἅρμα ἤκουσεν. AQ; cfr. Irigoin 1952, pp. 57-58)
e che invece Daude et al. 2013, pp. 396-398, sono inclini a identificare con l’Ammonio autore del De
adfinium vocabulorum differentia.
40
Gantz 1993, p. 725. Cfr. sch. Ov. Ibis 481 (p. 84 Ellis, p. 134 La Penna) Euridice, uxor Orfei,
filii Oeagri et Calliopes, secundum alios filii Phoebi et Calliopes, fugiens Aristaeum, a serpente percussa
interiit.
38
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
121
6a [Asirvatham 2014] = 21 fr. 7 Bagordo)41. Non siamo in grado di stabilire,
ma non è da escludere ed è anzi plausibile, che anche questa ultima informazione risalga a Cheride. Insomma, questo allievo di Aristarco si pone a valle
di una tradizione storico-antiquaria che supportava la versione mitica minoritaria della paternità apollinea di Orfeo e individua l’auctoritas poetica di
riferimento nell’ambigua espressione pindarica intesa nel suo senso letterale42.
Tirando le somme, vorrei fare un piccolo passo avanti rispetto alle acquisizioni cui la critica è finora pervenuta, e mettere in rilievo che la sola
attestazione poetica nota precedente a Ovidio da cui si possa ricavare, per
interpretazione, la paternità apollinea di Orfeo è il passo della quarta Pitica di
Pindaro. L’epinicio si data al 462 a.C., quando Acusilao IV di Cirene conseguì la vittoria ai Giochi Pitici nella gara delle quadrighe. Le altre attestazioni,
come abbiamo visto, sono posteriori e di marca mitografica (Asclepiade di
Tragilo) e antiquaria (un oracolo delfico raccolto da Menecmo di Sicione)43.
Si aggiunga che le informazioni riportate nello scolio pindarico circa il significato dell’espressione ἐξ Ἀπόλλωνος... ἔμολεν sono interamente riconducibili alla discussione tutta alessandrina fra due contemporanei di scuola
aristarchea, Ammonio e Cheride. In definitiva, l’attestazione pindarica della
paternità apollinea di Orfeo può essere considerata tale anche in virtù dell’innovativa esegesi del passo argomentata da Cheride non prima della metà del
II secolo a.C. Dal punto di vista cronologico, geografico e soprattutto culturale, siamo non troppo lontani dall’opera di figure come Didimo e Aristonico, i traghettatori dell’esegesi pindarica alessandrina al mondo greco-romano.
L’opzione ovidiana per Orfeo figlio di Apollo difficilmente sarà stata immune
dalla conoscenza informata di questo dibattito antico.
3.3. Chi ha ucciso Medusa?
Nel libro V delle Metamorfosi, dopo il racconto di imprese di Perseo successiL’informazione ritorna nello scolio antico al v. 895 del Reso (FGrHist 12 F 6b = BNJ 12 F 6b)
e nello scolio ad Ap. Rh. I 23 (FGrHist 12 F 6c = BNJ 12 F 6c), che è più succinto ma riferisce anche
l’altra versione: ἔστι δὲ (scil. Ὀρφεύς), ὡς ᾽Ασκληπιάδης, ᾽Απόλλωνος καὶ Καλλιόπης· ἔνιοι Οἰάγρου
καὶ Πολυμνίας. Cfr. Gantz 1993, p. 725.
42
La preferenza per l’interpretazione letterale del testo poetico si rinviene in un altro frammento
di esegesi pindarica di Cheride, testimoniato nello sch. Pind. P. 4, 18. Cheride (fr. 11 Berndt) spiegava la
qualificazione della bocca di Medea come «immortale» (ἀθανάτου στόματος) richiamando la presenza
della maga nel catalogo esiodeo della discendenza di Zeus (Theog. 992), mentre Asclepiade (questa volta
verosimilmente il Mirleano, forse contemporaneo di Cheride) intendeva l’attributo in senso metaforico,
in riferimento alla veridicità delle profezie proferite da Medea.
43
L’oracolo non viene datato da F. Jacoby ad FGrHist 131 F2 né da Parke-Wormell 1956, II, pp.
152-153 e da Fontenrose 1978, p. 387, che lo pone fra i «legendary responses». A un’epoca posteriore
alla quarta Pitica pindarica pensa Kern 1922, p. 8 («in oraculo ..., quem anteisse videtur Pindar Pyth.
IV 176»).
41
122
FAUSTO MONTANA
ve alla decapitazione di Medusa, ai vv. 242-249 leggiamo della pietrificazione
di Polidette, re di Serifo, colpevole di segregare e costringere alle nozze Danae, la madre dell’eroe:
Te tamen, o parvae rector, Polydecta, Seriphi,
nec iuvenis virtus per tot spectata labores
nec mala mollierant, sed inexorabile durus
exerces odium, neque iniqua finis in ira est;
detrectas etiam laudem fictamque Medusae
arguis esse necem. «dabimus tibi pignora veri;
parcite luminibus» Perseus ait oraque regis
ore Medusaeo silicem sine sanguine fecit.
245
Quanto a te, Polidecte, re della piccola Serifo, non ti eri lasciato commuovere
né dal valore del giovane Perseo, reso illustre da tante imprese, né dalle prove
dolorose che aveva subito, ma persistevi incrollabilmente in un odio e in un’ira
ingiusta che non si potevano placare. Gli contestavi anche la gloria e insinuavi
che l’uccisione di Medusa fosse un’invenzione. Disse allora Perseo: «Ti darò la
prova della verità! Attenti agli occhi!» e servendosi della testa di Medusa, cambiò il viso del re in pietra esangue44.
La versione ovidiana dell’episodio si discosta per due aspetti dalla narrazione
più diffusa: da un lato l’introduzione di una causa occasionale del conflitto
fra Perseo e Polidette, cioè la negazione dell’autenticità dell’impresa dell’eroe
da parte del re nel corso del banchetto; dall’altro la pietrificazione del solo Polidette e non anche dei suoi commensali (un particolare che è anche in Hyg.
Fab. 64, 4).
Fra i commentatori moderni, così descrive la situazione Giampiero
Rosati: «Lì [scil. a Serifo] verosimilmente, nella versione tradizionale (la cui
struttura Ovidio sembra aver radicalmente modificato), la storia si concludeva con un banchetto in cui Perseo esibiva la testa della Gorgone trasformando
in pietra Polidette e tutti i convitati45 (...). La colpa principale di Polidette è
Trad. di G. Faranda Villa in Rosati-Faranda Villa-Corti 1994, pp. 295-297.
Cfr. Pind. P. 12, 14, con il commento di Teone in P. Oxy. XXXI 2536 (sul quale vd. infra nel
testo), Col I 2-3: [εὐ]ωχουμένοις γ(ὰρ) αὐτοῖς τούτοις | [ἔδειξεν ὁ Περσεὺς τὴ]ν κεφαλὴν κ(αὶ)
οὕ(τως) ἀπελιθώθησαν; cfr. schol. Ap. Rh. IV 1091 ...μετὰ τὴν ἀπολίθωσιν Πολυδέκτου καὶ τῶν
σὺν αὐτῷ ἐκ τῆς κεφαλῆς τῆς Γοργόνος. Pherecyd. FGrHist 3 F 11 = fr. 11 Fowler (dallo schol. Ap.
Rh. IV 1515) parla della pietrificazione di tutti i Serifii (τὸν λαόν e τὸν ὄχλον), seguito da Strab. X
5, 10 (πάντας), il quale spiega come l’intera popolazione fosse complice della coercizione esercitata su
Danae da Polidette (συμπραττόντων ἐκείνων) e attribuisce questa versione alla tradizione comica, che
ironizzava sulla natura rocciosa dell’isola: οὕτω δ᾽ ἐστὶ πετρώδης ἡ νῆσος ὥστε ὑπὸ τῆς Γοργόνος
τοῦτο παθεῖν αὐτήν φασιν οἱ κωμῳδοῦντες. Quest’ultimo accenno di Strabone è stato messo in rapporto con I Serifioi di Cratino (cfr. Kassel-Austin 1983, p. 233; il fr. 225 della commedia, che definisce
Serifo πολύβωτον, ‘fertile’, può essere letto in senso ironico in questo quadro); Radt 2008, p. 233, è
44
45
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
123
qui indicata nell’ostinazione con cui rifiuta di riconoscere il valore di Perseo
e delle sue imprese (forse da lui raccontate durante il banchetto): evidentemente prima Perseo narra la storia, e solo di fronte allo scetticismo (fictam) di
Polidette esibisce la prova risolutiva»46.
Nell’invito a parcere luminibus, rivolto al v. 248 da Perseo agli ospiti del
banchetto regale, cogliamo qualcosa di incongruo: perché il re non dovrebbe approfittare lui stesso di questa allerta preventiva e sottrarre prontamente
lo sguardo? Bömer definisce la situazione come «sinnloss» e la qualifica di
«unpsychologische Naivität»47.
Ho l’impressione che le varianti ovidiane e la strana situazione ora descritte possano trovare una spiegazione per noi, e avere ricevuto ispirazione
per Ovidio, dalla tradizione esegetica ed erudita di matrice alessandrina. Si
può ipotizzare che Ovidio trasferisse a livello di racconto mitico, proiettata
nell’incredulità individuale del re di Serifo riguardo all’impresa di Perseo, la
variante tradizionale che attribuiva l’uccisione della Gorgone Medusa alla dea
Atena e che identificava il mostro con l’Egida suscitata dalla Terra al tempo
della guerra fra dèi e Titani e appunto debellata da Atena. Nel prosaico detrectas (v. 246)48 si potrebbe cogliere una spia del fatto che, fuori dalla finzione
letteraria, lo scetticismo di Polidette abbia un background di tipo filologicoerudito. Difatti, troviamo che la variante dell’uccisione di Medusa da parte
non di Perseo, ma di Atena è ricordata da Teone nell’hypomnema alle Pitiche
di Pindaro, la cui porzione finale è conservata, probabilmente in forma epitomata, nel papiro di Ossirinco 2536. Nel commento al v. 12 della Pitica 12,
leggiamo quanto segue (Col. I 12-14):
ἔνιοι δ(έ) φα(σιν) οὐ ταύτην (εἶναι) τὴν Γορ|[γόνα ἀλλὰ τὴν] γηγενῆ ἣν ἡ γῆ
ἀνέδωκεν ἐν τῶι πολέ|[μωι τῶι τῶν γι]γάντων πρὸς τοὺς θεούς.
Alcuni sostengono che la Gorgone non è questa, ma la creatura terrigena, che
la Terra produsse durante la guerra dei Giganti contro gli dèi.
L’episodio dell’uccisione di Egida da parte di Atena è ricordato nello Ione di
Euripide (vv. 987-997) ed è narrato da Diodoro Siculo (III 70, 3-5), che pure
definisce il mostro γηγενές ma lo descrive con caratteristiche affatto diverse
da quelle di Medusa49. L’esegesi di Teone, sullo sfondo del passo pindarico
disponibile a intendere οἱ κωμῳδοῦντες usato da Strabone in un’accezione più ampia di un riferimento
al solo genere comico.
46
Rosati 2009, p. 163.
47
Bömer 1976, p. 281.
48
Il verbo ha qui il senso di imminuere: Bömer 1976 ad l., pp. 280-281.
49
Diod. Sic. III 70, 3-5: μυθολογοῦσι δὲ τὴν θεὰν (...) τὴν Αἰγίδα προσαγορευομένην ἀνελεῖν,
θηρίον τι καταπληκτικὸν καὶ παντελῶς δυσκαταγώνιστον· γηγενὲς γὰρ ὑπάρχον καὶ φυσικῶς ἐκ
124
FAUSTO MONTANA
oggetto del commento, può essere intesa solo nel senso che alcuni poeti, o
mitografi, forse contaminando due vicende distinte (quella di Atena-Egida e
quella di Perseo-Medusa), indicavano in Atena colei che aveva ucciso la Gorgone. La variante ricorre nella Biblioteca pseudo-apollodorea, al termine del
racconto dell’impresa compiuta da Perseo (II 4, 3):
Ἀθηνᾶ δὲ ἐν μέσῃ τῇ ἀσπίδι τῆς Γοργόνος τὴν κεφαλὴν ἐνέθηκε. λέγεται
δὲ ὑπ᾽ ἐνίων ὅτι δι᾽ Ἀθηνᾶν ἡ Μέδουσα ἐκαρατομήθη· φασὶ δὲ ὅτι καὶ περὶ
κάλλους ἠθέλησεν ἡ Γοργὼ αὐτῇ συγκριθῆναι50.
In definitiva, mi pare che si possa inferire che Ovidio conoscesse dalla tradizione erudita e mitografica di radice alessandrina (Teone? le fonti della Biblioteca pseudo-apollodorea?) la versione secondo cui Medusa, assimilata a
Egida figlia della Terra, era stata uccisa non da Perseo ma da Atena/Minerva.
Il poeta nelle Metamorfosi prendeva posizione a favore del racconto che voleva
Perseo artefice dell’uccisione di Medusa assistito da Minerva (e dunque a favore anche della distinzione di Medusa da Egida); e tuttavia non rinunciava a
dare velatamente voce all’altra versione, dissimulandola come un’offensiva insinuazione sulla bocca di Polidette, per poi negarla simbolicamente mediante
la pietrificazione del re. L’isolamento di Polidette nella punizione potrebbe
voler significare il carattere largamente minoritario, presso poeti ed eruditi,
della versione che sottraeva a Perseo l’impresa; e quanto meno esprime la presa di distanza di Ovidio da questa possibilità mitografica. L’invito a parcere luminibus (v. 248) rivolto dal Perseo ovidiano ai convitati di Polidette – evidentemente estranei e incolpevoli rispetto all’‘eresia’ del loro sovrano – cesserebbe
τοῦ στόματος ἄπλατον ἐκβάλλον φλόγα τὸ μὲν πρῶτον φανῆναι περὶ τὴν Φρυγίαν, καὶ κατακαῦσαι
τὴν χώραν (...). ἐπιφλεγομένης δὲ τῆς χώρας πάντῃ, καὶ τῶν ἀνθρώπων τῶν μὲν ἀπολλυμένων,
τῶν δὲ διὰ τὸν φόβον ἐκλειπόντων τὰς πατρίδας καὶ μακρὰν ἐκτοπιζομένων, τὴν Ἀθηνᾶν φασι
τὰ μὲν συνέσει, τὰ δ᾽ ἀλκῇ καὶ ῥώμῃ περιγενομένην ἀνελεῖν τὸ θηρίον, καὶ τὴν δορὰν αὐτοῦ
περιαψαμένην φορεῖν τῷ στήθει, ἅμα μὲν σκέπης ἕνεκα καὶ τῆς φυλακῆς τοῦ σώματος πρὸς τοὺς
ὕστερον κινδύνους, ἅμα δ᾽ ἀρετῆς ὑπόμνημα καὶ δικαίας δόξης. A sua volta, questa versione compete
con quella che assimila l’egida alla pelle della capra che nutrì Zeus neonato.
50
Un’ulteriore variante, per così dire intermedia, concilia le due diverse vicende mitiche, in
quanto attribuisce la decapitazione di Medusa a Perseo, ma su mandato di Atena, offesa per essere
stata sfidata da Medusa in materia di bellezza. Cfr. schol. Pind. N. 10, 6: la Gorgone ἤρισέ ποτε περὶ
κάλλους τῇ Ἀθηνᾷ. Analogamente, nello schol. Pind. P. 12, 24b si spiega che il poeta definisce Medusa
εὐπάραον non perché essa fosse effettivamente bella, ma perché su questo terreno essa osò sfidare Atena:
εὐπάραον δέ φησιν τὴν Μέδουσαν, οὐχ ὅτι οὕτω φύσεως εἶχεν, ἀλλ᾽ ὅτι περὶ ἑαυτῆς ἡ Μέδουσα
ὡς εὐμόρφου διέκειτο· διὸ καὶ περὶ κάλλους τῇ Ἀθηνᾷ ἐφιλονείκησεν. Così pure Serv. auct. Aen. VI
289: sed Medusa, erecta favore Neptuni, ausa est crines suos Minervae capillis praeferre: qua re indignata
dea, crines eius in serpentes vertit eamque excidi a Perseo fecit luminibus orbatam. Servius auctus conclude
il racconto ricordando la fine di Polidette in termini che riecheggiano la versione ovidiana: quod cum ad
Polydecten regem pertulisset isque negaret id eius virtute confectum, conspicuum id regi fecit: cuius conspectu
ille in saxum mutatus est, quod in Seripho insula hodieque ostenditur.
LEGGERE I GRECI NELLA ROMA DI OVIDIO
125
allora di apparire un artificio «sinnloss» e una «unpsychologische Naivität»51.
Jolivet ha mostrato come nel quarto libro delle Metamorfosi «il racconto epico
ceda il passo agli zetemata mitografici ed eziologici», laddove durante il banchetto nuziale di Perseo e Andromeda l’eroe scioglie dubbi e curiosità circa
Medusa e le sue sorelle; e la scena narrata diviene specchio e figura mitica
delle quaestiones convivales con cui al tempo del poeta i docti amavano intrattenersi52. Allo stesso modo, la pietrificazione di Polidette nel quinto libro del
poema sembra valere come irrefutabile e tragica lysis della quaestio erudita.
4. Da questi pochi esempi ricaverei due considerazioni generali, che costituiscono non una conclusione, ma piuttosto delle problematizzazioni forse utili
a stimolare future ricerche.
In primo luogo, è tempo di prender coraggio e uscire dai confini della
ricezione omerica e degli scolii medievali: non solo Omero, non solo scolii.
Ekdoseis e commenti alessandrini della lirica greca dovevano essere fra i tools
preferenziali dei poeti latini di età augustea (e lo stesso discorso vale ovviamente anche per il teatro attico). Le condizioni ecdotiche odierne dell’esegesi
antica conservata e in continua emersione relativamente a questi generi vanno
incrementandosi e migliorando di qualità53. La ricerca sulle influenze culturali sulla poesia latina potrebbe avvantaggiarsene.
Seconda considerazione: i numerosi casi ovidiani messi in luce da Jolivet
e i tre ulteriori qui indagati consentono di abbozzare un’ipotesi di lavoro.
Piccole ‘increspature’ nella narrazione ovidiana – cioè sottili deviazioni rispetto alle vulgatae mitografiche e ai modelli poetici – si candidano a possibili
spie dell’influenza di suggestioni esegetiche sulle scelte compositive del poeta.
Jolivet parla in proposito di una sorta di marquage o dispositif d’insistance
riconoscibile nel testo54. La ristretta casistica qui esaminata consente di abbozzare una piccola tipologia di situazioni, che meritano di essere messe sotto
osservazione:
Galasso, in Paduano-Perutelli-Galasso 2000, p. 977, spiega la punizione isolata di Polidette così: «La dimostrazione di veridicità potrebbe ricollegarsi alla versione originaria del mito. Allora, rispetto
a questa, dobbiamo mettere in evidenza come Perseo non proceda alla pietrificazione di tutti gli astanti,
ma solo del malvagio colpevole».
52
Jolivet 2014, p. 40; vd. Ov. met. IV 770-771 e 790-794. Il modulo trova un precedente almeno
nel racconto virgiliano delle domande poste a Enea durante il banchetto offertogli a Cartagine (Verg.
Aen. I 750-752): Jolivet 2010b, pp. 108-109. Cfr. inoltre Jolivet 2001, pp. 225-229, sul ruolo e il trattamento dell’erudizione e dell’esegesi letteraria nelle Heroides (e.g. p. 228: «Les pratiques littéraires des
cercles augustéens se trouvent par moment figurées au sein des poèmes»).
53
Mi limito a ricordare McNamee 2007 e il progetto in corso Commentaria et Lexica Graeca in
Papyris Reperta (CLGP).
54
Jolivet 2014, pp. 32 e 43, cfr. p. 36: «un phénomène d’insistance».
51
126
FAUSTO MONTANA
– il ricorso all’ironia (come, nel nostro primo esempio, definire lo strangolamento dei serpenti da parte di Ercole una «fatica da neonati in culla»);
– ‘contraddizioni’ interne e incongruenze narrative (nel secondo esempio, la doppia paternità di Orfeo; nel terzo, la pietrificazione55 di Polidette
nonostante l’allerta preventiva di Perseo);
– l’adozione di varianti mitiche minoritarie o isolate (nel terzo esempio,
l’incredulità di Polidette riguardo all’impresa di Perseo quale causa immediata
della sua pietrificazione).
Forse queste riflessioni stimoleranno altri a indagare meglio che cosa si
annidi in altre ‘increspature’ ovidiane: quei «subtle and virtually imperceptible changes» che il poeta «made in his prototypes». Così Robin Schlunk si
esprimeva a proposito di Virgilio, nella premessa a The Homeric Scholia and
the Aeneid56. Voglio concludere con queste parole, perché a suo modo questo
mio intervento è non più che un invito, e una modesta premessa, a una ricerca che è ancora da fare57.
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Queste situazioni possono essere viste come problematizzazioni intenzionali, del tipo evidenziato da Casali 1998, con le quali Ovidio interpella(va) il suo «lettore-critico» e «commentatore».
56
Schlunk 1974, p. VIII.
57
Sono molto grato a Gregor Bitto, che ha letto il mio testo e ne ha discusso con me alcuni punti.
55
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